Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
NOTA BENE
NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB
SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA
NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE
NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO
LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:
accredito/bonifico al conto BancoPosta intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA IBAN: IT15A0760115800000092096221 (CIN IT15A - ABI 07601 - CAB 15800 - c/c n. 000092096221)
versamento in bollettino postale sul c.c. n. 92096221. intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA
SCEGLI IL LIBRO
PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI
presidente@controtuttelemafie.it
Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996 0999708396
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - TELEWEBITALIA
FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
GIUSTIZIOPOLI
SECONDA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA DELL’INGIUSTIZIA
OSSIA, LA LEGGE DEL PIU’ FORTE,
NON LA FORZA DELLA LEGGE
DISFUNZIONI DEL SISTEMA CHE COLPISCONO IL SINGOLO
"Art. 101 della Costituzione: La Giustizia è amministrata in nome del popolo. I costituenti hanno omesso di indicare che la Giustizia va amministrata non solo in nome, ma anche per conto ed interesse del popolo. Un paradosso: le illegalità, vere o artefatte, sono la fonte indispensabile per il sostentamento del sistema sanzionatorio - repressivo dello Stato. I crimini se non ci sono bisogna inventarli.
Una società civile onesta farebbe a meno di Magistrati ed Avvocati, Forze dell'Ordine e Secondini, Cancellieri ed Ufficiali Giudiziari.....oltre che dei partiti dei giudici che della legalità fanno una bandiera e dei giornalisti che degli scandali fanno la loro missione. Sarebbe una iattura per coloro che si fregiano del titolo di Pubblici Ufficiali, con privilegi annessi e connessi. Tutti a casa sarebbe il fallimento erariale. Per questo di illegalità si sparla.
Le pene siano mirate al risarcimento ed alla rieducazione, da scontare con la confisca dei beni e con lavori socialmente utili. Ai cittadini sia garantita la libera nomina del difensore o l'autodifesa personale, se capace, ovvero il gratuito patrocinio per i poveri. Sia garantita un'indennità e una protezione alla testimonianza.
Sia garantita la scusa solenne e il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, al cittadino vittima di offesa o violenza di funzionari pubblici, di ingiusta imputazione, di ingiusta detenzione, di ingiusta condanna, di lungo o ingiusto processo.
Il difensore civico difenda i cittadini da abusi od omissioni amministrative, giudiziarie, sanitarie o di altre materie di interesse pubblico."
di Antonio Giangrande
*****
INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.
Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.
La MALAGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.
L’INGIUSTIZIA è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!!
Della malagiustizia si parla in un’inchiesta ed in un libro a parte. Dei legulei, ossia degli operatori della giustizia, si parla dettagliatamente anche di loro in altra inchiesta ed in altro libro.
LA LEGGE E' UGUALE PER TUTTI ?!?!
LA GIUSTIZIA E' DI QUESTO MONDO ?!?!
"Art. 101 della Costituzione: La Giustizia è amministrata in nome del popolo. I costituenti hanno omesso di indicare che la Giustizia va amministrata non solo in nome, ma anche per conto ed interesse del popolo. Un paradosso: le illegalità, vere o artefatte, sono la fonte indispensabile per il sostentamento del sistema sanzionatorio - repressivo dello Stato. I crimini se non ci sono bisogna inventarli. Una società civile onesta farebbe a meno di Magistrati ed Avvocati, Forze dell'Ordine e Secondini, Cancellieri ed Ufficiali Giudiziari.....oltre che dei partiti dei giudici che della legalità fanno una bandiera e dei giornalisti che degli scandali fanno la loro missione. Sarebbe una iattura per coloro che si fregiano del titolo di Pubblici Ufficiali, con privilegi annessi e connessi. Tutti a casa sarebbe il fallimento erariale. Per questo di illegalità si sparla."
di Antonio Giangrande
GIUSTIZIOPOLI
L'INGIUSTIZIA CHE COLPISCE IL SINGOLO
SOMMARIO PRIMA PARTE
INTRODUZIONE.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
ONESTA’ E DISONESTA’.
OTTENERE IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE È UN’ODISSEA.
RISARCIMENTO PER I PROCESSI LUNGHI. LEGGE PINTO? NO! LEGGE TRUFFA!
COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”
PARLIAMO DI INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA.
IL GIUSTIZIALISMO GIACOBINO E LA PRESCRIZIONE.
GIUSTIZIALISTI: COME LA METTIAMO CON GLI ERRORI GIUDIZIARI?
PARLIAMO DI INTERCETTAZIONI: LECITE, AMBIGUE, SELVAGGE.
PARLIAMO DELLE OFFESE DEL PUBBLICO MINISTERO ALL’IMPUTATO.
PARLIAMO DI TORTURA E VIOLENZA DI STATO.
SCIENZA E GIUSTIZIA.
LA RETORICA COLPEVOLISTA DELLA GIUSTIZIA MEDIATICA.
ASSOLTI. PERO’…
COLPA DEI PROCESSI INDIZIARI...
TOTO' CUFFARO: "LE MIE PRIGIONI".
L'INGIUSTIZIA NON E' UNA UTOPIA: E' REALTA'.
ANTONIO GIANGRANDE, GABRIELLA NUZZI, SILVIO BERLUSCONI: LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI.
INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.
INGIUSTIZIA. PARLIAMO DI DANTE BRANCATISANO. DETENUTO SENZA COLPA.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA……
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
INNOCENTE PER LEGGE, MA ‘NDRANGHETISTA PER SEMPRE.
LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.
L’ERRORE GIUDIZIARIO: INNOCENTI IN CELLA, ASSOLTI ED ARCHIVIATI.
MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!
GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.
ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.
IL SUD TARTASSATO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
DETENUTO SUICIDA IN CARCERE? UNO DI MENO!!!
BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!
IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.
USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.
MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.
E POI PARLIAMO DELL'ILVA.
EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.
CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI.
SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.
USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.
SPECULAZIONE E BANCHE: ECONOMIA CHE UCCIDE.
SINISTRA ED IDEOLOGIA: L'ECONOMIA CHE UCCIDE.
SINISTRA ED ISLAM: L'IDEOLOGIA CHE UCCIDE.
SINISTRA E MAGISTRATI. LA GIUSTIZIA CHE UCCIDE L'ECONOMIA.
PROCESSATE BOSSI ED I LEGHISTI.
I GRANDI PROCESSI DEL 2014 ED I GRANDI DUBBI: A PERUGIA, KERCHER; A TARANTO, SCAZZI; A TORINO, ETERNIT; A MILANO, STASI; SENZA DIMENTICARE CUCCHI A ROMA.
SLIDING DOORS A MILANO: CRISAFULLI E BARILLA'. LA VITA CAMBIATA SENZA SAPERE UN CAZZO.
CASO MARO’. ITALIANI POPOLO DI MALEDUCATI, BUGIARDI ED INCOERENTI. DICONO UNA COSA, NE FANNO UN’ALTRA.
L’AQUILA NERA E L’ARMATA BRANCALEONE.
LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.
IN TEMA DI GIUSTIZIA E DI INFORMAZIONE CHI SBAGLIA PAGA? IL DELITTO DI PERUGIA. AMANDA E RAFFAELE COLPEVOLI DI INNOCENZA.
CARCERE. INFERNO SENZA ACQUA.
DONNE IN CARCERE. LA DISCRIMINAZIONE DIETRO LE SBARRE.
QUANDO IN PRIGIONE CI VANNO I BAMBINI.
QUANDO IN ESILIO CI VANNO I BAMBINI.
BREGA MASSONE: CONDANNATO IN TV.
IMPRENDITORIA CRIMINOGENA. SEQUESTRI ED AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. A CHI CONVIENE?
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
CONDANNA DEFINITIVA REVOCATA? NON E' PIU' UN TABU'.
L’ASINARA, PIANOSA ED IL FATTORE “M”.
CARCERI A SORPRESA. LE CELLE LISCE E LE ISPEZIONI SENZA PREAVVISO.
INCHIESTA. IL CARCERE, I CARCERATI, I PARENTI DEI CARCERATI ED I RADICALI…….
L’ITALIA COME LA CONCORDIA. LA RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.
SOMMARIO SECONDA PARTE
LA PRESCRIZIONE. LA GARANZIA PER GLI INNOCENTI CHE I GIUSTIZIALISTI NON VOGLIONO.
PRESCRIZIONE. MANLIO CERRONI ED I 14 ANNI DI SOFFERENZA DA INNOCENTE.
MAGISTRATURA SENZA VERGOGNA.
L’ITALIA DEI MORALISTI CON LA MORALE DEGLI ALTRI.
STORIE DI MAFIOSI E PARA MAFIOSI.
POTENTE UGUALE IMPUNITO.
FIDARSI DELLE ISTITUZIONI. I CITTADINI: NO GRAZIE!! CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?
INDIPENDENZA DEI MAGISTRATI? UNA BALLA. LO STRAPOTERE DEI MAGISTRATI E LA VICINANZA DEI GIUDICI AI PM, OLTRE LA CORRUTTELA.
EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.
FINANZA E GIUSTIZIA.
RESPONSABILITA' DELLE TOGHE? LA SINISTRA: NO GRAZIE!!!
LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO
LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.
SENTIAMO KARIMA EL MAHROUG, DETTA RUBY.
SENTIAMO CESARE BATTISTI.
YARA E' SEMPRE. SBATTERE IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA.
L'ULTIMO AFFRONTO AD ENZO TORTORA.
LA REPUBBLICA DEI MAGISTRATI.
GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.
COLPEVOLE DI ESSERE INNOCENTE.
CHE INGIUSTIZIA PERO'!!! DAI CARABINIERI ENTRI VIVO E NE ESCI MORTO O SCONTI LA PENA NELLA CELLA ZERO.
IL CARCERE E LA GUERRA DELLE BOTTE.
DELITTO DI STATO. FEDERICO PERNA.
POLIZIA, POLIZIA PENITENZIARIA E CARABINIERI: ABBIAMO UN PROBLEMA?
LA LEGGE NON AMMETTE IGNORANZA?
INGIUSTIZIA: IMMENSA BIBLIOGRAFIA.
LA METASTASI DELLA GIUSTIZIA. IL PROCESSO INDIZIARIO. IL PROCESSO DEL NULLA. UOMO INDIZIATO: UOMO CONDANNATO.
PARLIAMO DEL REATO DI MAFIA.
DIRITTO CERTO E UNIVERSALE. CONTRADDIZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE: CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA, UN REATO CHE ESISTE; ANZI NO!!.
G8 E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLO STATO.
AMANDA KNOX, RAFFAELE SOLLECITO E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLA GIUSTIZIA.
BERLUSCONI E LA GUERRA PERSECUTORIA DEI MAGISTRATI.
DOPO BERLUSCONI, I RIVA. ILVA E GLI ESPROPRI PROLETARI.
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
IN ITALIA UN ERRORE GIUDIZIARIO GRAVE OGNI DUE MAGISTRATI.
QUANDO IL PM SBATTE IL VIP IN CARCERE PER ANDARE IN PRIMA PAGINA.
IL PROFESSORE DI SALUZZO, LE ALLIEVE E LA GIUSTIZIA ITALIOTA.
L'INGIUSTIZIA E LA FICTION.
LA DRAMMATICA LETTERA DI GAIA TORTORA A “IL TEMPO” SULLA GIUSTIZIA ITALIANA.
QUANDO IL PM SBATTE IL VIP IN CARCERE PER ANDARE IN PRIMA PAGINA.
GLI INNOCENTI? PARLIAMONE....
DELINQUENTE A CHI?
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
IL CSM ASSOLVE IL GIUDICE ROSSO CHE ANDAVA A CACCIA CON I BOSS.
INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. GIOVANNI DE LUISE.
INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. MAURIZIO BOVA.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
BERLUSCONI E GLI ALTRI. I MAGISTRATI FANNO QUEL CHE “CAZZO” VOGLIONO.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
TRIBUNALI SPECIALI. QUELLO CHE SUCCEDE A SILVIO BERLUSCONI, CAPITA A TUTTI GLI ITALIOTI, CHE SUBISCONO E TACCIONO........ED I GIORNALISTI OMERTOSI: "MUTI SONO".
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.
LE TOGHE IGNORANTI.
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI. DISCUTIAMO DELLA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.
C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!
IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.
I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.
MANETTE FACILI ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.
MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.
ED IL CITTADINO COME SI DIFENDE? CON I REFERENDUM INUTILI ED INAPPLICATI.
LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO E LA DINASTIA DEGLI ESPOSITO.
CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.
IL CASO DI MARCELLO LONZI.
L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.
COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.
ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.
POPULISTA A CHI?!?
APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.
LA LEGA MASSONICA.
LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.
GIUSTIZIA. LA RIFORMA IMPOSSIBILE.
MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!
GLI ITALIANI NON HANNO FIDUCIA IN QUESTA GIUSTIZIA.
UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.
RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?
DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?
GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.
DA UN SISTEMA DI GIUSTIZIA INGIUSTA AD UN ALTRO.
IN ITALIA, VINCENZO MACCARONE E' INNOCENTE.
TOGHE SCATENATE.
CORTE DI CASSAZIONE: CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.
CHI E' ANTONIO ESPOSITO.
ANTONIO ESPOSITO COME MARIANO MAFFEI.
GIUDICE ANTONIO ESPOSITO: IMPARZIALE?
IL PDL LICENZIO' SUO FRATELLO.
PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.
BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?
BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.
DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.
BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.
I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.
QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.
PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.
CORRUZIONE: MANETTE A GIUDICI ED AVVOCATI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.
SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.
GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.
MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?
ITALIA, CULLA DEL DIRITTO NEGATO. STORIE DI FALLIMENTI.
MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.
LO STATO DELLA GIUSTIZIA VISTO DA UN MAGISTRATO.
LA MALAGIUSTIZIA E L’ODIO POLITICO. LA VICENDA DI GIULIO ANDREOTTI.
LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA.
CITTADINI ROVINATI DALLA GIUSTIZIA.
ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.
DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.
SE QUESTA E’ GIUSTIZIA.
GIUSTIZIA. QUELLO CHE NON SI DICE.
SEI IN CARCERE? CREPA!
SPECULATORI DELLA SOFFERENZA. CHI CI GUADAGNA SUI DETENUTI?
ASPETTATIVA DI GIUSTIZIA. DALLA PARTE DELLE VITTIME.
E IL GIUDICE SI TOLSE LA TOGA PERCHE' NON SOPPORTAVA L'IDIOZIA DEI COLLEGHI.
PERCHE' CI FELICITIAMO DELLE DISGRAZIE ALTRUI?
SARAH SCAZZI. MEDIA ED APPROSSIMAZIONE, SE NON DISINFORMAZIONE.
ANNA MARIA FRANZONI: COLPEVOLE PERCHE' LO HA DETTO LA STAMPA.
IL DELITTO DI GIUSI POTENZA. SABRINA SANTORO E FILOMENA RITA (FLORIANA) MAGNINI. ACCUSATE INGIUSTAMENTE MA PER LA STAMPA RESTERANNO "COLPEVOLI E PUTTANE" PER SEMPRE.
MELANIA REA. OMICIDI E SETTE SATANICHE? NON SE NE DEVE PARLARE!!
IL FALLIMENTO DEL SISTEMA INVESTIGATIVO. BREMBATE SOPRA: QUANDO GLI ALTRI SIAMO NOI. IL DELITTO DI YARA GAMBIRASIO.
IL FALLIMENTO DEL SISTEMA INVESTIGATIVO. AVETRANA IL DELITTO DI SARAH SCAZZI.
IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. LA STRAGE DI ERBA. OLINDO ROMANO E ROSA BAZZI.
IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. FABRIZIO CORONA COLPEVOLE DI SFRONTATEZZA ED ARROGANZA.
IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. DELITTO DI MELANIA REA. SALVATORE PAROLISI CON IL MOVENTE INTERSCAMBIABILE.
GRAVINA DI PUGLIA: CICCIO E TORE PAPPALARDI. STORIA DI ORDINARIA ITALIANITA'.
PER NON DIMENTICARE. STORIE DI ORDINARIA FOLLIA. L'ESEMPLARE STORIA DI ANTONIO GIANGRANDE. PERSEGUITATO PERCHE' RACCONTA LA VERITA'.
RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO. UNA NORMA DISATTESA.
PER NON DIMENTICARE. OTTAVIA DE LUISE.
PER NON DIMENTICARE. MAURIZIO BOLOGNETTI E GIUSEPPE DI BELLO. COLPEVOLI DI ESSERE INNOCENTI.
ELISA CLAPS ED IL NIDO DI SERPI.
INSABBIAMENTI E CENSURA A POTENZA.
INSABBIAMENTI: A POTENZA UN MURO DI GOMMA.
TOGHE LUCANE. INCHIESTA CHE NON SA DA FARE.
IL MISTERO DELLA MORTE DEI FIDANZATI DI POLICORO. LUCA ORIOLI E MARIROSA ANDREOTTA.
INSABBIAMENTI: SE SUCCEDE A LORO, FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI !!!!!
DELITTO DI MEREDITH KERCHER. AMANDA KNOX E RAFFAELE SOLLECITO. MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA?
OMICIDI DI STATO. IL CASO BIANZINO.
OMICIDI DI STATO. GIUSEPPE UVA.
OMICIDI DI STATO. FEDERICO ALDROVANDI.
IL CASO DEL DELITTO DI SIMONETTA CESARONI. RANIERO BUSCO E PIETRINO VANACORE.
MANOLO ZIONI IN CARCERE DA INNOCENTE.
OMICIDI DI STATO. LUIGI MARINELLI.
OMICIDI DI STATO. STEFANO CUCCHI.
OMICIDI DI STATO. MICHELE FERRULLI.
CONDANNATI PREVENTIVI. LA CONDIZIONE DEGLI INNOCENTI IN CARCERE.
TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA.
SOLO A TARANTO. ILVA, SARAH SCAZZI, BEN EZZEDINE SEBAI. AVVOCATI SUCCUBI DEI MAGISTRATI.
L'INGIUSTIZIA RACCONTATA DAGLI ADDETTI AI LAVORI.
INGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.
A PROPOSITO DI GIUSTIZIA. QUELLO CHE LA STAMPA NON DICE.
CARCERE E STORIE DI ORDINARIA INGIUSTIZIA.
CARA INGIUSTIZIA.
GLI INNOCENTI IN GALERA.
IL COSTO DEGLI ERRORI GIUDIZIARI.
PARLIAMO DI GIUSTIZIA E GIUSTIZIERI. L'ITALIA IN MANO AI MAGISTRATI.
LETTERE DAL CARCERE.
INTERVISTA AL PROCURATORE CAPO.
CENTO VOLTE INGIUSTIZIA.
TROPPI ERRORI GIUDIZIARI: CHI PROTEGGE GLI INNOCENTI?
EURISPES: RAPPORTO SUL PROCESSO PENALE.
DATI MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, DIPARTIMENTO PENITENZIARIO. CARCERE: ICONA DELL'INGIUSTIZIA.
ABUSI E VIOLENZE SUI DETENUTI: UN DOSSIER INFINITO....
NIENTE RISARCIMENTO PER L'INGIUSTA IMPUTAZIONE.
(IN)GIUSTIZIA: 5 MILIONI GLI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
IL DIRITTO DI DIFESA: UGUALE PER TUTTI ???
IMPUNITOPOLI PER I MAGISTRATI. LA IRRESPONSABILITA’ DEI MAGISTRATI.
MPUNITOPOLI PER I FUNZIONARI PUBBLICI. FUNZIONARI PUBBLICI: IMPUNITA' ED IMMUNITA'.
MAGISTRATURA: FORTE CON I DEBOLI E DEBOLE CON I FORTI ???
IL MISTERO USTICA.
IL MISTERO MATTEI.
IL MISTERO MORO.
IL MISTERO SULLA MASSONERIA.
IL MISTERO PEDOFILIA.
IL MISTERO DEL MOSTRO DI FIRENZE.
IL MISTERO MOBY PRINCE.
DA MOSTRO A INNOCENTE, STORIE DI CALVARI.
OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.
MILANO: IL CASO RIZZOLI.
MILANO: IL CASO BERLUSCONI.
MILANO: IL CASO BARILLA’.
MILANO: I CASI MARIANI E CROSIGNANI
MILANO: IL CASO PALAU GIOVANNETTI.
CAGLIARI: IL CASO MANUELLA.
NUORO: IL CASO CONTENA.
ROMA: IL CASO ANDREOTTI.
ROMA: IL CASO LUTTAZZI.
ROMA: IL CASO SABANI.
ROMA: IL CASO DELITTO SIMONETTA CESARONI.
CASERTA: IL CASO OGARISTI.
NAPOLI: IL CASO TORTORA.
BARI: IL CASO LASTELLA.
TARANTO: IL CASO FAIUOLO, ORLANDI, NARDELLI, TINELLI, MONTEMURRO, DONVITO.
TARANTO: IL CASO PEDONE, CAFORIO, AIELLO, BELLO.
LECCE: IL CASO DI NAPOLI.
COSENZA: IL CASO MASALA.
CALTANISSETTA: IL CASO TURCO.
PEDOFILIA. LA FABBRICA DEI MOSTRI.
RIGNANO FLAMINIO E LE SUGGESTIONI. IL CASO DELLA PEDOFILIA SATANICA.
MODENA E LE SUGGESTIONI. IL CASO DELLA PEDOFILIA SATANICA.
SOMMARIO TERZA PARTE
GIUSTIZIA CAROGNA.
IL DIRITTO DI CRITICA GIUDIZIARIA.
ENZO MANNINA. IN CONFRONTO ALLA GIUSTIZIA ITALIANA KAFKA ERA UN DILETTANTE.
ONESTA’ E DISONESTA’.
CULTURA. EMIL ZOLA: L’AFFAIRE DREYFUS ED I GIORNALI CHE VIVONO DI SCANDALI.
IN NOME DELLO SCANDALO I GIORNALI SBEFFEGGIANO LA VERITA’.
MARCELLO DELL’UTRI. VITTIMA SACRIFICALE.
NICOLA MANCINO. VITTIMA SACRIFICALE.
CLEMENTE MASTELLA. VITTIMA SACRIFICALE.
CULTURA E CIVILTA’ GIURIDICA. CESARE BECCARIA. DEI DELITTI E DELLE PENE.
L’INCIVILTA’ GIURIDICA. IL RITO INQUISITORIO.
L’INCIVILTA’ GIURIDICA. LA CRUDELTA’.
DENUNCE A PERDERE.
L'IMPRESA IMPOSSIBILE DELLA RIPARAZIONE DEL NOCUMENTO GIUDIZIARIO.
LE COMPATIBILITA’ ELETTIVE. IO SON IO E TU NON SEI UN CAZZO.
COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”
PARLIAMO DI INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA.
COLPA DEI PROCESSI INDIZIARI...
ASSOLTI. PERO’…
L'INGIUSTIZIA NON E' UNA UTOPIA: E' REALTA'.
MORIRE DI CARCERE.
LA STORIA DELL’AMNISTIA.
ESEMPI SCOLASTICI. SONO ASSOLUTAMENTE INNOCENTI. NICOLA SACCO E BARTOLOMEO VANZETTI.
PRESUNTO COLPEVOLE.
PRESUNTA COLPEVOLE. ANNA PAGLIALONGA.
PRESUNTO COLPEVOLE. OSCAR SANCHEZ.
PRESUNTO COLPEVOLE. FABRIZIO BOTTARO.
PRESUNTO COLPEVOLE. ANGELO CIRRI.
PRESUNTA COLPEVOLE. ANASTASIA MONTANARIELLO.
PRESUNTO COLPEVOLE. ANTONIO FRANCESCO DI NICOLA.
PRESUNTO COLPEVOLE. CARMINE FORCELLA.
PRESUNTO COLPEVOLE. DINO TRAPPETTI.
PRESUNTO COLPEVOLE. SANDRO VECCHIARELLI.
PRESUNTO COLPEVOLE. TITO RODRIGUEZ.
PRESUNTO COLPEVOLE. EMANUELE NASSISI.
PRESUNTO COLPEVOLE. FILIPPO DI BENEDETTO.
PRESUNTO COLPEVOLE. FRANCESCO SPANO'.
PRESUNTO COLPEVOLE. JOSE' VINCENT PIERA RIPOLL.
PRESUNTO COLPEVOLE. BRUNO DEL MORO.
PRESUNTO COLPEVOLE. EMMANUEL ZEBAZE SOKENG.
PRESUNTA COLPEVOLE. JOY IDUGBOE.
PRESUNTO COLPEVOLE. MASSIMO MALLEGNI.
PRESUNTO COLPEVOLE. PIO RAGNI.
PRESUNTO COLPEVOLE. MAURIZIO COMINO.
PRESUNTA COLPEVOLE. MONICA BUSETTO.
PRESUNTO COLPEVOLE. GIUSEPPE LA MASTRA.
PRESUNTO COLPEVOLE. GIOVANNI CAMASSA.
PRESUNTO COLPEVOLE. VITTORIO EMANUELE DI SAVOIA.
PRESUNTO COLPEVOLE. CLAUDIO BURLANDO.
PRESUNTO COLPEVOLE. GIGI SABANI.
PRESUNTA COLPEVOLE. LAURA ANTONELLI.
PRESUNTO COLPEVOLE. ROBERTO RUGGIERO.
PRESUNTO COLPEVOLE. CARLO PALERMO.
PRESUNTO COLPEVOLE. SANDRO FRISULLO.
PRESUNTO COLPEVOLE. CLELIO DARIDA.
PRESUNTO COLPEVOLE. FERDINANDO PINTO
PRESUNTO COLPEVOLE. MARIO SPEZI.
PRESUNTO COLPEVOLE. GIOVANNI TERZI.
PRESUNTO COLPEVOLE. ANTONIO GAVA.
PRESUNTA COLPEVOLE. DANIELA POGGIALI.
PRESUNTO COLPEVOLE. PIER PAOLO BREGA MASSONE.
PRESUNTI COLPEVOLI. GIOVANNI SCATTONE E SALVATORE FERRARO.
PRESUNTO COLPEVOLE. RAFFAELE SOLLECITO.
PRESUNTA COLPEVOLE. AMANDA KNOX.
PRESUNTO COLPEVOLE. LUCIANO CONTE.
PRESUNTO COLPEVOLE. MARIO CONTE.
PRESUNTO COLPEVOLE. BENIAMINO ZAPPIA.
PRESUNTO COLPEVOLE. MARCO SAVINI.
PRESUNTO COLPEVOLE. OSCAR MILANETTO.
PRESUNTO COLPEVOLE. DIALLO A..
PRESUNTO COLPEVOLE. MARCO SANTESE.
PRESUNTO COLPEVOLE. FRANCESCO FUSCO.
PRESUNTO COLPEVOLE. ANDREA MARCON.
PRESUNTA COLPEVOLE. CHIARA BARATTERI.
PRESUNTO COLPEVOLE. FRANCO MOCERI.
PRESUNTO COLPEVOLE. SALVATORE RAMELLA.
PRESUNTO COLPEVOLE. SALVATORE GRASSO.
PRESUNTI COLPEVOLI. VINCENZO E GIUSEPPE IAQUINTA.
PRESUNTA COLPEVOLE. BEATRICE CENCI.
PRESUNTO COLPEVOLE. ARMANDO CHIARO.
PRESUNTA COLPEVOLE. EMILIA SALOMONE.
PRESUNTO COLPEVOLE. ALFONSO SABELLA.
PRESUNTO COLPEVOLE. DOMENICO ZAMBETTI.
PRESUNTO COLPEVOLE. AMBROGIO CRESPI.
PRESUNTO COLPEVOLE. ILVO CALZIA.
PRESUNTO COLPEVOLE. OTTAVIANO DEL TURCO.
PRESUNTA COLPEVOLE. MARTA VINCENZI.
PRESUNTI COLPEVOLI. GIULIO E MARIA FRANCESCA OCCHIONERO.
PRESUNTO COLPEVOLE. FILIPPO MAGNINI.
PRESUNTO COLPEVOLE. ALEX SCHWAZER.
PRESUNTO COLPEVOLE. MARCO PANTANI.
PRESUNTE COLPEVOLI. SABRINA MISSERI E COSIMA SERRANO.
PRESUNTI COLPEVOLI. OLINDO ROMANO E ROSA BAZZI.
PRESUNTO COLPEVOLE. MASSIMO BOSSETTI.
PRESUNTO COLPEVOLE. CATENO DE LUCA.
SONO INNOCENTE.
SONO INNOCENTE. ELAINE ARAUCO DA SILVA.
SONO INNOCENTE. ENZO TORTORA.
SONO INNOCENTE. LORENA MORSELLI.
SONO INNOCENTE. DOMENICO MORRONE.
SONO INNOCENTE. STEFANO MESSORE.
SONO INNOCENTE. ALDO SCARDELLA.
SONO INNOCENTE. MARIA VITTORIA PICHI.
SONO INNOCENTE. PATRIK LUMUNBA.
SONO INNOCENTE. ALBERTO OGARISTI.
SONO INNOCENTE. SAVERIO DE SARIO.
SONO INNOCENTE. FILIPPO LA MANTIA.
SONO INNOCENTE. FULVIO PASSANANTI.
SONO INNOCENTE. VITO GAMBERALE.
SONO INNOCENTE. CARMINE BELLI.
SONO INNOCENTE. PIETRO MELIS.
SONO INNOCENTE. GIUSEPPE GULOTTA.
SONO INNOCENTE. MARIA ANDO’.
SONO INNOCENTE. DIEGO OLIVIERI.
SONO INNOCENTE. CORRADO DI GIOVANNI.
SONO INNOCENTE. LUCIA FIUMBERTI.
SONO INNOCENTE. FRANCESCO RAIOLA.
SONO INNOCENTE. GUIDO BERTOLASO.
SONO INNOCENTE. ANTONIO CARIDI.
SONO INNOCENTE. HASHI OMAR HASSAN.
SONO INNOCENTE. MARIA GRAZIA MODENA.
SONO INNOCENTE. GIUSEPPE MELZI.
SONO INNOCENTI. GIUSEPPE ORSI E BRUNO SPAGNOLINI.
SONO INNOCENTE. ANGELO MASSARO.
SONO INNOCENTE. ANNA MARIA MANNA.
SONO INNOCENTE. CLAUDIO RIBELLI.
SONO INNOCENTE. ANTONIO LATTANZI.
SONO INNOCENTE. JOAN HARDUGACI.
SONO INNOCENTE. VITTORIO LUIGI COLITTI.
SONO INNOCENTE. VITTORIO RAFFAELE GALLO.
SONO INNOCENTE. MICHELE TEDESCO.
SONO INNOCENTE. ROBERTO GIANNONI.
SONO INNOCENTE. SANDRA MALTINTI.
SONO INNOCENTE. GAETANO MURANA.
SONO INNOCENTE. GIUSEPPE SILLITTI.
SONO INNOCENTE. PIO DEL GAUDIO.
SONO INNOCENTE. ANTONIO COLAMONICO.
ALTRI CENTO, MILLE, MILIONI DI INNOCENTI.
Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.
Ancora oggi l’etimologia di lex è incerta; i più ricollegano effettivamente lex a legere, ma un’altra teoria la riconduce alla radice indoeuropea legh- (il cui significato è quello di “porre”), dalla quale proviene l’anglosassone lagu e, da qui, l’inglese law.
Nella Grecia antica le leggi sono il simbolo della sovranità popolare. Il loro rispetto è presupposto e garanzia di libertà per il cittadino. Ma la legge greca non è basata, come quella ebraica, su un ordine trascendente; essa è frutto di un patto fra gli uomini, di consuetudini e convenzioni. Per questo è fatta oggetto di una ininterrotta riflessione che si sviluppa dai presocratici ad Aristotele e che culmina nella crisi del V secolo: se la legge non si fonda sulla natura, ma sulla consuetudine, non è assoluta ma relativa come i costumi da cui deriva; dunque non ha valore normativo, e il diritto cede il campo all'arbitrio e alla forza. La relazione che intercorre tra il concetto di legge e il concetto di luogo è insito nell’etimologia del termine greco nomos, che significa pascolo e che, progressivamente, dietro alla necessaria consuetudine di legittimare la spartizione del “pascolo”, ha finito per assumere questo secondo significato: legge. Ma nemein significa anche abitare e nomas è il pastore, colui che abita la legge, oltre che il pascolo; la conosce e la sa abitare. E nemesis è la divinità che si accanisce inevitabilmente su coloro che non sanno abitare la legge.
Da qui il detto antico “qui la legge sono io”. Conflittuale se travalica i confini di detto pascolo. Legge e luogo sono intrinsecamente connessi. Infatti, la nemesi della legge è proprio quella libertà commerciale che esige un’economia globale, che travalica tutti i confini, che considera la terra come un unico grande spazio. Insieme ai paletti di delimitazione degli stati sradica così anche la legge che li abita.
I greci, con Platone, avevano teorizzato l’origine divina del nomos. Obbedire alle leggi della polis significava implicitamente riconoscere il dio (nomizein theos) che si nasconde dietro l’ethos originario.
La conclusione di entrambi i percorsi - quello lungo e quello breve - dovrebbe condurre a definire la politica come scienza anthroponomikè o scienza di amministrare gli esseri umani. Nómos in greco significa "norma", "legge", "convenzione"; vuol dire "pascolo" e nomeus vuol dire "pastore": il procedimento dicotomico sembra condurre lontano dal nómos nel suo primo senso, a far intendere l'antroponomia come l'arte di pascolare gli uomini.
Cicerone adotta l’etimologia di lex da legere, non perché la si legge in quanto scritta, bensì perché deriva dal verbo legere nel significato di “scegliere”.
“Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum”, Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio della celebre esposizione di Tommaso d’Aquino sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae.
Da qui il concetto di legge: “la legge è una regola o misura nell’agire, attraverso la quale qualcuno è indotto ad agire o vi è distolto. Legge, infatti, deriva da legare, poiché obbliga ad agire.”
Il termine italiano legge deriva da legem, accusativo del latino lex.
Lex significava originariamente norma, regola di pertinenza religiosa.
Queste regole furono a lungo tramandate a memoria, ma la tradizione orale - che implicava il rischio di travisamenti - fu poi sostituita da quella scritta.
Sono così giunte fino a noi testimonianze preziose come le Tavole Eugubine, una raccolta di disposizioni che riguardavano sacrifici ed altre pratiche di culto dell’antico popolo italico di Iguvium, l’attuale Gubbio.
A Roma, in età repubblicana, vennero promulgate ed esposte pubblicamente le Leggi delle Dodici Tavole, che si riferivano non più solamente a questioni religiose: il termine lex assunse così il valore di norma giuridica che regola la vita e i comportamenti sociali di un popolo.
Sul finire dell’età antica l’imperatore Giustiniano fece raccogliere tutta la tradizione legislativa e giuridica romana nel monumentale Corpus Iuris, la raccolta del diritto, che ha costituito la base della civiltà giuridica occidentale.
Dalla riscoperta del Corpus Iuris sono state costituite circa mille anni fa le Facoltà di Legge - cioè di Giurisprudenza e di Diritto - delle grandi università europee, nelle quali si sono formati i giuristi, ovvero gli uomini di legge di tutta l’Europa medievale e moderna.
La parola legge è divenuta sinonimo di diritto, con il valore di complesso degli ordinamenti giuridici e legislativi di un paese.
In questo senso oggi la Costituzione italiana sancisce che la legge è uguale per tutti, e afferma la necessità per ogni persona di una educazione al rispetto della legalità: una società civile deve fondarsi sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini che trovano nelle leggi le loro regole.
Per millenni, tuttavia, il concetto di legge è stato collegato esclusivamente ad ambiti religiosi o sacrali, e per alcuni popoli ancora oggi all’origine delle leggi vi è l’intervento divino.
Pensiamo agli ebrei, per i quali la Legge - la Thorà nella lingua ebraica - è senz’altro la legge divina, non soltanto in riferimento ai Comandamenti consegnati dal Signore a Mosè sul monte Sinai - la legge mosaica - ma in generale a tutta la Bibbia, considerata come manifestazione della volontà divina che regola i comportamenti degli uomini.
Anche i Musulmani osservano una legge - la legge coranica - contenuta in un testo sacro, il Corano, dettato da Dio, Allah, al suo profeta Maometto.
Una legalità fondata sulla giustizia è dunque l’unico possibile fondamento di una ordinata società civile, e anche una delle condizioni fondamentali perché ci sia una reale difesa della libertà dei cittadini di ogni nazione.
Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino letteralmente, significa dura legge, ma legge. Più propriamente in italiano: "La legge è dura, ma è (sempre) legge" (e quindi va rispettata comunque).
Chi vive ai margini della legge, o diventa fuorilegge, si pone al di fuori della convivenza civile e va sottoposto ai rigori della legge, cioè a una giusta punizione: in nome della legge è proprio la formula con cui i tutori dell’ordine intimano ai cittadini di obbedire agli ordini dell’autorità, emanati secondo giustizia.
Il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, "diritto di natura") è il termine generale che racchiude quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto, cioè di un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'essere umano.
Il giusnaturalismo si contrappone al cosiddetto positivismo giuridico basato sul diritto positivo, inteso quest'ultimo come corpus legislativo creato da una comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Questa contrapposizione è stata efficacemente definita "dualismo".
Secondo la formulazione di Grozio e dei teorici detti razionalisti del giusnaturalismo, che ripresero il pensiero di Tommaso d’Aquino, attualizzandolo, ogni essere umano (definibile oggi anche come ogni entità biologica in cui il patrimonio genetico non sia quello di alcun altro animale se non di quello detto appartenente alla specie umana), pur in presenza dello stato e del diritto positivo ovvero civile, resta titolare di diritti naturali, quali il diritto alla vita, ecc. , diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi. Questi diritti naturali sono tali perché ‘razionalmente giusti’, ma non sono istituiti per diritto divino; anzi, dato Dio come esistente, Dio li riconosce come diritti proprio in quanto corrispondenti alla “ragione” connessa al libero arbitrio da Dio stesso donato.
*****
INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.
Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.
LA MALAGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.
L’INGIUSTIZIA è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!!
SECONDA PARTE
LA PRESCRIZIONE. LA GARANZIA PER GLI INNOCENTI CHE I GIUSTIZIALISTI NON VOGLIONO.
Prescrizione: Salvini, voglio tempi brevi processo e in galera colpevoli, scrive Adnkronos l'8 Novembre 2018 su "Il Dubbio". “La mediazione è stata positiva, accordo trovato in mezz’ora. Voglio tempi brevi per i processi. In galera i colpevoli, libertà per innocenti- La norma sulla prescrizione sarà nel ddl ma entra in vigore da gennaio del 2020 quando sarà approvata la riforma del processo penale. La legge delega, che scadrà a dicembre del 2019, sarà all’esame del Senato la prossima settimana”. Lo dice il vicepremier Matteo Salvini, dopo l’intesa trovata a Palazzo Chigi sulla prescrizione.
Prescrizione: Di Maio, soddisfatto da accordo, stop furbetti, scrive Adnkronos il 9 Novembre 2018 su "Il Dubbio". “Prescrizione? Mi sono svegliato dopo bene dopo l’accordo, mi soddisfa totalmente, perché l’obiettivo di riformare la prescrizione è sempre stata un obiettivo del M5S per fermare i furbetti. Allo stesso modo sapere che il 2019 sarà l’anno del processo penale è importante”. Lo ha detto il vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico Luigi Di Maio, incontrando la stampa estera a Roma. “Per me è molto importante confrontarmi con voi – ha aggiunto – i media mondiali con cui vorrei confrontarmi su temi importanti”.
Da quale pulpito vien la predica.
Moralizzatori moralizzati, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 08/11/2018, su "Il Giornale". I moralizzatori finiscono sempre per essere a loro volta moralizzati. È una legge ineluttabile di quella politica che si preoccupa sempre di fare le pulci agli altri - con fare saccente - dimenticandosi di guardare in casa propria. E proprio di casa si parla. Di casa Di Maio, per la precisione. Come ha rivelato ieri Repubblica, nel 2006 la famiglia del vicepremier ha condonato 150 metri quadrati di abusi nella sua abitazione di Pomigliano d'Arco. Non ci sarebbe nulla di male, se su quella porta di casa non ci fosse stampigliato il cognome Di Maio. Cioè il politico che, da sempre, pensa che i condoni siano una iattura e quelli che ne usufruiscono dei pericolosi criminali. Gli consigliamo di fare due chiacchiere con suo padre, che di sicuro non è un pericoloso criminale, ma una persona normalissima. Uno dei tanti italiani che, quando può, usufruisce delle sanatorie che lo Stato mette a disposizione. Senza nuocere a nessuno perché, ricordiamolo al forcaiolo Di Maio, c'è abuso e abuso. E allargare una mansarda o fare una finestra non è come costruire una villa in barba alla legge o edificare su un terreno a rischio idrogeologico. Così, mentre lui berciava contro i condoni dai palchi di tutt'Italia, il salotto di casa sua era condonato. Ma le sorprese non finiscono qui: perché la sanatoria sfruttata da Di Maio senior è entrata in vigore nel 1985, regnante Bettino Craxi. Che ovviamente per i Cinque Stelle è peggio del babau, il progenitore di tutte le caste. Un paradosso al cubo lascia in braghe di tela il moralismo grillino. Tante parole smontate, giorno dopo giorno, dai fatti. Ma d'altronde è in buona compagnia visto che anche il suo leader spirituale, Beppe Grillo, quatto quatto, ha usufruito dei tanto vituperati condoni. Il rapporto tra grillini e sanatorie è schizofrenico. Ne dicono peste e corna in pubblico, salvo poi utilizzarli nella propria vita privata e infilarli, di nascosto, nelle maglie di un decreto. Com'è accaduto con il decreto Genova, all'interno del quale sono state inserite le sanatorie per Ischia. Anche se il vicepremier continua a spergiurare che non c'è nessun condono. Mandiamo un messaggio in bottiglia a Di Maio: occhio Gigino, gli italiani hanno la memoria lunga e non condoneranno tutte le balle dei Cinque Stelle.
Condono anche a casa Di Maio, nel 2006 il padre pagò 2mila euro per la sanatoria. Il padre di Di Maio sanò l'abuso edilizio della propria casa nel 2006, pagando 2mila euro per la sistemazione di 150 metri quadri. Ma il capo politico del M5S fu durissimo con Rosa Capuozzo, l'ex sindaco di Quarto, espulsa dal M5S perché viveva in una casa con un'opera ancora da condonare, scrive Giovanna Pavesi, Mercoledì 07/11/2018, su "Il Giornale". Sono passati dodici anni da quando il padre del vice Primo Ministro, Luigi Di Maio, aveva chiesto di sanare un abuso edilizio, proprio nella casa di famiglia, a Pomigliano d'Arco. Era il 2006 e, secondo la ricostruzione fatta da Repubblica, a provarlo sarebbero oggi le carte conservate negli archivi. Antonio Di Maio, geometra e piccolo imprenditore, oggi 68enne, la sanatoria l'aveva richiesta per 150 metri quadri su due livelli della sua abitazione, un elegante palazzo all'interno del quale risiede ancora la famiglia del capo politico del Movimento 5 Stelle. Dalla sua costruzione, la casa avrebbe avuto diverse aree non conformi alla norma. Poi tutte condonate dopo il pagamento della multa. Che però, lascia, di fatto, le cose come sono.
I fatti, dall'inizio. Ad Antonio Di Maio corrispondeva la pratica numero 1840, del protocollo 7850 del 30 aprile 1986. Per la "sistemazione" della sua casa si appellò alla legge 47 del 1985. Che è quella del governo Craxi-Nicolazzi e che introduceva il primo condono. Si trattava di una sanatoria a cui potevano accedere in tanti. Ma per fare in modo che il percorso si concretizzasse servirono diversi anni. In Campania, infatti, nel frattempo, si ricostruiva dopo il terremoto: ripulire o estendere opere abusive era, quindi, pratica ricorrente. Il padre del ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, essendo geometra, all'epoca eseguiva vari lavori e, per il Comune napoletano, aiutava come esaminatore per le pratiche in attesa.
La sanatoria del 2006. La concessione, per la famiglia Di Maio, arriva nel 2006. Tecnicamente si tratta di "ampliamento di un fabbricato esistente al secondo e terzo piano" ed lo stesso geometra Di Maio, registrato come "tecnico rilevatore", a segnalare le superfici abitabili nei vari piani. La somma dei metri quadri, che risultano essere 151, costituiscono quasi una nuova casa. L'istruttoria conclusiva risale al 17 giugno 2006. Le rate da pagare sono due e corrispondono a 594 euro, con gli oneri di concessioni (altri 410 euro), più una differenza perché il padre del ministro, durante i calcoli, si sarebbe distratto, misurando meno metri quadri di quelli che risulteranno nelle carte. Le opere edilizie abusive, fatte all'interno della casa in diversi anni, gli costano circa 2mila euro. La pratica si chiude, ma rimane in archivio.
La replica di Di Maio. Poche ore fa è arrivata la replica del vice Presidente del Consiglio, che su Facebook ha risposto a Repubblica, dando la sua versione dei fatti. Spiegando che il quotidiano si sarebbe "inventato questo scoop". Il capo politico del movimento ha raccontato di aver chiamato subito il padre chiedendo spiegazioni sui fatti risalenti al 2006. Secondo quanto riportato dal leader pentastellato, la risposta arrivata dallo Stato si sarebbe riferita a una costruzione, inizialmente del nonno paterno e risaltente al 1966, che all'epoca dell'edificazione non avrebbe violato alcun regolamento. Almeno questo secondo Di Maio.
Il caso di Rosa Capuozzo. Nel corso della storia politica del leader pentastellato, il fatto non sarebbe però mai emerso. Nemmeno quando, nel 2016, dieci anni dopo la sanatoria del padre, Luigi Di Maio fu favorevole all'espulsione di Rosa Capuozzo. La scelta di allontanare il primo cittadino di Quarto, unico sindaco campano pentastellato, ebbe origine da un abuso edilizio. Anche se dietro il motivo dell'espulsione sembrò esserci altro. Capuozzo viveva in una casa con un'opera ancora da condonare. Il fatto spinse un consigliere comunale del M5S (finito poi sotto inchiesta per la Procura antimafia) a ricattarla. Sul blog di Beppe Grillo, infatti, si leggeva: "È dovere di un sindaco del M5S denunciare immediatamente e senza tentennamenti alle autorità ogni ricatto o minaccia che riceve".
Condono della casa di famiglia, Di Maio attacca Repubblica. La nostra risposta, scrive Conchita Sannino il 7 novembre 2018 su "La Repubblica". Luigi di Maio risponde a Repubblica sulla vicenda del condono della casa di famiglia a Pomigliano d'Arco. "Ho chiamato mio padre e gli ho chiesto cosa avesse combinato, mi ha spiegato che nel 1966 mio nonno, che ora non c'è più, costruì la casa dove vive tuttora la mia famiglia. Nel 1966 mio padre aveva sedici anni - ricorda Di Maio - e la casa fu costruita in base ad un decreto regio del 1942, ancora vigente nel 1966. Nel 1985, quando mio nonno non c'era più, mio padre venne a conoscenza di una legge per regolarizzare qualsiasi manufatto costruito in precedenza, e chiese di regolarizzare la casa". Di Maio, che si lamenta di come "non sia bello vedere la propria famiglia sbattuta a pagina 10 come i 'furbetti del condono edilizio", prosegue ricordando che il padre "presentò una domanda ad aprile 1986, io nasco tre mesi dopo, spero che mi si riconosceranno le attenuanti dell'incapacità di intendere e volere. Mio padre presenta la domanda ad aprile '86, io nasco a luglio '86. Nel 2006 mio padre riceve la risposta del comune che gli dice di pagare duemila euro e regolarizzare così la casa costruita nel 1966. Questo sarebbe il grande scoop di Repubblica, io condonista... Peccato però che non abbia mai titolato per gli scudi fiscali sotto i governi Renzi, Letta e Gentiloni". E aggiunge: "Mi perdonerete se oggi ho comprato Repubblica non lo farò spesso, lo farò solo quando serve".
La risposta di Repubblica. I fatti non si piegano alle convenienze. È una delle regole attraverso cui passa la credibilità e la trasparenza di un leader politico. Prendiamo atto che il vicepremier e capo del M5S Luigi Di Maio lo abbia appena sperimentato, confermando in una diretta Fb tutto quello che Repubblica - rigorosamente attenendosi a dati pubblici e incontestabili - aveva scritto, relativamente alla sanatoria concessa a suo padre, dal Comune di Pomigliano d'Arco, nel 2006, avente per oggetto il palazzetto in cui risulta residente il leader del Movimento. Di Maio, tuttavia, anche stavolta incorre in qualche imprecisione. E in alcune omissioni. Sfrondando l'intera vicenda di meta-messaggi e sarcasmo sulla libertà di stampa - che appesantiscono la verità come un abuso su uno scheletro d'immobile - per estrema chiarezza, ripercorriamo alcune evidenze.
Primo punto, tecnico. Suo padre, il geometra ed imprenditore edile, Antonio Di Maio, ha effettivamente chiesto ed ottenuto un condono per manufatti ed ampliamenti abusivi, eseguiti al secondo e terzo piano, richieste che sono state depositate in Comune a partire dal post-terremoto esattamente come abbiamo rilevato e raccontato? Sí. Invece qui cominciano i 'ma' dell'onorevole Di Maio. "Ho letto Repubblica (...), ho chiesto a mio padre cosa hai combinato. Mio padre presentó una domanda ad aprile 1986. Ma la casa fu costruita nel 1966, realizzata da mio nonno in base al Regio decreto del 1942". Una genealogia interessante, ma c'è una prima imprecisione. Due terzi della casa, ovvero secondo piano e terzo piano sono connotati da abusi che, secondo quanto registrato negli atti, sono stati realizzati almeno dieci anni dopo. Ciò non toglie che si sia trattato di ampliamenti per complessivi 150 metri quadri.
Secondo punto. Tecnico. Suo padre ha effettivamente definito tutta la pratica nel 2006, col pagamento di 2mila euro a fronte di quel volume, tra nuove camere da letto, tinello e studiolo con lucernai ed altro? Sí. "Mio padre riceve la risposta del Comune che gli chiede di pagare 2mila euro", spiega ancora Di Maio. Anche qui c'è una omissione. A quanto pare, il papà geometra - nonostante la sua esperienza e la competenza tale da esaminare pratiche altrui per il Comune - aveva sbagliato a proprio favore il calcolo di alcuni - pochi - metri quadri. Una dimenticanza certamente non voluta. È vero o no che fu costretto a tornare a Palazzo e a saldare quella differenza?
Terzo ed ultimo punto. Politico. "Questo sarebbe il grande scoop di Repubblica. Mi perdonerete oggi ho comprato Repubblica, non lo farò spesso", dice Di Maio che addirittura consiglia di mettere "più amore" nella cronaca politica; riecheggiando anche qui antichi slogan berlusconiani. Il vicepremier Di Maio, se leggesse di più e meglio, saprebbe cose che evidentemente in casa, gli erano sfuggite, almeno da 12 anni. E soprattutto dica cosa pensa del condono e di come possa ora vietare a Ischia ciò che in casa sua era stato concesso. I fatti, come lui stesso ha dimostrato spiegando, non si piegano alle convenienze. Conchita Sannino
Il vizio del moralista Grillo Sanate megaville e società. Il comico tuona contro i condoni ma li ha sfruttati per la residenza a Genova e l'immobiliare col fratello, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 08/11/2018, su "Il Giornale". Beppe Grillo sul blog denuncia da anni la piaga dell'evasione fiscale in Italia, anche se - raccontò l'ex impresario Lello Liguori - il comico pretendeva di farsi pagare i suoi spettacoli in nero. Ma Beppe Grillo denuncia da anni anche la malapianta dei condoni fatti dai vari governi. «Il cittadino deve sentirsi rispettato come contribuente, non preso per il culo da una serie infinita di condoni e dallo Scudo Fiscale» tuonava nel 2012. «I politici sono ectoplasmi che rinnovano la loro esistenza grazie a palliativi, l'ultimo è il condono per le abitazioni abusive» ammoniva nel 2013, epoca governo del «porporato Nipote Letta», cioè Enrico. Il M5s in Parlamento si occupa delle vere emergenze nazionali mentre «loro» si occupano solo di «salvare Berlusconi, salvare il Monte dei Paschi di Siena e fare il condono edilizio» sentenziava sempre sul blog nel 2013. «Il governo strizza l'occhio ai furboni con la procedura di condono nota come «voluntary disclosure» rituonava il comico nel 2017. Ma quando si trattava di condonare la roba sua, Grillo non si è schifato per nulla. Anzi più volte il fondatore del M5s ha approfittato della possibilità di sanare gli abusi. Nel suo caso per tre volte, con due tipologie diversi di condoni. I primi due sono scritti nei bilanci della Gestimar Srl, società immobiliare con sede a Genova proprietaria di una decina di immobili fra Liguria e Sardegna, di cui Beppe Grillo era socio al 99%, insieme al fratello Andrea. Ebbene nei bilanci 2002 e 2003 si legge: «In considerazione della possibilità concessa dalla legge finanziaria 2003 di definire la propria posizione fiscale con riferimento ai periodi di imposta dal 1997 al 2001, fermo restando il convincimento circa la correttezza e la liceità dell'operato sinora eseguito, si è ritenuto opportuno di avvalersi della fattispecie definitoria di cui all'articolo 9 della predetta legge», ovvero il condono tombale dell'allora governo Berlusconi, ministro Tremonti, ovvero del «nano di Arcore» e «Tremorti», come li soprannominava gentilmente il comico. Il loro condono però lo prendeva sul serio.
Come l'altro, edilizio, quello che i suoi fan diventati ministri giustificano in Sicilia e promuovono ad Ischia. Del condono edilizio di Grillo scrisse Filippo Facci sul Giornale ricostruendo l'epopea del comico-fustigatore di costumi: «Nel 1986, poco in linea con certe sue intransigenze future, fu protagonista di alcuni spot per gli yogurt Yomo: Ci hanno messo 40 anni per farlo così buono, diceva indossando una felpa con scritto University of Catanzaro. Lo yogurt è un prodotto buono, si difese lui. Per quella pubblicità vinse un Telegatto. È il periodo in cui andò a vivere a Sant'Ilario, la Hollywood di Genova: una bellissima villa rosa salmone, affacciata sul Monte di Portofino, con ulivi e palme e i citati frutti e ortaggi di plastica. Non fece scavare una piscina, ma due: cosa che piacque poco ai vicini e soprattutto al dirimpettaio Adriano Sansa, già poco entusiasta del terrazzo di 100 metri quadri che Grillo fece interamente ricoprire inciampando in un clamoroso abuso edilizio cui pose rimedio con uno di quei condoni contro cui è solito scagliarsi». È un artista, mica si può chiedergli la coerenza. Del resto Grillo ha fatto l'apologia della decrescita, del pianeta slow, delle auto ad acqua che non inquinano e non consumano petrolio, ma ha posseduto Ferrari e barche a motore. L'altra megavilla, quella a Bibbona a pochi metri dal mare che affitta a 15mila euro a settimana, ha la fortuna di essere stata accatastata solo come A7 (villino), invece che A8 (villa), come pure quella di Sant'Ilario. Comico, condonato e anche fortunato.
Bongiorno contro Bonafede: è guerra sulla nuova prescrizione. Dopo le critiche dei penalisti arriva la “bomba” dell’avvocata leghista: “è come un’atomica sul processo”. La replica del guardasigilli: “La vera bomba è l’impunità”, scrive il 3 novembre 2018 "Il Dubbio". Ad accendere la miccia della polemica del giorno all’interno del governo, ci pensa la ministra leghista della pubblica istruzione, Giulia Bongiorno: «Bloccare la prescrizione sarebbe una bomba atomica contro il sistema giudiziario italiano, io questa cosa non posso accettarla e non posso non segnalarla». E aggiunge: «I condannati devono avere un secondo grado di giudizio». Una posizione che il ministro della giustizia grillino Bonafede, “mandante” dell’emendamento che blocca la prescrizione dopo il primo grado di giudizio, non ha mandato giù: “Rispetto e stimo il ministro Bongiorno, con cui ho collaborato e collaboro su diversi fronti, dalla necessita di riavviare il motore della giustizia con nuove forze, alla lotta contro la violenza sulle donne. Ma sulla prescrizione si sbaglia” E poi: “La bomba atomica che rischia di esplodere è la rabbia dei cittadini di fronte all’impunita”. Ma le critiche più dire alla nuova prescrizione sono arrivate dai penalisti: “La norma- manifesto che il Ministro della Giustizia aveva preannunciato e che gli Onorevoli Businarolo e Forciniti del Movimento 5 Stelle hanno tradotto in un emendamento al DDL anticorruzione, è espressione di una concezione autoritaria del diritto penale e del processo», ha infatti scritto la Giunta delle Camere penali. «La prescrizione nel nostro ordinamento – spiegano le Camere penali – ha un preciso significato ed è a pieno titolo uno degli elementi del patto sociale. L’istituto della prescrizione ha origini antiche e chi oggi ipotizza la sua sostanziale abolizione è disposto a cancellare conquiste della civiltà giuridica pur di ottenere risposte di vendetta sociale in nome di una efficienza che lo Stato non sa altrimenti garantire». I penalisti poi confermano lo stato di agitazione, in difesa dell’articolo 111 della Costituzione che garantisce la ragionevole durata del processo. Ma i 5Stelle sembrano tirare dritto e sulle presunte incomprensioni con la Lega, che a quanto pare ha molti dubbi sulla prescrizione immaginata dal ministro Bonafede – Di Maio risponde: «Lo stop alla prescrizione è entrata nel contratto di governo» prevedendo «che la decorrenza dei termini si ferma dopo il primo grado di giudizio». La riforma della prescrizione dunque «si farà, magari ci sono dei problemi interni alla Lega, non lo so e non mi interessa», scrive il vicepremier su Facebook, sottolineando: «Questo è il governo del cambiamento, non difende i furbi ma gli onesti». E poi: «Per quanto mi riguarda lo stop alla prescrizione deve entrare nella legge spazza- corrotti perché la prescrizione oggi è la legge dei furbi», continua il vicepremier Di Maio: «In questo paese, i più grandi furbetti del quartierino si sono salvati dai processi grazie alla prescrizione. Con la prescrizione si sono salvati grandi personaggi tra cui Licio Gelli. Bisogna arrivare a processo».
Eccolo lì il fantasma di Andreotti. Le pesanti critiche di Giulia Bongiorno all’emendamento di Bonafede ha scatenato i retroscenisti, scrive Francesco Damato il 6 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Il Fatto Quotidiano – e chi sennò – si è affrettato a scomodare il fantasma di Giulio Andreotti per cercare di mettere in difficoltà, se non tacitare, Giulia Bongiorno. Che nella doppia veste di ministro e di avvocato ha osato criticare, e pure pesantemente, la guerra alla prescrizione dichiarata dal suo collega di governo, e un po’ anche di professione, Alfonso Bonafede: accusato, in particolare, di voler usare ‘ una bomba atomica’ contro la "ragionevole durata" dei processi introdotta nel 1999 nella Costituzione con la modifica dell’articolo 111. Il Fatto Quotidiano – e chi sennò – si è affrettato a scomodare il fantasma di Giulio Andreotti per cercare di mettere in difficoltà, se non tacitare, Giulia Bongiorno. Che nella doppia veste di ministro e di avvocato ha osato criticare, e pure pesantemente, la guerra alla prescrizione dichiarata dal suo collega di governo, e un po’ anche di professione, Alfonso Bonafede: accusato, in particolare, di voler usare "una bomba atomica" contro la "ragionevole durata" dei processi introdotta nel 1999 nella Costituzione con la modifica dell’articolo 111. Altro che "ragionevole" sarebbe, in effetti, la durata dei processi se la prescrizione valesse solo sino alla prima sentenza, come vorrebbe appunto il guardasigilli condividendo l’emendamento alla legge “spazzacorrotti” predisposto dai due relatori, entrambi colleghi di partito. I processi durerebbero all’infinito, non finendo – come dicono i sostenitori della riforma, o controriforma, secondo i gusti ma semplicemente rovesciandosi, dalla difesa dell’imputato all’accusa, l’interesse presunto o reale a ritardare un giudizio finale, questa volta soltanto perché sgradito, di assoluzione. "Non arretreremo di un millimetro", ha garantito il guardasigilli replicando proprio ai rilevi della collega di governo, mentre il vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio partiva per la Cina escludendo che l’arretramento possa avvenire anche solo sul piano procedurale. Cioè, con la decisione di scendere dalla legge sulla corruzione per montare su un’altra legge, o presentarne una apposta. La legge spazzacorrotti deve quindi potersi chiamare anche spazzaprescritti. Il più famoso ed emblematico dei quali rimane nella memoria di Travaglio, ma anche di Nino Di Matteo, intervistato nell’occasione proprio dal Fatto Quotidiano, la buonanima di Giulio Andreotti. L’ex presidente del Consiglio fu a suo tempo assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, per la quale era stato mandato a processo, ma prescritto, come si dice in gergo tecnico e dispregiativo, per l’associazione a delinquere configurabile, secondo i giudici, negli incontri compromettenti da lui avuti sino alla primavera del 1980 con esponenti poi rivelatisi mafiosi. Tanto compromettenti furono peraltro quegli incontri che, una volta diventato presidente del Consiglio, Andreotti concorse curiosamente alla nomina di Giovanni Falcone, il magistrato simbolo della lotta alla mafia, sino ad esserne ucciso, a direttore generale degli affari penali del ministero della Giustizia. E poi sfornò, sempre contro la mafia, un decreto legge tanto ai limiti della Costituzione da essere emesso con fatica dal presidente della Repubblica, e non essere votato in Parlamento dall’opposizione comunista. Di Matteo ha ancora rimproverato a Giulia Bongiorno dalle colonne del giornale di Travaglio di avere festosamente gridato tre volte ‘ assolto’ all’indirizzo del suo assistito eccellente, nel momento del verdetto d’appello, sorvolando sulla prescrizione che lo aveva ugualmente macchiato. E di cui ancora si vanta ogni volta che può, a voce e per iscritto, Giancarlo Caselli. Il quale alla guida della Procura della Repubblica di Palermo condusse l’offensiva giudiziaria contro Andreotti, il veterano della Dc e del suo potere. La fedeltà al suo antico assistito, o "Divo", come lo incoronò Paolo Sorrentino col suo famoso film, nella interpretazione di Toni Servillo, non è la sola colpa rinfacciata in questi giorni alla ministra Bongiorno dagli alleati di governo grillini. E recepita anche da Emilio Giannelli, che con quel nome che porta di Giulia l’ha ritratta sulla prima pagina del Corriere della Sera come variante femminile di Andreotti, diventato persino la proiezione della sua ombra. Le viene un po’ rimproverato anche il fresco approdo, dai lidi finiani della Destra, alla Lega. Di cui nei giorni o nelle ore dispari i grilli ricordano i rapporti passati al governo nazionale con l’odiato Silvio Berlusconi, un altro prescritto eccellente, e quelli perduranti a livello locale, dove peraltro il centrodestra continua a presentarsi unito. Di stampo berlusconiano o protoleghista sarebbero appunto la difesa della prescrizione e tutti o quasi gli emendamenti proposti dai parlamentari del Carroccio alla legge "spazzacorrotti". Vedrete che prima o dopo, compulsando qualche vecchia rassegna stampa, con la stessa ossessione o chirurgica selezione riservata a verbali giudiziari, intercettazioni e quant’altro, i grillini e le loro prolunghe mediatiche scopriranno le pulsioni andreottiane dei leghisti della prima ora, approdati a decine in Parlamento nella legislatura uscita dalle urne del 1992. Quando Francesco Cossiga invertì con le sue improvvise dimissioni da presidente della Repubblica l’ordine degli adempimenti istituzionali delle nuove Camere, dando la precedenza alla sua successione sul Quirinale rispetto alla formazione del governo, Umberto Bossi chiese consigli a Gianfranco Miglio. Che la mattina gli suggeriva di aspettare la candidatura di Andreotti, preferita a quella in arrivo del segretario della Dc Arnaldo Forlani con l’appoggio di Bettino Craxi, e il pomeriggio invece gli perorava la causa di Cossiga, dimessosi secondo lui per tentare astutamente la rielezione dopo il naufragio sia di Forlani sia di Andreotti. Furbo ma non ancora allenato a dovere ai giochi di palazzo, e pur tentato più dall’idea di un ritorno a Cossiga, il cui piccone non aveva certamente danneggiato la Lega negli ultimi due anni della passata legislatura e nella campagna elettorale di quell’anno, Umberto Bossi tagliò la testa al toro sterilizzando i voti dei suoi ottanta e passa parlamentari. Dalla seconda alla sedicesima e ultima votazione tenne ferma la candidatura di bandiera di Miglio, che nel frattempo si era però convinto che convenisse alla Lega più l’elezione di Andreotti che il sempre più improbabile ritorno di Cossiga. La partita del Quirinale era destinata a chiudersi nel modo più imprevisto, a favore di Oscar Luigi Scalfaro, ancora fresco di elezione alla presidenza della Camera. A dargli una mano, facendolo prevalere sul presidente del Senato Giovanni Spadolini come soluzione ‘ istituzionale’, fu il clima di disorientamento e di emergenza creatosi con la strage mafiosa di Capaci, costata la vita a Falcone, alla moglie e a tre dei quattro uomini della scorta. Col democristianissimo Scalfaro poi Bossi si sarebbe trovato benissimo quando ne fu incoraggiato – solo due anni dopo, pensate – a liquidare anzitempo il primo governo di centrodestra del Cavaliere di Arcore.
L'ITALIA DEI PROCESSI INFINITI DAI COSTI INCALCOLABILI.
L'Italia dei processi infiniti dai costi incalcolabili. Se il processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito è stato l'oggetto di un ping pong giudiziario quasi interminabile, la colpa è dei meccanismi stessi del processo penale, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Non è stato il primo, e sicuramente non sarà l'ultimo: se il processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito è stato l'oggetto di un ping pong giudiziario quasi interminabile, la colpa è dei meccanismi stessi del processo penale. Il codice non prevede un tie break, un momento in cui si debba per forza tirare le fila, facendo pendere la bilancia da una parte o dall'altra. L'andirivieni tra Corti d'appello e Cassazione può andare avanti in teoria all'infinito: specie per i processi per omicidio, che non possono essere inghiottiti dalla prescrizione. Certo, i costi per la collettività sono incalcolabili, e pesanti anche i costi materiali e psicologici per vittime e imputati. Ma di una norma che metta fine al rimpallo non si è mai parlato. E così non è affatto da escludere che lo stesso esito del processo per il delitto di Perugia possa averlo a breve quello per il delitto di Garlasco, visto che la Cassazione dopo avere annullato la assoluzione di Alberto Stasi potrebbe tranquillamente annullare anche la sua condanna. Come capostipite dei processi interminabili viene indicato abitualmente quello per la strage di piazza Fontana: che però ebbe un percorso accidentato ma tutto sommato lineare, anche se molti anni dopo la stessa Cassazione scrisse che la Cassazione si era sbagliata ad assolvere i neofascisti Freda e Ventura. Ben più surreale fu invece l'andirivieni di un altro processo degli anni di piombo, quello per l'omicidio del commissario Calabresi: Adriano Sofri venne condannato in primo e secondo grado, la Cassazione annullò la condanna, nel nuovo processo d'appello Sofri venne assolto ma la Cassazione annullò anche questa sentenza, e ci vollero un terzo processo d'appello e una nuova condanna, stavolta confermata dalla Cassazione, per chiudere la vicenda. In tempi più recenti, quasi impossibile da spiegare ai non addetti ai lavori è stato l'iter del processo per il rapimento dell'imam terrorista Abu Omar: gli 007 del Sismi vennero assolti in primo e secondo grado, la Cassazione annullò le assoluzioni, a quel punto l'appello bis si concluse con la condanna di tutti gli imputati, ma la Cassazione annullò (fortunatamente senza rinvio, altrimenti si sarebbe andati avanti chissà quanto) anche la sentenza di condanna. Per i reati non puniti dall'ergastolo, a dare un taglio alla faccenda arriva prima o poi la prescrizione, ma l'effetto è ugualmente straniante: la Procura di Milano non ha mai rinunciato a considerare Antonio Fazio, ex governatore della Banca d'Italia, colpevole del caso Unipol, ma si è dovuta arrendere - a causa del tempo trascorso - di fronte alla sentenza di assoluzione dell'appello-bis, dopo che la Cassazione aveva annullato le prime assoluzioni. E nel vuoto rischia di svanire anche il triste caso di Matilda Borin, la bambina uccisa nel 2005 vicino Vercelli. Prima fu assolto l'amante della madre, poi anche la madre; altri non potevano essere stati; la Cassazione ha riaperto il caso, ma - trattandosi di omicidio preterintenzionale - la prescrizione potrebbe arrivare prima di qualunque condanna.
In Italia potente è uguale a impunito. Solo undici persone sono in carcere per corruzione. Perché le inchieste vengono cancellate in massa dalla prescrizione. E così i colletti bianchi non pagano mai per i reati che commettono, scrivono Lirio Abbate e Paolo Biondani su “L’Espresso”. Gong, tempo scaduto: il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma il processo è durato troppo, per cui il colpevole ha diritto di restare impunito. Nel gergo dei tribunali si chiama prescrizione. È il termine massimo concesso dalla legge per condannare chi ha commesso un reato. In teoria è una nobile garanzia: serve a evitare che uno Stato autoritario possa riesumare accuse del lontano passato e perseguitare i cittadini con processi infiniti. Il guaio è che in tutti i Paesi civili la prescrizione è un evento eccezionale, mentre in Italia è diventata la regola per intere categorie di reati. Una scappatoia legale che premia soprattutto gli imputati eccellenti e la criminalità dei colletti bianchi. E nega giustizia al popolo delle vittime dei reati. E provoca pure danni alle casse dello Stato: le somme, in molti casi si parla di decine di milioni di euro, sequestrati agli imputati in fase di indagine perché ritenute provento della corruzione o concussione, una volta dichiarato prescritto il reato devono essere restituite agli “illegittimi” proprietari. E così, grazie alle leggi-vergogna sulla prescrizione, le tante caste, cricche, logge o lobby della politica e dell’economia possono continuare a rubare. Mentre restano senza giustizia i cittadini danneggiati da truffe, raggiri finanziari, evasioni fiscali o previdenziali, corruzioni, appalti truccati, scandali sanitari, omicidi colposi, traffici di rifiuti pericolosi, disastri ambientali, morti sul lavoro, violenze in famiglia, perfino abusi sui bambini. «L’Italia è l’unico Paese del mondo in cui la prescrizione continua a decorrere per tutti e tre i gradi di giudizio», è la diagnosi tecnica di Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani Pulite che oggi è giudice di Cassazione: «All’estero di regola il conteggio si ferma con il rinvio a giudizio o al massimo con la sentenza di primo grado, dopo di che non si prescrive più niente. Da noi invece il colpevole può farla franca anche se è già stato condannato in primo e secondo grado e perfino se è l’unico a fare ricorso, quindi è proprio lui ad allungare la durata del processo. Quando proviamo a spiegarlo ai magistrati stranieri, non riescono a capacitarsene: “Che senso ha?”». Il senso di questa anomalia italiana è una massiccia impunità: solo nell’ultimo anno giudiziario, come ha detto il primo presidente della Cassazione invocando una «riforma delle riforme», sono stati annientati dalla prescrizione ben 128 mila processi penali. Come dire che in Italia, ogni giorno, evitano la condanna almeno 350 colpevoli di altrettanti reati. La prescrizione facile è da decenni un vizio nazionale: basti pensare che i processi di Mani Pulite, nati dalle storiche indagini milanesi del 1992-1994, si erano chiusi con un bilancio finale di 1.233 condanne, 429 assoluzioni e ben 423 prescrizioni. Già ai tempi di Tangentopoli, insomma, il 20 per cento dei colpevoli riusciva a beffare la giustizia. Invece di risolvere il problema, le cosiddette riforme dell’ultimo ventennio lo hanno aggravato. Il tasso di impunità è salito alle stelle, in particolare, con la legge ex Cirielli, approvata nel 2005 dal centrodestra berlusconiano, che ha reso ancora più breve la via della prescrizione: termini dimezzati, applicazione automatica, obbligo per i giudici di concederla per ogni singolo reato, anche se il colpevole ha continuato a commetterne altri. E così, mentre la crisi economica spinge molti Stati occidentali a punire severamente i reati finanziari e il malaffare politico, in Italia i più ricchi e potenti riescono quasi sempre a sfuggire alla condanna. A documentarlo sono i dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (aggiornati al novembre 2013), raccolti in esclusiva da “l’Espresso”: sugli oltre 60 mila detenuti si contano soltanto 11 accusati per corruzione, 26 per concussione, 46 per peculato (cioè per furto di denaro pubblico), 27 per abuso d’ufficio aggravato. In Germania per reati economici finanziari vi sono in cella 8.600 detenuti. Di fronte all’enormità di un’evasione stimata nel nostro Paese di 180 miliardi di euro all’anno, in cella per frode fiscale ci sono soltanto 168 persone e appena tre arrestati per reati societari o falso in bilancio. La prescrizione all’italiana ha salvato centinaia di imputati eccellenti. L’elenco è interminabile, ma il re delle prescrizioni è sicuramente Silvio Berlusconi, che i giudici hanno dovuto dichiarare «non più punibile» prima per le tangenti a Bettino Craxi, per la corruzione giudiziaria della Mondadori (danni accertati per 494 milioni di euro) e per i colossali falsi in bilancio della Fininvest (caso All Iberian, fondi neri per 1.550 miliardi di lire) e poi, proprio grazie alla legge ex Cirielli approvata dalla sua maggioranza, per le mazzette da 600 mila dollari versate al testimone inglese David Mills, in cambio del silenzio sui conti offshore del Cavaliere. Che ora attende che si prescriva in appello anche la condanna per il caso dell’intercettazione trafugata nel dicembre 2005 per screditare il suo avversario politico Piero Fassino. Persino la prima condanna definitiva di Berlusconi per frode fiscale, quella che gli è costata il seggio in parlamento, è stata ridimensionata dalla prescrizione: le sentenze considerano pienamente provata un’evasione da 368 milioni di dollari, ma la ex Cirielli ha lasciato sopravvivere solo l’ultimo pezzetto di reato, per cui l’ex premier ora deve versare all’Agenzia delle Entrate solo dieci milioni. A sinistra, il miracolato più in vista è Filippo Penati, ex capo della segreteria del Pd: accusato di aver intascato tangenti per oltre due milioni di euro, aveva detto di voler rinunciare alla prescrizione, ma poi non l’ha fatto, e ora resta sotto processo solo per le accuse più recenti e difficili da dimostrare. Tra i big della finanza, autostrade e costruzioni, spicca il caso di Fabrizio Palenzona, che si è visto annullare l’accusa di aver intascato almeno un milione di euro su una rete di conti di famiglia tra Svizzera e Montecarlo, mai dichiarati al fisco e scoperti grazie alle indagini sulle scalate bancarie del 2005. Nel mondo della sanità, la sparizione dei primi reati, provocata dalla solita ex Cirielli, ha fatto tornare in libertà perfino il chirurgo della “clinica degli orrori” Pierpaolo Brega Massone, nonostante la condanna a 15 anni e mezzo. Nel pianeta giustizia, la prescrizione ha salvato l’ex giudice romano arrestato per tangenti Renato Squillante e altri magistrati con i conti all’estero. Tra i casi più recenti c’è la prescrizione ottenuta dal costruttore della “cricca” Diego Anemone per i famosi finanziamenti illeciti versati all’insaputa dell’ex ministro Claudio Scajola, che a sua volta è stato assolto nonostante siano stati usati per l’acquisto della sua casa romana. Mentre l’ex governatore del Molise, Michele Iorio, si è visto cancellare solo in Cassazione la condanna a 18 mesi per abuso d’ufficio e ora può tornare a fare politica nella sua regione. Verso la prescrizione si avviano molti altri scandali come le frodi milionarie di “Lady Asl” alla sanità laziale, le grandi truffe sui farmaci, i danni subiti da migliaia di risparmiatori con i famigerati bond-spazzatura della Cirio. La prescrizione facile, in sostanza, costringe la giustizia italiana, già rallentata da mille cavilli e inefficienze, a una corsa contro il tempo che per molti reati è perduta in partenza. E a truccare l’orologio a favore dei colpevoli sono proprio leggi come la ex Cirielli. Per capire quanto siano ingiusti e spesso drammatici gli effetti della prescrizione all’italiana, basterebbe che i politici legislatori non ascoltassero solo gli avvocati-deputati degli inquisiti, ma anche le vittime dei reati. «Mi chiamo Roberto Bicego, ho 66 anni, sono il primo paziente veneto a cui il luminare della cardiochirurgia Dino Casarotto aveva impiantato, nel novembre del 2000, una valvola-killer brasiliana, così chiamata perché scoppiava nel cuore dei pazienti. Quando si è saputo che aveva preso le tangenti dalle aziende fornitrici, il professore è stato arrestato e condannato in primo grado, ma non ha mai confessato niente, non ha chiesto scusa a noi malati, non ha risarcito nulla e in appello ha ottenuto la prescrizione. Io ho perso il lavoro, la salute, la tranquillità, ancora oggi ho dolori al torace. Il tribunale aveva accolto le richieste dei nostri legali, Giovanni e Jacopo Barcati, e ci aveva concesso un risarcimento provvisorio di 50 mila euro. Ma dopo la sentenza d’appello la direzione dell’ospedale di Padova ci ha intimato di restituirli con gli interessi. Adesso siamo noi a dover pagare i danni: roba da matti». «Sono Giovanni Tomasi, figlio di Clara Agusti, che ha 74 anni e non può muoversi da casa. I medici dicono che mia madre ha subito troppe operazioni, per cui non può più sostituire le sue due valvole cardiache, anche se una è difettosa. Facendosi corrompere, è come se il chirurgo l’avesse condannata a morte. Eppure anche lei ha ricevuto questo decreto ingiuntivo che le impone di risarcire l’ospedale. Ma che giustizia è questa?». Condanna a morte non è un modo di dire: dei 29 malati di cuore che si erano costituiti parte civile nel processo di Padova, solo uno aveva rifiutato di rioperarsi: «È morto durante il processo, il giorno dopo una visita di controllo. Gli hanno trovato pezzi della valvola-killer in tutto il corpo». «Sono Emanuela Varini, la moglie di Annuario Santi, che era un po’ il simbolo delle tante vittime di quelle valvole perché era rimasto paralizzato e seguiva tutte le udienze in carrozzella. Mio marito è morto nel 2008, non ha fatto in tempo a vedere che è finito tutto in prescrizione. Anche a Torino erano stati corrotti due chirurghi, ma hanno confessato e sono stati condannati: il professor Di Summa, quando ha visto mio marito in tribunale, è scoppiato a piangere e gli ha chiesto perdono. Il chirurgo di Padova invece non ha risarcito nessuno e dopo la prescrizione siamo ancora in causa con l’ospedale». A Roma sono cadute in prescrizione tutte le appropriazioni indebite che hanno svuotato le casse di 29 cooperative edilizie che hanno lasciato senza casa circa 2.500 famiglie. L’ex dominus del “Consorzio Casa Lazio” e i suoi presunti complici restano sotto accusa soltanto per bancarotta, ma il processo, lungo e complicato come per tutti i fallimenti a catena, è ancora in primo grado e i risarcimenti restano un sogno. «Le vittime sono migliaia di poveracci che hanno pagato gli anticipi e sono rimasti senza casa», spiega un avvocato di parte civile, Fabio Belloni: «Ci sono molte giovani coppie che avevano impegnato la liquidazione dei genitori, operai e impiegati che hanno perso tutti i risparmi: il Comune ha dovuto aiutare gli sfrattati che erano finiti a dormire per strada. Centinaia di famiglie, dopo aver versato più di centomila euro ciascuna, ora hanno solo la proprietà di un prato in periferia, neppure edificabile». A Milano è ancora fermo in appello, dopo le prime condanne e molte prescrizioni, il processo per le massicce attività di spionaggio illegale compiute dalla divisione sicurezza del gruppo Pirelli-Telecom tra il 2001 e il 2007, con la complicità di ufficiali corrotti anche dei servizi segreti: almeno 550 operazioni di dossieraggio che hanno colpito 4200 persone e decine di società private o enti pubblici. Lo scandalo aveva spinto il Parlamento a imporre per legge la distruzione dei dossier ricattatori: obiettivo raggiunto per i politici spiati, ma non per la massa di lavoratori e cittadini che avevano già subito i danni. E così, la prima vittima conclamata della banda dei super-spioni, il signor D.T., ex dirigente licenziato ingiustamente dalla filiale italiana di una multinazionale americana, non ha mai avuto giustizia, anche se l’intera maxi-inchiesta era partita proprio dal suo caso: «Sono stato spiato per mesi da una squadra di poliziotti corrotti, che per screditarmi non hanno esitato a inventarsi una falsa inchiesta per pedofilia», ricorda D.T. con voce disperata. «Sono stato mobbizzato, perseguitato per due lunghissimi anni: il manager che aveva pagato quel dossier 65 mila euro, ha diffuso quelle calunnie in tutta l’azienda, quindi i colleghi che mi erano amici hanno cominciato a chiamarmi “anormale”, a farmi passare per folle... È stato un inferno, ho avuto un gravissimo esaurimento nervoso, da allora non ho più una vita normale. Ho saputo di essere stato spiato illegalmente solo quando il pm Fabio Napoleone ha trovato la mia pratica: ero il dossier numero 323. Dopo l’arresto, le spie hanno confessato tutto, ma i poliziotti corrotti non sono stati nemmeno processati: era tutto prescritto già all’udienza preliminare. Ho perso il lavoro, la fiducia in me stesso, la serenità familiare e nessuno mi ha risarcito». La legge ex Cirielli favorisce anche i colpevoli di reati odiosi come le violenze contro i bambini. A Roma sono già caduti in prescrizione tre dei quattro processi aperti contro R.P., un padre degenere accusato di aver maltrattato e picchiato la moglie, arrivando a cacciarla da casa di notte con una neonata, in un drammatico quadro di abusi sessuali sulla figlia minorenne che lei aveva avuto nel precedente matrimonio. Condannato per tre volte in primo grado, l’uomo ha sempre ottenuto la prescrizione in appello. Nel quarto processo, il più grave, ora è imputato di violenza sessuale sulla ragazzina, nonché di averla sequestrata, alla vigilia della deposizione, per costringerla a ritrattare: tribunale e corte d’appello lo hanno condannato a quattro anni e otto mesi, ma l’udienza finale in Cassazione è stata rinviata per un difetto di notifica al prossimo marzo, quando rischia di essere tutto prescritto. «Al di là dei risarcimenti, le vittime dei reati hanno soprattutto un desiderio di giustizia che si vedono negare», spiega l’avvocata Cristina Michetelli. La ex Cirielli sta cancellando anche reati ambientali che minacciano intere comunità e compromettono la filiera alimentare. Della prescrizione facile hanno potuto beneficiare, tra gli altri, i diciannove inquisiti nella maxi-inchiesta sulle campagne avvelenate in Toscana e Lazio: sono imprenditori dello smaltimento, procacciatori d’affari e autotrasportatori che raccoglievano masse di rifiuti pericolosi, truccavano le carte, li riversavano negli impianti di compostaggio (rovinandoli) e poi li rivendevano come concimi da spargere nei terreni agricoli, che ora sono contaminati. In primo grado avevano subito condanne fino a quattro anni, con interdizione dalla professione, ma in appello la prescrizione ha cancellato anche i reati superstiti: ora sono tutti liberi e risultano incensurati, per cui possono tornare a fare il loro lavoro nel ciclo dei rifiuti. A completare il quadro dell’impunità, oltre alla prescrizione facile, sono le lacune normative che impongono di assolvere l’imputato che abbia commesso fatti considerati illeciti dai trattati internazionali, ma non dalle leggi in vigore in Italia. Un esempio per tutti: Francesco Corallo, il re delle slot machine del gruppo B-Plus-Atlantis, è riuscito a far cadere l’accusa, che lo aveva costretto alla latitanza, di aver pagato tangenti a un banchiere, Massimo Ponzellini, in cambio di prestiti per 148 milioni di euro: la Popolare di Milano infatti ha ritirato la querela, rendendo così impossibile processare entrambi per quella «corruzione privata». Anche i grandi evasori che nascondono montagne di soldi all’estero non vengono quasi mai perseguiti dall’Agenzia delle Entrate, perché le prove raccolte con le indagini penali fuori dai confini nazionali non possono essere utilizzate dal fisco italiano: tra i beneficiari di questo divieto, spiccano l’ex ministro Cesare Previti e i suoi colleghi avvocati condannati per corruzione di giudici. E fino a quando non diventerà reato l’auto-riciclaggio, non sarà possibile punire neppure i boss mafiosi che hanno nascosto o reinvestito le ricchezze ricavate con il racket delle estorsioni o i traffici di droga: il codice attuale infatti permette di incriminare solo eventuali complici esterni, ma non direttamente i padroni dei tesori criminali. Benvenuti in Italia, il Paese dell’impunità per i ricchi e potenti.
C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».
M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.
Prepotenti e impuniti di Stefano Zurlo (Piemme). Ci sono i vicini di casa che per anni continuano a utilizzare il giardino dei dirimpettai come discarica abusiva e non si trova un giudice in grado di impedirglielo. C'è un professionista che ha aperto un passaggio abusivo fra la casa e lo studio e non si trova un giudice in grado di impedirglielo. Ci sono i genitori separati che, sulla strada della riconciliazione, vorrebbero ricontrattare tempi e modi dell'affido congiunto dei figli, ma un giudice sedicente esperto in materia non vuoi cedere sulle restrizioni concordate anni prima, quando tra i coniugi era "guerra aperta". C'è poi il caso del dj licenziato dalla discoteca che lo aveva assunto facendogli firmare un contratto per l'intera stagione e che, per recuperare il compenso dovuto e non corrisposto, attende oltre dodici anni, durante i quali le lire fanno in tempo a diventare euro e le spese legali sostenute superano gli stipendi recuperati. C'è perfino una causa da 35,00 euro e un giudice che autorizza un tizio a portare la pistola in aula. E poi ci sono le sentenze mai depositate, i ritardi smisurati e le assenze ingiustificate di giudici e magistrati... Insomma, la giustizia civile in Italia proprio non funziona. Tanto che nel Belpaese i processi civili pendenti, come dicono gli addetti ai lavori, sono più di 5 milioni e mezzo: un numero impressionante di eredità, fallimenti, divorzi, liti di ogni genere congelati per anni e anni dentro il grande freezer della giustizia. Speranze, attese, rancori, soldi, interessi economici, business: c’è tutto un mondo che si muove a singhiozzo, permettendo ai soliti furbi di farla franca, spesso con la complicità di avvocati, giudici e magistrati poco solerti che, muovendosi in una selva di leggi e leggine, fanno della malagiustizia italiana la garanzia dell’impunità per i più prepotenti, a scapito degli onesti cittadini. Avvocati che ora diventano mediatori e conciliatori o impresari di mediazione: giusto per reiterare la malagiustizia se a promuovere le mediazioni sono i loro colleghi che sanno dove andare...
Processo dura 20 anni, lo stupro è prescritto. Il giudice: "Chiedo scusa alla vittima". Cade l'accusa per l'uomo che abusò della figlia della convivente. In Appello tutto si è arenato. Il ministro Orlando manda gli ispettori: "è un fatto che ribollire il sangue", scrive Sarah Martinenghi il 21 febbraio 2017 su "La Repubblica". "Questo è un caso in cui bisogna chiedere scusa al popolo italiano". Con queste parole, la giudice della Corte d'Appello Paola Dezani, ieri mattina, ha emesso la sentenza più difficile da pronunciare. Ha dovuto prosciogliere il violentatore di una bambina, condannato in primo grado a 12 anni di carcere dal tribunale di Alessandria, perché è trascorso troppo tempo dai fatti contestati: vent'anni. Tutto prescritto. La bambina di allora oggi ha 27 anni. All'epoca dei fatti ne aveva sette. Dall'aula l'hanno chiamata per chiederle se volesse presentarsi al processo, iniziato nel 1997, in cui era parte offesa. Ma lei si è rifiutata: "Voglio solo dimenticare". Il procedimento è rimasto per nove anni appeso nelle maglie di una giustizia troppo lenta. Lo ammette senza mezzi termini il presidente della corte d'Appello Arturo Soprano: "Si deve avere il coraggio di elogiarsi, ma anche quello di ammettere gli errori. Questa è un'ingiustizia per tutti, in cui la vittima è stata violentata due volte, la prima dal suo orco, la seconda dal sistema". In aula, a sostenere l'accusa della procura generale, è sceso l'avvocato generale Giorgio Vitari. "Ha espresso lui per primo il rammarico della procura generale per i lunghi tempi trascorsi - spiega il procuratore generale, Francesco Saluzzo - Questo procedimento è ora oggetto della valutazione mia e del presidente della Corte d'Appello. È durato troppo in primo grado, dal 1997 al 2007. Poi ha atteso per nove anni di essere fissato in secondo". La storia riguarda una bambina violentata ripetutamente dal convivente della madre. La piccola, trovata per strada in condizioni precarie, era stata portata in ospedale, dove le avevano riscontrato traumi da abusi e addirittura infezioni sessualmente trasmesse. La madre si allontanava da casa per andare a lavorare e l'affidava alle cure del compagno. Il procedimento alla procura di Alessandria parte con l'accusa di maltrattamenti e violenza sessuale. In udienza preliminare viene però chiesta l'archiviazione per parte delle accuse e l'uomo riceve una prima condanna, ma solo per maltrattamenti. Contemporaneamente, il giudice dispone il rinvio degli atti in procura perché si proceda anche per violenza sessuale. Nel frattempo, però, sono già trascorsi anni. L'inchiesta torna in primo grado e, dopo un anno, viene emessa la condanna nei confronti dell'orco: 12 anni di carcere. Da Alessandria gli atti rimbalzano a Torino per il secondo grado. Ma incredibilmente il procedimento resta fermo per nove anni in attesa di essere fissato. Finché, nel 2016, il presidente della corte d'Appello Arturo Soprano, allarmato per l'eccessiva lentezza di troppi procedimenti, decide di fare un cambiamento nell'assegnazione dei fascicoli. "Ho tolto dalla seconda sezione della corte d'Appello circa mille processi, tra cui questo, e li ho ridistribuiti su altre tre sezioni. Ognuna ha avuto circa 300 processi tutti del 2006, 2007 e del 2011. Rappresentavano il cronico arretrato che si era accumulato", spiega. La prima sezione ha avuto tra le mani per un anno il caso iniziato nel 1997. E l'udienza si è svolta solo ieri. "Ormai, però, era intervenuta la prescrizione". Un altro errore si è aggiunto alla catena di intoppi giudiziari: per sbaglio è stata contestata all'imputato una recidiva che non esisteva, il che avrebbe accorciato ulteriormente la sopravvivenza della condanna. I giudici, ascoltate le scuse della procura generale, si sono chiusi a lungo in camera di consiglio. Forse nella speranza di trovare un'ancora di salvezza. Alla fine, però, ha vinto il tempo. Sulla vicenda è anche intervenuto il ministro della giustizia Andrea Orlando che ha deciso di mandare gli ispettori di via Arenula per svolgere accertamenti preliminari in merito al processo, caduto in prescrizione.
Reato prescritto, pedofilo libero: il giudice chiede scusa, scrive di Roberta Catania il 22 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. «Abbiamo chiesto scusa alla vittima perché siamo stati costretti a chiedere il proscioglimento dell'imputato, nonostante non volessimo. È intervenuta la prescrizione». Ecco la giustificazione del procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, dopo che si è concluso, senza alcuna condanna, il processo a carico di un uomo che violentò la figlia della sua compagna dell'epoca, una bimba di sette anni. Per carità, sentire un giudice chiedere scusa è un evento di tale rarità che non si può non darne atto. Però rimane un fatto gravissimo che un caso così delicato sia rimbalzato per vent' anni da una scrivania all' altra senza trovare una giusta collocazione e dare un giusto processo alla vittima e al suo aguzzino. L'altro ieri la vittima di quelle violenze sessuali - che il compagno della madre le infieriva mentre la donna era al lavoro - non si è presentata in aula al Palagiustizia di Torino. Lei oggi ha 27 anni, vuole solo dimenticare e andare avanti. Un reset che sarebbe stato giusto offrirle molti anni fa, con tempi della giustizia più rapidi, condannando il suo stupratore ai giusti anni di prigione, invece di rammaricarsi oggi dichiarando «la prescrizione». Anche il presidente della corte d' Appello ha chiesto perdono alla donna e «al popolo italiano» per l'esito di una vicenda «su cui giustizia non c' è stata, perché non è stato possibile farla». Ma la colpa di chi è? Di quella ragazza che forse non aveva il denaro per pagare un brillante avvocato che incalzasse le udienze o di quei giudici che oggi chiedono perdono? Forse non loro direttamente, visti gli intoppi in cui è inciampato il caso, ma comunque qualcuno dovrebbe pagare un risarcimento o i danni morali. Il primo passo di questo processo è datato 1997. Il fascicolo arriva al tribunale di Alessandria, dove avviene il primo inciampo della giustizia. In udienza preliminare, il gup della provincia piemontese non aveva riconosciuto l'accusa di violenza sessuale ma soltanto quella di maltrattamenti. Accusa contestata successivamente dal giudice, che riesce a far riconoscere lo stupro, ma intanto altri anni erano andati persi. Il processo di primo grado dura tantissimo: dieci anni. E non per colpa di centinaia di testimoni da sentire o migliaia di perizie da esaminare, ma perché tra un'udienza e l'altra trascorrevano tempi inspiegabilmente biblici. Come se non fosse bastato un primo grado durato dieci anni, ce ne sono voluti altri nove prima che venisse fissato l'Appello. Diciannove anni, quindi, perché il caso arrivasse al tribunale di Torino per discutere il secondo grado di giudizio. E quando il fascicolo è stato preso in mano dai togati, oplà, era già tutto scaduto. Dopo molte ore di camera di consiglio, due giorni fa la giudice della Corte d' Appello Paola Dezani che ha dichiarato «prosciolto lo stupratore». Lo ha fatto con imbarazzo, dicono. Anche lei mortificata per una lentezza della giustizia che non ha lasciato impunito un abuso edilizio, ma che ha condonato le ripetute violenze sessuali su una bambina di sette anni. Adesso, in Piemonte arriveranno gli ispettori del ministero della Giustizia. Adesso, i giudici chiedono scusa. Adesso, la notizia rimbalza su tutti i giornali. Ma per venti anni nessuno ha preso a cuore la giustizia che meritava quella bambina e domani nessuno pagherà per qualcosa che tornerà ad essere catalogato come ordinaria lentezza della giustizia italiana.
Reato di stupro prescritto: ma chi paga? Le parole non restituiranno sollievo alla 27enne che 20 anni fa fu abusata, ma la sanzione dei responsabili. Di chi ha omesso, ignorato, e non ha vigilato, scrive il 22 febbraio 2017 Marco Ventura su Panorama. Per la giustizia negata non c’è altra soluzione che accelerare i processi e far valere il principio che chi sbaglia paga. Anche il magistrato negligente o lavativo. Tutto il resto è retorica: proposte di grande riforma del sistema giudiziario, ipotesi illiberali come quella di rendere infinito il tempo della prescrizione, scuse pubbliche prive di conseguenze concrete che servono soltanto a lavare le coscienze. Ben venga la prescrizione per l’uomo condannato in primo grado a 12 anni per aver abusato della figlia (che di anni ne aveva 7) della convivente; ben venga la notizia dei 20 anni di processo che non sono bastati a restituire, se non la serenità, almeno la giustizia a una donna che oggi ha 27 anni e dice di voler “solo dimenticare”; ben venga il proscioglimento del (dobbiamo dire presunto?) violentatore, se questa ennesima sconfitta della giustizia italiana servirà a qualcosa. Per esempio, a evitare in futuro nuove sentenze di prescrizione di reati che se non puniti “fanno ribollire il sangue”, come ha sollecitamente dichiarato con espressione suggestiva il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, annunciando l’invio di ispettori. E ben vengano le scuse agli italiani del giudice della Corte d’Appello di Torino, Paola Dezani, che ha dovuto emettere “in nome della legge” la sentenza, prendendo atto che il reato era prescritto: troppi dieci anni per il processo di primo grado (1997-2007) più altri nove per fissare l’udienza in appello. Ben venga la denuncia del presidente della Corte d’Appello, Arturo Soprano, che parla di “ingiustizia per tutti” e vittima “violentata due volte, la prima dall’orco, la seconda dal sistema”. Eppure. Il Sistema ha un volto. Un nome. Altrimenti sono tutti colpevoli e nessuno è colpevole. E anche questo è il Sistema. Che si difende auto-accusandosi. Il dubbio che qualcosa cambi davvero è forte. Perché in Italia manca del tutto il concetto di responsabilità, che è sempre personale ed è quella per la quale meriti e demeriti producono premi o sanzioni. Succede invece che il buon giudice continui a svolgere il proprio lavoro in silenzio, smazzando sentenze e trattando equamente le cause che trova sul tavolo, sforzandosi di leggere le carte prima di prendere decisioni. E capita poi che vengano emesse sentenze prima ancora di ascoltare le parti in udienza: la condanna pre-confezionata e “per errore” firmata e controfirmata. Per dire quanto la giustizia possa essere veloce: la sentenza precede l’udienza. Svista che smaschera anch’essa un Sistema. C’è una lacuna nello scandalo dello stupro pedofilo impunito. Un difetto, forse, nella comunicazione dei magistrati. Un dubbio, un rovello anzi, che deve assillare chiunque non si accontenti di denunciare le imperfezioni del Sistema. Il dubbio è che la vittima di 7 anni che oggi ne ha 27 e vuole solo dimenticare abbia tragicamente ragione. Primo, perché se anche la giustizia fosse arrivata in tempo (nei termini) sarebbe stata comunque tardiva. È ragionevole che si debbano aspettare 17-18 anni per vedere condannato il proprio violentatore o perché un uomo accusato di violenza venga processato? Siamo un Paese incivile. È di ieri la notizia che a Rio de Janeiro sono stati condannati a 15 anni di carcere due autori della violenza di gruppo su una sedicenne commessa lo scorso maggio. E parliamo di Brasile e favelas. Non di Alessandria o Torino. Secondo, perché il moltiplicarsi di scuse dei magistrati (pur benvenute e doverose) e dichiarazioni di quanti hanno la responsabilità della “giustizia” nascondono una diffusa ipocrisia. Qui non sono le parole a poter restituire uno straccio di riparazione alla 27enne che vent’anni fa fu abusata, ma la sanzione dei responsabili. Di chi ha omesso, ignorato, sottovalutato. Di chi ha lavorato male e provocato un danno con la sua negligenza. Di chi non ha vigilato. La sanzione può anche essere semplicemente un fermo alla carriera, un trasferimento, una censura. La magistratura gode di benefici economici (e non solo) in ragione della sua autorevolezza. Che oggi è ai minimi nell’opinione pubblica. E la sua autonomia, invece, rischia di esser vista come arroccamento corporativo e difesa dei privilegi. Se nessuno, alla fine e dopo tante belle parole, non pagherà per la denegata giustizia o per l’errore giudiziario (le carceri ne sono piene), avrà sempre ragione il presidente della Corte d’Appello di Torino, che ha scelto male le parole quando ha detto che la 27enne che vuole solo dimenticare è vittima due volte: dell’orco e del sistema. E la vittima rischia così di essere vittima non due ma tre volte, vittima dell’ipocrisia di quelli che puntano l’indice contro un ente inafferrabile e irresponsabile (il Sistema) invece di volgere lo sguardo al proprio fianco, nell’ufficio accanto, tra i colleghi, e additare i colpevoli, i veri irresponsabili, con nome e cognome.
La giustizia italiana è lentissima e fa restare impigliati gli innocenti. Tra Tronchetti Provera che viene assolto dopo 8 anni e Davigo che pensa sia giusto eliminare la prescrizione. La nuova puntata di Pinocchio, scrive Fabio Massa su Affari italiani, Mercoledì 7 novembre 2018. C'era una volta la giustizia. Oggi sui giornali ci sono due notizie che riguardano il mondo dei tribunali. Entrambe mi riportano a qualche anno fa. La prima notizia riguarda il caso Kroll, con Tronchetti Provera che è stato definitivamente assolto dopo 8 anni e tre dibattimenti in appello. Non sto a farvela lunga sul caso, perché è la tipica spy-story all'italiana. Io la seguii, quando emerse, perché mi occupavo di giudiziaria. Una storia da romanzo, e non scherzo. Invece, il fatto che Tronchetti Provera abbia dovuto sostenere un procedimento lungo 8 anni è più che altro una tragedia. Lui se l'è potuto permettere, essendo bastantemente ricco. Ma altri in otto anni avrebbero perso tutto. Certo, la cosa si sarebbe potuta risolvere prima. Come? Ricorrendo alla prescrizione. Ma Tronchetti non ha voluto, perché si riteneva innocente e in Italia, se ricorri alla prescrizione, vieni automaticamente bollato come colpevole. La seconda notizia riguarda Piercamillo Davigo, che intervistato dal Fatto Quotidiano, sostiene che abolire la prescrizione è cosa giusta, che bisogna permettere di peggiorare le sentenze in appello. Argomento difficile da trattare, me ne rendo conto. Però occorre che su questa cosa tutti ci facciano una riflessione. Perché non è così infrequente finire in tribunale per qualche motivo. Perché si è vittime, o perché si è accusati di qualcosa. Io ci sono finito per le querele, roba normale nel mio lavoro. Le ho sempre vinte. Ne ricordo una nella quale facevo fatica a mettere a fuoco addirittura l'articolo contestato perché l'avevo scritto quattro anni prima. E considerato che sono uno che fa almeno una decina di articoli a settimana (a settimana!), mi veniva difficile ricordare esattamente come fossi arrivato a scrivere quelle cose, dopo altri 2000 articoli. E si trattava in fondo solo di un articolo, per un reato assai minore. Provate a pensare a manager che prendono decisioni complesse, o a politici che vedono migliaia di persone all'anno. Il problema in Italia non sono i colpevoli che sfuggono alla giustizia. Ma gli innocenti che nella giustizia rimangono impigliati, e intanto le loro vite si consumano aspettando che un giudice abbia finalmente il tempo di occuparsi di loro.
Abolire la prescrizione, come da manuale del perfetto Stato totalitario, scrive Aldo Vitale il 9 novembre 2018 su Tempi. Diceva Montesquieu: «Quando l’innocenza dei cittadini non è garantita, non lo è neppure la libertà». Appunti per il ministro Bonafede e i giacobini grillini. La vicenda, se non fosse grave, sarebbe esilarante dato che proprio un ministro della Giustizia che si chiama Bonafede intende promuovere una riforma, la quale abbia lo scopo di elidere la prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado, presupponendo che tutti gli altri siano in malafede e violando proprio i più elementari fondamenti del giusto processo e dello Stato di diritto. La notizia dell’accordo intervenuto nella maggioranza di governo in tema di abolizione della prescrizione dopo il primo grado di giudizio non può che suscitare perplessità e preoccupazione non soltanto per chi esercita più o meno lucrosamente l’antica e nobile professione d’avvocato, ma anche per tutti coloro che abbiano sviluppato in coscienza un pur minimo spirito di giustizia e di buon senso.
IN LINEA CON ROUSSEAU E ROBESPIERRE. Una simile iniziativa non dovrebbe sorprendere oltre modo considerato il background culturale e ideologico che ispira il movimento grillino, cioè una scimmiottatura senza dubbio ridicola, ma non per questo meno pericolosa, del pensiero di Rousseau – non a caso scelto come riferimento ideologico della piattaforma del movimento grillino – il quale costituisce l’anello di congiunzione tra il pensiero dell’assolutismo politico del XVII secolo e il totalitarismo del XX secolo. In mezzo, non a caso, vi è la rivoluzione francese il cui acme rivoluzionario è da rinvenirsi nei terribili e grotteschi, nonché sanguinari, eventi del 1793, cioè l’anno in cui assunse il potere totale il giacobinismo, ovvero l’estremismo del pensiero rivoluzionario che – secondo gli storici, come per esempio Pierre Gaxotte o Albert Soboul – trovando nel pensiero di Rousseau il suo supporto ideologico e in Robespierre il suo braccio esecutore condusse al periodo del cosiddetto “terrore” in cui si poteva essere arrestati lunedì 23 marzo e ghigliottinati martedì 24 marzo. La celerità e la certezza dell’applicazione della legge erano, infatti, tra gli obiettivi primari dei giacobini, anche se ciò comportava un sacrificio per la giustizia e per i diritti del singolo.
PERSONE SENZA DIRITTI. Del resto, proprio Rousseau aveva teorizzato un sistema politico e giuridico in cui si imponeva la cessione totale di ogni associato con tutti i suoi diritti alla comunità tutta, così che nessuno poteva rivendicare diritti in contrasto con l’autorità rivoluzionaria e nessuno poteva dirsi innocente contro le accuse mosse dall’autorità rivoluzionaria la quale nel 1793 prese l’altisonante, quanto sostanzialmente vuoto, nominativo di “Comitato di salute pubblica”. In un tale scenario tutte le libertà e le garanzie giuridiche vengono meno, come del resto in ogni regime totalitario. Non a caso i grillini, che proprio a Rousseau e alla suddetta tradizione ideologica si richiamano espressamente, hanno proposto di abolire la prescrizione, senza, tuttavia, rendersi conto delle gravi conseguenze che una simile scelta produrrà sulla integrità dell’ordinamento giuridico italiano come ordinamento di uno Stato di diritto.
STATO SENZA LIMITI. L’istituto della prescrizione – che peraltro è esclusa per i reati puniti con la pena dell’ergastolo e quindi caratterizzati da una maggiore gravità, o più pregnante pericolosità sociale come si ama dire – è da ritenersi un cardine del sistema penale di uno Stato di diritto, cioè di uno Stato che riconosce i propri limiti e che all’interno di questi limiti riconduce la propria pretesa punitiva, almeno per reati non estremamente gravi. Il venir meno della prescrizione, anche se dopo il giudizio di primo grado, è, inoltre, un imbarazzante errore di “grammatica” giuridica e costituzionale fondamentale, poiché comporterebbe il venir meno della presunzione d’innocenza a cui la prescrizione è ontologicamente connessa. A questo punto sarebbe privo di senso anche il grado d’appello, ma come sopperire alla eventualità – molto verosimile del resto – che un unico giudice potrebbe sbagliarsi condannando ingiustamente un innocente? La prescrizione è, allora, da ricondurre necessariamente al principio della presunzione d’innocenza, cristallizzato dal secondo comma dell’art. 27 della Costituzione, sacrificato il quale si possono considerare sacrificate tutte le altre libertà, anzi la libertà in quanto tale, come ha insegnato Montesquieu per il quale, infatti, «quando l’innocenza dei cittadini non è garantita, non lo è neppure la libertà».
PRESCRIZIONE COME ASSOLUZIONE. Quando decorre il termine per la maturazione della prescrizione, diversamente da come i neo-giacobini odierni sostengono, non significa che un colpevole l’abbia fatta franca, ma piuttosto che non si è riusciti a smentire la presunta innocenza dell’imputato nell’arco di tempo previsto dalla legge per farlo, la quale innocenza, a questo punto, si consolida talmente da non poter nemmeno più essere ritenuta semplicemente presunta, ma ormai sostanzialmente certa. La giurisprudenza più accorta è ben consapevole di ciò; si pensi, per esempio, a quanto enunciato proprio dalla stessa Cassazione penale con la sentenza n. 37583/2009 in cui si ribadisce che «la prescrizione dichiarata con sentenza non può essere, nei gradi successivi, oggetto di rinuncia, sicché una dichiarazione in tal senso in sede di impugnazione va intesa come richiesta di assoluzione nel merito». In altri termini: la Cassazione equipara gli effetti della dichiarazione di intervenuta prescrizione tramite sentenza agli effetti della richiesta da parte dell’imputato, e dell’accoglimento di una tale richiesta, per l’assoluzione nel merito, a tal punto che l’avente diritto, infatti, non può più rinunciarvi. La prescrizione rappresenta, quindi, il limite temporale che un ordinamento penale deve possedere per evitare di diventare eterno o incerto e quindi sostanzialmente totalitario, poiché in modo totalizzante disporrebbe della libertà dell’individuo, perfino se realmente colpevole.
LIBERTÀ IN PERICOLO. Similmente vi sono, non a caso, altre imprescindibili garanzie che tutelano la libertà dell’individuo e che orientano il sistema penale secondo i principi dello Stato di diritto e non secondo le storture dello Stato totalitario: si pensi, per esempio, al divieto di reformatio in pejus, al divieto di analogia, al favor rei, al divieto di retroattività della legge più sfavorevole al reo, al potere di grazia che spetta al presidente della Repubblica, alla revisione e a tutto ciò che direttamente o indirettamente consacra il corpo del cosiddetto “giusto processo”, in rispetto dei princìpi sanciti dalla Costituzione e dalla tradizione giuridica occidentale in genere e italiana in particolare. L’abolizione della prescrizione, dunque, rappresenta un grave danno per la tenuta della democrazia e delle più elementari libertà e garanzie individuali che, invece, dovrebbero essere quanto più sacre in uno Stato di diritto che si presuma realmente tale.
LA LEZIONE DI CARRARA. Non è un caso, in conclusione, che uno dei padri della scienza penalistica italiana, come Francesco Carrara, abbia avuto modo di insegnare l’importanza giuridica dell’istituto della prescrizione: «Interessa la punizione dei colpevoli, ma interessa altresì la protezione degli innocenti. Un lungo tratto di tempo decorso dopo il fatto criminoso che vuolsi obiettare ad alcuno rende a questo punto infelice, quasi impossibile, la giustificazione della propria innocenza […]. Qual sarebbe l’uomo che chiamato oggi a dar conto di ciò che fece in un dato giorno dieci anni addietro sia in grado di dire e dimostrare dove egli fosse, e come sia falsa la imputazione che contro di lui si dirige? La perfidia di un nemico può avere maliziosamente tardato a lanciare lo strale della calunnia per farne più sicuro lo effetto».
In cella 7 anni dopo il reato: la prescrizione è davvero inutile? Il caso di uno chef e di una accusa controversa di violenza sessuale, con la condanna definitiva l’uomo ha perso tutto, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 Agosto 2018 su "Il Dubbio". La certezza della pena: la storia di S. B. dovrebbe far riflettere tutti quelli che la invocano come panacea dei mali che affliggono il sistema giudiziario italiano. S. B è uno chef che ha appena compiuto 50 anni. Nato a Venezia, fin da giovane ha avuto una grande passione per la cucina, e ha lavorato in molti ristoranti in Italia e all’estero. Trasferitosi a Parma agli inizi del 2000, decide di fare il grande passo e di mettersi in proprio aprendo un ristorante di pesce nella patria del prosciutto e del parmigiano. Il successo è immediato. Nonostante il locale sempre pieno, come tutti gli chef, anche S. B. dopo qualche tempo sente il bisogno di rimettersi in gioco e di tentare l’avventura altrove. Nella primavera del 2011 la scelta dunque di vendere il locale di Parma per aprirne uno alle Cinque Terre. La trattativa si rivela alquanto complicata. L’acquirente, una donna della città emiliana, tergiversa, tratta sul prezzo, allunga i tempi. S. B ha invece fretta, avendo già versato un importante acconto per il nuovo ristorante in Liguria. Quei soldi sono quindi indispensabili. Una sera di giugno di quell’anno, quando sembra che finalmente tutto si è sistemato, la donna ci ripensa e si presenta nel ristorante per comunicarglielo. La discussione è molto accesa. Volano parole grosse. S. B. alza anche le mani. La donna esce dal locale e corre subito dai carabinieri. «S. B. l’ha violentata», scrivono i militari, allegando il referto del pronto soccorso che parla di «abrasione ad un braccio». Passano solo pochi giorni e S. B. si ritrova nel carcere di massima sicurezza di Parma. «Tentata violenza sessuale», l’accusa riportata sull’ordine di custodia cautelare. Inutili i tentativi di difendersi. La parola della donna contro quella di S. B. E poi quel referto medico. Dopo alcuni mesi trascorsi in carcere, i domiciliari. Poi l’obbligo di dimora. Finché agli inizi del 2012 S. B. è completamente libero. Il progetto di trasferirsi alle Cinque Terre è rimasto nella testa di S. B. ed è difficile rimanere a Parma dopo quanto successo. Il sogno di avere un locale nel frattempo è sfumato e i soldi dell’anticipo definitivamente persi. Arriva l’estate e S. B. riparte dalla cucina di un ristorante vicino al porto di La Spezia come aiuto cuoco con un contratto a chiamata. Le indagini si chiudono nel 2014. Il processo inizia l’anno dopo. Arriva la condanna in primo ed in secondo grado: 4 anni e mezzo. Nel frattempo S. B. si è sposato, ha comprato casa con un mutuo, ed è tornato a fare lo chef in un importante ristorante delle Cinque Terre. Ma agli inizi di quest’estate la Cassazione conferma la sentenza di condanna. Nonostante il “presofferto”, S. B. deve andare in carcere: i reati di violenza sessuale non ammettono la sospensione dell’ordine di esecuzione. I carabinieri lo vengono a prendere all’alba della scorsa settimana. Secondo la legge deve effettuare un percorso di rieducazione, dietro le sbarre. Anche se S. B. il percorso di rieducazione in questi anni l’ha già fatto da solo: si è sposato, ha rifatto la gavetta fino a guadagnarsi un lavoro a tempo indeterminato (un miraggio di questi tempi), ha comprato casa. Ieri S. B. è stato licenziato: la moglie, a carico, sta cercando urgentemente lavoro. La richiesta alla banca di sospensione del mutuo verrà presentata oggi. Ultima nota. Il ristorante in cui S. B. lavorava è rimasto senza chef proprio nel periodo clou della stagione. La certezza della pena.
IL GIUSTIZIALISMO GIACOBINO E LA PRESCRIZIONE.
Giustizia, 13 anni per arrivare in appello. Ex procuratore capo, cancelliere e altri 9 imputati prescritti. Gli imputati erano accusati del saccheggio del Palazzo di Giustizia di Torre Annunziata: 20 milioni di euro depredati, attraverso un gioco di falsi mandati di pagamento di rimborsi e consulenze di giustizia, orchestrato da un cancelliere con la responsabilità del procuratore capo, Alfredo Ormani, scrive Vincenzo Iurillo il 6 maggio 2016 su “Il Fatto Quotidiano”. Ci volevano 13 anni per far estinguere i reati di cui erano accusati i principali imputati del saccheggio del Palazzo di Giustizia di Torre Annunziata: 20 milioni di euro depredati, secondo l’accusa, attraverso un gioco di falsi mandati di pagamento di rimborsi e consulenze di giustizia, orchestrato da un cancelliere con la responsabilità del procuratore capo. Ci volevano 13 anni eppure è successo: il colpo di spugna della prescrizione ha cancellato in appello le condanne a sei e cinque anni in primo grado dell’ex capo della Procura di Torre Annunziata Alfredo Ormanni e dell’ex supercancelliere Domenico Vernola. Entrambi erano alla sbarra a Roma – competente quando è implicato un magistrato del napoletano – in un processo con 21 imputati per reati che spaziavano dall’associazione a delinquere al peculato, falso e riciclaggio. La Corte d’Appello ha sentenziato 11 prescrizioni, 8 condanne per riciclaggio e 2 assoluzioni nel merito. Colpa dei tempi biblici di un processo di primo grado durante il quale il collegio giudicante è cambiato dieci volte. Spiega un avvocato: “Anche le accuse di riciclaggio aggravato dovrebbero prescriversi tra un mese, non faranno nemmeno in tempo a depositare le motivazioni: i giudici si sono presi 90 giorni di tempo per redigerle”. Basterà presentare un ricorso in Cassazione, e la prescrizione scatterà anche per molti dei condannati in appello. E così tanti saluti alle responsabilità penali di uno dei più colossali scandali della provincia napoletana del decennio scorso. Esplose violentissimo nel 2004, al termine di una ispezione ministeriale, che contestò a Vernola un giro fraudolento di rimborsi per spese di giustizia. Il cancelliere fu sospeso e allontanato, si aprì una indagine che coinvolse il procuratore Ormanni, firmatario di centinaia di mandati di pagamenti ritenuti fasulli, e i parenti di Vernola, sospettati di essersi fatti girare i soldi raccolti dal cancelliere tramite finti ‘mandati a se stesso’ per trasformarli in auto, case e beni di lusso. Nel mirino le spese di giustizia di alcune importanti indagini di Torre Annunziata: così finiscono sotto inchiesta a Roma anche alcuni esponenti delle forze di polizia giudiziaria che materialmente le condussero, presentando note spese ritenute anch’esse finte o gonfiate. Il Gup decreta il rinvio a giudizio il 25 maggio 2006. Ma il processo parte al rallentatore perché il collegio giudicante cambia in continuazione. Ed ogni volta si riparte da capo. Udienze celebrate solo per fissare rinvii. Senza istruttorie. Senza testimonianze. Un processo fermo. Partito in pratica solo nel 2012, quando finalmente il collegio si stabilizza. Quindi due anni di udienze per la sentenza di primo grado. E due per la fissazione dell’appello. Tempi normali, sui quali però ha pesato il lungo stop iniziale. Allora si stagliano come due eroi gli unici imputati che hanno rinunciato alla prescrizione per ottenere un’assoluzione piena. Si chiamano Emilia Salomone e Sergio Profeta, rispettivamente cancelliere a Torre Annunziata ed ispettore di polizia del commissariato di Sorrento. Assistiti dagli avvocati Francesco Matrone e Giuseppe Ferraro, il cancelliere e il poliziotto erano stati condannati in primo grado e licenziati in tronco. Ora avranno diritto al reintegro e alle spettanze perse. Gli anni smarriti nel lungo tunnel della giustizia, quelli no: sono persi per sempre.
Appello contro i Giustizialisti Giacobini (e invito alla sollevazione contro il Klan delle tre G). Come si sa, i Giustizialisti Giacobini dormono, la notte, adagiati fra le teste mozzate dei nemici uccisi. Di essi hanno bevuto il sangue. Delle loro carni si sono saziati. Non c’è nulla di più detestabile di un Giustizialista Giacobino. In lui infatti convergono, tautologicamente, due orribili vizi: l’essere giustizialista, e l’essere giacobino. E’, come si sa, una combinazione devastante ed esiziale. Da essa proviene ogni male della terra. Si pensa che anche Eva, quella di Adamo, fosse malata di questa malattia. Non parliamo di Giuda. Si nutrono cauti sospetti anche su Robespierre. Data la gravità dei loro crimini, siamo tutti in grado di riconoscere i Giustizialisti Giacobini, tutti conosciamo le loro malefatte. Appare dunque superfluo definirli. Si sa quello che sono. Nomina sunt consequentia rerum. Dunque parliamo di fatti e bando alle ciance:
1) Il Giustizialista Giacobino è colui che non evoca la giustizia come risoluzione di alcuni problemi giudiziari, ma vorrebbe perversamente che essa li risolvesse tutti. Tutti ovviamente vogliamo la giustizia e tutti, socraticamente, sappiamo che la “giustizia è giusta”. Quello che è ingiusto ovviamente è l’uso giacobino e giustizialista della giustizia. Tale uso si caratterizza per la pretesa, assolutamente ignobile, di processare coloro che sono indiziati, e di condannare coloro che sono risultati colpevoli dagli atti processuali, quando quei reati ci riguardano e riguardano i nostri interessi. I Giudici Giustizialisti e Giacobini (l’orribile Klan delle Tre G) se ne fregano della micro o macro criminalità quotidiana e di strada. Come se un criminale abituale e seriale, ad esempio il ladruncolo di strada extra comunitario, fosse ladro tanto quanto (forse meno!) di finanzieri e politici corrotti e corruttori, di falsificatori di bilanci e dispensatori di mazzette, di evasori fiscali. Come se il gioielliere che spara al ladro che l’ha privato di tutti i suoi averi, fosse colpevole come il ladro stesso!
2) Si dirà che tale idea della differenziazione della giustizia ha un che di antiquato, di classista, distingue ricchi da poveri, privilegiati e non, potenti e miserabili. Ma questa, ovviamente, è la tipica obiezione del Giustizialista Giacobino. Questa ignobile creatura sa infatti molto bene, ma finge di non sapere, che se la giustizia è sempre giusta non sempre lo sono i giudici. Essi si dividono in Giudici Giustizialisti Giacobini e Giudici Non Giustizialisti e Non Giacobini. I primi condannano per scopi politici, per rancori personali, per invidia sociale. I secondi sono animati da giustizia, saggezza e santità. Per riconoscere una sentenza come Giustizialista basta individuare chi è stato colpito da essa. Se è qualcuno che ha sparato a zero sul Giustizialismo Giacobino, potete stare certi che la sentenza sarà il prodotto del medesimo. E’ un circolo da cui non si sfugge. Ne consegue che, chi denuncia il Giustizialismo Giacobino, verrà preferibilmente condannato dai Giudici Giustizialisti. La denuncia del Giustizialismo causa la vendetta dei Giustizialisti. Qualcuno forse obietterà che spesso i giudici vengono definiti Giustizialisti Giacobini a sentenza di condanna avvenuta. Ma a questo è facile rispondere che, fino ad allora, l’imputato ingiustamente condannato non si era reso conto di quando il suo giudice fosse Giustizialista e Giacobino. Certo i cittadini sono troppo onesti e hanno un troppo elevato senso della giustizia per concepire che un giudice possa essere così perverso. E quando lo scoprono sulla loro pelle, perché vengono condannati, sentono il dovere morale di denunciarlo.
3) Altra cosa del Giustizialismo Giacobino è invocare una giustizia rapida, inflessibile, con inasprimento delle pene e accelerazione dell’iter processuale, incarcerazione preventiva prolungata e cancellazione delle attenuanti e dell’habeas corpus per i reati commessi dai nemici giurati della comunità civica e dunque della giustizia giusta. Neri, maghrebini, rumeni ed albanesi, frange estremiste e disperate, vagabondi che insozzano le nostre strade, devastatori e disturbatori dell’ordine pubblico di qualsiasi etnia, debbono patire la giustizia giusta, severa e spietata, e questo ovviamente non è Giustizialismo. Il Giustizialismo Giacobino è infatti l’uso politico, ingiusto ed abusivo della giustizia. In questo caso si tratta invece di eque pene (anche troppo morbide, diciamola tutta) che dimostrano che lo Stato ha forte e coerente il senso della giustizia giusta.
Riassumiamo dunque. La giustizia è sempre giusta, ma i giudici possono essere giusti ed ingiusti. I giudici ingiusti sono i Giustizialisti Giacobini, che condannano animati da sete di vendetta politica. Il cittadino che denuncia un giudice come Giustizialista Giacobino lo fa perché capisce, presto o tardi e sulla sua pelle, che tale giudice lo odia e vuole condannarlo. Su di lui piove crudele la vendetta dei Giustizialisti. Pertanto, alla fine della sua giornata, il Giudice Giustizialista può aver condannato anche moltissimi innocenti. E’ dunque opportuno costituire un Partito degli Innocenti (P.d.I.) che ribatta colpo su colpo all’offensiva dei Giudici Giustizialisti e Giacobini. Il Klan delle tre Gdeve essere colpito e affondato. Trattiamo finalmente da esuli i latitanti e da innocenti i colpevoli. Distinguiamo fra colpevoli-colpevoli, innocenti-innocenti, innocenti-colpevoli e colpevoli-innocenti. Rendiamo un utile servizio all’umanità e al nostro paese. Diciamo basta al Giustizialismo Giacobino e ai giudici che perversamente lo praticano! Viva la libertà! Viva la giustizia giusta! Abbasso la giustizia ingiusta! Prescrizione per tutti!
Glossario (nel caso ci fosse ancora qualcuno che non sappia del Klan delle Tre G)
Giudici: Strane creature, in genere provenienti dai reparti neuropsichiatrici, la cui sindrome si manifesta attraverso la pretesa di giudicare altri esseri umani, in genere mentalmente molto più stabili di loro, mediante uno strano sistema di norme, astratte e sconclusionate, chiamate leggi. Si tratta di un comportamento evidentemente insolito, assurdo, e chiaramente inficiato da delirio paranoico e di onnipotenza. Si guardassero a casa loro e nel loro orto, invece di cercare la trave del vicino nel primo cammello che capita a tiro (forse non è così, non mi ricordo bene...). Questo non vuol dire che alcuni di questi strani individui non si comportino egregiamente e tendano ad assolvere le persone che noi vogliamo che assolvano (compresi noi stessi). Ma gli altri sono inguaribili strafottenti, che esercitano la giustizia come se brandissero una clava.
Giustizialismo: Il temine in sé è neutrale e vorrebbe indicare, immaginiamo, l’esercizio della giustizia tramite la condanna dei colpevoli. In realtà il termine tende ad evidenziare il comportamento della maggior parte dei giudici, che condannano tutti quelli che ritengono colpevoli e non solo quelli che noi onesti cittadini vorremmo che fossero giudicati tali. Il Giustizialismo è quindi definibile come l’attitudine ad esercitare la giustizia in modo abusivo. Questo ovviamente comporta il problema di chi possa giudicare i giudici riguardo a tali abusi. La risposta è quanto mai ovvia e scontata: coloro che si oppongono al giustizialismo!
Giacobini: Esseri dalle apparenti sembianze umane (o che assumono ingannevoli sembianze umane), ma probabilmente provenienti da altri pianeti e comunque non dalle comunità occidentali progredite del nostro pianeta. Coloro i quali affermano che i giacobini nascano in Occidente, e affondino le loro radici culturali nella tradizione occidentale, sono probabilmente giacobini essi stessi. I giacobini sono esseri talmente crudeli che spesso si divorano tra di loro. Sono dotati di una doppia fila di zanne e secernono liquidi urticanti dai pori delle loro pelle squamosa. Quando sorridono, si vede che non lo sanno fare. Né si divertono mai, perché passano il loro tempo a tramare contro l’umanità. Si riuniscono in luoghi oscuri e fangosi dove praticano l’accoppiamento fra coppie non sposate (e spesso dello stesso sesso) e il sacrificio umano (bambini soprattutto). Quando si travestono da uomini e popolano le nostre città, vivono spesso anche nei quartieri alti. In tal caso si riuniscono in salotti bene e firmano petizioni allo scopo di epurare l’umanità dai suoi elementi migliori. Tendono naturalmente a diventare giudici (per natura e per attitudine, data la loro devastata biologia e la loro perversione innata) o a influenzare i giudici, probabilmente per mezzo di facoltà telepatiche e di controllo della mente.
“I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo e nel presentare il loro programma di governo si affrettano a sottolineare che tra i primi punti ci sarebbe l’abolizione della prescrizione. Prescrizione che, tra l’altro, è stata allungata nei tempi dal Governo Renzi. Anziché voler lavorare per una giustizia vera e per garantire tempi certi nei processi ai cittadini, così come sancito dalla nostra Costituzione, i grillini optano per procedimenti giudiziari infiniti che paralizzerebbero la vita delle persone, anche di quelle innocenti. Se malauguratamente diventassero forza di governo ci sarebbe davvero di che preoccuparsi”. Così Gabriella Giammanco, parlamentare di Forza Italia. 18 ottobre 2015.
Quali saranno i primi punti di un governo a 5 Stelle? “La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l’onesta, mettere mano alla giustizia, eliminare la prescrizione, mettere persone oneste nelle amministrazioni”. Lo sostiene Gianroberto Casaleggio, che ha risposto così ai giornalisti che, a Italia 5 Stelle, gli chiedevano i primi punti del programma. Il primo criterio sarà “la fedina penale”, i sospettabili non sarà possibile sceglierli. La piattaforma è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi, il problema sarà fare una sintesi. “Fra i primi punti del programma dell’ipotetico governo del Movimento 5 stelle c’è l’abolizione della prescrizione, il che vuol dire la possibilità di tenere sotto processo un innocente per tutta la vita. I grillini si dimostrano sempre più funzionali alla retorica giustizialista che tanti danni ha provocato in questi anni, non avendo mai nascosto del resto la loro avversione verso il Parlamento e le Istituzioni rappresentative”. Lo afferma Deborah Bergamini, responsabile Comunicazione di Forza Italia. 18 ottobre 2015
LA PRESCRIZIONE. Dissertazione di Giovanni Ciri, sabato 18 maggio 2013. "Detesto il fanatismo, la faziosità e le mode pseudo culturali. Amo la ragionevolezza, il buon senso e la vera profondità di pensiero". La Prescrizione. E' l'istituto più odiato dai giustizialisti, sto parlando della prescrizione del reato. Vorrebbero tempi di prescrizione lunghissimi, praticamente infiniti. Non conta quando hai commesso un reato, dicono, conta se lo hai commesso, e se lo hai commesso devi essere punito, punto e basta. E non va loro giù che la prescrizione intervenga dopo che il processo ha avuto inizio. Citano addirittura gli Stati Uniti d'America, dove i termini di prescrizione si interrompono appena è stata emessa la sentenza di rinvio a giudizio. Si, è proprio così, negli Usa la prescrizione si interrompe dal momento in cui il sospettato è rinviato a giudizio, ma, quali sono i termini di prescrizione negli Stati uniti d'America? Un delitto che comporta la pena dell'ergastolo è sempre perseguibile. Ogni altro delitto grave (rapine, furti, stupri, sequestri di persona) è perseguibile entro CINQUE ANNI. I delitti meno gravi sono perseguibili entro DUE ANNI, quelli minimi entro UN ANNO. Esclusi i delitti gravissimi, sempre perseguibili, negli Usa ogni crimine deve essere perseguito entro termini temporali abbastanza ristretti. Nel momento in cui inizia il processo però i termini di prescrizione si interrompono, e si evitano in questo modo eventuali manovre dilatorie. Questo non fa sì che l'imputato debba passare lunghi periodi nella “zona di nessuno” in cui necessariamente vive chi è sottoposto a procedimento penale. Negli Usa infatti i processi sono piuttosto rapidi. Le udienze sono quotidiane, i giurati vivono praticamente da reclusi, impossibilitati addirittura a leggere i giornali o a guardare la TV, questo perché chi è chiamato a giudicare della vita di un essere umano deve formarsi la propria convinzione in base a ciò che emerge dal dibattimento, non dai talk show televisivi o dai predicozzi di giornalisti alla Travaglio. La differenza con quanto avviene in Italia è lampante. Un giudice popolare italiano ascolta oggi un teste, fra due mesi un altro, fra sei mesi la requisitoria del PM e fra otto l'arringa del difensore. Se tutto va bene fra un anno entrerà in camera di consiglio (fanno eccezione i processi a carico di Berlusconi che sono di solito rapidissimi). E' difficile pensare che in questo modo il giudice popolare italiano possa maturare una convinzione ponderata sulla base di quanto emerge dal dibattimento. Si aggiunga che negli Usa il pubblico accusatore non è, come in Italia, un collega del giudice, che la difesa contribuisce alla selezione della corte giudicante, che i giurati devono decidere alla unanimità e ci si renderà conto che in quel paese il processo penale, anche se esclude i tre gradi di giudizio automatici, è molto più garantista che nel nostro. E' interessante mettere in evidenza una cosa: se nel nostro paese fosse in vigore la normativa americana molti procedimenti a carico di Berlusconi non avrebbero neppure potuto iniziare. Come hanno agito infatti i magistrati col cavaliere? Non appena è entrato in politica hanno iniziato inchieste riguardanti vecchie storie sulle quali sino a quel momento nessuno aveva indagato o, se indagini c'erano state le loro risultanze giacevano da tempo sotto montagne di pratiche inevase. Nel processo All Iberian il cavaliere è stato rinviato a giudizio nel 1996 per finanziamento illecito ai partiti, reato che è avvenuto (se è avvenuto) fra il 1991 ed il 1992, e di certo non è un reato grave (negli Usa non è neppure previsto come reato). La prima inchiesta a carico di Berlusconi, quella per le famose tangenti alla guardia di finanza, riguarda diverse tangenti, corrisposte a diversi soggetti, la prima della quali risalente al 1989, l'ultima al 1994. Il rinvio a giudizio è del 1995, quanto meno le prime tangenti non avrebbero quindi dovuto rientrare nel procedimento che, come si sa, si concluse con la piena assoluzione dell'imputato. Una indagine a carico di Berlusconi per traffico di droga si è conclusa nel 1991 con una archiviazione, i fatti risalgono al 1983. Non voglio continuare perché non sono e non mi interessa essere uno specialista in Belusconismo giudiziario (ho preso i dati dalla rete). Mi va solo di sottolineare che i termini americani di perseguibilità avrebbero reso assai più difficile il lavoro di magistrati assolutamente imparziali e privi di pregiudizi come Antonio Di Pietro o Ilda Boccassini. Ma, a parte ogni tecnicismo, quale è la filosofia che sta dietro l'istituto della prescrizione, che i forcaioli di ogni tipo odiano? La risposta è semplicissima, la si può riassumere in una sola parola: garantismo. Garantismo che vale a tre livelli. In primo luogo, una persona non può essere indagata a vita. Se sei indagato vivi in una situazione di estrema provvisorietà. Se cerchi lavoro tutto diventa più difficile se è in corso un procedimento giudiziario a tuo carico, se il lavoro lo hai già le prospettive di carriera si complicano terribilmente. Chi è indagato ha diritto che in tempi ragionevolmente brevi il suo caso si chiuda. Ha diritto a questo anche chi è stato offeso dall'eventuale azione criminosa dell'indagato. Insomma, una giustizia rapida è nell'interesse di tutti, meno che dei criminali e dei calunniatori di professione. In secondo luogo, a meno che non si tratti di reati gravissimi, nessuno può essere chiamato a rispondere di cose avvenute molto tempo prima, con tutte le difficoltà di ricordare eventi, nomi, situazioni. Infine, ed è la cosa più importante di tutte, i termini di perseguibilità tendono ad impedire che qualche solerte magistrato possa perseguitare un cittadino andando a spulciare nella sua vita passata in cerca di qualche reato. Questa in particolare è la filosofia che sta dietro alla normativa americana. Tizio può essere indagato solo se esiste una specifica ipotesi di reato a suo carico e se c'è il ragionevole sospetto che possa essere implicato in quel reato. I magistrati insomma devono indagare su reati accertati, non andare alla ricerca di reati, meno che mai lo devono fare concentrandosi su una persona, ancora meno andando a spulciare tutta la sua esistenza per appurare se per caso ci sia in essa qualcosa di poco regolare. L'istituto della prescrizione è inoltre collegato teoricamente con il principio della presunzione di innocenza. Non è vero che la assoluzione per prescrizione equivale ad una condanna. I termini di prescrizione fissano dei limiti alla azione del magistrato: questi deve riuscire a far condannare il sospettato da lui ritenuto colpevole entro quei limiti, se non ci riesce il sospettato è innocente perché nei paesi civili la innocenza è presunta. Da quanto si è detto emerge che non è affatto un caso che i giustizialisti forcaioli di tutte le risme abbiano profondamente in odio la prescrizione. Il loro ideale è una società in cui tutti si sia indagati, tutti si viva sempre sotto sorveglianza. Un “magistrato” come Ingroia è arrivato addirittura a proporre, in campagna elettorale, la inversione dell'onere della prova nei processi per reati finanziari: se Tizio è sospettato di evasione gli si confischino i beni, ha detto, poi lui avrà sei mesi di tempo per dimostrare la sua innocenza... magnifico! A Tizio sono concessi sei mesi per provare la sua innocenza, ma dieci anni per prescrivere un reato sono pochi, per il dottor Ingroia! E ora questo signore è di nuovo magistrato, non invidio valdostani. La cosa grave è che simili idee forcaiole sono molto diffuse nel paese. Molta, troppa gente è convinta che il garantismo sia quasi un lusso, che tutto sia lecito pur di mettere dentro un presunto corrotto. Non si capisce che ogni arbitrio è possibile se vengono meno le fondamentali garanzie a tutela della libertà dei singoli, ogni arbitrio ed anche ogni corruzione.
Prescrizione: cos'è e cosa cambia. Secondo l'intesa Lega-M5S, scatterà dopo la sentenza di primo grado. Entrerà in vigore dal 2020 con la riforma del processo penale. Ecco come cambieranno i processi, scrive Eleonora Lorusso il 9 novembre 2018 su "Panorama". L’accordo è stato raggiunto: l’emendamento al ddl Anticorruzione, fortemente voluto dal M5S e inserito nel programma di governo, approderà in Aula la prossima settimana e modificherà i tempi dei processi. La prescrizione, che finora prevedeva lo stop ai procedimenti in caso di superamento di un certo limite di tempo, interverrà dopo la sentenza di primo grado: nelle intenzioni, dunque, permetterà di arrivare fino alla fine dell’iter processuale, con una sentenza certa. I contrari sostengono, invece, che con la novità si dilateranno ulteriormente i tempi già lunghi della giustizia italiana. Per evitare questo effetto, che rischia di tenere un soggetto nel limbo per anni, il governo ha chiarito che il provvedimento entrerà in vigore nel 2020 dopo la riforma del processo penale, che mira proprio a snellire e migliorare le procedure processuali. Ecco in cosa consiste la riforma della prescrizione.
Prescrizione: cos’è. La prescrizione prevede che un reato sia estinto, dunque che il procedimento che lo riguarda abbia fine, “decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria”, come stabilito dall’articolo 157 del Codice penale, poi modificato dalla legge n. 251/2005 (ex Cirielli). In pratica, trascorso un certo periodo, il reato non può più essere perseguito e chi è sospettato di averlo commesso non è più processato. Il senso della norma si rifà alla convinzione che, dopo un determinato numero di anni, non sia più nell’interesse della comunità perseguire alcuni reati oppure non ci siano più le condizioni per farlo. Fanno eccezione i reati di particolare gravità, per i quali è prevista la pena dell’ergastolo.
Cosa cambia. Nel ddl Anticorruzione “ci sarà la riforma della prescrizione che prevede l'interruzione dopo la sentenza di primo grado ed entrerà in vigore il prossimo anno con la riforma epocale del processo penale”. Così il Guardasigilli Alfonso Bonafede ha annunciato la modifica dei termini sulla prescrizione che lo stesso ministro ha spiegato così: “La prescrizione resta quindi così com'è, l'emendamento rimane al ddl Anticorruzione che andrà in aula la settimana prossima”. La riforma, che prevede la sospensione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado, sarà contenuta in una “legge delega che entro il dicembre 2019 stabilirà tempi certi per la durata dei processi”, ha spiegato il ministro della Pubblica Amministrazione, Giulia Bongiorno, inizialmente molto critica nei confronti del provvedimento.
Quanti processi cancellati? Uno dei rischi maggiori paventati dai detrattori della riforma è che i tempi della giustizia possano allungarsi ulteriormente rispetto agli attuali. Al contrario, i sostenitori invocano lo stop alla prescrizione per evitare che i processi siano cancellati per lungaggini spesso “agevolate” dagli avvocati, con ricorsi ad arte e richieste di rinvii, lasciando dunque impuniti coloro che sono sospettati di aver commesso un reato. Secondo i dati del ministero della Giustizia, nel 2017 i processi terminati senza sentenza per superamento dei tempi previsti sono stati 125.564, in calo rispetto ai 136.888 del 2016 e i 130.208 del 2015. In generale, quasi un processo su 10 (9,4%) degli oltre 1,3 milioni annuali in Italia non arriva a termine. Nelle grandi città come Roma, però, la percentuale arriva anche al 40%. Situazione analoga anche a Torino, Napoli e Venezia. Nel 50% dei casi circa la prescrizione interviene nella fase preliminare, ossia in quella delle indagini che precedono il rinvio di giudizio: in sostanza non si fa in tempo ad arrivare in tribunale, o perché le indagini durano troppo o perché i fascicoli rimangono in attesa di essere presi in mano dai magistrati per un eccesso di denunce e di lavoro, o ancora per disfunzioni organizzative. Sono sempre i numeri del ministero della Giustizia a indicare che nel 2017 i casi di prescrizione in questa fase sono stati 66.904, a fronte dei 27.436 avvenuti a processo iniziato. I casi di estinzione del reato in fase di appello sono stati invece 28.125, pari al 25,7%, in Cassazione 670, davanti ai Giudici di Pace2.439. L’andamento è comunque in calo negli anni, con una tendenza alla diminuzione dei casi di prescrizione.
Le posizioni: il governo. Il Movimento 5 Stelle ha voluto inserire la riforma nel contratto di governo sostenendo che la prescrizione possa rappresentare uno strumento per evitare di arrivare a una condanna, soprattutto da parte di soggetti coinvolti in casi di corruzione, tanto da aver inserito la norma nel ddl Anticorruzione. Si ritiene, infatti, che spesso gli avvocati ricorrano a richieste di rinvii, di spostamento di sede processuale o altre forme di dilazione dei tempi per arrivare proprio alla prescrizione del reato per il proprio assistito. Il premier Conte è intervenuto su Twitter spiegando: “Riforma prescrizione e accelerazione dei processi penali: avanti spediti per l'attuazione del contratto di governo. Certezza del diritto e dei tempi processuali sono i nostri obiettivi. Come sempre ci confrontiamo e come sempre troviamo la soluzione migliore per gli italiani".
Ha parlato di “processi brevi e tempi certi” anche il vicepremier Di Maio, aggiungendo l’hashtag #BastaImpuniti. Al contrario la Lega si era mostrata inizialmente contraria, temendo un ulteriore aggravamento delle condizioni di lentezza della giustizia italiana, che possono finire per tenere un cittadino “in ostaggio” per anni prima di arrivare a sentenza, magari di assoluzione. L’annuncio del ministro della Giustizia, Bonafede, sulla riforma della prescrizione aveva scatenato una reazione negativa anche da parte del ministro per la PA, Bongiorno. L’avvocato aveva definito il provvedimento una “bomba atomica nel processo penale”, paventando il rischio di “bloccare la giustizia per sempre”. Anche il vicepremier Salvini aveva manifestato perplessità. Alla fine l’accordo di governo è stato raggiunto, dopo un vertice al quale hanno preso parte lo stesso Salvini, l’altro vicepremier Di Maio, il premier Conte e il Guardasigilli Bonafede. La svolta è arrivata decidendo di far entrare in vigore la norma solo dopo la riforma del processo penale, da gennaio 2020.
Il "no" degli avvocati- Ad essere fortemente critici nei confronti della norma sono anche gli avvocati. L’Unione delle Camere penali ha proclamato quattro giorni di sciopero dal 20 al 23 novembre, ritenendo che la prescrizione, soprattutto in Italia, rappresenti una “difesa” degli imputati dall’eccessiva lunghezza di processi e indagini preliminari. Anche in caso di sentenza positiva, infatti, un cittadino sarebbe costretto ad attendere anni prima di un giudizio definitivo.
Non si vuole curare il male, ma vogliono eliminare il rimedio di tutela.
Prescrizione. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La prescrizione è un istituto giuridico che concerne gli effetti giuridici del trascorrere del tempo. Ha valenza in campo sia civile sia penale. Nel diritto civile indica quel fenomeno che porta all'estinzione di un diritto soggettivo non esercitato dal titolare per un periodo di tempo indicato dalla legge. La ratio della norma è individuabile nell'esigenza di certezza dei rapporti giuridici. In diritto penale determina l'estinzione di un reato a seguito del trascorrere di un determinato periodo di tempo. La ratio della norma è che, a distanza di molto tempo dal fatto, viene meno sia l'interesse dello Stato a punire la relativa condotta, sia la necessità di un processo di reinserimento sociale del reo. La prescrizione è motivata dal diritto dell'imputato a un giusto processo in tempi ragionevoli (superati i quali il reato si estingue), dal fattore tempo che rende oggettivamente più difficile (ad esempio per l'inquinamento delle prove, la scomparsa o minore memoria e attendibilità dei testimoni) sia l'efficacia dell'azione penale sia l'esercizio del diritto di difesa, quanto più le indagini e il processo avvengono anni dopo il fatto oggetto di reato. Altra considerazione è il contrasto di un termine di prescrizione dei reati col principio della certezza del diritto e della pena, che si realizza in primo luogo con la certezza prima che con l'intensità e l'estensione temporale (la durata e la "durezza") delle misure detentive. La certezza viene a mancare quando il reato non può più essere perseguito con una sentenza di condanna perché i termini di prescrizione scadono mentre i processi sono ancora in corso. Questo accade ad esempio se la legge fissa i termini per la prescrizione di un reato inferiori alla durata media dei procedimenti per quel tipo di procedimento, tenendo conto solamente della possibilità di esercitare efficacemente il diritto difesa dopo un certo tempo dai fatti e del diritto dell'imputato a un giusto processo in tempi ragionevoli, e non anche dei tempi effettivi di funzionamento della giustizia penale.
La prescrizione nei vari ordinamenti. L'istituto in oggetto presenta sensibili differenze da un ordinamento all'altro e fra ordinamenti nazionali differenti, per un approfondimento specifico si vedano le voci di seguito riportate. Nel Regno Unito e negli Stati Uniti la prescrizione dei reati è prevista senza un termine massimo inderogabile: se ci sono sufficienti evidenze di prova, il reato può essere sempre perseguito. I tempi della giustizia civile e penale sono resi ragionevoli e cogenti da altre norme, senza la prescrizione dei reati. Il termine di prescrizione è perentorio. Ciò comporta che il ricorso nei gradi di giudizio successivi al primo (appello, Corte Suprema) non sospendono i termini di prescrizione, e che la sentenza definitiva deve arrivare prima di questo termine. Se invece questo viene raggiunto mentre le indagini o il processo sono ancora in corso, il processo si interrompe senza arrivare a una sentenza di assoluzione o condanna, e l'eventuale condanna in primo grado non può essere eseguita: se l'imputato già si trova in carcere deve essere rimesso in libertà, senza ulteriori possibilità di opposizione o di azione penale, poiché nessuno può essere processato due volte per il medesimo fatto, anche nel caso-limite in cui dopo la prescrizione l'imputato confessi la sua colpevolezza. Un rischio implicito della prescrizione dei reati è quello che la condotta della difesa più che orientata a dimostrare l'innocenza dell'imputato e a farlo in tempi celeri, e quindi all'accertamento della verità nel contraddittorio tra accusa e difesa, sia tesa ad applicare ogni possibile forma di garanzia, dubbio interpretativo e procedura prevista dalla legge per prolungare il più possibile la durata del processo fino a far scadere i termini di prescrizione, che di fatto con minore impegno e rischio producono a favore dell'imputato effetti "migliori" di un'assoluzione con formula piena (per la quale la pubblica accusa può ricorrere in appello e, se la prescrizione cade durante il processo di 2º grado, esistono casi determinati di ricorso alla Corte Suprema). Deterrente a questo rischio è l'esecuzione della misura detentiva subito dopo la condanna in primo grado, ovvero un equivalente uso-abuso della carcerazione preventiva e cautelare, in modo che tanto più si tende a ritardare la sentenza e ad allungare i tempi del processo fino alla prescrizione, quanto più a lungo l'imputato permane in carcere.
Nell'Atene classica esisteva un termine di prescrizione di 5 anni per tutti reati, ad eccezione dell'omicidio e dei reati contro le norme costituzionali, che non avevano termine di prescrizione. Demostene scrisse che questo termine fu introdotto per controllare l'attività dei sicofanti.
“Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria. CAPITOLO XXX PROCESSI E PRESCRIZIONE. Conosciute le prove e calcolata la certezza del delitto, è necessario concedere al reo il tempo e mezzi opportuni per giustificarsi; ma tempo cosí breve che non pregiudichi alla prontezza della pena, che abbiamo veduto essere uno de’ principali freni de’ delitti. Un mal inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di tempo, ma svanirà ogni dubbio se si rifletta che i pericoli dell’innocenza crescono coi difetti della legislazione. Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sì alla difesa del reo che alle prove de’ delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto. Parimente quei delitti atroci, dei quali lunga resta la memoria negli uomini, quando siano provati, non meritano alcuna prescrizione in favore del reo che si è sottratto colla fuga; ma i delitti minori ed oscuri devono togliere colla prescrizione l’incertezza della sorte di un cittadino, perché l’oscurità in cui sono stati involti per lungo tempo i delitti toglie l’esempio della impunità, rimane intanto il potere al reo di divenir migliore. Mi basta accennar questi principii, perché non può fissarsi un limite preciso che per una data legislazione e nelle date circostanze di una società; aggiungerò solamente che, provata l’utilità delle pene moderate in una nazione, le leggi che in proporzione dei delitti scemano o accrescono il tempo della prescrizione, o il tempo delle prove, formando così della carcere medesima o del volontario esilio una parte di pena, somministreranno una facile divisione di poche pene dolci per un gran numero di delitti. Ma questi tempi non cresceranno nell’esatta proporzione dell’atrocità de’ delitti, poiché la probabilità dei delitti è in ragione inversa della loro atrocità. Dovrà dunque scemarsi il tempo dell’esame e crescere quello della prescrizione, il che parrebbe una contradizione di quanto dissi, cioè che possono darsi pene eguali a delitti diseguali, valutando il tempo della carcere o della prescrizione, precedenti la sentenza, come una pena. Per spiegare al lettore la mia idea, distinguo due classi di delitti: la prima è quella dei delitti atroci, e questa comincia dall’omicidio, e comprende tutte le ulteriori sceleraggini; la seconda è quella dei delitti minori. Questa distinzione ha il suo fondamento nella natura umana. La sicurezza della propria vita è un diritto di natura, la sicurezza dei beni è un diritto di società. Il numero de’ motivi che spingon gli uomini oltre il naturale sentimento di pietà è di gran lunga minore al numero de’ motivi che per la naturale avidità di esser felici gli spingono a violare un diritto, che non trovano ne’ loro cuori ma nelle convenzioni della società. La massima differenza di probabilità di queste due classi esige che si regolino con diversi principii: nei delitti piú atroci, perché piú rari, deve sminuirsi il tempo dell’esame per l’accrescimento della probabilità dell’innocenza del reo, e deve crescere il tempo della prescrizione, perché dalla definitiva sentenza della innocenza o reità di un uomo dipende il togliere la lusinga della impunità, di cui il danno cresce coll’atrocità del delitto. Ma nei delitti minori scemandosi la probabilità dell’innocenza del reo, deve crescere il tempo dell’esame e, scemandosi il danno dell’impunità, deve diminuirsi il tempo della prescrizione. Una tal distinzione di delitti in due classi non dovrebbe ammettersi, se altrettanto scemasse il danno dell’impunità quanto cresce la probabilità del delitto. Riflettasi che un accusato, di cui non consti né l’innocenza né la reità, benché liberato per mancanza di prove, può soggiacere per il medesimo delitto a nuova cattura e a nuovi esami, se emanano nuovi indizi indicati dalla legge, finché non passi il tempo della prescrizione fissata al suo delitto. Tale è almeno il temperamento che sembrami opportuno per difendere e la sicurezza e la libertà de’ sudditi, essendo troppo facile che l’una non sia favorita a spese dell’altra, cosicché questi due beni, che formano l’inalienabile ed ugual patrimonio di ogni cittadino, non siano protetti e custoditi l’uno dall’aperto o mascherato dispotismo, l’altro dalla turbolenta popolare anarchia.
Prescrizione: cosa prevedono Costituzione e Codice penale, scrive Agorà24 l'1 novembre 2018. L’emendamento presentato dai relatori al ddl anticorruzione sui termini della prescrizione va a modificare gli articoli 158, 159 e 160 del codice penale. Disciplina la durata dei processi anche l’articolo 111 della Costituzione.
– ART.111 COSTITUZIONE: ai primi due commi: “La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.
– ARTICOLO 158 CODICE PENALE: L’articolo disciplina la decorrenza del termine della prescrizione, e recita: “Il termine della prescrizione decorre, per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato, dal giorno in cui è cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente, dal giorno in cui è cessata la permanenza. Quando la legge fa dipendere la punibilità del reato dal verificarsi di una condizione, il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata. Nondimeno, nei reati punibili a querela, istanza o richiesta, il termine della prescrizione decorre dal giorno del commesso reato. Per i reati previsti dall’articolo 392, comma 1-bis, del codice di procedura penale, se commessi nei confronti di minore, il termine della prescrizione decorre dal compimento del diciottesimo anno di età della persona offesa, salvo che l’azione penale sia stata esercitata precedentemente. In quest’ultimo caso il termine di prescrizione decorre dall’acquisizione della notizia di reato”. Quest’ultimo comma era stato aggiunto dalla riforma del 2017, approvata nella scorsa legislatura.
– ARTICOLO 159 CODICE PENALE: l’articolo disciplina la sospensione del corso della prescrizione, e recita: “Il corso della prescrizione rimane sospeso in ogni caso in cui la sospensione del procedimento o del processo penale o dei termini di custodia cautelare è imposta da una particolare disposizione di legge, oltre che nei casi di: 1) autorizzazione a procedere, dalla data del provvedimento con cui il pubblico ministero presenta la richiesta sino al giorno in cui l’autorità competente la accoglie; 2) deferimento della questione ad altro giudizio, sino al giorno in cui viene decisa la questione; 3) sospensione del procedimento o del processo penale per ragioni di impedimento delle parti e dei difensori ovvero su richiesta dell’imputato o del suo difensore. In caso di sospensione del processo per impedimento delle parti o dei difensori, l’udienza non può essere differita oltre il sessantesimo giorno successivo alla prevedibile cessazione dell’impedimento, dovendosi avere riguardo in caso contrario al tempo dell’impedimento aumentato di sessanta giorni. Sono fatte salve le facoltà previste dall’articolo 71, commi 1 e 5, del codice di procedura penale; 3-bis) sospensione del procedimento penale ai sensi dell’articolo 420-quater del codice di procedura penale; 3-ter) rogatorie all’estero, dalla data del provvedimento che dispone una rogatoria sino al giorno in cui l’autorità richiedente riceve la documentazione richiesta, o comunque decorsi sei mesi dal provvedimento che dispone la rogatoria. Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso nei seguenti casi: 1) dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di primo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza che definisce il grado successivo di giudizio, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi; 2) dal termine previsto dall’articolo 544 del codice di procedura penale per il deposito della motivazione della sentenza di condanna di secondo grado, anche se emessa in sede di rinvio, sino alla pronuncia del dispositivo della sentenza definitiva, per un tempo comunque non superiore a un anno e sei mesi. I periodi di sospensione di cui al secondo comma sono computati ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere dopo che la sentenza del grado successivo ha prosciolto l’imputato ovvero ha annullato la sentenza di condanna nella parte relativa all’accertamento della responsabilità o ne ha dichiarato la nullità ai sensi dell’articolo 604, commi 1, 4 e 5-bis, del codice di procedura penale. Se durante i termini di sospensione di cui al secondo comma si verifica un’ulteriore causa di sospensione di cui al primo comma, i termini sono prolungati per il periodo corrispondente. Nel caso di autorizzazione a procedere, la sospensione del corso della prescrizione si verifica dal momento in cui il pubblico ministero presenta la richiesta e il corso della prescrizione riprende dal giorno in cui l’autorità competente accoglie la richiesta. La prescrizione riprende il suo corso dal giorno in cui è cessata la causa della sospensione. Nel caso di sospensione del procedimento ai sensi dell’articolo 420-quater del codice di procedura penale, la durata della sospensione della prescrizione del reato non può superare i termini previsti dal secondo comma dell’articolo 161 del presente codice”.
– ARTICOLO 160 CODICE PENALE: il primo comma dell’articolo recita: “Il corso della prescrizione è interrotto dalla sentenza di condanna o dal decreto di condanna”.
– EMENDAMENTO RELATORI: L’emendamento va a modificare gli articoli 158, 159 e 160 del codice penale. Recita il testo dell’emendamento: “Il termine della prescrizione decorre per il reato consumato, dal giorno della consumazione; per il reato tentato dal giorno in cui è cessata l’attività del colpevole; per il reato permanente o continuato dal giorno in cui è cessata la permanenza o la continuazione” (in sostanza, l’emendamento ripropone la formulazione dell’articolo prima della modifica intervenuta con la cosiddetta Legge ex Cirielli nel 2005, che aveva eliminato dal dispositivo della norma il riferimento alla parola “o continuato” nel punto in cui statuiva che il termine di prescrizione decorre per il reato permanente “o continuato” dal giorno in cui è cessata la permanenza “o la continuazione”). L’emendamento dei relatori dispone inoltre: “il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronunzia della sentenza di primo grado o dal decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o della irrevocabilità del decreto di condanna”. L’emendamento poi abroga il primo comma dell’articolo 160 del codice penale, che recita: “Il corso della prescrizione è interrotto dalla sentenza di condanna o dal decreto di condanna”.
Prescrizione: chi paga le spese processuali? Scrive il 31 ottobre 2018 Mariano Acquaviva su La Legge per tutti. Cos’è e come funziona la prescrizione? In caso di prescrizione chi deve pagare le spese di giustizia? E le spese legali? Tutto finisce. Non si tratta di un’asserzione filosofica, fatta per impressionare gli altri con la propria triste visione nichilista, ma di un dato di fatto inconfutabile. Nell’universo giuridico, la fine è rappresentata dalla prescrizione: istituto giuridico a volte fin troppo criticato, esso comporta l’estinzione di un diritto e, se parliamo di processo penale, l’estinzione di un reato. Se una persona ti deve dei soldi, allora temi la prescrizione come il tuo peggior nemico; se, al contrario, ti trovi dall’altra parte (sei un debitore, quindi), oppure sei imputato di un reato, allora aspetti la prescrizione come la tua salvezza. In un modo o nell’altro, è da quando esiste il diritto che esiste anche la prescrizione e, perciò, è inutile strumentalizzare questo istituto durante le campagne politiche: è bene che ci rassegniamo al fatto che, nel mondo del diritto (così come in quello reale), ogni cosa ha un termine. Fin qui, tutto chiaro. I problemi sorgono in sede processuale: se nel frattempo matura la prescrizione, chi paga le spese di giustizia? È chiaro che ci riferiamo al processo penale, durante il quale ben spesso accade che il reato venga prescritto; in realtà, anche nel processo civile il giudice potrebbe dichiarare prescritto un diritto, se la prescrizione è eccepita dalla controparte. Se questo argomento ti incuriosisce oppure ti interessa perché anche tu sei finito nelle spire di un processo, allora prosegui nella lettura: ti spiegherò chi paga le spese processuali in caso di prescrizione.
Cos’è la prescrizione? Prima di affrontare il tema inerente al pagamento delle spese processuali, ti dirò brevemente in cosa consiste la prescrizione. La prescrizione è una causa di estinzione dei diritti, se parliamo di diritto civile, oppure del reato o della pena, se parliamo di diritto penale. In entrambi i casi, comunque, si tratta di un evento giuridico che pone fine ad una situazione giuridicamente rilevante. Sia la prescrizione penale che quella civile poggia su un elemento fondamentale: il decorso del tempo. Nel caso della prescrizione civile, il diritto si prescrive, di norma, dopo dieci anni di assoluta inattività del suo titolare; nella prescrizione penale, invece, occorre che trascorra un lasso di tempo diverso a seconda del crimine commesso. In entrambe le branche, poi, vi sono casi di imprescrittibilità: nel campo civilistico, i diritti indisponibili, nonché tutti quelli specificamente individuati dalla legge, non si estinguono mai per prescrizione; nel settore penalistico, invece, i reati punibili con l’ergastolo non cadono mai in prescrizione.
Come funziona la prescrizione? La prescrizione estingue il reato decorso un determinato lasso di tempo. Per il diritto civile, la prescrizione ordinaria è di dieci anni che cominciano dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere. Presupposto fondamentale è che, per tutto il tempo previsto affinché maturi la prescrizione, il titolare del diritto non faccia nulla per esercitarlo. Esempio: se hai prestato dei soldi a un tuo amico e dopo undici anni ti fai vivo per chiedergli la restituzione, non ti spetterà più nulla perché il tuo diritto nel frattempo è andato prescritto. Se, al contrario, pur non avendo ricevuto i soldi hai tentato di riaverli, ad esempio scrivendo al tuo “amico” di restituirteli, allora il tuo diritto non si è prescritto, perché la lettera che gli hai inviato è sufficiente a far cominciare da capo i dieci anni necessari affinché maturi la prescrizione. Nel diritto penale, invece, la prescrizione comincia a decorrere automaticamente dal giorno in cui il crimine è stato commesso, a prescindere dal fatto che un procedimento sia stato intrapreso nei confronti del reo. La prescrizione penale estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo mai inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, anche se puniti con la sola pena pecuniaria. In poche parole, per capire quando un reato si prescriverà, sarà necessario far riferimento alla pena massima prevista dalla legge per il reato stesso. Ti faccio un esempio: il peculato è punito con la pena da quattro a dieci anni e mezzo di reclusione: questo vuol dire che il delitto di peculato si prescriverà decorsi dieci anni e mezzo dal fatto. La concussione, invece, è punita con la reclusione da sei a dodici anni: si prescriverà, quindi, in dodici anni. I delitti che sono puniti con una pena inferiore ai sei anni, invece, si prescriveranno sempre in sei anni: è questa la soglia minima posta dalla legge. Così, ad esempio, il furto semplice, pur essendo punito al massimo con tre anni di reclusione, si prescriverà comunque in sei anni. Per le contravvenzioni, invece, il termine di prescrizione non è mai inferiore a quattro anni.
Cosa sono le spese processuali? Non posso spiegarti il problema del pagamento delle spese processuali in caso di prescrizione se non ti dico prima in cosa consistono le spese processuali. Ebbene, per spese processuali (o spese di giustizia) si intendono tutte quelle che riguardano l’attivazione della giustizia. La macchina processuale italiana, oltre che essere molto lenta, è anche assai costosa: per potervi accedere occorre sostenere delle spese che, in alcuni settori (penso a quello dell’esecuzione nel diritto processuale civile) sono davvero ingenti. Il procedimento penale, per le parti che vi accedono, è in realtà meno oneroso, in quanto è lo Stato ad intraprendere, normalmente di propria iniziativa, l’azione nei confronti dell’autore del crimine. Non che la giustizia penale non abbia un costo: è ovvio che anche il processo penale necessita di mezzi, per via di tutte le persone e i macchinari che devono essere coinvolti (si pensi a periti, consulenti, ecc.). Ora, molto spesso accade che, nel bel mezzo di un processo, intervenga la prescrizione. Nel processo civile, la prescrizione di un diritto può essere dichiarata dal giudice solo nel caso in cui la controparte, cioè colei che resiste alle pretese di chi ha adito per prima il tribunale, la eccepisca, cioè la faccia presente al magistrato. Nel diritto penale, invece, la prescrizione può maturare anche nel corso del processo, perfino in appello o in Cassazione, poiché l’azione penale esercitata dal pubblico ministero non blocca il decorso del tempo utile a maturare la prescrizione (salvo casi di interruzione e di sospensione, per i quali si rimanda all’articolo: Prescrizione reati: come si calcola?).
In entrambi i casi, comunque, qualcuno dovrà pagare le spese processuali; ma chi? In caso di prescrizione, chi è tenuto al pagamento? Te lo dirò nel prossimo paragrafo.
Spese processuali in caso di prescrizione: chi paga? In caso di prescrizione, chi paga le spese processuali? Bisogna distinguere a seconda che si tratti di processo civile o di processo penale. Nel primo caso, non ci sono particolari dubbi: le spese processuali sono poste a carico della parte che ha inutilmente adito il giudice poiché il suo diritto era già prescritto. Faccio un esempio: se citi in tribunale il tuo debitore dopo oltre dieci anni dal prestito che gli avevi fatto e lui, costituitosi in giudizio, eccepisce la prescrizione del tuo diritto, il giudice, nel dargli ragione, ti condannerà al pagamento di tutte le spese processuali, comprese quelle legali che ha dovuto sostenere il tuo debitore (in pratica, gli dovrai pagare l’avvocato). Nel processo penale le cose sono diverse: qui, infatti, vi è una parte pubblica (rappresentata dal pubblico ministero) la cui funzione è quella di svolgere le indagini relativamente alla commissione di reati e di esercitare (se vi sono i presupposti) l’azione penale nei confronti dell’imputato. Il processo penale, quindi, non si avvia per volontà delle parti private (attore o ricorrente), come accade nel processo civile, ma per volontà di una parte pubblica che praticamente costringe l’imputato a subire il processo. Da tanto deriva una conseguenza molto semplice: se, nelle more del procedimento, il reato andrà prescritto, le spese processuali resteranno a carico dello Stato, in quanto la prescrizione non è una colpa addebitabile all’imputato. In parole povere, l’imputato prosciolto per prescrizione non dovrà pagare le spese processuali. È lo stesso codice di procedura a stabilirlo: solo la sentenza di condanna può porre a carico del condannato il pagamento delle spese processuale. Stesso discorso vale nel caso in cui la persona danneggiata si sia costituita parte civile per chiedere il risarcimento del danno: anche in questa ipotesi, la sopravvenuta prescrizione del reato impedisce al giudice di poter condannare l’imputato non solo alle spese processuali, ma anche a quelle legali sostenute dalla vittima.
La prescrizione e l’arte dell’italico rinvio. Se c’è una cosa dove siamo imbattibili nel mondo, è quella di buttare la palla avanti, talmente avanti che probabilmente a riceverla non ci saranno più gli stessi giocatori della squadra che l’ha lanciata, scrive Paolo Madron il 9 novembre 2018 su Lettera 43. Fatidica prescrizione. Da sempre, è uno dei temi più divisivi, al punto che nell’affrontarla il governo ha rischiato la rottura. C’erano i grillini che la volevano a prescindere, i leghisti che le consideravano solo la parte di un tutto legata alla riforma del sistema giudiziario. Come si è visto una soluzione all’italiana ha accontentato capra e cavoli: verrà tolta dopo il primo grado di giudizio, ma solo dal 2020. Se c’è un’arte dove siamo imbattibili nel mondo, è quella di buttare la palla avanti, talmente avanti che probabilmente a riceverla non ci saranno più gli stessi giocatori della squadra che l’ha lanciata. Tregua raggiunta, per il momento.
UN DIBATTITO TROPPO POLARIZZATO. La questione suscita considerazioni più generali e di merito. Sgombriamo il campo dalle prime, ovvero dal fatto che oramai, dalla prescrizione alle grandi opere, fino persino ai numeri del bilancio pubblico che essendo matematica non dovrebbero costituire opinione, ci si divide tra apocalittici e integrati. Tertium non datur, non è più possibile affrontare un tema senza schierarsi con l’una o l’altra delle fazioni in campo. Chi invoca dei distinguo o è pusillanime o al servizio di poco nobili interessi e lobby. Ci fu un momento recente della nostra storia in cui il terzismo godette in politica di un qualche credito, ci furono giornali che si fecero paladini delle sue ragioni, ma fu una breve stagione e l’indole rissosa riebbe presto il sopravvento. Eppure mai argomento come quello della prescrizione dovrebbe essere avulso da considerazione di parte, per la sua ambiguità e temo irrisolutezza. Che la prescrizione non debba essere motivo di impunità per i colpevoli è lapalissiano, altrettanto che non si debba trasformare in una lunga gogna per il cittadino in attesa di giudizio definitivo. Quello di invocare tempi certi per la giustizia non è dunque uno slogan tra i tanti, ma un fondamentale diritto di ogni società civile e democratica. Di prescrizione si potrebbe più serenamente parlare se ci fosse una legge che delimita la durata dei processi, che semplifica i gradi del giudizio garantendo il rispetto delle prerogative di accusa e difesa, ma l’accumulo di procedimenti arretrati e la cronica carenza di organico rendono l’aspirazione utopica.
IL RINVIO DELLA PRESCRIZIONE CONVIENE A TUTTI. La storia italiana del resto conferma l’ambiguità della questione: ci sono processi durati all’infinito e conclusisi per scadenza dei termini, (i nomi dei protagonisti li sapete), altri che si concludono in tempi lunghissimi con sentenze di assoluzione che rendono tardivamente giustizia all’imputato ma non gli restituiscono gli anni vissuti nell’incubo di doversi difendere da un’accusa rivelatasi poi non veritiera. Sullo sfondo, ma neanche tanto, ci sono anche considerazioni di classe per cui i ricchi si difendono meglio dei poveri, perché si possono pagare gli avvocati migliori, ovvero quelli che possono tirare in lungo i processi al punto da farli decadere. Questo spiega perché il rinvio è la strada che conviene a tutti, anche a costo di intestarsi una plateale ipocrisia. Quella di credere che la messianica riforma del sistema che si attende dalla notte dei tempi metterà tutte le cose a posto, tempo dei processi compreso. Se ne riparla nel 2020.
Antonio Racanelli (M.I.) «Giusto fermare la prescrizione». Intervista al procuratore aggiunto di Roma e segretario generale di Magistratura indipendente Antonello Racanelli, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 2 Novembre 2018 su "Il Dubbio". «Premesso che non è possibile attendere decenni per avere una sentenza, la proposta del ministro della Giustizia di voler interrompere il decorso della prescrizione dopo il primo grado di giudizio mi vede favorevole», dichiara il procuratore aggiunto di Roma e segretario generale di Magistratura indipendente Antonello Racanelli. La riforma – un emendamento al ddl “spazzacorrotti” in discussione alla Commissione giustizia di Montecitorio voluta da Alfonso Bonafede sta suscitando in queste ore innumerevoli polemiche. Le opposizioni, Forza Italia e Partito democratico, prevedono effetti devastanti per il sistema giudiziario in caso la norma dovesse essere approvata. E anche la Lega ha già manifestato “perplessità”.
Procuratore, lei è da sempre favorevole allo “stop” della prescrizione. Non teme il rischio del “fine processo mai”?
«Io non sono per il processo “infinito”. Ricordo che viviamo in un Paese dove i tempi della giustizia sono totalmente irragionevoli. I processi devono essere celebrati rapidamente. Detto questo, bisogna evitare che la prescrizione vanifichi il lavoro svolto».
Ma con la riforma Bonafede i processi che già sono lenti non diventeranno lentissimi? Qualche magistrato potrebbe cominciare a pensare: ‘ Va bene, c’è tempo prima che si prescriva’. Condivide?
«Non c’è nessun giudice che voglia tenere fermo un processo. Mi rifiuto di pensare che qualcuno voglia farli durare trent’anni».
Una volta che si interrompe la prescrizione, però, non c’è più la corsa a fare il processo ed il rischio che i processi si trascinino anni è concreto.
«Questa è la patologia del sistema. Noi dobbiamo parlare del normale andamento del processo. Di fronte a rallentamenti anomali da parte di qualche magistrato si deve intervenire disciplinarmente».
Ma è sufficiente bloccare la prescrizione per risolvere i problemi del processo penale in Italia?
«No. A questa riforma si devono accompagnare in parallelo interventi sulle strutture del sistema giustizia. Penso al personale amministrativo e alle dotazioni tecnologiche».
In quanto tempo dovrebbe concludersi un processo?
«Due o tre anni. Bisogna comprendere sia le ragioni dell’imputato ad avere una sentenza in tempi rapidi e sia quelle delle vittime del reato ad avere un adeguato ristoro».
Il presidente della Commissione giustizia di Palazzo Madama, il senatore leghista Andrea Ostellari, dice che la prescrizione si può evitare se gli uffici funzionano bene.
«Certo. Con maggiore personale amministrativo, ripeto, si potrebbe ad esempio iniziare a fare udienze tutto il giorno. Mattina e pomeriggio. Spero che anche l’avvocatura sia aperta ad un dialogo in questa direzione».
I processi si prescrivono nella fase delle indagini preliminari. Le tabelle del Ministero della giustizia parlano di un 70 per cento.
«E’ un dato che va valutato con attenzione. Solo formalmente è così. La Procura di Roma dove lavoro ha attualmente 40.000 processi in attesa dell’udienza. Ne abbiamo chiesto la fissazione al presidente del Tribunale che però non ci ha ancora trasmesso le date in quanto il ruolo è saturo. Si può attendere anche due anni prima che questa fissazione avvenga. A quel punto il reato si è però prescritto ed al Tribunale non resta che mandare indietro il fascicolo con il risultato statistico che la prescrizione è avvenuta durante le indagini preliminari».
L’incidenza della prescrizione tra i diversi uffici giudiziari varia da distretto a distretto, ed è in più delle volte indipendente dalle scoperture degli organici o dalle condizioni socio economiche dei territori interessati. Concorda?
«Sì. Anche l’organizzazione individuata dai singoli capi ufficio incide. Ci sono poi best practice al riguardo da diffondere sul territorio nazionale. Il Csm ha sempre fatto sul punto un grande lavoro».
Una depenalizzazione aiuterebbe?
«Sì. Abbiamo troppi reati».
Cristina Ornano (Area): «Prescrizione? E’ uno spot». Secondo la segretaria generale delle toghe progressiste, “Riforme così importanti meriterebbero certamente un approccio molto diverso”, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 4 Novembre 2018 su "Il Dubbio". «Riforme così importanti meriterebbero certamente un approccio molto diverso», afferma Cristina Ornano, giudice per le indagini preliminari al Tribunale di Cagliari e segretaria generale di Area, il raggruppamento delle toghe progressiste di cui fa parte anche Magistratura democratica, commentando con Il Dubbio la proposta del ministro Alfonso Bonafede di voler bloccare il decorso della prescrizione dopo la sentenza di primo grado.
Dottoressa, cosa non la convince della riforma del Guardasigilli?
«Pur essendo in linea di principio favorevole al blocco della prescrizione, non credo sia in alcun modo risolutiva da sola dei gravi problemi che affliggono il nostro processo penale. Su argomenti molto delicati, come appunto il funzionamento del processo, sarebbe necessario procedere all’esito di una approfondita riflessione. Non è questo un tema che possa essere affrontato con un semplice tratto di penna».
Si riferisce al fatto che il blocco della prescrizione sia stato inserito in un emendamento al ddl “spazzacorrotti”?
«Certo. Suscita perplessità, sul piano del metodo, l’inserimento di una riforma di così generale e vasta portata, in un emendamento ad un testo di legge in discussione che ha un suo specifico, senza che siano state preventivamente ponderate le complessive ricadute sul sistema. A ciò si aggiunga che non vi è stato alcun serio confronto con la magistratura, l’avvocatura ed il mondo accademico e che il testo rischia di non essere neppure oggetto di una approfondita discussione in Parlamento. La stessa Associazione nazionale magistrati ne discuterà nel prossimo comitato del 10 novembre».
Se fosse approvata questa norma, quali sarebbero le immediate conseguenze?
«Nel merito, il congelamento della prescrizione, in assenza di un intervento di sistema, e, in particolare di correttivi, come potrebbe essere ad esempio la previsione di una prescrizione processuale, rischia di produrre effetti distorsivi, pregiudicando il diritto alla ragionevole durata del processo ed alla certezza del diritto, principi di civiltà recepiti dalla nostra Costituzione».
Il ministro della Giustizia, però, dello stop della prescrizione ne ha fatto una bandiera…
«Si ha l’impressione di trovarci di fronte all’ennesimo intervento “spot” attraverso il quale si insegue a tutti i costi, anche attraverso scorciatoie, la rivendicazione di un impegno elettorale, senza che però ci si faccia carico né dell’impatto complessivo dell’intervento, né dei veri problemi che oggi affliggono il processo penale».
Da dove bisognerebbe partire?
«Il tema della prescrizione andrebbe inserito nel quadro di un intervento di sistema che miri ad aggredire con soluzioni efficaci i gravi problemi del processo e del diritto penale. Oggi una delle più gravi criticità è costituita dall’elevatissimo numero di impugnazioni, in particolare in Cassazione. E’ ineludibile un intervento di razionalizzazione nel sistema».
E poi ci sono troppi reati…
«Assolutamente. C’è una ipertrofia del diritto penale. Andrebbe prevista una coraggiosa opera di deflazione e depenalizzazione. Il diritto penale minimo è, infatti, l’obiettivo di civiltà cui deve mirare un sistema penale moderno ed efficiente, in quanto unica misura che riuscirà a ridurre l’eccessivo carico penale. Infine, occorre che il legislatore pratichi politiche di pieno organico del personale di magistratura e amministrativo, che si stanzino risorse adeguate e si faccia un grande investimento sul terreno dell’innovazione».
Il Governo, tornando alla sua prima osservazione, punta invece ad un panpenalismo sempre più spinto.
«Con rammarico constato che si risponde invece ai problemi con nuove e non sempre necessarie criminalizzazioni, l’inasprimento delle pene e la costruzione di nuove carceri, soluzioni, che non guariscono quel grave malato che è il processo penale, ma semmai ne aggravano la malattia».
In Esclusiva Carlo Nordio “Blocco Della Prescrizione? Ricadute Terribili”, scrive il 9 Novembre 2018 Giovanni Maria Jacobazzi su Milano Post. “Nel processo penale ogni intervento settoriale rischia di essere una catastrofe. Può entrare in conflitto con altre norme e creare problemi terribili. A maggior ragione se questo intervento riguarda affari delicatissimi come appunto la prescrizione del reato”, dichiara Carlo Nordio, ex procuratore di Venezia ed ex presidente, nel 2002, della commissione che portò il suo nome incaricata dall’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli di riscrivere il codice di procedura penale.
Procuratore, lei è molto critico nei confronti della proposta voluta dai cinquestelle di bloccare la prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado. Che cosa non la convince?
«Sul contenuto di questa riforma si sono espressi in questi giorni autorevoli commentatori. Io mi limito solamente a dire che, se venisse approvata, creerebbe un cortocircuito con l’esecuzione della pena. Mi spiego. Se si blocca la prescrizione del reato poi si deve bloccare anche la prescrizione della pena. Altrimenti si favorisce l’imputato che, dopo essersi fatto condannare, scappa, ben sapendo che trascorsi dieci anni la pena sarà estinta».
Alfonso Bonafede e Luigi Di Maio vanno ripetendo da giorni che la riforma della prescrizione è prevista nel contratto di governo.
«Guardi anche io ho letto questo contratto di governo. E da nessuna parte c’è scritto che va bloccata la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Si parla solamente di “riformare” l’istituto».
Il tema doveva essere affrontato preventivamente in tavoli tecnici con gli addetti ai lavori come ad esempio proposto dal presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin?
«Certo. La prescrizione è un tassello fondamentale del codice penale. Non può essere riformato con un semplice emendamento».
Il presidente emerito della Cassazione Giovanni Canzio ha affermato ieri in una intervista quello che tutti pensano ma non dicono. E cioè che il problema principale riguarda le indagini preliminari. In quella fase maturano la maggior parte delle prescrizioni dei reati. Indagini preliminari vuol dire ruolo del pubblico ministero e toccare il pm è operazione sempre molto complicata…
«Su questo aspetto vorrei fare chiarezza.
Prego.
«Il pubblico ministero italiano è l’unico organismo al mondo che ha un potere senza responsabilità».
Detto da lei bisogna crederci.
«Con il codice di procedura penale di tipo accusatorio abbiamo mutuato il pm dagli Stati uniti dove è il capo della polizia giudiziaria. Con un ‘piccola’ differenza. Negli Stati Uniti è elettivo e quindi se non funziona va a casa. Noi invece abbiamo mantenuto le garanzie giurisdizionali che esistevano nel processo inquisitorio».
Il risultato è ben noto…
«Abbiamo un organismo sbilanciato. Indipendenza del giudice con i poteri politici del pm americano».
Un mix che non esiste in nessuna altre parte del pianeta?
«Ripeto, solo in Italia. Il processo accusatorio ha due sistemi: quello americano e quello inglese. In America il pm è il capo della polizia ma non ha indipendenza in quanto è elettivo. In Inghilterra è indipendente come quello italiano ma non è il capo della polizia. Le indagini vengono fatte dalle polizia senza chiedere il permesso al pm».
Non potevamo copiare il modello inglese?
«Viste le esperienze italiane preferisco anche io che ci sia un controllo da parte del pm. Sarebbe stato rischioso. Però devo esserci una responsabilità».
E copiare il modello americano?
«In Italia un pm elettivo non lo vedrei bene».
Non c’è soluzione allora?
«No. Sarebbe importante un potere di controllo durante le indagini da parte del giudice se il pm è inerte.
Esisterebbe l’avocazione delle indagini da parte della Procura generale.
«Sulla inerzia del pm il controllo non deve essere devoluto alla Procura generale ma al giudice».
Perché non è possibile sanzionare il pm inerte?
«E’ un discorso complicato. L’obbligatorietà dell’azione penale intasa le Procure di fascicoli. Punire per l’inerzia è un principio giusto. Ma bisogna vedere se questa è una inerzia necessitata perché il pm è sommerso da fascicoli che non riesce a fisicamente a gestire o altro. Nessuno ha mai fatto l’analisi di quanto lavoro possa svolgere correttamente un pm professionalmente preparato e diligente».
Un’ultima domanda. Perché a Piercamillo Davigo questa riforma piace? Anzi, come affermato dai pentastellati in Commissione giustizia a Montecitorio ne è lui l’ispiratore.
«Come ripeteva Senofane, esiste una tendenza sbagliata: quella di crearsi gli dei a propria immagine e somiglianza. “Gli Etiopi – diceva il filoso greco – affermano che i loro dei sono camusi e neri, i Traci che sono cerulei di occhi e rossi di capelli”. Quando un magistrato ha fatto per troppi anni il pm poi è portato a vedere la realtà deformata dai suoi occhi».
"Troppo potere mediatico ai pm. La giustizia italiana è una follia". Piero Sansonetti, direttore del nuovo quotidiano "il Dubbio", in edicola da martedì: "Le toghe fanno politica, riforma necessaria", scrive Anna Maria Greco, Giovedì 07/04/2016, su "Il Giornale". Si chiama il Dubbio, esce in edicola martedì e per 5 giorni la settimana, ha 16 pagine, full color, una redazione di 13 professionisti: è il nuovo quotidiano diretto da Piero Sansonetti. Che ha come editore la Fondazione del Consiglio nazionale forense.
Insomma, sarà il giornale degli avvocati. Con quale obiettivo?
«La linea politico-editoriale sarà quella dell'avvocatura, che si riassume così: i diritti avanti a tutto. Si propone di spezzare il predominio di un pezzo della magistratura sul mondo dell'informazione italiana e così anche la supremazia del potere giudiziario su quello politico».
E questo nome, Il dubbio?
«Fa riferimento al ragionevole dubbio verso ogni accusato. Ai diritti della difesa, che sono il fondamento dello stato di diritto. Da noi gran parte della stampa è giustizialista, amplifica le accuse, gli avvisi di garanzia, gli arresti e quando poi gran parte dei processi finisce con l'assoluzione, si scrive che è stata negata la giustizia e non c'è un colpevole. Se si sostengono le ragioni della difesa si passa per complici, così spesso vengono considerati gli avvocati di un accusato. Questa etica della colpevolezza va contrastata».
Sarà un nuovo Garantista?
«Sarà un quotidiano apertissimo, in cui parleranno tutti. Non sarà né con il governo né con l'opposizione, né di destra né di sinistra, né con Renzi né con Berlusconi. Aperto al dialogo, su tutto e con tutti».
Però, diciamolo, sarà un giornale contro le toghe.
«No, perché ce ne sono di ottime e noi vogliamo fare un giornalismo senza risse e insulti, beneducato. Contro il giustizialismo, sì. Contro quella parte forcaiola dei magistrati e della stampa, sì. Contro quel potere politico in ginocchio davanti alla magistratura, sì».
Che ne dici dell'uscita critica di Renzi sulle lentezze dei magistrati, dopo il caso Guidi, cui ha replicato l'Anm Basilicata?
«Un'uscita coraggiosa, perché è raro che un politico osi sfidare le toghe. È vero che si comincia con le accuse e non si arriva mai ai processi. Non hanno interesse a celebrarli i magistrati stessi. Altro che accuse agli avvocati sulla prescrizione: nel 70 per cento dei casi interviene in fase di indagini preliminari, quando la difesa non ha certo potuto ritardare l'iter. I guai dipendono dai tempi lunghi della giustizia. Ma quando Renzi l'ha detto, immediatamente l'Anm ha reagito. Perché è una forza politica, polemizza col governo, interviene sulle leggi da fare e come, mette in discussione continuamente l'equilibrio tra i poteri. È impressionante. In questo scambio di battute c'è il riassunto della follia che è oggi la giustizia».
Serve la famosa riforma.
«Non la fa nessuno. Non l'ha fatta Berlusconi, non la fa Renzi. E l'opinione pubblica viene spinta dal sistema dell'informazione sempre dalla parte della pena e della forca. Così, anche i diritti alla privacy scompaiono».
In prima pagina ci sono Panama papers e intercettazioni dello scandalo petrolio.
«E qualcuno si chiede se la fuga di notizie sui conti off-shore sia legale? Nessuno. O se lo siano le intercettazioni della Guidi (che ha fatto benissimo a dimettersi, beninteso) e degli altri? Nessuno. Chi si pone la questione che in Italia ci siano mille volte più intercettazioni che in Gran Bretagna? Il rispetto delle regole, il diritto alla difesa, non interessa nessuno».
Se il processo dura 20 anni non c’entra la legge ma i magistrati, scrive Piero Sansonetti il 22 Febbraio 2017, su "Il Dubbio". Lo scandalo non sta nel fatto che è scattata la prescrizione, dopo 20 anni dal reato e 20 anni dall’inizio del procedimento penale. Lo scandalo sta nel fatto che non sono bastati 20 anni alla magistratura per concludere l’iter processuale. Se un processo per lo stupro di una bambina dura vent’anni e poi l’accusa cade in prescrizione, la colpa di chi è? È successo in Piemonte. Ieri la notizia ha conquistato le home page di tutti i siti, e l’hanno data le Tv. Un po’ ovunque è sembrato sentire un atto di accusa vibrante contro la prescrizione, cioè quel meccanismo satanico e da azzeccagarbugli che permette agli imputati di farla franca. Il procuratore generale di Torino ha dichiarato ai giornali che occorre una profondissima riforma, e che il compito tocca al legislatore. È il ritornello di sempre, ripetuto incoro da giornali e procure: le colpe per la malagiustizia comunque sono del potere politico e delle norme troppo garantiste. Mentre i magistrati, di solito, si comportano in modo egregio e infatti, come è noto, combattono contro la prescrizione. Se il potere politico non si opponesse alle giuste battaglie dei magistrati e facesse le cose a modino, come i magistrati chiedono, ecco che questo scandalo del presunto pedofilo che la fa franca non sarebbe avvenuto…Davvero è così? Non solo non è così ma è esattamente il contrario. La prescrizione è una misura estrema che serve solo a mettere un argine alla violazione di un principio costituzionale che è quello della “ragionevole durata del processo” (art 111 della Costituzione). E nessuno può avere dubbi sul fatto che 18 o 19 anni devono essere più che sufficienti per concludere un processo nel quale un uomo è accusato di avere esercitato violenza sessuale su una bambina di 7 anni. Noi, né nessun altro giornalista, non siamo assolutamente in grado di sapere se a carico dell’imputato ci fossero o no prove sufficienti. Essere accusati d i pedofilia, insegnano casi giudiziari anche molto recenti, non vuole assolutamente dire essere colpevoli. Spesso le accuse per pedofilia cadono, risultano infondate (pensate solo alla vicenda assurda di quei poveretti accusati di “pedofilia” di massa in una scuola di Rignano, in provincia di Roma, e poi risultati tutti completamente innocenti, dopo mesi di carcere e anni di infamie). Ma qui la questione non è certo quella di stabilire se l’imputato fosse o no colpevole. Si tratta semplicemente di capire perché il processo è andato in appello dopo 20 anni, quando ormai l’accusato era diventato vecchio, e la bambina era diventata una signora (la quale, tra l’altro, ha fatto sapere che di questa storia non vuole sapere più niente). Allora, proviamo a vedere come stanno le cose. Le Procure e le Corti d’appello, sicuramente, sono intasate da migliaia di procedimenti giudiziari che non riescono a smaltire. Questo vuol dire che tutti i provvedimenti giudiziari durano 20 anni? No. E sarebbe logico che i processi per i reati più gravi andassero più spediti. Non sempre è così. Per esempio gli avvocati di tal Silvio Berlusconi ci dicono che dal 1995 a oggi il suddetto Silvio Berlusconi ha subito 70 processi. Naturalmente nei processi a Berlusconi, la procura di Alessandria e la corte d’appello di Torino (cioè le due istituzioni che non sono riuscite a processare il sospetto pedofilo) non c’entrano niente. Berlusconi è stato processato soprattutto dalla Procura di Milano. Però il paragone, dal punto di vista politico, regge eccome. Le procure hanno trovato tutto il tempo necessario per processare 70 volte Berlusconi, mentre altre procure non riuscivano a fare un solo processo a quel signore accusato di aver violentato una bambina. Come è possibile questo? Forse c’è una sola spiegazione: processare un tipo come Berlusconi è attività assai più attraente che processare un sospetto pedofilo sconosciuto. Produce uno spettacolo molto maggiore, titoli sui giornali in grande rilievo, tv, fama. Un procedimento giudiziario che garantisca un alto tasso di spettacolarità e che magari abbia la possibilità di avere un peso significativo sulla vicenda politica italiana, procede spedito. Nell’unica condanna subita da Berlusconi (quella per una evasione fiscale commessa da Mediaset) tra la conclusione dell’appello e la sentenza della Cassazione (assegnata a una sezione presieduta da un giudice che poi è andato in pensione e ora fa il commentatore sul “Fatto Quotidiano”) passarono addirittura pochi mesi. Fu un caso esemplare di giustizia speedy gonzales. Dunque è del tutto evidente che non è l’istituto della prescrizione il colpevole, ma il colpevole va cercato nel funzionamento di alcuni settori della magistratura. Ha fatto molto bene la giudice Paola Dezani, pronunciando la sentenza che prendeva atto dell’avvenuta prescrizione, a chiedere scusa agli italiani a nome della magistratura. Però ora sarebbe anche il caso di chiedersi di chi sia la colpa del sovraffollamento di procedimenti penali. Forse, per esempio, è colpa dell’obbligatorietà dell’azione penale, norma difesa col coltello tra i denti dall’Associazione magistrati, e che ormai è diventata insensata? E magari è colpa anche dell’ostinazione con la quale molti Pm ricorrono in appello di fronte a una sentenza di assoluzione in primo grado (che pure dovrebbe far scattare, a lume di logica, il ragionevole dubbio previsto dal codice penale come condizione di non condanna)? È chiaro che una riforma della giustizia è assolutamente necessaria. Da anni molti governi di centrodestra e di centrosinistra tentano di realizzarla, ma nessuno ci riesce proprio per la tenace e potente resistenza dell’Anm.
Giustizia carogna, scrive Fabrizio Boschi il 31 gennaio 2017 su "Il Giornale”. Nel febbraio 2012 ci provò un deputato di Forza Italia, Daniele Galli: presentò una proposta di legge per obbligare lo Stato a rifondere le spese legali del cittadino che viene imputato in un processo penale e ne esce assolto con formula piena. Non venne mai nemmeno discussa. Eppure affrontava una delle peggiori ingiustizie italiane. Il corto circuito che ne viene fuori è poi un altro: chi è sotto la soglia di povertà, ovvero meno di 16mila euro all’anno, può ottenere l’avvocato pagato dallo Stato, ovvero il gratuito patrocinio. Chi usufruisce di questo favore pagato da noi cittadini sono di solito, delinquenti, evasori seriali, ed extracomunitari. Pochissimi gli italiani. Doppia beffa. Davanti al Tar poi la cosa si fa ancora più triste: le cause contro lo Stato vengono pagate dallo Stato stesso. Ogni anno in questo paese si aprono 1,2 milioni di procedimenti penali, più alcune centinaia di migliaia di processi tributari. Gli assolti, alla fine, sono la maggioranza: secondo alcune stime sono quasi i due terzi del totale. Moltissimi sono quelli che escono dalle aule di giustizia assolti con una “formula piena”, come si dice, e cioè perché il fatto non sussiste o per non avere commesso il fatto. Costoro, però, devono comunque pagare di tasca propria l’avvocato e i professionisti di parte: periti, tecnici, consulenti. Si tratta di cifre a volte molto importanti. La famiglia di Raffaele Sollecito, processato per otto anni come imputato per l’omicidio di Meredith Kercher a Perugia, ha dovuto pagare 1,3 milioni di euro al suo avvocato Giulia Bongiorno. Elvo Zornitta, accusato ingiustamente di essere “Unabomber”, il terrorista del Nord-Est, dovrebbe pagarne 150mila al suo avvocato. Giuseppe Gulotta, vittima del peggiore errore giudiziario nella storia d’Italia (22 anni di carcere da innocente) dovrebbe affrontare una spesa da 600mila euro. Ci sono poi tantissimi casi nei quali anche parcelle da alcune decine di migliaia di euro rappresentano la rovina economica per qualcuno. Oppure casi in cui per non sentir più parlare di quel caso, il cliente soccombe a questa ingiustizia, si china e paga. Quando poi il querelante decide di rimettere la querela, perché magari ha obbligato, tramite il proprio avvocato, ad un accordo segreto il querelato, che decide di pagare (in nero) pur di veder finito il suo calvario (un ricatto in piena regola insomma: io rimetto la querela se tu mi dai tot altrimenti vado avanti con la causa), allora dopo alcuni anni il querelato si vede pure arrivare a casa una bella cartella di Equitalia, riguardo alle spese originate dalla remissione di querela, come prevede la legge: è la norma processuale, infatti, che fissa a carico del querelato la refusione delle spese del procedimento. Altra follia pura. Insomma, lo Stato ti obbliga a pagare le spese legali anche se vinci le cause, ma non ha remore nel pagare il difensore all’extracomunitario che non ha nulla ed è in Italia illegalmente. Anche importanti giuristi e magistrati concordano col fatto che far pagare le spese legali a chi ha vinto la causa o è innocente sia una pura follia. Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, si dice convinto che sia «una fondamentale questione di giustizia: con il discutibile principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, lo Stato stabilisce il dovere d’indagare dei pubblici ministeri; ma ha anche l’obbligo di risarcire l’avvocato all’innocente che senza alcun motivo ha dovuto affrontare spese legali, spesso elevate». Giorgio Spangher, docente di procedura penale alla Sapienza di Roma, ipotizza un fondo «che provveda almeno in parte a indennizzare le spese sostenute», come già avviene per l’ingiusta detenzione. Certo, il problema (come sempre in questi casi) sono le casse dello Stato: con la legge di Stabilità per il 2016 il governo ha appena dimezzato e reso praticamente inaccessibili le disponibilità previste per la legge Pinto, la norma che dal 2001 indennizzava gli imputati vittime della lunghezza dei processi a un ritmo di circa 500 milioni l’anno. Sarà forse difficile, pertanto, che si possa mettere in atto qualcosa di valido sul rimborso delle spese legali. Ma non può essere questa la scusa per distogliere lo sguardo da questa vera ingiustizia. Se sei stato accusato di un reato o querelato ingiustamente e poi al termine di un processo una sentenza sancisce la tua innocenza o estraneità ai fatti o il fatto non sussiste, o il fatto non costituisce reato, non è giusto che sia tu a pagare l’avvocato: deve farlo lo Stato. Che invece paga il patrocinio ai delinquenti.
Sorpresa: la prescrizione la decide quasi sempre il pm, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 4 novembre 2016 su "Il Dubbio". Lo studio dell'associazione "Fino a prova contraria". Annalisa Chirico, giornalista e fondatrice del movimento "Fino a prova contraria", ha pubblicato ieri sul Foglio un interessante studio dei dati relativi alla prescrizione dei procedimenti penali in Italia. Studio che merita di essere approfondito e commentato, visto che cristallizza in maniera inconfutabile alcune verità che non faranno certamente piacere ai giustizialisti in servizio permanente effettivo. Partendo dalle rilevazioni statistiche del Ministero della Giustizia, raccolte in un documento dello scorso maggio, la giornalista ha potuto constatare che circa il 60% delle prescrizioni avvengono nella fase delle indagini preliminari. Quindi nella fase in cui il pubblico ministero è dominus assoluto del procedimento e dove la difesa, usando una metafora calcistica, "non tocca palla". Il dato smentisce una volta per tutte la vulgata che vedrebbe l'indagato ed il suo difensore porre in essere condotte dilatorie per sottrarsi al giudizio. Quella che viene comunemente chiamata "fuga dal processo". Di contro, certifica l'assoluta discrezionalità dell'ufficio del pubblico ministero nella gestione del procedimento. Com'è noto, attualmente, nessuna sanzione è prevista per il Pm che ritarda la definizione di un suo fascicolo oltre il termine delle indagini preliminari. Anzi, la proposta di prevedere l'avocazione del procedimento da parte della Procura generale trascorsi 3 mesi dalla scadenza del termine massimo di durata delle indagini, ha scatenato la rivolta dei pubblici ministeri. L'analisi riserva, poi, altre sorprese. Ad esempio una gestione degli affari penali a "macchia di leopardo". Se esistono uffici virtuosi, in cui la prescrizione è praticamente inesistente e tutti i procedimenti vengono definiti in tempo, di contro in molti tribunali tale istituto raggiunge percentuali veramente sorprendenti. Anche in questo caso, dunque, è molto difficile "scaricare" la responsabilità sull'indagato e sul suo difensore. Piuttosto è un problema di organizzazione dell'ufficio. E non di aree geografiche. Visto che si prescrivono, per fare un esempio, più reati a Parma che a Palmi. In conclusione, il danneggiato è sempre il cittadino che, purtroppo, paga sulla sua pelle le inefficienze del sistema.
La prescrizione è garanzia di giustizia, i pm la trasformano in un mostro giuridico. L’analisi statistica licenziata dal ministero di via Arenula e il rischio di vivere sotto la spada di Damocle di un processo interminabile che grava sul cittadino, scrive Annalisa Chirico il 3 Novembre 2016 su “Il Foglio". Tribunale che vai, giustizia che trovi. L’incidenza della prescrizione nella fase predibattimentale, prima del processo, passa dal 40 percento di Torino allo 0,1 di Pordenone, dal 13,7 di Milano al 3,6 di Firenze, dall’8,5 di Bari al 9,9 di Barcellona Pozzo di Gotto (40 mila abitanti nel messinese…). Non va meglio a processo avviato: il divario di efficienza si contrae ed espande come una fisarmonica, dal 51 percento del tribunale di Tempio Pausania allo 0,2 di Aosta, dal 33,1 di Spoleto al 2 di Milano, con Salerno, Venezia e Palermo che oscillano tra i 13 e 14 punti percentuali. Sul territorio nazionale lo stato fornisce un servizio “a macchia di leopardo”, con differenze vistose e stridenti da ufficio a ufficio, a parità di norme e, in molti casi, di risorse. Sul sito web del movimento “Fino a prova contraria”, compare l’analisi statistica licenziata dal ministero di via Arenula lo scorso maggio. Grafici e tabelle fotografano lo stato della prescrizione in Italia, un’autopsia fortemente voluta dal capogabinetto del ministero, il magistrato Giovanni Melillo. Notoriamente parco di esternazioni mediatiche, Melillo si lascia andare a un fugace commento: “Non contano le norme ma gli uomini”. E’ l’elemento umano, le “guarnigioni” di Karl Popper, a decretare lo iato di efficienza tra situazioni pure assimilabili per dotazione di organico e normativa vigente. Forse per questa franchezza assai poco corporativa dalle parti del Csm, che già una volta gli ha sbarrato la strada nella corsa a procuratore capo di Milano, il dottor Melillo non è amatissimo, additato piuttosto come archetipo della toga “collaborazionista”, sedotta dal potere politico. Dai dati ministeriali riaffiora l’eterno grattacapo: è giusto rimediare alla lentezza dei processi con l’allungamento ipertrofico della prescrizione? Il rischio di vivere sotto la spada di Damocle di un processo interminabile grava sul cittadino. E, come ha ricordato pochi giorni fa il presidente dell’Anac Raffaele Cantone, la prescrizione è “un istituto di garanzia per il sistema. Ha senso condannare oggi per una corruzione commessa vent’anni fa?”. I tempi ragionevoli, questi sì che sarebbero una conquista di civiltà per innocenti e colpevoli. Secondo l’analisi ministeriale, negli ultimi dieci anni le prescrizioni si sono ridotte del 40 percento, passando dagli oltre 213 mila procedimenti estinti nel 2004 a circa 132 mila nel 2014. Il 58 percento delle estinzioni per prescrizione avviene nella fase preliminare del giudizio, un ulteriore 4 percento delle sentenze dichiaranti l’avvenuta prescrizione sono emesse da gip e gup. Vi è poi un 19 percento di casi in primo grado, 18 percento in Corte d’appello mentre solo una volta su cento la prescrizione matura in Cassazione. En d’autres mots, nel 62 percento dei casi la prescrizione incombe prima del processo, nella fase delle indagini preliminari, quando il pm è dominus e l’avvocato è spettatore inerme. Il 62 percento è la riprova che l’obbligatorietà dell’azione penale resta una chimera: il pm decide discrezionalmente quali fascicoli far avanzare e quali abbandonare lungo il sentiero dell’estinzione per decorrenza dei termini. L’appello rappresenta la fase con l’incidenza più elevata, tra il 2014 e il 2015 si è registrato un consistente calo delle prescrizioni in Cassazione. Quanto alle categorie di reato, nel 2014 quelli legati alla circolazione stradale presentano il maggior tasso d’incidenza, lo scorso anno invece primeggiano i reati legati al traffico e consumo di stupefacenti, seguiti da quelli contro il patrimonio. L’incidenza della prescrizione sui definiti si attesta all’1,3 per i reati di violenza sessuale, al 5,6 per i reati ambientali, al 5,9 per lesioni e omicidi colposi, al 9,1 per i reati di truffa, al 12,5 per i reati contro la Pubblica amministrazione. Su base geografica l’incidenza della prescrizione sulle definizioni nelle corti d’appello spazia dal 48 percento di Venezia al 12 percento di Milano. Napoli, Reggio Calabria e Caserta si stagliano al di sopra della media nazionale. Sassari, Catanzaro, Potenza e Messina viaggiano al di sotto. Nel penale, su cento procedimenti 9,5 si prescrivono, tra questi 5,7 nella fase delle indagini preliminari, 3,8 nel corso dei tre gradi di giudizio. Tribunale che vai, giustizia che trovi. Nella speranza che giustizia sia.
Davigo: non ho mai incontrato Grillo né tramato contro Berlusconi. Il magistrato: la prescrizione? Per i politici ha un peso diverso rispetto agli altri, scrive Giovanni Bianconi il 5 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. «Già domenica mattina ho mandato una e-mail al mio avvocato per dirgli di predisporre una querela contro Il Giornale». Quel giorno campeggiava un titolo in prima pagina: «Trame a 5 stelle - Ecco chi è il mandante dell’agguato a Berlusconi - Vertici segreti tra Grillo e Davigo dietro la legge per fare fuori il cavaliere dalla vita politica».
Che cosa c’era di sbagliato, dottor Davigo?
«Tutto. Non ho mai incontrato Grillo in vita mia, se non quarant’anni fa, lui sul palco e io spettatore di un suo spettacolo. Né ho mai partecipato all’ideazione o alla stesura di qualsivoglia emendamento alla legge elettorale che punti a estromettere Berlusconi dalla vita politica».
E dopo domenica che cosa è successo?
«Lunedì ho telefonato allo stesso avvocato per raccomandargli di sbrigarsi a presentare la denuncia, senza aspettare come suo solito la scadenza dei novanta giorni di tempo, perché tra tante diffamazioni questa mi dà molto fastidio».
Risultato?
«Domani (oggi per chi legge, ndr) andrò nel suo studio a firmare la querela. E mi pare che questa cronologia contenga in sé la smentita attesa dal collega Galoppi».
Claudio Galoppi è il componente del Consiglio superiore della magistratura che ieri, in un’intervista a Il Foglio intitolata «Bordata dal Csm contro Davigo», ha detto, a proposito delle notizie riportate da Il Giornale: «Mi auguro che arrivi presto una smentita; se Davigo non smentirà, non potranno non esserci conseguenze». Galoppi è un rappresentante di Magistratura indipendente, la corrente considerata più a destra nella classificazione politico-culturale delle toghe, da cui Piercamillo Davigo è uscito due anni fa insieme a un consistente numero di colleghi, fondando il gruppo chiamato Autonomia e indipendenza. Tra i motivi della scissione da Mi c’era anche il dissenso con la posizione del leader Cosimo Ferri, che da quattro anni e mezzo occupa la poltrona di sottosegretario al ministero della Giustizia, inizialmente come tecnico in quota Forza Italia e poi, dopo l’uscita di Berlusconi dalla maggioranza del governo Letta, come tecnico e basta.
Nella sua intervista Galoppi s’è detto allibito se davvero lei avesse affermato che chi non rifiuta la prescrizione dovrebbe vergognarsi, perché “non spetta a un magistrato esprimere valutazioni morali sulle scelte processuali”.
Che cosa replica?
«Che io non stavo parlando della prescrizioni in generale né delle scelte processuali di un cittadino comune, ma del caso specifico dell’ex presidente della provincia di Milano, Filippo Penati, cioè di una persona che ha svolto ruoli amministrativi. E non ho fatto valutazioni morali, bensì ho citato e interpretato l’articolo 54 della Costituzione, secondo il quale “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore”. Non mi pare che chi evita una condanna grazie alla prescrizione possa rivendicare di aver svolto il suo compito con onore».
Dunque secondo lei un uomo politico deve sempre rinunciare alla prescrizione?
«Può fare quello che vuole, ma la Costituzione pone una netta distinzione tra i cittadini che esercitano funzioni pubbliche e tutti gli altri. Non sono uguali, perché chi amministra ha doveri e obblighi in più, tra cui quello di adempiere al proprio ruolo con onore. Mi sembra strano che debba ricordare queste cose a un magistrato che siede al Csm».
L’altra sera in tv le hanno chiesto chi risarcisce le persone che escono innocenti dai processi, e lei s’è alterato. Perché?
«Perché nell’elenco avevano inserito Penati, che per un reato ha usufruito della prescrizione pur avendo dichiarato in passato che vi avrebbe rinunciato, e dunque non mi pare che ci sia nulla da risarcire. Io come magistrato svolgo funzioni pubbliche, e se in un procedimento penale vengo accusato di reati poi dichiarati prescritti, per quei fatti scatta l’azione disciplinare. Altro che risarcimento».
Dietro il dibattito che a intermittenza si riaccende sulle sue dichiarazioni c’è sempre il retropensiero che un giorno lei possa scendere in politica, e assumere una carica di governo.
«Sono 25 anni che rispondo che non mi interessa, e che non farò mai politica. E lo ribadisco, di più non posso fare».
Il prossimo anno si voterà per il Parlamento ma anche per il rinnovo del Csm. Lei si candiderà al Csm?
«A questa domanda non rispondo».
Questo significa che potrebbe farlo.
«Significa che non rispondo».
"Frasi gravi e imbarazzanti". Ora il Csm striglia Davigo. Galoppi bacchetta il collega: "Mi auguro smentisca gli incontri con il M5S per suggerire la norma anti Cav", scrive Anna Maria Greco, Venerdì 6/10/2017, su "Il Giornale". Se parlate con magistrati di destra, sinistra, centro, corrente A o corrente B, è un coro di proteste contro le uscite di Piercamillo Davigo. L'ex presidente dell'Anm, già star del pool Mani pulite, con i suoi comizi politici di taglio giustizialista in programmi tv, feste pubbliche e convegni di partito, mette in imbarazzo per primi i suoi colleghi in toga. C'è grande malumore all'Anm e a Palazzo de' Marescialli. Alla prima commissione del Csm e al Procuratore generale della Cassazione (titolare dell'azione disciplinare e membro di diritto del consiglio), arriverà l'esposto del Movimento Fino a Prova Contraria di Annalisa Chirico, che chiede di «fare chiarezza sul rapporto talvolta patologico tra magistrati e mass media», sulla sovraesposizione di toghe come Davigo che, con interventi «apertamente politici», danneggiano l'immagine della categoria. L'ultima che ha sparato martedì dal salotto di Floris su La7 è che «l'imputato che non rifiuta la prescrizione deve vergognarsi», perde «l'onore». E intanto non ha smentito la notizia pubblicata 5 giorni fa dal Giornale di 3 incontri con esponenti del M5S per scrivere l'emendamento anti-Berlusconi al Rosatellum 2.0, sotto esame alla Camera. In sua vece è intervenuto il paladino Marco Travaglio su Il Fatto, appoggiando la posizione sulla prescrizione, scagliandosi contro Il Giornale e il direttore Alessandro Sallusti, assicurando che «Davigo e Grillo non si sono mai incontrati». Ma chi ha parlato di Grillo, in persona? Semmai, di deputati Cinque Stelle. Quasi un'ammissione, insomma. Anche su questo punto il movimento fondato dalla giornalista Annalisa Chirico chiede a Pg e Csm di intervenire. In sostanza, si sollecita un procedimento disciplinare su Davigo o, almeno, una pratica in prima commissione sull'incompatibilità con il suo ruolo di magistrato di Cassazione. «Non spetta a un magistrato - sostiene su Il Foglio Claudio Galoppi, togato al Csm di Magistratura Indipendente e presidente della VII commissione - esprimere valutazioni morali sulle scelte processuali. La prescrizione è un diritto riconosciuto al cittadino, non un salvacondotto per disonesti. Non esiste alcuna equiparazione tra prescrizione e colpevolezza». Per Galoppi, Davigo dovrebbe anche smentire la notizia degli incontri con i grillini sull'emendamento alla legge elettorale. Altrimenti, «non potranno non esserci conseguenze». Perché «si tratterebbe di una condotta gravissima», dice. Gli amici più vicini a Davigo ora fanno pressione sul leader della corrente Autonomia & Indipendenza (nata da una scissione di MI) perché neghi la collaborazione col M5S. Per mesi si è parlato di un rapporto stretto del magistrato con il movimento, anche di una sua candidatura se non a premier almeno a ministro di un possibile governo. Lui ha ripetuto che i magistrati non devono fare politica (perché «non sanno farla») e ha continuato a passare da un convegno del M5S alla Festa del Fatto, dai talk show de La 7 a quelli della Rai. Anche ieri, da Agorà su Rai3, diceva che «la Corte dei conti che si occupa di uscite dello Stato, dovrebbe occuparsi anche delle entrate». Quanto all'eventuale azione disciplinare Galoppi spiega che a promuoverla possono essere solo Pg o ministro della Giustizia, mentre il Csm potrebbe muoversi dopo un esposto, per valutare una «condotta incolpevole ed è arduo sostenere che un magistrato che siede in uno studio tv agisca in assenza di colpa». Pochi giorni fa il Guardasigilli Andrea Orlando commentava: «Mi pare che Davigo faccia anche un po' di politica e sia portatore di idee distanti da questo governo. Ma è anche fisiologico». Fisiologico?
Legnini: "Solo in Italia le toghe passano dai talk show alle aule". Il vicepresidente del Csm: "Non ci sono norme che arginino il fenomeno che porta dalle prime pagine dei giornali a ruoli di rilievo". Sulle carriere di giudici e pm: "Sempre più distinte", scrive il 6 ottobre 2017 "Il Foglio". "In nessun Paese europeo è consentito passare con tanta facilità dai talk show o dalle prime pagine dei giornali a funzioni requirenti e giudicanti, fino alla presidenza di collegi di merito o della Cassazione", ha detto il vicepresidente del Csm, Giovanni Legnini, al congresso dei penalisti. Legnini non ha fatto riferimenti diretti a Piercamillo Davigo, sottolineando che "non ci sono norme per arginare questo fenomeno". "Risolvere questo problema - ha spiegato - è un dovere che spetta a tutti i protagonisti che tengono al rispetto, sacrosanto, dell'indipendenza della magistratura che anche i cittadini devono percepire. Non è in discussione la libertà d'espressione, ma - ha chiarito il vicepresidente del Csm - c'è bisogno di recuperare senso di responsabilità e un esercizio equilibrato delle funzioni". Legnini si è poi espresso sul Codice Antimafia, augurandosi che "possa essere interpretato e applicato in modo che le misure di prevenzione siano adottate nel rispetto dei diritti e delle garanzie fondamentali di ciascuno". In merito alla divisione delle carriere di giudici e pm il vicepresidente del Csm ha ribadito di rispettare l'iniziativa dell'Unione delle Camere penali, che sta raccogliendo le firme per chiedere la separazione delle carriere dei magistrati. Una mossa, secondo Legnini, non necessaria: "Nei dieci anni di attuazione della riforma nell'ordinamento giudiziario il principio della distinzione delle funzioni è andato via via consolidandosi e i percorsi professionali di giudici e pm stanno andando sempre più distinguendosi. La vostra associazione - ha poi sottolineato - sta conducendo una battaglia molto forte, sforzandosi di rifuggire da un'impostazione ideologica. Non so come andrà a finire, ma so che si tratta di un tema divisivo".
I giudizi morali del pm e i danni di immagine per l’ordine giudiziario. Parla Galoppi. Intervista di Annalisa Chirico del 5 Ottobre 2017 su "Il Foglio".
Dottor Galoppi, su La7 il presidente Davigo ha detto che chi non rifiuta la prescrizione deve vergognarsi.
“Sta scherzando, vero?”.
Sulle prime Claudio Galoppi stenta a crederci. In magistratura dal 1997, Galoppi è stato sostituto procuratore a Como, poi giudice a Milano. Oggi presiede la settima commissione del Csm.
“Se il presidente Davigo ha detto così, resto allibito. Non spetta a un magistrato esprimere valutazioni morali sulle scelte processuali. La prescrizione è un diritto riconosciuto al cittadino dall’ordinamento. Un uomo di legge non può far passare l’idea che si tratti di un salvacondotto per disonesti. Il nostro dovere è applicare la legge vigente. La legge la detta il legislatore”.
A sentire Davigo, “non c’è onore nel prendere la prescrizione”.
“E’ un istituto legale con una precisa ratio: decorso un certo lasso di tempo dalla commissione del fatto, viene meno l’interesse dello stato a esercitare la pretesa punitiva. L’imputato che non rinuncia alla prescrizione agisce nel rispetto della legge”.
L’imputato prescritto non merita le stimmate del colpevole?
“Non esiste alcuna equazione tra prescrizione e colpevolezza. La seconda attiene a un giudizio di merito. Nel caso di estinzione per intervenuta prescrizione, tale giudizio non c’è”.
“So distinguere i ladri dai non ladri”, ha tuonato l’ex presidente dell’Anm. Pure lei, dottore, si ritiene dotato di questa capacità discernitiva?
“Senta, io diffido dei magistrati moralizzatori. Le generalizzazioni sono nemiche della verità. Il nostro compito è accertare responsabilità individuali in casi specifici attraverso una rigorosa ricostruzione dei fatti. Certe espressioni ultimative e assolutizzanti sono fuorvianti”. “Capisco che le pronunci un politico, non un magistrato”, continua Galoppi, giudice e membro del Csm. “Mi auguro che lei stia scherzando…”.
Io sono serissima.
“Da magistrato provo un sincero imbarazzo nel dover commentare simili sortite. In primo luogo, un giudice in servizio non partecipa a talk-show politici lanciando giudizi morali e lasciandosi andare a commenti di natura politica. Forse io vivo su Marte…”.
Davigo è tornato in Cassazione, ribadisce in ogni occasione che i magistrati non sanno fare politica, eppure corre da un convegno all’altro, partecipa alla festa del Fatto quotidiano, non sembra disdegnare il corteggiamento pentastellato.
“Osservo con enorme circospezione i casi di vera o presunta contiguità con la politica”.
Siamo tornati alla stagione degli Ingroia?
“Il danno d’immagine per l’ordine giudiziario è il medesimo. Mi ha colpito una notizia di alcuni giorni fa secondo la quale si sarebbero tenuti tre incontri tra Davigo e i vertici del M5s per mettere a punto un emendamento volto a impedire la candidatura di un noto esponente politico”.
Si riferisce alla norma ammazza-Berlusconi? Non ci sono conferme di quegli incontri.
“Io mi auguro che arrivi presto una smentita. Se Davigo non smentirà, non potranno non esserci conseguenze”.
Il modello del magistrato che parla attraverso le sentenze è passato di moda?
“Un giudice, anche in virtù delle competenze tecniche di cui è depositario, può essere interpellato riguardo a procedimenti normativi che incidono, per esempio, sul sistema processuale. Esistono tuttavia severe limitazioni volte a tutelare l’immagine di terzietà, indipendenza e imparzialità che dobbiamo preservare per essere credibili di fronte ai cittadini”.
A compulsare le cause di illecito disciplinare, si scopre che sui magistrati grava non solo l’obbligo di riserbo sui procedimenti in corso ma anche il dovere di astenersi dal “rilasciare dichiarazioni e interviste in violazione dei criteri di equilibrio e misura”. Il Csm ha le armi spuntate?
“Non abbiamo poteri diretti di censura, possiamo valutare le ipotesi di incompatibilità soltanto in relazione a condotte incolpevoli. E’ arduo sostenere che un magistrato che siede in uno studio televisivo agisca in assenza di colpa…”.
Il ministro della Giustizia e il procuratore generale della Cassazione sono titolari dell’azione disciplinare.
“Le ripeto: la notizia di un incontro politico per perfezionare un emendamento alla legge elettorale richiede una smentita. Si tratterebbe di una condotta gravissima”.
Esiste un primato morale del magistrato?
“Siamo uomini e donne in carne e ossa, tra noi ci sono professionisti e cialtroni, onesti e corrotti, come in ogni categoria. Anche noi commettiamo errori, per questo esistono le impugnazioni. Mi dispiace che certe uscite pubbliche gettino discredito sull’intera magistratura. Prestiamo un giuramento di fedeltà alla Repubblica. Forse io sono un romantico idealista ma la toga, mi lasci dire, va indossata con lealtà e rispetto”.
La prescrizione non si tocca, lo ha ribadito la Cassazione. Rigettato il ricorso del procuratore generale di Belluno per un procedimento per frode fiscale, scrive Damiano Aliprandi il 27 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Salvaguardata, ancora una volta, la prescrizione e il diritto alla determinatezza del nostro ordinamento giudiziario grazie a una sentenza della Cassazione (n. 4709/18 depositata il 18 ottobre). Sono ancora gli effetti della sentenza della Corte europea dei diritti umani “Taricco” e l’altra “Taricco bis” che riaffermò il “primato del diritto dell’Unione” quale dato acquisito nella giurisprudenza costituzionale, ai sensi dell’art. 11 della Costituzione, condizionato all’osservanza dei “principi supremi dell’ordine costituzionale italiano e dei diritti inalienabili della persona”. Il problema si è riproposto quando il Tribunale di Belluno, nel 2016, aveva dichiarato di non doversi procedere nei confronti di due imputati per evasione fiscale in quanto i reati dovevano considerati estinti per prescrizione. Il procuratore presso la Corte di appello di Venezia, però, ha impugnato il provvedimento in Cassazione ritenendo che fosse stato disatteso il principio affermato dalla Corte di giustizia Ue (causa dell’ 8 settembre 2015) che porterebbe alla disapplicazione degli articoli 160 e 161 codice penale sulla prescrizione delle frodi gravi in materia di Iva. La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso sulla scorta della successiva sentenza “Taricco bis”, intervenuta in seguito alla questione pregiudiziale sollevata dalla Corte Costituzionale che aveva rilevato un’ipotesi di incompatibilità, perché riteneva che la decisione (“Taricco”) fosse non conforme ai principi di determinatezza delle norme di diritto penale sostanziale, oltre che a quello di impedire l’arbitrio applicativo del giudice. Per questo la Consulta chiedeva ai giudici europei un’interpretazione “correttiva”. E così fu: infatti con la sentenza “Taricco bis”, la Cedu cercò una mediazione tra i principi della sua precedente decisione e le esigenze di tutela dei principi costituzionali interni. Anche la Cassazione quindi con questa pronuncia di rigetto sembra accogliere e fare proprio quello che la Cedu aveva statuito nel tentativo di andare incontro alle esigenze di costituzionalità del diritto nazionale in tema di principio di legalità. “I giudici nazionali competenti, quando devono decidere, nei procedimenti pendenti, di disapplicare le disposizioni del codice penale in questione, sono tenuti ad assicurarsi che i diritti fondamentali delle persone accusate di avere commesso un reato siano rispettati”, questo scrisse la Cedu per non dimenticare il principio di legalità in termini di determinatezza del diritto e l’irretroattività della legge penale. È la stessa Consulta che prende atto di questo tentativo di mediazione e, con sentenza ( 115/ 2018), a seguito della “Taricco bis” si pronuncia confermando che è demandato alle autorità giudiziarie nazionali “il compito di saggiare la compatibilità della “regola Taricco” con il principio di determinatezza in materia penale”; in più la Consulta aggiunge che, in tale evenienza, per giungere a disappliessere care la normativa nazionale in tema di prescrizione, è necessario che il giudice nazionale “effettui uno scrutinio favorevole quanto alla compatibilità della “regola Taricco” con il principio di determinatezza, che è sia principio supremo dell’ordine costituzionale italiano, sia cardine del diritto dell’Unione, in base all’art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”. Il procuratore generale aveva richiamato la “Taricco” e la successiva sentenza della Corte di Cassazione del 17.9.2015, ma la Corte di Cassazione non accogliendo le sue argomentazioni, ha ritenuto di obiettare i principi “correttivi” inseriti nella cd “Taricco bis”, riconoscendo al giudice nazionale di aver salvaguardato le norme interne rispetto alle statuizioni della “Taricco” che era in contrasto con la determinatezza del diritto applicabile interno.
Codice riformato e depenalizzazioni. Che ne dice il Fatto? Note a margine dell'articolo di Peter Gomez sulla prescrizione di Massimo Bordin del 3 Novembre 2018 su "Il Foglio. Ieri sulla prescrizione il Fatto ha pubblicato due articoli uno dei quali merita un approfondimento. Peter Gomez ha intelligentemente evitato di compiacere un sentire diffuso fra i lettori del suo giornale e non ha imputato il fenomeno, che è comunque meno esteso di quanto chi legge i giornali sia indotto a credere, alle attività dilatorie dei difensori degli imputati. Peraltro la melina difensiva con le leggi attuali è praticamente impossibile. Gomez addebita il problema al numero spropositato dei processi che si celebrano e alla riforma che ha modificato il rito processuale da inquisitorio ad accusatorio. La relazione fra le due questioni non è banale e offre lo spunto per un dibattito razionale e non urlato. Troppi processi? Giusto, anzi sacrosanto. Si tratta di un fenomeno che alcuni giuristi e molti sociologi chiamano da qualche decennio pan-penalizzazione. In parole povere molte controversie che potrebbero essere risolte in altre sedi intasano le cancellerie dei tribunali penali. La soluzione dovrebbe essere un’ondata di depenalizzazioni. Difficile credere che al Fatto approverebbero. Quanto al codice riformato, Gomez nota che se la prova deve formarsi in dibattimento, il lavoro di indagine dei pm si duplica e questo allunga i tempi, pur migliorando le garanzie. Verissimo, ma va pure notato che se il 70 per cento delle prescrizioni matura nella fase delle indagini quando la duplicazione non si è ancora verificata, è difficile definirla la causa principale. Il tema però è importante perché un bilancio della riforma andrebbe fatto, considerato che risale al 1987 ma pur essendo passati trent’anni se ne discute ancora come se l’avessero approvata l’anno scorso.
Prescrizione: tu quoque, Lilli Gruber…, scrive Piero Sansonetti il 31 Agosto 2018 su "Il Dubbio". La polemica. Persino Lilli Gruber, che pure è una giornalista molto esperta, intelligente e di ottima cultura, ieri non ha resistito alla tentazione di gettarsi, lancia in resta, contro la prescrizione. Indicandola come il simbolo e il cuore dei problemi della giustizia italiana. Lo ha fatto scrivendo sul “7” (il settimanale del Corriere della Sera), in risposta alla lettera di un lettore. Tu quoque, Lilli Gruber, appoggi la campagna contro la prescrizione? Questo lettore (Mauro Chiostri), dopo una serie di osservazioni molto serie e garbate sui politici che hanno usato il disastro di Genova come ottima occasione per fare propaganda, tocca, con una certa indignazione, il tema della prescrizione, sostenendo che probabilmente salverà tutti i colpevoli. Lilli Gruber gli risponde dandogli ragione, e raccontando di come, all’inizio degli anni settanta, per poche settimane la prescrizione non salvò alcuni dei responsabili del disastro del Vajont. E infine esprimendo l’augurio che il nuovo governo sia in grado, su questo terreno, di dimostrare le proprie capacità riformatrici. Intendendo dire immagino – che il governo- Conte potrebbe dar prova delle sue capacità attuando il programma dei 5 Stelle e abolendo, o almeno allungando molto, i termini di prescrizione. Del disastro del Vajont abbiamo già parlato nei giorni scorsi. E’ stato una delle più grandi tragedie nazionali del dopoguerra. Quasi duemila morti travolti da una inondazione gigantesca e violentissima che ridusse in sassi e polvere un intero paese, Longarone, in provincia di Belluno. L’inondazione fu provocata da un pezzo del monte Toc, che si staccò e piombò nel bacino della diga, appunto la diga del Vajont (che è ancora lì, forte e maestosa) che era una costruzione recente e realizzata ad opera d’arte in tutto e per tutto tranne che per un particolare: il rischio di frana del Monte Toc, che i geologi conoscevano e che alcuni giornalisti coraggiosi avevano denunciato, prendendosi improperi e sberleffi da imprenditori, politici e dai mostri sacri del giornalismo italiano.
Eravamo nel novembre del 1963. Il processo si concluse otto anni dopo. Effettivamente alla vigilia della prescrizione. Allora c’era un altro codice di procedura penale, un’altra magistratura, un’altra stampa. Anche il codice penale era diverso, molto meno attento ai reati ambientali. Le imputazioni contro i responsabili furono abbastanza leggere, e questo accorciò i termini di prescrizione. I due imputati maggiori furono condannati a sei e a quattro anni e mezzo di prigione.
Oggi, per Genova, c’è il rischio della prescrizione? Naturalmente, essendo passati pochi giorni dalla tragedia del ponte crollato, è difficile immaginare se ci saranno imputati, per quali reati, e in che tempi. E’ un’indagine molto complessa, e individuare le responsabilità non sarà facile. La frase del premier Conte (“non possiamo aspettare i tempi della giustizia”) è stata infelice, una vera e propria gaffe, fortunatamente criticata un po’ da tutti. Quello che sappiamo è che i rischi di prescrizione, se saranno individuati gli imputati, sono molto bassi. Proviamo a immaginare i reati. Disastro colposo e/ o omicidio plurimo colposo. Nel primo caso credo che la prescrizione potrebbe scattare dopo 12 anni, nel secondo caso (abbastanza probabile perché ci sono 43 morti) credo che la prescrizione scatti dopo 30 anni.
Basteranno? Ammettiamo anche – per assurdo – che non bastino, e che nell’agosto del 2048 il processo sia ancora in corso. Sarebbe in quel caso giusto o no cercare di andare avanti per condannare magari nel 2040 o nel 2045 eventuali imputati rimasti in vita e ragionevolmente ultraottantenni? Vedi, amica Gruber, il problema è questo: nel “senso comune” ormai è affermatissima l’idea che il male della giustizia sia la prescrizione, e che la prescrizione sia una norma salva- manigoldi, abilmente usata dagli avvocati, e voluta sostanzialmente da Berlusconi per coprire i suoi magheggi. Beh: è una fake news. Esattamente come tante altre fake news che avvelenano il nostro dibattito politico, a partire da quelle su l’invasione dei migranti, sull’aumento degli sbarchi, sull’impennarsi della criminalità, e sull’aumento esponenziale della corruzione politica. La prescrizione non è affatto il male della nostra giustizia, non è affatto un marchingegno degli avvocati, non è affatto un’invenzione di Berlusconi: è semplicemente una misura che in parte – solo in parte – attenua gli effetti deleteri di una giustizia lentissima e che funziona male. E’ chiaro che uno dei nostri problemi è la lentezza della giustizia. I tribunali sono intasati. Non si risolve sicuramente questo problema concedendo ai magistrati il diritto al processo infinito. Il processo infinito è peggio del processo lunghissimo. E ha tra i suoi effetti quello di rendere ancora più lunga la giustizia. Il processo sul Vajont, nelle sue ultime fasi, fu affrettato proprio per evitare la prescrizione. Altrimenti sarebbe durato anni ancora. La prescrizione è una misura che serve a garantire un minimo di giustizia. Il diritto a un processo giusto e rapido, affermato nell’articolo 111 della Costituzione, riguarda sicuramente le vittime dei reati, ma anche gli imputati. I quali, per altro, come si sa, non sempre sono colpevoli. La lunghezza del processo è già una condanna insopportabile e sommamente ingiusta per un imputato innocente. Ma è una ingiustizia anche una condanna che arriva venti o trenta anni dopo il reato, quando l’imputato è una persona molto diversa da quella che aveva commesso il delitto. Poi c’è un’altra cosa da dire, così, solo perché si sappia: non è vero che sono gli avvocati quelli che lavorano per giungere alla prescrizione. Nel 70 per cento dei casi la prescrizione scatta prima che il processo cominci, e dunque prima che l’avvocato possa neppure iniziare a muoversi. Vedi, Gruber, quanti luoghi comuni? Sono molto pericolosi perché spingono l’opinione pubblica a scagliarsi contro il diritto alla difesa e al giusto processo. Specie in coincidenza con le grandi emozioni nazionali, prodotte da sciagure come quella di Genova. Ma allora come si può fare per sveltire la giustizia? Bisognerebbe investire un po’ di soldi, per rafforzare le strutture e aumentare il personale. Questo è essenziale. E poi si potrebbero fare alcune piccole riforme a costo zero. Per esempio: abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, rinuncia all’appello da parte dell’accusa (come in molti paesi occidentali), responsabilità civile dei magistrati. Poi io penso che si potrebbe prendere un’altra misura molto utile (richiesta da anni dagli amici radicali: una robusta amnistia. Piccole cose? No, probabilmente dimezzerebbero i tempi della giustizia, senza offendere lo stato di diritto. Il problema è che non piacciono a una parte della magistratura. Che è sempre riuscita a bloccarle.
Se La Repubblica vuole ancora più processi, scrive Giovanni Torelli su “L’Intraprendente” il 15 febbraio 2016. No, alla sinistra non basta la quantità abnorme di processi penali che si celebrano ogni anno in Italia e di quelli ancora pendenti (sono circa 3 milioni e mezzo). Ne vuole ancora di più, perché desidera un sacco alimentare sia la macchina della Burocrazia che quella del Giustizialismo. E così, in un dossier pubblicato lo scorso sabato, la Repubblica lamenta il fatto che, per colpa della prescrizione troppo breve voluta dalla legge ex Cirielli del 2005, nel nostro Paese vengano cancellati ogni anno circa 130mila reati. E che quindi altrettanti presunti colpevoli restino inevitabilmente impuniti…Insomma, alla macchina già ingolfata della giustizia italiana (la cui inefficacia non è certo colpa della prescrizione troppo breve, semmai della lentezza di certi magistrati) la Repubblica vorrebbe aggiungere un ulteriore carico, appoggiando l’ipotesi di riforma voluta dal ministro della Giustizia Orlando, che intende allungare di tre anni per tutti i processi penali i tempi della prescrizione. Il sovraccarico potrebbe essere facilmente calcolabile: “riabilitando” 130mila processi annui è verosimile che in un decennio i processi ancora pendenti in Italia diventino circa 5 milioni. Che dire, un’ideona…E vabbè, uno dirà, non è giusto che 80mila fascicoli non arrivino neppure in sede di dibattimento ma vengano bloccati dalla scure della prescrizione già in fase di indagini preliminari; ed è ingiusto che la giustizia non faccia il suo pieno corso, “costringendo” oltre 23mila processi a fermarsi in primo grado per raggiunti limiti di tempo e altri 24mila a bloccarsi in Appello per la stessa ragione. La giustizia piena vuole che siano affrontati tutti i tre gradi di giudizio, dicono loro. È una forma di garanzia verso l’imputato ma anche di sicurezza che il colpevole ottenga la giusta pena, dicono loro. Il punto vero però è che molte di quelle indagini preliminari muoiono ancor prima di addivenire a giudizio perché vengono aperte in ritardo rispetto al reato, sono fondate su prove inconsistenti, non hanno riscontri concreti e tergiversano fino a concludersi in un nulla di fatto: altroché prescrizione, molte di quelle indagini non dovevano neppure essere aperte. Se poi in fase di dibattimento quei processi si arenano fino a interrompersi, la colpa spesso è oltre che dell’oggettiva lentezza della giustizia italiana (che ha scambiato il garantismo con una dilazione immotivata di tutti i passaggi processuali) anche di una mancata operosità di chi dovrebbe invece favorire l’accelerazione di quei processi. Il fardello pendente dei processi mai portati a compimento, per capirci, grava non solo sulle spalle dell’imputato, ma soprattutto sulle coscienze di dipendenti (non sempre efficienti) dello Stato che si chiamano magistrati. E non vorremmo che la riforma della prescrizione voluta da Orlando e difesa da la Repubblica diventi una scusa per prolungare ulteriormente i tempi di lavoro dei giudici. Avranno pure le ferie più corte, adesso, ma hanno anche tre anni in più per trastullarsi con le carte di un processo…
I penalisti contro la riforma della prescrizione: «é una norma autoritaria che viola la Costituzione». I penalisti contro l’emendamento che blocca la prescrizione dopo la sentenza di primo grado. Ma i 5Stelle tirano dritto, scrive il 3 Novembre 2018 "Il Dubbio". “La norma-manifesto che il Ministro della Giustizia aveva preannunciato e che gli Onorevoli Businarolo e Forciniti del Movimento 5 Stelle hanno tradotto in un emendamento al DDL anticorruzione, è espressione di una concezione autoritaria del diritto penale e del processo». Non usa mezzi termini la Giunta delle Camere penali e boccia senza appello l’emendamento voluto da guardasigilli che sospende la prescrizione dopo il primo grado di giudizio. «La prescrizione nel nostro ordinamento – spiegano le Camere penali – ha un preciso significato ed è a pieno titolo uno degli elementi del patto sociale. L’istituto della prescrizione ha origini antiche e chi oggi ipotizza la sua sostanziale abolizione è disposto a cancellare conquiste della civiltà giuridica pur di ottenere risposte di vendetta sociale in nome di una efficienza che lo Stato non sa altrimenti garantire». I penalisti poi confermano lo stato di agitazione, in difesa dell’articolo 111 della Costituzione che garantisce la ragionevole durata del processo. Ma i 5Stelle sembrano tirare dritto e sulle presunte incomprensioni con la Lega, che a quanto pare ha molti dubbi sulla prescrizione immaginata dal ministro Bonafede – Di Maio risponde: «Lo stop alla prescrizione è entrata nel contratto di governo» prevedendo «che la decorrenza dei termini si ferma dopo il primo grado di giudizio». La riforma della prescrizione dunque «si farà, magari ci sono dei problemi interni alla Lega, non lo so e non mi interessa», scrive il vicepremier su Facebook, sottolineando: «Questo è il governo del cambiamento, non difende i furbi ma gli onesti». E poi: «Per quanto mi riguarda lo stop alla prescrizione deve entrare nella legge spazza- corrotti perché la prescrizione oggi è la legge dei furbi», continua il vicepremier Di Maio: «In questo paese, i più grandi furbetti del quartierino si sono salvati dai processi grazie alla prescrizione. Con la prescrizione si sono salvati grandi personaggi tra cui Licio Gelli. Bisogna arrivare a processo».
«Fermatevi o è rottura coi penalisti». «Se resta l’emendamento sulla prescrizione, con noi penalisti non c’è più dialogo». Lo dice Eriberto Rosso, segretario dell’Unione Camere Penali, scrive Errico Novi il 7 Novembre 2018 su "Il Dubbio". «Astensione: la risposta sarà questa. Se il governo non torna indietro, se il ministro non corregge la traiettoria sulla prescrizione, sicuramente i penalisti italiani si asterranno. Ci sarà una grande risposta, come è chiaro dall’indignazione che attraversa in queste ore l’avvocatura penale». Eriberto Rosso è da pochi giorni segretario dell’Unione Camere penali. È lui che il nuovo presidente Gian Domenico Caiazza ha voluto come più prossimo compartecipe della difficile sfida che gli è toccata. Insieme hanno visto il guardasigilli Alfonso Bonafede ieri mattina, a via Arenula. E Rosso, avvocato fiorentino da tempo impegnato nella politica associativa, è come se guardasse con occhi pieni di sconcerto al terremoto che sembra battezzare il suo incarico».
Il ministro vi è sembrato disposto a riconsiderare tempi e sostanza della modifica sulla prescrizione?
Mi pare disponibile a ragionare su una via d’uscita. Anche per ragioni di equilibri interni alla maggioranza. Ci è sembrato aperto a riconsiderare quanto meno la forma davvero misera in cui i deputati del suo gruppo hanno formulato l’emendamento. Spero che la maggioranza rifletta, di fronte alla mobilitazione degli avvocati, allo stupore della parte più sensibile della magistratura, di fronte ai tanti giuristi che hanno reagito in maniera chiara».
E se invece resta il blocco dopo la sentenza di primo grado?
«La nostra risposta sarà dura. In questi casi le Camere penali sanno coniugare opposizione netta e in- transigente con la capacità di offrire un contributo di approfondimento. Ci asterremo e non resteremo a guardare. Intanto, di fronte al pasticcio combinato sull’emendamento, va accolta la dichiarazione del presidente della Camera, Fico, che assicura di voler verificare la correttezza della procedura. Una cosa è certa: si tratta di un colpo di mano ingiustificabile. Tanto che anche la maggioranza sembra esserne squassata. Ma a Bonafede abbiamo fatto notare anche altro».
Cosa?
«Da una parte abbiamo apprezzato il modo in cui è corso ai ripari dopo quella frase, quell’“azzeccagarbugli” che, ci ha spiegato, è stata una voce dal sen fuggita. Gli abbiamo dato atto di aver sùbito telefonato a noi e al presidente del Cnf Mascherin. Ma nel ddl Anticorruzione ci sono diversi altri aspetti che paiono frutto del populismo più sprovveduto. Cito la non punibilità dell’agente provocatore, confezionata con delle limitazioni concepite per scongiurarne l’incostituzionalità ma chiaramente inefficaci. Lo avevamo detto già in audizione. Ma certo se non si toglie di mezzo l’emendamento sulla prescrizione, gli spazi di confronto si azzerano».
Qual è la conseguenza più grave di quella modifica?
«Premessa: agirà, in concreto, fra almeno una decina d’anni, a meno di non abbattere quel principio elementare per cui la norma penale sostanziale opera solo sui reati futuri. Ma in termini di principio, ci rendiamo conto o no, che se si dice ‘ da quel momento la prescrizione non opera più’, si resta sotto la scure del processo per un tempo indefinito? E ancora, ci si rende conto o no, che se il pm impugna un’assoluzione, la persona si trova con l’incubo di una condanna in appello che può travolgerlo senza limiti di scadenza? È incredibile».
Se invece il ministro aprisse un tavolo con avvocati e magistrati, ci andreste?
«Se si tratta di discutere su cosa non funziona nel processo penale, sulla stratificazione di norme che hanno scombinato il modello accusatorio e ingigantito per esempio i poteri del pm, andremmo sicuramente a discuterne. E se in un simile quadro di revisione dicessero di voler parlare anche di prescrizione, andremmo a dire la nostra e a sentire cosa hanno in mente. Non ci sottraiamo. È la proposta avanzata dal presidente Mascherin e l’Ucpi sarebbe senz’altro un interlocutore attivo. Se invece l’idea è di proporci una pacchetto chiuso e concederci solo di dire cosa ne pensiamo, noi penalisti reagiremo con gli strumenti che siamo in grado di mettere in campo e coglieremo l’occasione per condurre una grande opera di sensibilizzazione nella società, per additare i rischi a cui si espone lo Stato di diritto».
Un’ultima cosa. Alla maggioranza dell’Anm lo stop della prescrizione piace: ma crede che le toghe sarebbero pronte a invitare esse stesse la politica a una riflessione pur di non perdere del tutto l’interlocuzione con l’avvocatura?
«Ci muoviamo per questo. Non solo me lo auguro, ma sono convinto che possa andare proprio così. E ne trovo validi auspici nelle parole pronunciate al nostro congresso di Sorrento da magistrati come il procuratore di Napoli Melillo e la segretaria di Md Guglielmi. Mi sembra che in tanti, anche nella magistratura associata, siano interessati al confronto».
L’ARTICOLO 111 PARLA DI RAGIONEVOLE DURATA DEL PROCESSO: UNA DURATA CHE PUÒ ESSERE INFINITA È RAGIONEVOLE?»
De Luca: “Bonafede e blocco prescrizione? E’ notte fonda nella giustizia. Da oggi lui si chiamerà ministro Bonanotte”, scrive Gisella Ruccia il 2 novembre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Giustizia? E’ notte fonda, è buio pesto. Una mattina si è svegliato il ministro Bonafede, che da oggi in poi si chiamerà “il ministro Bonanotte”, e propone di eliminare dopo il primo grado di giudizio i termini delle prescrizioni”. Così, su Lira Tv, il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca commenta l’emendamento al ddl Anticorruzione, annunciato dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede. E aggiunge: “Secondo il ministro, i processi possono durare in eterno, così le persone perbene e quelle innocenti avranno la vita rovinata, perché non puoi vivere per decenni con problemi irrisolti. Si avrà anche un ulteriore aggravio del sistema giudiziario e violeremo un principio costituzionale che obbliga l’Italia a garantire un processo in tempi ragionevoli. Tu non puoi sospendere la vita di una persona perché non hai un sistema giudiziario efficiente. Questo” – continua – “sarebbe un altro passo gigantesco verso la barbarie, verso la cancellazione dello Stato di diritto, che già in buona parte è stata acquisita nel nostro Paese. L’Italia, che era il Paese del diritto, approva norme che calpestano lo Stato di diritto, a cominciare da alcune norme previste dalla legge Severino”. De Luca sottolinea: “Mi auguro che non si vada avanti in maniera scapigliata, come vorrebbe il ministro ‘Buonanotte’. Le opposizioni faranno la battaglia che riterranno di fare. Ma l’opposizione, a cominciare dal Pd, deve anche fare qualche autocritica. Sui temi della civiltà del diritto e dello Stato di diritto anche il Pd ha avuto cedimenti drammatici e irresponsabili negli anni passati. Speriamo che almeno adesso si redimano”.
Fine-processo mai: e la Costituzione? Intervista a Padovani. «Hanno inventato la categoria del processo eterno». A dirlo, con amara ironia, è Tullio Padovani, uno dei maestri del Diritto penale in Italia, scrive Errico Novi l'1 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Ride. Non riesce a trattenersi. «Sa, io da un po’ sono stato accolto nell’Accademia dei Lincei. Forse sbagliano. L’Accademia è per gente che studia, pondera e riflette bene prima di esprimersi. Io sono uno che mena le mani». E invece qui il professor Tullio Padovani, maestro del diritto penale, avvocato e studioso che continua a formare schiere di giuristi alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa, ride proprio perché ha capito benissimo. Ha colto la gigantesca irrazionalità dell’ultima “riforma” sulla prescrizione. «La fanno per usarla come slogan. Avrà i suoi effetti non prima di 4 o 5 anni, perché la prescrizione è principio di diritto sostanziale e le novità non potrebbero applicarsi a un reato commesso prima della loro entrata in vigore. Poi la modifica sarà dichiarata incostituzionale, mi pare evidente. Ma intanto si fa baccano. E si allungano i processi in corso».
Perché, professore?
«Semplice: ci sarà un’ubriacatura generale. Intanto il magistrato saprà che gli basta chiudere il primo grado un minuto prima che scatti la prescrizione. Poi le fasi successive del processo potranno durare anche in eterno. Hanno inventato la categoria del processo eterno. Non posso trattenere il riso perché in questo emendamento c’è anche un aspetto comico. Ma poi certo, ci si rende conto di quanto siano difficili e pericolosi i tempi in cui ci tocca di vivere».
Partiamo dall’aspetto comico.
«Nell’emendamento è scritto che la prescrizione è sospesa. Fino a quando? Scrivono: fino al giudicato. O alla irrevocabilità del decreto di condanna. C’è un dettaglio: a quel punto la prescrizione non può più decorrere. Non c’è più tempo. Che senso ha usare la parola “sospensione”? La sospensione è una parentesi. Qui la parentesi non si chiude. È uno strafalcione che rivela l’atteggiamento davvero approssimativo con cui è stato formulato l’emendamento. Dopodiché mi pare chiaro che sia incostituzionale».
Ci spieghi esattamente anche la ragione dell’incostituzionalità.
«La prescrizione da noi ha due anime. Una obbedisce al principio per cui su un determinato reato, dopo che è trascorso tanto tempo, viene meno l’interesse sociale a realizzare la prevenzione che la legge penale assicura. Si impone il trionfo dell’oblio. L’altra anima è nella necessità di dare seguito a quanto previsto dall’articolo 111: la legge assicura la ragionevole durata del processo. Così il processo invece diventa potenzialmente eterno. Durata eterna vuol dire durata ragionevole? Non credo».
Il ministro della Giustizia ha risposto in via preventiva: abbiamo stanziato 500 milioni per assumere magistrati e personale in modo da fronteggiare il maggior carico processuale che deriverà dalla “nuova” prescrizione.
«Dimentica che ogni legislatura ha la sua disgrazia e che in quella precedente si è materializzata con la riforma Orlando. Lì si è già introdotta una bella franchigia rispetto al bilanciamento fra il trionfo dell’oblio e il cosiddetto rito della memoria che si rinnova negli atti qualificanti del processo. Con quella modifica si è regalato un bonus complessivo di tre anni rispetto al naturale decorso della prescrizione, due anni in particolare previsti per l’appello. Le assunzioni servirebbero per rimediare a tale già criticabile novità. Adesso invece si altera del tutto il sistema».
L’allungamento dei tempi sarà inevitabile?
«Nei processi senza detenuti non c’è la sollecitazione dei termini di custodia cautelare, che si rinnovano fase per fase e mettono fretta: laddove viene meno il timore di finire sui giornali per un imputato di mafia rimesso in libertà, è la prescrizione a sollecitare il ritmo del processo. Ma con l’abolizione dopo il primo grado, l’appello si potrà fare dopo quattro o cinque anni, la Cassazione quando parrà più comodo. Certo, è insensato pensare che la modifica appena presentata passi il vaglio di costituzionalità. Ma intanto l’ubriacatura generale raddoppierà la durata dei procedimenti per i reati successivi all’entrata in vigore della norma».
Con un bel po’ di indagati ricattati dall’incubo di restare a vita nelle mani del pm: la prescrizione verrebbe bloccata persino se assolti in primo grado.
«Certo. Ho sostenuto a suo tempo che il pm non può presentare appello contro sentenze di non colpevolezza. Il povero Pecorella ne trasse spunto per la sua famosa legge, la Consulta presieduta ne dichiarò l’incostituzionalità con una pronuncia molto criticabile. Fatto sta che se un giudice ti riconosce innocente, a seguito di un rito regolare, fuori dai casi di nullità dovuta per esempio a prove assunte in modo illegittimo, nessun altro giudice potrà mai riformare quel giudizio e condannarti oltre ogni ragionevole dubbio. Tanto è vero che nei Paesi civili, e non barbarici, l’appello del pm in caso di assoluzione non esiste. Anziché procedere in quella direzione ne scegliamo una diametralmente opposta ai princìpi di uno Stato liberale di diritto».
Si cancella anche la norma della ex Cirielli che non consentiva di far decorrere la prescrizione dal reato più recente di una serie continuata di delitti.
«Quella riforma fu necessaria dopo che con Vassalli si erano allargate le maglie in modo da poter scorgere la continuazione tra reati anche molto diversi. Quella di Vassalli fu una scelta deflattiva che impose la modifica introdotta con la ex Cirielli. Se con l’emendamento Bonafede tale modifica va a farsi benedire, si consegna al giudice il potere di stabilire se c’è un unico disegno criminoso e quindi se un reato altrimenti già prescritto può ancora essere perseguito. In eterno. Viene di nuovo da ridere. Ma è anche una scorciatoia per non cedere allo spavento».
Giustizia alla frutta. Spesi 84 milioni per i fascicoli "scaduti". Secondo “Il Giornale”: Migliaia di casi l’anno in prescrizione, ma lo Stato paga lo stesso. E per recuperare un credito servono 1.200 giorni. Spendiamo tanto. Troppo. E abbiamo sempre l’acqua alla gola. La giustizia tricolore è una macchina scassata. Non funziona quella penale, va male quella civile, le aule sono intasate da milioni di procedimenti e i giudici assomigliano a quel bambino che voleva svuotare il mare con un secchiello. I dati - le analisi di Confindustria, Confartigianato, Banca d’Italia e Banca Mondiale - sono impietosi: basti dire che il 42 per cento dei detenuti è in custodia cautelare. In poche parole, stanno in cella ma l’iter giudiziario è ancora in corso e potrebbero essere assolti. Anzi, per dirla con il paradosso formulato da Carlo Nordio, si entra in cella da innocenti e si esce colpevoli. Il governo Monti ha varato una norma per alleggerire la pressione nei penitenziari, ma si torna all’oceano di prima. Forse, e anche senza forse, si dovrebbe avere il coraggio di rivedere e limitare la mitica obbligatorietà dell’azione penale, intoccabile più dell’articolo 18.
Altro rimedio è intaccare la impunità e la irresponsabilità dei giudici. In questo modo starebbero più attenti a non sbagliare. Intanto i codici si gonfiano con reati nuovi di zecca, le Commissioni - Grosso, Nordio, Pisapia - sfornano poderosi tomi che predicano nel deserto la depenalizzazione e poi vengono sigillati in un cassetto. Risultato: si aspetta alla lotteria per vedere come va a finire questo o quel procedimento; ogni anno 165mila fascicoli vanno in prescrizione, insomma la ruota gira a vuoto, con uno spreco per lo Stato di 84 milioni l’anno, calcolando prudenzialmente 521 euro a processo. Quando preture e tribunali furono unificati, nel ’96, il procuratore di Napoli Agostino Cordova trovò migliaia e migliaia di faldoni abbandonati, come merce deperita, in qualche scantinato. «La spada della giustizia - spiegò amareggiato - è fatta di latta». Il tempo non ha lenito le ferite. Anzi. Nel 2008 qualcosa di analogo è accaduto a Bologna: sono saltati fuori 3.300 fascicoli di indagini in corso, chiusi a chiave in un armadietto e dimenticati. Ovviamente molti di quei reati, furti e ricettazioni, sono caduti in prescrizione.
Basta. Tempo scaduto. Non c’è più sabbia nella clessidra della giustizia. Si viaggia a velocità ridotta, a passo d’uomo. Eppure l’andatura rilassata non elimina gli errori, o, forse, fa venire ai giudici, che esaminano e riesaminano le pratiche, dubbi su dubbi fino a capovolgere i verdetti. Dalla colpevolezza all’innocenza, qualche volta, raramente, sul cammino inverso. Così ogni 12 mesi si affrontano nelle aule oltre 2mila procedimenti per ingiusta detenzione, o addirittura, per errore giudiziario. Quello che non dovrebbe mai accadere, perché viene scoperto a tempo scaduto, quando la sentenza era divenuta, come si dice, irrevocabile. Con il timbro della Cassazione. E invece capita che debba essere revocata, con tante scuse e con un assegno sostanzioso per gli anni passati dal malcapitato di turno in qualche carcere. È quel che si sta delineando per un manipolo di disgraziati, ingiustamente spediti all’ergastolo per la strage di via D’Amelio, in cui morì Paolo Borsellino con la scorta. Nel solo 2011, secondo il Dipartimento dell’organizzazione giudiziaria del ministero della Giustizia, lo Stato ha erogato risarcimenti per 46 milioni di euro. Sul fronte del civile, l’ultimo governo Berlusconi e poi l’esecutivo Monti hanno alzato il muro della mediazione obbligatoria, per fermare alla partenza i troppi fascicoli che smaniano per entrare nelle aule. Ma questo fa pensare: tra mediazione obbligatoria ed ausilio dei Giudici di Pace e dei Giudici del Tribunale onorari e dei sostituti procuratori onorari (tutti avvocati), ai togati cosa resta di fare. Forse solo politica!
È ancora presto per tentare bilanci, intanto ci teniamo i cinque milioni e mezzo di fascicoli pendenti. Molte imprese straniere girano alla larga dal nostro Paese perché considerano i nostri tribunali come sabbie mobili in cui svaniscono gli investimenti. Il governatore della Bce Mario Draghi, più sobrio, ha spiegato che una riforma seria del civile vale un punto secco del Pil. Del resto per recuperare un credito ci vogliono 1.210 giorni in Italia contro i 515 della Spagna, i 399 dell’Inghilterra, i 331 della Francia e i 300 degli Usa.
Dovunque ci si sposti si rischia di cadere male: ci vogliono dieci anni, di media, per chiudere un fallimento e nove anni per una causa davanti alla giustizia tributaria. Il sistema è tarato male da tutti i lati: gli avvocati italiani sono 240mila. Una cifra monstre. Quelli della provincia di Milano equivalgono a quelli dell’intera Francia. E Piercamillo Davigo, il dottor sottile del Pool, sottolineava che in Francia per ogni giudice operano 7,1 avvocati, da noi 26,4. Un rapporto malato. E lo Stato, in versione Pantalone, spende molto e male: 7,5 miliardi e mezzo per procure e tribunali. Più cara di noi c’è solo la Germania che però sventola una bandiera a noi sconosciuta: quella dell’efficienza.
Secondo Stefano Zurlo su “Il Giornale” "La prescrizione quotidiana" conta 466 processi. A testimoniare l’urgenza di una riforma ci sono le cifre impressionanti fornite dall'ex ministro Alfano. Per la scadenza dei termini negli ultimi dieci anni sono andati in fumo 2 milioni di procedimenti. È una strage silenziosa che si consuma giorno per giorno nelle aule dei tribunali. I procedimenti muoiono prima di arrivare alla sentenza e i giudici si trasformano in medici che ne certificano la morte. Uno spettacolo avvilente che colpisce migliaia di notizie di reato. L'ex ministro Angelino Alfano dà due numeri che rendono l’idea di quel che avviene: ogni 24 ore vengono cancellati in Italia 466 procedimenti, circa 170mila ogni anno. Centosettantamila su 3 milioni e 300mila fascicoli pendenti. Più del 5 per cento del totale. Dati impressionanti che diventano ancora più clamorosi se li si considera in fila: nell’arco di dieci anni sono spariti circa 2 milioni di processi. Una situazione che è figlia di un sistema che persegue troppi reati. E non funziona bene. Risultato: molti fascicoli vengono aperti dal gip, ancora in sede di udienza preliminare, quando è troppo tardi. Gli uffici dei gip archiviano, perché il tempo è scaduto, ben 117.463 procedimenti ogni 12 mesi. In pratica è nella stanza del gip il grande imbuto che porta via molte notizie di reato. Il 71,6 per cento del totale, secondo i dati aggiornati al settembre 2010. Le cifre, si sa, sono noiose, ma i magistrati non riescono a tenere il passo e sono costretti a selezionare: l’obbligatorietà dell’azione penale viene formalmente rispettata, ma di fatto si fanno delle scelte. Scelte che l’allora procuratore di Torino Marcello Maddalena aveva messo nero su bianco indicando in una famosa circolare del 10 gennaio 2007 le priorità. E di fatto condannando a morte i fascicoli più vecchi. «Ho preso atto dell’impossibilità di celebrare tutti i processi - aveva spiegato Maddalena in un’intervista al Giornale - è come con le tasse. Si devono pagare. Ma se uno non ha i soldi non le paga. Non c’è niente da fare».
Appunto. Cadono in prescrizione molti illeciti commessi dai colletti bianchi, cadono in prescrizione molti reati colposi. Quelli di cui non parla nessuno, ma che non sono meno devastanti, anzi umilianti, per chi li vive. Per esempio, le morti sul lavoro: per tanti incidenti non paga nessuno. Ci sono casi dolorosi come spilli che scompaiono dalle pagine di cronaca con due righe. Come, per citarne uno, il dramma di Niccolò Galli, giovane e promettente calciatore del Bologna, il figlio di Giovanni, per molti anni portiere del Milan. Niccolò muore il 9 febbraio 2001 a 17 anni andando a sbattere con il ciclomotore contro un pezzo del guard-rail rovinato.
Anzi, rotto, con uno spuntone che esce pericolosamente e si conficca nella pancia dello sfortunatissimo giovane. In primo grado, nel 2007, tre tecnici del Comune di Bologna e delle coop, che avevano partecipato ai lavori di manutenzione, vengono condannati per omicidio colposo. In appello, l’inevitabile prescrizione. La storia finisce in niente. La macchina giudiziaria ha girato a vuoto, ma quel che lascia sgomenti è l’atteggiamento che la giustizia ha tenuto nei confronti di una famiglia già provata dalla terribile tragedia: nessun rispetto per il dolore. La sofferenza entra nel circuito della burocrazia e non conta più nulla. Dieci anni non sono stati sufficienti. Del resto, il nostro Paese deve fare i conti con una disciplina particolare: l’archeologia giudiziaria. Si celebrano processi per reati gravissimi avvenuti venti, venticinque, trent’anni prima. Reati che non sono prescritti ma appaiono lontanissimi.
Pensiamo alla strage di Piazza della Loggia a Brescia avvenuta il 28 maggio 1974: il dibattimento di primo grado si è chiuso il 16 novembre 2010, con una raffica di assoluzioni. Per piazza Fontana è andata pure peggio: tutti assolti nel processo contro i veneti di Ordine Nuovo. Tutti assolti meno il pentito Carlo Digilio: per lui sono scattate le attenuanti e, incredibile per un fatto che è ormai nei libri di storia, è arrivata proprio la prescrizione.
Toghe, ecco le vere cifre sui fannulloni. Secondo Stefano Zurlo su “Il Giornale”: La maglia nera spetta ai gip di Catanzaro. Secondo il sistema di rilevazione voluto dall’ex Guardasigilli Castelli, nel 2008 i giudici di Bari hanno chiuso 367 processi. In Calabria? Solamente 37. Anche il Csm deve ammettere: "Un giudice su tre lavora poco". Semaforo verde a Bari, semaforo rosso a Catanzaro. L’enigma Italia raccontato attraverso i numeri della giustizia di due città vicine geograficamente, ma lontanissime quanto a efficienza. Bari è largamente in «attivo». Nel 2008 sono arrivati 25.453 fascicoli e ne sono stati smaltiti molti di più: 43.812. L’indice di ricambio che misura il rapporto fra procedimenti sopravvenuti e procedimenti definiti, è il più verde d’Italia, e si attesta al 172,13 per cento; a Catanzaro le cifre precipitano: l’indice è del 62,89 per cento, ovvero per 7.470 fascicoli nuovi ne sono stati smaltiti 4.698. È profondo rosso. Perché capita questo? È su questa pista che si era spinta negli anni scorsi la Global Brain, chiamata al capezzale della giustizia dall’allora Guardasigilli Roberto Castelli. La Global Brain non ha avuto il tempo per approfondire le cifre, ma certo se si segue la catena di montaggio dei fascicoli si scoprono altri dati sorprendenti. Se paragoniamo gli uffici del gip-gup delle due città troviamo altre incongruenze e anomalie. L’indice di ricambio a Bari è del 108,67 per cento, a Catanzaro sprofondano, ancora una volta, al 71,64 per cento. L’ufficio del gip-gup è l’imbuto in cui finiscono le inchieste della Procura. Come mai questo ritardo? Allarghiamo ancora il dettaglio: ogni gip-gup di Bari ha definito in un anno 367 procedimenti, a Catanzaro solo 37. Trecentosessantasette contro trentasette. Numeri che stridono. E che autorizzano qualche domanda impertinente sulla produttività dei singoli. E qualche proiezione ulteriore; il team di Castelli aveva calcolato la durata in prospettiva dei processi, scoprendo ancora una volta le diverse velocità: a Bari 1,23 anni, a Catanzaro 1,72. Certo, si possono sollevare altre questioni, critiche e obiezioni; si può discutere sul fatto che un procedimento non sarà mai uguale ad un altro e su mille altri punti, anche sofisticati, ma non si può sfuggire al ragionamento complessivo: si può e si deve trovare un modo per far funzionare meglio la macchina. Castelli nel 2001 aveva trovato un varco e aveva chiamato la Global Brain di Alberto Uva. Uva ha lavorato quattro anni coltivando un progetto ambizioso: sottoporre ad uno scrupoloso check up la giustizia italiana. Malandata per definizione. Una scommessa che però è stata persa: «Ci hanno attaccato in tutti i modi - racconta Uva - si è messa di traverso la corporazione dei giudici, si sono messi di mezzo alcuni burocrati del ministero, infine il colpo di grazia ce l’ha dato l’inchiesta della Corte dei conti». È la storia che il Giornale ha raccontato: il cruscotto che doveva illuminare la giustizia italiana è rimasto spento. Ma il progetto, per quanto mai decollato, era e resta valido e qualche coraggioso dirigente di via Arenula l’ha perfezionato. I dati, relativi al 2008, sono disponibili e danno un’indicazione di quel che va e soprattutto di quel che non va nel nostro apparato giudiziario. Il problema fondamentale, quello da cui era partito Castelli, è la lunghezza interminabile dei processi penali e civili. Dunque, il primo passaggio è conoscere la situazione, ufficio per ufficio, distretto per distretto, volendo giudice per giudice. Il sistema elaborato dalla Global Brain è assai semplice e suggestivo: i pallini verdi indicano quelle realtà che marciano positivamente perché il numero dei processi definiti è superiore a quello dei processi sopravvenuti.
Insomma, quelle scrivanie non producono altro debito giudiziario, ma per il loro comportamento virtuoso o, più banalmente perché hanno risorse sufficienti a disposizione, ogni anno sfoltiscono l’arretrato e dunque danno qualche certezza ai cittadini. I pallini gialli indicano quelle situazioni in stallo, né buone né cattive per usare un linguaggio un po’ forte e semplificato: qui le nuove cause equivalgono a quelle risolte. Infine, eccoci così al terzo capitolo, il più corposo, quello dell’Italia da terzo mondo: le drammatiche, talvolta scandalose situazioni di procure e tribunali che sono letteralmente sommersi da migliaia di pratiche che non riescono assolutamente ad eliminare. In queste realtà, la macchina è in grave ritardo, i procedimenti si accumulano, le cause si allungano come elastici nel tempo. È l’Italia che manda in prescrizione migliaia di fascicoli penali, è l’Italia che per una bega condominiale resta in lite dieci, quindici, anche vent’anni. «Il passo successivo - spiega Uva - sarebbe stato interfacciare questi numeri con le piante organiche degli uffici per valutare sul campo, caso per caso, le diverse situazioni». Un tribunale può essere in affanno perché le forze in campo sono insufficienti, ma naturalmente la ragione può essere anche un’altra: le energie sono dislocate male, i vertici dell’ufficio hanno organizzato le risorse in modo confuso e irrazionale. L’Italia a tre colori, dunque, a seconda delle percentuali dell’indice di ricambio, l’unità di misura studiata da Castelli e Uva per rifondare la giustizia. Una rifondazione strozzata nella culla.
PRESCRIZIONE. MANLIO CERRONI ED I 14 ANNI DI SOFFERENZA DA INNOCENTE.
Cerroni assolto dopo 14 anni di processi. L’imprenditore era accusato di associazione a delinquere, scrive Simona Musco il 7 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Non c’è mai stata un’associazione a delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti a Roma e nel Lazio. Sono serviti quasi 10 anni di indagini e quattro di processo, nonostante il giudizio immediato, per arrivare alla conclusione raggiunta lunedì, dopo otto ore di camera di consiglio, dalla prima sezione penale del tribunale di Roma: l’imprenditore Manlio Cerroni non ha commesso il fatto, dunque va assolto. Sulla testa dell’ex patron della discarica di Malagrotta pendeva l’accusa di essere capo e promotore di un sodalizio criminoso che si è arricchito smaltendo i rifiuti sin dagli anni ‘ 50, in un regime di assoluto monopolio. Reati a cui si aggiungevano la frode in pubbliche forniture, la truffa in danno di enti pubblici e la falsità ideologica commessa da pubblici ufficiali in atti pubblici. Accuse giudicate infondate e in parte prescritte, anche per quanto riguarda gli altri imputati, tra i quali l’ex presidente della Regione Lazio Bruno Landi e diversi dipendenti regionali. Per il pm Alberto Galanti, che aveva chiesto 6 anni di carcere per Cerroni, «lui determinava l’emergenza rifiuti e lui si proponeva come unica soluzione ad essa». Nulla di tutto ciò, però, secondo i giudici. Che hanno sposato, invece, la tesi della difesa di Cerroni, secondo cui la gestione dei rifiuti sarebbe stata esemplare. «Ci sono voluti 10 anni per dimostrare qualcosa sarebbe stato compreso subito se ci fosse stato un atteggiamento più dialettico da parte della Procura – spiega al Dubbio l’avvocato Alessandro Diddi -. Cerroni ha chiesto tre volte di essere ascoltato nel corso delle indagini, ma il pm non ha mai ritenuto di farlo». «L’arresto è un marchio che ti segna per tutta la vita», ha affermato in aula, prima della sentenza, il “Supremo” – come veniva definito nelle intercettazioni -, parlando di una «grande gogna mediatica» dagli «effetti devastanti». Uno «tsunami che, guidato, si è abbattuto su di me», ha dichiarato, parlando anche dello stato attuale della gestione dei rifiuti a Roma, diventata una «discarica a cielo aperto», mentre «l’Ama è prossima a Caporetto». Dal giorno dell’arresto, il 9 gennaio 2014, «è stato tutto un susseguirsi di procedimenti e fascicoli aperti nei miei confronti alla ricerca ossessiva di un reato da ascrivermi». L’ultima «umiliazione» il 21 settembre, quando si è visto interdire l’ingresso a Malagrotta dall’amministratore giudiziario nominato dalla Procura. Per il ras dei rifiuti, la batosta più grande è stata proprio l’interdittiva antimafia che ha impedito alle sue aziende di lavorare con la pubblica amministrazione, con tutto il corollario di problemi finanziari che ne è conseguito. «Ma in questo settore i rapporti si hanno solo con la pa e quella interdittiva non ha creato problemi solo a Cerroni, ma a tutta Roma – spiega Diddi -, perché gli unici impianti presenti sono i suoi. Ecco spiegato perché la città sta naufragando sotto i rifiuti». Diddi ha annunciato ricorso immediato contro l’interdittiva, «sperando che nel revocarlo abbiano la stessa velocità che ci hanno messo nell’emetterlo», ha aggiunto. E sperando anche in un totale riabilitazione del nome di Cerroni. «I giornali hanno fatto credere che il problema dei rifiuti dipendesse da Cerroni, descritto come un corruttore e un avvelenatore di falde – conclude -. Credo che questa sentenza abbia fatto chiarezza: lui non è nulla di tutto questo. La sua gestione dei rifiuti è stata legittima e se ci sono responsabilità vanno cercate altrove».
Le balle dell’ex camorrista di Fanpage su Cerroni. Manlio Cerroni: «Perrella mi accusò di fare affari con la camorra. Offrii 100mila euro al “FATTO” per avere le prove, ma non ho avuto risposta», scrive Giulia Merlo il 23 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". «Dottò, la munnezza è oro», disse il pentito Nunzio Perrella all’allora procuratore Franco Roberti. Erano gli anni Novanta e ancora si doveva scoperchiare il malaffare sulla Terra dei fuochi, lui era un ex boss di camorra del rione Traiano diventato collaboratore di giustizia. Viso sempre coperto da un passamontagna, il nome di Perrella non è mai sparito dalle cronache giudiziarie: a ventidue anni di distanza, è sua la manica che nasconde la telecamera segreta di Fanpage per l’inchiesta sui rifiuti in Campania ed era sempre sua la voce alle telecamere di Nemo e poi nell’intervista al Fatto Quotidiano, nel 2016, in cui dichiarava: «Abbiamo scaricato anche a Malagrotta, nella discarica di Manlio Cerroni». Un pentito diventato grande accusatore e agente provocatore di presunti corrotti, puntando il dito da Cerroni alla famiglia De Luca. Quando la bufera mediatica si placa, però, a terra rimangono i fatti e proprio su questi la parabola del pentito Pererella si infrange. «Il signor Perrella, dinamico e attivissimo ex camorrista, ha fatto anche me oggetto in passato delle sue “dichiarazioni di verità” ha scritto a Il Dubbio l’imprenditore Manlio Cerroni, proprietario della discarica romana di Malagrotta (il più grande sito di smaltimento d’Europa) e ancora al centro di un processo penale per traffico illecito di rifiuti-. Rilasciando un’intervista a Il Fatto Quotidiano (il 7 aprile 2016 ndr), ha parlato a ruota libera di presunti rapporti tra le organizzazioni camorristiche interessate al ciclo (illecito) dei rifiuti e la Discarica di Malagrotta a me riconducibile, dichiarandosi anche pronto a fornire prove documentali di tali asseriti rapporti». Prove che, pur richieste, non sono mai state presentate né da Perrella né da Il Fatto Quotidiano che della vicenda si è occupato. Né, in seguito alle dichiarazioni di Perrella, la magistratura ha ritenuto di aprire un fascicolo d’indagine. Al silenzio Cerroni ha risposto con una sfida, datata 6 maggio 2016 e lanciata alla redazione del quotidiano con una lettera al direttore: «Vista la vostra attitudine a occuparvi spesso di giornalismo giudiziario e visti i vostri rapporti consolidati con le Procure di tutta Italia, credo e mi auguro vogliate partecipare al concorso» con un premio di 100mila euro a chiunque dimostri con prove un suo qualsiasi rapporto diretto e indiretto con organizzazioni criminali e mafiose. «Inutile dire che nessuno ha partecipato», ha chiosato l’imprenditore. Eppure, proprio sull’attendibilità di Perrella si è fondata l’inchiesta di Fanpage: «Perrella è un pentito che le procure hanno ritenuto affidabile e utilizzato per anni. Perchè noi avremmo dovuto regolarci diversamente?», si è difeso il direttore Francesco Piccinini (indagato per istigazione alla corruzione, dopo la pubblicazione del servizio). Anche questo, tuttavia, viene smentito nei fatti dal procuratore di Brescia Sandro Raimondi, ascoltato il 31 maggio 2017 dalla Commissione Parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo del rifiuti. Il pm era titolare di un’inchiesta su un presunto interramento di rifiuti nei comuni di Brescia e Ferrara, nell’ambito della quale Perrella era stato ascoltato in seguito alla sua intervista alla trasmissione Nemo. Alla domanda diretta se il pentito sia credibile o meno, Raimondi ha dichiarato che «nel corso dell’esame, Perrella parlò molto del suo passato. Decidemmo poi di chiedere di dirci qualcosa di attuale. Fece delle dichiarazioni di principio e delle segnalazioni ma, di fatto, i nominativi che vennero da lui portati alla nostra conoscenza non ci diedero delle immediate risultanze». E ha proseguito Raimondi: «Perrella diceva di sapere i luoghi dove avevano interrato i rifiuti. Le risultanze a cui la polizia giudiziaria pervenne sono assolutamente negative, sia su personaggi (molti personaggi non vennero riconosciuti in fotografia), sia sui luoghi, che non vennero indicati». Insomma, la conclusione del procuratore è categorica: «per quella che è la mia personale opinione, egli non ha fornito allo stato elementi validi perché possano essere giustificate spese processuali di mezzi, tempo e ore uomo». In sostanza, un pentito inattendibile. L’indagine della procura di Brescia e la vicenda di Manlio Cerroni arrivano dunque alla medesima conclusione: le dichiarazioni di Perrella sono allusive, ma non reggono alla prova dei fatti. Risultato: i 100mila euro in palio del patron di Malagrotta sono ancora lì, insieme agli esiti negativi delle risultanze investigative.
MAGISTRATURA SENZA VERGOGNA.
Magistratura senza vergogna: "Sbagliato chiedere scusa oggi per il caso Tortora", scrive Gabriele Tebaldi su “Elzeviro”. A distanza di trent'anni dal caso di malagiustizia che Giorgio Bocca definì come "il più grande esempio di macelleria giudiziaria", i magistrati e giudici coinvolti continuano a darci un triste spettacolo. All'incirca una settimana fa infatti il pm Diego Marmo, il protagonista dell'accusa contro Enzo Tortora, ha rilasciato delle dichiarazioni grottesche a "Il Garantista" (un nome-invito per i magistrati?): "Adesso dopo trent'anni è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia Tortora per quello che ho fatto", così si pente il pm e ancora aggiunge "Mi feci prendere dalla foga". Una foga testimoniata dall'arringa tragicamente famosa che inchioda l'innocente Tortora con parole infamanti quali "cinico mercante di morte", pronunciate con una tale veemenza da fargli scendere una "famelica" e ben visibile bava alla bocca. Diego Marmo, auto definitosi come "assassino morale di Tortora" non ha scontato la benché minima pena per quest'errore non degno di un paese civile. Divenuto Procuratore capo di Torre Annunziata, dopo essere andato in una tranquilla e serena pensione è stato addirittura nominato Assessore alla legalità a Pompei. In questi trent'anni di idilliaca carriera non una parola di scuse nei confronti della famiglia Tortora, non un passo indietro. E le scuse di ora sembrano così un modo tardivo per pulirsi egoisticamente la coscienza. Ancora più gravi però sono le dichiarazioni di Felice di Persia, uno dei due sostituti procuratori di Napoli che diede avvio all'"impresa" giudiziaria. Non un controllo bancario, non un pedinamento, nemmeno un'intercettazione telefonica. Tutto si basò su delle testimonianze di personaggi già screditati in passato e su un nome scritto su un'agenda (che il test grafico rivelerà come "Tortona" e non "Tortora"). Questo luminare della magistratura, che divenne inspiegabilmente uno "spettabile" membro del Csm, oggi si indigna per le parole di Marmo e dice "Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che "si è pentito con trent'anni di ritardo" e fa bene a chiedere scusa perché un magistrato non può mai scomporsi, tanto meno in aula. Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna, doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve auto cancellarsi dalla vita sociale", e ancora "Nel processo Tortora, Marmo c'entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell'accusa. A quanto pare Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana". Ci sembra inutile aggiungere qualcosa per commentare queste parole vergognose, pronunciate dal personaggio che ha la responsabilità diretta dell'avvio delle indagini su Tortora. Un uomo che è riuscito mettere da parte una coscienza più che sporca godendosi una gran carriera, anche lui senza una parola di scuse alla famiglia vittima di questo sopruso. Una pagina di indelebile vergogna per il mondo della magistratura, la cui responsabilità civile non è ancora regolata da legge.
La lezione choc del giudice: una toga d'onore non si pente, scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. Errare, si sa, è umano. Ma perseverare, i latini insegnano, è diabolico. Perché un conto è sostenere la propria tesi. Altro però è negare l'evidenza di due sentenze, quelle che in Appello e in Cassazione hanno sancito che Enzo Tortora era innocente. Eppure Felice Di Persia, il pm che istruì con Lucio Di Pietro quel processo diventato a posteriori l'emblema della giustizia ingiusta in Italia, di questo non si cura. Anzi, con pervicace ostinazione, a trent'anni di distanza, difende (...) (...) la bontà (sic!) di quella tesi accusatoria poi franata. E non solo. L'ex pm, ormai in pensione dopo una luminosa carriera percorsa sino a Palazzo de' Marescialli, se la prende anche col pm d'udienza Diego Marmo, che con trent'anni di ritardo qualche giorno fa ha chiesto scusa alla famiglia per lo scempio della vita di Tortora. È la giustizia italiana, bellezza. La giustizia malata, oggi come allora, che può distruggere la vita di un innocente, mentre chi in toga l'ha distrutta fa carriera e non paga. Facile scusarsi adesso, come ha fatto Marmo ora che è nell'occhio del ciclone perché la sua nomina ad assessore alla Legalità a Pompei ha scatenato, visti i suoi trascorsi, le ire della famiglia Tortora. Ma facile anche non scusarsi affatto, come fa Di Persia che in un'intervista al Velino non si muove di una virgola da quella che fu la sua posizione all'epoca, quando lui, membro del Csm, fu costretto a difendersi a Palazzo de' Marescialli perché gli avvocati dell'ormai defunto Tortora chiedevano un risarcimento da 100 miliardi. Del resto, risultati alla mano, perché scusarsi? Quell'inchiesta disciplinare finì, ça va sans dire, a tarallucci e vino, con il proscioglimento di tutti e tre i magistrati finiti nell'occhio del ciclone: lo stesso Di Persia; l'altro pm istruttore, Lucio Di Pietro; e il giudice istruttore Giorgio Fontana, che però indispettito lasciò la toga per diventare avvocato. E sicuramente, per il caso Tortora, né Di Persia né i suoi colleghi hanno subito alcuna conseguenza, meno che mai stop in carriera. Anzi. Lui, Di Persia, è salito su fino in cima diventando, nel 1986, membro dell'organo di autogoverno dei magistrati, il Csm. L'altro pm che aveva istruito il processo di primo grado a Tortora, Lucio Di Pietro, è subentrato alla guida della Direzione nazionale antimafia nell'interregno tra la morte di Pier Luigi Vigna e l'arrivo di Pietro Grasso, e adesso è procuratore generale di Salerno. Per non parlare poi di Marmo, il pm che ha chiuso la carriera in toga da procuratore capo di Torre Annunziata e ora si è beccato anche il premio di consolazione, l'assessorato alla Legalità a Pompei. Il bilancio del caso Tortora, dal punto di vista delle toghe che in primo grado hanno ottenuto la condanna del presentatore, è più che positivo: nessun danno subìto, risarcimento zero ai familiari del defunto, e anzi un po' di querele vinte qua e là, contro giornalisti «rei» di avere raccontato quel processo monstre, come è accaduto nel 2011 a Lino Jannuzzi. Perché scusarsi, dunque? E infatti Di Persia, al contrario di Marmo, non si scusa affatto. Anzi, se la prende proprio con Marmo che sia pure a scoppio ritardato ha fatto mea culpa per quel «mercante di morte» attribuito a un innocente. «Non ho letto - dichiara Di Persia al Velino - quello che ha detto con precisione, ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che "si è pentito con trent'anni di ritardo" e fa bene a chiedere scusa perché un magistrato non può mai scomporsi, tanto meno in aula. Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna, doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve auto cancellarsi dalla vita sociale». E ancora: «Nel processo Tortora, Marmo c'entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell'accusa». Infine: «A quanto pare Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana». Dulcis in fundo, la sentenza: «Non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura». Errare è umano, perseverare è diabolico. Marmo almeno ha sentito il bisogno di scusarsi. Di Persia invece no. Per lui il tempo si è fermato al 1988, quando Il Mattino di Napoli pubblicò le 40 cartelle dattiloscritte di cui si componeva la memoria difensiva da lui inviata all'allora ministro di Giustizia, Giuliano Vassalli. «Ministro, io sono innocente», diceva allora. E lo stesso fa oggi. E in fondo, dal suo punto di vista, ha ragione. Perché sbagliata, davvero, è una giustizia che non paga gli errori che commette.
Caso Tortora trent'anni dopo, Di Persia: “Nessun errore giudiziario”. "Se Marmo è convinto del suo pentimento deve autocancellarsi dalla vita sociale", scrive “Il Velino”. “Vuole sapere cosa penso del caso Tortora? Si legga Il Mattino di mercoledì 8 giugno 1988 quando fui costretto a difendermi in sede disciplinare e dissi Ministro anch’io sono innocente”. A primo impatto risponde così in esclusiva al VELINO Felice Di Persia il magistrato che con Lucio Di Pietro fu titolare dell’inchiesta che mise alla sbarra Enzo Tortora, il popolare conduttore televisivo. Un caso giudiziario che ancora scotta e fa discutere soprattutto alla luce delle dichiarazioni di questi giorni rilasciate al Garantista da colui che sostenne l’accusa in aula contro Tortora, Diego Marmo, oggi nominato tra le polemiche assessore alla Legalità del Comune di Pompei. Ha fatto le sue scusa per aver chiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. Da anni di Pietro e Di Persia non parlano di quel capitolo della loro storia professionale. Di Persia, contattato dal VELINO ribadisce: “Ci vogliono ore per affrontare il caso Tortora”. Dopo lunghe insistenze Di Persia commenta però le recenti dichiarazioni di Marmo. “Non ho letto quello che ha detto con precisione, ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti (compagna di Tortora, ndr) a dire che si è pentito con trent’anni di ritardo e fa bene a chiedere scusa perché un magistrato non può mai scomporsi, tanto meno in aula. Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna, doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve auto cancellarsi dalla vita sociale. Tra l’altro avrebbe dovuto chiedere scusa anche ai circa 130 imputati del cosiddetto troncone Tortora, assolti con il presentatore". "Di quei 130 liberati, a differenza di Tortora morto in condizioni così tragiche, un numero imponente venne successivamente ammazzato in conflitti a fuoco tra clan di camorra, altri addirittura si pentirono tutti offrendo la prova ulteriore della correttezza della nostra indagine istruttoria che portò alla condanna di ben 480 imputati. Tortora fu assolto - continua Di Persia - e rispetto il dispositivo di quella sentenza perché nella dialettica processuale non ritennero le prove raccolte idonee a una condanna: questo fa parte della fisiologia del processo. Dunque non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura”. Di Persia aggiunge: “Nel processo Tortora, Marmo c’entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell’accusa”. L’ex titolare dell’inchiesta non vuole dilungarsi e conclude: “A quanto pare Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana. In questo caso, come fanno i pentiti, dia riscontri chiari alle sue tesi. Perché ha chiesto la condanna di Tortora? Spero lo faccia, ma non rifugiandosi però nel nome di qualcuno che non può smentirlo perché morto”.
Di Persia, un’occasione persa per tacere, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. Anche lui da molti anni non parlava della condanna inflitta a Enzo Tortora. E che Felice Di Persia abbia voluto rompere il lungo riserbo sulla vicenda, è un dato che andrebbe accolto con favore. Non fosse che l’intervista rilasciata al Velino è un’occasione perduta. Allora titolare, insieme con Lucio Di Pietro, dell’inchiesta che portò Tortora alla sbarra, Di Persia avrebbe potuto fare ammenda per un’inchiesta che portò al più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. Ferma la buona fede, la toga avrebbe potuto chiarire anche lui perché senza prove di bonifici, controlli bancari, pedinamenti e intercettazioni montò un castello di carte che fece finire in gattabuia il presentatore di Portobello sulla base delle dichiarazioni di pentiti farlocchi che sono costate la vita, a detta di Francesca Scopelliti, ma senza lo stupore di nessuno, a quel galantuomo di Enzo Tortora. Ma l’unico pentito verso il quale l’ex magistrato sembra puntare il dito è invece Diego Marmo. «Ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che si è pentito con trent’anni di ritardo», chiosa Di Persia. Ma nell’intervista che l’ex procuratore di Torre Annunziata ha dato al Garantista, è palese che sono solo ed esclusivamente le scuse ad essere arrivate in ritardo di trent’anni. “Il rammarico – ha spiegato l’ex pm al nostro giornale – c’era da tempo”. Lucio Di Persia, però, concede a Marmo il lusso di una seconda ipotesi accusatoria. «Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna – continua Di Persia – doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve autocancellarsi dalla vita sociale”. ”Autocancellarsi dalla vita sociale”, dice Di Persia. Che forse sarebbe a dire chiudersi in qualche eremo a recitare il penitentiagite per dimostrare l’autenticità del rammarico. È proprio in questa sottile e violentissima fatwa, che la magistratura appare incapace di sincero cordoglio e capacità di autoriformarsi. «A quanto pare – commenta Di Persia – Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana. In questo caso, come fanno i pentiti, dia riscontri chiari alle sue tesi. Perché ha chiesto la condanna di Tortora? Spero lo faccia, ma non rifugiandosi però nel nome di qualcuno che non può smentirlo perché morto». Marmo è trattato insomma alla stregua di un pentito che il clan pretende di allontanare dal cerchio magico per vendetta. Marmo è il reprobo dal quale si pretende di estorcere, a dimostrazione di un sincero disagio interiore, la colpa assoluta e annichilente dell’autoesclusione sociale. Non se ne comprende invece il rammarico che chi scrive, insieme a pochi come Ambrogio Crespi, reputa sincero. Di quelle scuse alla famiglia, di quelle poche note che con molta discrezione Marmo ha affidato a Il Garantista a proposito del processo, si sottolinea nient’altro che la perversa intenzione di tirarsi fuori dalla melma. Ma la vera angoscia che forse generano le scuse di Marmo, inammissibili, spiazzanti e meravigliose, è la paura di restare ammollo al sangue innocente di Tortora. Un aspetto che Diego Marmo, ancora avvezzo a decriptare messaggi in codice, non trascura di cogliere nelle dichiarazioni che affida al nostro giornale. «Nella mia intervista a Il Garantista che peraltro Di Persia dice di non aver letto con precisione – ci scrive l’ex procuratore di Torre Annunziata – non ho accusato nessuno. Mi sono limitato soltanto a dire quali erano stati i ruoli dei singoli partecipanti». Le dichiarazioni che Felice Di Persia ha rilasciato a Il Velino, sono la prova inconfutabile che le scuse di Diego Marmo alla famiglia Tortora hanno scavato un solco profondo nella coscienza dei protagonisti di quella storia giudiziaria, e nell’autopercezione che ha di se stessa la magistratura italiana. Intoccabile, unita come un sol uomo, sacerdotale, la casta dei giudici sembra di colpo cominciare a ruzzare dentro la piccola stia dei risentimenti. Le scuse del Grande Inquistore italiano, dell’ “assassino morale” di Tortora che solo su di sé aveva attratto i fulmini della storia lasciando all’asciutto tutti gli altri carnefici, devono avere mosso qualche disagio negli altri complici della “congiura”. «Le mie scuse sono vere. Se arrivano con ritardo bisogna anche considerare che il tempo fa maturare, in molti casi. Per porgerle, d’altra parte, ci doveva anche essere l’occasione», ci scrive Diego Marmo. Come bene ha detto Ambrogio Crespi su queste colonne, il tempo della rivoluzione è arrivato. E reca in effigie il volto di Torquemada.
«Taci Di Persia, sei solo una soubrette», scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. «Quando Di Persia fu eletto al Csm dopo aver condannato Tortora, l’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, si rifiutò di stringergli la mano. Per Di Persia parla la storia». Raggiunta al telefono da Il Garantista Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora nel suo calvario giudiziario prima, e nelle file dei Radicali poi, non riesce a capacitarsi.
L’intervista che Felice Di Persia, il titolare dell’inchiesta che mise alla sbarra Enzo Tortora, ha concesso al Velino a proposito della condanna di Tortora, e delle scuse di Diego Marmo rivolte ai familiari del presentatore dalle nostre colonne, la lascia una volta di più esterrefatta. Dopo Diego Marmo, che ha rotto il lungo silenzio per fare le scuse ai familiari, anche Di Persia ha deciso di parlare. Che cosa ne pensa delle sue dichiarazioni?
«Penso che quanto meno, anche se non posso accettarle perché tardive e insufficienti, Marmo ha fatto le sue scuse. Spero che gli siano utili a pacificarsi con la sua coscienza. Di Persia, visto quello che ha detto, ha perso invece un’ottima occasione per tacere. Sarebbe stato più dignitoso per lui restare in silenzio».
Che cosa l’ha turbata più di tutto delle dichiarazioni di Di Persia?
«Di Persia ha confermato ancora una volta quello che allora apparve evidente a tutti: c’era il progetto di crocifiggere Tortora. C’era un piano, studiato a tavolino per fare di Enzo il condannato eccellente, da dare in pasto all’opinione pubblica in nome della vanità e dell’esibizionismo. Colpisce molto, nell’intervista concessa, la maniera in cui Di Persia commenta la sentenza di assoluzione di Tortora. ”Non ritennero le prove raccolte idonee a una condanna: questo fa parte della fisiologia del processo. Dunque non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura”. Sono parole che si commentano da sole. Di Persia non è disposto a tornare indietro, si arrocca nelle posizioni di trent’anni fa e in buona sostanza rivendica l’assurda pretesa di avere avuto ragione a perseguitare un innocente. Una questione di soubrettizzazione».
Che cosa intende di preciso?
«Basterebbe guardare i titoli e i giornali di allora per comprendere quali benefici mediatici si sono assicurati quelli come Di Persia. Si facevano ritrarre in atteggiamenti sportivi, come piccoli eroi da rotocalco o moderne soubrette. Erano diventati personaggi pubblici grazie alla persecuzione di un personaggio pubblico vero, amato, da scagliare nella polvere e umiliare. Di Persia dichiara a un certo punto che “Marmo c’entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell’accusa”. È una chiosa che aggrava ancora di più la sua posizione e che ribadisce quello che ho sempre detto. Mi fa piacere che dopo trent’anni anche Di Persia concordi con me: fa passare il pubblico ministero di quel processo come il commediante di un’enorme farsa. Esattamente quello che ho sempre pensato. Di Persia ha invitato tra l’altro Marmo, a suo dire ”il primo magistrato pentito della storia” ad autocancellarsi dalla vita sociale per dimostrare il suo pentimento. È una frase dal sen sfuggita, del tutto rivelatrice di una mentalità castale che tratta Marmo alla stregua di un pentito da isolare secondo la tipica mentalità del clan. Allora ci fu perfetta concordia tra pm e giudici istruttori. Lucio Di Pietro e Felice Di Persia inchiodarono Tortora. E ora che qualcuno ha fatto un passo indietro, si è rotto il sacro sigillo di quella istruttoria che ancora Di Persia difende senza un briciolo di rimorso. Ha infatti specificato che non ci furono errori giudiziari nella sua inchiesta. E che l’assoluzione di Tortora fa parte della dialettica processuale. Nessun cenno al carcere e alla malattia di Tortora. Ha definito l’assoluzione del presentatore come parte della “fisiologia del processo”. Espressioni di questo genere dicono ancora una volta di quanta demenziale presunzione è nutrito il personaggio di Di Persia. Più delle mie considerazioni, valgono le moltissime pagine che spinsero i giudici dell’appello a spazzare via menzogna dopo menzogna, il castello di carte costruito da Di Persia e Di Pietro. Di Persia rivendica ancora la correttezza del suo operato. Nessun rammarico, sembra. Erano eccitati dal brivido di incastrare un personaggio noto ed amatissimo da 26 milioni di persone. In nome di questo progetto ne sacrificarono sull’altare la sua innocenza per ergersi a giustizieri e prendersi le luci della ribalta. Se non fosse così protervo e arrogante, Di Persia dovrebbe aprire il dispositivo di sentenza e rileggersi parola dopo parola, le prove dell’assurdità delle sue invenzioni. Lo spiega la sentenza d’appello quale fu la qualità del lavoro di Di Persia».
Si riferisce alla famigerata ”nazionale dei pentiti”?
«Costruirono un’accusa fondata su calunnie ed infamie, alcune persino ridicole come quelle di Margutti e della valigetta di droga. È la sentenza dell’appello che meglio di me ha espresso quali considerazioni si possono fare sull’operato di Di Persia. Fu un pessimo magistrato che sparò nel mucchio e lavorò all’ammasso: colpevoli e innocenti nello stesso calderone indistinto».
Che cosa le ha raccontato di lui Enzo Tortora?
«Le riferisco soltanto un piccolo particolare. Spesso, al termine di estenuanti interrogatori, Di Persia guardava Enzo negli occhi e gli sibilava: «Buona fortuna». Gli lasciava intendere che l’avrebbe stritolato. Era come mi scriveva Enzo dal carcere: “Questi, per salvarsi la faccia, fottono me”. È quello che fecero. Nell’intervista, Di Persia dà a Marmo del ”magistrato pentito”. È come se l’ex procuratore, con le sue scuse, avesse rotto una sacra alleanza. Un gesto umano, che dal resto della casta viene letto come una sorta di tradimento, il primo della storia. La reazione di Di Persia spiega meglio di molti ragionamenti perché è impensabile sperare che i magistrati possano autoriformarsi da soli. Ma allo stesso tempo, come è evidente da anni, è piuttosto ingenuo pensare che la politica possa giungere a un’autentica riforma. Il Parlamento vive sotto ricatto. E l’intervista di Di Persia è l’ennesimo capitolo di una storia di sacro terrore verso un potere assoluto e intoccabile, che si chiama magistratura italiana.»
L’ITALIA DEI MORALISTI CON LA MORALE DEGLI ALTRI.
A distanza di oltre un secolo viene svelato l'assassino Joe Petrosino, il poliziotto italo americano venuto a Palermo per sgominare una banda di mafiosi. Il 29enne Domenico Palazzotto si vantava spesso con gli amici che a uccidere Petrosino era stato uno zio del padre. "Ha fatto lui l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino", aveva detto agli amici mentre le microspie lo registravano. L'esecuzione di Petrosino, freddato alle 20.45 del 12 marzo 1909 don tre colpi di pistola in rapida successione e un quarto sparato subito dopo, suscitarono il panico nella piccola folla che attendeva il tram al capolinea di piazza Marina a Palermo.
La vera mafia è lo Stato che ci vessa. È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Per la prima volta un Papa ha scomunicato la mafia. Benissimo! È arrivato il momento di far luce su chi sia la mafia. Chi potrebbe non essere d'accordo con la condanna assoluta di chi usa la violenza nelle sue varie forme, psicologica, economica e fisica, per sottomettere le persone al proprio arbitrio, al punto da violare i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà? Ma chi è veramente il Male che sta devastando la nostra esistenza? È la criminalità organizzata che impone il pizzo ai commercianti e fa affari con il traffico di droga e dei clandestini? È la massoneria che gestisce in modo più o meno occulto il potere ovunque nel mondo? È il Gruppo Bilderberg che associa chi più conta nella finanza e nell'economia sulla Terra? Certamente queste realtà interferiscono con la nostra vita con conseguenze tutt'altro che trascurabili. Ma si tratta di realtà che o non riguardano tutti noi o non ne conosciamo bene i contenuti e i risvolti. Viceversa siamo tutti, ma proprio tutti, più che consapevoli delle vessazioni che tutti i giorni lo Stato ci impone attraverso leggi inique e pratiche del tutto arbitrarie. Chi è che ci ha imposto una nuova schiavitù sotto forma del più alto livello di tassazione al mondo, fino all'80% di tasse dirette e indirette? Chi è talmente spregiudicato da speculare sulla nostra pelle legittimando e tassando il gioco d'azzardo, gli alcolici e le sigarette? Chi è a tal punto disumano da tassare la casa, il bene rifugio dell'80% delle famiglie italiane? Chi è che condanna a morte le imprese applicando un centinaio di tasse e balzelli in aggiunta a un centinaio di controlli amministrativi? Chi è che sta accrescendo la disoccupazione e la precarietà in tutte le fasce d'età e lavorative? Chi ha permesso che 4 milioni e 100mila italiani non abbiano i soldi per comperare il pane? Chi protegge le grandi banche e le grandi imprese che continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite? Chi ha finora istigato al suicidio circa 4.500 italiani attraverso le cartelle esattoriali di Equitalia o coprendo le vessazioni delle banche quando non erogano credito o ingiungono di rientrare negli affidamenti entro 24 ore? Chi ha svenduto la nostra sovranità monetaria, legislativa e giudiziaria all'Europa dei banchieri e dei burocrati? Chi è responsabile della crescita inarrestabile del debito pubblico e privato dal momento che siamo costretti a indebitarci per ripianare il debito acquistando con gli interessi una moneta straniera? Chi sta devastando le famiglie obbligando entrambi i genitori a lavorare sodo per riuscire a sopravvivere? Chi ci ha portato all'ultimo posto di natalità in Europa e ci sta condannando al suicidio demografico? Chi sta incentivando l'emigrazione dei nostri giovani più qualificati perché in Italia non hanno prospettive? Chi sta danneggiando gli italiani promuovendo l'invasione di clandestini e umiliando i più poveri tra noi favorendo gli immigrati nell'assegnazione di case popolari, posti all'asilo nido e assegni sociali? Chi sta consentendo l'islamizzazione del nostro Paese riconoscendo il diritto a moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici a prescindere dal fatto che confliggono con i valori fondanti della nostra civiltà, indifferenti al fatto che sull'altra sponda del Mediterraneo i terroristi islamici stanno massacrando i cristiani e riesumando dei califfati in cui il diritto alla vita è garantito solo a chi si sottomette ad Allah e a Maometto? Ebbene è questo Stato che si è reso responsabile dell'insieme di questi comportamenti che ci stanno impoverendo e snaturando, trasformandoci da persone con un'anima in semplici strumenti di produzione e di consumo della materialità, assoggettati al dio euro e alla dittatura del relativismo. Ecco perché è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato. Di ciò sono certi tutti gli italiani perché è una realtà che pagano sulla loro pelle giorno dopo giorno. Quindi caro Papa Francesco lei ha scomunicato le alte personalità che ha ricevuto in Vaticano, a cui ha stretto la mano e ha augurato successo. Per noi sono loro i veri mafiosi che stanno negando agli italiani il diritto a vivere con dignità e libertà.
Risarcimenti: 8 euro per torturarti, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Dopo la “pena sospesa” da parte della Corte Europea che, in data 28 maggio ha riconosciuto i buoni propositi dell’Italia e le ha concesso una proroga per sanare la situazione di drammatica afflizione che vivono i detenuti nelle nostre carceri, il governo Renzi partorisce un decreto: risarcimenti in denaro, 8 euro al giorno, per i detenuti tornati in libertà che sono stati costretti a vivere in uno spazio inferiore a tre metri quadrati, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Un giorno di tortura, dunque, vale 8 euro. Per chi è ancora detenuto, invece, verrà applicato uno sconto sulla pena residua pari al 10 %. Il carcere minorile potrà ospitare persone fino a 25 anni, non più fino a 21, così ritardando l’ingresso dei non più “minori” nelle strutture carcerarie ordinarie e rallentando il sovraffollamento conseguente. Il decreto guarderebbe anche ai problemi di gestione, anch’essi derivanti da un numero di detenuti sempre in esubero rispetto agli istituti penitenziari, da parte della polizia penitenziaria, attraverso provvedimenti tesi ad aumentare la consistenza dell’organico. Un provvedimento certamente insufficiente ed inadeguato che creerà e sta già creando ulteriori momenti di tensione nelle note aree forcaiole che hanno gridato il loro sdegno per il precedente decreto, inopinatamente definito “svuota carceri”, che, nella sua originaria formulazione, in aderenza al dettato costituzionale, estendeva anche ai reati di mafia e a tutti quelli inclusi nel famigerato art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, la propria valenza risarcitoria per una carcerazione inumana e degradante, prevedendo la concessione ai detenuti, per un periodo di tempo determinato, del beneficio della liberazione anticipata con decurtazione della pena da espiare non dei consueti 45 giorni, bensì di 75. La legge di conversione ha stabilito che i detenuti per reati di mafia o per altri reati individuati come “più gravi” dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, sono un po’ meno persone degli altri, che per loro una detenzione oltre i limiti di ogni decenza va bene tutto sommato perché sono veramente cattivi!!! E, dunque, attendiamo le reazioni. Non possiamo però non osservare che se il governo avesse emanato provvedimenti di immediata concretezza deflattiva, non avrebbe dovuto oggi “sbloccare fondi” utili ad uscire dall’emergenza, per erogare l’elemosina degli otto euro, e per salvare dal collasso la polizia penitenziaria, fondi che in qualche modo saremo tutti chiamati a reintegrare. Il grido di amnistia e di indulto fatto proprio dal Papa e dal Presidente della Repubblica rimane inascoltato, la situazione rimane drammatica. Intanto, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece – lo stesso che affermava riguardo alla morte di Stefano Cucchi: “ i nostri colleghi che lavorano nelle camere di sicurezza del tribunale, sono persone tranquille e al di sopra di ogni sospetto” – così commenta il provvedimento sui risarcimenti ai detenuti deciso dal Consiglio dei Ministri: «Lo Stato taglia le risorse a favore della sicurezza e della Polizia Penitenziaria in particolare e poi prevede un indennizzo economico giornaliero per gli assassini, i ladri, i rapinatori, gli stupratori, i delinquenti che sono stati in celle sovraffollate». E ancora: «a noi poliziotti non pagano da anni gli avanzamenti di carriera, le indennità, addirittura ci fanno pagare l’affitto per l’uso delle stanze in caserma e poi stanziano soldi per chi le leggi le ha infrante e le infrange. Mi sembra davvero una cosa pazzesca e mi auguro che il Capo dello Stato ed il Parlamento rivedano questa norma assurda, tanto più se si considerano quanti milioni di famiglie italiane affrontano da tempo con difficoltà la grave crisi economica che ha colpito il Paese».
Il pm Diego Marmo: “Su Tortora ho sbagliato, chiedo scusa alla famiglia, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”.
«Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. E adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Agii in perfetta buona fede».
Dopo un lungo corpo a corpo fatto di reciproci pregiudizi, di frasi smozzicate e di estrema diffidenza, Diego Marmo, il pm che inchiodò Enzo Tortora con una dura requisitoria rimasta negli annali, si è finalmente svestito della toga. Ma prima, prima di questo, c’è la foga di chiedere, di giudicare senza appello a nostra volta.
Ci sono state molte polemiche per la sua nomina ad assessore alla Legalità a Pompei. Ma ha dichiarato al Velino che il caso Tortora è un “episodio” della sua carriera. Non le pare di aver liquidato la vicenda con troppa sufficienza?
«A domanda ho risposto. Si parlava della mia nomina ad assessore a Pompei. La storia del mio coinvolgimento sul caso Tortora è tutto un altro capitolo, un capitolo di un’attività professionale lunga 50 anni, che non può essere affrontato in due minuti. La cosa è molto più complessa.»
Eppure lo ha fatto. Ha definito come “episodio” il più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. É sembrato che stesse dicendo: “Ora faccio l’assessore, e chissenefrega di Tortora”.
«In trent’anni non ho mai pensato o detto “chissenefrega del caso Tortora”. Immaginavo che potessero sorgere polemiche sulla mia nomina. Ma alla fine ho deciso di accettare perché la situazione degli scavi di Pompei mi sta particolarmente a cuore. Esercitando la funzione di procuratore a Torre Annunziata, mi sono convinto dello stato di abbandono nel quale si trova la città antica.»
Verrà pagato per questo incarico?
«Lavorerò a titolo gratuito, mi pagherò anche la benzina. E se la mia presenza dovesse provocare difficoltà al buon funzionamento della giunta, sono pronto a lasciare. Il sindaco mi ha scelto senza conoscermi personalmente perché probabilmente ha apprezzato il mio lavoro da procuratore. Ho accettato perché sono dell’avviso che la legalità non va predicata ma praticata. Ho lasciato la Procura di Torre Annunziata con amarezza.»
A che cosa si riferisce?
«Parlo dell’omicidio di Vero Palumbo. Faceva il meccanico. La notte del 31 dicembre, mentre giocava a scopa, è stato ucciso dai colpi d’arma da fuoco della camorra che festeggiava barbaramente il Capodanno. Ho promesso alla sua famiglia che avrei trovato l’assassino. Non ci sono riuscito. Questa nomina potrebbe aiutarmi a sollecitare il legislatore ad estendere i benefici che riguardano le vittime della camorra anche alla vedova e alla figlia, alle quali questo status non viene riconosciuto.»
Sembra un uomo capace di provare rammarico. Perché per Tortora non ne ha mai provato?
«È quello che ha sempre pensato il circo mediatico. Quello che avete sempre pensato tutti voi. Ma il rammarico c’era da tempo. L’unica difesa che avevo era il silenzio.»
Se provava rammarico, non era meglio manifestarlo? Perché ha taciuto?
«Perché nessuno prima d’ora me lo aveva mai chiesto. Vi siete accaniti contro di me. Mi avete condannato. Venivo sempre aggredito. Ma nessuno ha mai pensato di interpellarmi o ascoltarmi.»
È lei che ha chiesto la condanna di Tortora senza prove. La ascolto volentieri.
«Il mio lavoro si svolse sulla base dell’istruttoria fatta da Di Pietro e Di Persia. Tortora fu rinviato a giudizio da Fontana. Io feci il pubblico ministero al processo. E sulla base degli elementi raccolti, mi convinsi in perfetta buona fede della sua colpevolezza. La richiesta venne accolta dal Tribunale.»
Non avevate niente: nessun controllo bancario, nessun pedinamento, nessuna intercettazione. Solo la “nazionale dei pentiti”. Come ha potuto chiedere 13 anni per il presentatore?
«Mi vuole fare il processo?»
No,voglio delle risposte.
«A ciascuno il suo. Mi faccia rispondere di quello che ho fatto io. Gli elementi raccolti in fase istruttoria mi sembrarono sufficienti per richiedere una condanna. Ma Tortora non era l’unico imputato di quel processo. Insieme a lui c’erano altri 246 imputati. Io chiesi un terzo di assoluzioni. Si sono dette anche molte menzogne sul mio conto. Tempo fa mio figlio mi chiamò allibito. Mi disse: “Papà, in televisione hanno appena detto che hai fatto arrestare Tortora”.»
Si sente il capro espiatorio?
«Molte anime belle, e anche tanti giornalisti e colleghi, batterono allora la gran cassa contro l’imputato eccellente. Molti sono gli stessi che ancora oggi gridano allo scandalo. Ma in Italia si dimentica in fretta. E pochi sanno che in Procura mi indignai per le sfilate degli uomini in manette davanti alle telecamere. Nei trent’anni successivi di carriera, come in precedenza, non lo permisi mai.»
Incise la pressione mediatica sul processo? Perdere l’imputato eccellente sarebbe stato un duro colpo per il vostro operato?
«Facemmo di tutto per perdere l’imputato eccellente. Era una presenza che avrebbe creato una bufera. La pressione mediatica fu terrificante, lo ammetto. Ma c’era molta più sete di sangue di quanto non sembri oggi. Erano molti, in giro, i “Diego Marmo”. Ma sul banco degli imputati sono rimasto io solo.»
È vero. Ma nell’immaginario è rimasto come il carnefice di Tortora perché lo definì un “cinico mercante di morte”, un “uomo della notte” ben diverso dal bravo presentatore di Portobello. Non giudicò l’imputato, giudicò anche l’uomo. Lei andò oltre, lo ammetta.
«La requisitoria durò circa una settimana, quella nei confronti di Tortora durò alcune ore. La frase venne inserita in un contesto accusatorio. Certamente mi lasciai prendere dal mio temperamento. Ero in buona fede. Ma questo non vuol dire che usai sempre termini appropriati, e che non sia disposto ad ammetterlo. Mi feci prendere dalla foga.»
Come le venne in mente di dire che Tortora era stato eletto con i voti della camorra?
«Non l’ho detto.»
Si, lo ha fatto. Lo abbiamo sentito tutti.
«Non era quello che è stato inteso. Il mio discorso era molto più articolato. Pur precisando che né Tortora né i Radicali avevano chiesto voti alla camorra, feci notare viceversa che la malavita aveva sponsorizzato alcune candidature per trarne vantaggio. Ne ebbi riscontro dalla stampa e dai tabulati che mi consegnarono i carabinieri. Era emerso che al carcere di Poggio Reale, e nel triangolo Bagheria, Altavilla, Casteldaccia, i radicali avevano preso moltissimi voti. Ma sono altre le cose che mi rimprovero.»
Che cosa?
«Tortora si comportò da uomo vero, ma lo capii successivamente.»
Sta dicendo che ha provato ammirazione per Tortora?
«Fu un imputato esemplare. Più passa il tempo e vedo l’Italia che ho intorno, e più mi rendo conto della differenza tra lui e chi lo chiama in causa oggi a sproposito.»
Che cosa intende esattamente?
«Tortora avrebbe potuto appellarsi all’immunità ma non lo fece. Volle farsi la galera pur di difendere la sua innocenza. E mi fanno arrabbiare certi quaquaraquà di oggi che invocano il suo nome per nascondere magagne e miserie e ottenere visibilità.»
Perché chiese la condanna?
«Ripeto. Non fui il solo a reputare Tortora colpevole: la mia richiesta venne accolta. Il rispetto del mio ruolo di magistrato mi impone di non parlare di altri. Dico solo che mi sbagliai. E che dopo le sentenze di assoluzione, mi resi conto dell’innocenza di Tortora e mi inchinai.»
Non aveva mai ammesso di avere sbagliato. Mi sta dicendo che è pentito?
«Non ho mai pensato di raccontare il mio stato d’animo sino ad ora. Ho creduto che ogni mia parola non sarebbe servita a niente. Che tutto mi si sarebbe ritorto contro. Ho preferito mantenere il silenzio. Ero Diego Marmo, l’assassino morale di Tortora. E dovevo tacere.»
Ha parlato di colpa. Una parola forte per uno che ha definito la richiesta di condanna per Tortora come un “episodio” della sua carriera.
«Non ho usato quel termine in senso riduttivo. In 50 anni di lavoro gli “episodi” sono stati tanti. Molti drammatici: processi di terrorismo, camorra, vita blindata per dieci anni con inevitabili disagi per me e soprattutto per la mia famiglia. E tuttavia che cosa crede? Ho richiesto la condanna di un innocente. Porto il peso di quello sbaglio nella mia coscienza. Sono un cattolico osservante. E ho sempre pensato di dovermela vedere con me stesso, e con Dio.»
Poteva vedersela anche con i familiari di Tortora, non pensa?
«Ci ho pensato a lungo. Ma alla fine non l’ho mai fatto. Mi sono detto che non si poteva tornare indietro, e che niente che potessi fare o dire sarebbe servito a qualcosa. “Si, potrei anche provare a incontrarli”, ragionavo tra me e me. Ma temevo che il mio gesto potesse risultare sgradito.»
E forse ha paura di chiedere perdono.
«Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente. Ma adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Posso dire soltanto che l’ho fatto in buona fede.»
Grazie dottor Marmo. A me le sue parole sembrano molto importanti. Le cose che mi ha detto le fanno onore. E sbriciolano i pregiudizi sui pm visti come sceriffi implacabili. Magari avessero tutti il coraggio di ammettere i propri errori. Non l’avrei immaginato. Ci ha dato una lezione. Non come pm, ma come uomo.
Il caso Tortora trent'anni dopo. Nel giugno del 1983 l'arresto del popolare conduttore televisivo. Le accuse dei pentiti, la gogna pubblica, l'assoluzione in Cassazione, la malattia e la morte. Per quello che Giorgio Bocca definì "il più grande esempio di macelleria giudiziaria" nessuno ha mai pagato, scrive Carlo Verdelli su “La Repubblica”. Qualsiasi cosa ci sia dopo, il niente o Dio, è molto probabile che Enzo Tortora non riposi in pace. La vicenda che l'ha spezzato in due, anche se ormai lontana, non lascia in pace neanche la nostra di coscienza. E non solo per l'enormità del sopruso ai danni di un uomo (che fosse famoso, conta parecchio ma importa pochissimo), arrestato e condannato senza prove come spacciatore e sodale di Cutolo. La cosa che rende impossibile archiviare "il più grande esempio di macelleria giudiziaria all'ingrosso del nostro Paese" (Giorgio Bocca) è il fatto che nessuno abbia pagato per quel che è successo. Anzi, i giudici coinvolti hanno fatto un'ottima carriera e i pentiti, i falsi pentiti, si sono garantiti una serena vecchiaia, e uno di loro, il primo untore, persino il premio della libertà. Non fosse stato per i radicali (da Pannella al neo ministro Bonino, da Giuseppe Rippa a Valter Vecellio) che lo elessero simbolo della giustizia ingiusta e lo fecero eleggere a Strasburgo. Non fosse stato per Enzo Biagi che proprio su Repubblica, a sette giorni da un arresto che, dopo gli stupori, stava conquistando travolgenti favori nell'opinione pubblica, entrò duro sui frettolosi censori della prima ora (da Giovanni Arpino, "tempi durissimi per gli strappalacrime", a Camilla Cederna, "se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto") con un editoriale controcorrente: "E se Tortora fosse innocente?". Non fosse stato per l'amore e la fiducia incrollabile delle figlie (tre) e delle compagne (da Pasqualina a Miranda, prima e seconda moglie, fino a Francesca, la convivente di quell'ultimo periodo). Non fosse stato per i suoi avvocati, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall'Ora, che si batterono per lui con una vicinanza e un ardore ben al di là del dovere professionale. Non fosse stato per persone come queste, i 1.768 giorni che separano l'inizio del calvario di Enzo Tortora (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all'Hotel Plaza di Roma) dalla fine della sua esistenza (18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8, tre camere più servizi), sarebbero stati di meno, nel senso che avrebbe ceduto prima. Paradossali i destini dei nomi impressi sulla tenaglia che ha stritolato Tortora, uno dei volti più noti di quando lo schermo era piccolo. Immaginiamo le due ganasce. Su una stanno gli accusatori, almeno i tre principali, tutti galeotti. Il capo cordata è Giovanni Pandico, ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ci ha provato senza successo anche con padre, madre e fidanzata, "schizoide e paranoico " per i medici, diventa lo scrivano di Cutolo ed è lui a mettere nel calderone Tortora e a condizionare con la sua versione e la sua perversione molti altri affiliati: dal 2012 è un libero cittadino. Poi ci sono Pasquale Barra, detto "o 'nimale", killer dei penitenziari, 67 omicidi in carriera tra cui lo sbudellamento di Francis Turatello: è ancora dentro, ma gode di uno speciale programma di protezione. Lo stesso di Gianni Melluso, detto "il bello" o "cha cha cha", uscito di galera e rientrato nel luglio scorso, ma per sfruttamento della prostituzione: durante i beati anni della delazione contro Tortora, usufruì di trattamenti di particolare favore, come gli incontri molto privati con Raffaella, che resterà incinta e diverrà sua moglie in un memorabile matrimonio penitenziario con lo sposo vestito Valentino. Va detto che Melluso fu l'unico di tutta la compagnia, magistrati compresi, a chiedere perdono ai familiari di Tortora, in un'intervista all'Espresso del 2010: "Lui non c'entrava nulla, di nulla, di nulla. L'ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l'unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie". Risposta di Gaia, la terzogenita: "Resti pure in piedi". Stupirà, forse, che nel tiro a Tortora non compaia mai il nome di Raffaele Cutolo, il capo di quella Nuova camorra organizzata che aveva messo a ferro e fuoco la Campania per prenderne il controllo e contro cui venne organizzato il grande blitz del 1983. Tempo dopo, i due, Cutolo e Tortora, che intanto era diventato presidente del Partito Radicale, si incontreranno nel carcere dell'Asinara, dove "don Raffaé" albergava all'ergastolo. Il boss fu anche spiritoso: "Dunque, io sarei il suo luogotenente ". Poi allungò la destra: "Sono onorato di stringere la mano a un innocente". E siamo all'altra ganascia della tenaglia, quella di quei magistrati che, senza neanche l'ombra di un controllo bancario, un pedinamento, un'intercettazione telefonica, basandosi solo sulle fonti orali di criminali di mestiere, sono riusciti nell'impresa di mettere in galera Tortora e condannarlo in primo grado a 10 anni di carcere più 50 milioni di multa. I due sostituti procuratori che a Napoli avviano l'impresa si chiamano Lucio Di Pietro, definito "il Maradona del diritto", e Felice Di Persia. Sono loro a considerare Tortora la ciliegiona che da sola cambia l'immagine della torta, loro a convincere il giudice istruttore Giorgio Fontana ad avallare questo e gli altri 855 ordini di cattura, anche se incappano in 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (con l'appello, l'impalcatura accusatoria franerà un altro po', con 114 assoluzioni su 191). Contraccolpi sul piano professionale? A parte il giudice Fontana, che infastidito da un'inchiesta del Csm sul suo operato si dimette sdegnato e ora fa l'avvocato, i due procuratori d'assalto spiccano il volo. Di Pietro (nessuna parentela con l'ex onorevole e onorato Tonino) è procuratore generale di Salerno, dopo aver sostituito Pier Luigi Vigna addirittura come procuratore nazionale antimafia. Non è andata malaccio neanche a Di Persia, oggi in pensione, ieri membro del Csm, l'organo di autocontrollo dei giudici (ma Cossiga presidente pare abbia rifiutato di stringergli la mano durante un plenum). Restano ancora due indimenticabili protagonisti del primo processo di Napoli, che inizia nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l'arresto di Tortora, e si conclude il 17 settembre 1985, con il presentatore che subisce la condanna ma già da deputato radicale al Parlamento europeo: il presidente Luigi Sansone, che firma una corposa quanto friabile sentenza di 2 mila pagine, in sei volumi, uno interamente dedicato a Tortora (con questa apoteosi: "L'imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui"), e il pubblico ministero Diego Marmo, arringa leggendaria la sua, con le bretelle rosse sotto la toga e una veemenza tale da fargli scendere la bava all'angolo sinistro della bocca, specie quando dipinge l'imputato come "un uomo della notte ben diverso da come appariva a Portobello" e quando erutta che i voti presi da Tortora alle Europee sono anche voti di camorristi. La conclusione, poi, è da pietra tombale sul diritto: "Lo sappiamo tutti, purtroppo, che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l'istruttoria". Non cadrà, almeno in quei giorni, come non cadranno Luigi Sansone, che si consolerà con la presidenza della sesta sezione penale di Cassazione, né il focoso Marmo, in pensione dal novembre scorso dopo essere stato, tra l'altro, procuratore capo di Torre Annunziata. Nessuno dei delatori sbugiardati è stato incriminato per calunnia. Quanto ai magistrati, poco prima di morire, Tortora aveva presentato una citazione per danni: 100 miliardi di lire la richiesta. Il Csm ha archiviato, risarcimento zero. Archiviato anche il referendum del 1987, nato proprio sulla spinta del caso Tortora, sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65 per cento, i sì sono l'80 per cento, poi arriva la legge Vassalli e di fatto ne annulla gli effetti. Quel che resta di Enzo Tortora ("Io non sono innocente. Io sono estraneo", ripeteva come un mantra) non riposa in pace dentro una colonna di marmo con capitello corinzio al cimitero Monumentale di Milano. La colonna è interrotta a metà da un vetro. Infilata dall'esterno, un'immaginetta di un Cristo in croce con la scritta: "Uno che ti chiede scusa". Dietro il vetro, c'è l'urna dorata con le ceneri e due date (1928-1988). Sotto, un'iscrizione abbastanza misteriosa: "Che non sia un'illusione". La spiega Francesca Scopelliti, l'ultima compagna: "Enzo ha voluto farsi cremare insieme ai suoi occhiali, quelli che gli servivano per leggere e che perdeva di continuo, e a una copia della Storia della colonna infame del Manzoni, con la prefazione di Leonardo Sciascia, di cui era amico. Era venuto a trovarlo pochi giorni prima della fine. Ne scrisse subito dopo sul Corriere della sera, confidando parte di quello che Enzo gli aveva detto: speriamo che il mio sacrificio sia servito a questo Paese, e che la mia non sia un'illusione". Venticinque anni dopo quel 18 maggio 1988, dubitare è lecito, specie in un'Italia che sembra avere nel proprio Dna la caccia al mostro quale che sia, proprio come nella cronaca del Manzoni. Siamo nel1630, a Milano c'è la peste, vengono arrestati, sulla base della denuncia di alcune comari, due presunti untori accusati di spargere unguenti che propagano l'epidemia. Condannati sbrigativamente allo squartamento, sulle macerie della bottega di barbiere di uno dei due, incenerita a memento, viene eretta una colonna, a dannazione eterna dell'"infame". L'accusa, all'"infame" di Portobello, piove sulla testa, come un pezzo di marmo caduto da un balcone, venerdì 17 giugno 1983. E da quel giorno, Enzo Claudio Marcello Tortora, figlio di un napoletano che faceva il rappresentante di cotone a Genova, giornalista e presentatore televisivo in gran spolvero, diventa all'improvviso "il caso Tortora". Intanto sta nascendo a Napoli la prima bambina in provetta, la Fiat lancia la Uno, scompare Emanuela Orlandi, Federico Fellini firma la quart'ultima tappa del suo magistero con E la nave va, Vasco Rossi la prima: Vita spericolata. In televisione, spopola su RaiDue appunto Portobello, un mercatino alla londinese di varia umanità, dovesi vendono e si comprano le cose più strane, dove tra le centraliniste, guidate da "sua soavità" Renée Longarini, spuntano le acerbe glorie di Paola Ferrari, Gabriella Carlucci, Eleonora Brigliadori, dove capitano tizi come quello che propone di abbattere il Turchino per risolvere il problema della nebbia in Val Padana, dove la valletta di colore si guadagna il soprannome di "Goccia di caffè" e dove Tortora, al massimo di se stesso, governa la platea come un lord inglese, esibisce un pappagallo che si chiama Portobello, chiude le trattative con una frase entrata nella piccola storia della televisione: "Il Big Ben ha detto stop". Nella storia entrano anche i risultati del programma: 22 milioni di spettatori di media, con punte ineguagliate all'epoca di 28 milioni. "Tutta farina di Enzo. Una domenica, si era messo a leggere gli annunci sul giornale: vendo coccodrillo impagliato eccetera. Aveva cominciato a telefonare e aveva scoperto un mondo dietro quei trafiletti. Poi ci aggiunse il pappagallo, perché, mi diceva, un animale ci vuole, fa tenerezza ai bambini ". A ricordare è Gigliola Barbieri, storica assistente di Tortora, fin dai tempi (1969) della sua Domenica sportiva. Ora la "Barbi", come la chiamava lui, è produttore esecutivo a Mediaset. "La mattina che venne arrestato, il primo che mi chiamò fu Berlusconi: signora, ha saputo? Stava trattando con Enzo il suo passaggio a Retequattro. Dopo i funerali, mi ha ricontattato: signora, se vuole venire a lavorare da noi...". Parla come una vedova, la Barbi, una vedova non consolata. "Enzo aveva tanti di quei difetti che ci metterei giorni a fare l'elenco. Ma con quella cosa non c'entrava. L'hanno rovinato gratis". Il giovedì prima di quel venerdì 17 giugno 1983, che segna l'inizio della fine di Tortora, l'allora direttore del Giorno, Guglielmo Zucconi, chiamò un giovane cronista degli spettacoli, Paolo Martini, egli rivelò di aver ricevuto una soffiata su una maxi retata imminente, che avrebbe riguardato anche un grosso nome dello spettacolo. Chi? "So solo che sta nelle ultime lettere dell'alfabeto". Cominciarono a spulciare l'elenco dal fondo: Vianello, Tortora, Tognazzi. Martini si attaccò al telefono. Trovò Tortora a Roma: "Quando lo avvertii che circolava il suo nome tra i possibili implicati in un blitz di camorra, si mise a ridere. E in effetti, da quella mia chiamata all'arresto la notte successiva, non fece assolutamente niente, non chiamò il suo avvocato né qualche amico del Partito liberale in cui militava né della cerchia di Craxi, acui pure aveva accesso. Tortora era il classico signore borghese di provincia, un bel po' reazionario, lupo solitario assoluto. Non faceva serata, non beveva, aveva orrore per la delinquenza e la droga. L'unica cosa che tirava era un po' di tabacco da fiuto". Ma la soffiata era giusta. All'alba, tre carabinieri irrompono in una stanza dell'Hotel Plaza di Roma, prologo di quel che per le cronache diventerà il "venerdì nero di Cutolo": 856 ordini di cattura. Tra questi, un nome che da solo dà senso e ribalta all'operazione (non a caso battezzata in codice "Portobello"): Enzo Tortora, indicato dal pentito Giovanni Pandico come camorrista ad "honorém" (con l'accento sulla "e", come dirà al primo interrogatorio), numero 60 di una lista che viene consegnata ai magistrati di Napoli e fa scattare la retata. Mentre lo portano via dal Plaza, Tortora è ancora convinto che si tratti di un caso di omonimia e che tutto si risolverà in poche ore. Sbagliato. Aspettando l'ora buona perché si ammassassero troupe televisive e fotografi, il re di Portobello viene fatto uscire dalla caserma dei carabinieri per essere trasferito a Regina Coeli, ammanettato e con la faccia sfatta. Sente i cameraman invocare "i polsi, i polsi!", dalla folla i primi verdetti: "Farabutto, pezzo di merda, ladro". La vendetta sul "famoso" prenderà rapidamente le dimensioni della valanga. L'indimenticato "Tognazzi capo delle Br" brevettato dal Maledi Sparagna&Vincino nel 1978 viene surclassato dalla cronaca: Tortora capo della camorra. I pentiti che l'accusano si moltiplicano come nella parabola dei pani e dei pesci: da uno diventano 19, complice la fresca legge Cossiga del 1982 che, pensata per sconfiggere il terrorismo, introduce sconti di pena per chiunque collabori a qualunque titolo. È una corsa folle a chi la spara e la scrive più grossa: Tortora ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell'Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari. Un tornado inarrestabile, con Il Messaggero che titola: "Tortora ha confessato". Falso. Il garantismo di sinistra? Assente. Portobello è un programma da lista nera, e poi il suo conduttore, oltre ad essere un liberale di destra, è pure antipatico per il suo fare tra il lacrimoso e lo snob, e in più ha un passato da inviato della Nazione del petroliere Attilio Monti, non proprio un sincero democratico, durante il quale si è distinto per una campagna contro Valpreda e l'anarchia milanese quali responsabili della strage di piazza Fontana. Che la madre Silvia, quando andava in chiesa a pregare, trovasse spesso il foglietto lasciato da qualche anima buona con la scritta "tuo figlio spaccia la droga ", era il segno, uno dei tantissimi, che gli argini erano rotti e che poco si opponeva alla marea montante delle calunnie. Ma perché proprio Tortora, e non qualche altra star capace di attrarre la morbosa attenzione da spalti del Colosseo? Per una storia di centrini di seta. Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, ne spedisce alcuni alla redazione di Portobello nella speranza che vengano messi all'incanto. Non vedendoli comparire (la trasmissione riceveva allora 2.500 lettere al giorno), Barbaro comincia a bombardare Tortora di lettere sempre più minacciose: essendo però analfabeta, gliele scrive il compagno di cella Pandico. Alla fine, esasperato, Tortora risponde pure, in tono secco, avvertendo che passerà la pratica all'ufficio legale della Rai (nel frattempo, i centrini sono andati persi), che infatti provvede a rimborsare il detenuto con un assegno di 800 mila lire. Caso chiuso? Al contrario: Pandico decide di vendicarsi di Tortora, spiega ai magistrati che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni, che il presentatore si sarebbe intascato fregando i compari. È la prima prova d'accusa presentata ai legali del presentatore, che la smontano in un secondo esibendo la corrispondenza tra Barbaro e Portobello. Risposta: "Trattasi di altro Barbaro". Ugualmente surreale la seconda prova "schiacciante": trovato il nome di Tortora nell'agendina di Giuseppe Puca, detto "'o giappone", uno dei killer di Cutolo. Ci vorranno cinque mesi perché i magistrati si arrendano all'evidenza: l'agendina è della donna di Puca, il nome scritto a mano è "Tortosa" non "Tortora", e corrisponde al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora. Il prefisso è 0823, "provate a chiamà, dottore...". Finisce come era impossibile finisse: Tortora condannato per camorra e spaccio. Tortora, prima della sentenza, eletto a Strasburgo con i Radicali ("sono stato liberale perché ho studiato, sono diventato radicale perché ho capito") con 451 mila preferenze (Alberto Moravia, candidato per il Pci, ne prese 130 mila). Tortora che si dimette da eurodeputato, rinuncia all'immunità e torna in Italia per farsi arrestare. Tortora che ricorre in appello, sfida la giuria prima del verdetto ("Io sono innocente, spero con tutto il cuore che lo siate anche voi") e il 15 settembre 1986 viene assolto da entrambe le accuse (dirà laconico il giudice a latere Michele Morello: "Facemmo giustizia "), cosa che si ripeterà in Cassazione. Tortora che, venerdì 20 febbraio 1987, ricompare in tv e apre la nuova edizione di Portobello con la stessa frase che disse Luigi Einaudi quando riprese a collaborare al Corriere della sera dopo il fascismo: "Heri dicebamus". Dove eravamo rimasti. Silvia Tortora, la figlia di mezzo, la prima che Tortora chiama quando l'arrestano ("Silvia, non crederci, non crederci, tu conosci papà"), vive in un borgo antico alle porte di Roma. È giornalista, sposata dal 1990 con il turbolento e fascinoso attore Philippe Leroy, che le ha dedicato una meravigliosa frase d'amore: "Con Silvia sono tranquillo come una capra felice che gira intorno al suo palo". Due i figli: Michelle, 17 anni, e Philippe, 21. Conserva due libri, che Enzo Tortora ha scritto per Mondadori (Cara Italia, ti scrivo, 1984, dove racconta la sua vita da detenuto, e Se questa è Italia, 1987, sulla sua vita da imputato). Dice che non si trovano più. Tra tutte le cose che hanno dedicato a suo padre, strade, piazze, premi, quella che Silvia trova più giusta è una biblioteca, voluta da Walter Veltroni in una strada appena fuori Saxa Rubra. "I libri erano importanti per lui, erano lui, in qualche senso". Rabbia ancora, Silvia? "Ricordo che Manganelli, il capo della Polizia appena morto, incontrandomi mi ha detto: quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia. Hanno fatto una commissione parlamentare su tutto, persino su Mitrokhin: su Tortora no. Eppure Portobello, che ai tempi mi sembrava una schifezza di show, rivisto dopo l'ho trovato bellissimo".
I moralisti con a capo il Presidente della Repubblica. Ecco il testo integrale della lettera del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al vicepresidente del Csm Michele Vietti.
"Caro onorevole Vietti, le comunico che esprimo il mio assenso all'ordine del giorno da lei predisposto per le sedute del Consiglio superiore della magistratura del 18 e 19 giugno 2014. Con riferimento alle pratiche della Prima e Settima Commissione relative ai contrasti insorti all'interno della Procura della Repubblica di Milano, mi corre l'obbligo di evidenziare che l'argomento affrontato nelle citate proposte coinvolge delicati profili dell'organizzazione degli Uffici del Pubblico Ministero, nel quadro delle attuali norme sull'ordinamento giudiziario. In occasione del mio intervento all'Assemblea plenaria del Consiglio superiore della magistratura del 9 giugno 2009, ho ricordato la necessità di superare gli elementi di disordine e di tensione all'epoca clamorosamente manifestatisi nella vita di talune Procure, ponendo in rilievo che tale superamento non sarebbe stato possibile "senza un pacato riconoscimento delle funzioni ordinatrici e coordinatrici che spettano al Capo dell'Ufficio". In tal senso mi preme sottolineare che, a differenza del giudice, le garanzie di indipendenza "interna" del Pubblico ministero riguardano l'ufficio nel suo complesso e non il singolo magistrato. Come è noto, ai magistrati del Pubblico ministero non si applicano le previsioni di cui all'art. 25, primo comma, della nostra Costituzione; infatti, ciò che deve caratterizzare gli Uffici di procura è l'impersonalità e l'unitarietà della loro azione, sicchè i criteri organizzativi di ogni singolo ufficio requirente non possono essere intesi come rigide regole immodificabili, in quanto deve sempre consentirsi una equilibrata elasticità nella loro applicazione, volta sempre al miglior esercizio dell'azione penale da parte dell'Ufficio nel suo complesso. Al riguardo anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 8388/2009, Novi), nel sottolineare che la riorganizzazione degli uffici del Pubblico Ministero ha costituito uno dei più significativi obiettivi della riforma dell'ordinamento giudiziario, hanno rilevato che il vigente quadro normativo si caratterizza per l'accentuazione del ruolo di "capo" del Procuratore della Repubblica, sia sul versante organizzativo sia su quello della gestione dei procedimenti, e per la corrispondente parziale compressione dell'autonomia dei singoli magistrati dell'ufficio. Proprio per tale ragione i poteri di organizzazione dell'Ufficio sono prerogativa del Procuratore della Repubblica e le funzioni di controllo e garanzia istituzionale affidate al C.S.M. devono essere indirizzate solo ad assicurare l'indispensabile flessibilità nell'applicazione dei progetti organizzativi, i quali devono, innanzitutto, rispondere alle esigenze di funzionalità ed efficacia dell'azione giudiziaria. E' pertanto opportuno che il Consiglio eviti di assumere in tale materia ruoli impropri, dilatando i propri spazi di intervento, non più consentiti dall'abrogazione dell'art. 7-ter R.D. n. 12/1941. Come ho già avuto modo di segnalare, il rischio maggiore nell'attività degli uffici di procura può derivare da una sua atomizzazione e non già dall'ordinato ed efficiente svolgersi dell'azione impersonale dell'intero Ufficio requirente, purchè si assicuri l'obbligatorietà e l'imparzialità dell'azione penale. Raccomando quindi che nell'esame e nella deliberazione conclusiva di tali pratiche l'Assemblea plenaria valuti la condotta del Procuratore della Repubblica, cui è affidato il potere - dovere di determinare i criteri generali di organizzazione della struttura e di assegnazione dei procedimenti, sotto il profilo del perseguimento delle esigenze di efficienza, uniformità e ragionevole durata dell'azione investigativa, tenendo presente anche il fondamentale ruolo di verifica che l'art. 6 del D.Lgs. 106/2006 affida ai Procuratori Generali presso le Corti di appello e presso la Corte di Cassazione in merito al puntuale esercizio dei compiti dei Procuratori della Repubblica". Nel rispetto delle determinazioni finali rimesse alla decisione dell'Assemblea plenaria, invito pertanto i consiglieri a tener conto di queste osservazioni nella trattazione delle citate pratiche, al solo fine di evitare di indebolire la credibilità ed efficacia dell'azione giudiziaria, indispensabili per salvaguardare l'indipendenza e l'autonomia della magistratura. Con viva cordialità, Giorgio Napolitano".
Così Napolitano ha piegato il Csm. I giudici hanno obbedito al Colle: nella lettera a Vietti resa nota il 27 giugno 2014 "ordina" di archiviare lo scontro in Procura a Milano, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Più che un parere, un diktat. Giorgio Napolitano, per mettere argine a «polemiche e strumentalizzazioni», rende noto il testo della lettera con cui il 13 giugno scorso è entrato a piedi uniti nello scontro in corso all'interno della Procura della Repubblica di Milano. E si scopre che le vulgate, le tradizioni orali circolate nei giorni della lettera erano in realtà ancora più caute del contenuto reale della missiva. Con un gesto senza precedenti, Napolitano ha di fatto ordinato al Consiglio superiore della magistratura di chiudere la faccenda con un nulla di fatto, senza scavare su come e perché i fascicoli di inchiesta più delicati di questi anni siano stati assegnati dal procuratore Edmondo Bruti Liberati solo e soltanto ai pm di sua fiducia. Il Csm, come è noto, ha battuto i tacchi e si è adeguato agli ordini del Colle. Di Bruti - con cui è da tempo in piena sintonia, e di cui sponsorizzò apertamente la nomina a procuratore capo - il presidente della Repubblica ovviamente non fa il nome. Non cita le indagini, da Ruby all'Expo alla Sea, che il procuratore aggiunto Alfredo Robledo ha accusato Bruti di avergli sottratto in violazione delle regole interne della stessa procura milanese, affidandole a Ilda Boccassini e agli altri pm a lui vicini. Ma è chiaro che è di questo che Napolitano parla quando scrive che «i criteri organizzativi di ogni singolo ufficio requirente non possono essere intesi come rigide regole immodificabili, in quanto deve sempre consentirsi una equilibrata elasticità nella loro applicazione, volta sempre al miglior esercizio dell'azione penale da parte dell'Ufficio nel suo complesso». In realtà nessuno, neanche Robledo, ha sostenuto che le regole siano «immodificabili». Il problema è che Bruti non le ha modificate ma semplicemente ignorate, senza mai motivare i suoi provvedimenti. Ma questo, per Napolitano, fa parte evidentemente della «equilibrata elasticità». Al vicepresidente del Csm Michele Vietti - che dopo averlo incontrato si era esibito in una irrituale intervista in difesa di Bruti - Napolitano nella lettera del 13 giugno detta insomma la linea: giù le mani da Bruti, per «evitare di indebolire la credibilità ed efficacia dell'azione giudiziaria». Il Capo dello Stato richiama la legge che ha allargato i poteri gerarchici dei procuratori, «sia sul versante organizzativo sia su quello della gestione dei procedimenti» e ha previsto «la corrispondente parziale compressione dell'autonomia dei singoli magistrati dell'ufficio». Fin dove si possa spingere la «parziale compressione» dell'autonomia dei singoli pm, e se in questo concetto rientrino anche gli ordini impartiti da Bruti a Robledo nelle inchieste su Formigoni o su Expo, il capo dello Stato non lo dice. D'altronde il passaggio chiave è un altro, quello in cui il presidente della Repubblica scrive nero su bianco che in fondo la libertà dei pm non è così importante: «le garanzie di indipendenza interna del pubblico ministero riguardano l'ufficio nel suo complesso e non il singolo magistrato». Per questo, con tono quasi ultimativo, Napolitano ammonisce Vietti: «È pertanto opportuno che il Consiglio eviti di assumere in tale materia ruoli impropri». L'unico ruolo del Csm, secondo il Colle, non è controllare sul rispetto delle regole da parte dei procuratori, ma unicamente «assicurare l'indispensabile flessibilità nell'applicazione dei progetti organizzativi, i quali devono, innanzitutto, rispondere alle esigenze di funzionalità ed efficacia dell'azione giudiziaria». D'altronde «il rischio maggiore nell'attività degli uffici di procura può derivare da una sua atomizzazione e non già dall'ordinato ed efficiente svolgersi dell'azione impersonale dell'intero Ufficio requirente, purché si assicuri l'obbligatorietà e l'imparzialità dell'azione penale». In realtà, è proprio sulla «imparzialità» del ruolo svolto da Bruti e dalla sua Procura che - a torto o a ragione - si incentrava l'esposto di Alfredo Robledo. Ma di questo il Csm dopo la lettera ha deciso di non occuparsi, rifiutando di trasmettere le carte alla commissione che dovrà vagliare se mantenere Bruti al suo posto di procuratore.
“Liberati e Csm: solo sbagli”, scrive Antonio Di Pietro su “Il Garantista”. Da Francesco Saverio Borrelli a Edmondo Bruti Liberati, vale a dire “c’era una volta la Procura della Repubblica di Milano”. Una Procura sempre al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica italiana e soprattutto sempre in prima linea – ora come allora – nella lotta alla corruzione ed alle malefatte dei cosiddetti “colletti bianchi” (di quei personaggi, cioè, che approfittano del loro ruolo istituzionale e di potere per farsi gli affari propri in modo illecito alle spalle e con i soldi delle persone oneste). Ultimamente, però, è successo qualcosa di strano in quella Procura. Qualcosa che ha messo e sta mettendo a serio rischio la credibilità di quell’Ufficio giudiziario, anche e soprattutto perché molti soggetti esterni ad essa sono fortemente interessati a sguazzarci sopra per delegittimarla e far apparire così meno credibili agli occhi dell’opinione pubblica le delicate inchieste che i magistrati milanesi hanno portato e stanno portando avanti con grande competenza professionale ed enormi sacrifici personali. Mi riferisco allo scontro intervenuto fra l’attuale capo della Procura della Repubblica di Milano, Edmondo Bruti Liberati, ed il suo vice Alfredo Robledo, il quale è anche coordinatore dell’apposito pool di magistrati che si occupano dei reati contro la pubblica amministrazione. È successo che Bruti Liberati, forte del suo titolo di capo della Procura, ha deciso di non assegnare alcune delicate indagini riguardanti reati commessi a Milano contro la pubblica amministrazione al pool coordinato dal procuratore aggiunto Robledo (pur essendone quest’ultimo il naturale destinatario), come ad esempio l’inchiesta Ruby (ovvero quella che ha portato alla condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione per concussione e prostituzione minorile) e l’inchiesta Expo (tutt’ora in fase di indagini preliminari ma che ha già evidenziato una serie così impressionante di reati da parte di personaggi di primo piano della politica e dell’imprenditoria italiana, da far passare in secondo piano persino la famosa inchiesta Mani Pulite di vent’anni addietro). Francamente non so e non ho capito il motivo per cui Bruti Liberati l’ha fatto ma – pur senza mettere in dubbio la sua buona fede – di una cosa sono convinto: la sua decisione a me pare all’un tempo sbagliata sul piano tecnico ed inopportuna sul piano fattuale. È tecnicamente sbagliata in quanto – se è pur vero che Bruti Liberati, in quanto capo della Procura, ha pieni poteri di organizzare al meglio il lavoro dell’ufficio che dirige – è anche vero che egli non può esercitare tale suo potere in modo arbitrario e contro le regole generali previste dall’Ordinamento giudiziario per il funzionamento di uffici così delicati ed addirittura contro le specifiche regole che egli stesso ha dato per il miglior funzionamento del suo ufficio. Mi riferisco, in particolare – per quanto riguarda gli aspetti di tecnica investigativa – alla previsione ed alla concreta istituzione, presso la Procura di Milano – del cosiddetto “Pool di pm contro la pubblica amministrazione” ovvero di quel gruppo di magistrati inquirenti, appositamente costituito sin dai tempi di Mani Pulite (appunto da Saverio Borrelli più di vent’anni addietro), proprio per permettere a chi deve indagare sui reati contro la pubblica amministrazione di avere un quadro d’insieme unitario dei fatti e delle persone coinvolte ed una strategia coordinata delle relative indagini e dei necessari riscontri probatori. Orbene non capisco proprio la ragione per cui l’attuale capo della Procura di Milano Bruti Liberati non abbia voluto attenersi a queste semplicissime e collaudatissime regole di buona investigazione nei casi giudiziari sopra indicati (ed anche in altri casi simili, come ad esempio l’inchiesta sulla vendita delle azioni Sea da parte del Comune di Milano, chiusa e dimenticata in cassaforte dal procuratore Bruti Liberati per quasi un anno, senza alcun atto di indagine, con il rischio di aver pregiudicato l’esito finale di una delicata vicenda). Ma quel che più mi preoccupa è l’evidente strumentalizzazione a cui si presta questa sua decisione (ripeto, a prescindere dalla buona fede o meno per cui essa è stata adottata) da parte di chi accusa i capi degli uffici giudiziari di fare a volte specifiche “assegnazioni pilotate” per arrivare a tesi precostituite contro o a favore di questo o quel personaggio politico o comunque di rilevanza pubblica. Strumentalizzazione, peraltro, già manifestatasi con forza da parte di taluni dei diretti interessati coinvolti nelle indagini in cui Bruti Liberati non ha rispettato il criterio oggettivo dell’assegnazione al “Pool reati contro la pubblica amministrazione” e tra essi, soprattutto il solito Silvio Berlusconi, provvisoriamente condannato per la vicenda Ruby a 7 anni di carcere e che ora, in attesa del giudizio definitivo, sta ricorrendo a tutte le armi di comunicazione di massa per sostenere che egli sarebbe semplicemente una vittima della “solita” magistratura milanese. È evidente, quindi, che – alla luce di quel che è successo – il Consiglio superiore della magistratura (ovvero l’organo costituzionalmente incaricato di valutare e sindacare il comportamento disciplinare dei magistrati) aveva il dovere di esaminare approfonditamente la situazione e prendere i conseguenti provvedimenti. Senonché è accaduto quel che a me – semplice ex magistrato di campagna – appare un’altra “anomalia nell’anomalia”, ovvero l’intervento a gamba tesa del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale – forte del suo ruolo di presidente del Csm – ha inviato una lettera-diktat al vicepresidente Michele Vietti, per giunta da quest’ultimo “secretata” senza spiegarne le ragioni, invitando (si fa per dire) il Consiglio superiore della magistratura a smussare le osservazioni critiche nei confronti del procuratore della Repubblica di Milano Bruti Liberati, all’insegna del detto “quel che è fatto è fatto”, passiamoci sopra ed andiamo oltre. Una decisione questa, a mio avviso, assai poco opportuna ed anzi pericolosa sul piano dei “precedenti interpretativi e decisionali”, nel senso che – se si lascia passare, senza prendere una chiara e netta posizione sulla questione delle forme e dei limiti con cui il capo di un ufficio giudiziario possa assegnare i fascicoli al pm Tizio piuttosto che al pm Caio – si rischia di non avere più certezza sull’obiettività ed obbligatorietà delle indagini penali e sulle reali finalità per cui esse vengono attivate (o non attivate, a seconda del caso). Il fatto, poi, che – come credo nel caso di specie – il tutto avvenga in buona fede non può valere di per sé a scagionare e legittimare ogni cosa, giacché una cosa è l’errore procedurale (che, per definizione, può capitare a tutti) altra cosa è il non fare tesoro di tale errore e rimediare per tempo lasciando così la possibilità che – in un vuoto normativo e regolamentare – ciò possa accadere di nuovo e magari, la prossima volta, anche per finalità e motivazioni meno nobili.
Tonino, il povero moralista silurato dalle manette ai suoi. La legge del contrappasso punisce Di Pietro, l'ex pm diventato capopopolo in nome dell'etica: dalla Liguria al Lazio, i guai giudiziari del suo esercito lo hanno travolto, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Se fossi milanese, e non lo sono, e se avessi avuto la vena di Jannacci, avrei scritto una piccola ballata sul Pover' Tonin, nel sens' del moralista sul modello di Pover purcèl nel senso del maiale di Ho visto un re. La sua gente, il suo piccolo esercito moralista, pian piano finisce in galera e immagino quanto Di Pietro soffra. Lo dico seriamente, Milano è stata del resto il suo palcoscenico: noi cronisti di allora eravamo tutti lì nel Palazzo di Giustizia quando Tonino tuonava, sudava, arringava, arrestava, interrogava. Ho ancora due bloc notes neri, fitti delle sue imprese. Lui sembrava un Calvino di Montenero di Bisaccia. E noi giornalisti vivevano aggrappati alla sua toga come i bambini alla gonna materna. Lui allora ricopriva per intero tutte le fantasie italiane, salvo - immagino - quelle erotiche, incarnando tutti i miti possibili: era l'angelo sterminatore come Saint Just nella rivoluzione francese, il pupazzo dei presepi napoletani di San Gregorio Armeno, l'antipolitica fatta persona, il pre-Grillo, il post Masaniello e se lo avessero messo nella Nazionale avrebbe certamente vinto i mondiali. Troppa grazia, sant'Antonio (Di Pietro). Perse (è la mia opinione) la testa: aveva l'Italia ai suoi piedi e mise all'incasso il patrimonio. Così, gettò la tonaca alle ortiche, si spretò come procuratore e si fece capopopolo in Parlamento inventandosi una surreale Italia dei Valori, una sua invenzione banale e convenzionale. E così, gli venne in mente di infliggere un esperimento moralizzatore artificiale, diffuso con la sua voce sgrammaticata, tonante nel deserto della gente comune (era evidente il conflitto d'interesse con la sintassi). Ebbe intanto un bel po' di guai con una scatola da scarpe, una Mercedes che furono pessimi segni premonitori. Poi nella sua arca imbarcò di tutto: discepoli ruspanti, opportunisti di provincia, personaggi fin troppo coloriti come Razzi, e Scilipoti, paesane di bell'aspetto e la schiuma della cosiddetta società civile che si chiamava ancora popolo dei fax. Una ciurma irrequieta e un bel po' imbarazzante. Passa qualche anno e l'esperimento si chiude: la meglio moralità dipietresca finisce in manette o comunque nei guai. Inquisiti, arrestati, denunciati, una catastrofe: pover Tonin, nel senso del fallimento. Ieri l'altro, ultimo evento, gli hanno ingattabuiato anche le fresche ragazzette del nuovo che avanza, in Liguria. In quella regione le truppe di Di Pietro sono state peggio dei lanzichenecchi. Fra loro Maruska Piredda e Marylin Fusco, giovani dalle consonanti esotiche, dedite ai rimborsi spese di fantasia, stando a quel che scrivono i magistrati. Di nuovo, roba da vergognarsi. Avrebbero fatto la cresta su ogni genere voluttuario e alimentare a spese del contribuente arrivando a pagarsi il gratta vinci nonché le salsiccia con polenta. Bel risultato. Bella rivoluzione e lezione di moralità. È ovvio che Di Pietro non può chiamarsi fuori: quella roba è tutta sua. Erano tutti miei figli, come si intitolava un dramma di Arthur Miller. Che razza di figli fossero, lasciamo perdere. Lui e il suo movimento sono diventati da tempo indifendibili ma poiché facevano parte dello schieramento antiberlusconiano con la bava alla bocca, sono stati difesi ben oltre i limiti della prudenza da Marco Travaglio e da Micromega. Cioè da tutto il mondo di coloro che presumono di appartenere alla razza ariana del bene, secondo la lezione del tutto perdente dello struggente Enrico Berlinguer che era struggente come persona, ma che non solo sbagliò tutto politicamente (con lui chiuse di fatto il Pci) ma ebbe la colpa di inventare la creatura genetica dei moralisti superiori, una specie separata da quella della gente comune. Per citare Calvino (che era ligure come gli ultimi disastri causati da gente dell'Idv) Di Pietro e i suoi epigoni somigliano ai personaggi del Cavaliere Inesistente che era un guscio di latta vuoto, mentre l'umanità comune corrisponde al suo scudiero Gurdulù che aveva il torto di rotolarsi nel fango, ma il pregio di essere reale. Tonino ha avuto dunque quel che prevede la legge del contrappasso: hai speculato sul moralismo genetico e superumano? E adesso béccati non un caso isolato, ma la catastrofe etica, la rottamazione morale (chi volesse l'elenco completo delle malefatte può allietarsi su Internet). Quando era procuratore di Mani Pulite gli estorsi l'unica intervista di quell'epoca. Oggi mi piacerebbe fargliene una seconda per chiedergli: caro Di Pietro, hai visto che fine hanno fatto le tue pretese razziste (sempre nel senso etico ariano)? Nulla da dichiarare? A questa domanda dei doganieri americani Oscar Wilde rispose: «Nulla, tranne la mia genialità». Tu potresti dire altrettanto?
Ed i leghisti potrebbero dire altrettanto?
Bossi, "The Family" e il lungo paradosso della Lega, scrive Luigi Pandolfi su “L’huffingtonpost”. La politica oggi ha tempi veloci, si sa. Nell'arco di 2-3 anni sono cambiate tante di quelle cose nel nostro paese che della richiesta di rinvio a giudizio per Umberto Bossi e i suoi due figli da parte della Procura di Milano potrebbe, legittimamente, non importare a nessuno. Tra l'altro il loro partito, la Lega Nord, come in molti sostengono, avrebbe pure cambiato pelle, sarebbe ormai un'altra cosa rispetto al movimento che inventò la Padania e tenne in scacco il paese per anni con le sue menate secessioniste. Ora c'è la Le Pen, mica siamo ai tempi di Roma ladrona! In verità le affinità politiche e programmatiche, ancorché non dichiarate, con la fiamma d'oltralpe e con le altre forze dell'estrema destra europea c'erano già allora, così come c'erano già allora, alla corte del senatur, tutti gli attuali protagonisti del "nuovo corso", a cominciare dal segretario Salvini. Insomma, sarà pure vero che il tema dell'uscita dall'Euro ha preso oggigiorno il sopravvento su quello della Padania, ma vuoi mettere il significato, politico e storico, di un'inchiesta che spazza via decenni di retorica sulla "diversità leghista", sui vizi del sud e della politica "romana"? Il senatur e i suoi figli sarebbero chiamati a rispondere di appropriazione indebita di oltre mezzo milione di euro di soldi pubblici, usati per spese personali, dalle multe al carrozziere, ai vestiti, fino alla laurea in Albania di Renzo "il Trota" ed ai lavori di casa a Gemonio. Per tutte le persone coinvolte nella vicenda le accuse,a vario titolo, sarebbero di appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato per circa 40 milioni di euro. Come non andare con la memoria a quei "favolosi" primi anni novanta, quando lo spavaldo senatur tuonava: "Noi, davanti a questa banda, ai ladri di Tangentopoli, siamo qui per dire avanti Di Pietro". È noto, l'esordio della Lega, quello della ribalta sul palcoscenico della politica nazionale, coincise con il l'epopea di tangentopoli. È alle elezioni del 1992 che il Carroccio, con l'8,6%, portò in parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori, che gli varranno il pieno inserimento nelle dinamiche della vita politica italiana, il posto al sole nel grande "gioco romano". È il tempo in cui il partito padano ed il suo leader, cavalcheranno con successo le indagini del Pool di Milano, gridando alla degenerazione di un ceto politico che, da decenni, occupava le istituzioni dello Stato. Emblematico, scenico, fu, a tal riguardo, l'atteggiamento che i leghisti ebbero in parlamento, all'indomani della presentazione, da parte del governo Amato, del cosiddetto decreto Conso, quell'insieme di norme che andavano ad incidere sulla punibilità di coloro che avevano preso le tangenti, passato alla storia come il "colpo di spugna" per i reati di tangentopoli. Allorquando il Presidente del Consiglio Giuliano Amato, dopo dieci giorni dal varo del decreto, entrò nell'aula di Montecitorio, dai banchi della Lega si scatenò il finimondo: il deputato di Como Luca Leoni Orsenigo si lanciava nell'esibizione di un macabro cappio, mentre Marco Formentini, allora capogruppo alla Camera, incitava i colleghi a gridare:"Mafia, mafia, mafia!". Bei tempi. Come quando la Camera negò l'autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi. Altra scena, altra bella giornata di indignazione e di lotta: "è un golpe bianco", "questa è una mascalzonata", "il regime se ne sbatte i coglioni dell'opinione pubblica", gridava in quei frangenti il capo della Lega, seguito da tutti i suoi sodali. Presto però la scena cambierà per la Lega, e le parti nella commedia si rovesceranno. Lo stesso film, bello, avvincente, coinvolgente, spericolato, si trasformerà nel giro di pochi mesi in una pellicola da incubo, per Bossi in primo luogo. Anche il partito più forcaiolo, nel senso letterale del termine, del parlamento italiano, cadrà nelle maglie dell'inchiesta di Milano (maxitangente Enimont). Una roba apparentemente inverosimile, considerato che la storia della Lega era appena iniziata, fuori e contro il sistema partitocratico della prima Repubblica. A ragion veduta, oggi, possiamo dire, nondimeno, che non fu un incidente di percorso, ma un caso significativo, premonitore, il primo di una lunga serie, che, in ogni modo, avrebbe dovuto far riflettere di più, con vent'anni d'anticipo, sulle incoerenze di questo partito. Un partito eversivo da un lato, per i suoi propositi di rottura dell'unità nazionale, e perfettamente integrato dall'altro nel sistema che diceva di voler combattere. Ora però tutto è più chiaro. E non basta l'euroscetticismo di maniera a cancellare l'onta di un imbroglio politico durato per più di cinque lustri. The Family non è solo il nome di un'inchiesta giudiziaria: è il paradigma del lungo paradosso leghista.
Rosi Mauro scagionata: chi le chiederà scusa? Accusata di malversazioni, nel 2012 era stata espulsa dalla Lega. Oggi la Procura di Milano la proscioglie: è l'ennesimo caso di gogna mediatica. Senza risarcimento, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. La Lega nord (ma anche molti, molti giornali) oggi dovrebbe chiedere scusa a Rosi Mauro: accusata di gravi malversazioni ai danni del partito (e dei fondi del finanziamento pubblico), nel 2012 era stata l'unica espulsa dal partito, insieme con l’ex tesoriere Francesco Belsito, per voto unanime del consiglio federale. Oggi la Procura di Milano chiede per lei, e soltanto per lei, l’archiviazione dall’accusa di appropriazione indebita nell’ambito dell’inchiesta «The Family» che due anni fa ha scosso il Carroccio e portato allo spodestamento di Umberto Bossi. Due anni fa l’allora vicepresidente del Senato aveva scelto di non dimettersi dalla carica, con totale disappunto del partito. «Il rancore prevale sulla verità» aveva dichiarato Rosi Mauro, parlando dell’epurazione che invece era stata temporaneamente risparmiata a Bossi e suoi figli Renzo e Riccardo, anche se «il Trota» si era poi dimesso da consigliere regionale. Ieri il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e i pm Roberto Pellicano e Paolo Filippini hanno chiesto il rinvio a giudizio per tutti i membri della famiglia Bossi e per altre 6 persone, tra cui Belsito, accusato di avere gestito con metodi da «finanza più che allegra» la tesoreria della Lega. Per Rosi Mauro, invece, magistrati hanno chiesto il non luogo a procedere: la donna infatti si era scagionata presentando lo scorso novembre alla procura una serie di documenti e di spiegazioni sui 99.731 euro che, secondo l’accusa, erano stati da lei sottratti dalle casse di via Bellerio. Mauro ha dimostrato che 16 mila euro le erano dovuti dal partito perché aveva venduto una vecchia auto che non le serviva più; che un assegno da 6.600 euro sulla cui matrice Belsito aveva scritto «Rosi» sarebbe stato un escamotage del tesoriere «per ritirare denaro contante attribuendolo ad altri»; e, infine, che non aveva speso 77 mila euro per comprare una laurea in Albania a Pierangelo Moscagiuro, un uomo della sua scorta che in realtà non era neppure diplomato. Le tesi di Mauro, scrivono i magistrati, «sono accoglibili e comunque tali da rendere assai dubbia la solidità della prospettazione accusatoria». Rosi Mauro, che nel frattempo è scomparsa dall'orizzonte politico, meriterebbe la riabilitazione. E almeno qualche risarcimento. Rosi Mauro: «Io assolta, ma dalla Lega zero telefonate, neppure Bossi».
Intervista esclusiva alla ex vicepresidente del Senato: «Così mi sono ripresa la dignità e ho saputo resistere, ad altri sarebbe venuto un infarto», scrive Paola Sacchi su “Panorama”.
"Qualcuno mi ha chiesto scusa? No, finora nessuno, ma io so aspettare, come la mia assoluzione dimostra". Dalla Lega Nord che l'aveva espulsa all’unanimità nessuna telefonata: né da Roberto Maroni (il segretario che la fece espellere e chiese pulizia fino in fondo a suon di ramazze ndr) né da Matteo Salvini, che «giovanissimo fu accanto a me consigliere comunale a Milano».
Ma forse quello che provoca più amarezza a Rosi Mauro è non aver ricevuto neppure una telefonata da Umberto Bossi, né da sua moglie Manuela Marrone. E neppure dall’ex capogruppo della Lega a Montecitorio Marco Reguzzoni, colui che insieme a «la Rosi» era descritto nelle cronache come l’altro esponente di spicco del «cerchio magico» bossiano. Silenzio anche dall’ex fedelissimo «Federico Bricolo, il mio capogruppo al Senato», che si muoveva come un’ombra dietro di lei.
«No, nessuno di loro mi ha chiamata, né ora né in questi orribili due anni e due mesi, mi sono stati vicini invece tantissimi militanti che stanno ancora in Lega. Io ancora leghista nell’anima? Ero e resto un’autonomista, non solo dei territori, ma anche della mente e delle coscienze delle persone».
Si toglie tanti sassolini dalla scarpa Rosi Mauro in questa intervista esclusiva a Panorama.it, dopo l’assoluzione piena da parte della Procura di Milano dalle infamanti accuse piovutegli addosso nell’ambito del caso Belsito, compresa quella di aver acquistato diamanti con i soldi della Lega. Rindossa i pani della festa la ex vicepresidente del Senato che resistette ai vertici di Palazzo Madama mentre tutto il partito le chiedeva di mollare. Ma lei era convinta della propria innocenza. Roberto Calderoli la definì «la sindacalessa feroce», nella stessa Lega e non solo sui giornali veniva sprezzantemente chiamata «la badante» o « la terrona» perché nata a S. Pietro Vernotico in Puglia. Maroni disse quando venne espulsa: «Finalmente avremo un segretario padano del Sinpa». Ma lei è rimasta alla guida del Sinpa a dispetto dei santi.
Senatrice Mauro, cosa prova dopo essere passata dalle stalle della gogna politica e mediatica alle stelle dell’assoluzione?
«Ho passato due anni e due mesi in una gogna mediatica senza precedenti… ho letto cose che non stanno né in cielo né in terra. Certo che in questo momento sono felice. Non posso che ringraziare la Procura. Adesso resto in attesa del decreto di archiviazione. Vivo momento per momento, sapendo fin dall’inizio come stavano le cose. Io sono andata contro la mia stessa volontà. Sono una che fino a due anni fa non era mai andata in televisione, e sui giornali, ho fatto migliaia e migliaia di comizi dal 1987 al 2012 (iniziò ragazzina come operaia metalmeccanica a Milano e delegata della Uilm nel 1985 ndr), mai un rapporto con i giornalisti….».
Avvicinarla era impossibile, per farlo bisognava essere davvero tosti…
«E certo, se lo ricorda bene. Ma semplicemente perché io facevo i miei comizi, facevo la sindacalista, erano altri che dovevano portare la linea del movimento sui giornali e andare in televisione. La cosa per me molto brutta è stata aver visto tutte quelle cose in un momento scomparire, in un attimo diventai il capro espiatorio che non ho ancora capito bene di che cosa».
Il termine più gentile nei suoi confronti fu «la badante» o «la terrona» che nella Lega era un marchio infamante o la capa del «cerchio magico»…
«Hanno detto di tutto, quanto al cerchio la capa per i giornali era la Manuela, non voglio togliere i primati a nessuno (ride ndr). Questo cerchio magico era un’invenzione dei giornalisti, perché poi chi ha portato alla disfatta si è visto».
Veramente non era solo un’invenzione dei giornalisti che invece riportavano quello che dicevano nella Lega. Lei ha resistito, come un sol uomo, parafrasando Bossi che elogiandola le disse: «Tu per me sei un vero uomo», alle richieste pressanti di Maroni che le voleva imporre le dimissioni da vicepresidente del Senato. Come ha fatto?
«Io quella sera infatti ecco perché, rompendo le mie consuetudini, andai a Porta a Porta e durante la trasmissione andò in onda la serata della ramazze a Bergamo con Maroni (andò anche Bossi piangente ndr). Mi dissi: adesso mi sveglio, perché questo è un incubo. E non capivo. Ma decisi: io non mi dimetto da vicepresidente del Senato (Mauro era il vicario del presidente Renato Schifani ndr) perché io non ho fatto niente. Ho finito i miei cinque anni a Palazzo Madama, dopodiché, mi sono detta, aspettiamo gli eventi, la giustizia farà il suo corso. Ho aspettato due anni e due mesi. E adesso attendo il decreto di archiviazione».
Nell’intervista esclusiva a Panorama nell’aprile 2012 lei fu profetica: «Non vi temo, la partita con me è solo agli inizi. Come ha passato questi due anni?
«Io penso che ad altri al posto mio sarebbe venuto un infarto. Ho continuato a fare la sindacalista, alla guida del Sinpa che esiste e non è più collegato alla Lega. Il 16 maggio 2012 andai al congresso e mi hanno rieletto segretario. Ci siamo distaccati all’unanimità dalla Lega. Dico quindi grazie ai miei iscritti, ai miei collaboratori, che mi hanno creduto perché mi conoscono da 25 anni. Dico grazie ai pochi amici che mi sono rimasti vicini e non a quelli che non si sono fatti più sentire. Il coraggio non si può comprare, lo si deve avere dentro».
Chi le è rimasto vicino?
«Della nomenclatura della Lega nessuno».
Neppure Bossi?
«No, assolutamente no. L’ultima volta che ci ho parlato ero ancora in Senato, dopodichè non ho più sentito nessuno, n-e-s-s-u-n-o (lo ripete, scandendolo ndr). Ci sono stati invece tanti militanti che mi hanno sostenuto e io non ne ho mai fatto i nomi. Qualcuno dice che non è stato un complotto, io oggi continuo a dire: è stato un complotto. E questa è la cosa che mi provoca dolore».
Bossi è stato rinviato a giudizio con i figli Renzo e Riccardo. Cosa pensa?
«Ho letto le dichiarazioni in cui afferma: siamo innocenti. Io dico: buon per loro, se hanno le prove dimostreranno la propria innocenza, come io ho dimostrato la mia. Io ho sempre aiutato tutti senza chiedere mai niente in cambio, mai, mai, mai».
Chi le ha telefonato dopo l’assoluzione?
«Tanti militanti ancora dentro la Lega ma anche tanti che sono usciti e che mi continuano a dire: non mollare. Ribadisco: dalla nomenclatura zero telefonate».
Quindi, neppure il segretario Salvini?
«No, tra l’altro Salvini è stato consigliere comunale con me a Milano nel ’93, quando era proprio un ragazzo».
E Reguzzoni?
«No. E neppure Federico Bricolo, allora mio capogruppo al Senato, che tra l’altro venne a casa mia in Sardegna e vide con i suoi occhi che sono due locali e non la mega-villa di cui parlavano i giornali. E già da allora Bricolo non disse nulla. Queste sono veramente le cose che dispiacciono di più».
Eppure Bricolo come gli altri quando lei era potente la temeva e la omaggiava, era in codazzo con lei che del resto folgorò Bossi quando ancora ragazzetta in piedi su un tavolo urlò e mise in riga un’assemblea di tranvieri inferociti…
«Se mi temevano evidentemente è perché io non ho nulla da nascondere, evidentemente sono altri che hanno qualcosa da nascondere. Io non sono mai stata né invidiosa né gelosa di nessuno, anzi ho difeso in alcuni momenti storici della Lega anche chi era indifendibile. Purtroppo è un problema loro e mi auguro che riescano a conviverci bene perché quello che hanno fatto è indegno».
Lei ora lavora?
«Faccio volontariato al Sinpa».
Come si mantiene?
«In questo momento con i risparmi miei, tant’è che ho detto ai magistrati: continuate a controllare il mio conto, controllatemi passo passo perché io possa riprendermi la mia dignità, perché hanno fatto di tutto per togliermela».
Oltre al Sinpa fa politica?
«Già quando ero in Senato ho costituito il movimento Sgc: “Siamo gente comune”, abbiamo due sedi, piano piano ci stiamo muovendo partendo dal territorio. Controllate sul sito, c’è tutto. L’altra fondatrice è Arianna Miotti, una commercialista anche lei per vent’anni in Lega da dove se ne è andata per le schifezze che mi hanno fatto».
Lei fu infangata anche nella vita privata, le attribuirono come amante il caposcorta Pierangelo Moscagiuro. Ora cosa ha da dire?
«Moscagiuro, vi prego di scriverlo in neretto, non è mai stato il mio compagno, ma era solo il mio caposcorta. Punto».
E comunque lei disse a Panorama: «Se all’alba dei miei 50 anni mi attribuiscono un uomo di 37 faccio anche una bella figura…
«Quella era una battuta spiritosa (ride ndr). Ma chi mi conosce sa che sono sempre stata legata a un uomo che ha un bel decennio più di me».
Verrebbe spontaneo chiederle per mera curiosità chi è…
«E no, non voglio più intromissioni nella mia vita privata, a meno che non sia io a parlarne. Perché quello che hanno fatto è stato tutto mirato per cercare di distruggermi politicamente ma anche personalmente. Le cose io le ho sempre fatte alla luce del sole. Da mio marito ero già separata dal 1998 e poi anche divorziata».
È stato anche scritto che lei avrebbe comprato la laurea a Moscagiuro e gli avrebbe fatto avere benefit dal Senato…
«Ma se Moscagiuro non ha neppure il diploma! E poi scrivono che non è un poliziotto quando lui lo è ancora oggi. Comunque d’ora in poi io parlo solo per me stessa. Sono rimasta talmente scottata che non metterei più le mani sul fuoco per nessuno».
Manuela Marrone l’ha più chiamata?
«Assolutamente no».
Che morale trae dalla sua vicenda?
«La mia vicenda è stata archiviata, mentre nella Lega ci sono molti rinviati a giudizio».
Si riferisce alla storia dei rimborsi spese alla Regione?
«Sì, anche per questa parte sono stata assolta. Per altri che hanno fatto invece i duri e puri nessuna archiviazione».
Lei si sente ancora leghista a dispetto del comportamento della Lega?
«A dispetto della Lega io ho creduto e credo ancora all’autonomia vera, che vale per tutti, da Nord a Sud, perché autonomia significa essere responsabili delle proprie azioni, del proprio lavoro, del proprio territorio. Ed io queste cose le ho nell’anima, non solo nelle parole. Ho fatto migliaia e migliaia di comizi dagli anni ’80, ero una ragazzina. Sono passata dalle fabbriche al consiglio regionale lombardo dove feci approvare il federalismo fiscale che poi a Roma Calderoli e Giulio Tremonti stravolsero. Ognuno deve fare i conti con la propria coscienza. La mia è a posto».
La coscienza dei magistrati è sempre a posto?
Premio Ischia a Manzo, il giornalista che intervistò Esposito. E il giudice manda una lettera alla giuria per dissuaderla, scrive “Tempi”. Esposito (non si capisce assolutamente a quale titolo) ha preso carta e penna per scrivere al presidente della giuria del premio di giornalismo Giulio Anselmi, già direttore di Espresso, Stampa, Ansa, oltre che ad altri giurati (tra i nomi che compongono la giuria ci sono i direttori del Mattino, Alessandro Barbano, dell'Ansa Luigi Contu, del Messaggero Virman Cusenza, e di SkyTg24 Sarah Varetto). Esposito è accusato di aver violato i doveri «di riserbo e di correttezza», a causa di un’intervista sulla condanna dell’ex premier rilasciata al cronista del Mattino. Per questo il magistrato gli ha chiesto 2 milioni di euro di risarcimento. «Sono a Ischia a ritirare il premio». Antonio Manzo, cronista giudiziario del Mattino, non ha altro da aggiungere a tempi.it sull’anomala decisione del giudice Antonio Esposito di lanciare un “appello” affinché non gli venga assegnato un premio giornalistico. Esposito, presidente della sezione feriale di Cassazione che condannò l’anno scorso l’ex premier Silvio Berlusconi, ha cercato di bloccare il premio al giornalista del Mattino, facendo notare ai giurati che a causa dell’intervista («gravemente manipolata», secondo il suo avvocato) rilasciata a Manzo, all’indomani della condanna di Berlusconi a 4 anni di carcere per frode fiscale, è stato messo sotto accusa dagli organi disciplinari della magistratura. Della lettera che Esposito ha inviato a tutti i giurati del premio speciale Ischia assegnato a Manzo ne parla oggi il Fatto Quotidiano. Il giudice, comunica ai lettori Marco Lillo, «ha scritto alla fondazione Valentino che organizza il Premio Ischia per chiedere che il riconoscimento sia bloccato», nonostante non vi sia, «nessuna relazione fra l’intervista di Esposito e il riconoscimento al giornalista del Mattino». Quell’intervista è «costata cara» al giudice che condannò Berlusconi, ricorda Lillo. Dopo la pubblicazione delle parole del giudice sul quotidiano di Napoli, «sono nati per lui un’azione disciplinare del Procuratore Generale e un procedimento davanti al Consiglio della Magistratura, rinviato al 3 luglio prossimo». Al giornalista del Mattino, infatti, Esposito avrebbe rivelato anticipatamente i contenuti delle motivazioni della sentenza. Lillo rivela un altro particolare della vicenda: Esposito «ha avviato un’azione civile per chiedere 2 milioni di euro di risarcimento a Manzo e solidalmente il direttore Alessandoro Barbano e l’editore Caltagirone». Il magistrato non ha chiesto risarcimenti solo a Manzo e al Mattino, ma anche al Giornale (400 mila euro), a Libero (1 milione e mezzo), a Piero Ostellino e al Corriere della Sera (150 mila euro), al Foglio e a Giuliano Ferrara (120 mila euro). Secondo il giudice e il suo avvocato, Alessandro Biamonte, Manzo non dovrebbe ricevere il premio speciale Ischia (patrocinato dalla Presidenza della Repubblica e del Consiglio) perché avrebbe commesso una «grave violazione deontologica per aver pubblicato un testo difforme da quello concordato e per di più difforme dal colloquio effettivamente avvenuto». Il Fatto Quotidiano riporta l’audio nel quale il giudice aveva tentato di schermirsi dalle domande incalzanti di Manzo dicendo: «Non mi fare esprimere giudizi sulle sentenze, ci dobbiamo esprimere con la motivazione». La frase non è poi stata riportata nell’intervista. Il giornalista del Mattino si è difeso dalle accuse di Esposito, spiegando, in una intervista a Tempi, di aver trascritto fedelmente quanto detto dal giudice Esposito. «Esposito ha detto esattamente le cose che hai letto nell’intervista – ha spiegato Manzo all’inviato di Tempi Peppe Rinaldi -. I nastri sono a disposizione, le quasi mitiche copie dei fax reciproci pure. Quando l’autorità giudiziaria ce li chiederà, se ce li chiederà, li metteremo a disposizione». Per quanto riguarda la frase omessa di Esposito, il giornalista ha ricordato, nel dicembre 2013, al procuratore generale di Cassazione, Carlo Destro, che «è perfettamente in linea con il lavoro giornalistico quello che viene definito da noi “editing” cioè il legame logico tra il parlato e lo scritto onde evitare che una acritica trasposizione, sia pure letterale e fedele, non porti il lettore a una comprensione netta e precisa delle parole che lo stesso magistrato aveva pronunciato nel corso della conversazione». Dopo la fase istruttoria, a inizio giugno, il procuratore generale di Cassazione, ha accusato il giudice che condannò Berlusconi di essere incorso in una violazione dei doveri «di riserbo e di correttezza». Esposito, secondo l’accusa, avrebbe «sollecitato la pubblicità di notizie relative alla propria attività d’ufficio e alla trattazione del processo» dinanzi alla Cassazione, «utilizzando canali personali privilegiati ai quali già in precedenza aveva fatto ricorso», nonostante «dovesse a ciò sconsigliarlo, oltre la particolare risonanza mediatica che aveva accompagnato la celebrazione del processo, l’elevata funzione svolta nell’ambito del collegio giudicante». Esposito prese «di sua iniziativa il contatto telefonico, circa un’ora dopo la lettura del dispositivo della sentenza» con il giornalista del Mattino, «affermando di non poter parlare immediatamente e accordandosi con il giornalista per il rilascio di un’intervista, “per spiegare la sentenza” entro i successivi due o tre giorni». L’intervista fu poi rilasciata il 5 agosto con una «conversazione telefonica di circa 35 minuti», nel corso della quale «il magistrato ha interloquito sia sui criteri di assegnazione del processo alla sezione feriale sia sui temi che il collegio era stato chiamato ad affrontare in quel giudizio».
Anche la coscienza di alcuni politici è sempre a posto?
Grillo minaccia il giornalista di Repubblica Ciriaco: "E' uno stalker, durerà poco". Il Comitato di Redazione del quotidiano romano: "Farneticazioni minacciose, tutta la redazione è con Tommaso. Non ci faremo condizionare". La Fnsi: "Ora basta sappia che non ci piegherà". La stampa parlamentare: "Cessi l'atteggiamento aggressivo dei 5 Stelle", scrive “La Repubblica”. Nuovo attacco di Grillo ai giornalisti. Un "wanted" sul suo sito questa volta rivolto contro il giornalista di Repubblica Tommaso Ciriaco. Ma anche qualcosa di più. Grillo parla di ricerche fatte sul nostro collega e conclude con un "quelli come lui dureraranno poco". Il cronista politico di Repubblica Tommaso Ciriaco è 'reo' di aver raccontato le divisioni in seno al gruppo europeo dei grillini. Sotto il titolo apparentemente ironico di 'Braccia rubate all'agricoltura', il blog pubblica un lungo un articolo con tanto di foto del giornalista. Un 'wanted' on line che Grillo ha già riservato ad altri cronisti, ma che stavolta svela una specie di 'indagine preventiva' fatta sul giornalista. Scrive infatti il blog: "Tommaso è calabrese, ma in Calabria non lo conosce nessuno. Pare addirittura che Tommaso non abbia mai lavorato in un giornale locale nella sua regione. In rete è invisibile, a parte un profilo Twitter, non ha un sito, non è reperibile un suo cv. Che ha fatto nella vita?" L'accusa a Ciriaco è quella di fare il suo lavoro con 'troppo zelo': "Tommaso gira per il Parlamento a fare stalking sui rappresentanti del M5S, capta battute in ascensore, li segue fino al treno, li segue in macchina, li segue in aeroporto, li segue fin dentro l'aereo. Si potrebbe pensare che sia dei servizi segreti!" La conclusione è nel consueto stile dell'invettiva: "Quanti Tommasi ci sono nel le redazioni dei giornali di regime italiani? Tanti, ma non incazzatevi perché una cosa è certa: dureranno poco. Dopo di che dovranno cercarsi un lavoro come milioni di italiani, e di questi tempi non è facile". Il Comitato di Redazione di Repubblica stigmatizza quelle che definisce le "farneticazioni minacciose" di Grillo. "Purtroppo - scrive il sindacato dei giornalisti di Repubblica - siamo costretti a tornare ad occuparci delle farneticazioni minacciose di cui un nostro collega, Tommaso Ciriaco, è stato oggetto in queste ore sul Blog di Beppe Grillo. Il merito, il tono, la viltà e l’incedere allusivamente mafioso con cui viene esposto al pubblico ludibrio un giornalista che ha la sola colpa di fare il proprio mestiere la dice lunga sul coraggio e le intenzioni dell’estensore del post. Tommaso Ciriaco sa che l’intera redazione è con lui. Chi lo insulta protetto dall’anonimato deve sapere che, non saranno le minacce a determinare la qualità del giornalismo di Repubblica e a condizionare il lavoro dei suoi giornalisti". Anche Franco Siddi a nome dell'Fnsi esprime "incondizionata solidarietà a Tommaso Ciriaco". Secondo il segretario del sindacato dei giornalisti: "Il nuovo attacco assurdo di Grillo contro un giornalista che si occupa di conoscere a fondo i fatti e di renderli pubblici ai lettori è sintomo di un'insofferenza ormai palese e della sua difficoltà ad essere un vero leader democratico". Poi Siddi lancia la sfida: " Grillo si confronti con i giornalisti e le loro rappresentanze. Per ogni giornalista da lui colpito con parole sempre più gravi e pericolose per la democrazia tanti altri continuano a scrivere con onestà e competenza. E questi crescono sempre di più, Non li abbatterà. Ci sono mele marce anche nel giornalismo e di questo siamo pronti a parlare con tutti. Se il leader dei 5 Stelle continua così sappia che non ci piegherà. Saranno sempre più i Tommaso Ciriaco che non si fermano davanti ad una dichiarazione minacciosa. Il sole della censura che lo affascina non passerà. Gli ripetiamo, accetti il contronfto pubblico nella sala tobagi della Fnsi ma se non gli piace la sede delle conferenze intitolata a un martire dell'informazione accettiamo di confrontarci anche a casa sua. Ora basta". Dura la reazione dell'Associazione stampa parlamentare che insieme alla solidarietà "auspica che da parte del Movimento 5 stelle cessi un atteggiamento aggressivo nei confronti dei cronisti che liberamente e con serietà esercitano la loro professione".
Dalle parole ai fatti. Dopo mesi di campagne virulente contro la stampa, due attivisti «disoccupati» del Movimento 5 Stelle hanno deciso di chiedere conto ai cronisti delle «menzogne» e hanno fatto irruzione nella sede del Secolo XIX, a Genova, scrive “Il Corriere della Sera”. I due, visibilmente alterati, hanno chiesto di parlare con i cronisti che avevano scritto un articolo sull’immunità e si sono filmati mentre parlavano con il portiere (mandando il video ieri su Facebook): «Devono venire qui a dare spiegazioni. Mi devo calmare? Se tutti i giorni scrivono qualcosa di falso su di te, tu ti calmi? Voi giornalisti sarete i primi a pagare...». Poi la citazione del «signor Ilario Lombardo, noto diffamatore». Non è l’unico cronista finito nel mirino dei 5 Stelle. Sul blog di Grillo compare un attacco violento contro Tommaso Ciriaco, giornalista di Repubblica. La gogna mediatica, con tanto di foto, è intitolata «Braccia rubate all’agricoltura». L’articolo, anonimo, attacca dicendo che Tommaso è calabrese, ma «in Calabria non lo conosce nessuno. Pare addirittura che non abbia mai lavorato in un giornale locale». Poi ancora: «Non ha un sito, non ha un cv in rete. Che ha fatto nella vita?». Illazioni false oltre che disinformate: Ciriaco è un cronista molto noto, che ha lavorato per anni all’agenzia di stampa Tmnews (ex Apcom), prima di approdare a Repubblica. Ma l’anonimo estensore del post insiste, definendo «stalking» l’attività cronistica e concludendo: «Si potrebbe pensare che sia dei servizi segreti». Seguono molti commenti pesanti, con lettori che si dicono pronti alle maniere forti per far cessare le menzogne. In difesa di Ciriaco si schiera il cdr di Repubblica: «Farneticazioni minacciose». Ma anche l’associazione della stampa parlamentare e molti politici di diverso orientamento (nessun 5 Stelle). Negli ultimi giorni Grillo aveva attaccato Marta Serafini, del Corriere della Sera, e un cronista dell’Ansa che aveva riportato le voci su divisioni nel gruppo europeo dei 5 Stelle, annunciando una proposta di legge per obbligare i cronisti a rivelare le fonti. Di recente, Grillo aveva spiegato che ai cronisti dovrebbe essere vietato l’accesso a Montecitorio.
STORIE DI MAFIOSI E PARA MAFIOSI.
Il pentito Iovine: “Così a Napoli si aggiustavano i processi”, scrive Emilio Lanese su “Resto al Sud”. Sentenze di condanne a trent’anni o all’ergastolo che in appello diventano assoluzioni. Per il boss pentito del clan dei Casalesi, Antonio Iovine, che di quei ribaltoni giudiziari ha beneficiato, si tratta di processi aggiustati. ”C’era una struttura che girava per il Tribunale di Napoli”, racconta chiamando in causa giudici e avvocati. I verbali delle dichiarazioni rese ai pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano, depositate oggi al processo per le minacce del clan allo scrittore Roberto Saviano e alla giornalista Rosaria Capacchione, aprono ora un altro fronte di indagine, dopo quelli sulla struttura “militare” del clan e sulle infiltrazioni nel sistema economico e le collusioni dei politici. Un’inchiesta di cui si sta già occupando la Procura di Roma, che procede per i presunti reati commessi da magistrati del distretto partenopeo e cha ha aperto un fascicolo per l’ipotesi di corruzione in atti giudiziari. Iovine infatti ha riferito in particolare di tre processi conclusi con assoluzioni sostenendo, sulla base di quanto gli aveva rappresentato il suo avvocato, Michele Santonastaso, che quelle sentenze favorevoli (per delitti di cui lo stesso Iovine, dopo la decisione di collaborare con la giustizia, si assumerà la responsabilità) erano in realtà state comprate. Vicende che ruotano tutte intorno alla figura discussa di Santonastaso, detenuto da diversi mesi con l’accusa di collusione con la cosca dei Casalesi e sotto processo, proprio insieme con Iovine, anche per le minacce a Saviano e Capacchione. Ebbene, Santonastaso – a dire del pentito – gli aveva prospettato il modo di venir fuori da due processi nei quali in primo grado gli erano stati inflitti rispettivamente 30 anni e l’ergastolo. Nel primo caso, a proposito del processo per l’uccisione di Nicola Griffo, vittima di “lupara bianca“, Santonastaso gli avrebbe consigliato di nominare l’avvocato Sergio Cola, ex parlamentare di AN, “che aveva un buon rapporto” con il Presidente della Corte di assise Appello Pietro Lignola. “Il discorso fu molto chiaro: mi consigliò la nomina facendo riferimento chiaramente alla sua amicizia con il presidente della Corte“, dice il pentito. Santonastaso avrebbe fatto sapere a Iovine che l’avvocato voleva 200 milioni di lire necessari per fargli ottenere l’assoluzione. “Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate di 100 milioni ciascuno”. “Santonastaso non mi ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l’assoluzione ma era chiaro che essa era stata ottenuta con metodi illeciti”. L’avvocato potrebbe aver millantato? O effettivamente era in grado di condizionare l’esito dei processi? Sarà compito degli inquirenti della Procura di Roma stabilire la veridicità delle dichiarazioni, relative al delitto Griffo come ad omicidi al centro di altri due processi. In uno si fa riferimento all’uccisione di Ubaldo e Antonio Scamperti, avvenuta a San Tammaro (Caserta) nel 1985: anche per tale delitto Iovine fu condannato all’ergastolo e assolto dalla stessa sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli. “Santonastaso mi chiedeva la disponibilità a dargli 200mila euro. Io diedi il via libera ed effettivamente fui assolto“. Alla domanda del pm sul perché avessero atteso il giudizio di appello e non fossero intervenuti prima Iovine ha dato una spiegazione. “Santonastaso spiegò per quanto riguarda la Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere non era sua competenza, perché Santa Maria era un po’ così, faceva la differenza tra Napoli e Santa Maria”. Michele Zagaria, l’altro boss che con Iovine condivideva il comando del clan, dopo aver ottenuto un’assoluzione in appello per un duplice omicidio non volle invece pagare 250mila euro a Santonastaso che aveva promesso l’aggiustamento del processo ritenendolo un truffatore. Al magistrato che lo interrogava disse che di quei delitti era responsabile in prima persona ma, dopo pesanti condanne in Corte di Assise (ergastolo e 30 anni) era stato assolto in appello. Ora il pentito dei Casalesi Antonio Iovine spiega al pm della Dda Antonello Ardituro anche come avrebbe ottenuto quei ribaltoni: corrompendo i giudici, ovvero ricorrendo a una ”struttura’‘ attiva a suo dire nel Tribunale di Napoli per gli aggiustamenti dei processi. Sono soprattutto due gli episodi citati sui quali il pentito getta l’ombra del sospetto. Il più eclatante è rappresentato da un duplice omicidio avvenuto a San Tammaro, in provincia di Caserta, nel maggio 1985. Vittime: Ubaldo e Antonio Scamperti. Erano gli anni in cui i Casalesi, all’epoca guidati da Antonio Bardellino, stavano regolando i conti con gli ex alleati di un tempo, i Nuvoletta. Uno scontro per la supremazia criminale che riproduceva, su scala ridotta, la guerra di mafia in atto in Sicilia (entrambi i cartelli erano infatti rappresentati in Cosa Nostra). Il dibattimento di primo grado si era concluso con otto ergastoli. E il massimo della pena era stato inflitto anche a lui, Antonio Iovine soprannominato ‘o Ninno. Una situazione che si capovolge nel giudizio davanti alla Corte di Assise di Appello, che assolve il giovane rampollo dei Casalesi che di lì a poco avrebbe completato la scalata ai vertici dell’organizzazione, dopo la cattura dei pezzi da novanta come Francesco Schiavone, detto Sandokan, e Francesco Bidognetti, alias Cicciotto ‘e mezzanotte. Quella sentenza, ha raccontato Iovine al pm Antonello Ardituro, fu in realtà aggiustata come gli spiegò il suo difensore, l’avvocato Michele Santonastaso da diversi mesi anch’egli detenuto con l’accusa di collusioni con la cosca casalese. Così come, sempre sulla base delle rivelazioni che gli avrebbe fatto Santonastaso, furono rimesse a posto le cose al processo per l’uccisione di Nicola Griffo, vittima di lupara bianca, scomparso a metà degli anni Ottanta. Griffo si era reso responsabile di un triplice omicidio senza “l’autorizzazione” del clan dei casalesi. Fu eliminato nel 1985 dal “tribunale della camorra” che punì con la morte il camorrista di San Cipriano d’Aversa e ne nascose poi il corpo. Un sistema, quello di far scomparire i cadaveri, in linea con la tendenza dei Casalesi ad agire sotto traccia ed evitare, se non in casi di assoluta ”necessità”, di rendersi protagonisti di fatti di sangue eclatanti che avrebbero richiamavano una più massiccia presenza sul territorio di polizia e carabinieri.
Il boss e i processi aggiustati «Assolto perché ho pagato». Il racconto del sistema «Nel Tribunale di Napoli c’era una struttura per corrompere». La Procura di Roma indaga su corruzione, scrive Fulvio Bufi “Il Corriere della Sera”. «Ci stava tutta una struttura che girava nel Tribunale di Napoli». Ha usato queste parole il collaboratore di giustizia Antonio Iovine, ex boss di primo piano dei clan camorristici casalesi, per spiegare ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia come sarebbe riuscito ad essere assolto in appello in due processi per omicidio che in primo grado gli erano costati condanne a trenta anni e all’ergastolo. Una struttura che aggiustava i processi, quindi, alla quale Iovine racconta di essere ricorso su indicazione del legale che lo assisteva prima del pentimento, l’avvocato Michele Santonastaso (oggi detenuto per rapporti con i clan). E aggiunge che pagò in una circostanza duecento milioni di lire e nell’altra duecentomila euro. È nell’interrogatorio del 13 maggio scorso che Antonio Iovine comincia a raccontare di sentenze pilotate al sostituto della Dda Antonello Ardituro. Lo fa a proposito dei suoi rapporti con Michele Zagaria, l’altro ex superlatitante dei casalesi, e di quando quest’ultimo si rifiutò di pagare all’avvocato Santonastaso 250 mila euro dopo una assoluzione. «Sono stato assolto e ho versato». «In altre due occasioni - racconta Iovine - l’avvocato Santonastaso mi aveva chiesto soldi per corrompere giudici in cambio di una sentenza di assoluzione per due miei processi sempre in Corte d’appello di Napoli e mi riferisco all’omicidio di Griffo Nicola e al duplice omicidio Scamperti, per i quali mi chiese e ottenne rispettivamente 200 milioni per il processo Griffo e 200 mila euro per il processo Scamperti. Il meccanismo che avrebbe portato al ribaltamento delle sentenze di condanna, Iovine lo chiarisce nel successivo interrogatorio, quello del 26 maggio. «Nell’occasione del processo Griffo - racconta - il Santonastaso mi suggeriva, nel grado d’appello, la nomina dell’avvocato Cola Sergio, perché aveva un rapporto con il presidente della Corte d’assise d’Appello, ossia Lignola (Pietro Lignola, oggi in pensione, ndr )». Iovine spiega che aderì subito all’indicazione del suo legale di fiducia e, anche «senza conoscerlo», nominò Cola come ulteriore difensore. Del resto lui stesso ammette che «Santonastaso era sempre poco chiaro, affrontando gli argomenti sensibili con un modo particolare», ma stavolta non se ne preoccupò molto. «Fatto sta che sono stato assolto ed ho versato, tramite i miei familiari, direttamente all’avvocato Cola la somma di 100 milioni (di lire, ndr )». Soldi che, aggiunge Iovine, furono richiesti «direttamente dall’avvocato (Cola, ndr ) a mia moglie ed avevano la natura di onorario, che sebbene giudicassi molto esagerata come richiesta, essendo stato assolto pagai senza problemi». Se rapporto diretto ci fu con l’avvocato Cola, altrettanto non avvenne con il giudice Lignola, secondo quello che riferisce Iovine. Fu l’avvocato Santonastaso, che lui aveva invitato «a darsi da fare per aggiustare il processo e farmi assolvere», a rassicurarlo «dicendo che poteva trovare la soluzione giusta». «Mi tranquillizzai quando seppi che era stato assegnato a Lignola». E fu sempre da Santonastaso che gli arrivò la richiesta economica: «Mi fu detto, credo da mia moglie, che l’avvocato voleva 200 milioni che erano necessari per farmi ottenere l’assoluzione. Io accettai, fui assolto e pagai i 200 milioni in due rate da 100 milioni ciascuna che gli furono portate da persone a me vicine. Il Santonastaso, naturalmente, non ha mai spiegato nel dettaglio quale strada fu percorsa per ottenere l’assoluzione, ma era chiaro che era stata ottenuta con metodi illeciti». Il nome del presidente di Corte d’Appello, Iovine dice di averlo sentito fare prima del processo, quando «il legale mi disse che c’era bisogno di far assegnare il processo alla sezione del presidente Lignola». Cosa che accadde anche per l’appello dell’omicidio Scamperti: «Quando venni a sapere che il processo era stato assegnato al presidente Lignola, mi tranquillizzai molto, ed ero fiducioso che il Santonastaso sarebbe riuscito anche questa volta a farmi assolvere». I verbali in cui Iovine parla delle sentenze aggiustate sono stati inviati per competenza dalla Procura di Napoli a quella di Roma che ha aperto un fascicolo e iscritto nel registro degli indagati per corruzione in atti giudiziari aggravata dall’articolo 7 (aver favorito un’associazione mafiosa) sia il giudice Lignola che gli avvocati Cola e Santonastaso».
Nel tribunale di Napoli sarebbe esistita "tutta una struttura" che si occupava di aggiustare i processi di camorra. Lo dice il pentito del clan dei Casalesi Antonio Iovine. E la Procura di Roma apre subito un'inchiesta per corruzione, scrive “La Repubblica”. Iovine ha reso le sue dichiarazioni nell'interrogatorio sostenuto il 13 maggio 2014 scorso, il primo dall'inizio della sua collaborazione con la giustizia. In un altro interrogatorio, quello del 28 maggio, il pentito ha sostenuto di aver di aver saputo dall'avvocato Michele Santonastaso, suo difensore storico oggi imputato di collusioni con la camorra, "che c'era la possibilita' di ottenere una sentenza di assoluzione - in un processo d'appello per un duplice omicidio n.d.r. - e per questo occorrevano 250 mila euro per comprare, per corrompere i giudici". Iovine - secondo i nuovi verbali depositati dalla Procura di Napoli nel corso del processo per le minacce dei Casalesi a Roberto Saviano e Rosaria Capacchione- avrebbe pagato tre volte. Il boss fa riferimento negli interrogatori a un sistema di corruzione per aggiustare processi che coinvolgerebbe magistrati, e fa i nomi di un presidente di Corte d'Appello a Napoli, ora in pensione, e di un altro avvocato penalista, ex deputato di An, oltre al suo difensore storico, Michele Santonastaso."Negli incontri con il mio avvocato - afferma fra l'altro - parlavamo di esigenze particolari legate ai processi ed in alcune occasioni Santonastaso mi ha chiesto dei soldi per aggiustare i processi e farmi avere delle assoluzioni".
L'omicidio Griffo. "Una prima volta - racconta Iovine - è accaduto a proposito del processo per l'omicidio di Nicola Griffo per il quale avevo avuto una condanna a trent'anni. L'avvocato Santonastaso mi promise che in appello avrebbe visto cosa si sarebbe potuto fare. Mi consigliò di nominare anche un altro avvocato in quanto aveva un buon rapporto con il presidente della sezione di Corte d'Appello dove si celebrava il processo. Io così feci e invitai l'avvocato a darsi da fare per trovarmi una soluzione per farmi uscire assolto. L'avvocato mi rassicurò dicendo che poteva trovare la soluzione per aggiustare il processo e farmi assolvere. Ad un certo punto mi fu detto che l'avvocato voleva 200 milioni di vecchie lire che erano necessari per farmi ottenere l'assoluzione. Io accettai e fui assolto, pagai i 200 milioni in due rate da 100 milioni che gli furono portate da persone a me vicine".
L'omicidio Scamperti. Un'altra occasione simile avrebbe riguardato un processo per il duplice omicidio di Ubaldo e Antonio Scamperti, a San Cipriano D'Aversa, "nel quale - racconta Iovine - fui condannato all'ergastolo in primo grado e con le medesime modalità fui poi assolto in appello". E quando il boss seppe che il processo era stato assegnato al giudice che in precedenza lo aveva già assolto, "mi tranquillizzai molto ed ero fiducioso che Santonastaso sarebbe riuscito anche questa volta a farmi assolvere. Mi rendevo conto che ci voleva qualche sforzo in più in quanto c'erano due pentiti che mi accusavano. Fatto sta che in prossimità della conclusione del processo Santonastaso, per il tramite dei miei familiari, credo sempre mia moglie, mi fece sapere che era tutto a posto e che mi chiedeva la disponibilità a dargli 200 mila euro, sempre in due rate".
Le dichiarazioni di Iovine sono al vaglio dell'autorità giudiziaria che dovrà valutarne l'attendibilità e trovare i necessari riscontri. Iovine viene interrogato dai pm Antonello Ardituro e Cesare Sirignano con il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli. La Procura di Roma ha aperto il suo fascicolo con l'ipotesi di reato di corruzione in relazione appunto a queste dichiarazioni. Il boss del clan dei Casalesi Michele Zagaria dopo aver ottenuto un'assoluzione in appello non volle pagare 250mila euro all'avvocato che aveva promesso l'aggiustamento del processo ritenendolo un truffatore. E' una delle circostanze raccontate dal boss pentito Antonio Iovine, nei verbali dell'interrogatorio reso ai pm della Dda di Napoli Antonello Ardituro e Cesare Sirignano. Iovine riferisce la vicenda nell'ambito delle dichiarazioni su presunti casi di corruzione per ottenere esiti processuali favorevoli. Secondo Iovine, il suo legale, avvocato Michele Santonastaso (attualmente detenuto per collusioni con il clan) si propose di "aggiustare" il processo per un duplice omicidio (Griffo-Stroffolino) in cui era imputato Zagaria. A tale proposito avrebbe organizzato un incontro in un bar di Caserta con i familiari del boss e con un "intermediario" che si era già interessato per due sentenze di assoluzione favorevoli a Iovine. "Effettivamente - racconta Iovine - questo incontro ci fu e questa persona consegnò a mia moglie un bigliettino con un numero di telefono e l'indicazione della somma di 250mila euro occorrente per ottenere l'assoluzione. Questa persona voleva che ci fosse una conferma nel caso in cui Zagaria avesse dato l'ok definitivo. Io feci recapitare questo bigliettino a Michele Zagaria...Occorreva avere una conferma immediata perchè si era in prossimità della chiusura del processo. Se non erro il giorno dopo l'assoluzione Zagaria mi incontrò e mi espresse la volontà di non voler pagare questi soldi lasciandomi intendere che a suo dire l'assoluzione non era dipesa dall'intervento di Santonastaso. Io ci rimasi molto male e questo fatto naturalmente incise sul prosieguo dei miei rapporti con Zagaria e iniziò un periodo di freddezza".
«Dinanzi ad assurde sentenze, mi sono chiesto spesso se fosse cialtroneria delle corti o complicità, scrive Roberto Saviano su Facebook. Ora Antonio Iovine confessa: 250mila euro a sentenza. 250mila euro per aggiustare un processo: giudici avvicinabili, squadre di avvocati pronti a sfruttare ogni debolezza per raggiungere il loro obiettivo. Il boss racconta di come, pur essendo responsabile di alcuni omicidi, sia stato assolto al secondo grado per aver corrotto. Sarà necessario capire gli elementi che svelerà e le prove che porterà a loro sostegno, prima di iniziare un qualsiasi ragionamento, ma per ora è importante aprire il capitolo “corruzione giudiziaria”. Sempre più la giustizia civile e quella penale in Italia risultano mercati dove il miglior offerente ottiene il risultato sperato. Se Iovine darà prove della compravendita dei giudici, si aprirà un nuovo capitolo fondamentale e trascurato: la giustizia comprata dal malaffare. Del resto, la potenza del capitalismo criminale non potrebbe esistere senza la complicità di una parte della giustizia».
POTENTE UGUALE IMPUNITO.
In Italia potente è uguale a impunito. Solo undici persone sono in carcere per corruzione. Perché le inchieste vengono cancellate in massa dalla prescrizione. E così i colletti bianchi non pagano mai per i reati che commettono, scrivono Lirio Abbate e Paolo Biondani su “L’Espresso”. Gong, tempo scaduto: il reato c’è, l’imputato lo ha commesso, ma il processo è durato troppo, per cui il colpevole ha diritto di restare impunito. Nel gergo dei tribunali si chiama prescrizione. È il termine massimo concesso dalla legge per condannare chi ha commesso un reato. In teoria è una nobile garanzia: serve a evitare che uno Stato autoritario possa riesumare accuse del lontano passato e perseguitare i cittadini con processi infiniti. Il guaio è che in tutti i Paesi civili la prescrizione è un evento eccezionale, mentre in Italia è diventata la regola per intere categorie di reati. Una scappatoia legale che premia soprattutto gli imputati eccellenti e la criminalità dei colletti bianchi. E nega giustizia al popolo delle vittime dei reati. E provoca pure danni alle casse dello Stato: le somme, in molti casi si parla di decine di milioni di euro, sequestrati agli imputati in fase di indagine perché ritenute provento della corruzione o concussione, una volta dichiarato prescritto il reato devono essere restituite agli “illegittimi” proprietari. E così, grazie alle leggi-vergogna sulla prescrizione, le tante caste, cricche, logge o lobby della politica e dell’economia possono continuare a rubare. Mentre restano senza giustizia i cittadini danneggiati da truffe, raggiri finanziari, evasioni fiscali o previdenziali, corruzioni, appalti truccati, scandali sanitari, omicidi colposi, traffici di rifiuti pericolosi, disastri ambientali, morti sul lavoro, violenze in famiglia, perfino abusi sui bambini. «L’Italia è l’unico Paese del mondo in cui la prescrizione continua a decorrere per tutti e tre i gradi di giudizio», è la diagnosi tecnica di Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani Pulite che oggi è giudice di Cassazione: «All’estero di regola il conteggio si ferma con il rinvio a giudizio o al massimo con la sentenza di primo grado, dopo di che non si prescrive più niente. Da noi invece il colpevole può farla franca anche se è già stato condannato in primo e secondo grado e perfino se è l’unico a fare ricorso, quindi è proprio lui ad allungare la durata del processo. Quando proviamo a spiegarlo ai magistrati stranieri, non riescono a capacitarsene: “Che senso ha?”». Il senso di questa anomalia italiana è una massiccia impunità: solo nell’ultimo anno giudiziario, come ha detto il primo presidente della Cassazione invocando una «riforma delle riforme», sono stati annientati dalla prescrizione ben 128 mila processi penali. Come dire che in Italia, ogni giorno, evitano la condanna almeno 350 colpevoli di altrettanti reati. La prescrizione facile è da decenni un vizio nazionale: basti pensare che i processi di Mani Pulite, nati dalle storiche indagini milanesi del 1992-1994, si erano chiusi con un bilancio finale di 1.233 condanne, 429 assoluzioni e ben 423 prescrizioni. Già ai tempi di Tangentopoli, insomma, il 20 per cento dei colpevoli riusciva a beffare la giustizia. Invece di risolvere il problema, le cosiddette riforme dell’ultimo ventennio lo hanno aggravato. Il tasso di impunità è salito alle stelle, in particolare, con la legge ex Cirielli, approvata nel 2005 dal centrodestra berlusconiano, che ha reso ancora più breve la via della prescrizione: termini dimezzati, applicazione automatica, obbligo per i giudici di concederla per ogni singolo reato, anche se il colpevole ha continuato a commetterne altri. E così, mentre la crisi economica spinge molti Stati occidentali a punire severamente i reati finanziari e il malaffare politico, in Italia i più ricchi e potenti riescono quasi sempre a sfuggire alla condanna. A documentarlo sono i dati del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (aggiornati al novembre 2013), raccolti in esclusiva da “l’Espresso”: sugli oltre 60 mila detenuti si contano soltanto 11 accusati per corruzione, 26 per concussione, 46 per peculato (cioè per furto di denaro pubblico), 27 per abuso d’ufficio aggravato. In Germania per reati economici finanziari vi sono in cella 8.600 detenuti. Di fronte all’enormità di un’evasione stimata nel nostro Paese di 180 miliardi di euro all’anno, in cella per frode fiscale ci sono soltanto 168 persone e appena tre arrestati per reati societari o falso in bilancio. La prescrizione all’italiana ha salvato centinaia di imputati eccellenti. L’elenco è interminabile, ma il re delle prescrizioni è sicuramente Silvio Berlusconi, che i giudici hanno dovuto dichiarare «non più punibile» prima per le tangenti a Bettino Craxi, per la corruzione giudiziaria della Mondadori (danni accertati per 494 milioni di euro) e per i colossali falsi in bilancio della Fininvest (caso All Iberian, fondi neri per 1.550 miliardi di lire) e poi, proprio grazie alla legge ex Cirielli approvata dalla sua maggioranza, per le mazzette da 600 mila dollari versate al testimone inglese David Mills, in cambio del silenzio sui conti offshore del Cavaliere. Che ora attende che si prescriva in appello anche la condanna per il caso dell’intercettazione trafugata nel dicembre 2005 per screditare il suo avversario politico Piero Fassino. Persino la prima condanna definitiva di Berlusconi per frode fiscale, quella che gli è costata il seggio in parlamento, è stata ridimensionata dalla prescrizione: le sentenze considerano pienamente provata un’evasione da 368 milioni di dollari, ma la ex Cirielli ha lasciato sopravvivere solo l’ultimo pezzetto di reato, per cui l’ex premier ora deve versare all’Agenzia delle Entrate solo dieci milioni. A sinistra, il miracolato più in vista è Filippo Penati, ex capo della segreteria del Pd: accusato di aver intascato tangenti per oltre due milioni di euro, aveva detto di voler rinunciare alla prescrizione, ma poi non l’ha fatto, e ora resta sotto processo solo per le accuse più recenti e difficili da dimostrare. Tra i big della finanza, autostrade e costruzioni, spicca il caso di Fabrizio Palenzona, che si è visto annullare l’accusa di aver intascato almeno un milione di euro su una rete di conti di famiglia tra Svizzera e Montecarlo, mai dichiarati al fisco e scoperti grazie alle indagini sulle scalate bancarie del 2005. Nel mondo della sanità, la sparizione dei primi reati, provocata dalla solita ex Cirielli, ha fatto tornare in libertà perfino il chirurgo della “clinica degli orrori” Pierpaolo Brega Massone, nonostante la condanna a 15 anni e mezzo. Nel pianeta giustizia, la prescrizione ha salvato l’ex giudice romano arrestato per tangenti Renato Squillante e altri magistrati con i conti all’estero. Tra i casi più recenti c’è la prescrizione ottenuta dal costruttore della “cricca” Diego Anemone per i famosi finanziamenti illeciti versati all’insaputa dell’ex ministro Claudio Scajola, che a sua volta è stato assolto nonostante siano stati usati per l’acquisto della sua casa romana. Mentre l’ex governatore del Molise, Michele Iorio, si è visto cancellare solo in Cassazione la condanna a 18 mesi per abuso d’ufficio e ora può tornare a fare politica nella sua regione. Verso la prescrizione si avviano molti altri scandali come le frodi milionarie di “Lady Asl” alla sanità laziale, le grandi truffe sui farmaci, i danni subiti da migliaia di risparmiatori con i famigerati bond-spazzatura della Cirio. La prescrizione facile, in sostanza, costringe la giustizia italiana, già rallentata da mille cavilli e inefficienze, a una corsa contro il tempo che per molti reati è perduta in partenza. E a truccare l’orologio a favore dei colpevoli sono proprio leggi come la ex Cirielli. Per capire quanto siano ingiusti e spesso drammatici gli effetti della prescrizione all’italiana, basterebbe che i politici legislatori non ascoltassero solo gli avvocati-deputati degli inquisiti, ma anche le vittime dei reati. «Mi chiamo Roberto Bicego, ho 66 anni, sono il primo paziente veneto a cui il luminare della cardiochirurgia Dino Casarotto aveva impiantato, nel novembre del 2000, una valvola-killer brasiliana, così chiamata perché scoppiava nel cuore dei pazienti. Quando si è saputo che aveva preso le tangenti dalle aziende fornitrici, il professore è stato arrestato e condannato in primo grado, ma non ha mai confessato niente, non ha chiesto scusa a noi malati, non ha risarcito nulla e in appello ha ottenuto la prescrizione. Io ho perso il lavoro, la salute, la tranquillità, ancora oggi ho dolori al torace. Il tribunale aveva accolto le richieste dei nostri legali, Giovanni e Jacopo Barcati, e ci aveva concesso un risarcimento provvisorio di 50 mila euro. Ma dopo la sentenza d’appello la direzione dell’ospedale di Padova ci ha intimato di restituirli con gli interessi. Adesso siamo noi a dover pagare i danni: roba da matti». «Sono Giovanni Tomasi, figlio di Clara Agusti, che ha 74 anni e non può muoversi da casa. I medici dicono che mia madre ha subito troppe operazioni, per cui non può più sostituire le sue due valvole cardiache, anche se una è difettosa. Facendosi corrompere, è come se il chirurgo l’avesse condannata a morte. Eppure anche lei ha ricevuto questo decreto ingiuntivo che le impone di risarcire l’ospedale. Ma che giustizia è questa?». Condanna a morte non è un modo di dire: dei 29 malati di cuore che si erano costituiti parte civile nel processo di Padova, solo uno aveva rifiutato di rioperarsi: «È morto durante il processo, il giorno dopo una visita di controllo. Gli hanno trovato pezzi della valvola-killer in tutto il corpo». «Sono Emanuela Varini, la moglie di Annuario Santi, che era un po’ il simbolo delle tante vittime di quelle valvole perché era rimasto paralizzato e seguiva tutte le udienze in carrozzella. Mio marito è morto nel 2008, non ha fatto in tempo a vedere che è finito tutto in prescrizione. Anche a Torino erano stati corrotti due chirurghi, ma hanno confessato e sono stati condannati: il professor Di Summa, quando ha visto mio marito in tribunale, è scoppiato a piangere e gli ha chiesto perdono. Il chirurgo di Padova invece non ha risarcito nessuno e dopo la prescrizione siamo ancora in causa con l’ospedale». A Roma sono cadute in prescrizione tutte le appropriazioni indebite che hanno svuotato le casse di 29 cooperative edilizie che hanno lasciato senza casa circa 2.500 famiglie. L’ex dominus del “Consorzio Casa Lazio” e i suoi presunti complici restano sotto accusa soltanto per bancarotta, ma il processo, lungo e complicato come per tutti i fallimenti a catena, è ancora in primo grado e i risarcimenti restano un sogno. «Le vittime sono migliaia di poveracci che hanno pagato gli anticipi e sono rimasti senza casa», spiega un avvocato di parte civile, Fabio Belloni: «Ci sono molte giovani coppie che avevano impegnato la liquidazione dei genitori, operai e impiegati che hanno perso tutti i risparmi: il Comune ha dovuto aiutare gli sfrattati che erano finiti a dormire per strada. Centinaia di famiglie, dopo aver versato più di centomila euro ciascuna, ora hanno solo la proprietà di un prato in periferia, neppure edificabile». A Milano è ancora fermo in appello, dopo le prime condanne e molte prescrizioni, il processo per le massicce attività di spionaggio illegale compiute dalla divisione sicurezza del gruppo Pirelli-Telecom tra il 2001 e il 2007, con la complicità di ufficiali corrotti anche dei servizi segreti: almeno 550 operazioni di dossieraggio che hanno colpito 4200 persone e decine di società private o enti pubblici. Lo scandalo aveva spinto il Parlamento a imporre per legge la distruzione dei dossier ricattatori: obiettivo raggiunto per i politici spiati, ma non per la massa di lavoratori e cittadini che avevano già subito i danni. E così, la prima vittima conclamata della banda dei super-spioni, il signor D.T., ex dirigente licenziato ingiustamente dalla filiale italiana di una multinazionale americana, non ha mai avuto giustizia, anche se l’intera maxi-inchiesta era partita proprio dal suo caso: «Sono stato spiato per mesi da una squadra di poliziotti corrotti, che per screditarmi non hanno esitato a inventarsi una falsa inchiesta per pedofilia», ricorda D.T. con voce disperata. «Sono stato mobbizzato, perseguitato per due lunghissimi anni: il manager che aveva pagato quel dossier 65 mila euro, ha diffuso quelle calunnie in tutta l’azienda, quindi i colleghi che mi erano amici hanno cominciato a chiamarmi “anormale”, a farmi passare per folle... È stato un inferno, ho avuto un gravissimo esaurimento nervoso, da allora non ho più una vita normale. Ho saputo di essere stato spiato illegalmente solo quando il pm Fabio Napoleone ha trovato la mia pratica: ero il dossier numero 323. Dopo l’arresto, le spie hanno confessato tutto, ma i poliziotti corrotti non sono stati nemmeno processati: era tutto prescritto già all’udienza preliminare. Ho perso il lavoro, la fiducia in me stesso, la serenità familiare e nessuno mi ha risarcito». La legge ex Cirielli favorisce anche i colpevoli di reati odiosi come le violenze contro i bambini. A Roma sono già caduti in prescrizione tre dei quattro processi aperti contro R.P., un padre degenere accusato di aver maltrattato e picchiato la moglie, arrivando a cacciarla da casa di notte con una neonata, in un drammatico quadro di abusi sessuali sulla figlia minorenne che lei aveva avuto nel precedente matrimonio. Condannato per tre volte in primo grado, l’uomo ha sempre ottenuto la prescrizione in appello. Nel quarto processo, il più grave, ora è imputato di violenza sessuale sulla ragazzina, nonché di averla sequestrata, alla vigilia della deposizione, per costringerla a ritrattare: tribunale e corte d’appello lo hanno condannato a quattro anni e otto mesi, ma l’udienza finale in Cassazione è stata rinviata per un difetto di notifica al prossimo marzo, quando rischia di essere tutto prescritto. «Al di là dei risarcimenti, le vittime dei reati hanno soprattutto un desiderio di giustizia che si vedono negare», spiega l’avvocata Cristina Michetelli. La ex Cirielli sta cancellando anche reati ambientali che minacciano intere comunità e compromettono la filiera alimentare. Della prescrizione facile hanno potuto beneficiare, tra gli altri, i diciannove inquisiti nella maxi-inchiesta sulle campagne avvelenate in Toscana e Lazio: sono imprenditori dello smaltimento, procacciatori d’affari e autotrasportatori che raccoglievano masse di rifiuti pericolosi, truccavano le carte, li riversavano negli impianti di compostaggio (rovinandoli) e poi li rivendevano come concimi da spargere nei terreni agricoli, che ora sono contaminati. In primo grado avevano subito condanne fino a quattro anni, con interdizione dalla professione, ma in appello la prescrizione ha cancellato anche i reati superstiti: ora sono tutti liberi e risultano incensurati, per cui possono tornare a fare il loro lavoro nel ciclo dei rifiuti. A completare il quadro dell’impunità, oltre alla prescrizione facile, sono le lacune normative che impongono di assolvere l’imputato che abbia commesso fatti considerati illeciti dai trattati internazionali, ma non dalle leggi in vigore in Italia. Un esempio per tutti: Francesco Corallo, il re delle slot machine del gruppo B-Plus-Atlantis, è riuscito a far cadere l’accusa, che lo aveva costretto alla latitanza, di aver pagato tangenti a un banchiere, Massimo Ponzellini, in cambio di prestiti per 148 milioni di euro: la Popolare di Milano infatti ha ritirato la querela, rendendo così impossibile processare entrambi per quella «corruzione privata». Anche i grandi evasori che nascondono montagne di soldi all’estero non vengono quasi mai perseguiti dall’Agenzia delle Entrate, perché le prove raccolte con le indagini penali fuori dai confini nazionali non possono essere utilizzate dal fisco italiano: tra i beneficiari di questo divieto, spiccano l’ex ministro Cesare Previti e i suoi colleghi avvocati condannati per corruzione di giudici. E fino a quando non diventerà reato l’auto-riciclaggio, non sarà possibile punire neppure i boss mafiosi che hanno nascosto o reinvestito le ricchezze ricavate con il racket delle estorsioni o i traffici di droga: il codice attuale infatti permette di incriminare solo eventuali complici esterni, ma non direttamente i padroni dei tesori criminali. Benvenuti in Italia, il Paese dell’impunità per i ricchi e potenti.
IL GIORNALISTA, SICURAMENTE FILO TOGHE, OMETTE DI DIRE CHE LA RESPONSABILITA' DEI TEMPI LUNGHI E' DELLE TOGHE.
E poi, il cittadino, quanto deve aspettare per avere giustizia e vedersi riconosciuta l'innocenza, sotto la mannaia perdurante della gogna aizzata da tesi giudiziarie strampalate?
E poi di chi ci dobbiamo fidare?!?
FIDARSI DELLE ISTITUZIONI. I CITTADINI: NO GRAZIE!! CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?
Corruzione Gdf, Pm: «Nella Finanza sistema di tangenti», scrive “Il Messaggero”. Una macchina perfetta lubrificata dalle mazzette e messa in moto dagli ufficiali della Finanza. L’inchiesta della procura di Napoli, che due giorni fa ha portato all’arresto del comandante provinciale della Guardia di Finanza di Livorno, Fabio Massimo Mendella, e all’iscrizione sul registro degli indagati del vicecomandante generale Vito Bardi, non riguarda un solo episodio di corruzione. E’ sul sistema che lavorano i pm, «sull’abitudine» con caratteristiche di «professionalità nel reato»: imprenditori disposti a pagare e militari, a tutti i livelli e senza soluzione di continuità, propensi a incassare. Da Emilio Spaziante, comandante in seconda del corpo arrestato per il Mose di Venezia, al suo successore, Vito Bardi. E a confermarlo ai pm sono anche alcuni alti ufficiali della Finanza. L’indagine è ancora ”coperta”: agli atti non ci sono soltanto le testimonianze dei fratelli Pizzicato, che hanno raccontato di avere pagato Mendella 15mila euro al mese (poi diventati 30) per evitare che gli accertamenti avessero conseguenze. Altri, come loro, hanno deciso di parlare. All’esame c’è anche la posizione di A. D’A., il proprietario degli immobili adibiti a caserme, che ogni mese incassava il massimo dei canoni. La struttura del sistema, del quale Bardi avrebbe fatto parte, emerge con chiarezza dal decreto di perquisizione a carico di Bardi firmato dai pm Henry John Woodcock e Vincenzo Piscitelli. Si legge nel decreto che ieri ha portato proprio gli uomini della Finanza a perquisire gli uffici del capo: «Dalle indagini finora svolte è emerso lo stretto legame di ordine personale intercorso tra il colonnello Mendella, percettore di somme, illecitamente richieste asseritamente per sé e altri, e il generale Vito Bardi, attuale comandante in seconda della Guardia di Finanza. Diverse fonti testimoniali - di cui si omette allo stato il riferimento nominativo per ragioni di cautela processuale, potendo le stesse in ragione del ruolo rivestito da Bardi essere oggetto di iniziative inquinanti - hanno riferito sia dei rapporti di stretta vicinanza tra Mendella e Bardi, sia dei rapporti di familiarità di quest’ultimo con imprenditori partenopei (e non) a loro volta oggetto delle presenti e più ampie investigazioni». E ancora: «Tali ultime circostanze sono state riferite anche da appartenenti alla stessa Guardia di Finanza collocati ad alti livelli gerarchici sentiti come persone informate (di cui parimenti si omette il riferimento nominativo allo stato per le medesime ragioni in precedenza esposte). Altri soggetti hanno riferito di rapporti ispirati a richieste di favori di rilievo economico riguardanti Bardi, oggetto delle presenti investigazioni». All’esame dei pm sono finiti anche i canoni d’affitto pagati alla Solido Property dell’imprenditore napoletano A. D’A., per alcuni immobili adibiti a caserme. In base alle risultanze, l’Ufficio tecnico erariale aveva fissato i canoni più bassi nelle tabelle di locazione ma, proprio Bardi, contrariamente alle indicazioni dell’Ute, avrebbe dato l’autorizzazione per pagare il prezzo massimo previsto. Inoltre, la sede della società di D’A., esattamente come quella dei fratelli Pizzicato, sarebbe stata spostata da Napoli a Roma in coincidenza con il trasferimento di Mendella. Gli avvocati dell’imprenditore, Roberto Guida, Luigi Petrillo e Luigi Pezzullo, precisano che «le società del gruppo di A. D'A. hanno sede in Roma dal settembre del 2004, epoca antecedente al trasferimento dell'ufficiale, che sarebbe avvenuto solo nel 2012». E aggiungono che la vicenda degli affitti era già stata oggetto di un’indagine chiusa con un’archiviazione. In realtà, l’inchiesta del 2012, poi archiviata, riguardava alcuni immobili che la società di D’A. aveva venduto a prezzi fuori mercato ai familiari dell'ex capo del Sismi Niccolò Pollari e del generale della Finanza Walter Cretella Lombardo.
Fiamme Gialle travolte dagli arresti ai vertici. Riemerge il caso: chi controlla i controllori? Alti ufficiali della Guardia di Finanza fermati, perquisiti e indagati che gettano ombre sull'impegno dei militari onesti. E, come venti anni fa, si ripropone il problema della prevenzione: come impedire che i funzionari corrotti facciano carriera, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Chi controlla i controllori? Per la seconda volta in pochi giorni, le istruttoria coinvolgono ufficiali di alto livello della Guardia di Finanza. Ieri è stato arrestato per corruzione il colonnello Fabio Massimo Mendella, attualmente comandante delle Fiamme Gialle a Livorno, ma soprattutto è stato perquisito l'ufficio del numero due del Corpo, il generale Vito Bardi, anche lui indagato. Non era mai successo prima. Il comando generale della Finanza non era stato perquisito nemmeno nella tempesta del 1994, quando Mani Pulite coinvolse decine di graduati e ufficiali che in Lombardia avevano alimentato un sistema di bustarelle. La scorsa settimana, la piena del Mose aveva investito con violenza l'istituzione. L'ex generale Emilio Spaziante è stato arrestato, con un'accusa ancora più grave delle bustarelle per chiudere un occhio sulle verifiche fiscali: secondo i magistrati avrebbe ottenuto oltre due milioni di euro per garantire alla macchina di quattrini veneziana la protezione dalle inchieste penali. Una circostanza mai accaduta durante la vecchia Tangentopoli. Con lui sono stati perquisiti Mario Forchetti, ex generale a tre stelle nominato garante per la trasparenza degli appalti Expo, e il colonnello Walter Manzon, ex comandante di Venezia: entrambi non risultano indagati. Spaziante è stata fino a pochi mesi fa una figura di primissimo piano, arrivata fino alla carica di capo di stato maggiore e comandante dell'Italia Centrale. Un ufficiale a dir poco discusso. Le intercettazioni del faccendiere Valter Lavitola avevano rivelato le pressioni nel 2009 su Silvio Berlusconi per farlo arrivare al vertice del Corpo. «No, non per fare il numero uno. Per fare una mediazione e lui fare il numero due», diceva Lavitola al premier: «La mediazione la sta facendo il ministro (dell'Economia Giulio Tremonti, ndr) ed è quasi fatta. Lei mi autorizzò a parlargliene. Lui mi ha detto che teneva tutto fermo fino a quando lei non si muoveva e noi si rischia il caso che da persone proprio amiche amiche amiche rischiamo insomma quanto meno che gli diventiamo antipatici». Il generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di finanza indagato per corruzione, intervistato a Bari nel 2012 spiega i principi del finanziere modello: ''Un cittadino non avulso dal contesto che lo circonda, di sani principi e pronto ad affrontare le difficoltà'' (immagini da AntennaSud). Nonostante questo, Spaziante è riuscito nel 2013 ad arrivare alla poltrona caldeggiata da Lavitola, grazie agli automatismi che regolano le carriere. Poco dopo è esplosa un'altra inchiesta, questa volta della procura antimafia di Roma, che ha registrato gli interventi sull'ufficiale di un'industriale di Ostia per ottenere un documento, con cui realizzare un falso e farsi assegnare un bene demaniale. Una vicenda in cui compariva anche un ruolo dello studio professionale di Giulio Tremonti, chiamato a mediare su un finanziamento da 100 milioni di euro che doveva essere stanziato da Unipol. Guarda caso, la stessa società da cui pochi mesi fa Spaziante ha ottenuto una consulenza dopo avere lasciato l'uniforme. Adesso l'ex generale è agli arresti. Secondo gli accertamenti, condotti dalle stesse Fiamme Gialle, Spaziante e la sua convivente hanno complessivamente dichiarato entrate per poco più di 2 milioni di euro, mentre sono state scoperte uscite pari a quasi 3,8 milioni. Scrivono i pm: «In questo caso emerge inequivocabile l’elevatissimo tenore di vita. Dalla scheda patrimoniale risultano auto sportive, barche di lusso, villa con piscina, prestigiosi immobili, nonché la frequentazione di costosissimi alberghi per i suoi spostamenti in Italia. Soggiorni settimanali a Milano in hotel da mille euro a notte». E durante le perquisizioni nella residenza della sua convivente, gli investigatori hanno trovato 200 mila euro con banconote sporche di terra che sembravano essere state appena dissepolte. La correttezza dell'istituzione non viene messa in discussione. Sono i militari delle Fiamme Gialle a condurre le istruttorie più delicate del momento. Ed è stato proprio un ufficiale, il colonnello Renato Nisi, a impedire che Spaziante venisse a conoscenza della rete di microspie che hanno smascherato la ragnatela di tangenti dell'Expo. Anche il procuratore capo di Napoli, Giovanni Colangelo, che ha ordinato la perquisizione nel comando generale, ha detto: «Confermiamo l'assoluta fiducia nel lavoro della Guardia di Finanza, ovviamente a partire dai suoi vertici». Gli ultimi sviluppi mostrano però con chiarezza l'esistenza di un problema di prevenzione, che riguarda tutta la pubblica amministrazione. Quali strumenti esistono per impedire che la corruzione dilaghi? La questione era stata posta venti anni fa, quando Mani Pulite aveva fatto finire in carcere decine di militari e di funzionari degli uffici fiscali. Allora erano stati proposti organismi di controllo, banche dati sui beni e altre iniziative, rimaste lettera morta. E adesso tutto si ripropone. Uno dei punti chiave, che anche in questo caso riguarda l'intera pubblica amministrazione, è l'assenza di efficaci meccanismi disciplinari per valutare il comportamento dei funzionari. Prima delle sentenza definitiva, non vengono quasi mai presi provvedimenti. Ma il verdetto della Cassazione arriva dopo parecchi anni e la prescrizione cancella quasi sempre le ipotesi di reato per i colletti bianchi. Come ha evidenziato due mesi fa un'inchiesta de “l'Espresso”, in Italia l'impunità per la corruzione è praticamente garantita. E nel frattempo le carriere proseguono, fino ai piani più alti delle istituzioni. Figure come Spaziante o come Bardi erano già state segnalate a vario titolo in diverse istruttorie: nell'estate 2011 entrambi erano citati nelle intercettazioni sulla cosiddetta P4. All'epoca i pm avevano ricostruito una fuga di notizie sulle indagini, che aveva permesso di mettere in guardia Gianni Bisignani, uomo chiave del potere romano. Ma non c'erano state ripercussioni. Così come nulla è stato fatto per arginare le frequentazioni molto interessate tra ufficiali e politici, in quella commistione tra affari e nomine che è diventata il pilastro della nuova Tangentopoli, da Milano a Venezia. Ora è necessario che questa nuova lezione si trasformi in misure concrete, per evitare che accada ancora. E per impedire che la corruzione di pochi getti ombre sull'attività di centinaia di militari delle Fiamme Gialle, che tutti i giorni si impegnano con rigore e onestà per difendere quel che resta della legalità nel nostro Paese.
Gdf, indagato per corruzione il comandante in seconda Bardi. L’inchiesta della Procura di Napoli ha portato anche all’arresto del comandante di Livorno Mendella per presunte verifiche fiscali «pilotate» nel capoluogo partenopeo, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Indagato per corruzione il generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza. Si tratta dell’ultimo sviluppo dell’inchiesta che ha portato - nella mattinata di mercoledì- anche all’arresto del colonnello Fabio Massimo Mendella, comandante della Guardia di Finanza di Livorno accusato di aver percepito un milione di euro per «pilotare» verifiche fiscali favorendo alcune società di imprenditori «amici» quando era in servizio a Napoli. Bardi è sospettato di aver ricevuto parte di quella somma oltre ad alcuni regali e favori. Nell’ambito dell’inchiesta i pm di Napoli Piscitelli e Woodcock hanno disposto una perquisizione degli uffici di Bardinella sede del Comando generale della Gdf in viale XXI Aprile a Roma. Il colonnello Mendella - comandante provinciale della guardia di finanza di Livorno - è finito in carcere insieme a un commercialista napoletano Pietro de Riu. I reati ipotizzati dalla Procura di Napoli sono concorso in concussione per induzione e rivelazione del segreto d’ufficio. In particolare De Riu avrebbe incassato per conto di Mendella, responsabile del settore verifiche del Comando provinciale di Napoli dal 2006 al 2012, oltre un milione di euro per evitare verifiche ed accertamenti fiscali.
Bufera giudiziaria sulla Finanza. Arrestato per concussione il comandante Gdf di Livorno: tangenti in cambio di verifiche fiscali addomesticate. Indagato il generale Bardi. Il provvedimento a carico di Fabio Massimo Mendella nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Napoli. Fermato anche il commercialista napoletano De Riu. Perquisiti gli uffici romani del numero due della Guardia di Finanza che risulterebbe sotto inchiesta per corruzione in vicende collaterali, scrivono Dario Del Porto e Conchita Sannino su “La Repubblica”. Tangenti in cambio di verifiche fiscali addomesticate. Finiscono in carcere l'attuale comandante provinciale della Finanza di Livorno, colonnello Fabio Massimo Mendella e il commercialista napoletano Pietro De Riu. Nell'inchiesta risulta indagato il generale Vito Bardi, numero due della Guardia di Finanza: i suoi uffici romani sono stati perquisiti. I pm Vincenzo Piscitelli ed Henry John Woodcock ipotizzano per gli arrestati il reato di concorso in concussione per induzione e di rivelazione del segreto d'ufficio. Per l'accusa, l'importo delle dazioni di denaro e di varie utilità incassate dagli indagati ammonta, in totale, ad un milione di euro. Somme che, è scritto in una nota della Procura di Napoli, sarebbero state "asseritamente richieste ed incassate da De Riu per conto di Mendella". I fatti, stando alle indagini condotte dalla Digos napoletana con la direzione centrale della polizia criminale e dai finanzieri del Comando provinciale partenopeo e della Tributaria di Roma, si riferiscono a rapporti intercorsi negli anni tra il 2006 e il 2012, quando Mendella era responsabile del settore Verifiche al comando provinciale di Napoli, e successivamente trasferito a Roma. A beneficiare dei presunti favori della Finanza sarebbero stati due fratelli imprenditori napoletani della società Gotha. Secondo la tesi accusatoria, il legame tra quel colonnello e quella società, saldata attraverso l'opera del commercialista, era così forte che quando il colonnello fu trasferito nella capitale, anche la Gotha cambiò sede, pur di continuare ad usufruire di quei vantaggi illeciti. Nell'ambito dell'inchiesta sono stati perquisiti gli uffici del comandante in seconda della Guardia di Finanza, generale Vito Bardi, che risulterebbe indagato per corruzione in vicende collaterali. Il generale di corpo d'armata, in pratica il numero due del corpo, è subentrato al generale Emilio Spaziante che è andato in pensione ed è stato arrestato con l'accusa corruzione nell'ambito della maxi inchiesta sulle tangenti del Mose. Bardi, 63 anni, è originario di Potenza. Ha ricoperto, tra l'altro, l'incarico di comandante interregionale dell'Italia meridionale. Il procuratore capo di Napoli, Giovanni Colangelo, dopo una lunga telefonata con il comandante generale della Guardia di Finanza, Saverio Capolupo, tiene a ribadire: "Confermiamo l'assoluta fiducia nel lavoro della Guardia di Finanza, ovviamente a partire dai suoi vertici, tanto che abbiamo affidato congiuntamente ad essa e alla Digos l'esecuzione delle misure, e l'attività integrativa continua ad essere svolta dalle Fiamme Gialle insieme all'ufficio della Digos". Tra gli episodi della vicenda giudiziaria viene riportata anche una festa in barca con Vip per Mendella. Il colonnello, nell'estate del 2006 partecipò alla festa di compleanno dell'imprenditore Paolo Graziano assieme ai calciatori Ciro Ferrara e Fabio Cannavaro (i tre sono del tutto estranei alla vicenda; il solo Graziano è stato sentito come persona informata sui fatti). La festa si svolse sulla barca di Graziano, attuale presidente dell'Unione industriali di Napoli. La circostanza viene riferita dal gip Dario Gallo solo come elemento di riscontro delle dichiarazioni accusatorie dell'imprenditore Giovanni Pizzicato, che sarebbe stato indotto da Mendella a pagare somme di denaro per evitare verifiche ed accertamenti fiscali. Nell'estate del 2007, invece, sia Mendella, accompagnato dalla fidanzata, sia il commercialista De Riu avrebbero trascorso le vacanze in Sardegna a spese di Pizzicato. Trasferito da Napoli a Roma, il colonnello Mendella - dice l'inchiesta - suggerì agli imprenditori Giovanni e Francesco Pizzicato di trasferire nella capitale anche la loro società Gotha spa. Dopo appena due giorni dal trasferimento della società, l'ufficiale propose ai suoi superiori una nuova verifica fiscale, che necessitava di una specifica autorizzazione a derogare dagli ordinari criteri di competenza. L'autorizzazione giunse 24 ore dopo. La tempistica dell'operazione, sottolinea il gip, è un decisivo elemento di conferma dell'ipotesi accusatoria: in quella circostanza spuntò il coinvolgimento di "due generali". Anche le modalità di concessione della deroga appaiono sospette, dal momento che non fu interessato il comando generale della Guardia di Finanza ma solo quello provinciale, mentre nè nella richiesta nè nell'autorizzazione erano specificate le circostanze eccezionali per derogare dai criteri di competenza. Nella sua denuncia, l'imprenditore Giovanni Pizzicato ha riferito di avere appreso dal commercialista Pietro De Riu, anche lui arrestato oggi, che la verifica "aveva richiesto una speciale autorizzazione da parte di due generali, uno dei quali mi fu detto essere il generale Spaziante". In quella circostanza, De Riu chiese a Pizzicato 150.000 euro "perchè a suo dire erano stati coinvolti, data la natura straordinaria dell'iniziativa, i generali". Il generale della Gdf Emilio Spaziante, oggi in pensione, è stato arrestato la settimana scorsa nell'ambito dell'inchiesta sul Mose.
Terremoto Gdf: arresti, perquisizioni ed incredulità. Arrestato il comandante della Finanza di Livorno, Mendella, con l'accusa di concussione ed indagato il comandante in seconda Bardi a Roma per corruzione. Lo sgomento delle fiamme gialle, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. "...è davvero impossibile". Diverse telefonate, identico però il tono e quel filo di voce di chi davvero ha preso un pugno nello stomaco. Sono le reazioni (anonime) dei militari delle Fiamme gialle di Livorno dopo l'arresto del comandante provinciale della Guardia di Finanza Fabio Massimo Mendella, accusato di concorso in concussione nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Napoli. Il colpo è davvero tremendo: in caserma, nella città di Livorno e anche a Roma. In pochi hanno voglia di parlare. Mendella era arrivato al comando provinciale livornese neanche un anno fa, nel luglio del 2013, guadagnandosi immediatamente la stima del personale. Anche alti ufficiali della Finanza, raggiunti telefonicamente da Panorama.it, manifestano stupore ed incredulità. Oltre ad una profonda tristezza e smarrimento: E' impossibile per Mendella e ancora di più per il generale Bardi. Sembra quasi una voglia di colpire il Corpo.. cosa pensano di trovare all'interno di un ufficio di un comandante in seconda che cambia continuamente..” Poi qualcuno prosegue: "Mai una voce su Mendella..non è mai stato un collega chiacchierato come a volte ci può essere". Infatti, mentre la Digos di Napoli stava arrestando il comandante di Livorno, la procura di Napoli stava effettuando una perquisizione, sempre nell’ambito della stessa indagine che ha portato all’arresto del colonnello, nell’ufficio del generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza presso il Comando generale in viale XXI Aprile a Roma. Il generale Bardi, al momento, risulterebbe indagato per corruzione. Ma perché il colonnello Mendella sarebbe finito in carcere? E perché perquisire le stanze del Comando Generale di Roma? Secondo i pm napoletani, Piscitelli e Woodcock, gli imprenditori partenopei avrebbero versato oltre un milione di euro tra il 2006 ed il 2012 al commercialista Pietro De Riu, anche lui finito in manette questa mattina, che faceva da tramite con il responsabile verifiche ed accertamenti del Comando provinciale Guardia di Finanza di Napoli, ovvero il colonnello Fabio Massimo Mendella. Mendella, dopo sei anni nel capoluogo campano, fu trasferito dal Comando di Napoli a Roma. E in concomitanza con il suo trasferimento anche la holding "Gotha s.p.a.", oggetto di una verifica pilotata eseguita dall'ufficio coordinato dal colonnello, avrebbe trasferito la propria sede legale nella Capitale. Se l’arresto del comandante di Livorno ha destato non poco stupore, meno “impatto”, tra alcuni finanzieri, ha avuto la notizia della perquisizione a carico del generale. Il generale Vito Bardi, infatti, non è nuovo alle vicende giudiziarie. Nel 2011 era stato indagato con le accuse di favoreggiamento e rivelazione di segreto nell'ambito dell'inchiesta sulla cosiddetta P4. L'anno successivo, tuttavia, la sua posizione fu archiviata dal gip su richiesta dello stesso pm Henry John Woodcock. Al centro dell'inchiesta era l'ex deputato del Pdl Alfonso Papa, per il quale ora e' in corso il processo. Secondo l'ipotesi accusatoria, l'ex parlamentare riceveva notizie coperte da segreto su indagini in corso e se ne serviva per ricattare alcuni imprenditori dai quali riceveva cosi' denaro o altre utilita'. Nell'inchiesta era coinvolto anche l'uomo d'affari Luigi Bisignani che ha patteggiato la pena. Ma la tristezza di moltissimi alti ufficiali della Finanza è dettata anche dal susseguirsi, di accuse verso gli appartenenti al Corpo o graduati ormai in pensione. E’ il caso del generale Emilio Spaziante rientrato nella maxi inchiesta, pochi giorni fa, sulle tangenti del Mose, a Venezia. Emilio Spaziante, in qualità "di Generale di Corpo d'Armata della Guardia di Finanza" è stato arrestato perché "influiva in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Consorzio Venezia Nuova" e avrebbe ricevuto dal presidente del Consorzio Giovanni Mazzacurati, in cambio, la promessa di 2 milioni e 500 mila euro. E' quanto stato scritto nell'ordinanza del gip dove si precisa anche che la somma versata fu poi di 500 mila euro divisa anche con Milanese e Meneguzzo. Le indagini della Procura di Napoli che hanno portato all'arresto di Mendella, sono state condotte dalla Digos partenopea con il contributo della Direzione centrale di Polizia criminale e anche del Comando Provinciale e del nucleo di Polizia tributaria della stessa Guardia di Finanza di Roma.
Ci sono imprenditori che collaborano, ma a parlare sono soprattutto ufficiali e sottufficiali, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Uomini della Guardia di Finanza che accusano i loro superiori di aver preso tangenti. E svelano al procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli e al sostituto Henry John Woodcock l’esistenza di un «sistema» di corruzione che ha già fatto finire in carcere il colonnello Fabio Massimo Mendella, mentre sono indagati il comandante in seconda Vito Bardi e il suo predecessore Emilio Spaziante, tuttora agli arresti per lo scandalo del Mose di Venezia. Non sono gli unici. Ci sono nomi ancora coperti, componenti di quella «rete» che avrebbe preteso soldi, vacanze, favori e forse, ma su questo i controlli sono tuttora in corso, appuntamenti con alcune escort. È l’ordine di perquisizione notificato ieri al generale a svelare gli elementi raccolti dai pubblici ministeri facendo emergere un quadro di testimonianze incrociate: «Dalle indagini finora svolte è emerso lo stretto legame di ordine personale intercorso tra il colonnello Mendella, percettore di somme illecitamente richieste asseritamente per sé ed altri, ed il generale Vito Bardi, attuale comandante in seconda della Guardia di Finanza. Diverse fonti testimoniali - di cui si omette allo stato il riferimento nominativo per ragioni di cautela processuale, potendo le stesse in ragione del ruolo rivestito da Bardi essere oggetto di iniziative inquinanti - hanno riferito sia dei rapporti di stretta vicinanza tra Mendella e Bardi, sia dei rapporti di familiarità di quest’ultimo con imprenditori partenopei (e non) a loro volta oggetto delle presenti e più ampie investigazioni. Tali ultime circostanze sono state riferite anche da appartenenti alla stessa Guardia di Finanza collocati ad alti livelli gerarchici sentiti come persone informate (di cui parimenti si omette il riferimento nominativo allo stato per le medesime ragioni in precedenza esposte). Altri soggetti hanno riferito di rapporti ispirati a richieste di favori di rilievo economico riguardanti Bardi, oggetto delle presenti investigazioni». Tra gli imprenditori interrogati c’è A. D’A., in passato legato al generale Nicolò Pollari e poi molto vicino a Bardi. Sono soprattutto due le circostanze emerse dagli accertamenti affidati agli investigatori della Digos. Il primo riguarda l’affitto della caserma di Napoli dove ha sede il Comando provinciale delle Fiamme Gialle e altri stabili che l’immobiliarista avrebbe concesso proprio ai finanzieri. I canoni vengono fissati dall’Ufficio tecnico erariale, ma per questo caso si è deciso di fare un’eccezione. E dunque Bardi avrebbe stabilito di concedere all’amico il massimo possibile ottenendo una contropartita che sarebbe già stata svelata e sulla quale sarebbero tuttora in corso le verifiche. Ma a destare sospetto è anche la decisione presa dallo stesso D’A. di spostare la sede di una delle sue società da Napoli a Roma proprio in seguito al trasferimento di Mendella nella capitale. Esattamente come accaduto per la «Gotha spa» dei fratelli Pizzicato che collaborano con i magistrati e hanno raccontato di aver ricevuto il suggerimento proprio dal colonnello. I difensori dell’imprenditore mettono le mani avanti sostenendo che «le società del gruppo hanno sede nella capitale sin dal 2004». Al fascicolo di inchiesta è stato allegato il verbale dell’imprenditore Mauro Velocci, già coinvolto insieme ad Angelo Capriotti nell’inchiesta sugli appalti all’estero gestiti dal faccendiere Valter Lavitola. Il 23 luglio scorso l’uomo viene interrogato da Woodcock e dichiara: «Mi chiedete se Capriotti mi abbia mai riferito di rapporti con ufficiali della Guardia di Finanza e di eventuali richieste avanzate da questi ultimi. Posso dire che intorno al 2006 Capriotti mi mandò negli uffici del generale Bardi per consegnargli un esposto denuncia. Ricordo che io e Capriotti andammo una prima volta insieme dal generale Bardi nel suo ufficio di Napoli e poi Capriotti mi mandò da solo sempre negli uffici del Comando regionale. In questa occasione prese una copia del mio esposto e mi disse che avrebbe seguito lui direttamente la vicenda, tuttavia non abbiamo saputo più nulla. Credo un anno dopo Capriotti mi disse che il generale Bardi gli aveva fatto delle richieste “strane” ovvero richieste di utilità, se non sbaglio riferite all’acquisto o alla locazione di un posto barca ad Ostia». L’8 marzo scorso viene intercettata una telefonata tra Mendella e un amico avvocato, Marco Campora. Il colonnello dovrebbe aver appreso di avere i telefoni sotto controllo e dunque usa il legale come tramite per incontrare il commercialista Pietro De Riu. Per questo i pubblici ministeri vogliono adesso accertare se l’incontro con la donna sia effettivamente avvenuto o se invece fosse una «finta» per mascherare invece un appuntamento.
Mendella : ué Marco! Ti chiamo dopo
Campora : no, no Fabio! Perché ti stavano aspettando
Mendella : ma chi?
Campora : no là ... quella ragazza che ti volevo presentare a piazza dei Martiri là, quindi ti aspetto un quarto d’ora
Mendella : no e non ce la faccio a venire. Oggi non ce la faccio
Campora : eh ... ma scusa questo ti ... cioè qua sta figa qua, ti sta aspettando Fabio
Mendella : non ce la faccio!
Campora : ... una figura di merda. Sta amica di Cristiana qua devi
Mendella : ma non ce la faccio dai, sto al Vomero!
Campora : e devi venire per forza, che cazzo! Cioè
Mendella : dai, non ce la posso fare. C’ho pure ... adesso è arrivata pure Catia
Campora : eh no e Fabio dai, vieni, vieni! Fammi sta cortesia perché ... vieni, vieni capisci... Perché questo mò ti vo ... ti voleva sc.. mò, qua ... se ti dico vieni è perché devi venire, insomma, capito? Sennò mica ti dicevo cazzate ... hai capito?
I soldi in contanti gli sarebbero stati consegnati nelle scatole dei telefonini cellulari, continua la Sarzanini. Ma evidentemente quei 30 mila euro al mese non bastavano. E allora il colonnello della Guardia di Finanza Fabio Massimo Mendella si faceva pagare anche le vacanze in Sardegna, oppure le gite in barca a Capri con i calciatori del Napoli. Atteggiamento spregiudicato che i magistrati di Napoli inseriscono in un vero e proprio «sistema» di corruzione che avrebbe avuto tra i referenti il generale Vito Bardi, comandante in seconda della Guardia di Finanza. Il sospetto degli inquirenti è che proprio a lui possa essere finita una parte dei soldi versati dai fratelli Pizzicato, amministratori della «Gotha spa» che si occupa di metalli e gestori di alcuni locali notturni napoletani per evitare le verifiche fiscali. Non è l’unico. Anche altri alti ufficiali tuttora in servizio - oltre all’ex numero due delle Fiamme Gialle Emilio Spaziante - potrebbero aver partecipato alla spartizione delle «mazzette» pagate dagli imprenditori. Un dubbio alimentato da quanto raccontato al procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli e al sostituto Henry John Woodcock proprio da Giovanni Pizzicato che sostiene di aver ricevuto anche notizie sulle indagini in corso, compresa la decisione «di mettere sotto controllo 42 utenze». «Fondi in Romania e Lituania». È il 14 novembre scorso quando l’imprenditore decide di collaborare. E dichiara: «Nel 2005 venni avvicinato da un mio collega Pietro Luigi De Riu e mi disse che sarebbe stato bene che per la mia attività incontrassi un suo amico, il maggiore Fabio Massimo Mendella, con il quale fu organizzata una cena presso uno dei locali che all’epoca gestivamo, “La Scalinatella” di Napoli... De Riu ci propose di trovare un accordo economico con Mendella, in misura proporzionale al volume d’affari della società. Mi fu detto che con 15 mila euro al mese avremmo potuto star tranquilli... Cominciai quindi a pagare, ma poi nel tempo i versamenti sono cresciuti a 20 mila e poi fino a 30 mila euro. Non abbiamo avuto mai alcun controllo generale o comunque mirato dalla Guardia di Finanza. Complessivamente avrò versato oltre l milione di euro. Questi versamenti sono stati tutti quanti effettuati a Napoli... in qualche circostanza io avevo messo i soldi contanti in una confezione di un cellulare richiedendo alle mie segretarie di consegnarli al dottor De Riu. L’ultimo dei pagamenti è avvenuto a settembre, ottobre del 2012. Il contante lo abbiamo ritirato in banca in Italia fino al 2011 più o meno, poi ho utilizzato somme che venivano prelevate dai conti presenti in Lituania e Bulgaria». «Soldi ai due generali». Fila tutto liscio, poi Mendella viene trasferito a Roma. Ma lì avrebbe trovato la soluzione: trasferire nella capitale la sede della «Gotha spa» in modo da poter far partire una verifica «pilotata». Racconta Pizzicato: «De Riu mi aveva detto che questa verifica per poter essere autorizzata, in quanto di competenza territoriale di altro Comando, aveva richiesto una speciale autorizzazione concessa da due generali, uno dei quali mi fu detto essere il generale Spaziante. De Riu mi disse anche che successivamente c’era stata una segnalazione da parte del colonnello Baldassari di Napoli. Quest’ultimo, poi trasferito anche lui a Roma, aveva segnalato questa anomalia richiedendo spiegazioni al Comando generale sul perché la verifica era stata aperta dal Comando di Roma. In proposito devo aggiungere che il De Riu, in relazione a questa verifica mi aveva richiesto la somma di euro 150 mila perché a suo dire erano stati coinvolti, data la natura straordinaria dell’iniziativa, i generali che avevano autorizzato la stessa. Io anche in questa occasione ritenni di dover pagare». In barca con i calciatori. Ci sono le «mazzette», ma anche gli svaghi. L’imprenditore ha svelato di aver «pagato nel 2007 una settimana di soggiorno al residence “Smeraldina” di Porto Rotondo dove alloggiarono sia il De Riu che il Mendella, che era con la sua compagna, e io, che ero presente, pagai tutte le cene della settimana». Ma anche di aver organizzato nel 2006 una gita «a Capri con il presidente degli industriali napoletani, Paolo Graziano, amico di Mendella, che festeggiava a bordo della sua barca il suo compleanno. La barca di Graziano era un Mangusta e a bordo della stessa c’era l’ex calciatore del Napoli Ciro Ferrara con la famiglia di Fabio Cannavaro, quest’ultimo a bordo della sua barca. La barca del Graziano fu da noi raggiunta con un gommone che era di proprietà di mio cugino, Sergio Reale. Noi partimmo da Ischia dove io ero con la mia barca, a bordo della quale c’era Mendella con la sua compagna, oltre De Riu con la sua fidanzata dell’epoca». Nell’ordinanza il giudice elenca gli elementi di riscontro ai viaggi. E poi allega le intercettazioni di conversazioni durante le quali il colonnello Mendella fa finta di incontrare «belle donne» quando invece vede il commercialista De Riu per farsi consegnare le tangenti.
INDIPENDENZA DEI MAGISTRATI? UNA BALLA. LO STRAPOTERE DEI MAGISTRATI E LA VICINANZA DEI GIUDICI AI PM, OLTRE LA CORRUTTELA.
Lo strapotere dei giudici nasce dall'uso pubblico del bagnasciuga del mare, scrive Transatlantico su “L’Occidentale”. L’Italia è il paese dove si può finire sotto processo per una denuncia non circostanziata che la magistratura usa per cercare conferma a un’ipotesi investigativa; dove si può essere condannati in primo e secondo grado e dopo 15 anni vedere annullata la sentenza in Cassazione per sette capi su otto e per l’ottavo vederla confermare nonostante una legge in discussione (e approvata qualche mese dopo) non consideri più il fatto come reato. L’Italia è il Paese dove i pubblici ministeri che hanno sostenuto quell’accusa e i giudici che hanno deciso quei processi hanno fatto regolarmente la carriera, uno addirittura tentando quella politica, un altro divenendo ispettore presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Questo per evitare di ribadire che l’Italia è il Paese dove il pm e i giudici di Enzo Tortora sono invecchiati solo in preda all’eventuale ansia per il rimorso delle loro coscienze. Come faranno quelli di Giovanni Mercadante. Il problema di molti processi italiani è il "libero convincimento del giudice", insindacabile al punto da non potersi neppure accertare, a posteriori, se in realtà esso si sia formato sulla base di un giudizio etico (quando non politico) anziché giuridico. Il "libero convincimento" (implicazione del monopolio interpretativo della legge da parte della Cassazione) si accompagna all’obbligatorietà dell’azione penale e al diritto dei magistrati di essere giudicati per i loro errori da un Organo di rilievo costituzionale nel quale sono in maggioranza rispetto ai componenti designati dal Capo dello Stato e dal Parlamento. Nel 1948 furono pensati quali giusti contrappesi per garantire l’indipendenza della magistratura e l’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge stante un Parlamento in grado di incidere sullo status di magistrati/funzionari dello Stato (stipendi, regole per la carriera, eccetera) e protetto contro accuse improvvide o pretestuose grazie all’immunità riconosciuta ai suoi membri. Oggi però sono fonte di squilibrio istituzionale. Negli anni Ottanta iniziò a diffondersi il sospetto, poi rivelatosi fondato, che molta classe politica eccedesse nel coltivare interessi propri in nome altrui e che i partiti di opposizione sapessero. La verità era che tre decenni addietro i partiti dell’arco costituzionale avevano siglato un "patto" in forza del quale alla DC competeva l’esclusiva di governare e al PCI di decidere distribuzione dei costi e vantaggi sociali e ambedue si impegnavano a non fare riforme che potessero mettere in discussione l’impianto giuridico-ideologico della Costituzione repubblicana. Coerentemente negli anni Settanta/Ottanta, Centro e Centrosinistra si erano concentrati sull’occupazione dello Stato e delle sue articolazioni industriali e finanziarie mentre la Sinistra sulla penetrazione nei settori dell’istruzione, della giustizia, dei beni culturali e degli enti locali, finendo per dotarsi, democraticamente e legittimamente, di una controstruttura pubblica motivata politicamente. La Sinistra aveva compreso che col tempo la DC si sarebbe compromessa nel tentativo di conciliare interessi concorrenti che presiedevano altrettante scelte di vita aventi pari diritto e si stava preparando a sostituirla. Quella intuizione regalò alla Sinistra il governo del territorio, dell’istruzione (superiore e universitaria) e... della Giustizia ma non il governo del Paese di cui si sentì scippata da Silvio Berlusconi nel 1994. La liason tra Sinistra e Magistratura ebbe inizio, negli anni Settanta, con la decisione del pretore Amendola sull’uso pubblico del bagnasciuga del mare. La sentenza, nonostante le ricadute sulle regole di edilizia e urbanistica, sulla proprietà privata e alcune attività imprenditoriali, fu snobbata dalla DC come atto, politicamente inerte, di un pretore d’assalto. Alla sinistra non sfuggì invece che offriva la prova della possibilità della via giudiziaria alla riforma della società italiana. E soprattutto intuì che indicava come creare fra Magistratura e una parte della società civile (quella di volta in volta interessata) il feeling indispensabile per facilitare il suo avvento al potere. Tangentopoli doveva segnare il punto di svolta ma Berlusconi convinse gli Italiani che alcuni Magistrati avevano ceduto alle sirene del PDS (ex PCI) pronto a rappresentare i loro interessi corporativi in cambio del sostegno alla conquistare il potere. La sentenza di Amendola fu decisiva anche dal punto di vista ideologico perché affermava il diritto del metro etico/politico per la formazione del "libero convincimento del giudice". Con quella sentenza l’Ordine giudiziario affermò inoltre il suo diritto/dovere di far prevalere i principi costituzionali (come il principio di eguaglianza sostanziale) sulla legge vigente attraverso l’interpretazione provocatoria (più che creativa) delle norme. Qualche anno dopo altre sentenze sul rapporto di lavoro dipendente (cui seguì lo Statuto dei lavoratori) dissolse i residui dubbi sulla praticabilità della via giudiziaria alle riforme. Da allora molto è cambiato, rimane però intatta la potestà dei giudici di formare il proprio "libero convincimento" su personali parametri etico/politici di qualificazione giuridica dei fatti dunque di compensare i deficit normativi, che ritengono esistenti, ricorrendo a una giurisprudenza ermeneuticamente progrediente. Ma questa facoltà, in una Democrazia con sovranità popolare, non può essere riconosciuta a un Ordine Giudiziario privo di rappresentatività e la cui coscienza democratica e onestà intellettuale sono valutabili solo attraverso gli atti, non giudicabili e tantomeno sanzionabili, dei suoi componenti. Se poi il 70% degli Italiani chiede oggi alla Politica di riequilibrare il rapporto fra potere e responsabilità dei giudici (inquirenti e decidenti), è della scomparsa di sintonia con i cittadini che la Magistratura dovrebbe preoccuparsi, non di una legge che nascerà minus quam perfecta visto che a decidere sulla responsabilità dei giudici saranno comunque i colleghi.
"Giudici troppo vicini ai pm. È ora di separare le carriere". Il presidente nazionale delle Camere penali accusa anche la politica: "Si inseguono gli umori della piazza invece di fare una vera riforma", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. «Se fosse lei il difensore di Claudio Scajola si strapperebbe i capelli?», chiedo all'avvocato Valerio Spigarelli, presidente nazionale delle Camere penali e massimo esperto degli umori che serpeggiano tra i penalisti italiani. Le Camere penali sono 120, nelle maggiori città. Volendo parlare di una cosa avvilente come la giustizia penale in questo Paese, consola avere di fronte uno come Spigarelli. Ha lo sguardo fermo, folti capelli da strappare in caso di necessità e la giusta foga per affrontare il pantano. Covava fin da giovanetto la passione per i diritti dell'imputato. Ora ha 57 anni e un grosso studio nel centro di Roma, la sua città. «Diciassettenne, digiuno di diritto, già manifestavo contro la legge Reale (dura legge antiterrorismo del 1975, ndr)», dice, mentre in cravatta e maniche di camicia cerca di capire con chi ha a che fare prima di rispondere alla domanda su Scajola. Profitto, per sondarlo anch'io: «La peggiore malagiustizia in cui si è imbattuto?». «Non una, cento», risponde e si capisce che considera il mestiere di difensore un campo minato con una trappola al giorno. Poi, per dire che tipo è Spigarelli, improvvisamente si stufa dei preamboli e sbotta: «Le dico il punto debole della giurisdizione penale e potrei anche finire l'intervista. Tutto discende da lì». «Prego», gli dico incuriosito da questa prodigiosa capacità di sintesi.
«Il sistema giudiziario è squilibrato. Il giudice non è equidistante tra accusa e difesa».
Il giudice parteggia?
«È più vicino al pm, per ciò che l'accusa rappresenta: la pretesa punitiva dello Stato; piuttosto che al diritto di libertà dell'imputato».
Partito preso?
«Dato culturale. Giudice e pm sono contigui e hanno la stessa formazione. Ecco perché è necessario separare le carriere. I pm si oppongono, sentendosi sminuiti. La separazione serve ad avere un giudice libero, non un pm a metà».
Torniamo a Scajola: da difensore tremerebbe?
«Non penso proprio. Poi è ben assistito».
Intanto è in galera e non si intravede la fine.
«La magistratura intende la custodia cautelare, non come una cautela per ragioni processuali, ma come un'anticipazione di pena».
Maramaldeggiano?
«Temono che l'imputato sfugga alla condanna e presentano subito il conto: pochi, maledetti e subito. Che però è un detto di commercianti».
Su Scajola, arrestato per vicinanza a Matacena, ora piovono accuse su accuse. Dal solito concorso esterno, all'inedito «omicidio per omissione» di Marco Biagi...
«Un classico per chi è in carcere. Ricordi accuse e pentiti che si moltiplicarono per l'innocente Enzo Tortora».
Vale ancora il detto «male non fare, paura non avere»?
«Realisticamente, no. La legge impone al pm di non portare in giudizio un imputato se non sia convinto che ne otterrà la condanna. Poiché assoluzioni e condanne in uno stesso processo si accavallano, è chiaro che la norma è disattesa».
In più, la gogna delle intercettazioni di cui è vittima anche l'incolpevole.
«Pratica da Stato autoritario. Contraria alla legge che le regola e alla sentenza della Consulta che, nel '74, fissò i casi in cui sono ammesse».
Il «reato» di concorso esterno in associazione mafiosa è illegale.
«Invenzione giurisprudenziale, sconosciuta al Codice penale».
Ha fondamento questa invenzione per persone come Totò Cuffaro e Marcello Dell'Utri?
«Questo reato è spesso una forzatura: permette di criminalizzare i comportamenti più vari. La contiguità con la mafia può andare da uno a cento e si penalizza uno come cento».
Chi è responsabile di tanta illegalità nella Giustizia?
«I politici. Hanno l'enorme colpa di non avere fatto una vera riforma della Giustizia in questi vent'anni, inseguendo invece gli umori della piazza».
E le toghe sono dilagate.
«Un magistrato che fa un comizio politico contro il presidente della Repubblica (Ingroia, ndr). Quattro pm che vanno in tv per ammonire il governo a non fare una legge (pool di Milano ai tempi di Mani pulite, ndr). Settanta pm che mandano un fax al Parlamento ingiungendogli di bloccare la riforma della Giustizia (ai tempi della Bicamerale, ndr). Abbastanza per dire che c'è un enorme problema di separazione dei poteri che la politica non affronta».
Il Guardasigilli, Orlando, è all'altezza?
«Di buono ha che è un politico. Loro, prima o poi, capiscono. Se alla Giustizia mettiamo un giurista, è peggio. Il problema è quello manzoniano (Il coraggio, uno non se lo può dare, ndr).
Il Parlamento autorizza addirittura il carcere preventivo dei suoi, come con Genovese del Pd.
«Che quattro giorni dopo era ai domiciliari perché il giudice non ha ritenuto necessario il carcere. Che penseranno di sé i parlamentari che ce lo hanno spedito?».
Per dire il Paese: la sera delle manette, Crozza in tv ha fatto il pirla su Genovese (e mesi prima su Cosentino).
«Facile fare dello spirito sulla pelle degli altri. Ma se tocca a noi, cambiamo registro. Mai visto nessuno con tanta sfiducia nei giudici, quanto i magistrati che incappano nelle attenzioni dei colleghi».
Il carcere duro si concilia con lo Stato di diritto?
«Il 41 bis è una tortura democratica. Un trattamento disumano vietato dalla Costituzione».
La trattativa Stato-mafia, cara alla Procura di Palermo, attiene alla sfera giudiziaria o politica?
«Il reato di trattativa non esiste. Ci sono arrivati anche antimafiosi doc, come Marcelle Padovani, biografa di Falcone, e Giovanni Fiandaca, studioso pd del fenomeno. Pur di evitare che mettano una bomba all'Olimpico, io parlo anche con Belzebù».
Come se ne esce?
«Con la ventilazione della magistratura».
Frullarla via?
«Aprire ad altri l'accesso in magistratura: professori e avvocati. Aria fresca in una corporazione chiusa. E...».
E?
«Dopo la laurea, una Scuola superiore delle tre professioni giudiziarie per una comune cultura della giurisdizione. Poi si sceglie: chi avvocato, chi giudice, chi pm. Prima però, quindici giorni di carcere per tutti. Bugliolo, pane e acqua, ispezioni corporali».
"I magistrati forzano le leggi. Ormai è scontro con lo Stato". Giorgio Spangher, esperto di Procedura: "L'esempio di conflitto è il processo a Napolitano sulla trattativa Stato-mafia. Non c'è più equilibrio tra le parti, nei processi i giudici stanno con l'accusa", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Quando incontri una persona, c'è un prima e un dopo. Il prima è l'infarinatura che hai di lei senza conoscerla. Il dopo è quando ti sta davanti agli occhi. Del professor Giorgio Spangher sapevo che è un numero uno della Procedura penale di cui, dopo averla insegnata a Sassari e Trieste (sua città natale), è ordinario alla Sapienza di Roma, supremo punto d'arrivo universitario. Al telefono mi ero fatto anche l'idea che fosse autoritario, perché di poche parole e ipermattiniero al punto che ho rischiato un appuntamento alle 7.30, spostato alle 8,30 con abile trattativa. Alla fine mi sono detto che a settant'anni, tanti ne ha Spangher, ha il diritto di essere bacchettone. Con questo bagaglio cognitivo, mi sono presentato da lui. Incontro uno di quei settantenni che madre natura moltiplica ai nostri giorni: dimostra a stento cinquant'anni. Ha parlantina torrentizia, è caratterialmente cordiale e propone, da bon vivant, di andare nel giardino a goderci il sole romano anziché starcene nella hall del suo albergo come due grami mediatori d'affari. Mentre sediamo, è lui a ricordarmi ciò che ho omesso nella presentazione. Ossia che, oltre a essere docente, è anche preside della Facoltà di Legge. Però lo dice solo per pregarmi di non scriverlo - ma come faccio? - perché lui, parlando di Giustizia, vuole farlo a nome suo, senza le cautele cui una veste istituzionale, come quella di preside, lo costringerebbe. Insomma, è unicamente il prof che parla. Stavo per fargli una domanda scemetta, tanto per rompere il ghiaccio, quando metto meglio a fuoco il suo aspetto. Ha barba nera, occhi vigili e un paio di jeans. Sembra il personaggio di un western. Così, adattandomi alla scoperta, ho sparato a bruciapelo una domanda micidiale: «Se fosse incriminato, direbbe: "Ho la massima fiducia nella magistratura?"». Spangher reagisce con un sorriso tirato, ci pensa su e dice: «Non mi sbilancerei con una affermazione così netta». Vuole dire che, se gli capitasse, sarebbe stravolto, conoscendo i suoi polli. Ma usa garbate circonlocuzioni. Lo farà spesso. È quindi utile che vi dica subito come ho capito io che la pensa Spangher, anche quando si esprime in modo cripitico-docenziale. Il professore è più che convinto che la Giustizia sia malata e i magistrati eccedano. Ma anche che la gente è dalla loro parte e non accetta distinguo. È furiosa per le ruberie dei politici, tanto più odiose in tempi di crisi. Invoca la ramazza e osanna chi la usa. Perciò, pensa con amarezza Spangher, è il momento peggiore per sognare riforme garantiste. Leggete dunque l'intervista con queste lenti.
Il giudice è più vicino al pm che ai diritti della difesa?
«Sostanzialmente vero. Il grande problema del processo è l'equilibrio dei poteri, tra difesa, pm e giudice».
Equilibrio che manca.
«Spesso il giudice si schiera più sulle tesi accusatorie. Ma c'è anche un altro equilibrio in crisi».
Cioè?
«Quello tra la magistratura e gli altri poteri dello Stato. Quando nasce un conflitto tra Procura di Palermo e capo dello Stato (trattativa Stato-mafia, ndr) o tra Procura di Milano e Governo (sul segreto di Stato nel caso Abu Omar, ndr), significa che il livello di guardia è superato».
C'è abuso del carcere prima del processo?
«Il nuovo codice di procedura aveva sostituito la carcerazione preventiva, ossia l'anticipo della pena, con la custodia cautelare, semplice misura di precauzione che non sottintendeva la probabilità della condanna. Ma le leggi successive ci hanno, di fatto, riportati al carcere preventivo. La galera non è più l'ultima ratio».
C'è abuso di intercettazioni?
«Spesso non sono rispettati i presupposti di legge per farle».
I giudici violano le leggi?
«Le forzano. Di fronte alle obiezioni della difesa, vanno avanti per la loro strada. Se nei codici c'è scritto immediato, che per me significa subito, il giudice interpreta dieci giorni; se c'è scritto assolutamente indispensabile, il magistrato interpreta opportuno, utile».
Pura illegalità. Bisognerebbe scendere in piazza.
«Ci andrebbe da solo. La gente no, perché capisce che si sta facendo pulizia. Sentito parlare della Rivoluzione francese? Quelli che andavano a vedere le esecuzioni? Siamo lì. Il processo penale è sensibilissimo a questi umori».
È tollerabile la legislazione speciale per i mafiosi, dai processi di massa al carcere duro?
«Il doppio binario è accettabile. Ci ha fatto uscire dal terrorismo, vincendolo per via giudiziaria, pur piegando le norme con leggi di emergenza. Ha consentito di restare nella legalità. Altri hanno impiccato i terroristi in carcere».
Con la scusa dei mafiosi si è finito per colpire i non mafiosi con il reato inventato del concorso esterno. Costituzionale?
«Dirmi perplesso è un eufemismo. I poliziotti, per esempio, per svolgere i loro compiti, devono navigare in una zona grigia: il caso Contrada».
Cuffaro e Dell'Utri hanno sette anni a testa per concorso esterno.
«Il diritto penale deve distinguere tra l'illecito e il grigio. Il cosiddetto concorso esterno non è nella zona illecita, ma in quella grigia. Come tale, non è sanzionabile».
L'Università come si schiera di fronte a queste bestiali forzature?
«Salvo eccezioni, sviluppa una linea garantista. Guarda al sistema, non all'emergenza. Docenti e studenti hanno metabolizzato i principi di garanzia della Convenzione Ue».
La magistratura dilaga dalla politica industriale (Ilva) alla camera da letto (Ruby). Perché?
«Vuole moralizzare la società, mentre dovrebbe solo applicare la legge».
Le colpe della politica per le invasioni di campo?
«Enormi! Ha delegato alle toghe funzioni proprie. Ma, soprattutto, con la sua corruzione, fa sempre più emergere la magistratura».
L'ultimo Guardasigilli degno del nome?
«Giuliano Vassalli. Introdusse il nuovo codice di procedura penale».
Separazione delle carriere tra giudici e pm?
«Certo. Nella logica dell'equilibrio dei poteri. Oggi, i muscoli sono solo da una parte: quella delle toghe contro i difensori».
Pensiero finale.
«Grande confusione sotto il cielo».
Tanto fanno parte tutti della grande mangiatoia. Lo scandalo del doppio lavoro: busta più ricca per mille toghe, scrive Stefano Sansonetti su “Il Giornale”. Un festival di incarichi extragiudiziari. Per un cospicuo numero di toghe italiane, a quanto pare, la cuccagna non accenna a finire. Negli ultimi tempi sono letteralmente fioccate le collaborazioni che i magistrati riescono a ottenere da un'infinita serie di enti pubblici e privati. Inutile dire che tutti questi lavori extra, svolti cioè al di fuori della missione tipica di giudici e pubblici ministeri, si portano appresso un bel corredo di compensi che vanno a cumularsi ai già lauti stipendi. Il fatto è che l'organo di autogoverno della magistratura, guidato dal vicepresidente Michele Vietti, ha appena sfornato un «volumone» di 362 pagine che contiene l'ultimissimo aggiornamento delle attività extragiudiziarie autorizzate dal 14 novembre 2013 al 13 maggio del 2014. A impressionare è il loro numero: parliamo di 1.085 incarichi, più che raddoppiati rispetto ai 466 del semestre precedente e comunque in aumento rispetto ai 961 autorizzati nello stesso semestre di un anno fa (ovvero dal 14 novembre 2012 al 13 maggio 2013). Molti incarichi vengono assegnati da società private di consulenza e formazione, per non parlare di veri e propri centri di potere come la Luiss, l'ateneo della Confindustria guidato dall'ex numero uno degli industriali Emma Marcegaglia, che per questa via si trova a pagare numerosi giudici. E qui restano di grande attualità due questioni. Innanzitutto la montagna di incarichi rischia di sottrarre ore preziose di lavoro a un sistema-giustizia stritolato da pendenze sempre più difficili da smaltire. E poi la «vitale» questione della terzietà: siamo sicuri che ricevere compensi da Confindustria e gruppi privati, seppur autorizzati dal Csm, garantisca l'imparzialità della toga nel momento in cui è chiamata a svolgere il suo «vero» lavoro? Nelle 362 pagine gli esempi si sprecano. Si prenda Paolo Sordi, presidente della sezione lavoro del tribunale di Roma, che per lezioni di diritto del lavoro ha ottenuto la bellezza di 9 incarichi: 4 ore dalla Scuola nazionale dell'amministrazione per complessivi 600 euro, 3 ore dalla Scuole superiore dell'economia e delle finanze per 390 euro, 2 ore dall'Università Roma Tre per 200 euro, 40 ore dalla Lumsa per 4 mila euro, ancora 4 ore da Roma Tre per 480 euro, un'ora dalla società di formazione Optime srl per 400 euro, un'ora dalla Synergia Formazione srl per 500 euro, 20 ore dalla Scuola di specializzazione in professioni legali della Sapienza per 3.600 euro e 6 ore dalla Fondazione dell'avvocatura pontina per 750 euro. Oppure la situazione di Angelo Spirito, consigliere della Corte di Cassazione che ha ottenuto 5 incarichi per docenze di procedura civile dal gruppo Altalex: due da 14 ore e 2.600 euro ciascuno, un altro da 14 ore per 2.450 euro e due da 5 ore ciascuno per complessivi 1.450 euro. Poi c'è il caso della Luiss, l'università di Confindustria che direttamente o per il tramite della sua Scuola di specializzazione in professioni legali ha assegnato nel semestre incarichi a 10 magistrati. Tra questi c'è Domenico Carcano, capo dell'ufficio legislativo del ministero della giustizia, che per 45 ore di lezione di diritto processuale civile prenderà 6 mila euro. A seguire il sostituto procuratore di Roma Barbara Sargenti, con 36 ore di lezioni di diritto penale dell'informatica pagate 4.500 euro. Ancora, tra le toghe più dinamiche si segnala Gaetano Ruta, pm di Milano, il castigatore degli stilisti Dolce e Gabbana. In questo caso parliamo di 5 incarichi per lezioni di diritto penale: 5 ore per 650 euro dalla Scuola superiore dell'economia e delle finanze, 2 ore per 325 euro dalla Cattolica di Milano, un'ora per 400 euro da Synergia Formazione srl e 2 ore da 500 euro l'una da Informa srl. Un altro pm milanese, Carlo Nocerino, sempre per docenze di diritto penale ha ottenuto 20 ore dall'Università Bicocca per 2.064 euro, un'ora da Optime srl per 400 euro e un'ora da Paradigma srl per 800 euro. Tra i più impegnati a livello di ore ci sono anche Bruno Giordano, giudice del tribunale di Milano, e Marcello Buscema, giudice del tribunale di Roma. Il primo ha ottenuto dall'università di Milano e dal Consorzio interuniversitario per il diritto allo studio 50 ore di docenza per complessivi 7 mila euro. Il secondo 42 ore dall'onnipresente Scuola superiore dell'economia e delle finanze per 5.460 euro. Dall'elenco emergono i profili di alcune società private di formazione che la fanno da padrone. Optime srl, Paradigma srl, Synergia, Wolters Kluwer e Altalex pagano decine di magistrati. Anche se la maggior parte degli incarichi arriva dalle Scuole di specializzazione nelle professioni legali delle varie università italiane. È bene ripetere che si tratta di incarichi regolarmente autorizzati dal Csm, che però non spazzano via le questioni «tempo» e «terzietà» del magistrato. Del resto lo stesso Csm è consapevole del problema se solo si considerano le circolari che si sono succedute sul tema. In sostanza oggi si individuano tre tipologie di incarichi extra: espletabili senza autorizzazione, inderogabilmente vietati e soggetti ad autorizzazione. Il fatto è che ogni norma viene interpretata, ed è soprattutto la linea di confine tra le ultime due categorie a rischiare di rivelarsi labile.
Ma tutto questo alle toghe di tutti i ranghi non basta. Mose, politici e magistrati: mazzette per tutti, scrive “L’Unità”. I conti segreti e criptati all’estero li hanno già trovati nelle prime due tranche di questa inchiesta (2013). Ora salta fuori «Il fondo Neri», fondo comune di danaro contante versato pro-quota dalle imprese. Il meccanismo arriva al punto «di integrare in un'unica società corrotti e corruttori». Di più: «A volte la mazzetta viene pagata anche quando il pubblico ufficiale corrotto ha accettato l'incarico e quando il politico ha cessato il suo ruolo a livello locale, quale rendita di posizione che prescinde dal singolo atto illecito commesso e che trova giustificazione solo nel ruolo rivestito dal pubblico ufficiale e nella possibilità, che egli comunque mantiene, di poter influire sfruttando le proprie conoscenze e relazioni personali con i funzionari che - scrive ancora il gip - permangono in servizio». Il sistema L'ex presidente della Regione Giancarlo Galan e l'ex generale della Gdf Vincenzo Spaziante, i dirigenti del magistrato delle acque Patrizio Cuccioletta e Maria Giovanna Piva, l'assessore regionale alle Infrastrutture Renato Chisso: «Ciascuno di essi, per anni e anni, ha asservito totalmente l'ufficio pubblico che avrebbe dovuto tutelare, agli interessi del gruppo economico criminale, lucrando una serie impressionate di benefici personali di svariato genere». Scrive il gip che Giovanni Mazzacurati, il presidente del Consorzio Nuova Venezia (CvN) «dopo aver concordato» con i principali componenti del Consorzio «la necessità» di pagare tangenti, dal 2005 al 2011 avrebbe corrisposto - tramite l'assessore Chisso (che a sua volta riceveva il denaro o direttamente dallo stesso Mazzacurati o dai collaboratori di quest'ultimo) - a Galan, «non solo lo stipendio annuo di un milione, ma anche 1 milione e 800 mila per il rilascio di due pareri favorevoli ai progetti». In particolare 900 mila euro tra il 2007 e il 2008 e altri 900 mila tra il 2006 e il 2007 «per il rilascio del parere favorevole della Commissione Via della Regione Veneto, sui progetti delle scogliere esterne alle bocche di porto di Malamocco e Chioggia». La campagna per le comunali Il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni entra nell'inchiesta sui fondi neri delle aziende legate agli appalti del Mose per aver ricevuto, secondo l'accusa, oltre 110mila euro in più occasioni a sostegno della campagna elettorale delle comunali nel 2010. Orsoni avrebbe ricevuto i fondi tramite «contributi formali» di aziende che a loro volta ottenevano il denaro dal Cvn sulla base di false fatturazioni. Le ditte coinvolte, a vario titolo, sarebbero Mazzi, Grandi Lavori Fincosit, Mantovani e Covela, Consorzio Italvenezia e Società italiana condotte d'acqua, Coveco, San Martino e Clodia. Secondo il gip queste società partecipavano al sistema di false fatturazioni «consapevoli della destinazione a fine di finanziamento illecito di esponenti politici del denaro sovraffatturato in favore del Cvn per la realizzazione del Mose». I postini delle somme sarebbero stati Luciano Neri e Federico Sutto, uomini di fiducia dell'ex presidente del Cvn, Mazzacurati, entrambi arrestati. I passaggi sono tre: i primi due riguardano l'emissione di due fatture per 500 mila euro emesse da Coveco e da San Martino a favore del Cvn. Il terzo passaggio riguarda la dazione vera e propria, che sarebbe avvenuta con tre consegne a uomini di fiducia di Orsoni, per un totale di 110 mila euro». La domanda è se Orsoni fosse o meno consapevole delle provenienza di quel danaro. In una delle intercettazioni, Nicola Falconi (ai domiciliari), uno degli imprenditori del CvN, riferisce che Orsoni gli ha detto: «Siete dei veri amici, sono meravigliato dello sforzo addirittura superiore alle attese e ti ringrazio molto». E quella per la regionali Tra gli arrestati anche Giampietro Marchese, consigliere regionale veneto del Pd. Avrebbe ricevuto un finanziamento illecito di 33mila euro per la campagna delle regionali 2010. Il finanziamento risulterebbe confermato dall’imprenditore Pio Savioli (già arrestato nel 2013), consigliere del CvN e consulente della cooperativa Coveco nella cui contabilità è stato rintracciato il passaggio di denaro. «Finanziamento ufficiale» (con relativa fattura) si difendono gli indagati. Per l’accusa, invece, «frutto dei pagamenti del CvN sulla base di false fatturazioni Coveco». Nelle carte dell'inchiesta c’è un appunto scritto a mano sequestrato a luglio 2013 ad una dipendente del Coveco con le «erogazioni» effettuate dalla cooperativa fino all'11 ottobre 2011. Ci sono i nomi di Marchese, del consigliere regionale del Pd Lucio Tiozzo (33mila euro), della Fondazione Marcianum (100mila euro), il polo pedagogico-accademico dell'allora patriarca di Venezia Angelo Scola, il Pd provinciale di Venezia (33mila) e il Premio Galileo a Padova (15mila euro). Il giudice Giuseppone della Corte dei Conti, prima a Venezia e poi a Roma, «avrebbe percepito uno stipendio annuale oscillante tra i 300mila e i 400mila euro che gli veniva consegnato con cadenza semestrale a partire dai primi anni duemila sino al 2008». Tra il 2005 e il 2006 la dazione aumenta: «Non meno di 600mila tra il 2005 e il 2006». I soldi, afferma ancora il gip, servivano per «accelerare le registrazioni delle convenzioni presso la Corte dei Conti da cui dipendeva l'erogazione dei finanziamenti concessi al Mose e al fine di ammorbidire i controlli sui bilanci e sugli impieghi delle somme erogate al Consorzio Venezia Nuova». Il generale e le Fiamme Gialle Tra gli arrestati anche l’ex, ormai è in pensione, generale di corpo d’armata Emilio Spaziante. Secondo il gip, per «influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del CvN», avrebbe ricevuto la promessa di 2 milioni e 500 mila euro. La somma versata poi è solo di 500 mila euro divisa anche con Marco Milanese (indagato), allora collaboratore politico del ministro Tremonti e parlamentare della Commissione Bilancio. La cifra sarebbe stata versata tra aprile e giugno 2010, «per influire sulla concessione dei finanziamenti del Mose».
Inchiesta Mose. "Comprati anche giudici del Consiglio di Stato, fino a 120 mila euro per sbloccare i lavori". Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan, ha detto ai pm che delle mazzette era incaricato un avvocato. E ha fatto anche il nome del del presidente del Tar del Veneto, Bruno Amoroso, scrive Giusepep Caporale su “La Repubblica”. Gli imprenditori del Mose compravano le sentenze. E per farlo si affidavano ad un avvocato cassazionista, Corrado Crialese, ex presidente di Fintecna (la finanziaria pubblica per il settore industriale). Si occupava solo di questo Crialese, pagare i giudici. Sia quelli del Tribunale amministrativo regionale, sia quelli del Consiglio di Stato. Agiva per conto delle ditte del Consorzio Venezia Nuova. È quanto mettono a verbale Claudia Minutillo, ex segretaria di Giancarlo Galan (onorevole di Forza Italia ed ex governatore del Veneto) e Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani, primo socio del Consorzio Venezia Nuova. Una sentenza costava tra gli 80 e 120mila euro. Ma non è tutto. Durante due interrogatori- confessione spunta anche un nome: quello del presidente del Tribunale amministrativo del Veneto Bruno Amoroso. È la Minutillo la prima a parlarne, quando i tre magistrati Paola Tonini, Stefano Ancilotto e Stefano Buccini il 19 marzo 2013 le chiedono conto di una mazzetta di 20mila euro. "Poi, signora, a un certo punto registriamo all'interno del suo ufficio la consegna di una somma di denaro che lei dà a un suo dipendente, da portare a Roma. Siamo nel febbraio del 2013... Insomma, qualche settimana fa, poco prima del suo arresto" dice il pm Buccini. "Sì lo ricordo - risponde la Minutillo - quel giorno, venne in ufficio da noi Corrado Crialese che ha una serie di rapporti importanti, tant'è che lui proprio lui una volta mi disse: sai, forse adesso viene il mio amico Amato, forse lo fanno Presidente della Repubblica. Fu il giorno della grandissima nevicata. E io dissi a Piergiorgio Baita: guarda che forse questo qua viene perché vuole qualcosa. E infatti era così. Bisognava corrispondergli 20mila euro che lui avrebbe fatto avere, diceva, al suo amico presidente del Tar del Veneto, Amoroso". Chiede il pm Tonini: "Perché essere consegnata questa somma?". "Così si poteva influire sui ricorsi - risponde la Minutillo - su alcuni che erano in atto, in particolare quelli sull'Autostrada del Mare. E vincemmo noi. Ma ce n'erano stati anche altri. Maltauro aveva fatto ricorso contro di noi sulla Valsugana, e so che era anche in crisi per questo. Perché (il giudice, ndr) era amico sia di Mantovani (attraverso Crialese) che di Maltauro. Alla fine Maltauro ritirò il ricorso e si misero d'accordo Mantovani e Maltauro. In realtà i ricorsi servivano proprio a questo: un concorrente li fa per costringerti poi a tirarlo dentro. Funziona quasi sempre". La interrompe il pm Ancilotto: "Ecco, ma allora perché pagare?". "Perché questo è un sistema consolidato, nel senso che avviene anche ai più alti livelli oltre che al Tar..." risponde l'ex segretaria di Galan. "Senta, è l'unico pagamento fatto ad Amoroso o in passato ne vennero fatti altri dal Baita?" chiede ancora uno dei tre inquirenti. "Ce ne furono altri, come questo cui ho appena accennato: il ricorso della Valsugana, che infatti vincemmo". Anche Baita, nell'interrogatorio del 28 maggio 2013 conferma tutto. E va oltre. "Conosco Crialese quando come vicepresidente di Fintecna si offre di fare il mediatore nell'acquisto dell'area ex Alumix, dove avevamo un progetto di piattaforma logistica presso il Porto di Venezia. Per favorire la vendita lui chiede una parte in nero, credo 160mila euro. Gli affidiamo poi degli incarichi anche come avvocato per le cause amministrative e oltre al pagamento della parcella ci chiede sempre una parte in nero". "E come la giustifica questa parte in nero?" chiedono i magistrati. "Che lui ha i suoi rapporti da... pagare ". E poi fa la lista delle mazzette per i giudici: "Abbiamo pagato sia per alcune sentenze del Consiglio di Stato che del Tar del Veneto. Per la sentenza sulla Pedemontana Veneta 120 mila euro. Per vincere il ricorso contro Sacyr che poi, però, abbiamo perso, 100mila euro... In quel caso qualcun altro deve dato di più. Poi anche per un ricorso contro Maltauro sulla Valsugana. E contro Net Engineering credo altri 80 o 100mila euro. E ancora per la vicenda Jesolo Mare al Consiglio di Stato. Pagavamo sempre, perché Crialese diceva che se non glieli davamo avremmo perso...". Crialese ora per lo scandalo del Mose è agli arresti domiciliari con la sola accusa di millantato credito.
Sbirri venduti e magistrati corrotti: il sistema Mose. Il generale Spaziante chiese 2 milioni di euro per orientare le indagini. La guerra nella Gdf, scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. La Guardia di Finanza ha dovuto indagare su se stessa nell’inchiesta sul Mose di Venezia dove è stato arrestato il generale Emilio Spaziante. Ma anche nell’indagine sull’Expo 2015 di Milano l’ex Dc Gianstefano Frigerio, il professore della cupola, millantava rapporti con il capo generale delle fiamme gialle Saverio Capolupo. Non è un caso che l'operazione veneziana si chiamasse in codice "Antenora" (come ricordato dal quotidiano IlPiccolo), seconda "delle zone in cui è distinto il cerchio nono dell'Inferno dantesco", quello dei traditori. «In essa sono puniti coloro che hanno tradito la fede spezial (If XI 63) creata dall'appartenenza alla stessa patria o allo stesso partito politico». Gli scandali che stanno terremotando il Nord Italia in queste ultime settimane, colpendo esponenti del Pdl o del Pd, tirano in ballo non solo i ladri, ma anche «le guardie» (copyright Matteo Renzi). E oltre ai guardiani delle legalità, personaggi spesso impegnati in interviste tese a condannare la corruzione, a finire in arresto ci sono anche magistrati della Corte dei Conti, come Vittorio Giuseppone o giudici del consiglio di Stato e del Tar, persino funzionari come il Magistrato delle Acque di Venezia che dovrebbero garantire la legalità delle opere pubbliche. Non solo. In entrambe le inchieste compare l’ombra dei nostri servizi segreti (in particolare in relazione all'imprenditore Enrico Maltauro, costrutture di caserme e basi militati statunitensi in Italia ndr), altro tassello funzionale a garantire sicurezze giuridiche e a far viaggiare spedito il giro di appalti, mazzette e conti all’estero con l’aiuto di uno come Roberto Meneguzzo, numero della Palladio Finanziaria, la Mediobanca del Nord-Est. Del resto non è la prima volta che la nostra Guardia di Finanza viene travolta dalle inchieste della magistratura. Già nel 2011 il generale Spaziante, insieme con l'ex capo di stato maggiore Michele Adinolfi comparve per alcune soffiate nell'inchiesta sulla P4 di Luigi Bisignani. E a ben guardare i protagonisti sono sempre gli stessi e riportano a galla una guerra che si consumò nel 2008, quando nel cambio della guardia tra il governo Prodi a quello Berlusconi, l’allora ministro dell’Economia Giulio Tremonti fece fuori tutti gli uomini dell’ex numero uno di via XX settembre Vincenzo Visco. Il deus ex machina di quella operazione di spoil system fu Marco Milanese, ex Gdf, ex braccio destro, indagato nell’inchiesta sul Mose e accusato di aver intascato una mazzetta da 500mila euro. Ma la vera mente dell’operazione di occupazione del potere da parte dei tremontiani fu Vincenzo Fortunato, ex magistrato, potente capo di gabinetto del ministero dell’Economia per quasi dieci anni, che caso vuole sia stato fino al marzo del 2014 “collaudatore” proprio del Mose, del sistema di dighe mobili che dovrebbe salvare la laguna dalle maree. A nominarlo nel 2011 insieme a Pietro Ciucci, presidente di Anas, fu il Magistrato dell’Acque di Venezia, allora ancora di nomina della cricca del capo supremo, Giovanni Mazzacurati. Grazie alla Gdf gli indagati sapevano di essere intercettati. Spaziante, arrestato giovedì scorso all’Hotel Savoia di Milano, secondo gli inquirenti, è stato un tassello fondamentale per la cricca bipartisan che gestiva il giro delle tangenti su un’opera faraonica da svariati miliardi di euro. Perché oltre a collaborare insieme a Milanese per sbloccare i fondi del Cipe, teneva informati i sodali della cricca sulle indagini della Guardia di Finanza. Non solo. Consigliò pure a Mazzacurati di acquistare un blackberry con una nuova scheda telefonica per evitare di essere ascoltato. Nell’ordinanza di custodia cautelare i magistrati spiegano nel dettaglio le richieste che i vertici del Consorzio Nuova Venezia volevano sapere sulle inchieste in corso. E’ l’allora generale della Gdf della provincia di Venezia, Walter Manzon, perquisito nei giorni scorsi, ad attivarsi. E a chiedere al colonnello Renzo Nisi, l'ufficiale che per primo ha indagato sul Cvn scoprendo il marcio delle acque veneziane, di fornirgli le informazioni delle ultime indagini in corso. Nisi è il cosiddetto «buono» di tutta la vicenda, grazie al suo operato l'inchiesta non è stata insabbiata. Nel 2013 è stato trasferito a Roma e prima di andarsene disse: «La pietra ha cominciato a rotolare e presto diventerà una valanga». Come si legge nei verbali agli atti, Nisi, uomo appunto integerrimo, non avendo in quel momento «alcun tipo di sospetto trattandosi di dati richiesti da suo diretto superiore gerarchico» fornì i dati. E’ il 26 ottobre del 2010. Grazie all’intervento di Speziante e Manzon la cricca viene a sapere tutto. «Il nominativo dei soggetti nei cui confronti sono in corso le indagini tecniche e la qualifica»; il tipo di intercettazioni in corso, se ci fossero cimici o fossero solo intercettati i cellulari; le utenze monitorate dalla fiamme gialle per conto della procura. Per questo motivo Mazzacurati e Spaziante non parlano mai al telefono, perché sanno di essere intercettati. Ma il 3 dicembre del 2010 una microspia piazzata nell’ufficio delll’ex presidente del Cvn svela che il gran burattinaio del Mose conosce la situazione. Ne parla con un ex diplomatico, Antonino Armellini. E svela: «Mi hanno detto di una telefonata che hanno registrato con il dottor Letta, una con Matteoli...le hanno registrate». L'accordo con la Guardia di Finanza trovato nella casa di Baita: 2 milioni di euro per orientare le indagini. Il sodale di Mazzacurati è Piergiorgio Baita, l’ex top manager della Mantovani costruzioni, Il re del project financing arrestato lo scorso anno, altra gola profonda nell’inchiesta. È nella sua casa che gli inquirenti trovano in un'agenda la conferma dell’accordo con il relativo importo delle spese a «risultato raggiunto». E nel corso dell'interrogatorio Mazzacurati spiega che non solo Milanese ringraziò dopo aver ricevuto una tangente di 500mila euro («Io ho un po’ di ritegno su queste cose, mi colpì» dice ai magistrati), ma che dopo si trovò a dover fronteggiare le richieste di Spaziante che per «orientare le indagini» chiedeva una tangente di 2 milioni di euro. Di questi soldi Mazzacurati ne verserà solo un quarto in due tranche, nel 2011 e 2012. «Mi rifiutai di corrispondere altro denaro, anche per le difficoltà di reperire una somma quale quella richiesta» afferma durante l’interrogatorio del 9 ottobre del 2013. Servizi segreti e magistrati. Oltre a Giuseppone della Corte dei Conti, anche lui arrestato e anche lui addetto, secondo gli inquirenti, a dare una mano al Consorzio Nuova Venezia, nelle carte dell'inchiesta ci sono pure i magistrati del Tar. E' soprattutto Claudia Minutillo, ex segretaria del Doge Giancarlo Galan, a raccontare ai magistrati delle lotte interne alla burocrazia italiana, alla Gdf e ai Servizi. La Minutillo racconta anche degli intrecci tra Baita, Corrado Crialese, avvocato cassazionista e numero uno di Adria Infrastrutture già in Fintecna, e Bruno Amoroso, presidente del Tar di Venezia. Lo stesso Baita conferma a più riprese di aver pagato giudici del Consiglio di stato fino a 120 mila euro per avere sentenza favorevoli. Se nelle carte dell'Expo 2015 spunta il nome del numero uno del Dis Giampiero Massolo, in quelle sul Mose è sempre la Minutillo a raccontare altri dettagli sull'assuzione di una figlia «di uno dei servizi segreti». Si legge: ««I cognomi di queste due ragazze sono significativi: una si chiama Splendore, il cui padre è comandante dei Servizi segreti (si tratta del direttore dell'Aise del Triveneto Paolo Splendore ex Sisde noto alle cronache per aver lavorato con Bruno Contrada ndr), che evidentemente si pensava potesse avere un ruolo nell’ambito delle indagini in corso; e l’altra si chiama A., il cui padre è un importante funzionario della Regione del Veneto, che ha un ruolo fondamentale in molte attività del Gruppo Mantovani, come per esempio tutte le opere di bonifica e di salvaguardia della Laguna. Per esempio: successe che un giorno andai da Chisso per chiedere chiarimenti su un accordo di programma che non si faceva e A. doveva seguire la questione. “Ma voi non gli dovevate assumere la figlia? Lui su questa cosa è molto arrabbiato, tu assumi la figlia e vedrai che le cose si risolvono”, mi disse».
1. MOSE, LE MAZZETTE-VITALIZIO: “PAGA FISSA, VIAGGI E HOTEL”, scrive Paolo Berizzi per “La Repubblica”. Mose ha aperto le acque, sotto c’è il baratro di Venezia. Un fondale melmoso dove hanno strisciato per dieci anni politici squali affamati di tangenti «anche dopo il pensionamento», tipo vitalizio, «pacchetti e pacchettini» per «ristrutturare la villa» come è riuscito a Giancarlo Galan al quale, bontà sua, non bastassero i muratori pagati dalla Mantovani spa, casualmente nella torta Mose, era assicurato «uno stipendio annuo di 900mila euro». Più morigerato, ma forse è solo questione di ruoli e di tempi, il sindaco Giorgio Orsoni: 560 mila. Una tantum anzi no, a rate. «In tre mesi ho portato i soldi a casa sua», confessa Giovanni Mazzacurati. Il «capo supremo», il «re», il «monarca», l’«imperatore», il «doge». Lo chiamano così i sottoposti, le iperboli che si addicono a chi presiede il consorzio a cui è stata affidata un’opera da 5miliardi, «il progetto più grande del mondo». «Il capo supremo era scoglionato... ma poi è diventato tutto arzillo dopo la cena con il mio amico di Padova » (il sindaco di Padova Zanonato, ndr), dice del suo dominus uno dei più fidati collaboratori. Avevano addosso gli occhi dei sindacati: «C’è uno che al Tg3 ha detto: “È ora di finirla, questi qua fanno soldi con il Mose, poi vengono qua e si comprano la sanità pubblica”». Questi qua sono loro, il branco di piranha che s’addensava intorno agli squali. I «loro» imprenditori. Quelli che «prima li paghiamo — i politici — e poi andiamo a batter cassa». Dice ancora l’ingegnere Mazzacurati: «Adesso con i tagli grossi vengono pacchetti piccoli... ». Glieli portava direttamente lui i soldi al consigliere regionale Pd Giampiero Marchese, invero non il più ingordo giacché il «meccanismo », come lo chiamano i magistrati nelle 710 pagine di ordinanza del gip Alberto Sacaramuzza, si accontentava di piccole tranches «da 15 mila euro a volta». Più che un’idrovora una cerniera, Marchese. «Era il collettore di soldi del Consorzio Venezia Nuova (Cvn) per la sinistra. Galan e Chisso (Renato Chisso, assessore regionale forzista alle Infrastrutture, ndr) lo erano per la destra». C’è un codice più o meno sofisticato che i mazzettari della Laguna osservavano per tessere la loro rete. È fatto di «dazioni obbligate», «rendite di posizione», «fondi neri» che qui, splendido anagramma della corruzione, diventano «fondo Neri» (dal nome di Luciano Neri, il “cassiere” di Mazzacurati” del Cvn). Bisogna leggere attentamente le parole del gip. «Il meccanismo — annota — arrivava al punto di integrare in un’unica società corrotti e corruttori». Un abisso «talmente profondo che non sempre è stato possibile individuare il singolo atto specifico contrario ai doveri d’ufficio». Eccoli gli ingranaggi del meccanismo. C’è un sindaco che nella sua bella casa di San Silvestro, due passi dal ponte di Rialto, riceve il corruttore: il «grande amico» Mazzacurati. Un caffè veloce? «Ho saturato la cifra richiesta», ammette il costruttore. «Anche tranches da 150 mila euro». Non è uno che va per il sottile il «doge». «Tutti i nostri amici gonfiano», ammonisce al telefono. Fatturazioni off shore, «esterovestizione» per dirla con l’economichese della polizia tributaria. Ma anche di carta igienica si parla. Racconto di Pio Savioli, responsabile del Consorzio per i rapporti con le cooperative: «Il magistrato alle Acque era in subordine al Consorzio Venezia Nuova... cioè Venezia Nuova li comprava... sudditanza psicologica e anche operativa... Cioè gli comprava anche la carta igienica, è vero, non è una battuta». Tutto nello stesso contenitore che tiene dentro squali, piranha e pesci piccoli. «Le nomine del Magistrato delle Acque da sempre le ha fatte l’ingegnere Mazzacurati — dice Claudia Minutillo, ex segretaria di Galan e imprenditrice del cemento — Cioè faceva in modo che venisse nominata una persona a lui gradita, gradita al Consorzio». Non manca nessuno nel canovaccio di questa commedia dell’arte (di rubare). Il sindaco (Orsoni). L’assessore (Chisso). Il “governatore” (Galan). Gli altri politici da oliare (Marchese, Lia Sartori eurodeputata Pdl non rieletta). Poteva mancare il generale della Guardia di Finanza in pensione? No, infatti è spuntato lui, Emilo Speziante. «Con Mazzacurati si incontrano nella residenza romana dell’imprenditore ». Residence Ripetta, via di Ripetta. Il doge gli chiede un occhio di favore. E qualche soffiata. Speziale è richiesto di «influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Cvn». Tutto bene oliato con «la promessa di 2,5 milioni di euro». Il sistema Mose sapeva essere riconoscente. Anche quando uno lasciava il suo incarico. Anche dopo la pensione. «A volte la mazzetta viene pagata anche quando il pubblico ufficiale corrotto ha cessato l’incarico o quando il politico ha cessato il suo ruolo a livello locale», recita l’ordinanza del gip. Si chiama «rendita di posizione». Un «conguaglio», o «stipendio fisso» che «prescinde dal singolo atto illecito commesso». Così ingrossava il conto Vittorio Giuseppone, ex magistrato della Corte dei conti. Così Orsoni e Chisso e Lia Sartori potevano farsi le campagne elettorali ma non solo. «Orsoni prima ha fatto una cifra e poi l’ha aumentata», dice Mazzacurati che del primo cittadino veneziano ricorda, in alcune occasioni, la prudenza. «Chiedeva di consegnare denaro a qualcuno che lo copriva». I «pacchettini» sono scivolati di mano in mano dal 2003 a oggi. Ognuno riceveva in base a quanto era in grado di dare. Ecco, se esiste un asso pigliatutto quello potrebbe rispondere al nome di Giancarlo Galan. «Era a libro paga dei costruttori del Mose», scrive il gip. Tra 2005 e 2008 l’ex governatore e fedelissimo berlusconiano si è messo in tasca emolumenti per 900 mila euro l’anno. Un affarista il Galan che esce dalle carte. Tra conti a San Marino e pacchetti azionari nelle società coinvolte negli affari della Regione, con il suo fidato assessore Chisso faceva lavorare «imprese con le quali era in debito». «Galan ha continuato a chiedermi denaro anche dopo la scadenza del suo mandato in Regione», dice l’ad della Mantovani spa Piergiorgio Baita. VERA E PROPRIA LOBBY. Questo era il Consorzio Venezia Nuova. «Un gruppo di pressione per ottenere le modifiche normative d’interesse», scrive il gip. «Buste bianche» e «bigliettoni». E poi viaggi. Viaggi per agganciare i big della politica. Come Tremonti, allora superministro, a cui Mazzacurati prova a arrivare attraverso il suo braccio destro Marco Milanese oliato con 500mila euro. «Prenotami una stanza al Grand Hotel», chiede il “Doge” alla sua segretaria. «Sì, che in quei due giorni c’è Matteoli che parla». Non gli è andata giù, a Mazzacurati, che il governo abbia nominato Ciriaco D’Alessio presidente del Magistrato alle Acque. «Oggi vedo il Dottore», promette sior Giovanni. Il Dottore è Gianni Letta. Lo riceva a Roma il 23 settembre 2011. Ma forse Letta non basta. «Lì ci vuole un atto di imperio di Berlusconi». Così parlo l’uomo del Mose prima che le acque si aprissero.
2. IL MANAGER REO CONFESSO “AL GENERALE SPAZIANTE TRECENTOMILA EURO” - MAGISTRATI E 007 A LIBRO PAGA PER SPIARE LE INDAGINI, scrive Paolo Colonnello per “La Stampa”. «Questo incontro che Mazzacurati aveva fatto con Meneguzzo avrebbe comportato il pagamento di due milioni e mezzo alla Guardia di Finanza, di cui 300 mila subito e il conferimento a Meneguzzo (ad di Palladio Holding, ndr) di 300 mila euro all’anno, più 400 mila euro di fee… Seppi poi che la Guardia di Finanza a cui si riferiva era il generale Emilio Spaziante e, oltre ai 300 mila euro, ne furono richiesti altri 200 mila…». Parola di Piergiorgio Baita, ex presidente della Mantovani Costruzioni, grande reo confesso di questa vicenda. Per esempio: «Se il presidente della Regione mi dice: “Mi dai una mano?”, lei gliela dà, non si chiede perché». Chiede il pm: quindi lui chiedeva e voi davate? «Per forza, come fai a dire di no?… Sì ma, voglio dire, Galan non era più governatore, era ministro, eh!…». Non c’è scampo: un milione all’anno «di stipendio», più lavori in villa pagati. Ricatti, intrighi, spionaggio, tangenti: c’è di tutto in questa marea di schifezze che sta sommergendo Venezia. Confronto alla cricca maneggiona e un po’ millantatrice che ruotava intorno all’Expo, questi del Mose sono un’organizzazione di geometrica potenza il cui fine «era quello di una sistematica e continuativa condotta corruttiva di pubblici ufficiali, sia in qualità di funzionari che di politici… essendo la corruzione finalizzata all’ottenimento di finanziamenti e di lavori da parte delle società consorziate rientranti nel gruppo Mantovani». Un gruppo che, a partire dall’ingegner Baita, finito nel mirino anche nelle inchieste milanesi di Expo, per arrivare al «Grande Vecchio» del Consorzio Venezia Nuova, l’ingegner Giovanni Mazzacurati, (liquidato l’anno scorso dalla società pubblica con 7 milioni di euro) si era strutturato perfino con un servizio di «controspionaggio» per intercettare le inchieste che li riguardavano. Ed è questo, forse, il dato più inquietante che emerge dall’indagine e che si riassume nel nome del generale di corpo d’armata Emilio Spaziante, un passato nei Servizi Segreti, fino a due mesi fa numero due della Guardia di Finanza, che ieri gli ha messo le manette. Al generale, per «influire in senso favorevole sulle verifiche fiscali e sui procedimenti penali aperti nei confronti del Consorzio Venezia Nuova», vengono promessi da Mazzacurati 2 milioni e mezzo di euro, di cui 500 mila versati e spartiti con Marco Milanese, altro personaggio plurinquisito (è indagato nell’inchiesta Bpm), ex braccio destro del ministro delle Finanze Giulio Tremonti, e con Roberto Meneguzzo, Ad di Palladio Holding, gruppo finanziario vicentino molto noto. D’altronde la torta da spartire era quasi illimitata: 5 miliardi di euro per salvare Venezia dalle sue acque ma non dagli squali, e avere in concessione la quasi totalità degli appalti senza gara, senza concorrenza, senza alcun confronto tra costi e progetti alternativi. Nelle carte è documentato un incontro tra il generale e Meneguzzo nella sede di Palladio a Milano l’8 settembre 2010 per ricevere una parte dei soldi. Scrivono i giudici: «Ecco che proprio nel momento in cui riceve i soldi, Spaziante chiama per 4 volte il comandante del Nucleo della Gdf di Venezia che stava svolgendo attività di verifica, per dimostrare… di essere in grado di acquisire notizie riservate sulle indagini». Del resto, i benefici effetti del rapporto tra il presidente del Consorzio Mazzacurati e Spaziante, mediato da Meneguzzo, si vedono in fretta: «Sei mesi di registrazioni… il mio telefonino, mi hanno detto è ancora sotto controllo fino alla fine dell’anno», spiega Mazzacurati all’ex diplomatico Antonio Armellini. «Mi hanno detto, che mi hanno registrato una telefonata con Matteoli (l’ex ministro di An finito sotto inchiesta, ndr) e col dottor Letta… pensi che la telefonata che mi hanno raccontato io me la ricordavo benissimo…». Secondo i magistrati la rete di spionaggio comprendeva di tutto: da magistrati contabili, a poliziotti, a funzionari dei Servizi. L’acqua marcia di Venezia.
3. MOSE, LA SEGRETARIA DI GALAN AI PM: “PER LUI UNO STIPENDIO DALLE AZIENDE”, scrive Mario Portanova per "Il Fatto Quotidiano". “La cosa era molto variabile, si può considerare un milione l’anno”. Così, agli atti dell’inchiesta della Procura di Venezia sul Mose, che ha portato all’arresto di 25 persone, tra le quali il sindaco Giorgio Orsoni, è descritta la retribuzione di Giancarlo Galan, già presidente della Regione Veneto e attuale deputato di Forza Italia, da parte delle aziende che si sono aggiudicati i lavori del sistema di dighe mobili destinato a proteggere la città lagunare dall’acqua alta. Un affare da oltre 5 miliardi di euro. A raccontarlo ai pm, nell’interrogatorio del 31 luglio 2013, è Giovanni Mazzacurati, presidente del Consorzio Venezia Nuova, che raccoglie appunto quelle imprese. Una conferma arriva ai magistrati da Claudia Minutillo, segretaria di Galan all’epoca dei fatti, poi passata alla Mantovani costruzioni, grande protagonista dei lavori del Mose: ”Era un sistema, cioè ogni tot quando loro potevano gli davano dei soldi”. Dall’ordine di custodia – che per quanto riguarda l’onorevole Galan dovrà essere esaminato dalla Camera – emergono tanti altri pagamenti. Un milione e 100mila euro per ristrutturare la villa sui Colli Euganei; 200mila euro consegnati nel 2005 all’Hotel Santa Chiara di Venezia da Piergiorgio Baita, allora presidente della Mantovani Costruzioni, diventato la gola profonda dell’inchiesta con ampie confessioni, per finanziare la sua campagna elettorale. E ancora: 50mila euro, nello stesso anno, versati in un conto corrente presso S.M. International Bank Spa di San Marino. Più altri finanziamenti per altre campagne elettorali consegnati sempre da Baita alla Minutillo. Ed è ancora la segretaria a raccontare ai pm che un’ulteriore ricompensa consisteva nell’”intestare quote di società che avrebbero poi guadagnato ingenti somme dal project financing a prestanome dei politici di riferimento”, Galan in primis. Qual era, secondo l’indagine, la contropartita di retribuzioni così sostanziose? Dalla Regione, per procedere con i lavori, il Consorzio Venezia Nuova doveva ottenere essenzialmente la Valutazione d’impatto ambientale e la salvaguardia per la realizzazione delle dighe in sasso. Da qui, secondo l’accusa, la necessità di ungere abbondantemente le ruote. In interrogatorio, a proposito dei soldi versati a Galan e all’assessore regionale alle infrastrutture Renato Chisso (Forza Italia), Baita parla di “fabbisogno sistemico” e afferma: “Credo che noi abbiamo pagato tra Adria e Mantovani 12 milioni di euro. Penso che ne siano stati retrocessi sei”. Galan ha un ruolo fondamentale: è lui ad accompagnare Mazzacurati, presidente del Consorzio, al cospetto di Gianni Letta, quando quest’ultimo è sottosegretario alla presidenza del Consiglio nel governo di Silvio Berlusconi. Nel 2006, ricostruisce il gip Alberto Scaramuzza, “la giunta regionale - presidente Giancarlo Galan, relatore Renato Chisso – individuava nel segretario alle Infrastrutture Silvano Vernizzi il ruolo del presidente della Commissione di valutazione di’impatto ambientale. In violazione della legge regionale 10/1999″, che assegna il compito “al segretario regionale competente in materia ambientale”. Passo successivo, “l’estromissione” di un ente di controllo terzo, l’Ispra, emanazione del ministero dell’Ambiente, sostituito dalla Regione medesima per iniziativa, ancora, di Chisso. Dice Baita nell’interrogatorio del 28 maggio 2013: per “l’approvazione da parte della Commissione Via della regione Veneto delle dighe in sasso, Mazzacurati mi disse che gli era stato richiesto dall’assessore Chisso a nome di Galan il riconoscimento di 900mila euro. Altro episodio specifico è stata l’approvazione in Commissione di salvaguardia del progetto definitivo del sistema Mose per il quale, sempre attraverso l’assessore Chisso, ma a nome del presidente Galan, fu richiesta la somma di ulteriori 900mila euro”. Era Chisso a farsi portavoce delle richieste, “perché Galan lo pressava”. E ancora Baita, il 27 settembre 2013, a precisare ai pm che le somme non erano per il partito, ma “per il singolo lucro del singolo destinatario”. Da qui l’accusa di corruzione, e non di finanziamento illecito. Il comportamento del presidente della Regione, scrive il gip, ha “particolannente danneggiato l’interesse pubblico alla tutela ambientale“. Secondo Baita, i versamenti a Galan sono continuati anche quando il politico padovano non era già più presidente del Veneto. Lo conferma in interrogatorio, il 19 marzo 2013, l’ex segretaria dello stesso Galan, Claudia Minutillo, secondo la quale i pagamenti non erano finalizzati a ricompensare i singoli passaggi amministrativi del Mose. “Le procedure andavano avanti (…), ma era un sistema, cioè ogni tot quando loro potevano gli davano dei soldi”. “Come fosse uno stipendio“, chiede il pm? “Sì, di fatto”. Tanto che “Baita a volte si lamentava di quanto veniva a costare Galan”. Soldi comunque ben spesi, a quanto spiega ancora Minutillo: “A fronte dei pagamenti, il governatore e l’assessore Chisso agevolavano il Gruppo Mantovani nella presentazione e nell’iter burocratico relativo al project financing che le società del gruppo Serenissima Holding presentavano in Regione. Quasi sempre era la Mantovani a presentare il progetto, ma i tempi di presentazione, i lavori in relazione ai quali presentarli erano concordati con il Galan e il Chisso da parte del Baita”. Tale era poi il controllo di Galan su “commissioni e assessorati”, che qualunque progetto passava senza “alcun tipo di intoppo o di obiezione”. E’ Mazzacurati a ricordare, per esempio, quella volta che Galan tornò precipitosamente in sede per far approvare un’opera in laguna, funzionale al cantiere Mose, “contrastata dai Verdi”. Fra le contestazioni a Galan c’è quella di aver ottenuto il pagamento della ristrutturazione della propria villa di Cinto Euganeo, nel padovano. Nel 2007/2008 venne ristrutturato il corpo principale del casale e nel 2011 la “barchessa”. Per portarli a termine, la Tecnostudio Srl “sovrafatturava alla Mantovani alcune prestazioni effettuate presso la sede e per il Mercato Ortofrutticolo di Mestre”. La ristrutturazione della villa quindi a Galan non costò nulla: con le fatture false a pagare era la Mantovani Costruzioni. Il politico di Forza Italia, più volte ministro e attuale parlamentare, si dichiara estraneo a tutta la vicenda. “Dalle prime informazioni che ho assunto e da quanto leggo sui mezzi d’informazione, mi dichiaro totalmente estraneo alle accuse che mi sono mosse, accuse che si appalesano del tutto generiche e inverosimili, per di più, provenienti da persone che hanno già goduto di miti trattamenti giudiziari e che hanno chiaramente evitato una nuova custodia cautelare”.
EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.
Editoria e censura. Sarah Scazzi ed i casi di cronaca nera. Quello che non si deve dire. Quando gli autori scomodi sono censurati ed emarginati. Il caso che ha sconvolto l'Italia e ha cambiato per sempre la cronaca nera in due libri-dossier precisi e dettagliati che fanno la storia, non la cronaca, perché fanno parlare i testimoni del loro tempo. “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese.” E “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. La Condanna e l’Appello”. Sono i libri che Antonio Giangrande ha scritto in riferimento al caso nazionale. In questi libri l’avetranese Giangrande ripercorre da testimone privilegiato in prima persona tutte le tappe del caso: gli interrogatori, lo studio degli incartamenti, le analisi delle tracce sul luogo del delitto, i ragionamenti per entrare nella dinamica del delitto. Da giurista e da sociologo storico inserisce la vicenda in un sistema giudiziario e mediatico che ha trattato vicende similari e che non lasciano spazio ad alcuna certezza. Di Sarah Scazzi si continuerà a parlare a lungo. La vicenda, tra le più controverse nella cronaca recente del nostro Paese, è stata costantemente seguita, commentata e interpretata, anche a sproposito. Antonio Giangrande in questi libri compie un viaggio meticoloso e preciso all'interno delle prove e delle contraddizioni sia del caso giuridico, che dei suoi controversi protagonisti. Antonio Giangrande è un punto di riferimento, è il destinatario della tua prima telefonata per capire cosa sia successo. Le sue analisi sono sempre schiette, appassionate, cristalline. Mai scontate o banali. Puoi anche non essere d'accordo, ma dal confronto ne esci più sapiente. Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia, per una scelta di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale. Questo è un dazio che egli paga in termini di visibilità. Ogni kermesse, manifestazione, mostra o premio a carattere culturale è in mano agli editori. Premi e vincitori li scelgono loro, non il lettore. I giornali e le tv dipendono dagli editori e per forza di cose sono costretti a promuovere gli autori della casa. Il web è uno strumento per far conoscere gli autori sconosciuti. Antonio Giangrande usa proprio il web per raccontarsi. «Sono orgoglioso di essere diverso. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Faccio mia l’aforisma di Bertolt Brecht. “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.” Rappresentare con verità storica, anche scomoda, ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!» Continua Antonio Giangrande «E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. Faccio ancora mia un altro aforisma di Bertolt Brecht “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Si è mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per far sapere quello che non si sa? E questo al di là della convinzione di sapere già tutto dalle proprie fonti? – conclude Giangrande – Si provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Si scoprirà cosa succede veramente in un territorio o in riferimento ad una professione. Cose che nessuno dirà mai. Non si troveranno le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Si troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non si potrà più dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.» “L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri ecc. Libri da leggere anche a costo zero. Se invece volete dargli una mano, regalate un libro di Antonio Giangrande. Scoprirete tutto quello che non si osa dire.
FINANZA E GIUSTIZIA.
«L’archiviazione, falla al più presto per il mio amico Berneschi». Anche l’avvocato Andrea Baldini nelle intercettazioni della maxitruffa: il banchiere lo pressava perché facesse chiudere il caso, scrive Cristina Lorenzi su “La Nazione”. Un pasticciaccio brutto che ha coinvolto banchieri, magistrati, avvocati, professionisti. L’arresto di Giovanni Berneschi, ex presidente di Carige e vice della Cassa di risparmio di Carrara, e di altre sei persone per una presunta truffa ai danni della banca ha avuto come effetto domino una ricaduta su procuratori e avvocati della nostra zona coinvolti dalle intercettazioni telefoniche a ambientali. Nello specifico Berneschi avrebbe avuto un trattamento di favore dal procuratore della Spezia Maurizio Caporuscio, attraverso la gentile intercessione dell’avvocato di Pontremoli Andrea Baldini e della moglie di quest’ultimo Pasqualina Fortunato, detta Lilly, giudice del lavoro alla Spezia. Casus belli il nostro articolo sulla cronaca di Carrara della Nazione attraverso cui lo stesso Berneschi sarebbe venuto a sapere di essere indagato in seguito a una denuncia di Gianfranco Poli, ex titolare della Meg tre, una società specializzata nella produzione di abrasivi. Poli denunciò alla Procura, e sul nostro giornale, di essere stato rovinato, fino al pignoramento di tutti i suoi beni di famiglia, circa 2 miliardi di lire, dallo stesso Berneschi, da Araldo Michelini, funzionario di Carige, e dal figlio di quest’ultimo il commercialista Enrico, adesso irraggiungibile. Dalle intercettazioni emerge che Baldini sarebbe stato incaricato da Berneschi di informasi a che punto era in Procura la denuncia di Poli. In una conversazione registrata i finanzieri annotano: «Sono andato a parlare con Caporuscio...il quale procuratore... al consiglio al quale mi sono presentato e gli ho detto... ehm... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni Berneschi.... che è stato coinvolto e rappresentato... nei giornali... in questa porcheria... vediamo subito!... Ha aperto il computer sì... sì la pratica è qua è nelle mani di Alberto Cossu quindi è riservatissima... me l’ha data solo perchè son io eh!...». Successivamente il 14 aprile scorso Baldini rassicura Berneschi. «Grazie all’intervento di Lilly (sua moglie, ndr) è stata inoltrata una richiesta di archiviazione della posizione di Berneschi». Non si sa se le dichiarazioni di Baldini abbiano riscontri di verità o se, come riferisce di lato lo stesso avvocato, abbia «raccontato un sacco di balle per rassicurare una persona depressa, agitata e instabile», di fatto sulla denuncia per truffa di Poli dalla Procura della Spezia era già partita la tanto attesa richiesta di archiviazione. Richiesta che non avrebbe nemmeno avuto bisogno di tante spinte dal momento che Poli riferisce di fatti avvenuti 20 anni fa e quindi facilmente soggetti a prescrizione. Tuttavia la denuncia sembra bruciasse particolarmente a Berneschi visto che lo stesso Baldini si prende la briga di rassicurarlo: «E’ il più bel giudice che c’è a Spezia... intelligente e buona. Vado da lei a parlarle e le dico Oriana... il mio amico Berneschi... C’è l’archiviazione, falla al più presto possibile. Lei lo archivia e a questo punto siamo liberi di fare tutto quello che vuoi». E Berneschi risposte: «Il giornalista che scriva quattro righe. Sulla diffamazione gli voglio far paura eh». Con Berneschi, 77 anni, sono finiti nei guai anche l’ex numero uno di Carige Vita, Ferdinando Menconi, 67 anni, l’imprenditore immobiliare Ernesto Cavallini, 66, sono tutti e tre ai domiciliari. L’avvocato svizzero Davide Enderlin, 42 anni, l’imprenditore Sandro Calloni (61), il commercialista Andrea Vallebuona (51) e la nuora di Berneschi Francesca Amisano (48) sono invece in carcere. Le ipotesi di reato vanno dalla truffa al riciclaggio.
Carige - Indagine su 4 magistrati talpe di Berneschi: nomi e dettagli, scrive “Oggi Notizie”. Se nei giorni scorsi si diceva che era partita la caccia alla cosiddetta talpa in Procura che avrebbe aiutato Giovanni Berneschi, quando era presidente del Cda di Carige Spa a portare a termine la truffa e il riciclaggio ai danni della stessa banca, ora, mentre le indagini procedono serrate, ecco che si scopre come le talpe, in realtà, sarebbero state almeno quattro, e le procure coinvolte tre. La Procura di Torino ha infatti ricevuto da quella di Genova gli atti relativi a sospetti contatti tra magistrati vicini a Berneschi. Le procure interessate sono quella di La Spezia, Savona e Milano. Nello specifico Berneschi, secondo quanto emerge dalle indagini della Guardia di finanza di Genova nel merito della presunta truffa a Carige e Carige Vita Nuova, attraverso l'avvocato di Pontermoli Andrea Baldini e la moglie di quest'ultimo, Pasqualina Fortunato, detta Lilly, magistrato del lavoro a Spezia, avrebbe avuto un trattamento di favore dal procuratore della Spezia Maurizio Caporuscio. A Savona il procuratore Francantonio Granero, procuratore capo, il cui figlio Gianluigi Granero è consigliere del Cda di Carisa, avrebbe offerto suggerimenti processuali a Berneschi nell'ambito del crack Geo Costruzioni in cui risulta indagato. A Genova l'ex vice presidente di Carige Vita Nuova Ferdinando Menconi avrebbe assunto informazioni da un "vice procuratore" sull'indagine sulla Carige. Tutto ciò si evince dalle intercettazioni telefoniche e ambientali sviluppate dalla Finanza (coordinata dal procuratore aggiunto Nicola Piacente e dal sostituto Silvio Franz). A La Spezia Berneschi aveva appreso il primo marzo del 2013 da un articolo della Nazione di essere indagato in seguito ad una denuncia di Gianfranco Poli, ex titolare della Meg tre, una società specializzata nella produzione di abrasivi. Un funzionario di Carige lo avrebbe portato alla rovina, giungendo al pignoramento di tutti i suoi beni di famiglia. E lui, ad un passo dal tracollo, aveva denunciato tutti, anche Berneschi. Baldini era stato incaricato di informarsi sul caso. In una conversazione registrata i finanzieri annotano: "Sono andato a parlare con Caporuscio... procuratore... al consiglio al quale mi sono presentato e gli ho detto... ehm... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni Berneschi.... che è stato coinvolto e rappresentato... nei giornali... in questa porcheria... vediamo subito!... Ha aperto il computer si... si la pratica è qua è nelle mani di Alberto Cossu quindi è riservatissima... me l'ha data solo perchè son io eh!... Cossu... mi son consultato con lui dico... inc.le... io mi appoggio a Gianardi... va benissimo?". Successivamente il 14 aprile scorso Baldini rassicura Berneschi. "Grazie all'intervento di Lilly (sua moglie) - dice - è stata inoltrata una richiesta di archiviazione della posizione di Berneschi". A Savona, Berneschi è coindagato nell'ambito del crack della Geo Costruzioni. Convocato per un interrogatorio e si era avvalso della facoltà di non rispondere. Dell'episodio l'11 novembre 2013 Berneschi riferisce a Baldini, i finanzieri annotano: "Sono andato a Savona e il giudice mi dice: ma... non risponda per favore (si sente Berneschi ridere) si avvalga della facoltà di non... solo per far casini... e gli ho detto giudice lo dice lei, però se permette le dico anche fuori verbale dico due tre cose... quindi, non ho risposto però però gli ho già detto tutto...". Il giudice è il procuratore Francantonio Granero titolare dell'inchiesta sul crack Geo Costruzioni con Ubaldo Pelosi. Poi Genova. Ferdinando Menconi il 13 febbraio del 2014 dice al telefono: "Il vice procuratore di Genova... mio carissimo amico mi ha detto te non sei... stattene fuori" invitandolo a discostarsi dagli affari in e con Carige. Qualche giorno prima, in un'altra conversazione, Menconi dice: "Ma comunque io credo che a Genova sorprese... c'è il procuratore capo... già procuratore capo momentaneamente... di Di Lecce... che tra l'altro lui mi ha detto che è di sinistra, di magistratura democratica... aver fatto una domanda, allora fra un anno e mezzo va in pensione... chiedo a lui... quello che lo è già stato due anni adesso è vice capo... quasi tutti i sabati beviamo un caffè e tutto... non credo... non credo... poi tutto può.. in quest'Italia, figurati...". Il procuratore di Genova Michele Di Lecce ha affermato di avere inviato questi atti a Torino, procura competente su presunti reati commessi da magistrati liguri.
Carige e lo scandalo talpe, indagine su 4 giudici, scrive "Il Secolo XIX". L’inchiesta sulla maxi-truffa a Carige si trasforma in uno tsunami per pezzi da Novanta della magistratura ligure. La Procura di Genova invia infatti a Torino tutte le intercettazioni nelle quali banchieri, immobiliaristi e prestanome arrestati giovedì scorso, chiamano in causa almeno quattro fra giudici e pm quali presunte “sponde” nella loro ricerca di protezioni e informazioni segrete. È un passaggio cruciale, che si consuma mentre vengono depositate nuove carte nel fascicolo che ha portato ai domiciliari in particolare l’ex presidente di Carige Giovanni Berneschi, l’ex numero uno del comparto assicurativo Carige Vita Ferdinando Menconi e l’immobiliarista Ernesto Cavallini. I primi due, secondo l’accusa, erano soci occulti dell’imprenditore, e facevano comprare a Carige Vita immobili e società di Cavallini a prezzi spropositati; poi si dividevano la “cresta”, che nascondevano all’estero tramite vari prestanome. Dai nuovi documenti si capisce meglio quali erano, potenzialmente, «le inquietanti entrature» di Berneschi e Menconi «in ambienti giudiziari in tutta la Liguria». Partendo da Genova, il primo magistrato su cui si concentrano gli accertamenti è l’attuale procuratore aggiunto Vincenzo Scolastico. È Menconi a circoscriverne la figura parlando con Walter Malavasi, che di Carige Assicurazioni è stato condirettore generale. Non lo nomina direttamente, ma definisce «carissimo amico con cui prendo il caffè ogni sabato» il magistrato che ha retto la Procura genovese prima dell’insediamento di Michele di Lecce, e che attualmente gli fa da vice. Solo Scolastico corrisponde a quel ritratto e al Secolo XIX risponde: «Non si fa mai il mio nome; inoltre, io ho la scorta e si potranno facilmente verificare i miei movimenti. Conoscere Menconi? In Liguria si può sapere chi sono i massimi dirigenti di una banca, ma escluso un rapporto di frequentazione come quello descritto in quelle conversazioni». «Situazione delicatissima», per sua stessa ammissione, è quella dell’attuale procuratore capo della Spezia Maurizio Caporuscio. Un colloquio telefonico fra l’avvocato spezzino Andrea Baldini (ex componente cda Carige) e Berneschi rivelerebbe come proprio Caporuscio fece in modo che fosse fornita all’ex numero uno dell’istituto genovese la copia d’una denuncia «riservata», che l’imprenditore Gianfranco Poli sporse contro lo stesso Berneschi per truffa. Non solo. Sempre Baldini spiega a Berneschi che grazie all’intercessione «della Lilly» (per i finanzieri si tratta di sua moglie Pasqualina Fortunato, magistrato del lavoro di nuovo alla Spezia) la Procura chiederà l’archiviazione del fascicolo. «Al momento non voglio aggiungere altro - conclude Caporuscio - risponderò a chi mi verrà a chiedere conto». Baldini rifiuta invece commenti su di lui e la moglie: «Siete molto cari - dice al telefono - arrivederci e tante grazie». In un altro stralcio si fa riferimento a un terzo magistrato spezzino, una donna dal nome forse travisato nelle registrazioni, che avrebbe favorito l’archiviazione. L’ultimo capitolo preso in esame sul fronte toghe chiama in causa capo dei pm savonesi Francantonio Granero. Berneschi, discutendo con il manager Carige Antonio Cipollina di un interrogatorio cui doveva essere sottoposto a Savona, dov’è indagato per la bancarotta del costruttore Andrea Nucera, dice che Granero gli avrebbe suggerito di non rispondere. E ribadisce di aver parlato con lui del figlio Gianluigi Granero, membro del cda della Cassa di risparmio di Savona (controllata da Carige). «Tutto falso - replica Francantonio Granero - e sporgerò querela semplicemente perché non l’ho mai incontrato».
Talpa in Procura anche Torino indaga su Carige. Si cerca chi anticipava le mosse degli inquirenti. Nelle carte sequestrate il piano “Mungi la mucca”. Teodoro Chiarelli su “La Stampa”. La caccia alla talpa può partire. Gli atti sull’informatore all’interno della procura di Genova sul quale potevano contare l’ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi, e l’ex boss della controllata Carige Vita Nuova, Ferdinando Menconi, arrestati con altre 5 persone per associazione a delinquere finalizzata alla truffa e al riciclaggio, sono in partenza per la procura di Torino, competente sui magistrati del capoluogo ligure. Lo conferma il procuratore capo, Michele Di Lecce, che ha affidato il coordinamento delle indagini dalla Guardia di Finanza all’aggiunto Nicola Piacente e al pm Silvio Franz. «Devo uscirne perché sento odore di procure - dice, intercettato, Menconi -. Ho delle previsioni... il viceprocuratore di Genova, mio carissimo amico, mi ha detto... stattene fuori». Menconi però si sente le spalle coperte e qualche tempo dopo parlerà dei magistrati che hanno in mano l’inchiesta Carige: «Quello lì - dice riferendosi al pm Silvio Franz - sogna di risolvere un problema che non ha risolto in sette anni, in realtà non risolve un cazzo». Previsione errata: passa qualche mese, Menconi viene arrestato. Nelle 122 pagine dell’ordinanza del gip Adriana Petri ci sono anche altri riferimenti. Primo novembre 2013, Berneschi dice all’avvocato toscano Andrea B.: «Devi farmi un piacere, devi vedere se a Genova c’è qualche contenitore a nome mio, mi segui? Mi hai capito?». Risponde il legale: «No, per ora mi risulta che è tutto contro ignoti». Ed ecco la telefonata fra Menconi e Sandro Maria Calloni, prestanome di Berneschi: «Lo trasmettono due miei amici che son venuti qua due volte... il capo della sala operativa a Roma dell’Interpol, se gli chiedi... gli dai un nome e un numero, data di nascita, nome e cognome ti leggono la vita e tutto... Prima avevo anche la Legione Carabinieri, l’Investigativa qui di via... dove c’è la Questura... Il numero uno... a prendere il cappuccino più volte... poi lo abbiamo aiutato... andato ai Servizi... Ma quello là, l’accertatore è un carabiniere, chiamo loro e gli dico chi è questo testa di cazzo, sai quello che minacciava... l’han buttato fuori». La gestione disinvolta e truffaldina ha finito per creare una voragine nei conti, mentre il titolo in Borsa è crollato nel giro di due anni, bruciando i risparmi di migliaia di piccoli azionisti. Duecento di questi hanno promosso una class action e si sono affidati all’avvocato Mirella Viale dello studio legale bolognese Galgano. Ieri la sesta sezione del tribunale civile di Genova avrebbe dovuto decidere sull’ammissibilità dell’iniziativa: si è invece dichiarata incompetente, rimandando la questione alla prima sezione. Se ne riparla fra una decina di giorni. Sempre ieri la nuora di Berneschi, Francesca Amisano, è stata interrogata per due ore in carcere dal Gip. «Ha risposto a tutte le domande - dice il suo avvocato, Enrico Scopesi - Ha detto di non sapere nulla della provenienza del denaro. E di essersi limitata a eseguire regolari operazioni di compravendita». Il lavoro degli inquirenti, intanto, si allarga. Durante le ultime perquisizioni nelle case degli indagati sono stati trovati appunti, accordi e anche il business plan dell’operazione “Mungi la Mucca”, quella che secondo gli inquirenti ha portato Banca Carige, guidata dall’ex padre-padrone Berneschi, a ripianare i debiti del ramo assicurativo, nominare ad Menconi e farlo diventare filtro di acquisizioni supervalutate. L’operazione serviva per costituire le plusvalenze che, tramite la società dell’immobiliarista Ernesto Cavallini, finivano in Svizzera. “Mungi la Mucca”, appunto. Ossia Carige Vita Nuova che comprava alberghi, quote societarie, società intere, proprietà immobiliari che venivano stimate da un commercialista che era anche consulente di Carige (Andrea Vallebuona, arrestato) che provvedeva a gonfiarne il prezzo. Nell’inchiesta ci sono altri quattro indagati per riciclaggio in concorso: le mogli di Menconi (Adriana Westerweel) e Calloni (Maria Imelda Bellini Dominguez), il commercialista Alfredo Averna, collega di Vallebuona (arrestato) e l’avvocato Ippolito Giorgi di Vistarino. Nell’inchiesta “madre” su Carige, nata dalla relazione di Bankitalia, ci sono invece una decina di indagati: ostacolo alla vigilanza e falso in bilancio.
Carige, nel 2002 inchieste archiviate. Il gruppo era sponsor della squadra del GIP.
Dall'ordinanza che ha portato all'arresto dell'ex presidente Berneschi emergono rapporti strettissimi con giudici e forze dell'ordine. Entrature grazie alle quali poteva verificare l'esistenza di procedimenti a suo carico e addirittura condizionarne l'andamento. E sui dipendenti a rischio diceva: "Quelli si mandano via", scrive Ferruccio Sansa da Il Fatto Quotidiano di sabato 24 maggio 2014. “Sento odore di Procure… io c’ho delle previsioni… il vice procuratore di Genova… mio carissimo amico… mi ha detto che non sei… stattene fuori…”, così dice al telefono Ferdinando Menconi, ex numero uno di Carige Vita Nuova e braccio destro di Giovanni Berneschi indicato dai suoi amici come il “Magro”. A Genova vacilla anche il Palazzo di Giustizia. Si apre il capitolo sui rapporti della magistratura con un potere per anni risparmiato dalle inchieste. E la Liguria si scopre malata fino al midollo. Sono finiti in manette gli uomini che hanno dominato la regione, quelli cui tutti – a destra e a sinistra – baciavano la pantofola. Prima Claudio Scajola, re del Ponente. Poi Luigi Grillo, che dominava a Levante. Quindi Giovanni Berneschi, che con la sua Carige (dove sedevano mezza famiglia Scajola, amici del centrosinistra e uomini della Curia) teneva i cordoni della borsa e distribuiva centinaia di milioni di finanziamenti (come all’operazione immobiliare degli Erzelli, voluta dal centrosinistra e sponsorizzata da Giorgio Napolitano). Intanto l’amico Ior comprava – e rivendeva – cento milioni di bond Carige. Liguria, primatista di scandali. Qui sono in ginocchio la Lega di Francesco Belsito e l’Idv di Giovanni Paladini e Marylin Fusco. Quasi mezzo consiglio regionale è nei guai per i rimborsi. Le “entrature” negli ambienti giudiziari – Ora tocca alla magistratura. Come mostra l’ordinanza che ha portato all’arresto di Berneschi, Menconi e altre cinque persone (ci sono dieci nuovi indagati). Così il gip Adriana Petri motiva l’arresto di Berneschi: “Il pericolo di inquinamento probatorio è testimoniato da intercettazioni che hanno evidenziato presunte entrature negli ambienti giudiziari di Genova e di La Spezia per tramite dell’avvocato Andrea Baldini (originario di Pontremoli, marito di magistrato e considerato vicino alla famiglia del suo concittadino, il sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri, ndr), al quale egli avrebbe ripetutamente chiesto di verificare se vi sono procedimenti giudiziari a suo carico”. Il gip parla di “inquietante scenario… del legale che apprende da personale addetto agli uffici giudiziari e che ha accesso ai terminali riservati della Procura”. Il 28 ottobre 2013 Berneschi chiama Baldini: “Devi vedere se a Genova ci sono contenitori (fascicoli, ndr) a nome mio”. E Baldini: “Qui non c’è ancora aperto niente!… No, per ora non c’è… Da quello che mi risulta dalla persona che si è mossa, è tutto contro ignoti”. Interpol, carabinieri, servizi: solo millanterie? – Ce n’è anche per carabinieri, Interpol e servizi. “Menconi – annota il gip – cita le sue numerose conoscenze presso esponenti di vertice delle varie forze pubbliche”. Ecco l’intercettazione: “…se poi ricade nel penale… gli viene trascritto all’Interpol e lo ricevono anche là! Lo trasmettono due miei amici… son venuti qua due volte… il Capo della Sala Operativa a Roma dell’Interpol, se gli chiedi… prima c’avevo anche la Legione Carabinieri… c’è l’Investigativa dei carabinieri, il numero uno… a prendere il cappuccino più volte… poi lo abbiamo aiutato… andato ai Servizi… ma quello là che fa l’accertatore è un carabiniere, chiamo loro e gli dico…”. Millanterie? I magistrati sono convinti di no. Scrive il gip: “Per ragioni diverse i procedimenti penali che si sono occupati di tale fenomeno si sono chiusi senza che fosse esercitata l’azione penale”. Quali sono le “ragioni diverse”? In Tribunale c’è chi ricorda che proprio la società assicuratrice della Carige, guidata da Menconi e Berneschi, era sponsor della squadra di volley dell’allora capo dell’ufficio gip Roberto Fucigna. Lo stesso, ma è certo un caso, che nel 2002 – dopo un lavoro immane del Gico – archiviò inchieste a carico dei vertici della banca su false fatturazioni e affari immobiliari. Fucigna oggi è in pensione, indagato a Torino per presunte false sponsorizzazioni della sua squadra. Tra i cronisti c’è chi ricorda le reprimende di passati vertici della Procura in occasione di inchieste giornalistiche su imprenditori legati al centrosinistra e soci di Carige, che erano sponsor della squadra di Fucigna oltre ad avere legami di amicizia con gli allora vertici della Procura e della Corte d’Appello. I vertici del Palazzo di Giustizia ora sono cambiati. I 140 dipendenti? “Quelli si mandano via” – Ma le carte genovesi contengono altro. A cominciare dalle operazioni che avrebbero provocato a Carige un danno di 34 milioni. Con il padre padrone della banca che, secondo le accuse, spenna la sua creatura come un pollo: “Vengano a far tutte le indagini che vogliono… non mi possono accusare di riciclaggio, perché è una vita, da 35 anni che accumulo”. Così ecco, a sentire la Finanza e i pm Nicola Piacente e Silvio Franz, il tentativo di Berneschi di ripescare il consuocero morto per usarlo come prestanome quando scopre di essere indagato per altri 13 milioni scudati: “Va bene, io approfitterò del tuo cognome”. La donna (arrestata) si allarma: “Nonno, per favore, qualsiasi cosa ne parliamo un attimino”. Intanto, sostiene l’accusa, la “banda del magro” avrebbe investito dalle Canarie alla Cina, soprattutto nei porti. Fino al progetto di trasferirsi a Panama. Pagine che faranno rabbrividire i dipendenti Carige. Mentre la “banda del magro”, incassati 34 milioni, si scanna per consulenze da 200mila euro, la Carige Vita Nuova rischiava di licenziare: “L’ideale… è che società così… vadano in commissariamento, il commissario manda via i dipendenti… mi preoccupa il fatto c’ha 140 persone…”, dice Menconi. Berneschi, annota il gip, non sembra preoccuparsi: “Quabielli si mandano via”. Il commercialista Vallebuona: “Io i milioni in tasca li ho infilati” - Ecco in 127 pagine il ritratto dell’Italia delle banche, della Liguria del potere. Con frasi inconsapevolmente geniali, come quando Berneschi definisce Menconi “testa di pera”. Come quando parla dei milioni come di “ragazze” e poi di “vecchie un po’ rincoglionite”. Come la “banda del magro”. O quella breve autobiografia stile Blade Runner del commercialista Andrea Vallebuona: “Io qualche cazzatina nella mia vita l’ho fatta… passare un confine con duecentomila… milioni in tasca infilati, io l’ho fatto, morendo di paura… ho capito che poi certe cose era meglio non farle, però le ho imparate sulla mia pelle”. O forse su quella dei dipendenti Carige.
Carige e i regali allo Ior, "Anche il Papa chiamò per avere spiegazioni". Dalle intercettazioni spuntano gli affari con la banca vaticana Il manager: "Assunte 28 persone tra parenti o amanti di giudici", scrivono Giuseppe Filetto e Marco Preve su “La Repubblica”. Anche papa Francesco ha "indagato" su Carige e lo Ior. Le intercettazioni dell'inchiesta che ha portato agli arresti l'ex presidente della banca genovese, confermano l'esistenza di quell'asse bancario Genova-Vaticano che nasconde ancora segreti. Rivelano un inquietante intreccio di rapporti tra l'istituto diretto dal vicepresidente nazionale dell'Abi Giovanni Berneschi e la magistratura ligure: "C'avevamo dipendenti dentro 28 persone, figli, fratelli, padri o amanti di magistrati liguri " dice Ferdinando Menconi ex ad del comparto assicurativo anche lui ai domiciliari. In un'intercettazione dell'11 novembre del 2013, racconta il verbale dei finanzieri della tributaria che "Berneschi parla di papa Francesco che avrebbe chiamato i tre vescovi del ponente ligure a Roma per chiarire la faccenda legata allo Ior. Due giorni fa Berneschi dice di aver ricevuto monsignor Luigi Molinari il quale per conto di Bagnasco (Angelo, cardinale di Genova e presidente Cei, ndr) voleva sapere cosa era successo tra la Fondazione e lo Ior". Si tratta dell'operazione del 2010 voluta dal presidente di Fondazione Carige Flavio Repetto (nemico giurato di Berneschi). In pratica 100 milioni di euro di obbligazioni acquistate dallo Ior che però non si trasformarono in azioni come preventivato e vennero poco dopo rilevate dalla Fondazione la quale, peraltro, non incassò i diritti visto che "aveva deliberato di metterli a disposizione dello Ior". Berneschi si confida con l'attuale vicepresidente della Fondazione Roberto Rommelli: "Lo Ior, non puoi regalare da 7 a 9 milioni al... Papa, no, non c'entra il Papa.. a Bertone, mi segui?". Sull'operazione il ministero delle Finanze ha chiesto chiarimenti, anche alla luce delle elargizioni, 2008 e 2010, della Fondazione ad ambienti vicini al cardinale Tarcisio Bertone: 300mila euro alla Lux Vide per i dvd della fiction La Bibbia e 90mila euro per le stole dei vescovi. Dal sacro al profano, ossia le relazioni "proibite" tra il potente banchiere e i magistrati. L'episodio più inquietante è quello che riguarda La Spezia. Berneschi utilizza l'avvocato Andrea Baldini, ex consigliere Carige, affinché si interessi della querela presentata contro di lui da un imprenditore della Val di Magra, Gian Paolo Poli. Il legale lo aggiorna: "Sono andato a parlare con Caporuscio (Maurizio, procuratore capo, ndr) e gli ho detto... ehm ... dico guarda vengo qua per un amico carissimo che è Giovanni Berneschi vediamo subito! ... ha aperto il computer sì ... sì la pratica è qua, è nelle mani di (segue nome di un pm, ndr) quindi è riservatissima... me l'ha data solo perché son io eh!". Baldini informerà successivamente Berneschi che è stata chiesta l'archiviazione e lui andrà dalla gip che "tra l'altro è una f...". La moglie, il giudice Pasqualina Fortunato, interviene nel colloquio spiegando che non è riuscita a convincere una segretaria ad ottenere informazioni e allora ha detto al marito: "Andrè, va a parlà tu cò Maurizio direttamente". Altro fronte imbarazzante quello genovese dove Menconi al telefono con un amico spera che l'attuale procuratore capo Michele Di Lecce vada presto in pensione e spiega che gli è stato detto da "quello che (procuratore) lo è già stato due anni e adesso è vice capo... quasi tutti i sabati beviamo un caffè". Il riferimento sembra essere a Vincenzo Scolastico, unico ad aver ricoperto la funzione, che però nega categoricamente tale frequentazione. Sembra invece pura millanteria il riferimento ad un colloquio che Berneschi dice di aver avuto con il procuratore di Savona Francantonio Granero (il figlio Gianluigi è consigliere della controllata Carisa) quando il banchiere venne indagato per la prima volta. Granero nega di aver mai incontrato Berneschi. Parlando della polemica tra la Coop e Esselunga che a Genova incontrò grandi difficoltà ad aprire un punto vendita, Menconi dice "l'artefice del rinvio è stato Berneschi... la sinistra, c'avevamo dipendenti dentro 28 persone, figli, fratelli, padri, amanti di magistrati liguri". Berneschi racconta invece di quando fu processato e assolto per la scalata alla Bnl: "Sulla pratica Bnl... non ho sbindato di una virgola, però ... se avessi avuto paura e dicevo "eh si quelli dell'Unipol mi hanno fatto delle pressioni" il signor Cimbri (Carlo, ad Unipol, ndr) era morto".
Anche l’Ing De Benedetti è intoccabile, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Anche mia nonna invecchiando si fece un po’ più dura. Ma mai quanto Carlo De Benedetti. La sua è una parabola micidiale. Sembra quel cartone animato, Cattivissimo me. Nella fiction il cattivone è un buono, ha solo l’aria dello spregiudicato delinquente. Deb, l’Ing, Cdb, insomma il Nostro, invece sta diventando proprio cattivello. Proviamo a citare i suoi ultimi bersagli. «A Marchionne darei un voto 4 in sincerità, a Romiti zero, a Elkann il voto dei nipoti. Colaninno? Un poveraccio. Agnelli? Un pessimo imprenditore. Il Vaticano una fogna. Tronchetti? Un incapace». E poi ancora sulla gestione Telecom da parte di Mtp: «La comunicazione è fatta bene, la rapina ancora meglio». Ma guai a replicare. Ci ha provato, incautamente, Tronchetti e si è beccato una querela e un’inchiesta da parte della Procura di Milano per diffamazione a mezzo stampa, con annessa aggravante della continuità del reato. Insomma Mtp rischia il carcere perchè Carletto non tollera la seguente frase: «Se anche io raccontassi – si legge nell’avviso di conclusioni indagini, in riferimento ad una dichiarazione rilasciata all’Ansa da Tronchetti – la storia delle persone attraverso i luoghi comuni e gli slogan, potrei dire che l’ingegner De Benedetti è stato molto discusso per certi bilanci Olivetti, per lo scandalo legato alla vicenda di apparecchiature alle Poste italiane, che fu allontanato dalla Fiat, coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano, che finì dentro per le vicende di Tangentopoli…». Abbiamo cercato di ricostruire punto per punto i casi citati da Tronchetti per capire dove ci fosse la diffamazione o il sanguinario insulto da dover lavare con una pena massima, comprese le aggravanti, di sette anni.
LO SCANDALO LEGATO ALLE POSTE. Se c’è una cosa sicura come il sole sono le tangenti pagate dalla Olivetti, guidata da De Benedetti, per fornire apparecchiature alle Poste. Non è un luogo comune, è una certezza. E a confessarlo, assumendosene la responsabilità, è lo stesso De Benedetti. In questo senso Tronchetti è fin troppo generoso. Una domenica mattina, in piena bufera Tangentopoli, Deb si presenta in una caserma dei carabinieri (è il 16 maggio del 1993) e ammette davanti a Di Pietro di aver pagato stecche per una ventina di miliardi di lire, di cui solo 10 per forniture alle Poste. Presenta un memoriale in cui racconta la rava e la fava. Repubblica, di sua proprietà, in un famoso titolo detta la linea della casa: «Era un clima da racket, o pagavi o non lavoravi». De Benedetti pagò. Eccome. Solo dopo un paio di giorni rilascia un’intervista al Wall Street Journal, sperando, forse, che De Pietro non avesse il tempo di leggerla, o non capisse l’inglese. La reporter, Lisa Bannon, nota: «De Benedetti non chiede scusa per le tangenti pagate e dice che lo rifarebbe, perchè queste erano le regole del gioco negli anni 80». Cdb, tra le virgolette, dichiara: «Lo rifarei con lo stesso disgusto con cui l’ho fatto negli anni passati». Insomma è il contesto che gli fa fare quelle cose brutte. Ohibò. Chissà se oggi, per fare un esempio, l’Expo può ispirare medesime giustificazioni. Il filo tra concussione e corruzione è sempre sottile. Come quello che c’è tra dichiarazione spontanee e paracule. Cdb all’epoca disse di essersi liberato da un macigno nel fornire il suo dossier a Di Pietro. Eppure nel medesimo documento scrive, riguardo alle tangenti alle Poste: «Ho visto che è circolato il nome Olivetti». Inoltre avevano già pizzicato tal Lo Moro, il grande collettore delle mazzette Olivetti. Insomma il cerchio si stava chiudendo. La dichiarazione è spontanea, ma giusto un attimo prima…Quanto è valso all’Olivetti di De Benedetti sottoporsi a questo racket? In cinque anni circa 600 miliardi di lire. Nel 1987 Ivrea fatturava 2 miliardi con le Poste, l’anno dopo 205 miliardi. Già nel 1983 Olivetti aveva predisposto una bella voce di bilancio per l’abbisogna. La dicitura era: spese non documentate. Insomma si erano preparati contabilmente a subire quei mascalzoni dei politici. Indro Montanelli su questo giornale scrisse: «Forse i piccoli e indifesi devono subire, ma per i grandi che avrebbero avuto tutti i mezzi – compresi i più autorevoli organi di stampa – per resistervi, la corsa al Principe era non solo voluttuaria, ma anche voluttuosa». Tronchetti non si preoccupi, la memoria sulle tangenti viene e va all’Ing. Due settimane prima della consegna del memoriale a Di Pietro, lo stesso Ingegnere davanti all’assemblea degli azionisti e in conferenza stampa giurava: «Non ho mai pagato tangenti». Dopo due settimane mise nero su bianco il contrario. In seguito Cdb provò a difendersi: queste cose «si dicono prima ai magistrati e poi alla stampa». Ahi ahi ahi, non ci siamo anche con questa. Circa dieci anni prima, il 16 giugno del 1985, lo stesso Ingegnere, meno rispettoso evidentemente delle prerogative della magistratura, urlò al mondo intero: «Per l’affare Sme mi hanno chiesto tangenti». Dopo qualche settimana fu ovviamente convocato dal magistrato Pasquale Lapadura all’oscuro di tutto, che dopo poco archiviò. Come la mettiamo con la storiella delle tangenti che prima si raccontano ai magistrati e poi alla stampa? Qualcuno può forse contestare che «la vicenda di apparecchiature alle Poste» non sia stata scandalosa? E soprattutto qualcuno ha il coraggio di slegarla da Carlo De Benedetti, dopo che proprio lui ammise tutto con un memoriale e un’intervista cazzuta al Wall Strett Journal?
L’INGEGNERE FINI' DENTRO PER TANGENTOPOLI. Anche questa affermazione è vera. Della tangentopoli postale abbiamo abbondantemente parlato. Sergio Luciano, in un’intervista per la Stampa, il 18 maggio del 1993 chiese al Nostro: «Oltre che fornire prodotti alle Poste, l’Olivetti ha avuto molti altri rapporti con la pubblica amministrazione. Ha dovuto pagare anche per questo? Risposta di Cdb: «Non posso rispondere, c’è il segreto istruttorio». Bene così. Poche settimane prima uno dei manager di punta delle sue aziende (la Sasib) aveva ammesso di aver pagato due miliardi estero su estero a Dc e Psi, relativamente ad alcuni appalti per la metro milanese. Si parlò di stecche per i pc dei magistrati e del sistema informatico dell’Inps. Ma il punto fondamentale è: l’Ingegnere finì o non finì in galera? Per una giornata, per una benedetta giornata, la risposta è sì. A Roma, a Regina Coeli. Dal memoriale, cosiddetto spontaneo, sono passati solo sei mesi. Il 31 ottobre del 1993 due magistrati romani, Maria Cordova e il gip Augusta Iannini, spiccano un mandato di cattura. A Milano l’Ing è indagato; a Roma temono che possa inquinare le prove o reiterare il reato. La Repubblica ci dice che entra in carcere con doppiopetto grigio e camicia celeste e che, dopo le formalità del caso e l’ufficio matricola, gli verrà consentito di mantenere la fede al dito. Il cronista, con enorme sprezzo del pericolo, nota come lo psicologo di Regina Coeli «sia rimasto colpito dalla chiacchierata con De Benedetti e che alla fine i due si sono salutati come vecchi amici». Più dura la Iannini che spiega i motivi del provvedimento per la «pericolosità sociale» e il rischio di reiterazione del reato. Il pm lamenta che ci sono fatti nuovi: macchinari scadenti accatastati al ministero. Gli arresti si tramutano dopo poco in domiciliari. Il processo finirà con assoluzioni e prescrizioni. Ma una cosa è certa: l’Ing tecnicamente dentro c’è finito. E lo diciamo senza alcun compiacimento. La Iannini recentemente alla nostra Anna Maria Greco ha detto: «L’ordinanza di custodia cautelare emessa su richiesta della Procura nel confronti dell’Ingenger De Benedetti è abbondantemente motivata, mettendo in luce una serie di elementi esistenti a carico dell’indagato» che nell’interrogatorio di garanzia aveva ammesso di aver pagato «alcuni miliardi per corrompere al ministero delle Poste chi aveva garantito all’Olivetti l’acquisto di telescriventi obsolete». Comprendiamo sia duro ricordare l’episodio alla ex tessera numero uno del Pd, come all’epoca fu duro per Eugenio Scalfari ammettere che De Benedetti non fosse quel «cavaliere solitario non intaccato da nessuna macchia e nessun compromesso» che il direttorone sperava.
DE BENEDETTI E' STATO DISCUSSO PER MOLTI BILANCI OLIVETTI. La parola discusso è il minimo che si possa dire. L’ingegnere De Benedetti è stato indagato per false comunicazioni sociali, falso in bilancio e insider trading. E se non fosse stato per le cosiddette (proprio dal gruppo De Benedetti) leggi ad personam fatte da Silvio Berlusconi, oggi probabilmente avrebbe la fedina penale meno linda. Un po’ di discussione la concediamo dunque? Sarebbe erroneo dire che l’Olivetti sia tecnicamente fallita. Ma che i suoi bilanci siano stati un colabrodo questo è provato. Nell’estate del ’96 succede il patatrac. Negli ultimi tre anni Ivrea aveva perso ai livelli di un ubriaco al tavolo della roulette: 3mila miliardi di lire. Nel settembre del 1995, l’ubriaco aveva chiesto ai soci risorse fresche per 2.250 miliardi. A luglio del 1996 l’Ingegnere si dimette da amministratore delegato per lasciare il posto a Francesco Caio che si porta con sè come capo della finanza Renzo Francesconi. Dopo poche settimane di lavoro i due capiscono che le cose sono peggio del previsto, l’azienda è in coma etilico, e vogliono nuovi quattrini e un piano di salvataggio da parte di Mediobanca. Caio mette nero su bianco le sue considerazioni pessime sui conti. Il titolo crolla. La semestrale post aumento di capitale brucia 440 miliardi. L’uomo dei numeri sbatte la porta e dice: «Sul piano strategico si possono fare mediazioni, sui numeri e la cassa, no». La Procura di Ivrea e la Consob iniziano ad indagare. Che sta succedendo nei bilanci di Olivetti? Passa qualche settimana e i giudici di Torino aprono un fascicolo per insider trading. L’Ing. avrebbe venduto allo scoperto titoli Olivetti prima della semestrale, per poi ricomprarli a valori più bassi dopo la stessa. Giulio Anselmi sulla prima del Corriere della Sera il 18 settembre di quell’anno scrive: «Tutti ricordano nel caso Olivetti quattro bilanci consecutivi accompagnati da promesse di pareggio. C’è da stupirsi se diffidando della trasparenza contabile delle aziende italiane si dà credito ai giudici». E ancora «il dato più grave e sconcertante è il fatto che l’ipotesi di enormi perdite occulte nei conti del gruppo di Ivrea non sia apparsa immediatamente inverosimile, ma sia stata considerata da tutti, analisti finanziari, banchieri, gestori di patrimoni tristemente possibile fino a prova contraria». La storia finisce con un patteggiamento per l’insider trading che gli costerà 50 milioni. Anche la partita del falso in bilancio si conclude con un patteggiamento. Ma la sentenza nel 2003 viene revocata. Sapete perchè? Grazie alla revisione del reato di falso in bilancio introdotta nel 2002 da Berlusconi. E non diteci che sui bilanci di Deb e sui falsi non ci sia stata alcuna discussione. Tronchetti, se proprio vogliamo, si è dimenticato il caso di insider. Su cui la discussione si è chiusa con un patteggiamento.
DE BENEDETTI COINVOLTO NELLA BANCAROTTA DEL BANCO AMBROSIANO. Vi diciamo subito che questa vicenda è davvero intricata. E a beneficio degli avvocati dell’Ingegnere che, come si è capito, sono dal grilletto facile, bisogna dire che il Nostro alla fine ne è uscito pulito. Chiaro? Pulito. Assolto dalla Cassazione. Ma il punto resta. Tutto si può dire tranne che l’Ing. non sia stato coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano. Se non si può dire neanche questo, bisognerebbe fare una legge speciale per la quale appena si nomina l’Ing. si inizi a cospargere di petali il suolo e si declami: bello, bravo e buono. Vi risparmiamo i dettagli. Ma la cosa è semplice. De Benedetti fa un passaggio veloce nel Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Ci rimane, come vicepresidente e azionista, per una sessantina di giorni. Lui sostiene di esserne uscito senza una lira di plusvalenza. L’universo mondo pensa che abbia realizzato un guadagno di 30 miliardi. Peppino Turani dalla Repubblica sintetizzò: «Calvi si è dichiarato pronto a riacquistare le sue azioni (51,5 miliardi più gli interessi) e a comprare le azioni Brioschi, di futura emissione, per 32 miliardi. De Benedetti non ha potuto rifiutare l’affare». I magistrati di Milano prima ipotizzano l’estorsione: Deb sapeva dei conti in profondo rosso del Banco e per il suo silenzio e uscita di scena, si è fatto profumatamente liquidare. La tesi viene respinta dal Tribunale. Ma si insinua un nuovo reato: la bancarotta fraudolenta. L’Ing. si fa liquidare sapendo del prossimo fallimento della banca. Viene condannato in primo grado a sei anni, in secondo ridotti a quattro. La Cassazione casserà per una illogicità procedurale. Ma è netta, poichè neanche rinvia ad un possibile riesame. De Benedetti ne esce pulito. Per scappare dal Banco ci mette 65 giorni, per liberarsi da questo gorgo giudiziario nove anni. Vi risparmiamo le dure critiche ai giudici che lo hanno condannato, alle insinuazioni e alle ispezioni che sono state fatte ai magistrati dell’accusa. Tutto troppo simile al caso Berlusconi, con la drammatica differenza del diverso esito in Cassazione. E allora si può dire che l’Ingegnere sia stato coinvolto nella bancarotta dell’Ambrosiano? Decidete voi. Con una postilla d’obbligo (prima di sparare, avvocati dell’Ing., leggete): e cioè De Benedetti è stato alla fine assolto. Buon per lui.
DE BENEDETTI FU ALLONTANATO DA FIAT. Un signore che conosce bene la Fiat di quegli anni, per averci lavorato, mi dice: «nel 1976, quando De Benedetti diventa amministratore delegato della Fiat e azionista al 5%, i soci erano debolissimi. Io non so se l’Ingegnere avesse in mano le carte per una scalata, di cui pure molto si parlò. In molti, all’epoca, pensavano che un golpe in Fiat si potesse fare. Anzi si può dire che ci furono solo due grandi manager Fiat che non ebbero questa ambizione: Romiti e Valletta. D’altronde De Benedetti poi, in Société Générale de Belgique, una scalata dalle modalità simili la mise in piedi». l nostro resterà al Lingotto per una centinaio di giorni e ne uscirà con un bel gruzzoletto. Appena arrivato non perde tempo, va dall’Avvocato, allora presidente del gruppo, e gli dice: «Bisogna mandare via 20mila persone e 500-700 dirigenti». L’avvocato fece un rapido passaggio per i palazzi romani tornò a Torino e replicò: «Non se ne parla proprio. Nella situazione attuale del Paese non è compatibile un’operazione del genere». Chi allontana chi, allora? Cesare Romiti, l’uomo di Mediobanca in Fiat e anch’egli amministratore delegato del gruppo in quegli anni (due galli in un pollaio, che sciocchezza) in un’intervista rilasciata nel 2013 dice: «De Benedetti piaceva all’Avvocato, ma cominciò presto ad assumere atteggiamenti antipatici: diceva in giro di essere il primo azionista individuale di Fiat. Cosa vera perchè gli Agnelli erano tanti e lui era entrato vendendoci molto bene la sua azienda, la Gilardini. Quando poi mi disse che bisognava cacciare via i dirigenti a lasciare a casa 50mila persone, l’Avvocato rispose: «Mi spiace non si può fare». «Allora me ne vado». «Va bene se ne vada» fu la risposta». E sulla possibile scalata, Romiti dice: «Non escludo che ci pensasse». Scalata o non scalata, anche in questo caso, come in quello del Banco Ambrosiano, è sempre difficile stabilire la verità. Ci sono sfumature che si giocano e nascondono in conversazioni che rimarranno sempre private. Ma pensare che De Benedetti, con le sue idee, potesse essere accettato e anestetizzato in azienda dall’Avvocato è davvero difficile.
RESPONSABILITA' DELLE TOGHE? LA SINISTRA: NO GRAZIE!!!
E' CHIARO CHE LA SINISTRA E' A FAVORE DEI MAGISTRATI E CONTRO I CITTADINI, LORO VITTIME DESIGNATE. SI APPALESA CHI E’ CONTRO I CITTADINI PER TUTELARE LE TOGHE.
Chi sbaglia paghi: anche i giudici si adeguino, scrive Marco Ventura su “Panorama”. In tutti i settori della vita pubblica occorre una nuova rivoluzione che metta al centro il principio della responsabilità e il contrappeso dei poteri. Chi controlla i controllori? Gli arresti e le inchieste ai vertici della Guardia di Finanza offrono una risposta semplice: la magistratura. Ma chi controlla i magistrati? Qui la risposta diventa più complessa, perché non è risolutivo che a controllare i magistrati siano altri magistrati. Le toghe formano una casta o corporazione che dietro lo scudo dell’indipendenza nasconde una struttura e meccanismi di potere politico-correntizio che con l’esercizio della “giustizia” hanno poco a che vedere. Intanto, infuria la polemica per l’inaspettato “sì” a un emendamento leghista alla Camera dei deputati che introduce la responsabilità civile dei magistrati, equiparandoli a tutti gli altri cittadini nell’obbligo di risarcire le vittime degli errori commessi , nel loro caso per “violazione manifesta del diritto” oppure con dolo o colpa grave. Una norma che sarebbe di civiltà, e in linea con un’esplicita e grave condanna europea nonché col referendum che nel 1987 consegnò alle urne la volontà dell’80.2 per cento di italiani favorevoli al principio che “chi sbaglia paga” anche per i giudici, e se non cadesse in coda alla ventennale polemica sull’uso strumentale, politico, della giustizia. Che il dibattito sia inquinato dall’attualità dello scontro politico è provato non soltanto dalla ormai pluridecennale querelle berlusconiana, ma dall’imbarazzo di Matteo Renzi che il 27 ottobre 2013 lanciò la riforma della giustizia portando a esempio “la storia di Silvio”. Che non era Silvio Berlusconi ma Silvio Scaglia, patron di Fastweb che noleggiò un aereo privato per rientrare in Italia e spiegare la propria posizione ai giudici che lo indagavano, ma finì in carcere innocente per 3 mesi, più 9 ai domiciliari. Oggi Renzi dissente dalla responsabilità civile per i magistrati, dall’Asia fa sapere che la norma sarà ribaltata al Senato. Cioè, la riforma può aspettare. L’eguaglianza fra i cittadini anche. Ma il problema è più vasto di quello che può sembrare.
Chi controlla i controllori? Questo è il punto. Interrogativo che si pone per qualsiasi posizione “di controllo”. La parola chiave è proprio “controllo”. Nelle società di cultura anglosassone il metodo applicato alla formazione delle istituzioni e alla giurisdizione è quello che risale a Montesquieu e va sotto il nome di “checks and balances”, ossia “controlli e contrappesi”. È il principio per cui il sistema non riserva a alcun potere una licenza assoluta, incontrollabile e incontrollata. Il succo della democrazia, in paesi come la Gran Bretagna o gli Stati Uniti, sta proprio nel contrappeso tra poteri che si controllano a vicenda. In Italia lo sbilanciamento è sotto gli occhi di tutti e insieme allo strapotere della magistratura (che giudica e sanziona se stessa in termini di carriera e procedimenti disciplinari), emerge il problema della effettiva indipendenza e credibilità. Non basta che un magistrato che ha esagerato nel disprezzo delle regole sia sottoposto a vaglio disciplinare. Occorre che i controllori siano anch’essi controllati e al di sopra di ogni sospetto. La politica deve riconquistare dignità e autorevolezza. Vanno superati dogmi inattuali e smentiti dai fatti (in ultimo dall’inchiesta sul Mose che ha coinvolto il sindaco Pd di Venezia) riguardo a una supposta e inesistente “superiorità morale della sinistra”. Bisogna che accanto a un’effettiva applicazione del principio del “checks and balances” si affermi un altro principio, quello dell’“accountability”. Cioè della verifica. I controllori sono gli insegnanti nelle scuole o professori nelle Università? Bene, chi li valuta? Chi ne controlla i risultati? Chi tiene l’inventario dei risultati concreti e misurabili? Per esempio, qual è il numero di laureati di quella Università che trovano lavoro e ottengono un successo? Qual è il numero di diplomati di un certo istituto che ha conseguito la laurea, e la specializzazione, e il dottorato? E se i controllori sono i super manager di aziende pubbliche, potrà mai esserci una relazione diretta tra la carriera e i risultati anche nel loro caso, o conferme e siluramenti dipenderanno ancora una volta dalla rete di amicizie e dai clan politici? Nella pubblica amministrazione, quando si passerà dal concetto dei premi come parte integrante e automatica dello stipendio, a quello di “premio” realmente selettivo e ponderato, fondato sul conseguimento di obiettivi verificati? In tutto il mondo, specialmente nelle compagnie private, vige il principio dei risultati da conseguire. Si fissano gli obiettivi, a posteriori si valuta se siano stati centrati. Altrimenti non si viene pagati, o addirittura si viene “fired”, licenziati. Non rinnovati. Forse appartiene a questa mentalità anche la sanzione che peserebbe di più sui pubblici funzionari infedeli: la perdita del diritto alla pensione. Se mai il processo sancirà che un reato è stato commesso, perché i pubblici funzionari dovrebbero conservare il diritto alla pensione visto che loro per primi hanno tradito il loro ruolo? Controlli e contrappesi. Verifica dei risultati. Premi e sanzioni. A quando la rivoluzione culturale? Gli italiani favorevoli alla responsabilità civile dei giudici.
Un sondaggio rivela come l'87% vuole che i magistrati paghino per i propri errori, scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Il governo è stato battuto a favore di un emendamento che modifica l'articolo 2 della legge 117/88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie. Cos'è la 177/88? E' la cosiddetta Legge Vassalli sul "risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati". Comporta che, al pari di altre professioni, i magistrati possano rispondere risarcendo il danno qualora compiano un atto con dolo o colpa grave, parificando la loro responsabilità a tutti gli impiegati civili dello Stato. In caso di colpa semplice o errore è lo Stato a risarcire le vittime. Una legge che, quando promulgata, venne giudicata troppo morbida da diverse parti e, soprattutto, che travisava i risultati del referendum dell'anno precedente. Referendum che stravinse con l'80% dei "Sì". Referendum presentato dai Radicali allo scopo di abrogare le opportune norme per stabilire che ci esistesse una responsabilità civile anche per i giudici. Del resto, dopo oltre venticinque anni, i casi di risarcimento effettivo da parte di magistrati si possono contare sulla punta delle dita. Invece, i cittadini sono oggi della stessa opinione di venticinque anni fa. Sia quelli che sono nel frattempo invecchiati, sia quelli che nel 1987 non erano ancora nati. Più precisamente il nostro ultimo dato a rilevato lo scorso anno ci dice che l'87% degli italiani maggiorenni è d'accordo con l'affermazione: “un magistrato che sbaglia dovrebbe essere responsabile della propria azione”. Il dato è perfettamente concorde con la nostra rilevazione precedente del 2010, i cui risultati davano 86%. Sul tema, dunque, il pensiero degli italiani è chiaro e non muta almeno da un quarto di secolo. Ma non ce l'anno fatta vincendo un referendum e non ce l'anno fatta con un Berlusconi fortissimo. Ci riusciranno oggi?
Sbatti l'azienda in prima pagina. Troppo spesso la magistratura è entrata a gamba tesa nella vita delle imprese, lanciando inchieste che poi si sono sgonfiate. Lo dimostrano le accuse della Procura di Parma sul caso Lactalis-Parmalat. Un copione che potrebbe ripetersi su Unipol-Sai e Ilva. Come ha chiesto Giorgio Squinzi, è un problema che va finalmente affrontato, scrive Oscar Giannino su “Panorama”. In nessun paese avanzato asset industriali restano per anni sotto il pieno controllo della magistratura. Il tema è stato seccamente posto da Giorgio Squinzi, all’ultima assemblea annuale di Confindustria. Poiché l’Italia ha tra i suoi numerosi nervi scoperti quello della legalità, i più hanno finto di non sentire. Ma è un errore di ipocrisia. Il tema andrebbe invece affrontato. Seriamente. Non è solo una questione di principio, visto che per dato di fatto i magistrati non hanno la competenza adeguata per giudicare piani aziendali, esaminati invece da periti delle Procure "attenti", come ogni perito di parte, ai fini del committente. Basta esaminare tre casi eclatanti in corso da anni, per capire che il problema esiste. Parmalat, Ilva e Unipol-Sai. In Parmalat, società quotata e dal luglio 2011 controllata dalla multinazionale francese Lactalis, solo il 26 maggio la Corte d’Appello di Bologna ha posto fine a un anno e mezzo di reiterate pronunzie della Procura di Parma volte alla revoca del cda e del consiglio sindacale, a seguito delle indagini civili e penali per l’acquisto di Lactalis America nel 2012. I procedimenti civili sono ora estinti, quelli penali no. A fine 2013 il cda si è dimesso, ad aprile in assemblea ne è stato eletto uno nuovo. Ma nell’anno e mezzo di scontro giudiziario nessun peso sembravano avere i risultati che Parmalat accumulava: nuove acquisizioni in Australia e Brasile, 24 prodotti nuovi nei 31 paesi in cui il gruppo opera, crescita del fatturato a parità di perimetro dai 4,4 miliardi del 2011 ai 5,7 nel 2013, aumento del margine operativo lordo da 374 a 493 milioni. Per l’Ilva, a luglio saranno due anni dall’arresto dei Riva. Da allora, una sfilza di provvedimenti giudiziari e molti divergenti nel merito, due decreti ad hoc dei governi Monti e Letta. Ma siamo al punto che il commissario straordinario Enrico Bondi ha un piano industriale che non convince né i privati né il pubblico, visto che il premier Matteo Renzi ha detto "così non va", promettendo novità a breve. La sopravvivenza delle produzioni è più che mai in gioco, le bonifiche e i relativi capitali ancora da vedersi. Per le indagini aperte dalla Procura di Milano sui concambi tra Unipol e Fonsai, è stato il senatore pd Massimo Mucchetti, di certo non sospettabile di pregiudizi avversi ai pm e favorevoli alla Consob di Giuseppe Vegas, a scrivere su Repubblica tutti i suoi dubbi, sul fatto che il magistrato possa far sicura questione di diritto partendo da opinabili valutazioni sulle analisi quantitative dei prezzi. Servirebbero interventi di legge. Volti a porre argini a una deriva cominciata con la legge 231 del 2011, che estende all’impresa, ai suoi manager e controllanti responsabilità amministrative e penali per reati compiuti da dipendenti. E che poi via via, con ordinanze e decreti ad hoc sui singoli casi aziendali, ha esteso le facoltà della magistratura di nominare commissari giudiziali che diventano capiazienda, e di inibire cda regolarmente nominati. La magistratura deve fare il suo dovere, non sostituirsi a proprietà e manager. Eppure in Italia c’è sempre chi, per ideologia o per timore di ritorsioni, è genuflesso alle toghe. Ue, il governo delle toghe battuto alla Camera sulla responsabilità civile toghe toghe. Norme più dure per gli errori dei giudici
Insorgono Anm e Csm: "A rischio la nostra indipendenza". Duro scontro Pd-5S. Renzi: "Correggeremo in Senato", scrive “La Repubblica”. Il governo e la maggioranza sono stati battuti, in un voto a scrutinio segreto, nell'esame sulla legge europea 2013-bis alla Camera sulla responsabilità civile delle toghe. E' infatti passato un emendamento della Lega, a prima firma di Gianluca Pini, e a cui governo e relatore avevano dato parere contrario. Riscrive l'articolo 26 sulla responsabilità civile dei magistrati, inasprendo di fatto le pene nei confronti dei giudici. I voti favorevoli sono stati 187, mentre 180 i contrari. Sette voti di differenza che pesano, visto che alla Camera governo e maggioranza contano su un ampio sostegno. L'emendamento modifica l'articolo 2 della legge dell'88 sul risarcimento dei danni causati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e sulla responsabilità civile dei magistrati. Una questione sulla quale il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ricorda che l'indipendenza dei giudici non è un privilegio. Il premier Matteo Renzi però, parlando con i suoi da Pechino, del voto con il quale la maggioranza è stata battuta, minimizza:"E' una tempesta in un bicchiere d'acqua, il voto segreto è occasione di trappoloni, ma le reazioni che vedo sono esagerate", dice il premier per il quale la norma sarà modificata a scrutinio palese al Senato.
Sabelli (Anm): "Fatto grave". Dura la reazione dell'Associazione nazionale magistrati che ha definito il voto "un fatto grave". Il presidente dell'Anm, Rodolfo Sabelli, ha detto che : "in un momento che vede la magistratura fortemente impegnata sul fronte del contrasto alla corruzione nelle istituzioni pubbliche, questa norma costituisce un grave indebolimento della giurisdizione". Con l'emendamento votato oggi "si vorrebbe reintrodurre ciò che non si riuscì ad approvare nel 2012 - sottolinea Sabelli - cioè un'introduzione dell'azione diretta di responsabilità civile che non ha eguale in nessun ordinamento occidentale e che presenta evidenti profili di incostituzionalità". Parte all'attacco anche il vice presidente del Csm, Michele Vietti che dice: "E' in gioco non un privilegio, ma l'indipendenza di giudizio del magistrato". Mentre, secondo l'Associazione magistrati della Corte dei conti "l'emendamento all'art. 26 della legge comunitaria, che prevede l'azione diretta di responsabilità civile nei confronti del magistrato, rileva come la stessa, oltre ad essere non in linea con la legislazione della maggior parte degli Stati membri dell'Ue, costituisce un gravissimo vulnus all'autonomia e all'indipendenza dei giudici". Critico anche il legale Gianluigi Pellegrino. "Si crea un cortocircuito che può bloccare ogni giudizio. Se è giusto, come chiede l'Europa prevedere sistemi più efficaci di ristoro per gli errori giudiziari, è assurdo e tribale prevederlo con azioni dirette della parte contro i giudici e peraltro anche per mero errore di diritto - spiega l'avvocato Pellegrino - . Piuttosto bisogna proporre un ulteriore rafforzamento del controllo disciplinare per tutte le giurisdizioni e nel rispetto dei principi di autogoverno". Nell'emendamento approvato dall'assemblea si legge, che "chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto". "La norma è passata con almeno 80 voti del Pd, quindi prima di sfidare la volontà popolare invito i democratici a sfidarsi internamente, mettendo d'accordo la parte destra del cervello con quella sinistra, per poi formulare una proposta alternativa sul tema", ha detto Pini, dopo il voto. Prova a gettare acqua sul fuoco il Pd: il provvedimento deve "ancora passare al Senato e lì modificheremo la norma", garantisce in Aula Ettore Rosato. Mentre Roberto Speranza, presidente dei deputati Pd parla di "un vero e proprio colpo di mano del centrodestra con la complicità del M5S". "In parlamento esistono proposte sulla responsabilità civile dei magistrati e ritengo siano maturi i tempi affinchè la questione venga affrontata in modo serio e rigoroso - aggiunge Speranza - . Penso sia oltremodo sbagliato trattare tale tema in modo frettoloso, attraverso un emendamento alla legge comunitaria". Forza Italia, come del resto la Lega, esulta. "Quando il centrodestra trova i contenuti batte il parlamento e batte anche Renzi", dice la deputata azzurra Daniela Santanchè, che aggiunge: "Al bando dunque le poltrone e gli organigrammi della sinistra, la forza delle nostre idee riflette fedelmente la volontà degli italiani. D'altro canto, l'astensione del M5S è del tutto vergognosa e ribadisce la natura giustizialista dei grillini". Anche i 5 Stelle mostrano soddisfazione: "La nostra decisione di astenerci ha tirato fuori tutta l'ipocrisia del Pd", dice il grillino Andrea Colletti.
A fine aprile era stato bocciato il disegno di legge sulla responsabilità civile dei magistrati, voluto dal centrodestra. I senatori del Pd, i parlamentari grillini e gli ex 5 Stelle avevano approvato, in commissione Giustizia del Senato, l'emendamento del M5S che cancella l'art.1, cioè il cuore del testo. Giudici, Giachetti (Pd): "Ho votato sì perché norma non colpisce magistrati perbene". "Pensiamo ai casi di Tortora e Scaglia", dice il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti, Pd, che oggi ha contribuito con il suo voto (palese) a far passare l'emendamento leghista sulla responsabilità civile dei giudici e qiundi a battere il governo, 187 a 180. "Il tempo per una scelta è maturo anche nel Partito democratico", aggiunge, "non so perché nel gruppo non ci sia stato un dibattito. Nessuno scambio con il centrodestra".
E comunque in ogni giornalista c'è il comunista che è in sè, ed in queste occasioni esce fuori. Camera, passa la responsabilità civile dei Pm. Il "messaggio" della politica alle inchieste. La responsabilità civile dei magistrati, contro il parere del Governo, passa a Montecitorio con 187 sì e le decisive astensioni di M5S e Sel. Il centrodestra esulta, il Pd annuncia cambiamenti al Senato. Ma già nel 2012, con la maggioranza di centrodestra, l'emendamento era stato approvato, scrive Susanna Turco su “L’Espresso””. L’Anm parla di fatto grave, il centrodestra esulta, il Pd piuttosto imbarazzato fa sapere che al guasto si riparerà al Senato, senz’altro, mentre il senatore Maurizio Gasparri promette di combattere “strenuamente” per tenerlo così come è. Pare una giornata d’altra epoca, alla Camera. Proprio mentre la giunta per le Autorizzazioni, presieduta da Ignazio La Russa, apre il faldone relativo alla richiesta di arrestare Giancarlo Galan (e dal sì all’arresto di Francantonio Genovese è passato meno di un mese) in Aula, contro il parere del governo, i deputati approvano una norma che introduce la responsabilità diretta dei magistrati. Il principio, cioè, secondo cui se un magistrato sbaglia ci si può rivalere direttamente su di lui, invece che sullo Stato come accade ora secondo la procedura (peraltro complessa) della legge Vassalli. Il magistrato che ha sbagliato paghi: è uno dei caposaldi classici del berlusconismo che fu, mentre i democratici - pur concordando sulla necessità di rinnovare la norma del 1988 - hanno tutta un’altra idea su come farlo. A presentare il testo incriminato, come emendamento alla legge comunitaria in discussione a Montecitorio, è il leghista Gianluca Pini. Ma la sua approvazione in Aula, con 187 sì contro 180 no, e l’astensione dichiarata dei Cinque stelle, suona almeno in parte come una risposta della politica all’accanirsi della magistratura con inchieste di ogni ordine e grado, dall’Expo e Mose in avanti. “In questo momento, questa norma costituisce un grave indebolimento della giurisdizione”, dice il presidente Anm Rodolfo Sabelli. “Un vero e proprio atto intimidatorio”, aggiunge il presidente Pd in commissione Giustizia Donatella Ferranti, puntando l`indice contro chi, “proprio ora, cerca di intimorire i magistrati che con coraggio hanno aperto vari fronti di indagine sui fenomeni corruttivi dilaganti negli appalti pubblici”. Interpretazione, questa, valida fino a un certo punto. E’ tragicamente vero, infatti, che lo stesso testo sulla responsabilità dei magistrati, sempre firmato da Gianluca Pini, sempre come emendamento alla legge comunitaria, era stato presentato ed approvato poco più di due anni fa. Era il 2 febbraio 2012, a Palazzo Chigi regnava Monti, e l’Aula di Montecitorio dava il via libera al testo Pini con 264 sì e 211 no (un solo astenuto). Allora come ora il voto era segreto. Ma il rapporto di forze tra centrosinistra e centrodestra era invertito. E i Cinque Stelle, in Parlamento, nemmeno ci stavano. Dunque se è vero che si tratta di un segnale ai magistrati, è un segnale più trasversale e meno legato al momento di quanto non paia sulle prime. Tanto più che, mentre la responsabile giustizia del Pd Alessia Morani giura che oggi il gruppo è stato compatto nel votare contro, è pur vero che il vicepresidente democratico della Camera Roberto Giachetti rivendica il suo sì (quella sulla responsabilità civile è una antica battaglia radicale), e soprattutto che i deputati del centrodestra presenti in Aula, secondo i calcoli del forzista Simone Baldelli che è uno preciso, non sono più di ottanta. Per arrivare a 187 mancano, dunque, un centinaio di voti all’appello: e anche mettendo un punto interrogativo sui vari gruppi minori, i conti non tornano. La crepa, comunque, sarà sanata. Al Senato la norma verrà cancellata dalla legge comunitaria, in attesa che il tema sia affrontato a parte. I numeri ci dovrebbero essere perché anche i Cinque stelle, tutti contenti per il blitz che ha “permesso di svelare l’ipocrisia del Pd”, dicono che al Senato torneranno a votare no alla responsabilità civile diretta dei magistrati, come hanno fatto a fine aprile a Palazzo Madama, in asse col Pd e contro il centrodestra. Finirà insomma come due anni fa: anche allora la norma Pini fu cancellata dall’altro ramo del Parlamento. Resta da capire quando è che Renzi si deciderà a dare il via libera alla riforma di questo come di altri punti dolenti del capitolo giustizia. Proprio a fine aprile, a Porta a porta, il premier - pur favorevole a cambiare la Vassalli - spiegò che “finché c’è un clima da derby” e “finché ci sarà chi dice che la magistratura è il cancro dello Stato”, “non ci potrà essere nessun intervento sulla giustizia”. Ecco, insomma, un altro punto sul quale il rapporto con Berlusconi contiene una pericolosa ambivalenza.
I sinistroidi vogliono tutelare i magistrati incapaci ed in malafede.
Truffa Carige, indagati per abuso d'ufficio i magistrati liguri coinvolti. Indaga la procura di Torino sulle presunte interferenze di pm e giudici di Savona e La Spezia. Il fascicolo è stato trasmesso dai colleghi genovesi titolari dell'inchiesta, scrive Ottavia Giustetti su “La Repubblica”. L'ex presidente di Banca Carige, Giovanni Berneschi (ansa)Sono indagati per abuso d'ufficio e violazione del segreto i tre magistrati liguri coinvolti nell'inchiesta sulla maxi inchiesta per truffa a Banca Carige. Maurizio Caporuscio, pm a La Spezia, Pasqualina Fortunato, giudice del lavoro a La Spezia, Francantonio Granero procuratore capo di Savona. Sulle presunte interferenze dei magistrati liguri indaga la procura di Torino che ha ricevuto il fascicolo dai colleghi genovesi titolari dell'inchiesta su Carige. Lunedì il pm torinese Marco Gianoglio è stato a Genova per partecipare a una riunione organizzativa. Da lì era partito un paio di settimane fa il fascicolo sulle presunte rivelazioni e le interferenze. Già in Liguria la procura aveva iscritto i tre magistrati accusandoli di abuso e violazione del segreto. Caporuscio è nei guai per una telefonata tra l'avvocato spezzino Andrea Baldini, ex componente del Cda di Banca Carige, e Berneschi. Parlando Baldini racconta che il magistrato fece in modo che fosse fornita al banchiere la copia di una denuncia 'riservata' che l'imprenditore spezzino Gianfranco Poli aveva presentato contro l'ex numero uno di Carige per truffa. E sempre le dichiarazioni di Baldini accusano la moglie, Pasqualina Fortunato. L'avvocato ha spiegato infatti a Berneschi che grazie all'interesse di Lilly (per gli inquirenti è la moglie) sarebbe stata chiesta l'archiviazione del fascicolo. Berneschi, discutendo con il manager di Carige Antonio Cipollina di un interrogatorio che doveva affrontare nell'autunno scorso a Savona, dove è indagato per la bancarotta del costruttore Andrea Nucera, dice che il procuratore Ganero gli ha suggerito di non rispondere e ribadisce di aver parlato con lui del figlio Gianluigi, membro del cda di Cassa di risparmio di Savona, controllata da Carige e uomo di spicco delle cooperative. Granero aveva detto "Tutto falso, presenterò querela". E gli inquirenti sospettano che le frasi di Berneschi siano state pronunciate per comprometterlo. Non sono stati inviati invece a Torino gli atti che chiamano in causa il procuratore aggiunto di Genova Vincenzo Scolastico. Il suo nome, dedotto da alcune conversazioni telefoniche ma mai citato espressamente, era stato chiamato in causa come un possibile altro sospettato di aver favorito il gruppo che faceva riferimento a Berneschi. Ferdinando Menconi, ex manager di Carige Vita Nuova, ne descriveva la figura e diceva presumibilmente di lui "... carissimo amico con cui prendo il caffè ogni sabato". Ma sul suo conto non sarebbero stati riscontrati comportamenti scorretti e dunque è caduto nei suoi confronti ogni sospetto.
LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO.
La sinistra e le toghe d'assalto: la vera storia del patto di ferro. La ricostruzione nel saggio di Cerasa: dalla nascita di Magistratura democratica a Mani pulite, gli eredi del Pci hanno reclutato le Procure. Diventandone succubi, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Ha cominciato a chiamarmi l'Anm. «Non sappiamo con chi parlare al Pd. Per favore, abbiamo bisogno della Ferranti alla Giustizia». E io ho risposto obbedisco ai magistrati, mica al Pd». La richiesta dell'Associazione nazionale magistrati, rivelata (e poi smentita, come da prassi) dal catto-dem Beppe Fioroni nei primi giorni del governo Letta, è stata accontentata. Alla presidenza della commissione Giustizia della Camera siede proprio lei, Donatella Ferranti, ex magistrato, e di una corrente non a caso, Md (Magistratura democratica), le toghe di sinistra. L'interlocutore più gradito all'Anm, a costo di un'invasione di campo plateale. Che però non sorprende perché conferma un dato storico, l'alleanza tra sinistra e magistratura italiana. Un «ammanettamento» che ha radici lontane, dalla nascita di Md - nel clima del '68 - che nella sua assemblea nazionale si assegna il compito di «costruire un rapporto costante e articolato con le forze politiche di sinistra», alla «questione morale» come bandiera del Pci di Berlinguer (delegata poi alle Procure), al pool di Mani pulite che opera già come un'unità politica. Un processo ricostruito da Claudio Cerasa nel suo Le catene della sinistra, facendo parlare i testimoni di questa mutazione genetica (doppia: dei giudici e della sinistra). Racconta Sergio D'Angelo, ex magistrato schierato con Pci e poi Ds, a lungo in Md da cui poi ha preso le distanze: «Dopo Tangentopoli la politica ha iniziato a guardare al magistrato come ad una guida spirituale. E i magistrati di sinistra, che esercitano un'egemonia culturale nel mondo delle procure, hanno sposato la causa della rivoluzione politica». Una minoranza («un settimo sui 9mila magistrati in servizio», dice D'Angelo) diventata maggioranza culturale dentro la corporazione, al punto da dominarla e influenzarne anche le sentenze. Ammette un altro magistrato, Francesco Misiani: «Non posso negare che nelle mie decisioni da giudice non abbia influito, e molto, la mia ideologia». Ma quando scatta l'ammanettamento tra sinistra e toghe? Cerasa lo domanda a due magistrati di un'importante Procura, che per riservatezza non si svelano. Ma rispondono e indicano due tappe. La prima, Tangentopoli: «Lì molti di noi si sono convinti di avere una missione salvifica, di dover non solo combattere la corruzione ma di redimere l'Italia. E la sinistra si illude di poter prendere il potere con la magistratura». Il secondo, Berlusconi: «Assegnare alla magistratura il compito di eliminare Berlusconi - racconta uno dei due pm - ha dato alla magistratura un potere enorme che forse neanche la magistratura intendeva ottenere. Ma di fatto, da quando Berlusconi è in campo, bisogna riconoscere che la magistratura di sinistra è diventata un azionista importante, per non dire prioritario, dell'universo del centrosinistra». La saldatura è visibile dappertutto. Nelle carriere politiche di molti pm d'assalto, a cominciare da quelli del famoso pool. Di Pietro ministro del governo Prodi, Gerardo D'Ambrosio senatore del Pd, Borrelli supporter della segreteria Veltroni. «Ma il mondo di centrosinistra è pieno di magistrati che una volta poggiata la toga all'attaccapanni si sono buttati in politica» ricorda Cerasa. I nomi più noti: Anna Finocchiaro, Luciano Violante, Michele Emiliano, Pietro Grasso, ma pure i senatori Casson, Carofiglio e Maritati, la deputata Pd Lo Moro e poi la Ferranti. Magistrato è anche un consigliere Rai indicato dal Pd, Gherardo Colombo, anche lui ex pool. Proprio il Colombo che anni fa sulla rivista Questione Giustizia teorizzò la missione politica della magistratura. «Ritengo - scriveva l'ex pm - impraticabile una prospettiva di ritorno alla terzietà (per la magistratura, ndr), che risulterebbe soltanto apparente». Il giudice insomma, riassume Cerasa «ha il compito, quando necessario, di sostituirsi all'opposizione parlamentare». Il magistrato diventa militante, e la sinistra si consegna - manette ai polsi - alla sudditanza verso le Procure. Chi ha analizzato a fondo questo fenomeno è Violante, che da ex magistrato ha conosciuto entrambi i percorsi e il loro intreccio pericoloso. Il margine di libertà che i pm più schierati politicamente hanno per orientare un'inchiesta è enorme, dice Violante intervistato nel libro. I cardini sono due: l'obbligatorietà dell'azione penale (che diventa «uno scudo per giustificare indagini spericolate, fragili, ma efficaci sul piano politico») e poi «il controllo di legalità», cioè la funzione di ricerca del reato, di controllo della legalità, che spetta «alla polizia, allo Stato, alla politica». L'effetto è la sinistra che si ammanetta da sola al giustizialismo, la politica che si consegna alle Procure. Ai magistrati, aggiunge l'ex presidente della Camera, che «non ne rispondono a nessuno».
LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.
Carnevale: "I magistrati? Politicizzati e pigri". L'ex presidente di Cassazione: "Appartenendo alla giusta corrente si ha carta bianca. Doveroso separare le carriere", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Essendo stato il giudice più bravo d'Italia e il più perseguitato, Corrado Carnevale è contemporaneamente esperto di giustizia e malagiustizia. Ha indossato la toga nel 1953, quando fu primo assoluto al concorso. L'ha deposta nel 2013, sessant'anni dopo. Nel mezzo, la sospensione dal servizio con l'accusa di mafiosità gettata lì da Gian Carlo Caselli, capo della Procura di Palermo. Era il 1993 e a calunniare era il pentito Gaspare Mutolo. L'ostracismo durò sei anni e mezzo. Finché fu assolto con formula piena. Poi, per recuperare il tempo ingiustamente perduto, Carnevale è tornato in Cassazione, circondato dalla massima deferenza, fino a 83 anni compiuti. La penombra in cui il giudice tiene l'appartamento, ci protegge dalla calura. Da quando un decennio fa è morta la moglie, Carnevale non ha mosso una sedia. Questa scomparsa è il suo unico cruccio. Sulle mascalzonate subite, fa il filosofo. «Che sentimenti ha verso Caselli?», gli ho chiesto. «Nessuno», ha detto col tono di chi non dà spazio al superfluo. Il mobbing giudiziario lo ha inseguito anche nello studio dove sediamo. Un giorno scoprì che il telefono era isolato. Avvertì la Sip e vennero due tipi che armeggiarono un po'. «Quanto devo?» chiese alla fine. «È gratis, giudice», fu la risposta. «Come facevano a sapere che ero giudice?», sorride oggi Carnevale. Così, intuì che era stato un trucco per mettergli delle cimici e spiarlo in casa, non avendo potuto scoprire nulla con le normali intercettazioni. Fatica sprecata: anche le cimici confermarono il galantuomo. Carnevale è passato alla storia come l'Ammazzasentenze per avere annullato, da presidente di Cassazione, sentenze infarcite di svarioni. Alcune riguardavano mafiosi, il che scatenò polemiche. Ma la caratteristica di Carnevale è di essere inflessibile sul rispetto integrale della legge. Ho isolato le seguenti frasi della nostra chiacchierata che sono il cuore del suo credo: «Un giudice che ha dubbi su una norma, può chiedere alla Consulta di cancellarla. Ma finché la norma c'è, la deve rispettare. Gli piaccia o non gli piaccia. Non può scegliere, le deve rispettare tutte. Non può inseguire le sue chimere (salvare il mondo, ndr), fossero anche le più nobili. Suo unico compito è applicare tutte le regole che l'ordinamento si è posto». Da scolpire nella pietra.
Il punto molle del processo penale è la troppa vicinanza del giudice al pm, a scapito della difesa.
«Il nodo è chi ha permesso questa vicinanza. Ossia la politica che ha consentito all'Anm di tutto e di più. Non c'è ormai alcun controllo sull'idoneità dei magistrati. Basta che appartengano alla giusta corrente e hanno carta bianca».
Che rapporto ha avuto con l'Anm?
«Mi dimisi nel 1957, quattro anni dopo l'ingresso in magistratura. Capii subito che non si battevano per la giustizia ma per soldi e prebende, nonostante il loro trattamento fosse già il più favorevole».
Separazione delle carriere?
«Per farlo, bisogna cambiare la Costituzione. Ma nulla vieta di impedire da subito a pm e giudici di passare da una funzione all'altra, come oggi sciaguratamente succede».
Una scuola post-laurea per pm, giudici, avvocati?
«Perfettamente inutile. Il problema è di cultura generale, non di cultura giuridica».
Più ingressi di prof e avvocati in magistratura?
«Non serve a nulla, come dimostra il Csm in cui un terzo dei membri è composto di docenti e avvocati, scelti dal Parlamento, che però si adeguano puntualmente all'andazzo».
A che serve il Csm?
«Alla carriera dei magistrati appartenenti alle correnti giuste».
Come va riformato?
«Estraendo a sorte i membri. Che oggi sono invece scelti dalle correnti di Anm tra i più supini ai loro diktat».
Com'è che lei, considerato un cannone, invece di essere il fiore all'occhiello dei colleghi ha rischiato da loro la galera?
«È accaduto appena ho diretto uffici. Terminavo in tre mesi, ciò che gli altri facevano in un anno. Ero la prova che i loro alibi - scarsità di mezzi, troppe liti, mancanza di carta igienica - era il tentativo di addebitare alla politica le proprie lacune».
Per questo volevano rovinarle la vita?
«Temevano che potessi salire tanto in alto da influire sul loro lassismo. È la logica dell'invidia».
Quello di Caselli, dopo le calunnie di Mutolo, fu atto dovuto o smania di annichilirla?
«Atti dovuti non esistono. L'attendibilità dei mafiosi va controllata con rigore, nonostante la teoria di Falcone che i pentiti dichiarano sempre la verità. Si voleva colpire me».
In un grado del processo prese sei anni per concorso esterno. Che pensa di questo reato?
«Che non è configurabile. Il concorso esterno è un'invenzione che ha sostituito il terzo livello con il quale si pensava di colpire i politici».
Il fantomatico terzo livello...
«Il terzo livello non funzionò e si cambiò col concorso perché aveva una parvenza più giuridica. In diritto esisteva già la categoria del concorso e, a orecchio, lo si estese a esterno».
Se in Cassazione si fosse trovato davanti Dell'Utri, condannato a sette anni per concorso esterno, che avrebbe detto?
«Che non era ravvisabile quel reato perché la legge non lo prevede. Ciò non esclude però che i suoi comportamenti potessero avere un rilievo penale diverso».
Ai mafiosi si applica un diritto speciale: 41 bis, ecc. Costituzionale?
«Assolutamente no. I cittadini sono uguali davanti alla legge».
Contro il Cav c'è stato un eccesso di zelo?
«Berlusconi, come tutti i magnati, compreso Agnelli, è stato disinvolto, ma da imprenditore fu ignorato da Mani pulite. Entrò nel mirino da politico. Segno della politicizzazione della magistratura».
Come ricondurre le toghe nell'alveo?
«Oltre all'estrazione a sorte del Csm, va introdotta la responsabilità civile personale dei magistrati. Esattamente ciò contro cui si batte in queste ore l'Anm».
Giudizio finale sullo stato della giustizia?
«Siamo tutti esposti a iniziative giudiziarie capricciose da Paese incivile. Un brutto modo di vivere il tempo che ci è dato su questa terra».
SENTIAMO KARIMA EL MAHROUG, DETTA RUBY.
In occasione della prima udienza del processo d'appello per il caso Ruby, Franco Coppi, difensore di Silvio Berlusconi, ha commentato le pesanti esternazioni fatte dal suo assistito a Napoli, dove è stato sentito come teste al processo Lavitola. "Non l'ho sentito né prima né dopo, ma se ha fatto quelle dichiarazioni avrà avuto un motivo. Ed è stato sicuramente tirato per i capelli dal presidente, che poteva avere più garbo", ha concluso Coppi. A scatenare la furia dei magistrati è stata una frase del Cav pronunciata in Aula: "Magistratura incontrollabile. E impunita". Lo sfogo del Cav è arrivato dopo che la presidente della Corte aveva affermato: "Lei - rivolgendosi a Berlusconi - non deve capire il senso delle domande, deve rispondere". Terminata la testimonianza, Silvio ha parlato in Aula anche del ruolo dei giudici: "La magistratura è incontrollabile, irresponsabile e gode di immunità". L'esternazione del Cav arriva dopo una provocazione del giudice Giovanna Ceppaluni che gli aveva rivolto delle domande il Cav aveva chiesto spiegazioni in merito. La risposta del giudice però è stata piccata: "Lei non deve capire il senso delle domande". Il diverbio lo ha chiuso il magistrato affermando che "la magistratura è ancora tutelata dal codice penale".
Ruby: "Berlusconi condannato per nulla". La giovane: "Se mi avesse dato 5 milioni non dovrei chiedere soldi ai suoceri per fare la spesa", scrive Luca Fazzo “Il Giornale”. Lei non ci verrà, al processo che porta il suo nome, anche perché stavolta non l'hanno nemmeno invitata come «parte offesa». Parte stamattina 20 giugno 2014 il processo d'appello a Silvio Berlusconi, e per tutto il mondo è il «processo Ruby».
«Un soprannome che mi sono inventata quando avevo nove anni, e che adesso mi pesa. Vorrei liberarmene, vorrei tornare a essere Kharima, voglio essere la ragazza che vendeva tappeti in spiaggia a Catania. Ma non mi viene permesso, vengo massacrata in continuazione. So che il vero bersaglio non sono io ma è Berlusconi. Ma lui è maggiorenne e vaccinato, io invece devo pensare a difendere me stessa e mia figlia. E mi domando: quanto deve durare questo massacro?».
Converrà, signora el Mahroug, che una mano a questo putiferio lo ha dato anche lei. Nelle sue intercettazioni diceva di avere avuto rapporti con Berlusconi, «l'altra è la pupilla e io il c...». E ai pm quando l'hanno interrogata ha descritto le sere di Arcore in modo abbastanza colorito.
«Avevo diciassette anni, ero totalmente allo sbando, e in quelle telefonate mi attaccavo ad amiche che poi amiche non erano, e mi inventavo cazzate per darmi arie. Errori di gioventù che non credo di dover pagare in eterno. Il problema vero è quello che è successo dopo, quando sono arrivati i pm a interrogarmi, e ho capito subito che di me non gli interessava assolutamente niente, volevano solo e a tutti i costi questo signor Berlusconi, e io gli ho dato quello che volevano. Sono stata anche pittoresca, certo. Faccio mea culpa, va bene? Ma da qui a prendere per oro colato le parole di una ragazzina di diciassette anni scappata di casa ce ne corre».
E allora qual è la verità? Quella dei verbali, delle intercettazioni, degli interrogatori in aula?
«La verità è che Berlusconi mi ha rispettato più di tutti gli uomini che ho incontrato nella mia vita precedente nei locali e nelle discoteche. Gli hanno dato sette anni per nulla».
Per avere sostenuto questa versione durante il processo di primo grado, lei è stata incriminata per falsa testimonianza e oggi è sotto inchiesta per corruzione in atti giudiziari. I giudici dicono che Berlusconi ha comprato il suo silenzio.
«Io di essere sotto inchiesta l'ho saputo solo dai giornali, perché nessuno mi ha detto niente. È dall'inizio di questa storia che leggo tutto sui giornali. Sono sotto inchiesta? Bene. Io sono tranquilla, perché se Berlusconi mi avesse dato i cinque milioni di cui parlavo nelle intercettazioni, non sarei ridotta adesso a chiedere ai miei suoceri i soldi per fare la spesa. Invece quando cerco lavoro, anche come commessa, trovo solo porte chiuse perché la gente pensa "ma come, questa ha cinque milioni di euro e vuole lavorare, chissà cosa c'è sotto". Adesso forse ho trovato un posto in un ristorante a Milano. Se va male anche lì, andrò dalla Boccassini a chiederle di prendermi come donna delle pulizie».
Ilda Boccassini non è stata tenera con lei, nella sua requisitoria. L'ha accusata di «furbizia orientale».
«Io l'ho incontrata per la prima volta in aula, al processo, quando dovevano interrogarmi e poi non mi hanno interrogata. Poi ho letto quella frase e mi ha lasciata di sasso. Diciamo che non mi è sembrata per niente garbata né nei miei confronti né delle donne orientali. Mi è sembrata una frase razzista. E soprattutto mi ha lasciata incredula che una persona del livello della Boccassini non sapesse che il Marocco non è in Oriente. Magari adesso faccio una colletta e le regalo un atlante o un mappamondo».
Io sarei più cauto.
«Io sono stanca. Sono finita dentro una macchina da guerra, davanti a gente che non voleva sapere la verità ma solo perseguire un obiettivo, l'interesse non era per me ma per una persona che aveva un ruolo infinitamente più grande. Quando sono entrata in aula e ho letto scritto sul muro che la legge è uguale per tutti mi è venuto da ridere, perché in questi quattro anni ho potuto toccare con mano come per colpire una persona abbiano rovinato la vita e la psiche di una ragazza di diciassette anni. Grazie a loro sono stata coperta di spazzatura mediatica, ho dovuto cambiare città, a volte faccio ancora fatica a girare per strada. Mi sento trattata come un killer mentre i veri killer sono a piede libero».
SENTIAMO CESARE BATTISTI.
Scordatevi le leggende sul rifugio dorato in Brasile. Cesare Battisti vive con la moglie e la figlia in un modesto bilocale fuori San Paolo perché la vita in città è troppo cara, scrive Angela Nocioni su “Il Garantista”. Magro, pallido, all’apparenza più giovane dei suoi cinquantanove anni, l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo (Pac) – condannato per quattro omicidi avvenuti negli anni Settanta dei quali si è sempre dichiarato innocente – sembra sereno, ma non in pace. Non cerca grane, ma parla con rabbia della tortuosa vicenda dell’estradizione chiesta dall’Italia e negata dal Brasile il 31 dicembre del 2010 per decisione dell’allora presidente Lula da Silva.
«Se il governo italiano avesse mentito meno, probabilmente avrebbe ottenuto la mia estradizione», dice Battisti. «Lula non l’ho mai visto, non ha nessuna simpatia per me. Ma quando dall’Italia sono cominciate ad arrivare notizie contraddittorie e assurde sulla mia vicenda, Lula ha deciso di prendere informazioni per conto suo. A un certo punto nel governo di qua si sono sentiti presi in giro dall’Italia, mica sono scemi i brasiliani».
Battisti giura di non aver ucciso nessuno. Non ha mai visto le quattro persone per il cui omicidio è stato condannato, dice. E di passare per un criminale scampato alla galera grazie a una premurosa gentilezza del governo brasiliano, proprio non gli va. O questo, quanto meno, gli piace raccontare.
Se attraversi la frontiera puoi essere arrestato. Ti pesa non poter uscire dal Brasile?
«Non ci penso neppure ad attraversare la frontiera. Spero di fermarmi qui. L’Italia da almeno quarant’anni non è casa mia. Restava la Francia per me, ma ormai nemmeno quella. Non tornerei più neanche lì. Tornare indietro tanti anni dopo, non funziona. Hai lasciato una realtà che non esiste più, tutto si è modificato. Torni con un’idea del posto che non corrisponde più alla realtà. Ho visto cosa è successo ai rifugiati italiani a Parigi che poi sono tornati in Italia. Nessuno ha resistito. Dopo sei mesi rientravano in Francia di nuovo.»
Dicevi di voler appellarti al presidente Napolitano per tornare in Italia. Non era vero?
«Non era un’invenzione. E’ che Napolitano fa tanto il furbetto. Alla fine, vediamo un po’, volete farmi un processo? E fatemelo! Io ci sto. Sono loro che non ci starebbero mai. Sono stato processato in contumacia, senza avvocati, dovrebbero essere considerati nulli i processi che mi hanno condannato.»
Sei stato processato in contumacia perché eri latitante. E’ stata una tua scelta.
«Ah sì? Dovevo andare in Italia a farmi un ergastolo, o a farmi ammazzare. Certo, come no…»
Ti consideri un perseguitato dalla giustizia?
«No, mi considero una persona che ha fatto quello che doveva fare negli anni Settanta. Con errori o con meriti, questo è un altro discorso. Ma la giustizia con la lettera maiuscola non ha niente a che fare con l’attitudine dello Stato italiano in quegli anni lì. Sono un perseguitato dalla vendetta dello Stato italiano degli anni Settanta.»
Come consideri adesso la tua militanza politica di allora nei Pac?
«La considero un’esperienza positiva. Perché quello era un gruppo che si era formato allontanandosi dallo stalinismo delle Brigate rosse e aveva uno sguardo sulla società molto più ampio rispetto al marxismo leninismo di altri gruppi. A me ha insegnato molto.»
E’ vero che ti sei politicizzato in carcere dopo l’arresto per rapina?
«E’ un’altra stronzata. Vengo da una famiglia comunista, militavo da sempre. I miei genitori erano del Pci, mio fratello era stato eletto nelle liste del Pci. Io ho fatto parte di Lotta continua, poi di Autonomia operaia. Sono finito dentro per una rapina, era un esproprio. Gli espropri non si rivendicavano. Non mi sono politicizzato in carcere, semmai in carcere ho conosciuto persone attraverso le quali sono entrato nei Pac.»
Hai partecipato a qualcuna delle azioni armate in cui sono stati commessi i quattro omicidi per i quali sei stato condannato?
«Non facevo più parte dei Pac quando sono stati commessi quegli omicidi. Sono stato giudicato in Italia e condannato a 12 anni e mezzo per associazione sovversiva e detenzione di armi, dopo che gli omicidi erano già avvenuti. Nessuno mi ha mai interrogato riguardo quegli omicidi. Nello stesso processo in cui io sono stato condannato a 12 anni e mezzo, sono stati condannate alcune persone per quegli omicidi. Il mio nome non è mai stato fatto, neanche dai torturati. Durante l’operazione Torreggiani alcune persone sono state torturate, queste persone hanno parlato sotto tortura e neanche lì il nome di Cesare Battisti è mai venuto fuori. Quando ero in Messico hanno rifatto il processo grazie alle dichiarazioni false di Pietro Mutti. Una delazione premiata, solo che lui ha mentito. E mi hanno condannato all’ergastolo senza prove. Non c’è una prova tecnica contro di me, non c’è un testimone, non c’è niente.»
E le prove documentali?
«Le prove documentali mostrano la mia innocenza. La pistola che avrebbe sparato l’agente della Digos è stata trovata a un altro che avrebbe anche confessato, per esempio. Nessuno mi ha mai accusato, nessuno.»
E perché ti avrebbero coinvolto?
«Quello che ha messo in mezzo me è uno solo, si chiama Pietro Mutti. Scaricando tutto su di me, invece di prendere alcuni ergastoli, ha preso pochi anni di galera, ubbidendo alle indicazioni di un procuratore della repubblica abbastanza famoso che continua a perseguitarmi. E chiudiamola qui perché non c’è bisogno di fare nomi già noti.»
Hai mai sparato?
«Contro persone no.»
E a chi sparavi? Agli uccelletti?
«Agli uccelletti, agli alberi, alle persone mai.»
In nessuna di quelle quattro azioni armate sei stato presente fisicamente?
«Non facevo più parte dell’organizzazione.»
Ma c’eri o no?
«No! Non facevo più parte dei Pac, come facevo ad esserci?»
Se ti fossero garantite delle condizioni di incolumità personale e un processo imparziale, torneresti in Italia?
«Lo rifarei il processo perché non hanno nessuna possibilità di vincerlo. Nessuna. Il problema è che non mi fido dell’Italia, servirebbero degli osservatori internazionali, perché non me l’hanno mai fatto un processo, non sono mai stato interrogato riguardo questi omicidi da un poliziotto, da un giudice. Mai.»
Se non fossi fuggito ti avrebbero interrogato.
«Che Paese è un Paese in cui si fa un processo e si condanna qualcuno senza interrogarlo?»
Cosa è successo con Alberto Torregiani?
«Ma che ne so, avevo una corrispondenza con lui, avevamo una buona relazione, l’ho aiutato anche a scrivere un libro, lui sa benissimo che io non c’entro niente con la morte del padre, ma poi è stato minacciato.»
Da chi?
«L’hanno minacciato di togliergli la pensione e lui ha eseguito gli ordini e si è messo a urlare contro di me. Ha cambiato idea all’improvviso, si è messo a dire che io sono un criminale quando sa benissimo che non c’entro io con la morte di suo padre.»
Non c’è nessuno in Italia di cui ti fidi, qualcuno su cui conti?
«Ho molti amici, associazioni che mi aiutano anche economicamente.»
Francesi o italiane?
«Francesi e italiane, amici, scrittori soprattutto.»
E’ vero che quando ti hanno arrestato a Rio de Janeiro nel marzo del 2007, ti hanno preso seguendo una persona che ti stava portando dei soldi?
«No. Sapevano che ero qui da quando sono arrivato. Mi controllavano continuamente.»
E perché a un certo punto hanno deciso di arrestarti?
«Perché evidentemente era arrivato il momento, conveniva a qualcuno.»
Ti eri accorto di essere seguito?
«Era chiaro, non si sono mai nascosti.»
Allora perché ti nascondevi tu?
«Non mi sono mai nascosto io. Tutti sapevano che ero a Copacabana, come facevo a nascondermi se la polizia mi stava sempre dietro? Ci parlavo con i poliziotti.»
In carcere in Brasile come sei stato trattato?
«Come tutti gli altri. Il periodo in cui sono stato in una cella di un commissariato centrale è stato un inferno perché non c’era posto. Si dormiva a turni. In celle da due stavamo in dieci. Lì sono stato un anno e mezzo. Poi mi hanno trasferito in un carcere normale, è durato molto, ma poi sono uscito.»
Nel governo brasiliano chi ti ha aiutato di più? L’allora ministro della giustizia Tarso Genro?
«A me una mano non l’ha data nessuno. A un certo punto quelli che avevano deciso a priori di estradarmi, si sono resi conto che le cose non stavano come gli avevano raccontato e hanno cominciato ad investigare.»
Parli di Lula?
«Sì, di Lula e di Genro. L’intenzione di Lula e di Genro all’inizio era di estradarmi perché avevano ricevuto informazioni dall’Italia completamente pompate, assurde. Poi si sono accorti che qualcosa non filava. Un esempio: quando si tratta di condannarmi, si usa la legislazione sul terrorismo e mi si tratta come un terrorista. Ma poi quando si tratta di chiedere l’estradizione, mi si tratta come un delinquente comune. Aho’, ma questi mica sono scemi! E hanno fatto quello che dovevano fare, si sono informati autonomamente, ci hanno messo quattro anni, ma l’hanno fatto.»
Perché dici che non ti hanno aiutato? Genro si è molto esposto per te, ti ha anche concesso lo status di rifugiato nel 2009 infilandosi in un guaio, o no?
«Genro all’inizio voleva estradarmi. Quando si è accorto che gli italiani stavano mentendo, ha cambiato posizione. A quel punto ha voluto vederci chiaro, ha chiesto aiuto, ha usato dei consiglieri. Li ha fatti viaggiare, ha fatto fare delle ricerche. Cosa che ha fatto poi anche Lula per conto suo. Se gli italiani al governo fossero stati furbi, se avessero mentito meno, gli sarebbe andata bene probabilmente, non l’hanno avuta vinta perché hanno esagerato.»
Secondo te il governo brasiliano si è indispettito?
«Beh, di certo non ha gradito che gli si raccontasse dall’Italia che negli anni Settanta da noi non c’è stata guerriglia. Ma insomma, stiamo parlando a un capo di Stato di un grande Paese, al suo ministro della giustizia, A gente, tra l’altro, che la lotta armata l’ha fatta. Gli raccontiamo una stronzata del genere?»
Non sarà che invece Lula si è trovato in mano il tuo caso quando ormai il dossier Battisti era diventato già una patata bollente, quando la sfida tra lui e il Tribunale supremo era aperta, e a quel punto gli è toccato tenerti in Brasile?
«Lula è uno statista e da statista si è comportato. Ha messo in moto una serie di persone per capire chi ero io veramente. Ha investigato il periodo in cui stavo in Messico, il periodo in cui stavo in Francia e il periodo in cui stavo in Italia. Ha ricevuto intellettuali e politici, tantissimi, di vari Paesi.»
Compresi gli amici tuoi francesi…
«Compresi i francesi. E poi ha preso la decisione di farmi restare. Quando Genro decise all’inizio di darmi lo status di rifugiato, Lula era già d’accordo sul farmi restare in Brasile. E non gli stavo simpatico. Se avesse potuto mi avrebbe estradato.»
Quindi non ti consideri il regalo che Lula, alla fine del suo secondo mandato, ha fatto all’ala sinistra del suo partito?
Lula non fa regali a nessuno. Lula è una volpe. Accettare la richiesta italiana di estradizione avrebbe potuto essere una decisione per lui sconveniente. Senti, la giustizia italiana sa benissimo che io non c’entro niente con quei quattro omicidi, sa benissimo che è tutta una pagliacciata. Io ho fatto parte di un movimento, rivendico di aver fatto parte di questo movimento. E basta. Se poi vogliamo stare alle regole dei tribunali, ci stiamo. Allora però devono mostrare le prove. Non ce l’hanno le prove. Sono loro che devono dimostrare che sono colpevole, non io che sono innocente. Gli autori di quegli omicidi avevano confessato. La verità sta nei processi. Sta tutto lì scritto. Sono stato condannato con una legge retroattiva, una cosa del genere non esiste neanche in Paraguay.»
A fuggire dalla Francia ti hanno aiutato i servizi?
«Mi sono aiutato da solo. Tra Chirac e il governo italiano il patto era fatto, mi hanno venduto come merce, io l’ho saputo e sono andato via. Cosa dovevo fare? Aspettare che mi venissero a prendere?»
Contrordine compagni: Battisti resta in Brasile (e può fuggire altrove). Il giudice Fux, fautore dell'asilo, congela con un cavillo l'estradizione: si decide il 24. Forse, scrive Paolo Manzo, Domenica 15/10/2017, su "Il Giornale". Rappresenta una boccata d'ossigeno per Cesare Battisti la decisione di Luiz Fux, il giudice della Corte Suprema brasiliana relatore del suo caso, di sospendere ogni azione per estradare, espellere o arrestare nei prossimi giorni il latitante più famoso d'Italia. Almeno un paio le anomalie della decisione di Fux che - è bene ricordarlo - aveva già votato a favore della decisione di Lula di concedere asilo a Battisti l'ultimo giorno del suo secondo mandato, il 31 dicembre del 2010, e deve la sua nomina a giudice della Corte Suprema all'ex guerrigliera Dilma Vana Rousseff. La prima stranezza è che ci si attendeva che Fux decidesse solo dopodomani e, invece, ha fatto gli straordinari sino a tardi un venerdì 13 nel bel mezzo di un ponte festivo (il 12 ottobre il Brasile si ferma per celebrare la sua santa patrona, la Nostra Signora di Aparecida). La seconda anomalia è che, invece di chiudere subito la vicenda, Fux ha trasmesso tutta l'analisi dell'habeas corpus preventivo presentato lo scorso 27 di settembre dai difensori dell'ex terrorista - una misura cautelare che garantisce a chi teme il carcere di assicurarsi comunque la libertà ancor prima dell'arresto - al plenario della Corte Suprema, che si riunirà tra 9 giorni. Non è però affatto detto che il prossimo 24 ottobre la massima istituzione giuridica verde-oro decida qualcosa di definitivo e - come già accaduto tra 2007 e 2011 - gli undici togati verde-oro che compongono il plenario potrebbero andare avanti per mesi e/o anni discutendo di cavilli degni dell'Azzecca-garbugli manzoniano. In teoria la Corte Suprema dovrebbe solo decidere se accogliere o meno la richiesta di habeas corpus preventivo e, su questo, Fux ha sollecitato «tempi brevi». Peccato solo che, nel motivare la sua decisione, abbia altresì machiavellicamente chiarito che «bisogna verificare se esista la possibilità per l'attuale Presidente della Repubblica di annullare una decisione presidenziale anteriore». E proprio qui sta il busillis perché tutto lascia intendere che se l'ultima volta, con Lula alla presidenza, la Giustizia verde-oro che pur aveva concesso l'estradizione si sottomise alla volontà del massimo potere politico, oggi ci si trovi invece di fronte ad una situazione diametralmente opposta. Ovvero con un presidente come Michel Temer che vorrebbe sì estradare Battisti ma che - indebolito dai sondaggi e soprattutto da un paio di inchieste sulla corruzione che lo chiamano direttamente in causa - potrebbe doversi piegare davanti ad una Corte Suprema stavolta contraria tanto a sottomettersi al potere politico di turno quanto all'estradizione dell'ex terrorista. Non a caso ieri il ministro della Giustizia del Brasile, Torquato Jardim, intervistato dal quotidiano Estado de Sao Paulo ha sì ribadito quanto già detto il giorno prima a BBC Brasil - ovvero che «Battisti ha rotto il rapporto di fiducia che aveva per rimanere in Brasile», ma ha tenuto a sottolineare che «la decisione è sub judice» e che «si deve attendere la decisione della Corte Suprema». Al di là delle modalità e dei tempi con cui potere politico e giudiziario brasiliano affronteranno la «patata bollente» Battisti in ballo ci sono anche le relazioni con l'Unione europea che dopo oltre 25 anni di negoziati starebbe finalmente per chiudere l'accordo commerciale con il Mercosur di cui il Brasile è il paese più potente - da ieri l'ex terrorista dorme sicuramente sonni più tranquilli. Con la possibilità, se mai la sua estradizione verrà concessa da Brasilia, di fuggire in un altro paese disposto a dargli rifugio come, ad esempio, la Bolivia o il Venezuela.
"Anarchici irriducibili" Ecco chi sono i fan di Battisti. Gli investigatori: «Gli autori delle scritte a favore del terrorista? Animati dal voler essere sempre contro», scrive Paola Fucilieri, Venerdì 13/10/2017, su "Il Giornale". Per gli investigatori milanesi si tratta di «groppuscoli isolati», animati non da veri e propri ideali quanto dal desiderio di «avere un pretesto» per essere sempre e solo «contro il sistema, lo status quo». Sarebbero comunque e senza dubbio anarchici milanesi, attraverso una serie di scritte apparse sui muri del quartiere di Affori nei giorni scorsi, a inneggiare alla libertà del 62enne Cesare Battisti, il terrorista dal 31 dicembre 2010 formalmente asilante con visto permanente in Brasile e arrestato qualche giorno fa proprio dalle autorità brasiliane ai confini con la Bolivia mentre tentava di fuggire in quel paese. Un fatto, quest'ultimo, che - anche dopo le sue dichiarazioni provocatorie, nelle quali Battisti sostiene di non temere alcunché perché «protetto dall'asilo e da un visto permanente» - ha riportato prepotentemente a galla tutte le polemiche legate alla sua mancata estradizione, richiesta quindi di nuovo e con forza, dai ministeri della Giustizia e degli Esteri attraverso un mandato all'ambasciatore italiano in Brasile. Alle spalle di Battisti quattro omicidi - due commessi da sé, due con altri - oltre a vari reati legati nientemeno che alla lotta armata. Una vita e un bilancio da brividi - senza il beneficio del minimo dubbio - «suggellati» da una condanna a ben quattro ergastoli, sentenza emessa in contumacia e diventata definitiva nel 1993. Eppure, come testimoniano proprio quelle scritte tra via Litta Modignani e via Ippocrate - «Battisti libero», «No all'estradizione», «Assalto al potere», accompagnate da simboli anarchici - c'è ancora chi a Milano, «tifa» per il terrorista, seppure lontanissimo dalle posizioni, ad esempio, degli occupanti del centro sociale «Villa Litta», perché dichiaratosi sempre di area marxista leninista. Una realtà, quella dei suoi «supporter» milanesi, che stride ancora di più se si pensa che, già militante del gruppo «Proletari Armati per il Comunismo», Battisti è accusato di essere il co-autore del delitto di Pierluigi Torreggiani, avvenuto il 16 febbraio 1979 in via Malpighi, in zona Buenos Aires. Un agguato nel quale il figlio del gioielliere, Alberto, allora 15enne, dopo un colpo di pistola alla colonna vertebrale, rimase tetraplegico. E da sempre chiede che il terrorista venga consegnato alla giustizia italiana. Battisti, fuggito prima in Francia, si trova in Brasile dal 2004: qui fu arrestato nel 2007 e l'Italia ne chiese l'estradizione. Nel 2009 la Corte suprema brasiliana aveva autorizzato il provvedimento, ma si trattava di una decisione non vincolante, che lasciava l'ultima parola al capo dello Stato. L'allora presidente brasiliano Lula negò quindi l'estradizione concedendo a Battisti lo status di rifugiato politico. Una decisione che pare non possa essere annullata nemmeno da Miguel Elias Temer, presidente del paese sudamericano dall'agosto dell'anno scorso.
Chi è Cesare Battisti, il terrorista e assassino sempre protetto dai potenti. Il rapinatore e killer, diventato poi scrittore di successo, è stato arrestato e poi scarcerato mentre cercava di andare in Bolivia. Ma ora il presidente brasiliano potrebbe revocarne lo status di rifugiato. Un passo importante per l'estradizione in Italia, da cui è scappato 36 anni fa, scrive Paolo Biondani il 12 ottobre 2017 su "L'Espresso". Uno scrittore perseguitato per le sue idee politiche? No, un terrorista pluri-omicida rimasto impunito per volontà del leader di un partito corrotto. Cesare Battisti è stato arrestato, e poi rilasciato, nei giorni scorsi mentre cercava di fuggire dal Brasile alla Bolivia. Una "gita per pescare", secondo lui; molto più credibilmente un tentativo di fuga per evitare di essere rimandato in Italia. Sì, perché dopo anni di "rifugio" in Brasile, Battisti ora rischia di vedersi revocato lo status di rifugiato politico, passo fondamentale per la sua estradizione in Italia. Ridotto ai fatti comprovati, liberato dai fumi ideologici, il caso di Cesare Battisti è la strana storia di un assassino condannato dalla giustizia, ma salvato dalla politica. La giustizia è quella italiana, che gli ha inflitto l’ergastolo per quattro omicidi. Sentenza mai eseguita perché l’ex terrorista rosso è scappato in Brasile, dove il 31 dicembre 2010 l’allora presidente Lula, carismatico leader della sinistra, ha messo il veto all’estradizione, con l’ultimo atto del suo mandato. Uno schiaffo all’Italia: i processi documentano che era lui a impugnare le armi. E le sue vittime furono quattro innocenti ammazzati per vendetta. Ma invece è stato il rapinatore-killer, diventato un romanziere intoccabile, a essere presentato come vittima della repressione italiana negli anni di piombo. Il primo fatto certo è che Cesare Battisti viene arrestato con altri complici a Milano, nel giugno 1979, in una casa dove ha nascosto un arsenale: mitra, pistole, fucili. Sono armi dei “Proletari armati per il comunismo”, che teorizzano un’alleanza “anti-capitalista” con i rapinatori comuni. Da quel covo parte l’indagine che in luglio porta in carcere anche Giuseppe Memeo, il protagonista della foto-simbolo degli anni di piombo: l’autonomo che spara per strada contro la polizia. «Battisti era un rapinatore comune, per soldi, che si è politicizzato in carcere», ha scritto il pm Armando Spataro per «ristabilire la verità» dopo il primo stop brasiliano. Nell’ottobre 1981, mentre sta scontando la prima condanna per banda armata, Battisti evade dal carcere di Frosinone e scappa in Francia. Dove diventa un giallista di successo, difeso da illustri intellettuali. In Italia le indagini continuano e fanno crollare il muro di piombo. Numerosi terroristi confessano. Tra le prove contro Battisti c’è perfino la testimonianza di un cittadino che ha avuto il coraggio di inseguire un commando di terroristi-killer. Battisti viene condannato in tutti i gradi di giudizio per quattro omicidi. Un’escalation spaventosa. Il 6 giugno 1978 ammazza personalmente un maresciallo di Udine, Antonio Santoro. Il 16 febbraio 1979 la sua banda uccide un gioielliere di Milano, Pierluigi Torregiani, il cui figlio Alberto resta paralizzato: è la vittima che protesta da anni contro l’impunità del terrorista. Battisti ha organizzato quel delitto, ma non partecipa all’esecuzione perché lo stesso giorno va a fare da copertura, armato, ai complici che sopprimono un negoziante di Mestre, Lino Sabbadin, “giustiziato” come il gioielliere perché si era opposto a precedenti rapine. Il 19 aprile 1979 è Battisti in persona ad uccidere, a Milano, il poliziotto della Digos Andrea Campagna. Nel 2004 Battisti viene arrestato a Parigi. In giugno i giudici francesi concedono l’estradizione: non è un perseguitato. Battisti però è già tornato libero e fugge in Brasile. Dove viene riarrestato nel 2007. Intanto la Corte europea boccia il suo ricorso: il terrorista in Italia ha avuto processi giusti, con ogni mezzo di difesa e avvocati di fiducia. In Brasile, prima la Procura generale e poi la Corte suprema autorizzano la riconsegna all’Italia. Ma nel 2009 il ministro Tarso Genro gli concede asilo politico. E alla fine Lula ferma l’estradizione. Pochi giorni fa, anche alla luce della fine dell'era Lula in Brasile, l'Italia ha consegnato una nuova richiesta di estradizione per Battisti che sembrerebbe aver trovato l'appoggio dell'esecutivo verdeoro. Una evoluzione diplomatica che avrebbe portato il terrorista a fare le valigie in fretta.
Intervista a Cesare Battisti: “Ho pietà per tutte le vittime del terrorismo, ma io non c’entro: i pm hanno torturato il mio accusatore”, scrive Angela Nocioni il 14 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Parla l’ex militante dei Pac: “Il mio arresto a Curumbà è stato illegale, è stata una trappola”. “Non si può ottenere la mia estradizione senza costringere il Brasile a violare le sue leggi”. No. Non è un fuggitivo di lusso che aspetta in un rifugio tropicale dorato di riuscire a bloccare la sua estradizione. E’ un sessantatreenne in canottiera, controllato a vista dalla Policia federal, barricato in un appartamentino prestatogli fuori San Paolo. E’ circondato dai fantasmi anni Settanta di un militante dei Proletari armati per il comunismo, vecchi poster di Carlo Marx e amici devoti del giro degli esiliati per ragioni politiche in Brasile che, come satelliti amorevoli, ruotano da anni attorno a lui. Che di loro è il più famoso, il più esposto, l’unico sull’orlo di una detenzione con fine pena mai. Cesare Battisti, condannato in Italia all’ergastolo per quattro omicidi dei quali si dice innocente, dichiara che la testimonianza di Pietro Mutti, l’elemento con cui è stato condannato, è una testimonianza falsa “ottenuta con la tortura”. Perché Mutti accusò lui e non un altro? “Perché i procuratori gli ordinarono di denunciare me e non un altro”. Dice di avere pietà per le vittime della lotta armata. “Ho già detto alla stampa brasiliana, più di dieci anni fa, che riconosco la mia responsabilità per aver fatto parte della lotta armata. Mi dispiace, certo che mi dispiace, della sofferenza di tanta gente. L’ho detto. Sembra però che tutto quello che ho detto in Brasile non meriti molta attenzione da parte dei politici italiani”. Sulle vicende di questi giorni: “L’ambasciata italiana voleva che rimanesse segreto l’accordo col Brasile per mettermi di corsa su un aereo per l’Italia. Non volevano darmi la possibilità di difendermi. Doveva essere una estradizione express per impedirmi di difendermi. Il mio arresto a Curumbà è stato illegale, è stata una trappola”. “Non si può ottenere la mia estradizione senza costringere il Brasile a violare le sue leggi. Nel giugno del 2011 il plenum del Tribunale supremo ha approvato per 6 voti contro 3 il decreto di Lula che negava l’estradizione. Solo dopo quel voto io sono uscito di prigione. Si tratta di una decisione dell’esecutivo, giudicata e approvata dal massimo organo giudiziario del Brasile. Estradarmi significherebbe violare un diritto acquisito e violare la decisione presa dal plenum del Tribunale supremo, violare una decisione giudiziaria che prevale su qualsiasi decisione politica”.
Ha detto che teme di essere ucciso in Italia. Per volere o su mandato di chi dovrebbe essere ucciso e perché?
«Sono più di dieci anni che diversi politici, poliziotti, membri dei sindacati delle guardie carcerarie e altri mi fanno arrivare minacce. D’altra parte, se l’ex ministro della difesa Ignazio La Russa ha detto che mi avrebbe voluto torturare personalmente… L’ha detto ai giornalisti. Ma non è nessuna gran notizia. Molti detenuti politici sono morti nelle prigioni italiane. Molti si sono suicidati, sono caduti dalle scale, questo è noto. Le autorità italiane che negano queste morti cercano di nascondere un’informazione già nota. Organizzazioni i diritti umani hanno denunciato per decenni questi strani decessi».
Pietro Mutti è il suo unico accusatore, lei hai sempre detto che Mutti avrebbe dichiarato il falso. Chi non le crede dice: “Ammettiamo pure che Mutti abbia mentito per ottenere dei benefici personali, ma perché ha accusato Cesare Battisti? Perché non un altro?”. Perché l’ha fatto? Si può sapere perché Mutti ce l’avrebbe dovuta avere con lei?
«Mutti era mio amico, ma nessuno può resistere alla tortura compiuta con ferocia. E’ una questione fisica, biologica, non è necessariamente qualcosa che riguarda la morale. Perché denunciò me e non un altro? Perché i procuratori gli ordinarono di denunciare me, non di denunciare un altro! La persona torturata deve obbedire a chi ordina la tortura. Può rimanere il dubbio sul motivo per il quale i procuratori scelsero me. Io ero, di tutto questo gruppo, l’unico che scriveva cose che venivano lette in diversi paesi. Io per molto tempo ho fatto dettagliate denunce riguardo la scomparsa di detenuti politici, le torture e gli abusi. E guardate, dopo quarant’anni la persecuzione continua».
Ha sempre denunciato di essere stato condannato all’ergastolo senza prove. Anzi, “nonostante l’esistenza di prove documentali che mi scagionano e solo attraverso una testimonianza falsa” m’ha detto in passato. Perché allora non chiede la revisione del processo?
«L’Italia ha sempre detto che il mio processo non sarà rivisto».
Il governo italiano dice che vuole la sua estradizione “anche per restituire in parte ciò che è stato tolto alla nostra comunità e ciò che è stato inflitto alle vittime del terrorismo”. Vorrei la sua opinione.
«Beh, dovrei sapere intanto se parlano del terrorismo fatto dai fascisti, la Banca dell’agricoltura, l’Italicus, piazza della Loggia, la stazione di Bologna. Quelle stragi fecero centinaia di vittime. Senza contare gli studenti uccisi, gli operai, le femministe, i militanti di alcuni partiti politici. Se si riferiscono a questo terrorismo, la miglior informazione la potrebbero ottenere dalle forze fasciste e mafiose che sostennero quei governi».
In Italia l’accusano, tra l’altro, di non aver mai pronunciato una parola di pietà per le vittime del terrorismo. Non parlo delle persone morte nei quattro omicidi per i quali è stato condannato, ma delle vittime della lotta armata degli anni Settanta.
«Io ho già detto alla stampa brasiliana, più di dieci anni fa, che riconosco la mia responsabilità per aver fatto parte della lotta armata. Mi dispiace, certo che mi dispiace, della sofferenza di tanta gente. L’ho detto. Sembra però che tutto quello che ho detto in Brasile non meriti molta attenzione da parte dei politici italiani».
Se arriva il via libera del giudice del Tribunale supremo, cosa faranno i suoi avvocati? I reati per i quali è stato condannato sono prescritti in Brasile. Il decreto presidenziale di rifiuto dell’estradizione sarebbe immodificabile per legge dopo cinque anni dalla firma e ne sono passati quasi sette. Lei è padre di un minore, cittadino brasiliano, e non potrebbe per questo per legge essere estradato. Cosa pensa di fare la sua difesa?
«Mio figlio ha quattro anni. I miei avvocati stanno usando tutti gli elementi legali contro l’estradizione, che sono molti. Lo continueranno a fare sempre. Già hanno denunciato che il decreto di Lula non può essere modificato. Sono protetto dallo statuto dello straniero. I miei avvocati denunciano di non aver ricevuto informazioni che avrebbero dovuto ricevere e chiedono d’essere ascoltati».
Cosa farà se verranno a prenderla?
«Confido nella giustizia brasiliana. Il Brasile non ordinerà l’arresto di una persona che è stata liberata da una decisione della giustizia brasiliana. Una nuova detenzione illegale, come quella che m’è toccata finora, penso che sia quasi impossibile. La trappola degli arresti montati, costruiti a tavolino, è diventata pubblica».
Può descrivere cosa è esattamente avvenuto durante il primo controllo di polizia il 4 ottobre, prima che la fermassero una seconda volta nello stesso giorno alla frontiera brasiliana con la Bolivia per poi arrestarla?
«Hanno fermato l’auto in cui viaggiavo due volte. Duecento chilometri prima della frontiera ci ha fermato la Policia Federal Rodoviária. Hanno guardato dentro ogni angolo dell’auto. Sembrava la volessero smontare. E non hanno trovato nulla. Poi ci ha fermato di nuovo, molto prima della frontiera con la Bolivia, un gruppo speciale della polizia federale. Non era polizia di frontiera! Non hanno fermato nessun’altra macchina, solo noi! Ero con due amici. Ci hanno chiesto di mostrare il denaro che avevamo con noi. Ciascuno di noi ha dato il suo, 25 mila reais in tutto. Abbiamo spiegato che volevamo comprare vino, aricoli in cuoio e per la pesca, lì costano meno. A Cananeia, dove vivo, pescatori amici ci avevano chiesto di fare acquisti per loro. Ci hanno portato al commissariato. Un poliziotto ha messo tutti i soldi in una scatola, fotografandola come si fa quando si sequestra una grande quantità di denaro. Diceva che era illegale perché il massimo che ciascuno può portarsi dietro è 10 mila reais (quasi tremila dollari n.d.r.). Tutti e tre gli abbiamo detto che era il denaro di tutti e tre, lui diceva di no. I miei amici hanno protestato, hanno spiegato che loro hanno soldi loro, propri redditi. Li ha zittiti. Poi li ha liberati. Mi ha trattenuto due giorni in cella, ho dormito per terra. Mi hanno accusato di esportazione di valuta e riciclaggio di denaro. Mi ha giudicato un giudice per videoconferenza. Mi ha accusato di violare le leggi sui rifugiati. Io non sono un rifugiato. Dal 2011 sono un residente permanente, un immigrato con documenti regolari di permesso di residenza, documenti che il giudice conosceva perché fanno parte del dossier. Un immigrato può entrare e uscire dal Brasile, deve chiedere il permesso solo se vuol restare fuori più di due anni. Il giudice mi ha strappato in faccia, davanti al monitor della videoconferenza, la richiesta di scarcerazione che gli era arrivata dal mio avvocato e l’ha buttata nella spazzatura. Solo dopo, leggendo i giornali di San Paolo, ho saputo che c’era un aereo della polizia federale pronto là per portarmi dalla cella di Curumbà direttamente a Roma. I soldi sono rimasti a Curumbà».
Cosa ha pensato quando ha saputo che “O Globo” dava per fatto l’accordo tra l’ambasciata d’Italia e il governo brasiliano per cancellare il decreto presidenziale con cui l’ex presidente Lula da Silva il 31 dicembre del 2010 respinse la richiesta della sua estradizione chiesta dall’Italia? Crede sia stata una trappola?
«Fino a che la notizia non è uscita su “O Globo” non si sapeva nulla dell’accordo. Tutto stava avvenendo segretamente, senza informazioni alla stampa, ancora meno agli avvocati. L’Italia voleva impedire la possibilità della mia difesa legale. Nel marzo del 2015, quando mi sequestrarono di fatto ad Embù das Artes, la polizia mi stava portando direttamente in aeroporto. Solo che il mio avvocato arrivò prima. Per questo motivo, questa volta avevano chiesto il silenzio assoluto. La divulgazione del piano poteva pregiudicare la estradizione express. Senza dubbio è stato un piano preparato nel dettaglio».
Ha avuto l’impressione di essere sorvegliato nei giorni precedenti al viaggio? E lungo la strada? Prima che fermassero l’auto in cui stava viaggiando?
«Nei giorni prima del viaggio non ho notato niente. Non ho l’abitudine di vivere pensando tutto il tempo che c’è qualcuno che mi perseguita. Ma quando ci siamo messi in viaggio era molto evidente che ci stavano seguendo. Era una trappola preparata. La polizia non ha fermato nessun’altra auto, non ha controllato a nessun altro i documenti. Vorrei chiarire che non siamo mai arrivati alla frontiera con la Bolivia. Non c’era motivo per fermarci prima del posto di controllo».
YARA E' SEMPRE. SBATTERE IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA.
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore della provincia di Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio 2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto processo come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Venti domande ai magistrati del caso Yara poste da Marco Ventura su “Panorama”. Sono ancora tante, troppe, le cose che non tornano di quest'inchiesta. E finché i giudici non le chiariranno, rimarrà sempre un dubbio sulla colpevolezza di Bossetti. A qualche domanda dovranno pur rispondere magistrati e investigatori, O davvero vogliamo credere che il caso di Yara Gambirasio e del “presunto” assassino, Massimo Bossetti, sia chiuso e la conclusione di questa orribile storia già consegnata agli annali di criminologia? Parlano tutti. E parlano troppo. “Un’indagine pazzesca, faticosissima”, ha detto il pubblico ministero Letizia Ruggeri in conferenza stampa. Passate al setaccio 120mila utenze telefoniche dopo il ritrovamento dei resti della povera Yara tra gli arbusti di un campo incolto a Chignolo d’Isola, tre mesi dopo la scomparsa il 26 novembre 2010. Da lì s’è partiti per estrarre il Dna del cosiddetto “Ignoto 1”, trampolino per uno “screening altissimo di Dna dei residenti della zona”. Diciottomila, pare. E “l’individuazione del nipote del Guerinoni”. Il cadavere di quest’ultimo, autista a Gorno, riesumato si è rivelato quello del padre di “Ignoto 1”, il presunto assassino il cui codice genetico combacerebbe con la piccola traccia organica rinvenuta negli slip di Yara. E ancora: gli investigatori raccontano lo sconforto quando hanno capito che l’“assassino” non era un figlio legittimo ma andava trovata la madre naturale fra 500 donne con le quali Guerinoni aveva avuto contatti. E alla fine eccola, anziana, sposata, con figli. Ed ecco il figlio, e quel Dna “carpito” dalla saliva in un boccaglio, con la scusa dell’etilometro. È Massimo Bossetti, sposato e padre di tre figli fra gli 8 e i 13 anni. “Una indagine da scuole di polizia giudiziaria”, dice Raffaele Grassi capo dello Sco, il Servizio centrale operativo. “Un’operazione di assoluta avanguardia nel settore”, conferma il capo del Ros (carabinieri), Mario Parente. “Il Dna è stato il faro alla luce del quale proseguire le indagini, il puzzle è quasi completato”, conferma la Ruggeri. “Ho gioito come uomo, ma soprattutto come rappresentante di giustizia”, insiste il procuratore capo di Bergamo, Francesco Dettori, di solito così prudente. Il test del Dna “inchioderebbe” il carpentiere di Mapello. I risultati sono stati formalmente comunicati, spiega una nota dell’Università di Pavia cui appartengono i genetisti che hanno svolto le analisi, lunedì 16 giugno. Il giorno stesso Angelino Alfano, ministro dell’Interno, dava in pasto ai media “l’assassino”. In caserma Bossetti veniva ascoltato, e fuori c’era già chi gli urlava contro: “Bastardo, devi morire”. Eppure, manca tutto il resto: l’arma del delitto, il movente, il contesto, riscontri decisivi. Perfino la convalida del fermo, che poi non c’è stata in quanto il Giudice delle indagini preliminari ha stabilito che non c’era pericolo di fuga (ma, vista la gravità del delitto, ha disposto la custodia cautelare).
Le domande sorgono spontanee.
1. È vero che la traccia organica sugli indumenti di Yara era talmente piccola che il test non è più ripetibile ed è perfino incerto che si tratti di sangue o altro?
2. È vero che la cella alla quale si è agganciato il telefonino di Bossetti circa un’ora prima della sparizione di Yara nella zona della palestra potrebbe coprire pure la casa dove Bossetti sostiene di essere rimasto quella sera (col cellulare scarico, in carica)?
3. Se è vero che è stato fatto lo screening genetico a 18mila persone e il cellulare di Bossetti era stato “captato” nella zona della scomparsa, perché il suo Dna non è stato analizzato in precedenza?
4. E se lo è stato, che risultati ha dato?
5. Qual è l’arma del delitto?
6. Perché si parla di ferite punta-taglio? Giovanni Arcudi, direttore di Medicina legale dell’Università di Roma Tor Vergata, contesta che si possano riscontrare dopo tre mesi su un corpo in quelle condizioni.
7. Se un processo accertasse che la traccia è di Bossetti, in assenza di altre prove il colpevole dev’essere per forza lui? (Nel delitto di Via Poma, il test del Dna non ha fatto condannare Raniero Busco, l’ex fidanzato, e in altri processi importanti lo scenario è cambiato nei gradi di giudizio, nel caso Meredith o in quello di Garlasco).
8. Posto che centinaia di casi passati in giudicato in base a test del Dna negli Stati Uniti e in Gran Bretagna sono stati poi inficiati da ulteriori indagini, si può dire che il Dna sia infallibile, o sia da solo una prova assolutamente certa? NB: gli stessi genetisti di Pavia parlano soltanto di “probabilità estremamente elevata, dal punto di vista statistico”.
9. Non è strano che Bossetti sia arrivato a 44 anni, avendo compiuto un delitto così terrificante, senza che mai vi sia stata nei suoi confronti una denuncia, una segnalazione, un gossip per patologie o reati sessuali?
10. Perché Bossetti in tre anni e mezzo non si è trasferito e anche negli ultimi tempi, con la madre sottoposta al test del Dna e lui stesso fermato per la rilevazione dell’etilometro, è rimasto tranquillamente al suo posto?
11. Perché la madre, sapendo, si sarebbe sottoposta tranquillamente al test? È vero che Bossetti lo sapeva e non l’aveva fermata, anzi?
12. Manca la prova di un contatto diretto tra Bossetti e la vittima. Possibile?
13. Se le prove sono così schiaccianti, perché Bossetti si ostina a proclamarsi innocente, estraneo, col conforto di tutta la famiglia?
14. Era proprio necessario trascinare nella pubblicità “negativa” tutte le famiglie coinvolte, compresi i figli minorenni?
15. Perché non sono state prese precauzioni per non calpestare la privacy di persone che col delitto non c’entrano nulla, per esempio il padre anagrafico di Bossetti, la stessa madre, e la vedova dell’autista di Gorno con relativi figli, fratelli, nipoti, etc.?
16. Che senso ha andare a perquisire la casa di Bossetti, dove vive tutta la sua famiglia, a tre anni e mezzo dal delitto?
17. Il Pm, Letizia Ruggeri, ha ricordato che secondo il fratellino, Yara era infastidita da un uomo che la guardava in chiesa. Possibile che ricordi qualcosa di utile un bambino che oggi ha 13 anni e allora ne aveva 9, e al quale sono attribuiti svariati ricordi (ultimo, quello di un uomo “col pizzetto” che osservava la sorella)?
18. È giusto e legittimo fare a qualcuno (non indagato) il test dell’etilometro per un uso del suo Dna diverso da quello previsto? (Attenzione: questa domanda afferisce a diritti fondamentali).
19. Una pressione così forte della pubblica opinione, del governo e delle gerarchie di magistratura e investigatori, può aver indotto a una forzatura delle tracce, a un accanimento investigativo, come emerge anche dalle interviste a poliziotti e carabinieri (anonimi)? (NB: in passato un marocchino, Mohamed Fikri, è finito in carcere come l’assassino di Yara per la traduzione sbagliata di una telefonata ed è rimasto indagato per 2 anni e 8 mesi!).
20. Perché trasferire alla pubblica opinione questo spettacolo di irritazione, gara a chi arriva primo e diversità di vedute, col ministro dell’Interno che annuncia la cattura dell’”assassino”, bacchettato dal procuratore capo di Bergamo che chiede riserbo e a sua volta usa toni di prudenza discordanti rispetto a quelli trionfalistici del procuratore generale di Brescia per il quale il caso è “chiuso” (mentre il questore di Bergamo lo smentisce)?
L'ULTIMO AFFRONTO AD ENZO TORTORA.
L’ultimo smacco a Enzo Tortora, scrive Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Questi sono alcuni estratti testuali della requisitoria del pm Diego Marmo nel luglio 1985:
“Enzo Tortora ha sempre accusato la giustizia napoletana di averlo coinvolto in questa vicenda, non capisco bene perché, non è un mistero per nessuno che io sono convinto della responsabilità di Tortora ma non perché ne fossi convinto nel momento in cui ho messo piede in quest’aula ma perché me ne sono convinto leggendo gli atti, valutando il comportamento processuale ed extra processuale dell’imputato che mi serve non al fine di criminalizzare Tizio, Caio, Sempronio o Mevio, assolutamente no, ma mi serve soltanto il comportamento dell’imputato al fine di valutare la personalità dell’imputato”.
“Lo sappiamo tutti purtroppo che se cade la posizione di Enzo Tortora si discredita tutta l’istruttoria, questo lo sa Tortora ma lo sanno anche coloro che mandano i vari compagni a immolarsi su questo altare per potere screditare questa accusa”.
“Di Monaco, interrogato dal giudice istruttore Spirito che cosa dice: “Lo Iaculli mi fece il nome del presentatore Enzo Tortora”. Cioè significa che non ci può essere errore, non ci può essere dubbio, Enzo Tortora è uno solo, è l’uomo di Portobello, è l’uomo di Cipria, è il presentatore della televisione. Però poi si dirà che Enzo Tortora è Enzo Berri, ma io napoletano non lo conosco, non l’ho mai visto, gli auguro di avere la stessa notorietà di Enzo Tortora ma sicuramente non ha la stessa notorietà di Enzo Tortora”.
“Se prima ci poteva essere equivoco, adesso l’equivoco non c’è più. “Ecco il nostro compare”, perché gli altri detenuti sapevano, non si può giustificare diversamente, non si può dire che c’è stato errore di persona. Vuol dire che dietro queste lettere c’è un regista, c’è Enzo Tortora che fa di tutto per salvarsi da questa imputazione, e lo capisco perché lo fanno tutti gli imputati, ma non ha il diritto assolutamente di dire io combatto per voi, no, lui combatte solo per se stesso”.
“Di Enzo Tortora deputato non mi interessa assolutamente niente, e ci tengo a precisare ma non per giustificarmi, perché le istituzioni sono dalla mia parte, perché il fatto che il capo del mio ufficio abbia ribadito la sua fiducia nei miei confronti è un fatto che mi onora profondamente, quando sarò chiamato nelle sedi istituzionali dirò le mie ragioni. Però quando io ho parlato del voto camorrista non intendevo criminalizzare le centinaia di migliaia di persone che hanno votato Tortora, nemmeno mia madre che probabilmente ha votato Enzo Tortora. Però insisto nel dire che il voto del carcere di Poggioreale significa voto camorrista. Io analizzavo solo quella parte del voto, per dire che è un camorrista che ha chiesto l’appoggio degli altri camorristi, il signor Enzo Tortora è un camorrista, io sto qua per scalzare la presunzione di innocenza, é il mio mestiere quando me ne convinco, e ne sono convinto”.
“Questo Enzo Tortora è quello che ha detto sempre: “Io uscirò dal carcere solo se assolto perché sono innocente”, e se così avesse fatto io l’avrei rispettato veramente perché i signori d’onore io li rispetto, il signor Tortora invece ha pensato che il processo fosse uno spettacolo. Si è verificato che ha chiesto quello che tutto sommato chiedono tutti i detenuti, adombrato delle situazioni di salute per poter uscire dal carcere, con questo non voglio dire che un imputato deve morire in carcere, chi è malato deve essere curato, lo Stato deve attrezzarsi per curare i detenuti. Enzo Tortora ci dice che è malato, e che non può stare in carcere, non faccio della facile ironia, e sarebbe facile farlo sul carcere di Bergamo, la perizia conclude in un certo modo, il giudice disattende, il tribunale della sorveglianza concede. Però se andate a rileggere quelle cartelle cliniche, vedete che quell’imputato viene presentato come uno veramente malato. È quello stesso imputato che ha una vita frenetica, io che sono iperteso non riuscirei a fare un decimo di quello che fa questo signore. Allora sei malato o non sei malato, è vero o non è vero. Tortora non fa una vita tranquilla, in questo lo invidio, ben per lui, hai detto che uscirai dal carcere o libero o con i piedi davanti e invece fai di tutto per uscire dal carcere”.
“Sapete perché Tortora è in questo processo? Perché più si cercavano le prove della sua innocenza e più uscivano le prove della sua colpevolezza. Gli accusatori sono tanti e tutti hanno una estrazione diversa, il signor Tortora abbia la dignità di dire ho sbagliato e di chiedere clemenza”.
Cosa è successo da quel lontano 1985 a oggi?
- Ieri 19 giugno 2014 il pm Diego Marmo è stato nominato assessore per la Legalità a Pompei, ma avrà anche la delega alla Difesa del patrimonio archeologico e ambientale.
- Lui, insieme con gli altri giudici istruttori del processo Tortora, non ha subìto alcun procedimento disciplinare.
- I delatori del conduttore tv non sono mai stati incriminati per calunnia.
- La citazione di Tortora nei confronti delle toghe è stata archiviata dal Csm.
- Il referendum a favore della responsabilità civile dei magistrati non ha avuto alcun seguito.
- E naturalmente Tortora non era un camorrista.
C’è da indignarsi o no?
Lui è Diego Marmo, ed è il pubblico ministero del processo a Enzo Tortora, che venne arrestato il 17 giugno 1983 con l'accusa di associazione camorristica e traffico di droga, scrive “Libero Quotidiano”. Una delle più clamorose storie di malagiustizia in Italia, quella di Tortora. Una storia alla quale però non seguirono né scuse né autocritiche da parte del pm che lo accusava. Una storia di cui si ricorda il travaglio dell'innocente Tortora, i suoi problemi di salute, le violente campagne di stampa, la sofferenza del carcere e una carriera professionale completamente distrutta. Una storia che in qualche modo continua anche oggi: Marmo, infatti, è stato scelto dal sindaco di Pompei per diventare assessore. Nando Uliano, il sindaco neoeletto, lo ha chiamato a far parte della sua squadra: l'ex pm sarà uno dei cinque assessori, si occuperò di legalità e sicurezza ma avrà anche la delega alla Difesa del patrimonio archeologico ed ambientale. Marmo è in pensione dopo una lunga carriera, che lo ha visto anche essere procuratore aggiunto di Napoli, prima di assumere la guida della procura di Torre Annunziata. Nel 2012 curò l'inchiesta sui crolli della schola armaturarum e della casa del moralista. Sulla nomina ad assessore ha spiegato al Corriere del Mezzogiorno: "Quando ho sentito della proposta il mio primo impulso è stato dire no. Poi ha prevalso il fascino della parola Pompei. E quindi mi sono detto che non era giusto rifiutare. Ho deciso di metterci la faccia".
Marmo, il pm del caso Tortora ora è assessore alla legalità, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Si chiama Diego Marmo ed è stato nominato assessore alla legalità del Comune di Pompei. Che c’è di strano? Che Diego Marmo è un ex Pm e non è un ex Pm qualunque: è quel Pm che spedì in carcere Enzo Tortora, ce lo tenne mesi e mesi, si fidò di pentiti bugiardi, non gli indizi e definì Tortora un cinico mercante di morte. Va bene difendere coi denti la non-responsabilità civile dei giudici; va bene esaltare i meriti della magistratura; va bene pretendere autonomia indipendenza e insindacabilità. Va bene tutto, ma addirittura divertirsi ad esaltare la figura del pm che perseguitò Enzo Tortora, lo calunniò in modo feroce, cercò di annientarlo, e poi fu censurato da una clamorosa sentenza di assoluzione, diventando il simbolo dei simboli della giustizia ingiusta e della persecuzione, e decidere, proprio nell’anniversario del barbaro arresto del presentatore, di nominare questo ex pm assessore alla legalità del comune di Pompei…beh, è un po’ esagerato. Credo che persino molti magistrati perbene, onesti, seri, considerino offensiva la decisione del sindaco di Pompei che ha stabilito di affidare questo incarico all’ex pm Diego Marmo. Figuratevi se non siamo favorevoli al diritto all’oblio, anche per i giudici che sbagliano clamorosamente un processo. Figuratevi se siamo noi del Garantista a chiedere pene o vendette. Per carità! Però il valore simbolico di certe scelte non può essere negato. E l’ex pm Marmo è stato nominato assessore alla Legalità proprio nell’anniversario (il trentunesimo) dell’arresto di Enzo Tortora e dell’inizio del calvario che lo portò prima al linciaggio morale e al carcere, poi alla malattia e alla morte. Gli eroi non esistono, naturalmente. Però Enzo Tortora è un po’ un eroe del nostro tempo. Ha sopportato con incredibile dignità la persecuzione e non ha mai rinunciato a lottare. E’ riuscito a sgretolare il castello di accuse e a dimostrare la sua innocenza. Non ha mai perso i nervi, neppure quando il pubblico ministero Diego Marmo lo definì , testualmente, «un cinico mercante di morte», e neanche quando lesse il capo di accusa per colpa del quale gli mettevano le manette e lo chiudevano a San Vittore: ”associazione camorristica e traffico di droga”. Il caso-Tortora lo conoscete tutti: è stato un caso giudiziario vergognoso. Tra l’altro, i radicali proposero il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati proprio come risposta a quella incredibile ingiustizia, dovuta alla superficialità dei magistrati dell’accusa. E vinsero il referendum: i cittadini decisero che i giudici avrebbero dovuto rispondere dei loro errori, come tutti gli altri cittadini, ma poi il governo cancellò quella decisione, stravolgendola. Tortora, al processo di appello, prima che la Corte si riunisse per emettere la sentenza, la sfidò pronunciando parole famosissime: «Io sono innocente. Spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi». I giudici che emisero la sentenza, per fortuna, erano innocenti: e assolsero Tortora senza l’ombra di un dubbio. Adesso, senza eccessi di polemiche, vorremmo rivolgerci anche all’Anm. Con una domanda sommessa: non vi sentite, in qualche modo, offesi anche voi da una decisione così sfacciata? Non credete che, ingiustamente, si finisce in questo modo per offuscare la buona reputazione di tanti magistrati forti e seri, dando a un pm che si porta addosso l’immagine e la responsabilità di quel clamoroso errore giudiziario, addirittura l’incarico di vigilare sulla legalità? Che messaggio si vuole trasmettere? Che la legalità si realizza meglio perseguitando un po’ alla cieca?
LA REPUBBLICA DEI MAGISTRATI.
La repubblica dei magistrati. Quello dei giudici è un ordine che occupa tutti i gangli cruciali del potere pubblico. E che sancisce nascita e morte di politici e partiti, ma che ha correnti come un partito. Un ordine che fa politica e che fa paura, scrive Marco Ventura su “Panorama”. C’è un governo invisibile, diffuso, potentissimo, che fa le leggi, stabilisce che cosa è giusto e sbagliato, fa la fortuna o la sfortuna di aziende, città e categorie sociali, che disegna l’architettura dello Stato e riforma la legge elettorale (o si oppone alla sua riforma). Un governo che non è eletto, anzi non ha alcuna base rappresentativa, che risponde solo a se stesso e concede ai propri membri gli stipendi che desiderano. Un governo, un ordine, che occupa tutti i gangli cruciali del potere pubblico. Un governo che è anche un autogoverno. Che sancisce nascita e morte di politici e partiti, che ha correnti come un partito. Che fa politica, nelle grandi come nelle piccole cose. Che interviene nei casi di coscienza, sui temi etici, sociali, e siede su un gradino più alto rispetto ai rappresentanti del popolo e agli scienziati. Un governo che può proclamare la prevedibilità dei terremoti. Che vive crisi temporanee di potere solo per lo scontro fratricida dei suo esponenti più in vista. È il governo dei magistrati. Un governo i cui risultati, stando alla sua “ragione sociale” di garantire la giustizia, è fallimentare secondo gli standard europei (l’Italia è all’ultimo posto nella UE per numero di arretrati nella giustizia civile e al penultimo per durata media dei processi). L’Europa è scandalizzata dalla “irresponsabilità” per legge dei magistrati italiani che non pagano di persona per i propri errori, a differenza dei loro colleghi. La magistratura governa l’Italia, fa le veci di Palazzo Chigi ma anche del Parlamento. Costringe quasi l’Ilva a chiudere e il governo a fare decreti per evitare il tracollo dell’industria siderurgica italiana e di tutta una regione (la Puglia). Impone la costruzione delle moschee nelle città. Oggi ha smantellato con una sentenza della Cassazione la legge 40 che vieta la fecondazione eterologa. L’altro ieri ha sancito che è illegittimo licenziare un dipendente che usi i computer aziendali per navigazioni private. Il suo potere discrezionale è così ampio da poter decidere quasi a piacere sui licenziamenti in base al famoso articolo 18. È una magistratura che a distanza di anni può bocciare una legge elettorale e consacrare la non rappresentatività di governi e parlamenti, in più le sue sentenze si trasformano di fatto in nuove leggi elettorali (pur folli e lontane dalla volontà del Parlamento). Una magistratura che può bocciare il blocco gli aumenti automatici ai magistrati, cioè a se stessa, a dispetto della crisi epocale che l’Italia sta attraversando e della difficoltà di fare la spending review. Alla faccia, soprattutto, di chi non arriva alla fine del mese. Infine, una magistratura che dopo vent’anni di braccio di ferro con Berlusconi, oggi leader dell’opposizione, è riuscita a condannarlo e a fargli scontare una pena che in una misura o nell’altra lo costringerà a limitare la propria campagna elettorale (e a non candidarsi). Non so perché ma mi tornano alla mente due brani del grande scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt. Nel primo (“La panne”) un ex magistrato si rivolge a un malcapitato rocambolescamente trasformato in imputato di un processo-gioco: “Carissimo signor Traps… noi quattro, seduti attorno a questo tavolo, siamo in pensione e ci siamo liberati dalla inutile farragine delle formule, dei protocolli, delle scribacchiature, delle leggi e di tutta quella robaccia che opprime le nostre aule di tribunale. Noi giudichiamo senza alcun riguardo alla meschinità dei codici e dei paragrafi”. L’altro da “Il sospetto”: “La legge è la legge. X = X. La frase più spaventosa che sia mai salita verso quel cielo eternamente sanguinante, eternamente notturno che sta appeso sopra di noi. Come se esistesse una determinazione indipendente dalla forza e dal potere che ciascuno detiene! La legge non è la legge, la legge è il potere”.
Chiudiamo l'Italia, comandano i giudici. Tempo fa proposi provocatoriamente di chiudere Montecitorio, Palazzo Madama e perfino Palazzo Chigi, delegando tutto il potere - legislativo ed esecutivo - al Quirinale. In tempi di spending review forse si può fare qualche cosa di meglio e cioè chiudere anche la presidenza della Repubblica, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Tirando giù le serrande di parlamento, governo e anche dell'edificio che ospita il capo dello stato risparmieremmo circa 2,5 miliardi di euro l'anno, più o meno ciò che Renzi recupera da Iva e banche, con la differenza che il taglio non sarebbe una tantum, ma definitivo. Pensate un po': non esisterebbe più neppure il parametro dei 239 mila euro cui fermarsi per limare gli stipendi dei manager pubblici (a proposito, ma a 88 anni Napolitano ha ancora bisogno di un simile appannaggio? Non potrebbe fare il beau geste di rinunciarvi, accontentandosi della pensione?) e dunque i boiardi potrebbero essere pagati ancor meno e gli italiani si risparmierebbero un sacco di complicazioni burocratiche che i Palazzi del potere partoriscono ogni giorno. Proposta provocatoria? Mica tanto. Del resto a che serve il baraccone istituzionale che ci teniamo da oltre sessant'anni? In fondo ormai in questo paese decidono tutto i giudici, dunque meglio cambiare la Costituzione e stabilire che la Repubblica è fondata non sul lavoro ma sulla magistratura, ordinaria, amministrativa e perfino speciale. Esagerazioni? Macché: nei fatti è già così. Prendete ciò che è successo in questi giorni, a cominciare dalla vicenda che riguarda Silvio Berlusconi. Il destino di una forza politica che è stata fino a ieri maggioranza nel Paese e ad oggi è un elemento determinante della vita politica e del processo di riforme della Repubblica è in mano alle toghe. Tocca a loro decidere per il pollice verso, ovvero per il divieto al Cavaliere (ex) di fare politica. Loro, non gli elettori saranno determinanti nella decisione che riguarderà l'uomo politico che ha guidato l'Italia per anni. E, sempre loro, stabiliranno se gli italiani potranno sentire il loro leader o vederlo impegnato nella prossima campagna elettorale. Si dirà, Berlusconi è stato condannato e la giustizia fa il suo corso. Vero, ma chissà perché quando si tratta del leader del centrodestra è un corso che viene percorso in fretta, tanto in fretta che perfino il direttore del Fatto quotidiano ha suggerito di rallentare, rinviando ogni decisione a dopo le elezioni europee. Ma tant'è. Il Cavaliere ha quasi settantotto anni, è un pericoloso criminale e non si può lasciare a piede libero, pena il rischio che reiteri il reato e rivinca le elezioni. Ma non è tutto. A conferma che la nostra è una Repubblica giudiziaria ci sono altri fatti. Il primo è quello che riguarda la decisione della Corte costituzionale sulla fecondazione eterologa. Siccome il Parlamento in passato aveva approvato una legislazione restrittiva, ci hanno pensato i supremi giudici a renderla più ampia. Via i divieti e fecondazione assistita per tutti. Chi se ne importa delle decisioni dei rappresentanti del popolo, quelli che contano sono i rappresentanti della Consulta, i quali ormai si sono sostituiti al Parlamento, bocciando e modificando tutto ciò che non gli garba. A ciò si aggiunge che le toghe, massime o minime non fa differenza, non modificano soltanto le norme che riguardano principi etici come il dono della vita e la possibilità di procreare secondo natura, ma mettono mano anche altrove, ad esempio su coppie di fatto e matrimoni gay. Camera e Senato si attardano e non approvano la legge che consente la regolarizzazione delle unioni omosessuali (per altro provvedimento che dovrebbe essere preso al più presto, proprio per evitare che la giustizia faccia da sè)? Niente paura, ci pensa il giudice, che ordina al comune di registrare le nozze fra due uomini celebrate all'estero. La legislazione italiana non lo consente? Fa nulla, il giudice dispone l'ordinanza e se il comune si opporrà a decidere sarà la Corte costituzionale, cioè quelli della fecondazione eterologa e il Parlamento si adeguerà. Altra dimostrazione? La faccenda Emirates che raccontiamo oggi su Libero. La compagnia araba decide di scommettere sull'Italia e di inaugurare un volo Roma-New York, ma alla concorrenza non piace, così - in barba agli inviti agli stranieri a venire a investire nel nostro paese - interviene il Tar, che sospende il volo e lascia a terra gli aerei di Dubai. E poi dicono non sia vero che la giustizia tarpa le ali all'Italia. All'Alitalia no, ma alla Emirates si. Potremmo continuare per pagine e pagine a raccontarvi di sentenze che scavalcano le leggi e cambiano le carte in tavola: dall’eutanasia (vedi caso Eluana) ai rapporti tra famigliari. Ma ci siamo capiti. Dunque, visto che comandano i giudici e che decidono loro sia in materia di leggi, che di politica e concorrenza, meglio darci un taglio. Resteremo sempre sudditi, ma almeno avremo la consolazione di risparmiare due miliardi e mezzo. Giudicate voi se è poco.
GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.
Giustizia e politica “Made in Sud”, scrive Giuseppe Mele su “l’Opinione”. È vero, come ricorda Giacalone, che negli ultimi decenni hanno governato uomini e donne del Nord. Non è una novità. In un secolo e mezzo, poche sono state le eccezioni (Moro, Nitti, Crispi, De Mita, Leone, D’Alema, Segni, Orlando, Salandra, Cossiga). D’altro canto, l’impressione che lo Stato e la sua burocrazia siano ampiamente meridionalizzati e borbonici è una solida realtà. La partitica apicale è nordista, ora come agli inizi di Cavour, Rattazzi e Ricasoli. La mentalità dello Stato nelle sue branche centrali e locali è, invece, meridionale. Simbolo e vertice di questa mentalità è la giustizia, dove la maggioranza dei 10mila togati proviene da sotto il Tevere. Dopo un lungo periodo di mitizzazione, in cui la magistratura è apparsa rivestire i superpoteri dei fumetti della Marvel, questa leadership è stata consacrata al secondo ruolo istituzionale del Paese. Tale secondo potere, meridionale, del Paese, conduce con successo, da un trentennio, una guerra interna, dall’alto di una sorte di opricnina, un governo a latere, svincolato dal resto dell’ordinamento. Forte di questa indipendenza, ha promosso al massimo grado tutti i difetti intellettuali, che da un certo punto di vista sono tradizionalmente caratteristici proprio della borghesia mediterranea, dall’azzeccagarbuglismo all’amore per le grida spagnole, dall’istigazione alla litigiosità spicciola, dall’ampio familismo all’interpretazione di tutta la vita sociale secondo i canoni delle regioni più arretrate dell’arretrato Sud, alla consuetudine della pluralità di incarichi, al controllo totale della gestione burocratica della grazia e della giustizia, oltre che delle carceri. Ogni anno i vertici togati a livello centrale e periferico con piacere sarcastico snocciolano i dati di un triste fallimento. Lo fanno con foga e passione, come se la gestione e dunque la responsabilità non fosse loro. La giustizia è di per sé tra le macchine pubbliche meno costose, anche per il numero limitato di personale coinvolto. I magistrati erano nel 1980 quasi 7mila e oggi sono quasi 9mila (con un picco di 9200 nel 2011), gli onorari sono 4mila, i giudici di pace 2300 (dopo il picco del 2002 di 4200). A questi 15mila si aggiungono 40mila secondini (nel 1980 erano 14mila) e 47mila impiegati (23mila nel 1979, con un picco di 54mila nel 2001). Centomila addetti per una giustizia che costa 7 miliardi (2013), l’1,30% del bilancio rispetto allo 0,85% del 1980 (con un picco di quasi 9 miliardi nel 2009). La Francia spende la metà, la Germania il doppio. Invece sulle carceri l’Italia spende il doppio dei due Paesi europei, malgrado che la quota relativa di spesa sia scesa dalla metà al 40%. I detenuti d’altra parte sono raddoppiati, da 30mila a 66mila, soprattutto per l’aumento esponenziale di quelli in attesa di giudizio. Prima i condannati erano 27mila, la grande maggioranza; ora lo sono solo 38mila detenuti. Il 43% della popolazione carceraria non è ai sensi di legge colpevole. Il disastro massimo sta nei processi in corso, non smaltiti, 2,7 milioni civili e 5 milioni penali, in trent’anni cresciuti di tre volte dai 1,3 e 1,3 milioni del 1980. Processi della durata di 8 e 5 anni medi, secondo una prudente ricostruzione degli uffici del Senato, molto più lunghi secondo i dati europei. Com’è noto sul settore giustizia l’Italia viene sistematicamente condannata, sia per le violazioni dei diritti degli accusati che per l’uso del carcere come strumento di tortura; le condanne sono saldate in termini di miliardi, sia come risarcimento a detenuti che come multe a Bruxelles, dall’erario. Le uniche giustificazioni plausibili a questo status disastroso stanno nel naturale alto tasso di litigiosità, il cui record è diviso tra Roma e Madrid e nel limitato numero di togati, inclusi i non professionisti, che sono in Italia 16 ogni 100mila abitanti, 55 in Francia e 154 in Germania. D’altro lato, negli altri Paesi europei la conciliazione è un’alternativa effettiva e cogente rispetto al tribunale, che invece in Italia resta l’unico sbocco reale delle controversie. La malandata situazione nei decenni ha prodotto tentativi di riforma, polemiche politiche al calor bianco e referendum anti-toga. Per parte propria l’associazione nazionale togata si è asserragliata nel fortino catilinario dell’etica, con intercambiabili alleati sia di sinistra che di destra, dando più volte l’assalto alla partitica, addirittura con un proprio partito delle procure, giungendo nei momenti di maggiore difficoltà ad appellarsi anche all’Onu per i “progetti di riforma del Consiglio Superiore della Magistratura che vogliono sminuirne l’indipendenza”. Neanche si trattasse di una minoranza etnica o repubblica autonoma. Mai un dubbio che lo “sfacelo giustizia” sia conseguenza delle modalità di gestione e, in ultima analisi, della stessa visione economica e sociale della vita del Paese. Non c’è aspetto e attore economico, industriale, istituzionale, finanziario, tecnologico, sindacale, politico che non sia stato in questi decenni pesantemente influenzato, artefatto, sconvolto, drogato, salvato, cancellato dall’indipendenza togata, al punto che per controbilanciarne gli effetti ci vorrebbe un apposito Antitrust. L’assolutismo togato, sciolto da qualunque limite, sorse quasi per caso, sullo scalino della scaletta che doveva portare l’ultimo re in esilio. Non fu la Repubblica, né la Resistenza e neppure il primissimo ministro di Giustizia nel II e del III Governo De Gasperi, il comunista Fausto Gullo per il quale l’obbligo era mandare assolte le vendette di Bube e fratelli. L’assolutismo togato fu un regalo, un bon bon regale del “re di maggio”, probabile padre dell’attuale monarca quirinalizio. L’ultimo e unico atto legislativo di Umberto, consumatosi il 31 maggio del 1946, fu la legge delle guarentigie, che vennero estese, oltre al Papa ed ai Vescovi, anche ai magistrati, resi inamovibili e indipendenti dal relativo ministero. Un caso unico in Europa. All’epoca, si volle considerare il provvedimento come una rivalsa anticipata alla grande amnistia attuata un mese dopo, che mandò liberi mandanti e autori della mattanza dei 50mila in odore di fascisti. Si immaginava che la Costituente avrebbe cassato la strana norma che poneva 20mila dipendenti dello Stato su un altro pianeta. Cattolici e comunisti non avevano una buona opinione dei togati, né della loro associazione che, anche se sciolta dal fascismo, appariva una congrega massonica, governativa, conservatrice, meridionale, impegnata in una guerra civile meridionale di cui i maxi processi antimafia erano caratteristica costante da quelli di Viterbo del 1912 (e poi del 1952). In fase di redazione, a difendere la drole de loi fu uno capi dei laici, il leader repubblicano Conti, che aveva passato gli anni del regime da un cielo a scacchi all’altro ed era uno degli ultimi per i quali “Repubblica” era sinonimo di eversione al sistema. La Malfa senior, invece, aveva passato gli anni fascisti con Mattioli da direttore dell’ufficio studi della Banca Commerciale ed in Treccani da seguace dell’ideologo, mezzo rosso e mezzo nero, del corporativismo Spirito. Siciliano, La Malfa aveva seguito l’oro dei consigli materni, che l’aveva indirizzato al disprezzo per le terre natali e alla carriera di successo nella finanza al nord. Di fronte al collega di partito Conti (che dopo la prodezza scomparve dalla storia patria) e alle sue vere stimmate carcerarie, il repubblicano siciliano tacque. Così il partito più filoamericano italiano si rese responsabile di sostenere le ubbie corporative di quelle terre meridionali, temute come un gorgo passatista capace di risucchiare in sé ogni progresso. Questa è stata d’altronde la storia degli uomini più intelligenti, più preparati, più autorevoli; dei laici, da Croce a La Malfa, dai liberali agli azionisti, fino ai Bobbio ed al partito Repubblica; la storia del continuo tradimento del proprio campo naturale, la storia della guerra alla parte migliore del Paese e ai programmi più evoluti. Una storia rovesciata che tutt’oggi rimpiange d’essere stata “ingenua” e di non essere riuscita “tra il 1992 e il 1994, con 1408 condanne definitive, ad estirpare dal potere la corruzione”. Parola del già senatore casertano Ds e Pd (2006 e 2008) Gerardo D’Ambrosio, magistrato tra il 1957 ed il 2002, capace di assolvere la polizia per il malore attivo dell’anarchico Pinelli, il Pci per il terrorismo rosso ed i finanziamenti, Pisapia dall’ex comunismo ma non Freda e Ventura, non Calvi, non la Parenti che indagava sul tesoriere Pds, non Mastella, reo di indulto nel luglio 2006 e di calcoli sbagliati (uscirono 25mila detenuti e non 12mila). Condoglianze a D’Ambrosio, testé deceduto, simbolo di un’epoca, di una generazione e di un potere che perpetua i suoi difetti, contraddittoriamente ossessionato dal disinteresse per la terra natia e da un improbabile atlantismo di sinistra, dalla fede nell’opulento occidentalismo e nell’oscuro dirigismo austero e sparagnino dell’anticapitalismo della burocrazia e dell’usura. Che mantiene stile, buona educazione e distinzione. Senza che ciò basti, come ricordano gli imputati suicidi e gli attori economici travolti, ad ottenere un titolo di galantuomo.
COLPEVOLE DI ESSERE INNOCENTE.
Colpevole di essere innocente. «E dovete sperare bene anche voi, o giudici, dinanzi alla morte e credere fermamente che a colui che è buono non può accadere nulla di male, né da vivo né da morto, e che gli Dei si prenderanno cura della sua sorte. Quel che a me è avvenuto ora non è stato così per caso, poiché vedo che il morire e l’essere liberato dalle angustie del mondo era per me il meglio. Per questo non mi ha contrariato l’avvertimento divino ed io non sono affatto in collera con quelli che mi hanno votato contro e con i miei accusatori, sebbene costoro non mi avessero votato contro con questa intenzione, ma credendo invece di farmi del male. E in questo essi sono da biasimare». Si chiamava Socrate, era nato ad Atene nel 469 a.C. da Sofronisco, abile scultore, e Fenarete, apprezzata levatrice. Fu coraggioso combattente, eroe di guerra, membro del Consiglio dei Cinquecento, filosofo e bevitore. Morì innocente. Condannato dai giudici che sapevano di condannare un innocente, scrive Nino Spirlì. Ah, quanto bene scrisse di lui il Grande Platone. Quanti insegnamenti, da un condannato. Eppure… Fosse stato per i suoi concittadini e, soprattutto, per coloro che lo trascinarono in tribunale, noi posteri non avremmo dovuto nemmeno conoscerlo, quel nome. Invece, Socrate ha cavalcato e cavalcherà i secoli, mentre di loro, di quegli infami, non resta ricordo. Sappiamo solo che quella massa senza nome si fece rappresentare da un certo Meleto, poetucolo di piccola fama, pubblico accusatore, che ebbe al proprio fianco un cuoiaio, Anito, e un demagogo, Licone. L’accusa? Socrate corrompe i giovani, offende gli dei della città e ne crea di nuovi. La verità? Socrate spingeva il popolo a pensare, a chiedersi il perché, a rileggere la propria esistenza, partendo dall’assunto “So di non sapere”. E questo lo rendeva nemico del Potere. Perché, di per sé, era Potere. La Libertà è, infatti, la sola Forza della Natura. E, dunque, esercitarla, goderla, ricercarla, e offrirla è già una dichiarazione di guerra verso il Palazzo. Con Socrate, e con molti dopo di Lui, non è mai stata in pericolo la democrazia, ma il Potere sì. Perché la democrazia è voce di popolo, mentre il Palazzo è terrore e mistero. Segreti e interessi. Poteva, il Palazzo di quel tempo, e può, Quello di oggi, sopportare che esistano Uomini Liberi, non assoggettati, mai schiavi delle logiche di potere? Sarebbe un suicidio del Palazzo stesso. Una sorta di condanna a morte. E, quindi, il processo, fra tanti, al Giusto. Che accetta la condanna, nel rispetto della Legge, pur conoscendo la propria innocenza. Che decide di non scappare. Di scontare la pena, per non dover mortificare il proprio pensiero sul doveroso rispetto di quella Legge. Che beve la cicuta, amaro calice, croce divina, per amore di Verità. E’ la storia di certi processi. Da Socrate in poi, passando per Gerusalemme, fino a noi.
CHE INGIUSTIZIA PERO'!!! DAI CARABINIERI ENTRI VIVO E NE ESCI MORTO O SCONTI LA PENA NELLA CELLA ZERO.
Varese, il tribunale riapre il caso Uva: "Processate per omicidio poliziotti e carabinieri". Il gip ha respinto la richiesta di archiviazione e ha deciso di accogliere l'istanza della famiglia dell'operaio che morì in ospedale, nel giugno del 2008, dopo essere stato trattenuto tre ore dai carabinieri, scrive Sandro De Riccardis su “La Repubblica”. Giuseppe Uva Il caso Uva non è chiuso. C'è ancora la speranza di arrivare alla verità sul decesso di Giuseppe Uva, l'operaio di 43 anni morto al pronto soccorso dell'ospedale di Varese, il 14 giugno 2008, dopo essere stato trattenuto tre ore nella caserma dei carabinieri. Il giudice delle indagini preliminari Giuseppe Battarino ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dai pm Agostino Abate e Sara Arduini e ha deciso di accogliere l'istanza della famiglia, che tramite l'avvocato Fabio Anselmo e Alessandra Piva chiedevano nuove indagini, soprattutto sui fatti accaduti in caserma, e un nuovo processo. Il gip ha stabilito l'imputazione coatta di tutti gli imputati per omicidio preterintenzionale (più altri reati minori). Già il tribunale monocratico di Varese assolvendo il medico del pronto soccorso, Carlo Fraticelli, indagato per omicidio colposo, aveva demolito l'impianto accusatorio della Procura, chiedendo che si cercasse la verità non sul comportamento dei medici del pronto soccorso, ma nelle tre ore precedenti trascorse dalla vittima nella caserma dei carabinieri. Una pista mai battuta dal pm Abate, che non ha sentito l'unico testimone portato in caserma insieme con Uva, Alberto Biggioggero, l'amico del 'Pino'. Biggioggero è stato interrogato solo poche settimane fa da Abate, a cinque anni dalla tragedia, lo scorso 26 novembre 2013, e solo dopo che il ministero della Giustizia aveva presentato richiesta di azione disciplinare. Poi anche la Procura generale della Cassazione aveva stigmatizzato il comportamento del pm Abate, che aveva chiesto l'archiviazione degli otto fra agenti di polizia e carabinieri indagati per lesioni personali, iscritti in un nuovo fascicolo. Nella sentenza con cui aveva assolto il medico, il tribunale aveva chiesto di indagare sulla caserma "perché tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti all'interno della stazione dei carabinieri" e ignoti sono "i fatti nella stazione dei carabinieri al cui esito Uva, che mai aveva avuto problemi psichiatrici, verrà ritenuto necessitare di un tso", il trattamento sanitario obbligatorio. E proprio Biggioggero aveva raccontato di "un viavai di carabinieri e poliziotti, mentre udivo le urla di Giuseppe che echeggiavano per tutta la caserma assieme a colpi dal rumore sordo. Urla per circa un'ora e mezzo". Dalla caserma, Uva arriva al pronto soccorso alle 6 di mattina e prende i farmaci che - secondo la Procura - lo portano alla morte. Per il tribunale però le quantità somministrate "sono assolutamente inidonee a causare il decesso". Restano senza risposta invece i tanti interrogativi di quella notte: quali traumi hanno provocato il sangue sui jeans Rams di Uva "fra il cavallo e la zona anale"? Chi ha fatto sparire gli slip di Uva, rimasto con "un pannolone e una maglietta"? Perché le scarpe sono "visibilmente consumate" davanti - mette a verbale il poliziotto in servizio in ospedale - come per "un'estenuante difesa a oltranza dell'uomo"? Interrogativi a cui la nuova inchiesta, con tutti gli ostacoli legati al tempo trascorso, potrebbe dare una risposta.
Da tempo i familiari dell'artigiano, 43 anni, morto il 14 giugno 2008, denunciavano che aveva subito violenze in caserma. Lo scorso 3 dicembre l'allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero titolare dell'indagine. Il giudice: "E' stato percosso", scrive Il Fatto Quotidiano. Il giudice per le indagini preliminari di Varese Giuseppe Battarino ha ordinato l’imputazione coatta per omicidio preterintenzionale e arresto illegale degli otto rappresentanti delle forze dell’ordine, due carabinieri e sei agenti di polizia, indagati in relazione al caso di Giuseppe Uva, morto il 14 giugno 2008 all’ospedale di Varese dopo avere trascorso parte della notte nella caserma dell’Arma. Per il giudice Uva “è stato percosso da uno o più dei presenti in quella stanza, da ritenersi tutti concorrenti materiali e morali”. La morte sarebbe quindi “causamente connessa in particolare con la prolungata costrizione fisica associata a singoli atti aggressivi e contenitivi”. Il giudice nel corso dell’udienza ha respinto quindi la richiesta di archiviazione presentata del pm di Varese Agostino Abate. Secondo i familiari, Uva avrebbe subito violenze in caserma. Lo scorso 3 dicembre l’allora ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri aveva avviato un’azione disciplinare nei confronti del pubblico ministero. Uva, 43 anni, venne fermato dai carabinieri a Varese assieme a un amico perché, a detta dei militari, i due – ubriachi – stavano chiudendo una strada con alcune transenne. Accompagnati in caserma, l’artigiano venne interrogato mentre l’amico aspettava in un’altra stanza. E fu proprio lui a chiamare, di nascosto, l’ambulanza del 118 poco dopo. Perché, a suo dire, dalla camera dell’interrogatorio si sentivano le urla di Giuseppe, chiari segnali di un pestaggio. Uva giunse nel reparto psichiatrico dell’ospedale varesotto alle 5,45 del mattino, alle 10,30 morì. La famiglia denunciò subito quelle che sembravano lesioni provocate da violente percosse. Tra l’altro l’uomo indossava un pannolino sporco di sangue e dei suoi slip non c’era traccia. “Gli infermieri mi dissero che l’avevano dovuto lavare – raccontò a suo tempo Lucia –. Ma lavare da cosa, visto che mio fratello era uscito di casa pulito?”. A dare la svolta a questa vicenda è stata di fatto l’assoluzione, il 24 aprile 2012, di tre medici. Il giudice assolvendo i tre camici bianchi aveva ordinato “la trasmissione degli atti al pubblico ministero in sede, con riferimento agli accadimenti occorsi tra l’arresto dei carabinieri e l’ingresso di Giuseppe Uva nel pronto soccorso dell’ospedale”. In seguito alla decisione del gip la Procura dovrà formulare entro 10 giorni la richiesta di rinvio a giudizio. Oltre all’omicidio preterintenzionale e all’arresto illegittimo il giudice ha ipotizzato anche l’accusa di abuso di autorità contro arrestati o detenuti. La sorella di Giuseppe Uva, Lucia, assistita dall’avvocato Fabio Anselmo, ha esultato dopo la lettura dell’ordinanza. “Finalmente la verità sta venendo a galla – ha spiegato commossa – ora chiediamo che il caso venga affidato a un nuovo pm”. “Finalmente, dopo sei anni di occultamento della verità a opera del pubblico ministero, Agostino Abate, incomincia a emergere, nella maniera più nitida, la verità sulla morte di Giuseppe Uva. Il giudice per le indagini preliminari ha deciso per l’imputazione coatta nei confronti dei due carabinieri e dei sei poliziotti che si trovavano nella caserma di Varese dove, per quasi tre ore, è stato trattenuto illegalmente Giuseppe Uva” dice il presidente della commissione per la Tutela dei diritti umani Luigi Manconi. “Anni di menzogne – aggiunge – vengono finalmente ribaltate e ciò si deve all’intelligenza e alla tenacia di Lucia e degli altri familiari di Uva e alla loro fiducia nella giustizia”. “Siamo sorpresi – ha spiegato Luca Marsico, legale dei poliziotti e dei carabinieri – mi lascia perplesso la pesantezza delle accuse ipotizzate nei confronti dei miei assistiti, mai contestate in altri casi simili”.
LA CELLA ZERO.
Poggioreale, l'incubo "cella zero". Le denunce sui pestaggi dei detenuti. Dopo l'inchiesta dell'Espresso di qualche mese fa, con il racconto di un ex detenuto su botte e minacce ricevute da un gruppo di guardie carcerarie, ora sono diventate oltre cinquanta le confessioni raccolte dai magistrati napoletani sui maltrattamenti nella famigerata "cella zero", scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. C’è “melella”, che si è guadagnato questo soprannome perché “quando beve le guance gli diventano rosse come due mele mature”. C’è “ciondolino”, che quando arriva nelle celle, a notte fonda, lo riconosci da lontano per via di quel tintinnio “proveniente da un voluminoso mazzo di chiavi che gli ciondola attaccato ai pantaloni”. Poi c’è “piccolo boss”. Non è molto alto di statura, è silenzioso, però “picchia forte e zittisce tutti”. Insieme sono “la squadretta della Uno bianca”. Almeno, è così che li chiamano i carcerati di Poggioreale, il carcere di Napoli. In memoria di un terribile caso di cronaca nera degli anni Novanta. Solo che in questa vicenda i protagonisti non sono feroci killer che vestono la divisa della polizia di Stato ma un piccolo gruppo di agenti della penitenziaria che – secondo le testimonianze di alcuni detenuti – si sarebbe reso responsabile di ripetuti pestaggi notturni, minacce, vessazioni e umiliazioni nei confronti dei carcerati “disobbedienti”. Rinchiusi nudi e al buio per ore intere, in una cella completamente spoglia ribattezzata la “cella zero”. Sono salite a 56 le denunce dei detenuti del penitenziario napoletano che hanno messo nero su bianco, davanti ai magistrati della Procura di Napoli, le presunte violenze subite dietro le mura di una delle carceri più sovraffollate d’Europa. La punta di un iceberg fatto di sistematiche violazioni dei diritti umani che l’Espresso aveva documentato già lo scorso gennaio , riportando tra l’altro la testimonianza esclusiva di una delle vittime, un ex detenuto di 42 anni che ha riferito di aver subito durante la sua permanenza di cella “pestaggi e trattamenti disumani in una cella con le pareti sporche di sangue”. Il corposo dossier presentato due mesi fa dal garante dei detenuti della regione Campania, Adriana Tocco, nel frattempo si è dunque arricchito di decine di altre testimonianze, sempre più drammatiche e sempre più ricche di dettagli. Per l’esattezza, si tratta di 50 nuove denunce e altri 6 esposti, contenute in due diversi fascicoli che ora sono al vaglio dei procuratori aggiunti Gianni Melillo e Alfonso D’Avino. Un’inchiesta, questa, che potrebbe far vacillare i vertici dell’istituto penitenziario partenopeo e gettare nell’imbarazzo l’intero dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, proprio alla luce dell’ennesima stroncatura ricevuta pochi giorni fa dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, con la quale Strasburgo ha mandato a dire al nostro Paese – senza tanti giri di parole – che i provvedimenti presi finora dall’Italia per sanare la piaga carceri (il recente decreto approvato da Camera e Senato) sono insufficienti a riabilitare il nostro sistema carcerario. E così a maggio il nostro Paese – condannato un anno fa con la storica sentenza Torreggiani – potrebbe vedersi costretto a pagare una maxi multa. Le deposizioni dei detenuti ed ex detenuti napoletani, intanto, sono già iniziate e continueranno anche nelle prossime settimane. Testimonianze ancora tutte da verificare, questo è certo, ma che per ora sembrano dipingere un abisso di soprusi e vessazioni. Nei loro racconti davanti alle toghe i carcerati ricostruiscono la punizione della “cella zero” – una cella completamente vuota che si trova al piano terra del carcere - con tanto di linguaggi in codice da parte del gruppo di agenti che avrebbe preso parte alle violenze. Un gruppo ristretto di “mele marce”, visto che a onore del vero la maggior parte dei poliziotti in forza al carcere partenopeo viene descritta dagli stessi detenuti come “sana” e composta da agenti coscienziosi e votati al sacrificio che non si risparmiano con ore e ore di straordinari in condizioni usuranti. Questa piccola squadretta, invece, avrebbe compiuto negli ultimi anni abusi di potere continui. “La punizione della cella zero”, raccontano i detenuti nelle loro denunce, “consiste nell’essere confinati in una cella isolata, completamente vuota, nudi e al buio, per intere ore, sottoposti a pestaggi e minacce”. Poi c’è qualche terribile eccezione. Uno dei detenuti che ha da poco presentato un esposto davanti ai magistrati napoletani, infatti, un ragazzo italiano di 35 anni finito in carcere per reati di droga, racconta di essere stato rinchiuso nella cella zero “tre giorni consecutivi”. La dinamica appare la stessa per tutti i detenuti. “Ci portano lì dentro di notte, quando molti di noi già dormono”, raccontano, “e ci picchiano uno per volta”. “Tempo fa”, mette nero su bianco un ex detenuto, “ci hanno portati lì in otto, ma poi il ‘trattamento’ è stato fatto uno per volta”. Già, ma in cosa consiste – esattamente – questo “trattamento”? I detenuti lo raccontano con tragica naturalezza. Innanzitutto, parte l’ordine: Scinne a ‘stu detenuto, “fai scendere questo detenuto”. In pochi minuti, il prescelto viene portato nella cella zero, e viene spogliato di tutto. La cella è umida, vuota, ha le pareti e il pavimento sporche “di sangue ed escrementi”. A questo punto secondo i racconti partirebbero le percosse. “Ci picchiano a mani nude o con uno straccio bagnato, per non lasciare segni sul corpo”, verbalizza nella sua denuncia uno dei detenuti, “alcuni di loro hanno in mano un manganello, ma lo usano solo per spaventarci”. Mentre incassano le botte, i detenuti iniziano a sanguinare. La paura di entrare in contatto con liquidi infetti è enorme. Ecco perché “tutti gli agenti mentre picchiano indossano guanti di lattice”. Ai pestaggi seguirebbero quindi le minacce. Racconta un detenuto: “Uno di loro mi ha detto: “se provi a riferire quello che hai visto te la faccio pagare’”. Quindi, a botte concluse, da parte degli agenti della penitenziaria arriverebbe anche un’offerta: “Vuoi andare a farti medicare in infermeria?”. “Inutile aggiungere che nessuno di noi ha il coraggio di farsi portare dagli infermieri ma sopporta il dolore in silenzio”, racconta uno dei detenuti negli esposti, “o al limite si fa medicare alla meno peggio dai compagni di cella”. La squadretta secondo i detenuti sarebbe composta da tre o quattro agenti, ai quali i carcerati hanno assegnato appunto diversi soprannomi. Come “ciondolino”, “melella”, “piccolo boss”. Tutti riconoscibilissimi, visto che avrebbero agito a volto scoperto. Questo è il motivo per cui i magistrati napoletani vogliono proteggere con grande discrezione l’identità dei testimoni in attesa di verificare che le loro accuse siano attendibili, precise e concordanti. Anche confrontando la cronologia dei presunti pestaggi subiti dai detenuti con i fogli di turno e i registri di presenza degli agenti. Di sicuro, secondo i racconti dei detenuti, a far divampare la rabbia delle “guardie” basterebbe un pretesto. Una risposta sbagliata, un atto di disobbedienza, un banale battibecco. Ed eccoli scaraventati nell’inferno “cella zero”. Uno scenario nero che nelle prossime settimane potrebbe arricchirsi di nuove testimonianze e accuse e che quasi certamente culminerà con un’ispezione carceraria a Poggioreale.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti.
IL CARCERE E LA GUERRA DELLE BOTTE.
Detenuto registra frasi shock: "Le botte ti saranno utili, la Costituzione non vale in questo carcere". Le parole degli agenti penitenziari: "Tanto da qui tu e gli altri uscirete più delinquenti di prima", scrive Maria Novella De Luca il 04 dicembre 2015 su “La Repubblica”. "Brigadiere, perché non hai fermato il tuo collega che mi stava picchiando?". "Fermarlo? Chi, a lui? No, io vengo e te ne do altre, ma siccome te le sta dando lui, non c'è bisogno che ti picchio anch'io". Botte. E ancora botte. Sevizie. Perché con i detenuti, parole di agente penitenziario, "ci vogliono il bastone e la carota". Un giorno di pugni e l'altro no, "così si ottengono risultati ottimi". E la paura tiene buoni. Lividi, percosse, le ossa rotte, inutile nascondersi sotto la branda. Tanto "il detenuto esce dal carcere più delinquente di prima", e, dice ancora il brigadiere, "non perché piglia gli schiaffi, ma perché è proprio il carcere che non funziona". La registrazione è così nitida da far sentire il freddo sulla pelle. Chi parla è Rachid Assarag, detenuto marocchino quarantenne, che sta scontando una pena di 9 anni e 4 mesi nelle carceri italiane. E chi risponde sono gli agenti, ora di un penitenziario ora di un altro. La conversazione è una testimonianza agghiacciante di quanto succede nei nostri istituti penitenziari. Dove il detenuto Rachid (condannato per violenze sessuali) viene ripetutamente picchiato e umiliato dagli agenti addetti alla sua custodia. La prima volta nel carcere di Parma, racconta Rachid, dove in quattro (guardie) lo seviziano con la stampella a cui si appoggiava per camminare. Lui denuncia, ma chi crede alle parole di un detenuto? Così Rachid, assistito dall'avvocato Fabio Anselmo, mentre viene trasferito in undici carceri diverse dal 2009 (Milano, Parma, Prato, Firenze, Massa Carrara, Napoli, Volterra, Genova, Sanremo, Lucca, Biella), inizia a registrare tutto. Conversazioni con la polizia penitenziaria, medici, operatori e magistrati. Voci dall'inferno. Come quando le guardie entrano nella sua cella per "scassarlo" di botte, o il sovrintendente ammette: "questo carcere è fuorilegge, dovrebbe essere chiuso da 20 anni, se fosse applicata la Costituzione". Agente con accento napoletano: "Mi hai fatto esaurire, ti sei anche nascosto sotto il letto". Rachid: "Perché mi volevate picchiare". "Se ti volevamo picchiare era più facile che ti prendevamo e ti portavamo giù". Giù. Dove forse nessuno sente e nessuno vede. Sono le botte la rieducazione, come dice chiaramente qualcuno che Rachid chiama "brigadiere". Probabilmente un sovrintendente della polizia penitenziaria. Rachid registra e registra. Incalza anche: "Voi qui non applicate la Costituzione". La risposta del brigadiere (lo stesso che teorizzava una seconda razione di botte per Rachid che chiedeva "fermati" all'agente che lo stava picchiando) è incredibile: "Se la Costituzione fosse applicata alla lettera questo carcere sarebbe chiuso da vent'anni. In questo carcere la Costituzione non c'entra niente...". Le registrazioni di Rachid escono dal carcere, e l'associazione "A buon diritto" di cui è presidente Luigi Manconi, decide di renderle pubbliche. Conversazioni acquisite dai magistrati, e che testimoniano quanto gli abusi sui detenuti siano una (atroce) prassi abituale nei nostri penitenziari. Dai quali, come ammettono gli stessi agenti "si esce più delinquenti di prima, ma non per gli schiaffi che prendono, o quantomeno non solo, ma perché è l'istituzione carcere che non funziona". Commenta Luigi Manconi, presidente, anche, della Commissione per i diritti umani: "Il carcere per sua natura e per sua struttura produce aggressività e violenza, e come dice il poliziotto penitenziario si trova in uno stato di permanente illegalità. Riformarlo è ormai un'impresa disperata. Si devono trovare soluzioni alternative". Rachid: "Devo uscire dal carcere più cattivo di prima? Dopo tutta questa violenza ricevuta, chi esce da qui poi torna". E il "superiore" invece di smentirlo difende l'uso della violenza come metodo rieducativo. "Le botte? Con questi metodi noi abbiamo ottenuto risultati ottimi". Tanto da dietro le sbarre nessuno parla, come dimostra il caso di Stefano Cucchi. Da anni Rachid Assarag registra e fa esposti. Ma quasi nulla accade. Anzi mentre le denunce degli agenti nei suoi confronti avanzano, quelle di Rachid si arenano. Assarag da un mese è in sciopero della fame, ha perso 18 chili. Di recente è stato di nuovo denunciato per aver bloccato le ruote della carrozzina in cui ormai viene trasportato, per aver insultato le guardie e rovesciato la branda in cella, "disturbando il riposo e le normali occupazioni degli altri detenuti". Rachid, qualunque sia il reato di cui un detenuto si è macchiato, testimonia con le sue registrazioni che nei penitenziari italiani la violenza è prassi. Scrive l'associazione "A buon diritto": "Se Assarag dovesse morire in carcere, nessuno potrebbe dire che non si è trattato di una morte annunciata".
A Parma un detenuto ha registrato di nascosto le guardie che parlano di pestaggi in cella: «Ne picchiamo tanti, qui comandiamo noi». Con minacce e intimidazioni, come si evince dalle registrazioni ottenute dall'Espresso, scrive Giovanni Tizian su "L'Espresso". La guardia carceraria si lascia andare: «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu». Il medico del penitenziario è ancora più esplicito: «Vuole denunciarle? Poi le guardie scrivono nei loro verbali che non è vero... Che il detenuto è caduto dalle scale; oppure il detenuto ha aggredito l’agente che si è difeso, ok? Ha presente il caso Cucchi? Hanno accusato i medici di omicidio e le guardie no... Ma quello è morto, ha capito? È morto per le botte». Parlano liberamente davanti a un detenuto che protesta per i pestaggi in cella, ignorando che l’uomo li sta registrando. E che adesso quei nastri entreranno a far parte di un processo per capire cosa accada in una delle carceri italiane, più volte condannate dalla Corte europea per il trattamento disumano dei reclusi. Tra pochi giorni a Roma si aprirà il processo d’appello sulla fine di Stefano Cucchi, il giovane stroncato in soli sette giorni di custodia cautelare dopo un arresto per droga. In aula al fianco della famiglia Cucchi ci sarà l’avvocato Fabio Anselmo, che ha condotto una contro-inchiesta sulla morte del giovane romano. E ora il penalista è convinto di potere documentare un altro grave caso di vessazioni in cella grazie ai nastri, rivelati in esclusiva da “l’Espresso”. Uno stralcio delle registrazione audio del detenuto nel carcere di Parma mentre parla con la guardia del pestaggio subito in cella. Tutti gli audio sono stati inviati in Procura dall'avvocato della vittima. Le registrazioni non sono opera di un Henry Brubaker, il direttore in incognito del film con Robert Redford, ma di un detenuto marocchino condannato a nove anni per violenza sessuale. Rachid Assarag tra il 2010 e il 2011 si trovava nel carcere di Parma. E qui sostiene di essere stato picchiato durante la detenzione. Per documentare le sue accuse, la moglie italiana gli ha consegnato un minuscolo apparecchio audio, che ha usato per incidere le conversazioni con il personale dell’istituto. La magistratura non si è ancora pronunciata: il suo esposto giace da molti mesi sulla scrivania dei pm di Parma. Invece la querela presentata contro di lui da alcune guardie per violenza e oltraggio si è rapidamente trasformata in processo. Ed è proprio questo giudizio che l’avvocato vuole sfruttare per ribaltare la situazione. Le trascrizioni degli audio raccolti all’interno del penitenziario - affidate a una società specializzata che lavora anche per l’autorità giudiziaria - sono impressionanti: presentano uno spaccato di violenza e omertà. Viene proclamata un’unica legge: «Se tu ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male...», spiega un agente. E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: «Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata... Non credo che lei abbia il potere di cambiare niente». Nel penitenziario emiliano sono passati boss del calibro di Bernardo Provenzano e Totò Riina, lì si trova pure Marcello Dell’Utri. Provenzano in un colloquio con il figlio aveva accennato a «legnate» inferte in cella, ma un’ispezione del ministero non ha trovato riscontri. Ben diversa la sorte delle accuse mosse da Aldo Cagna, condannato a trent’anni per l’omicidio della sua ex fidanzata. Due agenti gli avrebbero inflitto un supplemento di pena, picchiandolo, schiaffeggiandolo, buttandolo giù dalle scale, gettandogli addosso candeggina. La Cassazione a giugno ha riconosciuto la responsabilità delle guardie, punendole con una sentenza a 14 mesi. Anche Rachid Assarag è dentro per un crimine “da infame”: ha stuprato due studentesse ventenni e per questo sarebbe stato picchiato, secondo le regole non scritte del carcere. Lui, straniero e stupratore, con un altro precedente per violenza contro le donne, non si sarebbe dovuto ribellare. L’unica ad ascoltarlo è stata la moglie, una trentenne di Como, che gli ha fatto avere il registratore. Nelle parole degli intercettati si intravede un sistema punitivo parallelo. Per cercare di documentarlo, il detenuto ha spinto gli agenti a parlare: «Sì, sì, va bene: tu sei entrato dopo. Ma io sento la tua mano sulla mia faccia e il tuo piede sulla mia schiena... Perché tutta questa violenza?!». Il funzionario replica laconico: «Perché ti devi comportare bene». Nei nastri si sente il recluso che descrive la chiazza di sangue sul muro della cella: «Va bene assistente, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?». «Sì, ho visto», conferma la guardia. Denunciare però è inutile: «Comandiamo noi. Come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici», dichiara un agente: «Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io...». L’avvocato Fabio Anselmo è convinto di potere dimostrare con i nastri il calvario: «Dopo il suo arrivo Rachid viene lasciato per tre giorni senza poter utilizzare l’acqua corrente; di questo parla con un assistente che pur condannando il comportamento tenuto dai colleghi, afferma che non testimonierà mai contro di loro». Neppure il medico è disposto a intervenire: «Se io faccio una cosa del genere oggi, mi complico solo la vita». Nonostante l’assenza di conferme giudiziarie, il legale ritiene che «a Parma i detenuti venivano ciclicamente sottoposti a violenza da parte degli agenti che non ne rispondono mai in quanto coperti da un sistema che intacca le funzioni della custodia e anche della loro cura sanitaria, perché i medici sono costretti a tacere se non vogliono subire ritorsioni». “L’Espresso” ha contattato il direttore dell’epoca, Silvio Di Gregorio, ora responsabile dell’ufficio del personale della polizia penitenziaria, che ha preferito non rilasciare dichiarazioni. I sindacati anche negli scorsi mesi hanno difeso la corretta gestione dell’istituto, chiedendo “alla politica” di prendere posizione in sostegno del difficile lavoro svolto nel penitenziario. Il rappresentante del Sappe ha forti perplessità sul metodo utilizzato dal detenuto nel ricercare le prove: «Mi sembra strano che possa aver registrato, nel carcere non è possibile avere niente di elettrico, non ci sono telefoni», dichiara Errico Maiorisi che si occupa della struttura emiliana. «La denuncia la può fare comunque, si vedrà chi ha ragione e chi ha torto. Poi per carità c’è qualche collega che può sbagliare e il detenuto può denunciare, ma mi sembra strano che si possa registrare». Insomma, le prossime udienze saranno decisive. Per ora è la parola di un detenuto contro quella di un gruppo di agenti. Con in più una manciata di audio.
La procura emiliana ha iscritto tra gli indagati alcuni poliziotti penitenziari per i presunti pestaggi subiti da un detenuto marocchino, che però aveva registrato le confessioni degli agenti: «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu», ammetteva un poliziotto. Ecco gli audio in esclusiva acquisiti dalla magistratura, scrive ancora Giovanni Tizian su "L'Espresso". Un'inchiesta della magistratura fa tremare il super carcere di Parma dove sono detenuti alcuni tra i più importanti criminali italiani. I sospetti picchiatori in divisa che lavorano, o hanno lavorato, nel penitenziario emiliano adesso hanno un nome. I ripetuti pestaggi subiti da un detenuto, e rivelati in esclusiva l'anno scorso da “l'Espresso”, sono finiti in un fascicolo sulla scrivania del sostituto procuratore di Parma Emanuela Podda. Le ipotesi di reato vanno dalla calunnia alle lesioni al falso fino all'abuso metodi di correzione o di disciplina. In tutto gli indagati sono otto. Gli episodi di violenza sarebbero avvenuti tra il 2010 e il 2011 e sono stati denunciati dalla vittima, Rachid Assarag, condannato per violenza sessuale e attualmente detenuto a Sanremo. Decisive sono state le registrazioni fatte all'interno del carcere da Assarag e consegnate alla moglie. In quegli audio, pubblicati da “l'Espresso”, e acquisiti dai magistrati su richiesta dell'avvocato Fabio Anselmo, si sentono le voci degli agenti che ammettevano gli abusi. Uno stralcio delle registrazione audio del detenuto nel carcere di Parma mentre parla con la guardia del pestaggio subito in cella. Tutti gli audio sono stati inviati in Procura dall'avvocato della vittima. Il detenuto è stato già sentito dal pm. Un lungo confronto durante il quale ha riconosciuto da un album fotografico gli agenti che lo avrebbero picchiato. Da qui l'indagine ha fatto un passo ulteriore, e gli indagati ignoti sono diventati noti. A ogni volto è stato dato un nome. «Il n. 41 è colui che compare nella registrazione in cui dice che ne ha picchiati tanti e non ricorda se anche me; il n. 30 è colui che, dopo che gli altri mi avevano picchiato, mi ha dato la coperta e mi ha detto che non poteva fare nulla; il n. 91 è colui che è stato mandato dall'ispettore a convincermi a non fare la denuncia e che nelle registrazioni dice che non testimonierà mai contro il suo collega, anche se ha visto tutto; riconosco il n. 59 ed il n. 41 come due di coloro che mi hanno picchiato; il 59 ha usato la stampella per picchiarmi; ho parlato varie volte con il magistrato di sorveglianza, che sapeva tutto e non ha mai fatto nulla. Ho avuto con lei almeno quattro colloqui, due nella sala e due in cella». Nell'album fotografico mostrato ad Assarag durante l'interrogatorio ci sono facce che riconosce senza esitazione. Indica i presunti colpevoli e quelli che invece volevano aiutarlo, ma non lo hanno fatto per timore di ripercussioni. Violenza e omertà. Stesse sensazioni che emergono dall'ascolto delle registrazioni fatte da Rachid Assarag durante la detenzione a Parma. La prepotenza come metodo di rieducazione, per questo tra le ipotesi di reato c'è l'abuso di mezzi di correzione. A questa svolta si è arrivati grazie alle registrazioni effettuate in carcere da Assarag, che tra il 2010 e il 2011 si trovava nel carcere di Parma. E qui sostiene di essere stato picchiato durante la detenzione. Per documentare le sue accuse, la moglie italiana gli ha consegnato un minuscolo apparecchio audio, che ha usato per incidere le conversazioni con il personale dell’istituto. In quelle conversazioni alcune guardie ammettevano gli abusi: «Ne ho picchiati tanti, non mi ricordo se in mezzo c’eri anche tu». Dopo la pubblicazione di questa frase e di molte altre, gli audio sono state acquisiti dalla procura. E ora ci sono i primi indagati. Le trascrizioni presentavano uno spaccato spaventoso. Come se all'interno delle celle esistesse un'unica legge, non scritta: «Se tu ti comporti bene, ti do una mano, però se tu ti poni male...», spiega un agente. E quando il detenuto descrive le botte allo psicologo della struttura, riceve una risposta lapidaria: «Dentro il carcere funziona così, le regole vengono fatte dagli assistenti, dal capo delle guardie, c’è una copertura reciproca, una specie di solidarietà reciproca tollerata... Non credo che lei abbia il potere di cambiare niente». Dal super carcere di Parma sono passati boss del calibro di Bernardo Provenzano e Totò Riina, lì si trova pure Marcello Dell’Utri e da qualche tempo è arrivato anche Massimo Carminati. Provenzano in un colloquio con il figlio aveva accennato a «legnate» inferte in cella, ma un’ispezione del ministero non ha trovato riscontri. Ben diversa la sorte delle accuse mosse da Aldo Cagna, condannato a trent’anni per l’omicidio della sua ex fidanzata. Due agenti gli avrebbero inflitto un supplemento di pena, picchiandolo, schiaffeggiandolo, buttandolo giù dalle scale, gettandogli addosso candeggina. La Cassazione a giugno scorso ha riconosciuto la responsabilità delle guardie, punendole con una sentenza a 14 mesi. Anche Rachid Assarag è dentro per un crimine “da infame”: ha stuprato due studentesse ventenni e per questo sarebbe stato picchiato, secondo le regole non scritte del carcere. Lui, straniero e stupratore, con un altro precedente per violenza contro le donne, non si sarebbe dovuto ribellare. L’unica ad ascoltarlo è stata la moglie, una trentenne di Como, che gli ha fatto avere il registratore. Nelle parole degli intercettati si intravede un sistema punitivo parallelo. Per cercare di documentarlo, il detenuto ha spinto gli agenti a parlare: «Sì, sì, va bene: tu sei entrato dopo. Ma io sento la tua mano sulla mia faccia e il tuo piede sulla mia schiena... Perché tutta questa violenza?!». Il funzionario replica laconico: «Perché ti devi comportare bene». Nei nastri si sente, inoltre, il recluso che descrive la chiazza di sangue sul muro della cella: «Va bene assistente, guarda il sangue che è ancora lì, guarda, non ho pulito da quel giorno, lo vedi?». «Sì, ho visto», conferma la guardia. La denuncia però si scontra contro un muro di gomma: «Comandiamo noi. Come ti porto, ti posso far sotterrare. Comandiamo noi, né avvocati, né giudici», dichiara un agente: «Nelle denunce tu puoi scrivere quello che vuoi, io posso scrivere quello che voglio, dipende poi cosa scrivo io...». Assarag è assistito dall'avvocato Fabio Anselmo (lo stesso del caso Cucchi e Aldrovandi), che è convinto di potere dimostrare con i nastri gli abusi subiti: «Dopo il suo arrivo Rachid viene lasciato per tre giorni senza poter utilizzare l’acqua corrente; di questo parla con un assistente che pur condannando il comportamento tenuto dai colleghi, afferma che non testimonierà mai contro di loro». Il legale, in una memoria, scrive: «A Parma i detenuti venivano ciclicamente sottoposti a violenza da parte degli agenti che non ne rispondono mai in quanto coperti da un sistema che intacca le funzioni della custodia e anche della loro cura sanitaria, perché i medici sono costretti a tacere se non vogliono subire ritorsioni». Nel frattempo Assarag con il piccolo apparecchio ha registrato altre confessioni e denunciato altre violenze subite nelle carceri in cui è stato traferito. Ma gli agenti hanno risposto con una controdenuncia. A Parma, ma anche a Prato e a Firenze Sollicciano. Gli esposti dei poliziotti hanno portato rapidamente a processo il detenuto con accuse di resistenza, violenza e calunnia. Ma durante quelle udienze, i giudici hanno accolto la richiesta della difesa di acquisire le registrazioni. Ora quelle voci e quelle confessioni sono al vaglio degli inquirenti toscani.
C’è un legale che difende le vittime degli abusi compiuti dalle forze dell’ordine. Ha molti nemici, ma sta scrivendo la storia dei diritti civili, scrive Roberto Saviano su "L'Espresso". Chi il primo ottobre scorso si fosse trovato in tribunale a Napoli, verso le 11 del mattino, avrebbe sentito un boato. Durante l’udienza del processo per l’omicidio di Davide Bifolco - il diciassettenne ucciso dal colpo di pistola sparato da un carabiniere il 5 settembre 2014 al Rione Traiano durante un inseguimento - alla lettura della ordinanza con la quale il giudice ha ordinato alla Procura un supplemento di indagine, chi era in aula ha esultato. Un amico mi ha chiamato in tempo reale, per dirmi quello che stava succedendo: l’euforia per una nuova possibilità in un processo che sembrava già scritto, nonostante alcune incongruenze degne di approfondimento. Il 19 novembre ci sarà la prossima udienza, a me, però, non interessa oggi parlare del processo, ma di un metodo. Il metodo è quello di Fabio Anselmo, di professione avvocato, legale della famiglia Bifolco. Ci sono tanti modi per fare il proprio lavoro, uno è farlo bene. Così, qualunque cosa facciate, riuscirete a lasciare il segno, a fare scuola. Ma non sarà facile, perché chi fa bene il proprio lavoro spesso finisce nel mirino di chi invece lo fa male. Spesso viene isolato, creduto mitomane, egocentrico, esagerato, soprattutto perché le uniche parole che restano sono quelle dei detrattori. Nell’immediato accade così, ma nel lungo termine, il livore lascia il posto a ciò che, mattone su mattone, si è costruito. Il 13 settembre 2014, immediatamente dopo l’omicidio Bifolco, Stefano Zurlo sul “Giornale” scrive un articolo su Fabio Anselmo. Il titolo è “L’avvocato che processa (in tv) i poliziotti”. Poi la parola passa a una vecchia conoscenza, Gianni Tonelli, segretario del Sap (Sindacato autonomo della Polizia): «Quando c’è un poliziotto nei guai, ecco che spunta lui. L’avvocato Fabio Anselmo. È come il prezzemolo. Per Aldrovandi. Per Cucchi. Per Uva». Il Sap è sempre in prima linea nel difendere poliziotti accusati di crimini nell’esercizio delle proprie funzioni, come con l’applauso agli assassini di Federico Aldrovandi; impossibile dimenticarlo. E, stranamente, non ha speso una parola (mai!) su Roberto Mancini, il poliziotto ucciso da un tumore sviluppato per aver lavorato per anni nella Terra dei fuochi. Secondo il Giornale, Anselmo «il processo lo istruisce in tv e sui giornali. Lo dilata e lo distribuisce in pillole all’opinione pubblica». Ma quello che vorrebbe essere un articolo critico, finisce, dando la parola ad Anselmo, col centrare il punto: «È vero io faccio i processi mediatici. Altrimenti, e questo è stato scritto dai giudici, i miei casi sarebbero o rischierebbero di essere trascurati, dimenticati, archiviati frettolosamente. Sarebbero casi di denegata giustizia. La verità - insiste lui - è che io soffio sul fuoco dell’opinione pubblica perché il controllo da parte dei cittadini è un parametro fondamentale della giustizia». Il controllo dei cittadini è tutto, anzi è un dovere: senza l’attenzione della opinione pubblica, l’amministrazione della giustizia finirebbe per diventare un discorso tra tecnici, mentre a essere in ballo sono i diritti dell’individuo. Oggi Anselmo rappresenta la famiglia Bifolco, ma il suo nome è legato ai casi Aldrovandi, Cucchi, Uva, Magherini, tutti processi che se non fossero diventati “mediatici” avrebbero percorso strade completamente diverse. Tutti processi che finivano per vedere, sul banco degli imputati, non più chi aveva picchiato o premuto il grilletto, ma le vittime e la loro vita, rivoltata come un calzino. Tutti processi in cui le vittime rischiavano di diventare colpevoli. In un’intervista alla “Nuova Ferrara”, Anselmo dice: «senza processi mediatici, quelli reali poi non si farebbero, nella grande maggioranza dei casi» e sottolinea come ciò che generalmente trova spazio sui media ha contorni differenti rispetto ai casi di cui si occupa come avvocato. Lui li definisce “morti di Stato”, persone che sembrano essere morte perché reiette, meritevoli di morire e che spesso l’opinione pubblica declassa a morti di cui non è necessario curarsi. Fabio Anselmo è quell’avvocato che, con il proprio lavoro, ha insinuato nella mente di molti un dubbio, il dubbio che al nostro ordinamento manchi qualcosa di fondamentale: il reato di tortura. Perché un poliziotto che salva un cittadino non cancella il reato commesso dal poliziotto che abusa del suo potere. Fabio Anselmo, da anni, sta contribuendo a scrivere, riga per riga, la storia dei diritti civili nel nostro paese. Facendo bene il suo lavoro. Ma questo lo capiremo tra qualche decennio.
DELITTO DI STATO. FEDERICO PERNA.
Un’altra madre, un’altra famiglia impotente di fronte a una vicenda carceraria che si conclude con il peggiore degli epiloghi: la morte di un uomo che, varcato il cancello che separa i liberi dai reclusi, smette di essere trattato come tale, scrive Michele Marangon su “Il Corriere della Sera”. Quel confine, troppo spesso in Italia, si sta trasformando in un punto di non ritorno. La vicenda di Federico Perna, 34enne originario di Latina deceduto l’8 novembre scorso mentre era ristretto a Poggioreale, ha ora la voce della madre Nobila Scafuro, decisa a tutto pur di far emergere la verità sul calvario patito dal figlio, malato, tossicodipendente, palesemente non in grado di sopportare il regime detentivo. Eppure tenuto in cella, sbattuto di carcere in carcere, sino a quando il suo corpo non ha detto basta. Per giorni nessuno, dall’alto, è intervenuto per uno così: senza santi al ministero, con una famiglia né ricca né influente. Fino a venerdì, quando il guardasigilli Annamaria Cancellieri ha disposto una «rigorosa indagine amministrativa interna» parallela all’inchiesta della procura della Repubblica. Ogni storia è a sé, ma questa di Federico - tossicodipendente con precedenti per furto, rapina, lesioni personali, evasione - per certi versi non può che rimandare a quella del romano Stefano Cucchi, che si è conclusa allo stesso modo. La prima cosa che viene da chiedersi è se lui si mai stato picchiato, ma la signora Nobila, tono fermo seppur stremato da questi giorni di dolore, rincara la dose: «Le dico di più -dice raggiunta telefonicamente da Corriere.it -secondo me è stato torturato. Siamo di fronte a un vero e proprio omicidio di Stato. Io ho tantissimi interrogativi a cui avere risposta…mica uno solo». Si legge, nella risposta del ministero datata giovedì 28 novembre, a seguito di una interrogazione in commissione Giustizia, di come Federico abbia rifiutato il ricovero in ospedale, ma Nobila è di altro avviso. «Mi pare che si stiano dando la zappa sui piedi: a Viterbo, come riporta un referto medico, mio figlio non era in grado di stare in piedi, non era lucido. È evidente come sia stato sedato, imbottito di psicofarmaci». Da alcune lettere, infatti, si evince quanto Federico sognasse il ricovero in ospedale perché lì «non ci sono celle e si possono fare colloqui». E sempre da Viterbo, però, non smettono le parole di disperazione: «Mamma mi stanno uccidendo. Portami a casa». La donna, insieme ai legali di Latina Camillo Autieri e Fabrizio Cannizzo, ha intenzione di non far spegnere i riflettori sulla vicenda, a partire da quella autopsia sul corpo di Federico effettuata a sei giorni di distanza dalla morte, così, a detta di Nobila da non poter far trovare tracce di lesioni che potrebbero dar sostegno alla tesi del maltrattamento, del pestaggio o delle torture vere e proprie come sostiene la donna. Spiegano gli avvocati : «La signora Scafuro aveva visto il figlio pochissimi giorni prima della morte. Lui mostrava segni di maltrattamenti (lividi…) e lamentava uno stato di malessere generale, psichico e fisico, dovuto e aggravato dalla vita carceraria, certamente non facile ma che, a dire di Perna, troppo spesso diventava intollerabile a causa dei soprusi e delle violenze subite da parte del personale carcerario. Tale circostanza - spiegano - dovrà essere verificata in sede di deposito della perizia autoptica. Numerose sono le lettere in possesso della madre nelle quali Federico si definiva “pungiball” o dichiarava che “con me ci giocano a ping pong”, riferendosi al fatto che ogni qualvolta chiedesse il ricovero o maggiore cura del proprio stato di salute, veniva trasferito ad altro istituto carcerario». Federico avrebbe dovuto terminare la pena il 13 aprile 2018. Una data lontanissima per qualsiasi carcerato e ancor più per lui, che aveva iniziato a scontare i suoi anni a Regina Coeli il 20 settembre 2010, passando poi a Velletri e Cassino e nel 2012 a Viterbo per motivi sanitari. Già qui viene ritenuto incompatibile con lo stato di detenzione a causa di una grave compromissione epatica con tendenza cirrotica. Seguono diversi gesti di autolesionismo, visite psichiatriche, sino a che, come ricostruisce il ministero ,«il magistrato di sorveglianza, con provvedimento del 16 luglio 2012, non aveva accolto la richiesta di scarcerazione per incompatibilità, sia in relazione alla pericolosità sociale connessa allo stato psicologico in cui versava il Perna, sia in considerazione del fatto che quest’ultimo aveva più volte rifiutato il ricovero in luogo di cura e che si era fatto dimettere – contro il parere dei sanitari – dall’ospedale Belcolle». Sempre secondo la ricostruzione ufficiale resa in commissione Giustizia il 28 novembre, «a Secondigliano il Perna aveva rifiutato il ricovero suggerito dai sanitari a seguito di un’ustione riportata nel gennaio 2013 ed aveva posto in essere gesti autolesionistici». A Poggioreale, dove esiste un centro clinico penitenziario, Federico ci arriva a luglio 2013, e qui sembra accadere il miracolo: « Nel corso dell’ultima visita psichiatrica, avvenuta a Poggioreale alla fine di settembre 2013, il Perna si era manifestato, al colloquio con lo specialista, calmo, lucido e orientato,e non aveva evidenziato disturbi percettivi». Si parla sempre del suo stato psichico nelle ricostruzioni ufficiali, mai del suo stato fisico, di cui solo la madre denuncia: « Sputava sangue dalla bocca e aveva chiesto di essere ricoverato il 5 novembre, ma l’8 è morto», ricorda Nobila. Ma per lo Stato, almeno fino a giovedì 28, è andato tutto bene, come si legge nella relazione del ministero della Giustizia: «All’esame del diario clinico e della cartella di osservazione del detenuto – documentazione contenuta nel suo fascicolo personale – risulta che nel corso della detenzione il Perna è stato seguito con costanza e regolarità sia dal personale sanitario e del Servizio Tossicodipendenze che dal personale penitenziario. In particolare, appare evidente che le autorità penitenziarie ne hanno costantemente monitorato le condizioni di salute e hanno più volte cercato di convincerlo ad accettare gli opportuni ricoveri in ospedale in ragione delle sue condizioni di salute, senza purtroppo riuscirvi». Con rabbia e dolore, una famiglia cerca la verità, mentre vengono i brividi, oggi, a guardare le foto scioccanti dell’autopsia e allo stesso tempo leggendo le lettere di Federico alla madre. Le parole di un ragazzo che sogna da dietro le sbarre un’assoluta normalità: la lasagna, il giorno del colloquio e pochi euro per le piccole spese. «Appena esco vengo da te, che sarò l’uomo più felice del mondo. Ora sono un uomo, basta con l’eroina, è solo distruzione. Un lavoretto e una vita serena. Adesso voglio il Federico vero, quello che non è mai uscito…» .
Il 34enne, tossicodipendente affetto da cirrosi epatica ed epatite C, è deceduto nel carcere di Napoli l'8 novembre. "Avevamo più volte chiesto il trasferimento. Da una settimana sputava sangue, aveva chiesto di essere ricoverato", scrive Silvia D’Onghia su “Il Fatto Quotidiano”. Federico come Stefano. Ascoltando la storia di Federico Perna, 34 anni, il pensiero va subito a Stefano Cucchi, che di anni ne aveva appena 31. Anche Federico è morto nelle mani dello Stato, di quello Stato che avrebbe dovuto punirlo per i reati commessi, certo, ma anche curarlo. Perché quel ragazzo di 34 anni della provincia di Latina, tossicodipendente da 14, oltre a dover scontare un cumulo di pene che lo avrebbe tenuto dentro fino al 2018 (l’ultima condanna per lo scippo di un telefonino), era malato di cirrosi epatica e di epatite C cronica, aveva problemi di coagulazione del sangue e disturbi psichici. Eppure aveva già scontato tre anni, rimbalzando da un carcere all’altro – Velletri, Cassino, Viterbo, poi di nuovo Cassino, Secondigliano, Benevento, ancora Secondigliano – ed era finito a Poggioreale, “undicesimo detenuto in una cella di undici metri quadrati”. È lì che è morto, l’8 novembre, “dopo una settimana che sputava sangue”, in circostanze – come dicono le autorità in questi casi – ancora da chiarire. “Mi hanno dato tante versioni diverse – racconta la mamma di Federico, Nobila Scafuro, al Fatto Quotidiano –: mi hanno detto che era morto nell’infermeria del carcere, poi in ambulanza, poi nel reparto dell’ospedale Federico II di Napoli. Ho telefonato alla direzione del carcere, vivendo a 300 chilometri di distanza, non mi sono stati neanche a sentire. Io mi sono dovuta andare a cercare il morto vagante”. Così come la famiglia Cucchi, anche la signora Scafuro ha deciso di diffondere le immagini – terribili – di suo figlio sul lettino dell’obitorio. Nel caso di Stefano, la scelta fu determinante ai fini dell’interessamento mediatico. I risultati dell’autopsia, eseguita il 14 novembre, non sono ancora arrivati – “il magistrato si è riservato 90 giorni di tempo, ma spero che la verità emerga prima” – ma per la mamma di Federico una cosa è certa: “Mio figlio non doveva stare in carcere. Lo scorso anno, attraverso il nostro avvocato, Camillo Autieri, abbiamo presentato tre referti di medici legali e primari ospedalieri e abbiamo chiesto l’incompatibilità carceraria. Ma le istanze sono state tutte rigettate dai magistrati di sorveglianza”. “Ora abbiamo fatto richiesta per conoscere le motivazioni”, conferma il legale. Per tenere buono Federico in cella, denuncia la famiglia, gli venivano somministrate pesanti dosi di psicofarmaci e tranquillanti: “Valium, Rivotril, più le medicine passate dal Sert”. “Questo faceva sì che il ragazzo non potesse provvedere alla propria cura quotidiana – spiega l’avvocato Autieri – e non avesse, in più di un’occasione, la capacità di discernimento”. Esattamente come nel caso della famiglia Cucchi, nessuno fa mistero della tossicodipendenza di Perna. “L’ho visto con lo zigomo gonfio – prosegue la signora Scafuro – e un suo compagno di cella lo ha convinto a dirmi che gli avevano dato un pugno. Non era la prima volta, a Viterbo c’è una denuncia penale: lo hanno picchiato perché teneva una lattina di Coca Cola in fresco sotto il rubinetto dell’acqua”. Ipotesi naturalmente tutte da accertare. Negli ultimi giorni, però, le sue condizioni di salute si erano ulteriormente aggravate: “Da una settimana sputava sangue dalla bocca, il martedì prima di morire aveva chiesto di essere ricoverato”. La Procura della Repubblica di Napoli ha aperto un’inchiesta e si annuncia fin d’ora una battaglia di perizie. Proprio come nella vicenda Cucchi. La madre del ragazzo si è rivolta alle associazioni che si occupano di detenuti: Ristretti Orizzonti ha contribuito a diffondere la storia e le immagini di Federico, Antigone sta seguendo il caso da vicino. “In questa fase posso solo auspicare una rapida soluzione dell’inchiesta”, commenta Mario Barone, presidente di Antigone Campania e membro dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione. Intanto il Movimento 5 stelle ha presentato alla Camera un’interrogazione al ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. Il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria è a conoscenza della situazione – anche perché sono già state presentate due interrogazioni parlamentari –, anche se il Fatto ha più volte cercato, senza esito, di mettersi in contatto con il vice capo vicario Luigi Pagano. “Non ho il numero del ministro Cancellieri, ma vorrei porle tre domande – conclude la madre –: perché Federico era ancora dentro, visto che era malato gravissimo? Perché non è stato ricoverato martedì, quando ha chiesto non di andare in discoteca ma di essere curato? E perché l’hanno massacrato di botte?”. Federico faceva di cognome Perna.
Il ministro della Giustizia Cancellieri dispone una indagine interna sulle dinamiche che hanno portato alla morte del giovane. La madre Nobila al Fatto: "Mio figlio non me lo ridanno, ma adesso voglio la verità perché non accada a nessun altro", scrive Silvia D’Onghia e Lorenzo Galeazzi su il Fatto Quotidiano del 30 novembre 2013. “Qui c’è il dirigente che vuole ricoverarmi per farmi prendere l’incompatibilità carceraria, io voglio venire con te a casa, le cartelle ci sono di aggravamento. Mamma, mi stanno uccidendo, portami a casa, voglio stare con te”. Questo scriveva Federico Perna a sua madre Nobila il 19 giugno 2012. Ed è stata lei, ieri, durante un’intervista con la web tv del fattoquotidiano.it, che ha deciso di rendere note le parole di suo figlio. Federico non c’è più, è morto – forse a causa di un ictus, ma i risultati dell’autopsia non sono ancora stati depositati – alle 16,58 dell’8 novembre scorso nel pronto soccorso del carcere napoletano di Poggioreale. Aveva 34 anni e sognava di uscire per tornare a casa a mangiare le lasagne. Come abbiamo scritto ieri, Perna dal martedì precedente sputava sangue e aveva chiesto di essere ricoverato. Inutilmente. Nella sua ormai triennale storia carceraria, Federico spesso non era lucido, ma si rendeva perfettamente conto che in cella le sue condizioni di salute peggioravano a vista d’occhio. Sempre dal carcere di Viterbo aveva scritto un’altra lettera alla mamma: “Scusa se ero un po’ assente (al colloquio, ndr), ma qua mi hanno esaurito, mi sono aggravato di salute, il prossimo colloquio se ci sarà, sarà diverso e positivo. Avevo voglia di abbracciarti ma ero come ipnotizzato”. Federico è malato, gravemente. Soffre di cirrosi epatica cronica e di epatite C, ha una personalità definita borderline, è sottoposto a una massiccia terapia di ansiolitici e tranquillanti. In cella c’è finito per il maledetto vizio dell’eroina, perché i soldi – anche quelli di una famiglia benestante – non bastano mai: e allora vai con i furti, con le rapine, con le lesioni. Un cumulo di condanne che gli costa un brutto responso: fine pena 13 aprile 2018. Ma Federico è un soggetto ad alto rischio, e questo l’istituzione carcere lo sa bene. In data 28 giugno 2012, pochi giorni dopo la prima lettera, il responsabile dell’area sanitaria della casa circondariale di Viterbo, Franco Lepri, scrive alla Direzione della struttura e al magistrato di sorveglianza: “Il carcere al momento non è compatibile con lo stato di salute del detenuto e quindi è peggiorativo per la sua salute, i contatti con le strutture sanitarie esterne sono possibili in ogni momento. Si richiede rapido trasferimento in un Cdt (Centro di Detenzione Terapeutica, ndr)”. Federico rifiuta il ricovero nei reparti di medicina protetta, ma non lo fa perché non vuole essere curato. Lui vuole essere messo ai domiciliari. Non ne può più di essere trasferito da un carcere all’altro: Velletri, Cassino, Viterbo, Secondigliano, Benevento, Napoli. ”Sono esaurito – scrive in una terza lettera alla madre –, infatti sono stato ricoverato, mamma mi stanno rovinando, sono due anni che giro carceri, non ce la faccio più. Lo so che questa non è una scusa perché il reato l’ho fatto e devo scontarlo, ma devo scontare il carcere e non una pena umana”. C’è un altro medico che certifica, il 18 settembre 2012, l’incompatibilità di Federico col carcere, è il medico di reparto del presidio sanitario di Secondigliano: “Si ribadisce l’inadeguatezza all’allocazione in una sezione detentiva comune e si invita l’autorità preposta a prendere provvedimenti anche coercitivi ai fini di un’adeguata assistenza del paziente che in una sezione di detenzione comune non può essere garantita”. Provvedimenti coercitivi: se Federico rifiuta il ricovero lo si deve obbligare. E invece nessuna “autorità” si prende questa briga. Ma c’è un referto che più di tutti dà il senso delle condizioni del ragazzo. Il giorno dopo la prima dichiarazione di incompatibilità, il 29 giugno dello scorso anno, un medico di reparto scrive: “Ho visitato il detenuto in cella: la sua cella è tutta sottosopra, lo troviamo privo di vestiti, non riesce ad alzarsi in piedi, a sostenere il capo, a mantenere la posizione seduta e a comunicare con noi. È obnubilato, non orientato nel tempo e nello spazio”. Il deputato M5S Salvatore Micillo mercoledì ha presentato un’interrogazione in commissione Giustizia; gli ha risposto il sottosegretario Giuseppe Berretta, che, prima ancora di sapere come è morto il ragazzo, ha difeso l’operato di medici e personale penitenziario: “Seguito con costanza e regolarità”, “hanno più volte cercato di convincerlo ad accettare gli opportuni ricoveri, senza purtroppo riuscirvi”. Il ministro Cancellieri, sollecitata dalla signora Nobila, ieri ha preso carta e penna e le ha invitato “le sue condoglianze e la sua personale vicinanza”. Il guardasigilli ha anche disposto “rigorosa indagine amministrativa interna”. Ma a Nobila non basta: “Federico non me lo ridanno, ma adesso voglio la verità perchè quello che è successo a mio figlio non accada a nessuno altro. Non devono più toccare un ragazzo lì dentro”.
Federico Perna, un nome che rischia di diventare una nuova icona delle tragedie che, quotidianamente, vivono i detenuti reclusi nelle carceri italiane. La storia di Federico è una storia drammatica, finita nel peggiore dei modi per un ragazzo di 34 anni morto di carcere. A raccontarci la sua vicendà è stata sua madre, Nobila Scafuro, scrive Fabrizio Ferrante su “L’Espressonline”. Federico, 34 anni originario di Latina, era un ragazzo di buona famiglia con i suoi parenti che annoverano rapporti di amicizia e di collaborazione professionale con magistrati e uomini pubblici a un certo livello. Il giovane, finito tre anni fa in carcere a seguito di piccoli reati connessi alla droga, doveva scontare 9 anni di reclusione per varie condanne accumulatesi nel tempo, fino all'ultimo arresto avvenuto appunto tre anni fa. Da quel momento, Federico ha smesso di essere considerato un essere umano ed è diventato un pacco postale, sballottato qua e là per le carceri del centro-sud. Da Velletri a Viterbo, da Secondigliano a Poggioreale ed è qui che termina la vicenda terrena di questo 34enne.
"Mio figlio è morto venerdì 8 novembre alle 17:17 - ci ha spiegato Nobila Scafuro - ma già da martedì sapevamo che stava molto male, in quanto mi aveva telefonato. Era ammalato, soffriva di epatite C e mi disse che perdeva sangue dalla bocca quando tossiva. Circostanza confermatami anche da un suo compagno di cella con cui ci siamo sentiti telefonicamente. Mio figlio si trovava nel padiglione Avellino stanza 6, in una cella che conteneva undici persone. Durante il suo periodo di permanenza a Poggioreale le cose si sono aggravate, era stato dichiarato incompatibile con la detenzione ma nonostante ciò fosse stato messo nero su bianco da due rapporti clinici stilati a Viterbo e a Napoli, un magistrato viterbese ha pensato bene di spedirlo a Poggioreale. Almeno poteva mandarlo in un carcere del Lazio, più vicino a casa, visto che per noi non era sempre possibile venirlo a trovare a Napoli. Il reato era risibile, mio figlio era uno dei tanti giovani che per divertirsi con gli amici faceva uso di qualche spinello, e pensi che la prima volta fu col figlio di un magistrato. Una volta sembra che Federico abbia dato una spinta a qualcuno, venendo accusato e condannato per questo".
Come è morto suo figlio?
"Bella domanda, è quello che vogliamo sapere tutti in famiglia ed è per questo che attendiamo i risultati dell'autopsia. Intanto posso dirle che non lo curavano, era imbottito di Valium, Rivotril e di farmaci passati dal Sert. Federico dormiva sempre e, quando non dormiva, spesso veniva picchiato. Questo non solo a Poggioreale, dove confermo che esiste la cella zero, ma anche in altre carceri dove ha soggiornato. Ovunque avvengono questi pestaggi, anche per futili motivi. A mio figlio capitò perché chiedeva aiuto in quanto non si sentiva bene, oppure perché voleva che gli aprissero l'acqua nel bagno della cella. In quell'occasione fu pestato proprio lì, nel bagno. Lo vedevo sempre pieno di lividi. In ogni caso, dopo averci chiamato martedì, Federico non ha più dato sue notizie. Abbiamo appreso della sua morte da un suo compagno di cella, che aveva molto legato con lui, il quale chiamò mia suocera – anziana e malata – dicendo che: 'Federico ormai è fuori, aprite gli occhi' lasciandoci intendere che fosse morto. Il fatto è che non sappiamo dove sia morto, non l'abbiamo ancora potuto vedere e il personale del carcere di Poggioreale non ci agevola dandoci le necessarie informazioni. Quindi non sappiamo neanche dov'è".
Quindi lei sta dicendo che non sa come è morto Federico, né dove, né tanto meno dove sia adesso?
"Esatto. Le versioni sono diverse: dicono che è morto nell'infermeria del carcere di Poggioreale, di attacco cardiaco e senza la possibilità di essere salvato con il defibrillatore. Poi dicono che è morto in ambulanza, poi che è morto prima di essere caricato in ambulanza o addirittura in ospedale, e anche su questo mi hanno nominato più di una struttura possibile. Insomma non so né come sia morto, né dove sia e tutto questo mi sta devastando. Quello che penso è che sia morto prima di essere portato in ambulanza e questo lo credo perché sempre secondo il suo compagno di cella, Fede era già morto prima che i soccorsi arrivassero. Ma non doveva trovarsi lì, doveva essere ricoverato in ospedale da molto tempo, essendo malato di epatite C. Mio figlio, che chiedeva il ricovero disperatamente da almeno dieci giorni per fortissimi bruciori di stomaco, sputava sangue e aveva bisogno di un trapianto di fegato. E' stato torturato e ammazzato dallo Stato così come gli altri morti di carcere a Poggioreale. Ma lei sa che negli ultimi giorni ci sono stati tre suicidi? Uno si è impiccato, l'altro si è ammazzato con un mix letale di farmaci e un terzo si è infilato la testa in un sacchetto mentre inalava il gas del fornelletto da campo. Ma non ci sono solo suicidi a Poggioreale e ricordo che un uomo di 43 anni è recentemente morto in cella perché malato di cuore. Gli è venuto un infarto e sa come lo curavano? Col Buscopan".
Federico Perna, evitiamo che a morti seguano altri morti, scrive Susanna Marietti su “Il Fatto Quotidiano”. Terribili e già visti gli ingredienti della vita e della morte di Federico Perna nel carcere napoletano di Poggioreale, proprio il carcere visitato da Giorgio Napolitano prima che annunciasse il messaggio alle Camere dell’8 di ottobre scorso. Poggioreale, un carcere simbolo della tragedia italiana, dove i detenuti sono ammassati, costretti a una vita degradante, resi numeri dal sovraffollamento. Un carcere dove i detenuti non hanno spazio vitale e la dignità umana è oggettivamente calpestata. La madre chiede giustizia e giustizia va assicurata. Ancora una volta, per sperare di avere giustizia, una mamma deve farsi violenza e pubblicare sui media la foto di un corpo martoriato. Il ministro della Giustizia ha disposto un’indagine interna all’Amministrazione penitenziaria. Nel frattempo si spera che scorra l’indagine penale e che l’autopsia sia fatta coscienziosamente e restituisca chiarezza sulle cause della morte. Federico Perna muore a 34 anni. La sua è una storia carceraria abbastanza comune, là dove ciò che è comune coincide oggi con ciò che è tragico. Ha problemi di tossicodipendenza. È malato di epatite C, appunto come tanti detenuti, purtroppo. Sta molto male, come tanti detenuti. Chiede aiuto, ne riceve poco. I magistrati non lo ritengono incompatibile con il carcere nonostante valutazioni difformi, pare, dei medici che invece propendevano per la non compatibilità con la detenzione.
La vicenda di Federico Perna ci impone una riflessione sul caso in questione e una di carattere più generale. Sul caso in questione, va rivendicata un’indagine condotta con determinazione, la quale chiarisca se c’è stata violenza e se c’è stata negligenza medica. Intorno alle questioni di carattere più generale, la vicenda carceraria va affrontata e decisa subito per evitare che morti seguano a morti. Bisogna intervenire su più piani: modificare in modo radicale la legge sulle droghe, liberticida e proibizionista; bisogna assicurare diritti a chi non ne ha istituendo un garante nazionale delle persone private della libertà, come ci impongono le Nazioni Unite; va introdotto il delitto di tortura nel codice penale italiano, che ridarebbe dignità a un sistema giuridico oggi in crisi di identità democratica.
POLIZIA, POLIZIA PENITENZIARIA E CARABINIERI: ABBIAMO UN PROBLEMA?
Così gli agenti si spartiscono il bottino con la banda di rom. Furti e spartizioni documentati da video stazione Milano. "Se non ci date quello che avete preso, vi togliamo i bambini e vi facciamo arrestare", scrive Luca Fazzo Giovedì 17/12/2015 su “Il Giornale”. Un saccheggio sistematico delle tasche e dei bagagli dei viaggiatori che avevano la sventura di passare nei mesi prima di Expo e durante Expo per la stazione Centrale di Milano: a realizzarlo, una banda di una ventina di rom serbo-bosniaci, che agivano indisturbati anche grazie alla copertura che ottenevano a caro prezzo da due poliziotti della Squadra Mobile di Milano. Questa mattina la Procura della Repubblica ha annunciato l'arresto di 23 appartenenti alla banda, accusati di associazione a delinquere; per i due poliziotti, che il capo della Squadra Mobile Alessandro Giuliano ha accusato apertamente di "tradimento" della loro missione e dei colleghi, il giudice preliminare (contrariamente a quanto chiesto dal pm Antonio D'Alessio, che voleva spedire anche loro in carcere) ha ritenuto sufficiente la misura degli arresti domiciliari. Ad accusarli sono stati gli stessi rom, che hanno parlato di un taglieggiamento sistematico, confermato da intercettazioni, filmati e pedinamenti: in una occasione i due poliziotti si sono fatti consegnare seicento euro, in un'altra mille. Inoltre pare avessero l'abitudine di minacciare i rom di sottrarre loro i figli se non avessero versato loro la refurtiva. Cosimo Tropeano e Donato Melella erano in servizio da anni proprio alla squadra antiborseggio. La banda di ladri, guidata da Sutka Seidic e Ante e Omar Cizmik, era strutturata in modo gerarchico, agiva sia lungo i binari, che a bordo dei treni, che negli spazi commerciali della Stazione. Ogni appartenente alla banda riusciva a accumulare un bottino tra i 500 e i mille euro al giorno. Dopo la chiusura dell'accesso ai binari, disposta per motivi di sicurezza all'inizio dello scorso maggio, l'attività della banda si è spostata prevalentemente nelle biglietterie e nelle zone d'accesso. Vittime predestinate, soprattutto i turisti stranieri. Tra il bottino dei furti, il record spetta a 120mila euro di gioielli rubati a un passeggero.
Poliziotti spartivano con i rom i proventi dei furti in Centrale. Due agenti della Squadra Mobile arrestati dalla Polfer: invece di arrestare le ladre prendevano soldi da loro e le minacciavano: «Vi portiamo via i figli», scrive il 17 dicembre 2015 “Il Corriere della Sera”. Invece di arrestare una banda di borseggiatrici rom che derubava i passeggeri dei treni, chiedevano soldi per non denunciarle e minacciavano di far «portare via» i loro bambini. Due poliziotti sono stati arrestati dalla polizia ferroviaria, su ordinanza di custodia cautelare del gip di Milano Giuseppe Vanore, perché avrebbero garantito ad un gruppo di persone di origine rom, anche loro arrestate, di compiere furti in Stazione Centrale a Milano chiudendo un occhio e incassando parte dei proventi dei colpi. Le indagini, condotte dalla polizia ferroviaria, sono state coordinate dal pm di Milano Antonio D’Alessio. I due agenti, da giovedì mattina ai domiciliari, sono accusati di concussione e falso in atti d’ufficio. In carcere sono stati invece trasferiti 23 nomadi, di origine serba e bosniaca, con l’accusa di associazione per delinquere. I due agenti arrestati, Cosimo Tropeano e Donato Melella, in servizio al dipartimento Crimini diffusi della Squadra mobile di Milano, riuscivano ad incassare «tra i 5 e i 20 mila euro a settimana» con una serie di furti, durati circa un anno. Diversi episodi, avvenuti dall’ottobre 2014 fino a tempi recentissimi, sono stati filmati dalle telecamere di sorveglianza della stazione. Il furto record è quello di gioielli per 120.000 euro sottratti al passeggero di un treno. Le vittime erano spesso turisti stranieri, anche giapponesi e americani, a volte derubati con la scusa di un aiuto a sistemare i bagagli. I due poliziotti coinvolti «sono agenti esperti, gente che lavora nell’unità antiborseggio e che conta centinaia di arresti all’attivo», ha riferito Alessandro Giuliano, il capo della Squadra Mobile di Milano. Ad arrestare i due sono stati insieme la Squadra Mobile e la Polizia Ferroviaria. «Facevano parte - ha aggiunto Giuliano - di una sezione che ha dato grandi risultati nel contrasto allo spaccio e alla criminalità predatoria. Se provate, le accuse nei loro confronti sarebbero considerate ben più gravi degli altri reati commessi in questa indagine (quelli contestati ai nomadi) e il loro sarebbe un tradimento nei confronti delle migliaia di altre persone che svolgono onestamente questo lavoro».
Milano, pizzo alle borseggiatrici della stazione: arrestati due poliziotti. "Pagate, o vi togliamo i figli". Ventidue i nomadi in manette, soprattutto donne, colpi anche per 20mila euro a settimana. Gli agenti nei guai per concussione incastrati dai filmati, scrive Emilio Randacio su “La Repubblica” del 17 dicembre 2015. Una retata in stazione ai danni dei borseggiatori rom, o meglio delle borseggiatrici in azione spesso con i figli piccoli in braccio, che si spartivano il bottino con due poliziotti della Squadra Mobile, assegnati proprio al contrasto di questo tipo di reati, arrestati anche loro. Furti anche per un valore di 20mila euro a settimana, in stazione Centrale a Milano, dove è scattato il blitz. Ventidue nomadi, soprattutto donne, sono finiti in manette per associazione a delinquere, mentre i due agenti arrestati devono rispondere di concussione. L'operazione è scattata questa mattina su ordine del pm Antonio D'Alessio ed è stata eseguita dagli uomini della squadra Mobile e della Polizia Ferroviaria. I due agenti sono accusati di essersi spartiti parte dei proventi dei furti che avvenivano in stazione Centrale, messi a segno in particolare dalle donne-mamme, tra i viaggiatori con i bimbi al collo e giacconi a nascondere la destrezza con cui mettevano a segno i borseggi. "Se non ci date quello che avete preso, vi togliamo i bambini e vi facciamo arrestare", era la minaccia degli agenti che assistevano alla razzia quotidiana nelle aree libere della stazione e negli ascensori. Le ladre riuscivano ad incassare "tra i 5 e i 20 mila euro a settimana" con una serie di furti, durati circa un anno, ai danni di turisti soprattutto giapponesi e americani. I furti e le spartizioni dei proventi con gli agenti sono stati documentati dalle telecamere di sorveglianza della stazione. A incastrare gli agenti, i filmati in cui vengono ritratti mentre ritirano materiale da dei borsoni pieni di refurtiva. I due agenti, che erano in servizio alla sezione di contrasto ai crimini diffusi e in particolare all'unità antiborseggio, sono finiti agli arresti domiciliari con le accuse di concussione e falso in atti d'ufficio. Il pm D'Alessio aveva chiesto per loro il carcere, ma il gip di Milano Giuseppe Vanore ha disposto la misura meno afflittiva. Sono finiti in carcere, invece, 23 nomadi serbo-bosniaci, tra cui ci sono anche molte donne. Due di loro, in particolare, Fadila Hamidovic e Patrizia Hamidovic sarebbero state tra i promotori dell'associazione per delinquere finalizzata ai furti perché avrebbero selezionato le persone che dovevano compiere i colpi. "Fino a ieri i due agenti - ha spiegato il capo della Squadra Mobile di Milano, Alessandro Giulian - facevano parte di una sezione che produce grandi risultati nel contrasto ai crimini predatori e se verranno provate le accuse sarà una cosa molto grave, un tradimento verso coloro che svolgono sempre egregiamente e con onestà le loro funzioni". Il dirigente della Polfer Francesco Costanzo, invece, ha precisato che gran parte dei furti al centro delle indagini sono stati compiuti prima che alla stazione Centrale di Milano fossero introdotti, quando è iniziato l'Expo lo scorso maggio, i gate di accesso ai binari (per entrare bisogna mostrare di avere un biglietto per i treni). "Con l'introduzione dei gate - ha spiegato - i furti sono calati del 75%".
Ladre rom e pizzo, in manette anche il superpoliziotto. Tra i fermati Cosimo Tropeano, recordman di arresti, una specie di Serpico. Lui e il collega erano stufi di vedere tornare in circolazione le donne dopo ogni furto, scrive Giuseppe Guastella il 18 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. Una piramide del crimine ha gestito per mesi i furti nella stazione Centrale di Milano con al vertice chi avrebbe dovuto abbatterla e che invece di arrestare i borseggiatori li taglieggiava. Sono 25 le persone arrestate, tra le quali ci sono due poliziotti fermati dai loro stessi colleghi. Con una media-record di 250 arresti l’anno, Cosimo Tropeano era considerato una specie di Serpico. Solo che con l’andare degli anni, secondo le indagini del sostituto procuratore Antonio D’Alessio, che fa parte del pool diretto dall’aggiunto Giulia Perrotti, invece di incrementare il suo invidiabile palmares, con il collega Donato Melella avrebbe costretto le borseggiatrici arrestate a consegnare il bottino se volevano tornare ad essere libere di rubare per conto dell’organizzazione, che a sua volta le taglieggiava con una «tassa» sui furti. Forse i due poliziotti erano stufi di vedere tornare in circolazione le donne, abilissime rom originarie della Bosnia Erzegovina, che di solito evitavano il carcere perché erano incinte oppure perché madri di bambini di meno di tre anni, ma sta di fatto che sono state proprio loro a farli finire nei guai, dopo che le avevano minacciate di far loro togliere i figli. L’inchiesta è partita a novembre 2014 da una borseggiatrice che ha rivelato alla Polizia ferroviaria di essere vittima di altri rom, donne e i loro mariti, che pretendevano il «pizzo» per farla «lavorare». Le intercettazioni e le confessioni delle nomadi arrestate via via quest’anno hanno completato il quadro facendo emergere le figure dei due poliziotti (ai domiciliari accusati di concussione per due episodi da 1.600 euro in tutto, ma sospettati di molti altri casi) ed incastrati anche dalle immagini delle telecamere di sorveglianza della stazione che li hanno filmati mentre si facevano dare soldi da una borseggiatrice che avevano fermato. I poliziotti sono stati immediatamente sospesi dal questore Luigi Savina. Come per tutti gli indagati, anche per loro vale la presunzione di innocenza, ma nel caso in cui le accuse fossero provate «le condotte ipotizzate sarebbero assolutamente inaccettabili», sostiene Savina in una nota in cui sottolinea come «ancora una volta la Polizia di Stato ha mostrato di avere in sé anticorpi tali da permettere di individuare presunti comportamenti illeciti anche di propri appartenenti». Le indagini tratteggiano i contorni di un’organizzazione in grado di «incassare» tra i 5mila e i 20mila euro la settimana prendendo di mira in particolare turisti giapponesi, americani e russi. I metodi erano classici: bambini usati come schermo, distrazione delle vittime, perfino falsi interventi di aiuto e tapis roulant bloccati. A una donna del Kazakistan è stata rubata un borsetta con gioielli per 130 mila euro. Quando a maggio con Expo sono comparsi i varchi controllati, gli affari della banda sono crollati del 75%.
Ascoltiamo la denuncia di un uomo colpevole, scrive Roberto Saviano su "L'Espresso" dell'11 dicembre 2015.
Rachid Assarag, marocchino condannato per stupro, ha le prove di aver subito violenze in carcere. Lo Stato di diritto vale anche per lui. Male non fare, paura non avere”. Non esiste proverbio più fuorviante di questo. Eppure non esiste summa migliore di come vorremmo fosse la vita: una corrispondenza lineare di cause ed effetti. E in questa visione inesistente, ma semplice e rassicurante, non accettiamo in cattedra maestri che non vestano i panni canonici del titolato a dare lezioni. Invece lezione è qualunque esperienza aggiunga elementi di conoscenza, e maestro chiunque sia latore di quel messaggio. Luigi Manconi, presidente della Commissione Diritti Umani del Senato, nei giorni scorsi ci ha raccontato la storia di un uomo che non accetteremmo mai di chiamare maestro. Ma è un uomo che ha creato una rottura, che ha trasmesso parole fuori dal carcere, dove lui è detenuto, frasi, teorie, affermazioni e prassi che invece sarebbero dovute rimanere lì, per non valicare mai quei confini. Rachid Assarag è un uomo marocchino di 40 anni. Condannato per violenza sessuale alla pena di 9 anni e 4 mesi di reclusione, che sta scontando nelle carceri italiane. È stato trasferito molte volte e in diverse circostanze è riuscito a registrare sue conversazioni con rappresentanti della polizia penitenziaria e a ottenere prova delle percosse e dei maltrattamenti subiti. On line è possibile ascoltare queste conversazioni. C’è chi le mette in dubbio per il tono pacifico. Come è possibile - dicono - che non ci sia concitazione quando si parla di percosse? Come è possibile - questo non lo dicono - che un brigadiere della polizia penitenziaria dia tante spiegazioni a un detenuto? Eppure, metterle in discussione a priori è il servizio peggiore che si possa fare a un Paese che sconta tassi di criminalità altissimi, che ha un sistema giudiziario al collasso e quello carcerario praticamente fallito. Peraltro le registrazioni e, ancor più, quel racconto dei fatti è considerato credibile da due procure, quelle di Firenze e Parma, che hanno aperto fascicoli. Quindi Rachid Assarag, detenuto per violenza sessuale, è la persona grazie alla quale oggi sappiamo, dalla voce di un brigadiere di polizia penitenziaria, che nel carcere non si applica la Costituzione, che se la Costituzione ci fosse entrata, quel carcere (nel caso specifico quello di Prato) sarebbe chiuso da tempo. Che le percosse sono un canale di comunicazione con i detenuti i quali comprenderebbero solo con la violenza le regole da seguire. Che le carceri non rieducano, al più puniscono (male non fare, paura non avere), e comunque rendono peggiori. So che queste mie parole saranno poco frequentate, leggere di carceri piace davvero a pochi. So che chi le frequenterà, in larghissima percentuale, non sarà d’accordo con me. So che molti vorrebbero sentirsi dire nulla ti sarà fatto se non commetterai errori. Ma non me la sento di rassicurare. Fabio Anselmo, avvocato di Assarag, chiede attenzione alle condizioni di salute del suo assistito che sta portando avanti uno sciopero della fame per denunciare le violenze subite. Anselmo dice che stiamo assistendo alla «cronaca di una morte annunciata che equivale a dire che nel nostro Paese vige la pena di morte». Sono d’accordo con Anselmo e invito chi mi legge in questo momento a fare uno sforzo, so di chiederne uno significativo. Lo sforzo di pensare che un uomo che sta in carcere per violenza sessuale, un uomo marocchino - mi si perdonerà la precisazione, ma in questo triste momento è facile indulgere a sentimenti di razzismo - abbia diritto, nonostante la condanna e la detenzione, ma proprio in ragione della condanna e della detenzione, a una esecuzione della pena secondo Costituzione, finalizzata alla riabilitazione e al reinserimento nella società. Il carcere si può osservare da molte prospettive. Chi ci lavora dirà cose semplici e convincenti perché in larga parte vere: i detenuti hanno poche regole e non le rispettano. I detenuti dicono tutti di essere innocenti. Ma poi ci sono le statistiche, e quelle dobbiamo usare per capire la direzione da prendere. Il tasso di suicidi di detenuti e guardie penitenziarie è altissimo, tanto alto da farci comprendere che il carcere così come è non funziona per nessuno. Il tasso di recidiva per i detenuti che lavorano è bassissimo. Quindi in carcere i detenuti devono essere occupati. Cosa manca perché si possa prendere questa direzione? Risorse? No, manca una autentica cultura del diritto. Se l’avessimo, sapremmo che anche chi ha sbagliato ha qualcosa da dire. Se l’avessimo sapremmo ascoltare.
E poi su caso Cucchi per cui l’Arma dei Carabinieri ha diffuso un comunicato stampa. Notizia epocale percepita troppo in superficie sino ad oggi come la volontà di difendersi in extremis da una valanga indiscriminata di accuse. «È una vicenda estremamente grave. Grave il fatto che alcuni Carabinieri abbiano potuto perdere il controllo e picchiare una persona arrestata secondo legge per aver commesso un reato, che non l’abbiano poi riferito, che altri abbiano saputo e non abbiano sentito il dovere di segnalarlo subito, che questo non sia stato appurato da chi ha fatto a suo tempo le dovute verifiche, se tutto questo sarà accertato. Grave il fatto che queste cose possano emergere soltanto a partire da oltre sei anni dopo, nonostante un processo penale celebrato in tutti i suoi gradi».
Abbiamo un problema con i Carabinieri? Si chiede Luigi Manconi. Luigi Manconi chiede al ministro Roberta Pinotti di richiamare l'arma al rispetto dei diritti delle persone fermate, dopo i casi Cucchi, Uva e Magherini, "Cara senatrice Roberta Pinotti, mi rivolgo a te in quanto, per il tuo ruolo di ministro della Difesa, sei titolare della responsabilità politica per l’attività dell’Arma dei Carabinieri. Poche ore fa, con riferimento alla vicenda della morte di Stefano Cucchi, il comandante generale della stessa Arma, Tullio Del Sette ha dichiarato: “È inaccettabile per un carabiniere rendersi responsabile di comportamenti illegittimi e violenti”. E ancora: “Siamo determinati nel ricercare la verità, ma no alla delegittimazione dei Carabinieri”. Il generale Del Sette ha ragione: e posso aggiungere che la responsabilità penale è personale. Un principio fondamentale quest’ultimo al quale sento il dovere di attenermi sempre. Dunque – come suggerisce il comandante generale – non si deve fare di tutta l’erba un fascio. In altre parole, il corpo dei Carabinieri è in gran parte sano e le colpe sono da attribuirsi a “poche mele marce”. Ma è sulle implicazioni di tutto ciò che devo esprimere un profondo dissenso. Temo infatti che il ragionamento di Del Sette si risolva in una conclusione fallace e consolatoria. Sia perché, per rimanere nell’universo linguistico dell’ortofrutta, “le poche mele marce” se raccolte in un cestino sono capaci in men che non si dica di contagiare le altre; sia perché i rari elementi infetti possono rivelare una patologia assai più diffusa. Insomma, quanto venuto alla luce in questi giorni a proposito della morte di Stefano Cucchi può inquietare particolarmente chi, come me, a quella e altre vicende simili dedica attenzione da molti anni. E allora è certo che si tratta di una perversa coincidenza, e che ciascun episodio fa storia a sé e si è verificato in luoghi e con protagonisti differenti, ma è altrettanto innegabile che – come si vedrà – vi compaiano sempre militari dell’Arma dei Carabinieri. Non solo: queste storie diverse e distanti – ecco l’insidiosa combinazione – si dipanano e si avviluppano nell’arco di alcuni giorni. Venerdì scorso, le confessioni relative al “violentissimo pestaggio subito da Cucchi” (parole del capo della Procura, Giuseppe Pignatone, al quale si deve essere tutti grati); ieri, lunedì 14 dicembre, sono cadute in prescrizione – grazie alla scellerata gestione da parte del procuratore Agostino Abate, infine sanzionato dal Csm – gran parte delle accuse perla morte di Giuseppe Uva, trattenuto illegalmente per ore nella caserma dei carabinieri di Varese; e sempre ieri si è tenuta un’udienza per la morte di Riccardo Magherini, avvenuta a Firenze il 3 marzo del 2014 nel corso di un fermo a opera di quattro carabinieri. Nel corso dell’udienza un testimone ha così dichiarato: “Uno dei carabinieri colpì Riccardo Magherini con dei calci all’addome, almeno cinque o sei volte”, poi “vidi due calci alla testa. Cioè vidi un paio di calci all’altezza della testa, non saprei dire dove colpirono”. Ripeto, so bene che parliamo di tre vicende diverse avvenute in tempi diversi e in luoghi diversi. Ma è forte la sensazione che qualcosa li tenga insieme. E che l’accertamento dell’accaduto, l’individuazione dei responsabili e la loro sanzione, nel caso di provata colpevolezza, costituisca un’impresa davvero ardua. Per molte, comprensibili quanto ingiustificabili ragioni, il conseguimento della verità sulle cause di morte di persone custodite sotto la responsabilità delle forze dell’ordine e di istituzioni dello Stato è sempre complicato. Ma, tra queste, spiccano le inchieste che vedono coinvolte l’Arma dei Carabinieri, sue articolazioni territoriali, suoi singoli esponenti. E così ci sono voluti ben sei anni per trovare riscontri all’ipotesi che la tragedia di Stefano Cucchi si fosse consumata nella stazione dei Carabinieri “Appia” di Roma. E analoghe deficienze investigative si sono verificate, come detto, nel caso della morte di Giuseppe Uva a Varese. E mi auguro di cuore che nulla del genere possa ripetersi a Firenze. In proposito, va ricordato che nel gennaio del 2014 il comando generale dei carabinieri inviò a tutte le caserme d’Italia una circolare nella quale si raccomandava di non ricorrere più proprio a quella modalità di fermo che, due mesi dopo, avrebbe provocato la morte di Magherini. La tecnica è la seguente: si immobilizza la persona, la si rovescia prona a terra, si portano le braccia dietro la schiena e si bloccano i polsi con le manette. Quindi, un numero variabile di agenti, anche tre-quattro, gravano sulla sua schiena per impedire qualsiasi movimento. Si determina qualcosa definibile come “compressione toracica” e che può portare all’infarto o all’asfissia. Quella circolare, che metteva in guardia contro una simile metodica, viene affissa in tutte le bacheche di tutte le caserme: e, dunque, anche in quella da cui parte la gazzella che incrocerà Magherini. Certo, quella direttiva è stata impartita con decenni di ritardo e tuttavia, se fosse stata letta e conosciuta e messa in pratica da quei quattro carabinieri, un giovane uomo probabilmente si sarebbe salvato. Cara senatrice Pinotti, come ho già detto, le responsabilità penali sono personali e quelle politiche non valgono certo per il pregresso, ma se c’è un problema nella cultura istituzionale dell’Arma dei Carabinieri e nei suoi rapporti con gli altri poteri dello Stato, se c’è un problema nella consapevolezza e nel rigoroso rispetto dei limiti ai propri poteri coercitivi da parte dei suoi appartenenti, il ministro della Difesa può e deve intervenire. Può e deve farlo richiamando l’intera catena di comando dell’Arma alla massima collaborazione istituzionale e l’intero corpo dei suoi appartenenti al pieno e intransigente rispetto dei diritti inviolabili delle persone fermate o tratte in arresto. Ne va della credibilità di una istituzione la cui lealtà e lo scrupolo nella osservanza delle leggi devono costituire un bene prezioso per tutti. Sapendo che, per come ti conosco, condividi queste mie considerazioni, attendo una tua presa di posizione su avvenimenti che colpiscono profondamente l’opinione pubblica.
Luigi Manconi è senatore del PD, sociologo e attivista per i diritti umani.
LA LEGGE NON AMMETTE IGNORANZA?
La legge non ammette ignoranza - è l'ignoranza del popolo che ammette la legge. Occorre avere meno leggi e più chiare? Certamente, basti pensare che la Corte costituzionale con due sentenze del 1981 e del 1982 ha stabilito che in Italia l'ignoranza della legge civile e penale è una scusante, per l'immensità e la contraddittorietà della legislazione.
Ignorantia legis non excusat. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La locuzione latina ignorantia legis non excusat è molto nota per il suo uso in ambito legale, come espressione sintetica della massima giuridica riguardo alla presunzione di conoscenza della legge. Il suo significato letterale è: «L'ignoranza della legge non scusa». La locuzione si trova anche nella forma «Ignorantia iuris neminem excusat» ovvero «Ignorantia legis neminem excusat», cioè «L'ignoranza della legge non scusa nessuno». Nata nel diritto romano, l'espressione sta a indicare che è dovere del cittadino essere al corrente delle leggi; si evita così che la non conoscenza di una legge costituisca materia per la difesa. Uno dei requisiti della legge negli ordinamenti moderni è infatti la sua conoscenza, che si dà per presunta: si presume che la legge sia sempre disponibile alla conoscenza del cittadino, anzi alla generalità dei cittadini. Il criterio è da considerarsi assoluto.
Ambiguità della traduzione italiana. C'è da premettere che il brocardo trova applicazione solo nell'ambito penale (articolo 5 del Codice Rocco), con l'avvertenza che anche in quel caso l'ignoranza della legge extrapenale può essere invocata. Solitamente l'espressione si rende in italiano con «La legge non ammette ignoranza» (in latino: Lex ignorantiam negat), una traduzione che però lascia spazio ad ambiguità, potendo intendersi come "la legge non ammette l'ignoranza degli avvenimenti inerenti a una sua violazione"; solitamente invece gli ordinamenti moderni prevedono che, per alcune violazioni, non essere a conoscenza di fatti rilevanti sia una valida giustificazione difensiva. Inoltre la Corte Costituzionale con sentenza n. 364/88, ha dichiarato l'articolo in questione parzialmente illegittimo per il fatto che non prevede l’ignoranza inevitabile della legge penale. L'"ignoranza inevitabile" può dipendere da fattori soggettivi, come una carenza di competenze del cittadino per comprendere correttamente il testo normativo, ovvero all'analfabetismo; o da fattori oggettivi, come l'eccessivo numero di leggi, e successive modifiche, e la loro difficile reperibilità in Internet e nelle collezioni di riviste giuridiche.
La presunzione di conoscenza della legge è un principio del tutto tradizionale per la codificazione italiana, tant'è vero che di solito viene rammentato in latino: Ignorantia legis non excusat. In parole semplici, nessuno può giustificarsi di fronte ad un giudice dichiarando semplicemente di non conoscere la legge di cui gli venga contestata la violazione; il fatto che tale ignoranza sia effettiva o solo accampata a propria discolpa non ha alcun rilievo. Si tratta, infatti di una presunzione assoluta, nessuno è pertanto ammesso a fornire la prova della mancata conoscenza della legge. Nell'ordinamento italiano è testualmente disposto dall'art. 5 del Codice penale, il cui rigore è peraltro stato mitigato nel 1988 da una sentenza della Corte costituzionale, nel senso di giustificare l'ignoranza della norma penale in quei casi (meno rari di quanto si vorrebbe), in cui abbia il carattere dell'inevitabilità, determinata da eccessiva complessità e/o contraddittorietà della normativa. Nel Codice penale italiano il principio è codificato all'art. 5, integrato da una storica sentenza additiva della Corte Costituzionale (sentenza cost. n. 364/1988) che ne ha dichiarato l'illegittimità costituzionale nella parte in cui non era prevista la scusabilità della cosiddetta "ignoranza inevitabile". «Il nuovo testo dell'art. 5 c.p., derivante dalla parziale incostituzionalità dello stesso», ha dunque sancito la Corte Costituzionale nella citata pronuncia, «risulta così formulato: “L'ignoranza della legge penale non scusa tranne che si tratti d'ignoranza inevitabile”». Va detto, poi, che una in nota pronuncia della Corte di Cassazione in materia di errore, la sent. n. 5361/1984, è stato individuato un princìpio per il quale "l'errore nell'interpretazione della legge possa essere considerato, eccezionalmente, scusabile solo se riconducibile ad una oggettiva oscurità (attestata, eventualmente, da persistenti contrasti interpretativi) della norma violata". La combinazione dei principi di queste sentenze apre la strada ad una riconsiderazione dell'assolutezza della presunzione di conoscenza in presenza di elementi oggettivamente influenti sulla pienezza e sulla correttezza della comprensione della legge; ciò anche in considerazione della proliferazione di normazioni tecnico-specialistiche, la cui corretta interpretazione (elemento della conoscenza piena) è per ragioni fattuali riservata ad alcuni soggetti, ma non certo alla generalità dei cittadini. Le esigue aperture sono per ora solo limitate ad una rigorosamente selezionata categoria di ragioni di eccezionalità.
La tendenza dottrinale, cui sembra perciò fornire qualche segnale di labile accostamento anche la giurisprudenza specifica, parrebbe volgere con decisione alla limitazione del criterio imperativistico, che intende l'obbligo come assoluto, adagiandosi sul più equitativo concetto dell'obbligo di ordinaria diligenza nell'acquisizione di dati di conoscenza relativi alle attività che si intendono esercitare.
Pino Aprile scrive. La legge non ammette ignoranza, ovvero tutti gli italiani devono conoscere la legislazione del loro Stato e non possono giustificarsi, davanti a un giudice, nascondendosi dietro un laconico: "ma io non lo sapevo"!. Male, studia e riprova, la prossima volta sarai più fortunato. Si dice anche che la civiltà di una nazione si misuri dalle sue leggi. Insomma la legge è legge e va rispettata. Il problema sorge solo nel momento in cui un buon italiano, diligente e volenteroso, vuole mettersi in regola e cominciare pazientemente a superare la sua ignoranza applicandosi a studiare cosa si può e cosa non si può fare. E’ vero che una gran quantità di norme sono soggette a interpretazione e quindi nemmeno la loro conoscenza ci salvaguarda dalla mannaia, però almeno i sacri testi ufficiali (ad esempio La Costituzione italiana) a memoria bisognerebbe saperli. Uno non può mica andare tutto il giorno in giro con i pesanti libri della giustizia, bisogna tenere a mente e rigare dritti. Purtroppo tutta questa premessa è inutile perchè gli italiani, non solo la gente qualunque, ma fior fiore di giudici e avvocati devono scartabellare in polverosi volumi tra Regi Decreti di fine Ottocento fino alle più recenti leggi repubblicane. Non basta, bisogna anche conoscere la dottrina, le consuetudini, le sentenze che spesso fanno legge a sè. E quindi probabilmente ignoranti siamo e ignoranti resteremo. Una curiosità però me la sono voluta togliere: se non proprio studiarmi tutta la giurisprudenza almeno sapere quante leggi ci sono in Italia. Insomma misurare le mie lacune. Ebbene, a rischio di smentita (ma non credo) nessuno sà quante sono. Perlomeno Google e Wikipedia non sono in grado di rispondere al quesito. Si possono però fare delle stime e avanzare delle ipotesi seppur con un buon margine di sicurezza. Secondo Yahoo Answers il Bel Paese si attesta tra le 150 e le 200 mila leggi che, come si dice, non sono bruscolini. Soprattutto se si paragona con altri Stati civili europei la differenza è abissale.
La classifica quindi è la seguente:
1. Gran Bretagna: 3.000 leggi
2. Germania: 5.500 leggi
3. Francia: 7.000 leggi
4.Italia: 150 / 200.000 LEGGI (il maiuscolo è per dare enfasi :-).
Non so se essere deluso, arrabbiato o divertito da questa esagerazione tutta nostrana. Alcuni malfidati avanzano anche l’ipotesi che con un sistema legislativo così poderoso è, paradossalmente, più facile fare i propri comodi, altri, forse più realisti, sostengono che lo Stato in questo modo ha tolto la libertà ai suoi sudditi, e gli ultimi, infine, ci fanno sopra una bella risata preoccupati, però, di infrangere qualche codicillo nascosto tra le pieghe.
Opinione personale: Se il livello di civiltà si valutasse dal quantitativo di leggi che uno Stato ha nel proprio ordinamento ... l'Italia dovrebbe essere lo Stato più civile del mondo. Ma a quanto pare le cose non stanno così poiché la povertà aumenta, il precariato aumenta, i disservizi aumentano, le tasse aumentano, il grado di insoddisfazione della popolazione aumenta (vedi astensionisti in aumento), il debito pubblico aumenta ma soprattutto la corruzione ed il parassitismo aumentano ... e perfino avvocati e magistrati sono in difficoltà per il quantitativo di leggi esistenti e per come sono redatte. Abbiamo un numero di leggi ridicolo in Italia e nonostante questo continuano a discutere disegni di legge INUTILI ed in numero incredibilmente elevato e ci sono MIGLIAIA di disegni di legge in attesa di essere esaminati nelle varie commissioni parlamentari. Davanti ad una simile realtà i casi a mio avviso sono soltanto due:
1) Hanno fatto un sacco di leggi inutili (se ne occorrono ancora altre in via urgente - fatte dai governi anziché DAL PARLAMENTO).
2) Non sanno fare le leggi quelli che ritengono di essere più competenti dei cittadini NON eletti.
Alcune leggi sono antecedenti l'entrata in vigore della Costituzione (che è la legge fondamentale) ed altre sono posteriori. E' ridicolo che debbano esistere leggi che si scontrano con la legge fondamentale, perché anteriori la sua entrata in vigore, e nello stesso tempo, sulla stessa materia, leggi posteriori che si scontrano con le leggi che si scontrano con la Costituzione. Un po di logica riusciamo ad averla?
Il parlamerda deve SMETTERE di sfornare altre leggi ... stop! Che passi al vaglio tutte le leggi antecedenti l'entrata in vigore della Costituzione per verificarne la legittimità (artt. 134 e 136cost.), altrimenti quale legge ha valenza maggiore? fra due leggi che trattano la stessa materia e sono in contrasto perché una è vecchia e l'altra è più recente? La risposta agli "esperti", ma a me pare evidente che davanti ad una simile realtà i casi sono solo due:
Citazione: "Per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano." (Giovanni Giolitti)
A cosa servono le leggi?
In teoria ... le leggi DOVREBBERO servire a regolamentare le attività delle persone che compongono una società, ovvero a permetterne lo sviluppo evitando abusi di alcuni su altri.
In pratica, specialmente in Italia (che detiene un ridicolo primato assoluto al MONDO per quantità di leggi nel proprio ordinamento), non servono allo scopo per cui vengono fatte! O per meglio dire: servono solo ed esclusivamente ad ingrassare parassiti che hanno studiato tanto per buggerare e sfruttare il prossimo ... servono a fare SCENA ... solo forma e nessuna sostanza.
Detta in parole povere servono solo a potenziare ed ingigantire le LOBBIES. Una legge di per sé non è nulla e non serve a nulla se poi non viene applicata in quello che costituisce la sua sostanza ed ancor più se non viene rispettata. In teoria la legge è uno strumento indispensabile se non se ne abusa (in numero) e se segue questa logica:
1) il legislatore fa una legge
2) il governo la fa applicare
3) la magistratura punisce chi la viola
Se mancano le azioni di cui ai punti 2 e 3 la
legge non serve a nulla o meglio serve solo a pochi.
In Italia i cittadini che hanno scelto la carriera politica/rappresentativa si
devono sentire probabilmente molto più intelligenti e furbi di ogni altro
cittadino del mondo che ha scelto la stessa carriera, poiché hanno deciso che
debbano esistere circa 200.000 leggi, a differenza ad esempio di qualsiasi altro
stato europeo dove non si superano le 10.000 leggi. Qualcun altro ha deciso come
applicarle, o meglio a CHI applicarle, e qualcun altro ancora ha deciso come e
CHI punire quando queste sono violate. E' come se la forza e/o il grado di
civiltà di una popolazione dipendesse dal numero di leggi che ne regolamenti i
diritti e i doveri dei suoi componenti. Se questo è il pensiero dei nostri
legislatori, hanno sbagliato alla grande perché in Italia ci capiscono poco gli
stessi avvocati e gli stessi magistrati in tutto il casino legislativo fatto
finora. Inoltre non brilliamo affatto rispetto alle altre popolazioni con un
numero infinitamente inferiore di leggi... o non è così? In teoria lo Stato
dovrebbe rispondere dei propri errori in violazione dei diritti fondamentali di
ogni singolo cittadino (artt. 28, 54 e 113 Cost.) e dovrebbe garantire lo
sviluppo del singolo cittadino in quelli che sono i suoi principali diritti (art
3 Cost.);
in pratica, attraverso i suoi tre organi più importanti, lo Stato italiano tanto ha pensato e tanto ha fatto che può commettere anche qualche abuso su chiunque ritenga opportuno senza MAI pagare degli errori anche palesemente volontari.
Questa è l'Italia ... che è quella che è ... per merito degli "itaglioni" (coloro che hanno scelto la carriera politica) e per merito degli "italioti" (coloro che si affidano a chi ha scelto la carriera politica). Quando chi ha scelto la carriera politica in buona fede e chi invece di affidarsi solo ed esclusivamente a questi penseranno ed agiranno in maniera che non esistano poteri e/o istituzioni al di sopra del popolo forse si potrà migliorare l'Italia e ci si potrà dirigere verso una vera democrazia. Se i cittadini non hanno poteri di intervento DIRETTO sia sull'organo legislatore, sia sull'organo esecutivo e sia sull'organo giudiziario tutte le belle cose scritte nella nostra carta costituzionale rimarranno solo "inchiostro su carta" o, come si suol dire, belle parole. Un esempio:
Domanda: Perché mai il Parlamento avrebbe sfornato una legge (Dlgs 267/00 - art. 8 - Partecipazione popolare) che darebbe a livello locale più potere ai cittadini quando questa dopo 21 anni (prima si chiamava legge 142/90) non è ancora stata applicata dovutamente ma bensì ignorata da molte amministrazioni, raggirata da altre ed ostacolata da altre ancora?
Risposta: La legge in Italia serve a dare una parvenza a chi le fa. Serve a illudere la gente. Serve a far credere che la classe politica ha considerazione nei confronti dei cittadini, della democrazia, etc. etc. Serve a far credere ad esempio alla Comunità Europea di avere mantenuto gli accordi presi sottoscrivendo convenzioni e trattati recependoli con leggi nazionali.Ma non deve SEMPRE essere applicata la legge perché se lo fosse la classe politica italica perderebbe potere (e i suoi componenti si farebbero meno i cazzi propri - mangerebbero/ruberebbero meno).
Come si possono evitare tutte queste stranezze ? (chiamiamole così)...Pretendendo che il parlamento modifichi la legge sull'azione popolare (legge 352/70) in maniera tale da TOGLIERE i paletti posti alla democrazia diretta, e che stabilisca vincoli e modalità di utilizzo della petizione popolare - non ancora regolamentata da nessuna legge - quindi priva di alcun valore.
Con le petizioni il popolo può chiedere che il parlamento faccia delle leggi, con le proposte di legge popolari (già previste all'art. 71 Cost.) il popolo può proporre dei disegni di legge se non lo fa il parlamento una volta ricevute le petizioni che eventualmente le richiedono, ed introdurre (a scanso di sorprese) il referendum propositivo o legislativo ed il referendum confermativo per le leggi ordinarie come esistono in Svizzera!
Con il primo dei due referendum citati il popolo può IMPORRE al parlamento la legge redatta dai cittadini proponenti se questo non da esaustive giustificazioni alle petizioni presentate o ai disegni di legge popolari presentati. Con il secondo tipo di referendum una legge fatta dal parlamento può essere bocciata sul nascere prima che entri in vigore e faccia danni! (in Svizzera una legge fatta dal parlamento rimane 100 giorni in fase di stallo perché viene dato al popolo il tempo e la possibilità di indire referendum confermativo facoltativo).
Esistono esempi vicini a noi di democrazia AVANZATA quindi IMITIAMOLI! Non dobbiamo inventare nulla più di quanto è già stato inventato/sperimentato/attuato da altri! Basta copiare ad esempio il sistema Svizzero o quello Statunitense (dove oltre la metà degli stati parte possiedono forti strumenti di democrazia diretta validi a livello locale).
I sistemi democratici puramente rappresentativi sono OBSOLETI e TRUFFALDINI e con la tecnologia avanzata che abbiamo oggi (rete internet, voto elettronico, database telematici, etc.) possiamo agevolare la democrazia diretta che esiste in Svizzera dal 1874 (anno in cui sono stati introdotti i referendum citati sopra).
Quando potrà essere il popolo a controllare i suoi rappresentanti, bloccando leggi o proponendo leggi in maniera vincolante, certe schifezze legislative non le avremo più nel nostro assurdo archivio legislativo (record ASSOLUTO al mondo con circa 200.000 leggi!)
Infine: Il legislatore italico, e quei poveri servi del sistema che citano le fatidiche frasi "purtroppo la legge dice" ... "la legge è legge e bisogna rispettarla" ... "la legge non la facciamo noi", non sanno che le LEGGI in Italia DEVONO essere in armonia con i principi esposti (a volte chiaramente) nella sua legge fondamentale (cfr. art. XVIII disp. trans. e finali e artt. 134 e 136 Cost.) ... perché diversamente sarebbero ILLEGITTIME. Inoltre le leggi (legittime o illegittime che siano) in Italia vengono comunque emanate da un organo ILLEGITTIMO poiché non è strutturato come fa chiaramente intendere la Costituzione italiana (scelta indiretta anziché diretta dei parlamentari - parlamentari esponenti di partiti che non sono strutturati in maniera trasparente e sono verticistici anziché democratici - non sono un obbligo ma un diritto per determinare la politica nazionale e non una banda di individui che devono invadere tutte le istituzioni dello Stato ed enti pubblici e privati) ... quindi se ogni tanto salta fuori qualche cittadino DISOBBEDIENTE non si devono stupire padroni e servi ... perché gli individui non sono fatti tutti della stessa pasta (frolla).
Se dovesse capitarvi provate a dire ad un funzionario (qualsiasi) di Stato se sa come devono essere le leggi e se sa che le leggi in Italia vengono fatte da una banda di farabutti illegittima ... vedrete che faccia di cazzo farà. Fategli presente quello che dico/scrivo ormai da un decennio abbondante ... (potete usare ad esempio il pensiero scritto qui sopra in sfondo rosa) vi accorgerete come abbassano le creste di minkia che hanno sul collo. Una scrollata di spalle e tutto resta come sempre ... anzi ... peggiora anno dopo anno.
Citazione: "Per i cittadini le leggi si applicano, per gli amici si interpretano, per alcuni si eludono."(Giovanni Giolitti).
Smettiamola di parlare di democrazia in Italia. Sarebbe ora che chi erroneamente acclama un ritorno alla democrazia si ravvedesse poiché la democrazia oltre ad essere un traguardo tracciato dai padri costituenti, che si allontana sempre più, non è MAI esistita in Italia. Non si può chiedere qualcosa che non c'è mai stata o che non ci è mai appartenuta. Se invece parliamo di democrazia rappresentativa dove il compito più importante di fare le leggi è affidato ad un parlamento composto da membri appartenenti ai cosiddetti partiti occorre meditare quanto segue: I partiti non rispecchiano i principi costituzionali di cui all' art. 49 (trasparenza e struttura democratica). Per avere questi fondamentali requisiti occorrerebbe una legge che ne definisca delle chiare regole, che nessuno ha proposto. Inoltre non sono un "obbligo" ma un diritto, e questo comporta che i rappresentanti eletti non devono necessariamente far parte di partiti o iscriversi a partiti o sottostare al benestare dei partiti riguardo alla loro candidatura. Il sistema elettorale non hai MAI consentito ai cittadini di scegliere i propri rappresentanti come si evince dagli artt. 56 e 58 Cost. indipendentemente dalle leggi elettorali esistite finora in Italia (che dopo l'entrata in vigore della Costituzione italiana sono state soltanto due). Già questi due fattori, che se qualcuno ha il coraggio di contestare può farlo commentando in coda a questo post (dandosi però un nome ed un cognome, perché altrimenti non lo pubblico :-), sono sufficienti a rigettare il recidivo parlamento italiano. L'importanza di dare al popolo il reale potere di correggere l'attività parlamentare legislativa e di imporre leggi al parlamento nasce da un'esigenza ormai appurata. Il Parlamento, oltre alle chiacchiere di alcuni suoi membri non ha MAI: applicato con legge il diritto dei cittadini di chiedere interventi legislativi ed esporre comuni necessità (art. 50 Cost.), non ha mai introdotto una legge sul conflitto di interessi (fondamentale per un'informazione adeguata e libera attraverso i media)
non ha mai introdotto una legge che regoli, per l'appunto, la struttura dei partiti
non ha mai dovutamente esaminato importanti leggi antecedenti l'entrata in vigore della costituzione per verificarne la legittimità (se in armonia con essa)
Per contro ha invece:
legiferato per ostacolare (L.352/70) l'azione diretta dei cittadini sovrani per quelli che sono i loro diritti costituzionali di partecipazione (v. questa petizione)
legiferato per ostacolare l' entrata in politica di movimenti e/o liste civiche con intenzioni volte a dare più poteri ai cittadini sovrani (L. 120/99)
legiferato per impedire ai cittadini sovrani di adire DIRETTAMENTE la Corte costituzionale (L.87/53) consentendo quindi il permanere di leggi o parti di esse anti-costituzionali.
legiferato per dare al Governo un potere legislativo spropositato per quello che la Costituzione gli consentiva (L. 400/88).
legiferato per dare ai suoi membri lussi e privilegi che vanno oltre quanto previsto dall'art. 69 Cost.
Un parlamento così costituito, che ha pure il potere di scegliere il Governo, il Presidente della Repubblica, 2/3 (la maggioranza) dei membri della Corte costituzionale, 1/3 dei membri del Consiglio Superiore della magistratura non può più continuare ad operare senza un controllo del popolo sovrano! E' ILLEGITTIMO e non potranno mai funzionare come sperato le altre istituzioni nominate da esso. Non c'è altro modo per ricondurlo alla ragione se non puntando al crollo del sistema dei partiti con l'astensionismo attivo e pretendere che venga riconosciuta e potenziata la democrazia diretta (e per fare questo basta trarre spunti dai paesi dove la democrazia diretta esiste da oltre un secolo e funziona sempre meglio).
INGIUSTIZIA: IMMENSA BIBLIOGRAFIA.
GIOVANNI MANDALA’ ASSOLTO SEDICI ANNI DOPO ESSERE MORTO IN CARCERE, ECCO LA GIUSTIZIA ITALIANA, scrive Dimitri Buffa. Stavolta il famoso “giudice a Berlino” è arrivato con sedici anni di ritardo. Come minimo. E con il senno di poi persino uno come Giuseppe Gulotta, che si è fatto 22 anni in carcere da innocente può ritenersi un uomo fortunato nell’impari match contro la malagiustizia italiana. Perché se pensasse solo per un attimo al tragico destino del suo coimputato Giovanni Mandalà, morto in carcere nel 1998, e solo ieri riconosciuto innocente dall’avere partecipato alla stessa strage di Alcamo Marina del 27 gennaio 1976, potrebbe persino “consolarsi”. E sì, a distanza di decenni, quel fattaccio dell’omicidio dei due carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, un giallo mai risolto anche a causa dei depistaggi e delle prove falsificate costruite da altre mele marce dell’Arma ai danni di Gulotta e Mandalà, continua a mietere vittime. Sia pure indirettamente. Dopo il processo di revisione vinto da Gulotta due anni fa davanti alla Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria anche le altre persone messe in mezzo da falsi pentiti e vere torture accadute all’epoca dei fatti, oggi chiedono e ottengono giustizia: oltre a Mandalà sono stati assolti anche Giuseppe Ferrantelli e Gaetano Santangelo. Se solo non fossero passati circa 38 anni…Per inciso il depistaggio di quest’episodio assomiglia molto a quello che ha caratterizzato la gestione dei processi per la strage di via D’Amelio nelle inchieste condotte all’epoca dal pm Nino de Matteo che credette al pentito Vincenzo Scarantino. Anche per la strage di Alcamo si ipotizza un interesse della mafia a depistare. Oltre alla chiamata in correità di Giuseppe Vesco (giudicata illegale dalla sentenza di revisione a favore di Gulotta, perchè “estorta” dai carabinieri), a carico di Mandalà vi era anche una macchia di sangue sulla giacca, appartenente allo stesso gruppo sanguigno di una delle vittime. Una prova che oggi è “sotto processo” in altro dibattimento in cui si ipotizza la frode processuale dei carabinieri. E che ieri era finita al centro della requisitoria del sostituto procuratore di Catania, Maria Concetta Ledda, che, al termine aveva chiesto l’assoluzione per Mandalà. In aula ieri erano presenti la vedova Maria Timpa, e due dei figli, Benedetta e Giuseppe. A suo tempo, Gulotta aveva richiesto un enorme risarcimento danni all’Arma dei carabinieri e allo stato per 69 milioni di euro. La vedova Mandalà inoltre si rivolgerà alla Corte di giustizia europea per ottenere una condanna esemplare, e vergognosa, per le nostre istituzioni giudiziarie. Nel processo di Catania il pentito Leonardo Messina ha anche dichiarato che quella strage fu concepita dalla mafia, di concerto con esponenti dell’Arma, con lo scopo di preparare un colpo di Stato. Una dinamica analoga, come si diceva, al depistaggio costruito tramite Scarantino nei processi per la strage in cui venne ucciso il magistrato Paolo Borsellino e i cinque uomini della sua scorta. Depistaggio fatto poi scoprire da altro pentito, Gaspare Spatuzza, circa diciotto anni dopo.
Di seguito solo alcuni titoli dei libri scritti in tema di ingiustizia. Un fenomeno che sembra non esistere, fino a che non tocchi a noi subirlo.
"E se fossi tu l'imputato?" di Mario Conte. Storia di un magistrato in attesa di giudizio. "Un libro provocatorio per difendersi dalla giustizia". Accusato per vent’anni di crimini gravissimi, prima di essere assolto con formula piena, Mario Conte ricostruisce nel dettaglio la propria vicenda giudiziaria. Con la forza e l’efficacia dell’addetto ai lavori, l’ex Pubblico Ministero racconta l’esperienza processuale di un magistrato costretto a vestire i panni del «presunto colpevole». La sua è un’analisi fredda e obiettiva degli errori – talvolta clamorosi –, delle discrasie e delle dimenticanze di chi dovrebbe applicare le leggi e di chi dovrebbe giudicare i cittadini. Con il suo libro, Conte non ha soltanto il merito di dare voce alla propria esperienza, ma anche di suggerire alcune soluzioni ai problemi di un sistema giudiziario che sembra aver perduto i suoi punti di riferimento.
"Mio padre Nino Buttafuoco" di Giuseppina Palazzo. Un diario, un memoriale, uno “sfogo” di una donna che, a distanza di anni, vede ancora infangato il nome del suo “secondo padre, Nino Buttafuoco”, noto commercialista di Palermo, che nel 1970 rimane invischiato nell’inchiesta sul rapimento di Mauro De Mauro, il giornalista de L’Ora che aveva scoperto “un grande segreto”, forse sul caso Mattei o sul golpe Borghese, rimasto ancora oggi misterioso. Buttafuoco, amico della famiglia De Mauro, per indagini approssimative, passa quasi tre mesi in prigione e poi viene prosciolto per mancanza di indizi. Il libro, “Mio padre Nino Buttafuoco”, scritto di getto, è “solo prodotto delle mie memorie e della mia vita vissuta con Lui”, afferma l’autrice Giuseppina Palazzo che ha voluto dare la sua versione dei fatti rispetto alle notizie di giornali, ai libri e alle trasmissioni televisive che hanno “influenzato negativamente, anche dopo morto, l’opinione pubblica sulla figura di Nino Buttafuoco”. Palazzo, fa un lavoro certosino, torna indietro con la memoria, rivive quei momenti terribili, e scaccia via tutte le ombre che macchiavano l’immagine di Buttafuoco.
«Io non avevo l’avvocato», (Mondadori, 143 pagine, 18 euro) è un libro che andrebbe caldamente raccomandato nelle scuole di giornalismo e in quelle di formazione dei giovani magistrati, scrive Paolo Colonnello su "La Stampa". E che, uscendo proprio in questi giorni, piomba come un sasso nello stagno delle polemiche sulla riforma della legge Vassalli per l’inasprimento delle responsabilità civili dei giudici, scuotendo le coscienze e ponendo un’unica, semplicissima domanda: chi paga per la vita di un uomo (e della sua famiglia) travolto da un’inchiesta giudiziaria, dimenticato in carcere e infine assolto? Prefato da un giornalista «di sinistra» e non certo tenero con gli scandali nostrani come Massimo Mucchetti, ora presidente della Commissione Industria del Senato; scritto con la collaborazione di un altro giornalista come Sergio Luciano; arricchito da citazioni di Giovanni Falcone, del presidente di Cassazione Giorgio Santacroce e di giuristi, già del Csm, come Giuseppe Di Federico, «Io non avevo l’avvocato» fornisce un elemento di riflessione indispensabile, senza mai una parola di rancore o di rivalsa, alla questione che agita la magistratura raccontando la storia, che purtroppo si ripete con frequenza, di un tragico errore giudiziario. Solleva inoltre l’eterna questione dell’(in)utilità di un carcere crudele e ottuso che costringe all’ozio e non fornisce alcuno strumento di lavoro e formazione e dunque, di vera riabilitazione e colpisce infine il cinismo distratto dei giornalisti. Perché questa è la storia, narrata in prima persona, di Mario Rossetti, 50 anni, ex manager Fastweb, laurea in economia e un master ad Harvard, che ha visto la sua vita spezzarsi improvvisamente una mattina piovigginosa del 23 febbraio 2010, quando il Nucleo Valutario della Guardia di Finanza di Roma, suonò alla porta della sua bella casa milanese per una perquisizione cui seguì l’arresto, di fronte allo sconcerto di moglie e tre figli, di 2, 9 e 10 anni: «Troppo piccoli per capire, ma abbastanza grandi per ricordare tutto ancora oggi con grande precisione…». L’inizio di un calvario durato oltre 100 giorni nelle celle di San Vittore prima e Rebibbia dopo (di rara umanità la descrizione dei compagni di cella e del mondo dolente delle prigioni), e proseguito per 8 mesi di arresti domiciliari, prima che una sentenza, di primo grado ma priva di ombre, lo dichiarasse completamente innocente e lo assolvesse da ogni reato. Senza però cancellare il dolore non solo della perdita del proprio status, dei propri beni (sequestrati anche alla moglie) e di un’onorabilità compromessa inesorabilmente dai siti web che ricordano poco e possibilmente il peggio, ma anche del figlio più piccolo, ammalatosi di un tumore incurabile e deceduto giusto un anno fa: «Una scomparsa - scrive Rossetti - forse soltanto coincisa con la violenza, insensata e arbitraria, che si è abbattuta su casa nostra». È una storia tremenda e in un certo senso epica quella di Mario Rossetti, che senza questo libro avrebbe rischiato di finire nell’oblio di un Paese fin troppo abituato a scandali colossali, tanto da non curarsene quasi e non conoscerne la fine. Nella monumentale sentenza di mille e 800 pagine con cui sono state distribuite a pioggia condanne e (poche) assoluzioni nel processo romano Fastweb Telecom-Sparkle - tra queste quella più nota di Silvio Scaglia, il fondatore del colosso delle fibre ottiche - il nome di Mario Rossetti compare in non più di due pagine per dire che l’ex manager in questa storia non c’entrava niente. E dunque, andava assolto con formula piena. Due paginette per cancellare 100 giorni di carcere e 8 mesi di arresti domiciliari. Ma è possibile riassumere in poche righe la distruzione e la riabilitazione di una vita? Eppure, Mario Rossetti, un nome che sembra un eponimo dell’italiano medio, è rimasto uno sconosciuto ai più. L’incubo per altro non è ancora finito, dato che la Procura ha impugnato la sentenza e si attende l’esito del processo d’appello. A maggior ragione, la scelta di Rossetti risalta nella coraggiosa imprudenza degli innocenti, che fanno risuonare il loro grido di giustizia più alto di qualsiasi consiglio «strategico» e legale: il silenzio.
Cento giorni in prigione da innocente, la storia dell'ex manager di Fastweb Mario Rossetti. "Io non avevo l'avvocato" è il racconto di un uomo perbene che ha trascorso quattro mesi in prigione, tra San Vittore e Rebibbia, e altri 8 ai domiciliari, prima di essere assolto, scrive Monica Serra Martedì 10/03/2015 su “Il Giornale”. “Quando entri in carcere con una condanna da scontare sai quant’è alta la montagna che devi scalare, ti organizzi mentalmente, puoi costruire un viaggio interiore e fronteggiare l’abisso. Quando non capisci perché sei dentro né per quanto ci resterai, c’è da impazzire. Lo stato di angoscia è esponenziale, in funzione di variabili che non conosci e non controlli: pensi che se il pm o il gip hanno litigato con la moglie proprio il mattino in cui devono decidere su di te, tu starai dentro quindici giorni in più; ma che se invece la figlia ha preso la lode all’esame di laurea, firmeranno subito”. Queste parole sono tratte dal libro “Io non avevo l’avvocato”, edito da Mondadori, la storia vera di Mario Rossetti, 50 anni, ex direttore amministrativo e finanziario di Fastweb, laurea in economia e master ad Havard, coinvolto nel processo Fastweb-Telecom-Sparkle. Definito dai giudici “l’uomo di Silvio Scaglia”, il fondatore di Fastweb, Rossetti è stato sbattuto in prigione per più di 100 giorni, e per 8 mesi ai domiciliari, prima di essere dichiarato innocente dai giudici di primo grado. Uno dei tanti casi di “ordinaria carcerazione preventiva” in Italia, come molti la definiscono. Un incubo che non è ancora finito perchè i pm hanno impugnato la sentenza ed è attesa la decisione d’appello. E che ha visto anche la tragica morte del figlio più piccolo del 50enne che, nel frattempo, si è ammalato di cancro e non è riuscito a vincere la malattia: “una scomparsa- scrive Rossetti- forse soltanto coincisa con la violenza, insensata ed arbitraria, che si è abbattuta su casa nostra”. Il calvario è iniziato all’improvviso, una mattina di febbraio del 2010. In casa dell’ex manager, a Milano, c’era anche la moglie e i tre figli di 2, 9 e 10 anni, “troppo piccoli per capire, ma abbastanza grandi per ricordare tutto ancora oggi con grande precisione”. Gli uomini del Nucleo Valutario della Guardia di Finanza di Roma piombarono all’improvviso. Dopo aver messo a soqquadro la casa, portarono via in manette Rossetti. Prima a San Vittore, poi a Rebibbia. L’accusa mossa dalla Procura Capitolina è quella di aver partecipato all’associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale nell’ambito delle operazioni Phuncards e Traffico Telefonico: la vendita di carte telefoniche e servizi telematici con traffici inesistenti, che avrebbero consentito alle società debitrici dell’Iva di non versare il tributo. Gli inquirenti si erano concentrati, in particolare, sulla prima operazione, che si è svolta nel 2002-2003, ovvero nel pieno della direzione amministrativo-finanziaria dell’indagato, durata fino al 2005. Il primo interrogatorio risale al febbraio 2007. Rossetti fu chiamato a rispondere come indagato, non come testimone. Poi l’inchiesta fu archiviata. L’arresto arrivò ben 3 anni dopo. Le accuse erano le stesse del 2007. Qualche tempo dopo l’archiviazione, infatti, i Ros intercettarono casualmente il faccendiere Gennaro Mokbel, e i magistrati chiesero la riapertura del fascicolo. In molti hanno chiesto a Rossetti perchè, a suo parere, sia finito in carcere. Lui ha risposto di non averlo mai capito: “Ho passato giorni a leggere l’ordinanza, senza trovare niente sulla mia presunta complicità con Mokbel. Forse i pm pensavano che avrei confessato. Nel corso del dibattimento hanno cercato di motivare la mia colpevolezza dicendo che 'non potevo non aver capito'. Che motivazione sarebbe? Di una cosa sono sicuro: i giudici non possono non sapere cosa dice il Codice di Procedura Penale riguardo alla custodia cautelare. Ci sarebbero tre motivi per giustificare un arresto preventivo, e nel mio caso non erano riscontrabili: reiterazione del reato, inquinamento probatorio, fuga. Io, nel 2010, lavoravo per un’altra azienda: in che senso avrei potuto reiterare il reato? Il reato era stato commesso prima del 2007, c’era già stata un’inchiesta: non esisteva alcun pericolo concreto e preciso che le inquinassi. Avevo una famiglia con figli piccoli, e tutti i beni sequestrati: dove sarei fuggito”, ha spiegato l’ex manager, appena tornato in libertà. Gli hanno messo sotto sigilli i beni, bloccato i conti correnti: “È come se avessero messo in prigione anche la mia famiglia”. Probabilmente non avrebbe neppure potuto difendersi se non fosse stato aiutato da Fastweb: “E io parlo da fortunato- ha spiegato a ridosso della scarcerazione- rispetto alle migliaia di poveri cristi in galera. Il carcere è pieno di persone ai margini: gli avvocati non vengono neanche a difenderli, perché non hanno i soldi”. Con un tono sempre pacato, mai rabbioso, anche quando il suo racconto fa arrabbiare lo stesso lettore, Rossetti parla anche della solidarietà in prigione, delle sue passeggiate sempre uguali attorno al cortile nell’ora d’aria, della claustrofobia, degli spazi troppo stretti e troppo buii, dell’assenza di lavoro in prigione, che ti aiuterebbe a far passare il tempo e “a tener la testa fuori”, ma che è un bene prezioso e negato ai più: “Per questo, fare lo ‘scopino’ o lo ‘spesino’, lavorare nelle cucine sono attività per cui si lotta, anche perché ottenerle dipende solo dalla simpatia o meno di qualche ispettore della polizia penitenziaria. Nel mio caso non è possibile perché i miei sono ancora arresti cautelari e nessuno se l’è sentita nemmeno di autorizzarmi a lavorare in biblioteca per timore di contatti con gli altri coinquisiti”. “Io non avevo l’avvocato” è un libro che scotta. Che arriva nel momento in cui impazzano le polemiche sulla riforma della legge Vassalli per l’inasprimento delle responsabilità civili dei giudici. È un libro che deve far riflettere e che Rossetti ha voluto pubblicare senza aspettare che la sua assoluzione divenga definitiva. Anche in un momento in cui qualsiasi difensore avrebbe suggerito strategicamente il silenzio. Imprudente forse, ma che chiede forte e chiaro solo una cosa: che sia fatta giustizia, e non solo per lui.
Mario Rossetti: così la malagiustizia può sconvolgere la nostra vita. L'ex manager, assolto dopo aver trascorso 100 giorni in carcere, si racconta a Panorama d'Italia, scrive Sergio Luciano su “Panorama”. “Nel nostro Paese a fianco del codice penale scritto dal legislatore, esiste un codice penale «materiale», dove spesso i diritti primari della persona umana vengono ignorati e calpestati: lo dimostra la storia, raccontata pacatamente ma con crudezza dal suo stesso protagonista Mario Rossetti, di un gruppo di manager arrestati dalla Procura di Roma nel 2010 per l’inchiesta sulla frode fiscale ai danni di Fastweb e Telecom Sparkle, e poi scarcerati e assolti con formula piena dal Tribunale. Rossetti, che ha scritto la sua vicenda in un libro – Io non avevo l’avvocato (Ed. Mondadori) – si racconta a Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama, nel corso della tappa modenese di Panorama d’Italia. “Il titolo? Spiega una delle prime evidenze paradossali della mia vicenda”, spiega l’ex direttore finanziario di Fastweb: “Quando quella mattina alle cinque bussò alla mia porta il drappello della Guardia di finanza venuto ad arrestarmi, io ero talmente lontano dalla possibilità di subire tutto questo che non avevo alcun avvocato che stesse seguendo l’inchiesta. Ero stato interrogato una volta sola, tre anni prima, e avevamo poi saputo che l’inchiesta era stata archiviata”. Invece era stata riaperta e, senza supplementi istruttori, erano stati ordinati oltre 50 arresti. Nelle 1600 pagine dell’ordinanza, non c’era alcun passaggio che documentasse, con dati di fatto o testimonianza, una responsabilità attiva di Rossetti nell’operazione criminale che aveva condotto a una maxi-evasione Iva attorno a un traffico di fatture tra i malavitosi e le due società. Eppure “lui non poteva non sapere”, e le manette sono scattate. Con esse, un calvario durato 100 giorni di carcere e 8 mesi di domiciliari che ha coinvolto in pieno la famiglia dell’arrestato – moglie e tre figli – non solo per lo sgomento e il dolore ma anche sul piano pratico: “Mi vengono sequestrati tutti i beni e bloccati i conti correnti e le carte di credito appartenenti a me e a mia moglie. Lo Stato, per difendere i suoi potenziali diritti futuri, si prende i tuoi beni oggi, anche se non provenienti dai reati contestati". Da qui si pongono una serie di questioni brucianti: come si può pensare di mettere una famiglia sul lastrico per ragioni di "giustizia"? La risposta non può che essere empirica: i familiari di Mario per quasi tre anni, fino ai dissequestri, hanno vissuto della generosità dei familiari e degli amici, insomma hanno vissuto di prestiti. “In carcere percepisci subito di non essere più una persona ma un numero. Un numero in una cella", racconta l’autore. Certamente il problema non è far diventare i penitenziari degli hotel a 5 stelle, ma dei luoghi maggiormente a misura d'uomo, in cui anche le relazioni interpersonali siano più umane. Rossetti individua nella possibilità dilavorare e di imparare un mestiere una soluzione che consentirebbe ai detenuti da una parte di impiegare in maniera utile il proprio tempo, e dall'altra di ottenere qualcosa da offrire al mercato del lavoro, una volta conclusa la pena, per reinserirsi nella società. Ma la burocrazia, anche dietro le sbarre, complica tutto al limite dell'insormontabile. E poi c'è il disfunzionamento della giustizia. Indagini su reati finanziari o societari condotte da pm che non padroneggiano nemmeno il lessico di questa materia. Che, letteralmente, non sanno come si legge un bilancio. E non solo: “Non si tratta di abolire la carcerazione preventiva, ma ripensare il suo utilizzo: oggi può essere una bieca tortura, finalizzata ad estorcere confessioni infondate”. “Eppure io continuo ad aver fiducia nella magistratura”, dice ancora il manager, “perché a fronte di un’istruttoria assurda e un arresto ingiusto c’è poi stata un’assoluzione convinta, sono figlio di un generale dei Carabinieri e credo nello Stato, ma non posso non dare evidenza al fatto che talvolta il comportamento di singoli magistrati sembra seguire tesi precostituite, alimentate poi dall’incrocio con la risonanza mediatica che certe vicende assumono, com’è accaduto a me”. Così, sullo sfondo della vita sconvolta di un uomo che si vede privare ingiustamente della propria libertà, che si mette alla ricerca di un nuovo rapporto con se stesso, con la propria famiglia, che affronta il dolore straziante per la perdita di un figlio, ci sono le contraddizioni della giustizia e dell'informazione, una gogna mediatico-giudiziaria che talvolta distrugge, senza appello, la vita delle persone.
Cento volte ingiustizia di Benedetto di Lattanzi e Valentino Maimone, Ugo Mursia Editore. Cento casi di errori giudiziari dal 1948 al 1996, ricostruiti con l’unico intento di sollevare una riflessione su una delle più attuali e delicate questioni della giustizia. Con gli interventi di quattro specialisti in rappresentanza delle figure chiave del processo penale: l’accusa, la difesa, il giudice, la Cassazione. Cento casi di errori giudiziari, ricostruiti con l'unico intento di sollevare una riflessione approfondita su una delle più attuali e delicate questioni della giustizia. La prefazione è affidata, all'editorialista de "La Stampa" Roberto Martinelli. L'opera vede anche l'intervento di altri quattro addetti ai lavori: Ferdinando Imposimato, oggi senatore della Repubblica; l'avvocato Taormina, docente di procedura penale presso l'Università di Tor Vergata di Roma; Severino Santiapichi, per anni presidente della Corte d'Assise di Roma, oggi procuratore generale presso la Corte d'Appello di Perugia; Renato Borruso, magistrato della Corte di Cassazione e vicedirettore del Centro Elettronico di documentazione della Suprema Corte.
Affari e politica a Portoferraio – Il fatto non sussiste di Giovanni Muti, Il forte inglese. Con il 2014 sono trascorsi dieci anni da quando accadde Elbopoli. Giovanni Muti nel suo libro edito nel 2009 ed intitolato“Affari e Politica a Portoferraio. Il fatto non sussiste” scrive testualmente che “.… Elbopoli indica le inchieste giudiziarie che finirono sui giornali dal 2003-2004 e coinvolsero imprenditori, politici, tecnici e altissime cariche istituzionali.
La Malagiustizia – Spaccato del sistema Italia alla deriva di Giacomo Saccomanno, Nino Sangerardi, Laruffa Editore. E’ la storia giudiziaria e umana di Giovanni De Blasiis nato e vissuto a Potenza, funzionario della Regione Basilicata. Un caso di malagiustizia in cui emerge che in questa Italia vi è un sostegno all’illegalità e una contrapposizione nei confronti delle persone che, invece, vorrebbero l’applicazione concreta delle regole da parte di tutti.
Oggi a me domani a chi? di Diego Olivieri, Olivieri. Diego Olivieri, 64 anni, vicentino accusato di narcotraffico: era innocente. In un libro il racconto di un uomo «normale» diventato sorvegliato speciale.
Un caso di incoscienza di Daniela Candeloro, Casa Editrice BookSprint Edizioni. Il libro racconta la storia di Daniela Candeloro, la commercialista di Danilo Coppola, l’imprenditore che il primo marzo del 2007 venne arrestato con l’accusa di bancarotta, riciclaggio, associazione a delinquere e appropriazione indebita. Assieme all’imprenditore, venne giù tutta la struttura aziendale da lui creata e sotto le macerie rimase anche Daniela Candeloro.
“L’uomo Nero ha gli occhi azzurri”, la storia di Nunzia e Barbara di Giuliana Covella, Guida edizioni. Ponticelli, quartiere popolare di Napoli. Nel luglio 83 vengono rinvenuti in un torrente in secca, i corpi senza vita di due bambine di 10 e 7 anni. In seguito alla perizia del medico legale si scoprirà che le due amichette sono state violentate, pugnalate a morte e bruciate. Tre ragazzi, che si proclamano innocenti, sono condannati all’ergastolo.
Mala Iustitia, colpevoli d’innocenza di Pietro Funaro Spazio, Creativo edizioni. La malagiustizia esiste, c’è poco da fare. E con questa bisogna fare i conti quando si scivola nelle sabbie mobili di procedimenti giudiziari estenuanti spesso accompagnati dal macabro corollario di detenzioni rigide e preventive. Costretti in carcere per reati che non si è mai commessi. La malagiustizia esiste, occorre rassegnarsi. Con buona pace dei tanti [...]
Condannati preventivi di Annalisa Chirico, Rubbettino. Quasi un detenuto su due è recluso nelle galere italiane in regime di custodia cautelare. In altre parole, carcere preventivo. La detenzione dietro le sbarre in assenza di una sentenza di condanna ha assunto dimensioni abnormi, che sono valse al nostro Paese la maglia nera in Europa. Se oggi in Italia è più facile [...]
Il cuore in gabbia di Gabriele Magno, Editori Riuniti. Un errore: a volte una semplice svista, altre volte una cieca indagine a senso unico, e per qualcuno si aprono le porte del carcere, ingiustamente. Inutilmente. Poi i processi estenuanti, che lasciano senza fiato a forza di gridare: «Sono innocente!». Per qualcuno la vita finisce così, nella vergogna e nell’umiliazione; altri provano a ricominciare cercando di [...]
Life After Death – La vita dopo la morte di Damien Echols, Einaudi Stile Libero. Nel 1993, gli adolescenti Damien Echols, Jason Baldwin e Jessie Misskelley Jr. – diventati poi noti come i “West Memphis Three” (i tre di Memphis Ovest) — vennero arrestati per l’omicidio di tre ragazzi di otto anni in Arkansas. Il processo fu caratterizzato da prove manipolate, false testimonianza e condizionato dall’isteria pubblica. Baldwin e Misskelley [...]
Luciano Rapotez, un caso giudiziario del dopoguerra di Gloria Nemec, Irsml Fvg, Trieste. Luciano Rapotez, operaio muggesano, comunista ed ex partigiano, fu arrestato nel 1955 con quattro compagni, con l’imputazione di essere autore di un tuttora oscuro triplice omicidio: il delitto Trevisan, del 1946. Nella questura triestina fu sottoposto a 96 ore di tortura, poi a 32 mesi di detenzione, prima dei processi in Corte d’assise che sancirono la sua piena assoluzione. Il volume (a cura di Gloria Nemec, con saggi di Alessandro Giadrossi e Gloria Nemec) non si limita al “caso Rapotez”, ma lo pone al centro del contesto più ampio del dopoguerra giuliano.
Come una lama di Maria Vittoria, Pichi Italic. 28 dicembre 1981. In un piccolo paese a pochi chilometri da Padova i carabinieri arrestano, con l’accusa di terrorismo e sequestro di persona, una giovane farmacista di origine marchigiana. Come una lama è il racconto di ciò che avvenne a partire da quel momento. L’autrice, Maria Vittoria Pichi, nata a Senigallia il 24 dicembre 1954, ha vissuto in [...]
L’urlo dentro, storia di giustizia distratta di Ernesto, Fico Herald. La storia incredibile e sfortunata di Angelo Borriello, condannato alla detenzione per un assurdo errore giudiziario. E’ questo il tema intorno al quale ruota il romanzo “L’urlo dentro, storia di giustizia distratta”, scritto da Ernesto Fico, pizzaiolo di professione e scrittore per passione. La storia descritta nel libro è realmente accaduta, ed Angelo Borriello (nome di [...]
Un tunnel chiamato giustizia di Achille Melchionda, Minerva Edizioni. 1978: un giovane, Dante Forni, viene accusato di essere uno dei basisti bolognesi di Prima Linea, ma si proclama innocente e sostiene di non aver mai avuto a che fare con la lotta armata. Gli indizi sembrano smentirlo e a credergli sono solo la sua famiglia e l’avvocato difensore, l’autore di questo libro. Il legale [...]
Il mostro innocente – La verità su Girolimoni condannato dalla cronaca e dalla storia di Federica Sciarelli - Emmanuele Agostini, Rizzoli. Il libro si pone a metà tra il romanzo e il saggio storico, descrivendo non solo la vicenda del “Mostro di Roma”, ma anche il rapimento e l’uccisione di Giacomo Matteotti e, soprattutto, il ruolo della stampa di regime che ha voluto fare di Girolimoni un capro espiatorio per compiacere Mussolini, sceso personalmente in campo per chiedere una severa punizione per il colpevole.
“Mare Forza 7” (Primo censimento degli errori giudiziari) di Michele Giardina, Prova d’Autore. Nel libro, edito da Prova d’Autore di Catania, la metafora del mare forza 7 è la giustizia nella tempesta. Si tratta di un censimento impietoso degli errori giudiziari e delle conseguenze provocate da preconcetti, sadismi, superficialità, declinazioni babiloniche della giustizia in Sicilia e in Italia. L’autore sgrana un rosario di “sviste” a senso unico nelle [...]
Il Cortocircuito – Storie di ordinaria ingiustizia. di Ilaria Cavo Mondadori. Una testimonianza sulla mala giustizia attraverso le storie di personaggi, noti e meno noti, che l’hanno vissuta sulla propria pelle. Come Elvio Zornitta, sospettato ingiustamente per anni di essere il famigerato Una bomber, o quella di Carlo Rossi, un normale responsabile amministrativo, arrestato per corruzione e poi assolto dopo una via crucis durata quindici anni.
Il caso Spanò. Il più grande errore della storia giudiziaria italiana di Giuseppe Messina, Armando Siciliano Editore. L’odissea giudiziaria di Antonino Spanò è raccontata in un libro di Giuseppe Messina, il giornalista che prese a cuore la vicenda e che dopo quattro anni di lavoro riuscì, grazie anche all’intervento di difensori del calibro di Tullio Trifilò, di Capo d’Orlando, e del senatore Giovanni Leone, futuro Presidente della Repubblica, a fare liberare e riabilitare il malcapitato.
Presunto innocente – Cronaca del caso Perruzza di Angelo De Nicola, Tracce. Angelo De Nicola, caporedattore della sede aquilana del “Messaggero”, raccoglie una lunga serie di testimonianze (120, per l’esattezza), che lui stesso (fatta eccezione per due brani che sono a firma di altri giornalisti) ha scritte per il suo giornale, seguendo passo passo, in un arco di tempo di circa tredici anni, la dolorosa vicenda del “Caso Perruzza”.
Come volevano le stelle – Enzo Tortora giustizia dimenticata di Maria Rita Stiglich, Seneca Edizioni. Una scelta fatta con la volontà di un cuor che non vorrebbe, diciassette giorni per capire di essere stata guidata dalle stelle, e Giulia si trova sul dolente cammino di Enzo Tortora. Dall’ottobre 1985 al maggio 1988, l’ultimo tempo del presentatore perseguitato dalla giustizia rivive nella storia di un’amicizia limpida e profonda. Un racconto di [...]
Mio padre Nino Buttafuoco di Giuseppina Palazzo. Un diario, un memoriale, uno “sfogo” di una donna che, a distanza di anni, vede ancora infangato il nome del suo “secondo padre, Nino Buttafuoco”, noto commercialista di Palermo, che nel 1970 rimane invischiato nell’inchiesta sul rapimento di Mauro De Mauro.
Perseguitata di Angela Cannings, Tea. Oltre al dolore indescrivibile causato dalla perdita di tre figli – Gemma di 13 settimane, Jason di 7 e Matthew di 18 -, per la Sindrome della morte improvvisa del lattante (SIDS), Angela Cannings ha dovuto affrontare un percorso crudele e assurdo.
Giudice, alzatevi! di Aldo Ferrua, Diffusione San Paolo. Testimonianza di un procuratore della Repubblica piemontese, Aldo Ferrua, dopo trent’anni di onorata carriera, imputato. La sua innocenza appare evidente fin dall’inizio, ma rimane rispettoso delle decisioni dei suoi colleghi, si difende e viene assolto. E’ tuttavia una vittoria amara: forza morale messa alla prova, salute psicofisica compromessa, gravissime sofferenze per se ed i suoi [...]
Aldo Scardella il dramma di un innocente di Vittorio Melis, PTM - Mogoro. La sera tardi dell’antivigilia di Natale del 1985, veniva ucciso, da un commando di tre malviventi incappucciati e armati di pistole, il titolare del Bevimarket mentre si apprestava a chiudere la sua rivendita di liquori, in via Dei Donoratico, a Cagliari. Sei giorni dopo veniva arrestato un giovane studente universitario, il ventiquattrenne Aldo Scardella, che [...]
Io non ho paura, racconti di un contadino abbruzzese di Carmine Forcella, Statale 11. Il Maresciallo è un uomo onesto, troppo onesto per lavorare in un’Arma che annovera troppi soggetti presi da interessi che poco hanno a che fare con la giustizia. Accusato ingiustamente di associazione mafiosa si dimette per difendersi adeguatamente così lasciando campo libero a criminali e affaristi di ogni risma. Dopo anni d’indagini, il Maresciallo è stato prosciolto da qualsiasi accusa. I suoi accusatori, invece, sono stati portati davanti la Magistratura per calunnia
Il volo del Kiwi. Costrizioni e violenze liberano sogni e ricordi di Marcello Inghilesi, Rubbettino. Nato ad Arezzo nel 1940, Marcello Inghilesi ha lavorato all’Unesco e al Bit. Ha diretto aziende pubbliche e private, è stato vicepresidente dell’Enel e presidente dell’Ice. In questo libro scrive di avventure giudiziarie di costrizione e di voli di libertà e ricordi. Presenta storie di interrogatori, di persecuzioni e di processi: assieme a ricordi di [...]
Cara Silvia. Lettere per non dimenticare di Enzo Tortora, Marsilio. Il 17 giugno 2003 saranno vent’anni esatti dall’arresto di Enzo Tortora. Presentatore tivù con 28 milioni di spettatori al tempo di “Portobello”, improvvisamente trasformato in mostro, detenuto, camorrista, poi eletto deputato europeo, Tortora è diventato, suo malgrado, il simbolo dell’ingiustizia all’italiana. Su questa vicenda è stato scritto molto, sia in termini giuridici che giornalistici. Eppure [...]
Punto a capo di Gigi Sabani, Gremese Editore. Dall’infanzia nel quartiere romano del Quarticciolo (“più che un sobborgo la mia palestra di vita») all’esordio nel mondo dello spettacolo, ai microfoni della storica “Corrida” di Corrado. Dall’altare della notorietà televisiva alla polvere delle accuse nel celebre scandalo estivo dei provini a luci rosse. Dai giorni cupi degli arresti domiciliari a quelli della rivincita, della [...]
Presunti colpevoli di Filippo Facci, Mondadori. Gabriele Cagliari, suicida a San Vittore dopo una promessa di liberazione (non mantenuta) da parte di un magistrato che, intanto, riposava in vacanza. Vito Gamberale, incarcerato in seguito all’intercettazione di una telefonata considerata a torto sospetta. Gualtiero Cornaggia, finito dietro le sbarre perché la sua farina è stata scambiata per cocaina. Kuze Radulovic, condannato per [...]
L’errore giudiziario. L’affaire Dreyfus, Zola e la stampa italiana di Massimo Sestili. Collana "I Saggi Mobydick". Il presente studio non vuole essere una ricostruzione dettagliata di tutte le fasi dell’affaire Dreyfus. Esiste già un’ampia bibliografia che peraltro abbondantemente cito e alla quale rimando per tutti gli approfondimenti del caso: la parziale ricostruzione, si arresta cronologicamente al gennaio 1898, data di pubblicazione del J’accuse. Ho cercato di evitare la pratica di [...]
L’affaire Dreyfus. Un errore giudiziario di Bernard Lazare. Editore Mobydick. Figura straordinaria questo Bernard Lazare che ancor prima di Zola si attiva in quel ruolo che fu di Voltaire e di Hugo e che sarà poi di Sartre: quello dell’uomo di cultura che agisce all’interno della società in cui vive, che prende posizione e interviene per affrontare questioni solo apparentemente estranee alla sua professione. Nato [...]
Toghe che sbagliano di Debora Bosi e Claudio Defilippi, Aliberti editore, Da Enzo Tortora a Daniele Barillà fino a Domenico Morrone, quindici anni in galera da innocente. E una causa allo Stato lunga e ingarbugliata per essere finalmente e degnamente risarcito. Ingiuste detenzioni mostruose per le quali l’Italia è il Paese più condannato in Europa, ed errori giudiziari grotteschi. Questo è un libro che narra [...]
20 anni in attesa di giustizia di Luigino Scricciolo Memori. Luigino Scricciolo (Castiglione del Lago 1945-Roma 2009) Umbro del Lago Trasimeno, nel 1968 aveva vent’anni ed iniziava la militanza politica nella nuova sinistra. Dopo aver militato nel Movimento Studentesco e nell’Unione dei comunisti italiani partecipa alla controinchiesta sulla strage alla Banca dell’Agricoltura di Milano da cui uscirà il volume “La strage di stato” (1970). Collabora alla rivista “Città Futura” e successivamente aderisce a Democrazia Proletaria che lascia nel 1979 per entrare nel Dipartimento internazionale della Uil, di cui diventa responsabile. Il 4 febbraio 1982, viene arrestato a Firenze: è accusato di terrorismo e di spionaggio. Sarà prosciolto in istruttoria da tutte le accusa, vent’anni dopo.
Storie di straordinaria ingiustizia. Arrestati, infangati e prosciolti di Carlo Giovanard, Mondadori. Il 7 febbraio 1992 a Milano venne arrestato Mario Chiesa in flagrante reato di concussione. Era il primo atto di quella tempesta giudiziaria che tra il 1992 e il 1994 ha travolto la politica italiana, abbattendosi con particolare violenza sul partito di maggioranza che per cinquant’anni aveva governato l’Italia: la Democrazia Cristiana. Battezzato “Tangentopoli” dai [...]
Un giudice solo. Una vicenda esemplare di Corrado Carnevale (a colloquio con Andrea Monda), Marsilio Editore. Il libro racconta la parabola del giudice Corrado Carnevale, che, soprattutto nella seconda parte, ha coinvolto e appassionato il Paese intero, il suo ordinamento giudiziario, la vicenda politica e mediatica.
Innocente in carcerazione preventiva di Giovanni Terzi, Edizione Ares. Il 13 ottobre 1998 Giovanni Terzi venne arrestato con l’accusa di corruzione, per fatti risalenti al 1994-1997 quand’era assessore all’Urbanistica al Comune di Bresso. Il 1° febbraio 2006, a oltre sette anni dall’arresto, la Cassazione ha definitivamente confermato l’assoluzione “perché il fatto non sussiste”. In queste pagine, scritte con immediatezza diaristica, rivivono i 75 giorni di [...]
Enzo Tortora – Per una giustizia giusta a cura di Lanfranco Palazzolo, Kaos Edizioni. «Io ormai divido la gente in due categorie molto semplici: quelli che conoscono sulla pelle l’infamia di una carcerazione [preventiva] in un regime cosiddetto democratico, protratta all’infinito, protratta per anni; e quelli che non hanno la jattura di conoscerla. E allora, se non la conoscono, dovrebbero quantomeno cercare di calarsi nei panni di chi vive [...]
L’uomo sbagliato. Il caso Barillà di Stefano Zurlo, Rai-Eri. Questo libro è il fedele resoconto, in forma narrativa, di una terribile storia vera. E la sera del 13 febbraio 1992. Un giovane imprenditore lombardo, Daniele Barillà, sale sulla sua auto, una Tipo amaranto, e si avvia all’appuntamento con la fidanzata, a Nova Milanese. Negli stessi minuti i carabinieri del Ros di Genova stanno inseguendo [...]
Innocente. Una storia vera di John Grisham Mondadori. Il libro, a differenza degli altri romanzi dello stesso autore, racconta una vicenda realmente accaduta: l’ingiusta accusa e in seguito condanna a morte per omicidio di primo grado nei confronti di Ronald Keith Williamson un aspirante e, a suo tempo, promettente giocatore di baseball originario della cittadina di Ada nell’Oklahoma.
Storie di ordinaria ingiustizia di Raffaele Genah e Valter Vecellio, Sugarco Edizioni. Clamorosi errori giudiziari, innocenti in carcere per settimane, mesi e anni, per le accuse infondate mosse da “pentiti” della malavita organizzata, pronti a denunciare chi capita, per calcolo e opportunismo; o per superficialità di chi doveva condurre le necessarie indagini.
Applausi e sputi – Le due vite di Enzo Tortora di Vittorio Pezzuto, Sperling & Kupfer. Penna caustica e corrosiva, uomo di spettacolo a tutto tondo, autore radiofonico e teatrale, padre della tv moderna. Una carriera esplosiva, costellata di successi. Una fama di innovatore geniale, conquistata a colpi di creatività e talento. Poi, la caduta, quando nel 1983 viene accusato di associazione per delinquere di stampo camorristico. È l’inizio della sua seconda vita. Si ritrova, innocente, in carcere. Potrebbe essere l’inizio della fine e invece è l’esordio di una nuova sfida, condotta con determinazione e generosità, che lo porta al Parlamento europeo per portare avanti le battaglie dei Radicali. Arriverà l’assoluzione, con formala piena. E il “caso Tortora” diventerà il simbolo della malagiustizia.
E poi alcuni titoli di Antonio Giangrande
SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE. LA CONDANNA E L’APPELLO.
QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
SARAH SCAZZI. L’INCHIESTA BIS. IL COROLLARIO DELLA VERGOGNA.
YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. MASSIMO BOSSETTI COLPEVOLE PER ANTONOMASIA.
MEREDITH KERCHER. IL DELITTO DI PERUGIA. AMANDA KNOX E RAFFAELE SOLLECITO. COLPEVOLI DI INNOCENZA.
Honor Bound: My Journey to Hell and Back with Amanda Knox di Raffaele Sollecito, Andrew Gumbel Kindle Edition. E’ uscito negli Stati Uniti il 18 settembre 2012 il libro di Raffaele Sollecito sulla vicenda della morte di Meredith Kercher per la quale ha trascorso 1.448 giorni in carcere con l’accusa di omicidio assieme all’ex fidanzata statunitense, Amanda Knox. «Honour Bound», questo il titolo del libro, ripercorre la storia dalla notte del brutale assassinio [...]
Reperto 36: un libro per conoscere la ricostruzione di un delitto e per affacciarsi sul funzionamento del sistema giudiziario italiano, scrive Allan Fontevecchia. Emma D’Aquino all’epoca dei fatti inviata speciale e ora conduttrice di punta del Tg1 della Rai coordinerà la presentazione di “Reperto 36 - anatomia giudiziaria dell’omicidio di Meredith Kercher”, un volume realizzato dai giornalisti Alvaro Fiorucci e Luca Fiorucci e portato nelle librerie da Morlacchi Editore. L’incontro è previsto alle 17 di sabato 10 ottobre 2015 nell’atrio del Teatro Morlacchi a Perugia. Con gli autori interverrà anche l’editor Claudio Brancaleoni. Con “Reperto 36” nei fascicoli dell’inchiesta sull’omicidio della studentessa inglese è indicato un coltello da cucina, presunta arma del delitto di via della Pergola 7, avvento nella notte tra l’1 e 2 novembre 2007. Una presunta arma del delitto sulla base della quale tre persone hanno assunto il ruolo di indagati. Il primo, Rudi Guede, ha avuto una condanna definitiva e ad altre due, Raffaele Sollecito e Amanda Knox, sono toccate condanne, assoluzioni, di nuovo condanne e infine assoluzioni definitive. Il libro di Alvaro Fiorucci e Luca Fiorucci è un portolano di queste sentenze. E’ lo specchio del nostro sistema giudiziario. Le prime immagini che riflette sono quelle delle prime indagini appena scoperto un delitto e il tempo impiegato per chiudere il cerchio investigativo. E delle certezze di averlo chiuso bene. Le immagini successive sono quelle dei primi giudici che danno il via agli arresti alla permanenza in carcere, alle primissime valutazioni sulle prove raccolte a carico di eventuali presunti colpevoli. Poi lo specchio di “Reperto 36” ci restituisce la bilancia inquirente che ha su un piatto le indagini scientifiche e sull’altro quelle tradizionale. I due piatti sono in equilibrio? Infine la lettura degli indizi da parte dei collegi giudicanti che se potrebbero prendere forma prenderebbe il sembiante di un grafico dove picchi sopra l’asse e picchi sotto l’asse si alternano in un significativo (significativo per avere la misura del funzionamento del sistema giudiziario italiano) diagramma sghembo. Infine l’immagine riflessa dei giudizi di legittimità che nel loro andare a fondo sui fatti ricostruiscono verità contrapposte, fino all’ultima ricostruzione definitiva della non colpevolezza. Tutto questo è ben riassunto nella quarta di copertina. “Questo non è il romanzo di un omicidio, né un’inchiesta parallela volta a portare nuova luce sui fatti e sulla loro concatenazione. Reperto 36 è il racconto di un efferato delitto, quello della giovane studentessa inglese Meredith Kercher, avvenuto a Perugia nella notte tra il 1° e il 2 novembre 2007, ricostruito attraverso le parole delle carte processuali e delle diverse, opposte, letture dei giudici che si sono alternati nei vari gradi di giudizio. Dopo il delitto, non solo le vite dei protagonisti implicati nei fatti si stravolgono, ma è l’intera città di Perugia a scontare delle colpe che non sono una sua esclusiva, ma sono conseguenza e specchio delle condizioni di un’intera società. Il travagliato iter giudiziario del «caso Meredith» – che per ben otto anni ha tenuto sospesa l’attesa di una platea mondiale virtualmente rinchiusa nelle aule di giustizia, nelle quali si è formata la verità processuale – proprio per il modo diretto e approfondito con cui gli autori scelgono di affrontarlo, offre al lettore la possibilità di aprire una riflessione sul tema della giustizia in Italia, della sua amministrazione, dei suoi tempi, della sua organizzazione; ma, ugualmente, gli porge interrogativi altrettanto dirompenti sul potere che, nell’odierna società globalmente connessa, i mass media possono avere nell’influenzare i comportamenti di tutti. Nessuno escluso”.
Sollecito: "Sì, in carcere si ricevono delle avances, ho dovuto realizzare anche questo in cella", scrive “La Nazione”. Il ragazzo definitivamente assolto per il delitto di Meredith Kercher è tra gli ospiti del nuovo programma di Nadia Toffa "OpenSpace". "Avances in carcere? Sì ci sono state. Non mi hanno certo fatto piacere ma ho dovuto realizzare anche questo in carcere". A dirlo è Raffaele Sollecito, definitivamente assolto per il delitto di Meredith Kercher. Sollecito ha parlato durante la trasmissione "OpenSpace", domenica 11 ottobre 2015 in prima serata su Italia Uno. Tra le anticipazioni appunto, quella che riguarda l'intervista al ragazzo che per lungo tempo è stato recluso in carcere. "Sì, ci sono varie vicissitudini di attenzioni, non di violenze. Ci sono degli angoli molto particolari tipo le docce piuttosto che la tromba delle scale, punti pericolosi dove non ci sono telecamere e ci sono momenti di passaggio in cui le guardie non ti seguono. Quindi, è lì che i detenuti che vogliono rivalersi di qualcosa e fare un attentato nei confronti di un altro, fanno delle violenze. Io non sono mai stato oggetto di violenze [...], parlavo di avances, attenzioni particolari ossia quando c'era qualche detenuto che aveva mancanze 'affettive' abbastanza forti, indipendentemente dalla sua sessualità, tentava approcci. Ci hanno provato? Sì, anche quando non me lo aspettavo, qualche volta è successo. Questa cosa non mi ha fatto per niente piacere, ma ho dovuto realizzare anche questo in carcere", le parole di Sollecito. Alla domanda della giornalista Nadia Toffa se abbia intenzione di chiedere il risarcimento per quello che gli è successo, Sollecito risponde: "Questa cosa è una cosa di cui si occupano i miei avvocati, quello che mi preme di più, in realtà, è portare all'attenzione di tutti quali sono gli errori e le responsabilità singole. Sarebbe giusto che le persone che hanno sbagliato si assumessero le loro responsabilità… Io non cerco vendetta, non voglio che queste persone vengano punite".
Raffaele Sollecito a OpenSpace: garantista verso Massimo Bossetti. Raffaele Sollecito, ospite, questa sera, alla prima puntata di OpenSpace, il nuovo programma di Italia 1 condotto da Nadia Toffa, ha espresso la sua opinione in merito al caso riguardante la morte di Yara Gambirasio dicendo di essere assolutamente garantista nei confronti di Massimo Bossetti, scrive “Urban Post”. Ospite, questa sera, domenica 11 Ottobre 2015, nella prima puntata di OpenSpace, il nuovo programma condotto da Nadia Toffa ed in onda su Italia 1, Raffaele Sollecito, assolto definitivamente dall’accusa di aver ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher, ha risposto sia alle domande della Iena che del pubblico parlando di quanto accaduto in carcere, ma anche dicendo il suo parere in merito al caso riguardante la morte di Yara Gambirasio e il processo a Massimo Bossetti e confermando di essere “assolutamente garantista” nei confronti dell’operaio di Mapello. Proprio in merito al caso della ginnasta di Brembate, davanti a Nadia Toffa Raffaele Sollecito ha detto: “Non riesco a esprimermi se definirlo innocente o colpevole, ma per quello che mi raccontano i media, sono estremamente flebili come argomenti. Quel Dna di cui hanno parlato, almeno ai miei occhi, leggendo solo i giornali online, non è una prova così forte”. Per Sollecito, quindi, secondo le informazioni apprese tramite internet, il Dna che ha portato Bossetti in carcere non è una prova così forte. Il giovane ha poi aggiunto: “Se i media mi tartassano ogni giorno di racconti sulla famiglia di Bossetti, che ha poco a che fare come fattualità con le responsabilità di una persona, che idea mi posso fare? Mi posso fare un’idea su com’è la sua famiglia, la sua personalità ma non ha nulla a che fare con il sospetto, con il processo o con le responsabilità di Bossetti”. Puntando il dito contro il modo con cui giornali e programmi tv hanno trattato i vari casi di cronaca, Sollecito ha poi concluso dicendo: “Anche in altri casi come Avetrana, Garlasco, parlano della vita privata di queste persone, sono comunque delle persone, non sono dei burattini o degli attori”.
"Un passo fuori dalla notte" di Raffaele Sollecito. È il 27 marzo 2015 quando, assolvendo definitivamente gli imputati «per non aver commesso il fatto», la Corte di Cassazione chiude uno dei casi più controversi della storia giudiziaria italiana: il processo contro Raffaele Sollecito e Amanda Knox per l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, avvenuto nel 2007. Sono passati otto anni. Raffaele, all’epoca, di anni ne aveva 23. Pochi giorni dopo il suo arresto si sarebbe dovuto laureare. Dopo questa sentenza, oggi Raffaele – che ha trascorso quattro anni di carcere, di cui una parte in regime di isolamento – può finalmente guardare avanti, ma soprattutto lasciare che il mondo scopra chi è veramente. Di lui infatti si è detto e letto di tutto e lo si è rapidamente trasformato in un mostro da prima pagina, giustificando nell’opinione pubblica le tesi dell’accusa che lo volevano spietato assassino. In questo libro Raffaele prende finalmente la parola. Ci racconta la sua infanzia, i suoi sogni, ma anche cosa successe davvero la sera del 1º novembre 2007 a Perugia. E infine cosa significa per un ragazzo della sua età scontare ingiustamente una lunga pena; cosa significa, una volta uscito e assolto definitivamente, incrociare lo sguardo di chi ti incontra e ti riconosce, e ogni volta domandarsi che cosa penserà di te…
Raffaele Sollecito: «Ora diventerò famoso per le mie idee», scrive Imma Vitelli su Vanity Fair”. C'è la vita e c’è il suo incubo. C’è un delitto e c’è un castigo ingiusto che allunga la sua ombra oltre la notte. Pur essendo finita, dopo quattro anni di prigione, pur essendo finita, dopo cinque gradi di giudizio e otto anni di gogna, da quando è stato assolto Raffaele Sollecito si chiede: perché? «Mi dicono: e va bene, sei libero, chi ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato, scordiamoci il passato. Io sono una persona che riesce a perdonare. Ma non dimentico». Non dimentica, dice, perché sa che la storia si ripete. «Quello che è successo a me potrebbe succedere a te, a tuo figlio». Siamo sulla terrazza di un albergo di Bisceglie, il paese in provincia di Bari in cui Raffaele Sollecito vive, a casa di suo padre. In giacca e cravatta, occhiali da sole e codino biondo, è un incrocio che non mi aspetto, tra Tom Cruise e Harry Potter. Ha 31 anni ma ne dimostra meno. Siede all’ombra, le mani unite, le gambe incrociate, il piede che vibra. Ha appena pubblicato un libro, edito dalla Longanesi: Un passo fuori dalla notte - Tutto quello che non avete mai immaginato di me. È la ricostruzione del suo calvario ed è un j’accuse devastante nei confronti di poliziotti sciatti e giudici pigri che non leggono le carte, e giornalisti che immolano vite sull’altare del gossip. Delle 40 mila ore di telefonate intercettate ai membri della sua famiglia e finite puntualmente sui giornali, nessuna è stata utilizzata in tribunale.
Nel libro lei critica il sensazionalismo dei media.
«Hanno stabilito che ero colpevole perché mi piace il metal di Marilyn Manson e sono un appassionato di fumetti manga e ogni tanto mi guardo un porno. C’è un problema di base. Se la gente che guarda la Tv non è interessata ai fatti ma alle chiacchiere, alla fine il risultato è una distorsione mostruosa della realtà. Ricordo le paginate sulla maglietta indossata da Amanda un giorno in tribunale. Aveva la scritta All You Need Is Love, una frase di una canzone dei Beatles. I giornali hanno parlato solo di questa stupidaggine e scritto niente sull’udienza. Amanda se la poteva risparmiare, ma la stampa ci ha marciato e questo mi indigna. C’è in ballo la vita di una persona, non stai raccontando la vacanza di un calciatore alle Bahamas».
Rimpiange di aver conosciuto Amanda?
«Mah, direi di no. Sono domande che uno si pone. In fondo Amanda ha fatto errori abbastanza stupidi, ma non è la principale causa di tutto quello che ho vissuto. Se i custodi della giustizia fossero stati più professionali, la storia sarebbe stata molto diversa».
Ancora oggi, dopo la definitiva assoluzione, c’è chi ha dubbi, c’è chi dice che, dopotutto, su un coltello e sul gancetto del reggiseno di Meredith c’era il suo Dna.
«La polizia scientifica ha completamente disatteso qualsiasi metodologia scientifica sulla raccolta, la repertazione e l’analisi del Dna. È stato tutto molto approssimativo e ha portato a risultati contraddittori che non hanno attinenza alla realtà. Nessuna. Quel Dna che hanno sbandierato come prova a mio carico valeva meno di zero. Lo hanno tirato fuori in modo impossibile da considerare scientifico. Questo lo dicono i massimi esperti di genetica in Italia e negli Stati Uniti, non lo dico io. E poi non ci hanno mai fornito i dati grezzi. Il che è pazzesco».
Lei definisce i quattro anni in carcere come una eterna passeggiata all’inferno.
«Il carcere è terribile, ti trattano da vegetale e alla fine lo diventi. Vivi per 22 ore al giorno in celle due metri per tre in compagnia degli scarafaggi. È un mondo assurdo e disumano. Non serve a nulla».
È un mondo surreale.
«Totalmente. Per esempio, devi farti la doccia con le mutande per non urtare la sensibilità dei detenuti musulmani. Bisogna stare attenti. Se passi molto tempo con la polizia penitenziaria diventi un infame e rischi la vita. Vige la legge del taglione. Fuori, nel mondo dei liberi, il peggiore è il pedofilo, in carcere è l’infame. È un altro mondo. Un’altra regola è quella di non offendere. Se offendi, l’altro si vendica da solo o con i suoi amici».
E dopo tutto questo come si torna liberi?
«Sto piano piano uscendo da questa bolgia terrificante. Sto piano piano ritornando a essere me stesso. Sono un ingegnere informatico, in carcere mi sono laureato. Ho creato una società. Ho disegnato un portale che è unico nel panorama italiano. È un mio sogno che si sta avverando».
Come si chiama la società?
«Memories».
A pranzo, al ristorante Happy Days, chiedo a Raffaele una cosa che mi frulla in testa da quando mi ha detto che gli piacciono i motori e che spera nel giro di cinque anni di potersi permettere una Aston Martin.
L’oblio la spaventa? Rischia la sindrome di Stoccolma. È possibile che le manchino i riflettori, l’attenzione della stampa.
«Può essere, sì. Ma sono morto e rinato tante volte, in questi anni. Ho dovuto adattarmi così spesso a realtà insopportabili che mi adatterò ancora anche adesso. Anzi. Le dico un’altra cosa. Diventerò famoso per le mie idee, per il mio lavoro, questa volta».
Raffaele Sollecito a Otto e mezzo, monta la polemica. Capelli di nuovo lunghi e avvolti dietro la nuca come un samurai, poi giacca, cravatta e volto disteso. Si è presentato così Raffaele Sollecito negli studi televisivi di La7 per la puntata di “Otto e mezzo” del 6 ottobre 2015. Un’intervista a cuore aperto, quella della giornalista Lilli Gruber a Raffaele Sollecito, nella puntata della trasmissione “Otto e mezzo” in onda martedì 6 ottobre su La 7. Sollecito, in studio insieme allo psicologo Paolo Crepet, ha raccontato la sua esperienza confrontandosi anche con l’ex magistrato Gherardo Colombo.
“Un errore che non rifarei? – dichiara – Fidarmi delle forze dell’ordine”. "Io e Amanda siamo stati gli unici a non avere un avvocato sin dai primi giorni del processo". ''Qualche volta ci siamo sentiti dopo l'ultima sentenza, comunque abbiamo rapporti saltuari - ha spiegato Sollecito - E' stata veramente una parentesi della vita che si è trasformata in un incubo". «Ci siamo sentiti dopo l’ultima sentenza», ma va compreso che «Amanda l’ho conosciuta solo 5 giorni prima del delitto, poi l’incubo». Mentre sulla sua relazione con la fidanzata attuale: «Preferisco tenere lontano dai media la mia vita privata». Alla domanda della conduttrice Lilly Gruber: «Raffaele, lei giurerebbe sull’innocenza di Amanda», lui ha risposto: «Io non giurerei per nessun altro all’infuori di me. Giurerei per i miei genitori, ma non per altri. Ma non ho dubbi sull’innocenza di Amanda».
Web indignato, criticata la scelta di invitare Raffaele Sollecito a Otto e mezzo. “In pochi Paesi del mondo - ha continuato Raffaele Sollecito a Otto e mezzo - posso muovermi senza essere riconosciuto. Ho scritto il libro per dire la mia verità”. Su Twitter, gli utenti hanno unanimamente condannato la sua presenza negli studi della trasmissione di La7: “La vittimizzazione di #Sollecito in tv la trovo davvero una cosa di cattivo gusto. #ottoemezzo”, ha scritto un utente, “con l'Italia che entra in guerra e la Costituzione violata, invitare #sollecito è un insulto. #vergogna” ha fatto notare un altro e ci sono commenti anche più pesanti nei confronti dell’ingegnere pugliese.
Raffaele Sollecito si racconta nel libro "Un passo fuori dalla notte", scrive “Libero Quotidiano”. Da presunto colpevole dell'omicidio di Meredith Kercher a scrittore. Raffaele Sollecito negli ultimi mesi è cambiato molto. Lo scorso aprile tutte le accuse contro di lui, e contro la sua presunta complice Amanda Knox, sono cadute e Sollecito ha deciso di raccontarsi in un libro. Si chiama "Un passo fuori dalla notte" ed è nelle librerie dal 6 ottobre. In 240 pagine Raffaele parla della sua infanzia, delle sue esperienze e anche di quello che successe la tragica sera dell'1 novembre 2007, quella in cui Meredith morì. In un passaggio del libro pubblicato in anteprima, si legge il racconto della mattina dopo la notte dell'omicidio. "Io e Amanda avevamo passato la notte insieme, a casa mia, e alla mattina lei - che si svegliava sempre molto presto - mi aveva annunciato che sarebbe andata a farsi la doccia nel suo appartamento: odiava la tendina della mia doccia e il modo in cui le si appiccicava addosso. Tornando, mi avrebbe anche portato uno straccio, per tentare di rimediare al disastro nella mia cucina: lo scarico del lavello, a causa di un intervento fatto con incuria da un idraulico che avevo chiamato appena la settimana prima per aggiustare il rubinetto, perdeva abbondantemente", scrive Sollecito. Amanda era la coinquilina di Meredith e viveva in una villetta di via della Pergola a Perugia, insieme ad altre due studentesse laureande in legge, Filomena Romanelli e Laura Mezzetti. Ma quando Amanda entrò in casa dopo la doccia, Sollecito notò subito qualcosa di strano in lei e le chiese cosa ci fosse che la preoccupava. "Lei scosse la testa, ma alla fine si decise a raccontarmi cosa le era successo. La porta principale della villetta era aperta. All'inizio lei aveva pensato che una delle sue coinquiline si fosse allontanata per andare a buttare la spazzatura e non ci aveva fatto particolarmente caso. Ma poi, dopo essersi fatta la doccia, aveva notato che quello non era l'unico dettaglio fuori dal normale. Nel bagnetto che condivideva con Meredith c' erano alcune piccole gocce di sangue: sangue mestruale? si era chiesta. Non sembrava nulla di grave, ma era comunque strano che non fossero state pulite. Poi si era accorta che la porta della stanza della sua coinquilina inglese era chiusa a chiave, e che nessuno rispondeva dall'interno. In più, nell'altro bagno della casa, quello di Filomena e Laura, dove era entrata per prendere il fon, aveva visto che nel water c' erano delle feci e della carta igienica. Un fatto molto insolito, dal momento che le due ragazze erano sempre molto attente alla pulizia domestica", si legge ancora nel libro. Quella mattina Sollecito voleva portare la fidanzata a fare un giro a Gubbio, ma il racconto di Amanda lo aveva turbato. "Così quando mi chiese di accompagnarla per vedere meglio cos'era successo non mi tirai indietro. Guardai un attimo la mia posta elettronica e mi diressi con lei a casa sua. Lungo il percorso la invitai a chiamare Meredith al telefono e anche le altre due inquiline. Mentre Meredith non rispondeva su entrambi i suoi cellulari, le altre due dissero che avrebbero fatto in modo di raggiungerci appena possibile. Aprimmo la porta, che lei aveva richiuso a chiave, ed entrammo". Il resto della storia, raccontata dal punto di vista di Sollecito, è scritta tra le pagine di "Un passo fuori dalla notte".
Sollecito: giustizia è fatta. C'è una lobby di forcaioli. "Giustizia è fatta nel modo più completo. Si è arrivati all’obiettivo di determinare la mia estraneità ad innocenza a questo reato, ma il problema è che sono passati otto anni per definire quello che era chiaro fin dall’inizio". Lo ha detto Raffaele Sollecito, assolto definitivamente dalla cassazione per l’omicidio di Meredith Kercher, ospite della trasmissione Otto e Mezzo su La7 del 8 ottobre 2015. Sollecito si è scagliato contro "gli inciampi del sistema giudiziario". E i media che "hanno dato man forte agli errori". "Giustizia è fatta nel modo più completo. Si è arrivati all'obiettivo di determinare la mia estraneità ad innocenza a questo reato, - ha detto - ma il problema è che ci sono voluti otto anni per definire quello che era nelle carte sin dai primi mesi". "L'opinione pubblica non è così garantista, è influenzata dai giornali che a loro volta ne vengono influenzati: c'è una lobby di forcaioli". Sollecito si è sfogato dicendo che ha dovuto affrontare "una battaglia giudiziaria e mediatica. Sono stato in silenzio nel dolore cercando di risparmiare energie per la battaglia giudiziaria ma ora ho sentito il dovere di parlare", ha spiegato il giovane che ha raccontato la sua storia nel libro 'Un passo fuori dalla notte', in uscita per Longanesi editore. Sollecito ha raccontato il dolore nel vedere che sui media "non si parlava delle indagini, ma della maglietta, del taglio di capelli, degli sguardi con Amanda". "In pochi Paesi del mondo - ha detto Sollecito - posso muovermi senza essere riconosciuto. Ho scritto il libro per dire la mia verità". Quanto a Meredith, Sollecito ha detto che "ha avuto giustizia perché secondo me il responsabile è in carcere, è Rudy Guede". "Nella stanza - ha detto - non esistono tracce che non siano di Guede e nelle indagini ci sono svariati dettagli assolutamente sorvolati, ma d'altra parte ci sono anche delle certezze". La sentenza della Cassazione sull'ivoriano, ha ricordato il giovane, "non parla di altre persone, dice che eventualmente si dovrebbe vedere se ci sono correi. Il suo è stato un processo a parte. A lui i giudici hanno concesso il rito abbreviato, a me e Amanda no".
"Un passo fuori dalla notte". Pubblichiamo uno stralcio. "FU MIA SORELLA la prima persona a cui telefonai la mattina del 2 novembre 2007, quando mi accorsi che nella villetta di via della Pergola era successo qualcosa di strano. Era un’abitazione appena fuori le mura cittadine, che Amanda Knox – la ragazza americana che avevo cominciato a frequentare pochi giorni prima – condivideva con due studentesse italiane di legge, Filomena Romanelli e Laura Mezzetti, e con l’inglese Meredith Kercher.
Io e Amanda avevamo passato la notte insieme, a casa mia, e alla mattina lei – che si svegliava sempre molto presto – mi aveva annunciato che sarebbe andata a farsi la doccia nel suo appartamento: odiava la tendina della mia doccia e il modo in cui le si appiccicava addosso. Tornando, mi avrebbe anche portato uno straccio, per tentare di rimediare al disastro nella mia cucina: lo scarico del lavello, a causa di un intervento fatto con incuria da un idraulico che avevo chiamato appena la settimana prima per aggiustare il rubinetto, perdeva abbondantemente.
QUANDO rientrò nel mio monolocale – che distava pochi minuti a piedi da via della Pergola – io stavo portando in tavola la colazione. Mentre versavo il caffè nelle tazze, lei si mise a pulire il pavimento. Notai subito che era stranamente agitata. «Qualcosa non va?» le chiesi. Lei scosse la testa, ma alla fine si decise a raccontarmi cosa le era successo.
La porta principale della villetta era aperta. All’inizio lei aveva pensato che una delle sue coinquiline si fosse allontanata per andare a buttare la spazzatura e non ci aveva fatto particolarmente caso. Ma poi, dopo essersi fatta la doccia, aveva notato che quello non era l’unico dettaglio fuori dal normale. Nel bagnetto che condivideva con Meredith c’erano alcune piccole gocce di sangue: sangue mestruale? si era chiesta. Non sembrava nulla di grave, ma era comunque strano che non fossero state pulite.
Poi si era accorta che la porta della stanza della sua coinquilina inglese era chiusa a chiave, e che nessuno rispondeva dall’interno. In più, nell’altro bagno della casa, quello di Filomena e Laura, dove era entrata per prendere il fon, aveva visto che nel water c’erano delle feci e della carta igienica. Un fatto molto insolito, dal momento che le due ragazze erano sempre molto attente alla pulizia domestica.
Quella mattina avevo in programma di portare Amanda a fare una gita a Gubbio, e per un momento pensai di fregarmene di tutto, di prendere la macchina e partire. Ci avremmo pensato al rientro.
MA IL RACCONTO di Amanda mi aveva messo addosso una certa agitazione, così quando mi chiese di accompagnarla per vedere meglio cos’era successo non mi tirai indietro. Guardai un attimo la mia posta elettronica e mi diressi con lei a casa sua. Lungo il percorso la invitai a chiamare Meredith al telefono e anche le altre due inquiline. Mentre Meredith non rispondeva su entrambi i suoi cellulari, le altre due dissero che avrebbero fatto in modo di raggiungerci appena possibile. Aprimmo la porta, che lei aveva richiuso a chiave, ed entrammo".
LA METASTASI DELLA GIUSTIZIA. IL PROCESSO INDIZIARIO. IL PROCESSO DEL NULLA. UOMO INDIZIATO: UOMO CONDANNATO.
Il processo indiziario genera mostri, scrive Gennaro Francione. La Dichiarazione Universale dei Diritto dell'Uomo andrebbe integrata, sancendo la necessità di bandire universalmente e costituzionalmente da tutti gli ordinamenti giuridici del mondo il processo indiziario come decisivo ai fini del verdetto. Verrebbero meno automaticamente in Italia processi come quelli di Sofri, Marta Russo, Cogne, via Poma, Scazzi, Melania Rea e, nell'America di Amanda Knox, dopo i casi-scandalo di Bernabei, Larry Fuller, Michael Blair, verrebbe messo fuori Chico Forti, da oltre 10 anni in galera e condannato all'ergastolo in via altamente indiziaria per omicidio. Il processo indiziario rovina la giustizia fomentando nel popolo il convincimento che l'indiziato di un omicidio sia senz'altro il colpevole. Ciò è acuito dai processi in tv che alimentano nella gente il gusto disumano del reality giallo, in cui sarebbe oltremodo deludente lasciare un delitto senza colpevole. "Ormai si è formato il convincimento, con le trasmissioni che ricostruiscono le scene del crimine, che tutti, senza conoscere le carte, possano parlare dei processi. Eravamo un popolo di allenatori di calcio, stiamo diventando tutti giudici". Così ha affermato Claudio Pratillo Hellmann, il presidente della Corte d'Assise d'Appello, all'indomani della sentenza che ha mandato assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito (art. di Alessandro Capponi, Il giudice di Perugia: «Assolti, ma forse sono colpevoli». I danni del processo indiziario non sono solo a valle con sentenze giocate su logiche astratte e non scientifiche ma anche a monte, fondando l'istituto della custodia cautelare, decisamente anticostituzionale perché compromette la libertà della persona, dovendo invece scattare a prove certe e, comunque, solo a condanna definitiva. L'Inquisizione, ben conscia che senza confessione non si poteva condannare un indiziato, cercava di estorcerla con la tortura fisica. Oggi, dopo i lumi di Beccaria, in molte parti del pianeta si ricorre ancora a una forma assai sofisticata di tortura psicofisica: la carcerazione preventiva anche annuale su base indiziaria. La moderna e diffusa procedura di restrizione per la tutela della collettività, formalmente ineccepibile ex lege ma nella sostanza medioevale, è la misura cautelare imposta su base indiziaria e non su prove forti, nella presupposizione in hasard fundata che l'indiziato sia sicuramente colpevole e nella speranza sottaciuta che in cattività sia spinto a confessare. Ma se uno è innocente cosa deve mai confessare? Il sistema globale (giudici-media pro gioco indiziario) è implicitamente condannato dall'esito della sentenza di Perugia. Viene individuato un presunto colpevole, Tizio, dato in pasto al popolo dalle tv sacrificali, le a-tv-zeche, e con finte discussioni sull'argomento si alimenta un solo risultato. Il presunto colpevole è…sicuramente colpevole! Il guaio è che ciò potrebbe influenzare inconsciamente i giudici, i quali dovrebbero avere grande coraggio per affermare, dopo mesi di media, processi, carcerazioni preventive: "Signori, abbiamo sbagliato tutti. Tizio è innocente!". Quanto meno nel senso che non ci sono prove sicure che sia colpevole. Il coraggio in tal senso i giudici di Perugia l'hanno avuto, pronti a ricevere gl'insulti della gente fuori che gridava istigata dai media: "Al rogo! Al rogo!". Ma chi ripagherà Raffaele e Amanda dei 4 anni di carcerazione preventiva subita per poi essere assolti? Secondo i dati riportati dall'esperto Marco Pannella in un'intervista: "In Italia il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio, parliamo, dunque, di 30 mila persone circa. Di questi, affidandosi alle statistiche, il 50% verrà proclamato innocente. Ciò si traduce in 15 mila persone rinchiuse nelle carceri, in attesa di un giudizio che li scagionerà dalle accuse dopo 6-7 anni". Aggiunge quanto al caso di Perugia: "Amanda e Raffaele - e sono felicissimo per loro - tutto sommato sono stati fortunati. In tantissimi casi, troppi, le cose vanno decisamente peggio perché ci sono migliaia di persone nelle loro condizioni, rinchiusi nei penitenziari per reati mai commessi. Il sistema indiziario italiano contrasta, soprattutto per le conseguenze intermedie (carcerazione su base indiziaria), con la presunzione di non colpevolezza (art. 27 Cost.) dell'imputato e col principio della libertà personale inviolabile (art. 13 Cost.). Contrasta di fondo con l'esigenza di certezza del diritto e col principio secondo cui la condanna deve avvenire "al di là di ogni ragionevole dubbio", principio positivizzato nell'art. 533 del codice di procedura, modificato dall'art. 5 della legge n. 46 del 2006. Il processo indiziario per sua natura crea sempre un ragionevole dubbio. Ergo l'intero meccanismo del processo indiziario è incostituzionale e lo è la carcerazione preventiva su base indiziaria. Bisogna, quindi, eliminare questo pericolosissimo e medioevale istituto che, pur di assicurare colpevoli alla giustizia, da procedura estrema ed eccezionale del nostro sistema diventa regola, al posto del legittimo e primario processo per prove, finendo col mettere dentro tanti innocenti e fondando la bellezza del 90 % delle nostre cause penali! I processi indiziari possono e devono essere fatti ma, se gl'indizi non si trasformano in prove fortissime, non si va a giudizio! Soprattutto le prove fortissime devono fondare la restrizione cautelare ad evitare che si rimanga dentro per mesi se non per anni per poi venire assolti. Gl'indiziati gravi vanno, quindi, al più controllati direttamente sul territorio. Con tali rimedi si elimineranno moltissimi processi e di fatto si sfoltiranno le carceri, università e rifugio per masse di microcriminali recuperabili e a tal punto, secondo i dati di Pannella, luoghi per stage di devianza per tanti innocenti. La nostra speranza è una nuova coscienza prima di tutto nei giudici e poi nel legislatore che il meccanismo è viziato e che si fondino sentenze di condanna solo su prove sicure, evitando nella fase preliminare il meccanismo perverso stigmatizzato implicitamente dall'esito della sentenza di Perugia, auspicando che la gente venga messa dentro solo se pericolosa e con prove certe. Il 13 giugno 2000 emisi l'ordinanza con cui, come giudice monocratico del Tribunale di Roma, sollevai questione di incostituzionalità del sistema indiziario alla luce soprattutto della nuova formulazione del giusto processo (art. 111 della Costituzione). La Corte Costituzionale respinse in via brevissima la questione ma la battaglia continua. Noi ci auguriamo che, in attesa di una mossa del legislatore (ma dubitiamo fortemente di tale impeto), un avvocato o un giudice coraggioso risollevi la questione alla luce del ragionevole dubbio che, secondo noi, può invocarsi in ogni processo fondato su indizi e non su prove certe. Gennaro Francione Magistrato - Scrittore.
L'ERRORE DEL GIUDICE - CONTRO IL PROCESSO INDIZIARIO (Ianua di Roma): un pamphlet di Gennaro Francione contro gl'indizi a favore del processo scientifico, l'unico in grado di attuare una giustizia realmente uguale per tutti e probabilisticamente più vera, con interventi di Enzo Albano, Giuseppe Dante, Ferdinando Imposimato e Angelo Macrì.
Il processo indiziario nel nostro ordinamento giuridico, scrive Giuseppe Centonze. Qualcuno sostiene che il processo indiziario è il processo del nulla, un processo senza prove, che non si dovrebbe addirittura nemmeno celebrare e che comunque non potrebbe portare ad una sentenza di condanna. Se a dichiarare ciò sono gli addetti ai lavori, come gli avvocati, occorre dire che il loro punto di vista è chiaramente pretestuoso. Quando invece tale pensiero viene dai non addetti ai lavori, come i tuttologi che affollano le varie trasmissioni televisive, allora dipende in buona parte dalla loro ignoranza in materia e non solo da questa … Vediamo cosa prescrive il nostro ordinamento giuridico: Ai sensi dell’art.192 c.p.p. (Valutazione della prova) 1. Il giudice valuta la prova dando conto nella motivazione (1253, 6061 lett. e) dei risultati acquisiti e dei criteri adottati. 2. L’esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti (2729 c.c.). 3. Le dichiarazioni rese dal coimputato del medesimo reato o da persona imputata in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 sono valutate unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità (210). 4. La disposizione del comma 3 si applica anche alle dichiarazioni rese da persona imputata di un reato collegato a quello per cui si procede, nel caso previsto dall’art. 371 comma 2 lett. b). Uno dei maggiori contributi volti a chiarire la piena legittimità del processo indiziario ci viene offerto dalla raccolta “La prova penale”, CSM, relatore Renato Gavagnin ex Procuratore Capo di Venezia. La prova, è bene ricordarlo, si forma sempre in dibattimento. Rispetto alla prova diretta, cioè direttamente rappresentativa del fatto da provare, gli indizi devono trovare riscontro in elementi oggettivi. In assenza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, nonché di riscontro oggettivo, l’indizio viene ad assumere una probatio minor. La questione di fondo è che il libero convincimento del giudice non debba e non possa basarsi su congetture, sospetti, supposizioni, su elementi soggettivi che non trovino riscontro in elementi oggettivi. Qualora il riscontro invece c’è, la probatio non è diversa dalla prova diretta. Andiamo a cercare l’etimologia del termine. Nel diritto romano l’indizio, inteso in un’accezione di chiara gravità, veniva definito “indicium” e valeva propriamente per “denunzia”, mentre quella www.faronotizie.it 2 che è la moderna accezione di indizio, che non dovesse avere il requisito della gravità, si rendeva con le voci “argomentum” o “signum” (BELLAVISTA). Il NICOLINI rifacendosi ad un passo oraziano (indiciis monstrare recenti bus abdita rerum) ci dice che: “Mostrare da segni recentemente osservati il segreto nascosto delle cose, è come svelarli, dirli. E da dico discenderebbero indico, index, indicium”. Dice il GAVAGNIN: “In un processo nel quale la prova si acquisisce e si valorizza ci devono essere gli elementi di certezza che la valutazione del thema decidendum richiede. L’indizio, trattandosi di prova indiretta, logica o critica. il fatto dal quale essa trae origine deve essere ontologicamente certo, deve essere noto. La certezza deve essere riferita all’indizio come fonte di prova. Non consegue automaticamente da una semplice constatazione dell’esistenza della fonte ma comporta una verifica della medesima che nel caso della testimonianza sarà data dall’accertata attendibilità del testimone, nel caso del documento dall’accertata sua autenticità, nel caso delle tracce dall’accertata loro individuazione di res appartenenti a una determinata specie, o di segni che univocamente indicano la causa che li ha prodotti”. Secondo il GREVI “Quando si accerta la caratterizzazione degli indizi, quali gravi, precisi e concordanti, entrati nella sfera cognitiva del giudice, gli indizi assumono rilevanza di prova idonei ad integrare la piattaforma di convincimento da cui può essere desunta l’esistenza di un fatto”. Come abbiamo visto gli indizi per assurgere a fonti di prova o meglio a prova logica compiuta devono essere gravi, precisi e concordanti. Per gravità s’intende che la sua capacità dimostrativa rapportata al fatto ignoto deve essere consistente e resistente alle obiezioni che potrebbero indebolirla. Da qui ne consegue che l’indizio deve essere necessariamente certo; la precisione è un elemento complementare al primo. L’indizio deve essere un fatto dove non sono possibili diverse interpretazioni che renderebbero equivoco il suo significato; per quanto concerne la concordanza, chiaramente complementare agli altri due, La Cassazione ha stabilito che relativamente agli indizi questi devono avere una previa valutazione di ciascuno singolarmente. La pluralità dei fatti esaminati singolarmente deve poi avere la forza dimostrativa idonea a pervenire al thema probandum. In definitiva secondo il GAVAGNIN: “La prova indiziaria di cui all’art. 192, 2° comma c.p.p. è un elemento di prova che sul piano qualitativo ha una valenza nella formazione del libero convincimento del giudice pari a quella riconosciuta alla c.d. www.faronotizie.it 3 prova diretta, mentre sul piano quantitativo ha una rilevanza maggiore nell’economia complessiva del processo”. In Italia, una buona parte dei processi celebrati sono indiziari. A distanza di anni si discute ancora se una sentenza passata in giudicato ha veramente ricostruito almeno la verità processuale. Il dubbio tra le parti coinvolte oltre che nell’opinione pubblica, che spesso non conosce neanche gli atti processuali, che il giudizio sia stato sbagliato, tanto di condanna, quanto di assoluzione, in alcuni casi resta. Le sentenze però si accettano sempre. Il libero convincimento del giudice, che deve esprimersi oltre ogni ragionevole dubbio, salvo dimostrare che è viziato da palesi violazioni di legge o da intenzionali omissioni di valutazioni pro o contro l’imputato, deve essere salvaguardato e va accettato nella sua manifestazione oggettiva.
Giustizia: nel nostro sistema giudiziario c'è una malattia... il processo indiziario, scrive Cesare Goretti su "Il Garantista". È vero, la magistratura continua nella sua supplenza: perché ha un potere sconosciuto in altri Paesi. I supremi giudici hanno confermato che in Italia non è reato essere "utilizzatore" dei servizi di prostituzione: c'era bisogno che lo ricordasse la Cassazione, visto che lo asserisce la legge? E subito gli antagonisti politici di un leader politico, e i sostenitori di quel leader politico, si sono affrontati impugnando ognuno a suo modo la spada della Giustizia: da cambiare secondo alcuni, da difendere secondo altri. Mi sembra però che poco si sia riflettuto sul percorso che sono obbligati a compiere imputati e ricorrenti, magistrati e avvocati, a causa della concezione e dell'impalcatura del diritto vigenti in Italia. Nel nostro Paese la Giustizia diviene protagonista prima di tutto per il ritardo con cui la Politica regola i problemi, lasciando così spazio alla cosiddetta "supplenza" della Magistratura. Cos'altro infatti hanno significato Mani pulite, il processo Andreotti, e quello Berlusconi, se non la fotografia dell'impasse della Politica? Nel primo caso la classe degli amministratori pubblici soffocava l'imprenditoria, mentre il blocco dell'alternanza tra maggioranza e opposizione ingessava la Democrazia. Nel secondo caso l'incapacità del governo post democristiano impediva di procedere a sanare il Paese. Nel terzo caso la miopia (o l'incapacità) dei diversi leader politici e dell'estabilishment ha impedito di scegliere i modi e i contenuti necessari a rinnovare l'Italia. In tutti questi casi la magistratura è stata chiamata a intervenire, e malissimo ha fatto a rispondere, invece di mettere davanti alle loro responsabilità classe dirigente e elettori, E, ovviamente, la sua azione è risultata o inefficace o dannosa, E stato Francesco Saverio Borrelli ad aver dichiarato che "dopo 10 anni da Tangentopoli la corruzione non è diminuita ma cresciuta". Molti dicono che, assoluzione di Berlusconi o meno, il problema del centrodestra oggi è la sua dirigenza. Ma quello che occorre chiedersi è grazie a quali strumenti, e in che modo, il sistema giudiziario arriva a fare quello che ha fatto in Italia, Solo partendo da qui si può capire cosa bisogna cambiare per permettere alla Giustizia dì essere giusta. Occorre avere meno leggi e più chiare? Certamente, basti pensare che la Corte costituzionale con due sentenze del 1981 e del 1982 ha stabilito che in Italia l'ignoranza della legge civile e penale è una scusante, per l'immensità e la contraddittorietà della legislazione. Occorre avere più cancellieri per sveltire i processi? Certamente, tanto quanto snellire le procedure dibattimentali, pur senza toccare l'Appello, visto l'enorme mole delle riforme delle sentenze in secondo grado e in Cassazione. Ma tutte queste ovvietà, e le molte altre che si possono aggiungere, sono inutili senza capire che ci sono due cancri che divorano ogni riforma possibile dell'Ordinamento giudiziario e della procedura e dei codici penale e civile: la formazione della prova, e il principio del libero convincimento del Giudice. Lasciamo perdere Berlusconi, e parliamo di Franzoni, di Scattane e Ferrara, dell'omicidio di Garlasco... È sotto gli occhi di tutti: processi fatti senza arma del delitto, senza movente, basati su testimoni ricattabili: processi cosiddetti indiziari. Ma cos'è l'indizio per la giurisdizione italiana? Non sarà l'alibi che sì usa perché non si è trovata la prova? Io mi domando chi può immaginare che esista una nonna capace di lasciare per anni (anni in attesa dell'Appello e della Cassazione) il nipote nelle mani di una donna giudicata pazza e assassina, e che esista un marito capace di fare con questa pazza criminale un altro figlio, dopo che è stata condannata per aver ucciso il secondogenito. Il cui fratellino maggiore non ha alcuna paura di stare con la mamma-mostro. Una famiglia di matti? Oppure questo doveva essere un indizio di innocenza da valutare (che non è stato minimamente valutato), pari a quell'unico di colpevolezza (presenza sul luogo del delitto). che è stato ritenuto decisivo? Domande forse oziose rispetto al vero problema: parliamo di indizi, perché quasi mai gli investigatori sono capaci di portare prove certe in giudizio. A ciò si aggiunga che praticamente non ci sono limiti a ciò che il Procuratore e il Giudice possono ritenere prova, per rispetto appunto del principio del libero convincimento del Giudice. Un'accoppiata micidiale, che si presta a ampie strumentalizzazioni anche perché nessuno ha mai spiegato cosa c'entra il libero convincimento del Giudice con le interessate convinzioni del Procuratore. Il quale, e qui veniamo al terzo punto, ha a disposizione le stesse discrezionalità del Giudice nel trasformare un indizio in prova. Non accade in Francia, né in Germania, né in Spagna. Ed è impossibile che accada nei paesi in cui il diritto è basato sui precedenti giurisdizionali (Usa e Inghilterra). Dove procuratori e giudici sono sottoposti al vaglio degli elettori e sottomessi alle giurie. E nessun Marmo o Bocassini, che qui invece fanno carriera, verrebbe mai riconfermato alle elezioni successive. Quali sono allora le vere riforme urgenti di cui ha bisogno la Giustizia in Italia? Addestrare una polizia capace di raccogliere prove; riformare tutta la normativa sulla prova anche nel civile, cancellando il principio del libero convincimento del giudice per il Procuratore; separare le carriere. Senza queste riforme, ogni altra temo sarà ininfluente.
E' uscito il libro "TEMI DESNUDA" (VADEMECUM PER CREARE UNA GIUSTIZIA GIUSTA), scritto a più mani da Gennaro Francione, Ferdinando Imposimato e Paolo Franceschetti, con interventi in pre e postfazione di Saverio Fortunato e Antonietta Montano. Casa Editrice Herald di Roma, collana “Settimo Potere”. La Temi desnuda come Giustizia denudata, riecheggiante la Maya Desnuda del Goya. Temi o Temide è la dea greca, simbolo della giustizia, spesso rappresentata bendata come la Dea Fortuna. Talora la benda ricopre occhi da cui escono rivoli di sangue perché forze pseudodemocratiche l’hanno accecata e le impediscono il giusto dosaggio della bilancia. In questo saggio a più mani, Gennaro Francione (anche curatore), Ferdinando Imposimato e Paolo Franceschetti, con interventi in pre e postfazione di Saverio Fortunato e Antonietta Monano, raccontano il fallimento di Temi nelle democrazie occidentali dove spesso la Giustizia è diventata un simulacro, una prosperosa babilonide, con in mano la mazza puntuta e ricoperta di metalli rugginosi, asservita, nell’applicazione pedissequa della legge, ai poteri forti. Quali i rimedi per una nuova giustizia giusta? Lotta al processo indiziario, giudice di quartiere, nomofilachia nel favor rei, verdetti innovativi pro deboli contro i forti, separazione delle carriere e, infine, una gigantesca rotazione dei giudici: questi i rimedi per evitare il formarsi e rigenerarsi perenne della Casta costituente il Terzo Potere. Questa la via per una giustizia realmente democratica che renda concreti i principi di libertà ed uguaglianza, in nome di una fraternité gettata come contrappeso liquido sulla bilancia del Tribunale degli Onesti. In questo periodo alcuni eclatanti casi giudiziari (Marta Russo, Meredith Kercher, Melania Rea, Elena Ceste, Loris Stival, Yara Gambirasio, Sara Scazzi, Chiara Poggi etc.) hanno portato alla ribalta degl'indiziati che continuano, pur arrestati, a proclamare la loro innocenza. La mancanza di prove certe e il fondarsi dei processi su elementi puramente indiziari hanno generato un pullulare in rete e in Face Book di gruppi contrapposti di innocentisti e colpevolisti. Un vero e proprio cult dove tutti diventano giudici, criminologi, esperti, alimentato dai media cartacei e soprattutto televisivi che dedicano, questi ultimi, il 70 % della loro programmazione alla materia noir.La soluzione è la messa fuori legge del processo indiziario che deve servire al più per la ricerca di prove fortissime e incrociate, le quali solo fondano un processo giusto per essere certi di mettere dentro dei sicuri colpevoli e non degl'innocenti.
Contro il processo indiziario. Continua l’azione del Movimento per il Neorinascimento della Giustizia, scrive "Il Parlamentare". "Uomo indiziato, uomo condannato". E' nato un vasto movimento d'opinione contro il processo indiziario e contro la custodia cautelare su base indiziaria. Il Giudice Gennaro Francione ne ha fatto una vera e propria missione a tutela dei Diritti Umani. “Uomo indiziato, uomo condannato”. La storia della Giustizia si riassume tutta in questa massima e poiché i processi indiziari hanno fatto migliaia di vittime innocenti – una tra tutte Enzo Tortora – bisogna fermare la follia di un sistema giudiziario che sta implodendo a danno dei Cittadini e dello Stato. Si, lo Stato, perché quando si rischia di condannare un un innocente su basi indiziarie, lo Stato è responsabile. Per questo è nato un vasto movimento d’opinione contro il processo indiziario e contro la custodia cautelare su base indiziaria. Il Movimento che vede tra i promotori l’ex Magistrato Gennaro Francione, sta facendo leva sopratutto sui casi eclatanti (Marta Russo,Cogne, Ceste, Sarah Scazzi, Chiara Poggi, Loris Stival, Yara Gambirasio, Meredith Kercher, Melania Rea, Roberta Ragusa etc.). Attaccando singoli processi non se ne viene a capo… e per questo, per trovare un sistema che possa garantire quelli che sono Diritti fondamentali dell’Uomo, riprende senza tregua il ciclo di conferenze con professori, criminologi, giudici, avvocati, esperti di vari settori, cittadini che si battono contro il processo indiziario.
GENNARO FRANCIONE NEL MONDO DELLA GIUSTIZIA. Gennaro Francione è stato Consigliere di Corte di Cassazione, giudice presso la sezione penale del Tribunale penale di Roma e membro del comitato scientifico del Centro Studi Informatica Giuridica di Firenze. Ma Gennaro Francione ha due anime. E’, infatti, noto saggista, attore, regista e pittore. Nella sua brillante carriera di Giudice è stato autore di diverse sentenze che hanno fatto molto discutere. Nel giugno 2000 ha emesso una sentenza che sollevava dubbi di costituzionalità riguardanti il sistema processuale definito dal giudice “processo indiziario”, ed a favore del “processo scientifico popperiano”; la corte costituzionale ha rigettato il 12 luglio 2001 tale interpretazione. Nel febbraio 2001 ha assolto quattro venditori di cd contraffatti per “stato di necessità” dato da “bisogno alimentare non altrimenti soddisfatto”, decisione che è stata poi definita dallo stesso Francione “sentenza anticopyright”; in merito ad essa è stata presentata un’interrogazione parlamentare da parte del senatore Ettore Bucciero, ma il Consiglio Superiore della Magistratura ha assolto il giudice nell’inchiesta che ne è scaturita. Il 13 aprile 2007 il Giudice Gennaro Francione ha emesso la cosiddetta sentenza della “tv sferica”, con l’assoluzione del “disturbatore” televisivo Gabriele Paolini per aver esercitato il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero col media televisivo ex articolo 21 della Costituzione. Francione ha proposto un progetto, chiamato Diritto 2000, che mira a sostituire quello che l’autore definisce il “medievale diritto penitenziale” (basato sulla punizione) con un neoumanistico “diritto medicinale” (cura, sanzioni e misure di sicurezza) che oggi nulla altro è che quanto sta proponendo il Procuratore Antimafia Nicola Gratteri.
GENNARO FRANCIONE NEL MONDO DELLA CULTURA. Francione è fondatore e presidente dell’Unione Europea dei Giudici Scrittori ed ha promosso il Movimento Utopista-Antiarte 2000. È consulente artistico del Museo del Cinema di Roma. Gli è stato assegnato il Premio della Cultura della Presidenza del Consiglio dei ministri negli anni 1995, 1997, 2003, 2005. Nel maggio 2012 partecipa ad un importante Convegno Nazionale sul copyright tenutosi a Cosenza, organizzato dal portale La legge per tutti[3], durante il quale, presentando le sue teorie anticopyright alla luce della nuova webtecnologia, si definisce Giudice Pirata; e, ancora, “artista prestato alla magistratura”. Il saggio storico del libro di G. Francione, Scanderbeg, un eroe moderno (Multimedial hero) ed. Costanzo D’Agostino – Roma. col titolo Botim i monografisë së Skënderbeu një hero modern è stato pubblicato, alla fine del 2006, dall’editore Naim Frasheri di Tirana con la traduzione del professor Tasim Aliajt.
Processo indiziario e gogna mediatica: le vergogne capaci di far godere la pubblica opinione che assiste giuliva alle torture e all'esecuzione del condannato..., scrive Gilberto Migliorini su "Albatros Volando Controvento). Occorre dire che la giustizia talvolta dimostra una originalità tutta sua che ci riporta senz'altro al metodo inquisitorio, reso celebre dai processi agli untori e in generale da quel sistema di indagine proprio della controriforma. L’indizio risulta essere lo strumento d'eccellenza, non già come occasione per orientare l'indagine e ricavare eventuali prove, ma tout court un passepartout, un bel grimaldello che va bene per ogni chiave interpretativa da inserire in scenari immaginifici e creativi. Metaforicamente un indizio non è altro che un segno, più o meno rilevante, una traccia che potrebbe condurre a seguire una pista che porti a raccogliere prove tangibili e deduzioni pertinenti. Ovviamente un indizio può anche risultare solo un miraggio, una fata morgana… Di per sé un indizio è carico di potenzialità, ma potrebbe risultare solo un’orma sterile e illusoria se conduce in un vicolo cieco, solo l’effetto del caso e di coincidenze fortuite, senza significato o con significati così ridondanti da prefigurare molti scenari contraddittori. Un processo, in qualsiasi paese al mondo, almeno in quelli considerati democratici, avviene sulla base di prove, non certo di indizi che servono semmai all'investigatore come fili di Arianna che potrebbero sì portare a ricavare elementi consistenti, ma anche costruire soltanto effimere tele di ragno. D’altro canto immaginare scenari e metterli alla prova è il procedimento di qualsiasi indagine. Come la moderna epistemologia ci ha insegnato, il pregiudizio è un punto di partenza necessario. Senza pregiudizio non si va da nessuna parte. Mettere alla prova le nostre intuizioni costituisce il modo migliore, per tentativi ed errori, per procedere alla ricerca della ‘verità’. La supposizione (il pre-giudizio=giudizio di partenza) deve però poi essere messa al vaglio di riscontri oggettivi e di scenari dai quali ricavare prove concrete e non teoremi. È vero che senza ipotesi pregiudiziali non si potrebbe neppure avviare un’indagine scientifica o giudiziaria. Da un indizio si possono immaginare scenari, costruire ipotesi investigative, rappresentare un sistema di idee. Ma per avere consistenza di prova devono poi trovare riscontri non arbitrari, non fondati su nessi soggettivi, non dettati da preconcetti e opzioni scelte a piacimento come ipotesi senza veri riscontri fattuali. Collegare dei fatti con mere supposizioni è utile come esercizio speculativo, non come prova da portare a processo. In altri termini l’indizio riguarda il detective, l’investigatore o il magistrato nella veste di inquirente che cerca di mettere insieme le tessere di un puzzle utilizzando tutti gli elementi a disposizione per seguire un percorso deduttivo finalizzato ad ottenere inferenze inequivoche e obiettive (non idiosincrasiche) che istituiscano dei nessi precisi e circostanziati tra i fatti. In questo senso dunque un fatto non è una prova. La foto di un uomo con in mano un coltello sporco di sangue e la vittima che giace ai suoi piedi è un fatto, non è una prova. Il fotogramma potrebbe avere immortalato l’uomo che ha strappato il coltello dalla schiena dell’amico o del congiunto nel tentativo di soccorrerlo. Allo stesso modo il Dna sul luogo del delitto del signor kappa potrebbe essere di natura puramente casuale, potrebbe trattarsi di un depistaggio, una contaminazione, perfino di una interpretazione errata del codice genetico. Le prove non sono fatti, sono relazioni tra fatti e relazioni tra relazioni tra fatti… Le prove sono i nessi non arbitrari sotto forma di sillogismi deduttivi. Qui però sorge un problema ermeneutico. Un nesso per non essere arbitrario deve poter essere controllato fattualmente. Questo esclude qualsiasi formula metafisica, comprese le premonizioni e le visioni di qualche sensitivo, e qualsivoglia procedimento induttivo più o meno mascherato. Nell'epistemologia popperiana (che ha approfondito il tema della prova scientifica) l’induzione non esiste, è un errore bell'e buono. Nel nostro sistema giudiziario sono ormai in uso due locuzioni paradossali: l’una è appunto quella di processo indiziario che richiama i tribunali dell’inquisizione e della controriforma (ce ne ha dato una splendido esempio il Manzoni nella sua Storia della Colonna Infame). L’altra, ancor più sorprendente, secondo la quale la prova si forma nel corso del dibattimento, che per quanto ne sappia non ha riscontri in nessun sistema giuridico a livello mondiale. La prova in un sistema giuridico non inquisitorio si porta in dibattimento e non si forma in dibattimento (salvo poi eventualmente dimostrare che non regge alle argomentazioni della controparte). Nel nostro paese sembra diventata normalità procedurale che si porti qualcuno a processo non già con delle prove di colpevolezza - della cui consistenza e attendibilità si formerà un giudizio attraverso il contraddittorio tra accusa e difesa - ma per una sorta di ritualità per la quale l’indizio dovrebbe magicamente diventare nel corso del dibattimento una prova provata. Il dibattimento in questo modo diventa una ruota della fortuna, un terno al Lotto dove l’indizio verrà valutato a seconda del libero convincimento di una giuria, e non già attraverso un sistema logico-deduttivo che metta alla prova gli elementi rappresentati da accusa e difesa in quanto prove di colpevolezza o, se inconsistenti, di innocenza. Una giuria dovrebbe entrare nel merito della validità delle prove (sul fatto che esse siano tali e non mere speculazioni) e non già nel valutare se un indizio può trasformarsi in una prova mediante una valutazione soggettiva. L’abilità dialettica e la capacità retorica servono sì a rappresentare al meglio tutti gli elementi di prova sic et non, ma non certo a trasformare in prova un indizio - o viceversa. Un semplice indizio rimane tale indipendentemente dalla sua rappresentazione più o meno esteticamente appetibile. Nel nostro sistema giuridico sembra invece che la magia sia possibile, che prove e indizi siano elementi interscambiabili dove avvocato, giudice, giuria e influenza mediatica, sono in grado di fare del processo una sorta di alchimia trasmutando sostanze vili in oro (e viceversa), di trasformare un sistema teorematico in un dispositivo di sillogismi deduttivi su base fattuale. Il paradosso è in quella sorta di magia per la quale dibattendo intorno a degli indizi, questi, magicamente, assumerebbero la consistenza di una prova. Le supposizioni e le ipotesi, per quanto suggestive, rimangono soltanto un opinare se non hanno poi condotto nel procedimento investigativo a istituire nessi attraverso una verifica fattuale non ipotetica. Come se molti indizi (e ritenuti tali con una certa latitudine interpretativa) costituissero elemento di prova mediante un procedimento induttivo con le solite formule: chi se non lui? Chi altri se no? Oppure nei collegamenti ipotetici che fanno riferimento a parole totipotenti come: compatibilità, contraddizione, plausibile, inverosimile, non plausibile, verosimile(in tutte le loro varianti); o ancora ragionamenti circolari dove per presupporre A occorre presupporre B e per presupporre B occorre presupporre A - costruendo ipotesi che trovano fondamento su altre ipotesi date per acclarate sulla base di altre induzioni del tutto gratuite: una ragnatela di nessi che si embricano a formare soltanto congetture. Spesso si tratta di un campionario di fallacie, pseudo-sillogismi mascherati da veri ragionamenti deduttivi. In altri casi di abduzioni dove la premessa minore del sillogismo è dubbia. Shakerando una sorta di zibaldone e osservazioni più o meno pertinenti, e assemblando sotto forma di teorema una serie di dati slegati o linkati secondo ghiribizzo, salterebbe fuori qualcosa di più di una ricostruzione del tutto soggettiva e arbitraria, ne uscirebbe una ricostruzione di un delitto in cui la prova non è fornita da riscontri obiettivi ma semplicemente dai nessi istituiti da una narrazione tanto suggestiva quanto fondata su ipotesi senza riscontri. La disposizione dei fatti, del tutto opinabile, in una delle tante configurazioni possibili - senza che questa possa riuscire ad escludere tante altre narrazioni altrettanto plausibili - acquista il valore di prova. L’indizio viene ritenuto condizione necessaria e sufficiente per uno scenario ritenuto probabile in quanto piace e ci si innamora. Senza togliere nulla al fiuto dell’inquirente, che in qualche caso può davvero seguire la pista giusta e subodorare dove occorre andare a parare, occorre dire che in fatto di olfatto talvolta la cantonata è davvero dietro l’angolo. Fidarsi troppo del proprie intuizioni può portare fuori strada. Seguire pervicacemente un’unica traccia può impedire di vedere altri elementi ben più interessanti…L’uso del termine teorema richiama un sistema con un solido impianto logico-deduttivo, anche se poi in realtà il riferimento è a un sistema capzioso e decettivo, un procedimento dove la deduzione è soltanto apparente come appunto in uno pseudo-sillogismo. Il termine narrazione invece ci riporta alla dimensione di un romanzo nel quale - come nel calviniano castello dei destini incrociati - esiste una pluralità di possibili itinerari narrativi lasciati all'estro e alla fantasia del lettore... Cartomanzia e linguaggio degli emblemi, i tarocchi, non solo come intrecci di simboli ma anche come intrecci di storie. Dalle carte (i tarocchi) accostate a caso (gli indizi), si possono incrociare storie e narrazioni che il lettore (o l’inquirente) può assemblare a piacere con un mero criterio di verosimiglianza. Ci sono storie che non appassionano, specialmente quando sono senza capo e né coda. Allora basta aggiungere quegli ingredienti che sono come il prezzemolo: il sesso, la pornografia, la gelosia, la rivalità, il tradimento, l’insania… ingredienti che vanno sempre bene, che si possono amalgamare a tutte le salse e possono agevolmente trasformare anche una storia senza trama, senza movente e senza logica, in una sceneggiatura avvincente e perfino credibile per un pubblico abituato ai romanzi assemblati con il taglia e incolla. Si tratta di ricostruzioni piuttosto fantasiose sulla base del possibile e non del necessario, dove fa la sua comparsa, lupus in fabula, una sorta di elemento intermedio, il caso indiziario, dove il possibile diventa necessario (ma anche al contrario). È un po’ come l’arte sofistica della dialettica e della retorica: l’homo mensura (manifesto del relativismo e del soggettivismo. Non a caso i sofisti vennero assoldati dalle aristocrazie. L’arte della retorica e della dialettica, ma soprattutto l’eristica (finalizzata a far prevalere la propria tesi, anche in sintonia con il senso comune) costituivano un sistema non finalizzato alla ricerca della verità ma semplicemente a dominare il lato pratico della vita in rapporto a chi li assoldava nei tribunali per rafforzare le arringhe con una migliore formulazione e presentazione. Il clima nel quale ormai da molti anni viviamo è quello di un sistema giudiziario che ha fatto dell’indizio una sorta di elemento eclettico e totipotente in grado di sfornare qualsiasi pietanza: un po’ innocente, piuttosto innocente, completamente innocente, forse colpevole ma non è detto, un po’ e un po’, colpevole ma con riserva, colpevole senza se e senza ma, colpevolissimo… sia colpevole e sia innocente. Tradotto ovviamente in pene più o meno severe, sconti di pena, assoluzioni per insufficienza di prove, decadenza… o condanne a tambur battente sull'onda mediatica. Dobbiamo però aggiungere che il rapporto tra colpevolezza e innocenza è asimmetrico, non solo nel senso che qualcuno è innocente fino a prova contraria, ma anche nel senso che è corretto dire che un milione di indizi non fanno una prova. Anche se in genere di fronte ai processi mediatici dove il malcapitato non ha santi in paradiso e non è un politico con avvocati di fama, il giudizio è sempre stato favorevole a quell'opinione pubblica alla ricerca del lupo cattivo e che ha bisogno che ci sia un colpevole (che sia quello vero sembra importare davvero poco). Segno che ai giudici l’impopolarità non piace proprio e che in certi casi occorre soprassedere e fare di necessità virtù? All'opinione pubblica assuefatta alla corruzione e abituata al malgoverno (e lì sì che le prove non mancano, salvo quella solita provvidenziale prescrizione, patteggiamento e soccorso legislativo) bisogna ben dare qualche surrogato, un contentino che la risarcisca di tanti potentati che invece la fanno franca anche grazie alle cervellotiche regole giuridiche, a quel lento e farraginoso sistema di procedure atto a tutelare chi può disporre di giureconsulti reclutati per cercare scappatoie e liberatorie in un apparato legislativo elefantiaco e contraddittorio. Il sistema inquisitorio, a differenza di quanto si crede, storicamente aveva il suo fondamento non tanto nel giudizio dell’inquisitore quanto nella pressione popolare che fungeva da legittimazione anche in quelle società dove il potere era dall'alto (che adesso sia dal basso è solo questione di punti di vista…). Il complesso gioco di equilibri tra i gruppi sociali non poteva non tener conto della pressione popolare e di quel consenso che si manifesta in qualsiasi società sotto forma di controllo emotivo e di interscambio tra il potere e una massa più o meno amorfa. Pesi e contrappesi, negoziazioni e concessioni si realizzano attraverso valvole di sfogo e surrogati in grado di allentare tensioni e abreagire pericolosi impulsi eversivi. Il processo mediatico storicamente è servito al potere da un lato a mascherare le incongruenze e le malefatte del sistema politico, dall'altro a trasformare l’opinione pubblica in una massa di manovra dominata dall'emotività e dal si dice, in una dimensione acritica, ma con la forza propulsiva della passione e spesso con la predilezione di trovare piacere nel mettere qualcuno alla gogna. Passando in rassegna le modalità di interrogatorio, i sistemi di indagine e gli strumenti fisici utilizzati nel corso della storia moderna, non possiamo non rilevare che le trasformazioni hanno riguardato più che altro la veste esteriore, sia pure eliminando gli aspetti più cruenti. Concettualmente il sistema ha mantenuto tutti i suoi canoni metodologici. La proibizione della tortura non ha impedito che surrettiziamente essa abbia mantenuto (pensiamo alle lunghe carcerazioni preventive su base indiziaria) un carattere sfumato e invisibile, come tortura dell’anima (strumento di umiliazione e di incertezza per estorcere all'imputato una confessione). Oggi si parla metaforicamente di gogna mediatica intendendo che il suo carattere è metaforico e l’analogia è puramente immaginifica. Nella realtà quello che un tempo era il ceppo (El Cepo in spagnolo e The Stocks or Pillory in inglese) con il quale mani e piedi venivano imprigionati e la vittima esposta nella piazza, non era soltanto una punizione esemplare, si trattava di una vera tortura. La vittima veniva cosparsa di escrementi, sostanze provenienti dagli orinali e dai pozzi neri che andavano a riempire tutti gli orifizi del malcapitato. Il carattere umoristico con il quale spesso viene presentata la tortura della gogna, ha per così dire la sua corrispondenza esemplare in certi programmi televisivi o in certe pubblicazioni. La gogna mediatica, nei confronti peraltro di persone il più delle volte neppure ancora giudicate, assume il carattere di un vero e proprio supplizio dove agli escrementi fisici vengono sostituiti da una sorta di letame virtuale - attraverso illazioni, pettegolezzi e dicerie. Induzioni gratuite e mere speculazioni anche senza riscontri determinano sempre un buon successo editoriale. Il procedimento che nella gogna portava alla morte (la persona veniva anche picchiata, lapidata, ustionata e mutilata) nella realtà attuale può continuare anche per anni nei confronti di imputati che alla fine magari poi risultano innocenti, ma portano con sé una patina di sospetto e nell’anima i segni invisibili di un lungo calvario, di una vera e propria tortura… La gogna in botte con la possibilità per la vittima di deambulare costituiva quella che oggi è quel processo mediatico ubiquo, un giornalismo invasivo che ruba continuamente la privacy delle persone, scavando senza ritegno nella vita privata alla ricerca di scoop sensazionalistici). La gogna per certi versi era una tortura ancora più pervasiva e agonica di tanti altri supplizi, più dolorosa di tutte quelle forme di esecuzione che portavano alla morte più o meno velocemente: come la scure o la spada, la garrota o la ghigliottina. Perfino la vedova di Norimberga - un sarcofago antropomorfo, al suo interno irta di chiodi che penetravano al chiudersi delle sue porte nel corpo della vittima - era esecuzione forse preferibile rispetto alla gogna che anche quando non portava alla morte (procrastinata per giorni o addirittura settimane) lasciava tracce indelebili nel corpo e nella mente della vittima, distruggendola fisicamente e moralmente. Quelle stesse tracce indelebili la moderna gogna applica nei confronti di molti che subiscono interminabili processi sulla base di indizi spesso fantasiosi (e gonfiati dal sistema mediatico) fino magari al riconoscimento della loro innocenza. Il sistema giustizia nel nostro paese avrebbe bisogno di una profonda riforma che però nessuno vuole veramente. Non la vuole il mondo politico, che non sembra avere alcun interesse che essa funzioni per ovvi motivi che lo riguardano. Non la vogliono molti magistrati che considerano il loro potere come assoluto e guai a sentir parlare di controlli. Non la vogliono gli operatori del settore che con un sistema più efficiente si vedrebbero ridotti di numero (basti pensare che in Italia ci sono 230.000 avvocati e in Francia 10.000) e vedrebbero scemare il loro potere economico e politico. Infine, non la vuole la stessa opinione pubblica che sembra essersi masochisticamente affezionata a un sistema giudiziario lento e inefficiente. Un'opinione pubblica poco propensa a riflettere, che si accontenta del piacere di pancia prodotto dai processi mediatici, somiglia molto (se non è uguale) a quelle plebi che accorrevano giulive sotto il patibolo per assistere al meraviglioso spettacolo della tortura e dell'esecuzione del condannato...
PARLIAMO DEL REATO DI MAFIA.
L'associazione per delinquere di tipo mafioso è una fattispecie di reato prevista dal Codice Penale italiano, all'art. 416 bis e all'art. 416 ter, e quindi all'interno del V Titolo della Seconda Parte del codice stesso, ossia nella parte disciplinante i Delitti contro l’ordine pubblico. Fino al 1982 per far fronte ai delitti di mafia si faceva ricorso all'art. 416 (associazione per delinquere), ma tale fattispecie è ben presto risultata inefficace di fronte alla vastità e alle dimensioni del fenomeno mafia. Tra le finalità perseguite dai soggetti uniti dal vincolo associativo ve ne erano anche di lecite, e ciò costituì il più grande limite all'applicazione dell'art. 416. Il 19 settembre 1982 l’uccisione del Generale Dalla Chiesa e la immediatamente successiva reazione di sdegno da parte dell’opinione pubblica, portò lo Stato, nel giro di 20 giorni, a formulare l'art. 416 bis, dando così la propria risposta al grave fatto di sangue e perseguendo l'obiettivo di porre freno al problema mafia. La nuova fattispecie prevede l'individuazione dei mezzi e degli obbiettivi in presenza dei quali siamo di fronte ad una associazione di tipo mafioso. Il legislatore per la prima volta nel 1982 dà una definizione del concetto di mafia. Il mezzo che deve utilizzarsi per qualificare come mafiosa una associazione è la forza intimidatrice del vincolo associativo e della condizione di soggezione e di che ne deriva. Gli obiettivi sono:
il compimento di delitti;
acquisire il controllo o la gestione di attività economiche, concessioni, autorizzazioni, appalti o altri servizi pubblici;
procurare profitto o vantaggio a se o a altri;
limitare il libero esercizio del diritto di voto;
procurare a se o ad altri voti durante le consultazioni elettorali.
Gli ultimi due obiettivi sono stati inseriti nel 1992 nell'ambito delle misure adottate a seguito delle stragi di Capaci (attentato a Giovanni Falcone) e di Via D’Amelio (attentato a Paolo Borsellino). Il 416 bis dispone inoltre la confisca dei beni, nonché l'applicabilità di tale fattispecie anche nell'ipotesi di Camorra o di altre associazioni riconducibili a quelle di tipo mafioso, comunque localmente denominate, tipo “la Ndrangheta” o “la Sacra Corona Unita”. Ad un’attenta lettura della legge, essa non discrimina le pari attività devianti di lobby, caste e sodalizi istituzionali, ma per questi soggetti, detentori del potere, scatta l’impunità e l’immunità. Al contrario, quando un soggetto al loro interno viene emarginato, per il medesimo scatta il reato che non è reato. Il Concorso esterno in associazione di tipo mafioso o Concorso esterno in associazione mafiosa, sono delle espressioni per indicare un particolare comportamento delittuoso non definito in sede legislativa. Alla carenza di definizione in sede legislativa formale è stato supplito con elementi di prassi giudiziaria. Ossia: la Magistratura si sostituisce al Parlamento.
Citazioni di Leonardo Sciascia, da servire a coloro che hanno corta memoria o/e lunga malafede e che appartengono prevalentemente a quella specie (molto diffusa in Italia) di persone dedite all'eroismo all’acqua di rose: «…l'umanità, e ci riempiamo la bocca a dire umanità, bella parola piena di vento, la divido in cinque categorie: gli uomini, i mezz'uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraquà... Pochissimi gli uomini; i mezz'uomini pochi, ché mi contenterei l'umanità si fermasse ai mezz'uomini... E invece no, scende ancora più giù, agli ominicchi: che sono come i bambini che si credono grandi, scimmie che fanno le stesse mosse dei grandi... E ancora più in giù: i piglianculo, che vanno diventando un esercito... E infine i quaquaraquà: che dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre... » (II giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961). «.. Qui bisognerebbe sorprendere la gente nel covo dell'inadempienza fiscale, come in America. Bisognerebbe, di colpo, piombare sulle banche; mettere le mani esperte nelle contabilità, generalmente a doppio fondo, delle grandi e delle piccole aziende; revisionare i catasti. E tutte quelle volpi, vecchie e nuove, che stanno a sprecare il loro fiuto (...), sarebbe meglio se si mettessero ad annusare intorno alle ville, le automobili fuoriserie, le mogli, le amanti di certi funzionari e confrontare quei segni di ricchezza agli stipendi, e tirarne il giusto senso». (II giorno della civetta, Einaudi, Torino, 1961). «Ma il fatto è, mio caro amico, che l'Italia è un così felice Paese che quando si cominciano a combattere le mafie vernacole, vuol dire che già se ne è stabilita una in lingua... Ho visto qualcosa di simile quarant'anni fa: ed è vero che un fatto, nella grande e nella piccola storia, se si ripete ha carattere di farsa, mentre nel primo verificarsi è tragedia; ma io sono ugualmente inquieto». (A ciascuno il suo, Einaudi, Torino, 1966). «I lettori, comunque, prendano atto che nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso. In quanto poi alla definizione di «magistrato gentiluomo», c'è da restare esterrefatti: si vuol forse adombrare che possa esistere un solo magistrato che non lo sia ?» (Leonardo Sciascia, I professionisti dell'antimafia, da Il Corriere della Sera, del 10 gennaio 1987).
“Persecuzioni che vanno evitate” scriveva Lino Iannuzzi sul “Tempo” del 23 ottobre 2008. riferendosi all’assoluzione di Calogero Mannino. “Più che condannarlo per mafia, ne volevano fare un pentito, il primo grande pentito della politica. Se ci fossero riusciti, probabilmente la storia dei grandi processi di mafia ai politici darebbe stata diversa, i professionisti dell'antimafia non ne sarebbero usciti così clamorosamente sconfitti.” Il processo a Mannino è stato il più "caselliano" dei processi per mafia, quello che più ha risentito dei teoremi, del climax e del metodo della procura diretta da Gian Carlo Caselli, più dello stesso processo a Andreotti. Ma ha avuto un protagonista eccezionale che ha oscurato la fama dei suoi colleghi più autorevoli e più famosi, dei Lo Forte, dei Natoli, degli Scarpinato, dello stesso Caselli. I processi a Mannino sono durati più di 14 anni, il solo processo di primo grado è stato il più lungo processo per mafia celebrato a Palermo, è durato più di 5 anni e mezzo, 300 udienze, 400 testimoni, 25 "pentiti",oltre 50mila pagine di atti processuali: fino all'assoluzione con formula piena "per non aver commesso il fatto". E tre anni dopo il primo processo d'appello, la condanna a 5 anni e 4 mesi, l'annullamento della Cassazione, il secondo processo d'appello, la sospensione per attendere il pronunciamento della Corte Costituzionale (che ha bocciata la legge che prevedeva che bastasse l'assoluzione in primo grado per chiudere la partita), e il secondo processo d'appello, fino alla definitiva assoluzione. Ebbene, per i due anni dell'inchiesta iniziale, per i cinque anni e mezzo del processo di primo grado, per i due anni del primo processo d'appello, per i due anni di attesa per l'annullamento della Cassazione, per la sospensione, per tutto il tempo del secondo processo d'appello, l'accusa contro Mannino è stata sostenuta sempre dallo stesso magistrato, il pm Vittorio Teresi, che ha fatto in tempo a fare le indagini preliminari, il processo di primo grado, il primo processo d'appello dopo tre anni, e si è trovato persino pronto, dopo altri tre anni, a sostenere l'accusa nel secondo processo d'appello, dopo l'annullamento e la sospensione. Il processo a Mannino ha avuto un unico inquisitore, che è diventato anche requirente in primo e in secondo grado, e persino nel secondo grado: Vittorio Teresi ha praticamente dedicato la vita, la parte più importante della sua vita, a inquisire e ad accusare Mannino. Più dello Stato, più della procura di Palermo, è stato Teresi a processare Mannino. E che cosa ha detto e ripetuto Teresi contro Mannino per 14 anni l'aveva già detto il Procuratore generale della Cassazione Vincenzo Siniscalchi nella requisitoria con cui ha chiesto e ottenuto l'annullamento della sentenza di condanna di Mannino, che aveva fatto proprie e trascritte testualmente le accuse pronunciate da Teresi: "Nella sentenza di condanna di Mannino non c'è nulla, mi sono trovato di fronte al nulla. La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c'è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici. Nulla che indichi un patto elettorale con la mafia, favori in cambio di voti, un patto così serio, preciso e concreto che la sua sola esistenza, con l'impegno e la coscienza da parte del politico, possa valere a sostanziare l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, di come una sentenza non dovrebbe mai essere scritta…". Ma Vittorio Teresi non è né un folle, né un caso isolato. Quando il Procuratore generale Siniscalchi ha bollato con parole di fuoco il sistema accusatorio di Teresi, e i giudici della Corte d'Appello che le avevano fatte proprie, è insorta tutta la giunta esecutiva dell'Associazione magistrati di Palermo e prima ancora che la Cassazione si pronunciasse sulle richieste di Siniscalchi. "Le espressioni pronunciate dal Procuratore generale - è scritto nel comunicato della giunta - hanno gettata una ingiusta e infondata ombra sulla professionalità dei colleghi che hanno emesso la sentenza di condanna di Mannino in netto contrasto con i doveri sanciti dal codice etico adottato dall'Associazione nazionale dei magistrati, e in particolare con il dovere sancito dall'articolo 13 comma III, che prescrive che il pubblico ministero debba astenersi da critiche e apprezzamenti sulla professionalità dei giudici". E i magistrati di Palermo attraverso la loro giunta esecutiva chiedevano "l'intervento dell'Associazione nazionale e del Consiglio superiore della magistratura per quanto eventualmente di loro competenza: l'Anm e il Csm dovevano processare e punire il procuratore generale della Cassazione che si era permesso di criticare il pm e i giudici che avevano condannato Mannino (e di conseguenza la Cassazione che, con le stesse motivazioni del Pg annullerà la sentenza di condanna a Mannino). Forse nessun altro processo come quello a Mannino serve a raccontare e a spiegare che cosa è successo a Palermo (Italia) negli ultimi quindici anni e che cosa sono stati i processi di mafia ai politici. Secondo Jannuzzi il caso Teresi è solo più evidente, più scoperto e più sfacciato: “il pm è sempre lo stesso, i pm dei processi politici sono sempre gli stessi, sempre gli stessi sono i "pentiti", stessa è la tecnica con cui si predispongono certe Corti d'Appello, veri e propri plotoni d'esecuzione, che devono annullare in fretta le assoluzioni conquistate in primo grado (straordinaria la somiglianza con la storia dei processi a Mannino il metodo con cui fu costituita la Corte d'Appello che annullò l'assoluzione in primo grado di Corrado Carnevale, e quella con cui la Corte d'Appello sporcò con la storia della prescrizione l'assoluzione in primo grado di Andreotti), gli stessi sono i teoremi di certe sentenze che, come disse Siniscalchi, sono un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari, sentenze che non avrebbero mai dovuto essere scritte”.
DIRITTO CERTO E UNIVERSALE. CONTRADDIZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE: CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA, UN REATO CHE ESISTE; ANZI NO!!.
Bruno Contrada non andava condannato perché il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non era giuridicamente definito all’epoca dei fatti a lui contestati. Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo condannando l’Italia a una multa di diecimila euro per danni morali e al pagamento di 2.500 euro per spese processuali. La fattispecie di reato in questione, scrive la Corte, è il risultato di un iter giurisprudenziale avviato verso la fine degli anni 80 e consolidato nel 1994. E Contrada, incriminato per fatti che risalgono al periodo compreso tra il 1979 e il 1988, non poteva ragionevolmente prevedere di compiere il reato. Si tratta, fa sapere il tribunale di Strasburgo, di una violazione dell’articolo 7 della convenzione europea dei diritti dell’uomo (“Nulla poena sine lege”), quella per cui “nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che al momento in cui è stata commessa non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale”.
Mafia, 14 aprile 2015, Strasburgo su Contrada: «Non andava condannato». Bruno Contrada non doveva essere condannato secondo la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. "Dispiace che l'abbia fatto così tardi", commenta l'avvocato Giuseppe Lipera, difensore dell'ex 007 riconosciuto colpevole di concorso esterno in associazione mafiosa. "E' un reato che non esiste nel codice penale tutt'ora vigente, se lo sono inventati certi magistrati", afferma il legale. All’epoca dei fatti (1979-1988), reato non «era sufficientemente chiaro». Lo Stato deve versare a ex 007 10 mila euro per danni morali. Lui: «Sentenza sconvolgente», scrive "Il Corriere della Sera”. Bruno Contrada, ex poliziotto, ex capo della mobile di Palermo, non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all’epoca dei fatti (1979-1988), il reato non «era sufficientemente chiaro». Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani. Lo Stato italiano deve versare all’ex numero tre del Sisde (l’ex servizio segreto civile, oggi Aisi) 10 mila euro per danni morali. A caldo, l’ex 007 dice: «Sentenza sconvolgente, dopo una vita devastata». Per la Corte, più in dettaglio, l’Italia ha violato l’articolo 7 della Convenzione europea per i diritti umani che stabilisce che non ci può essere condanna senza che il reato sia chiaramente identificato dai codici di giustizia. Nel caso della fattispecie di reato contestata a Contrada, il concorso esterno in associazione mafiosa, la Corte nota che essa «non era sufficientemente chiara e prevedibile per Contrada ai tempi in cui si sono svolti gli eventi in questione», e quindi ha riconosciuto la violazione, in quanto le pene non possono essere applicate in modo retroattivo. L’ex funzionario del Sisde (tornato in libertà dopo avere scontato la pena) era stato condannato in via definitiva a 10 anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa, dopo le accuse di diversi collaboratori di giustizia di passare informazioni a Cosa nostra e di avere consentito la fuga di pericolosi latitanti, come il boss Totò Riina, ricevendo la «copertura» di non identificati vertici istituzionali. Contrada è stato arrestato la prima volta il 24 dicembre 1992 e detenuto in carcere fino al 31 luglio 1995. Dal 10 maggio 2007 al 24 luglio 2008 è stato nel carcere militare a Santa Maria Capua Vetere, dal 24 luglio 2008 è agli arresti domiciliari nella sua abitazione di Palermo per il suo stato di salute. A giugno 2012 la Cassazione, ancora una volta, aveva detto «no» alla richiesta di revisione del processo. Contrada negli anni è stato un investigatore di punta dell’antimafia, a più riprese è stato capo della squadra mobile di Palermo negli anni 70, poi dirigente della Criminalpol, capo di gabinetto dell’Alto commissariato antimafia e, infine, «numero tre» del Sisde. La condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa risale al maggio del 2007. «Sono frastornato, sconvolto, ansioso di sapere di più». Così Bruno Contrada parla della decisione della Corte di Strasburgo. Raggiunto al telefono dall’Agi, Contrada dice: «Lei sta parlando con un uomo la cui vita è stata devastata da 23 anni, dal 1992 ad oggi: ho subito sofferenza, dolore, umiliazione e devastazione della mia esistenza e della mia famiglia. Si può immaginare ed è intuibile qual è il mio stato d’animo in questo momento. Aspetto di leggere la sentenza -conclude l’ex numero tre del Sisde- per rendermi conto di cosa dice e per quale motivo è stato accolto il mio ricorso». «Ho presentato due mesi fa la quarta domanda di revisione del processo a Bruno Contrada e la Corte di appello di Caltanissetta mi ha fissato l’udienza il 18 giugno. La sentenza di Strasburgo sarà un altro elemento per ottenere la revisione della condanna». Lo dice l’avvocato Giuseppe Lipera, legale dell’ex agente Sisde. «Ora capisco perché nonostante le sofferenze quest’uomo a 84 anni continui a vivere», conclude Lipera che ha telefonato subito a Contrada per comunicargli la notizia.
Mafia, la Corte di Strasburgo: "Contrada non andava condannato". Lui: "La mia vita è distrutta". Il reato contestato "non era sufficientemente chiaro". Stato italiano condannato a versare 10 mila euro per i danni morali. L'ex agente del Sisde: "Sentenza sconvolgente", scrive “La Repubblica”. Bruno Contrada non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non "era sufficientemente chiaro". Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani. Lo Stato italiano deve versare all'ex numero due del Sisde 10 mila euro per danni morali. Già nel 2014 la corte di Strasburgo aveva condannato l'Italia per la detenzione dell'ex funzionario del Sisde. Secondo i giudici le condizioni di salute di Contrada, tra il 2007 e il 2008, non erano compatibili con il regime carcerario. Adesso i suoi legali puntano alla revisione del processo. "Ho presentato due mesi fa la quarta domanda di revisione e la corte di appello di Caltanissetta mi ha fissato l'udienza il 18 giugno. La sentenza di Strasburgo sarà un altro elemento per ottenere la revisione della condanna", commenta l'avvocato Giuseppe Lipera legale dell'ex numero 2 del Sisde dopo al decisione della Corte europea dei diritti umani. "Ora capisco perché nonostante le sofferenze quest'uomo a 84 anni continui a vivere", conclude Lipera. "Sono frastornato, sconvolto, ansioso di sapere di più", commenta a caldo Bruno Contrada. "Lei sta parlando con un uomo la cui vita è stata devastata da 23 anni, dal 1992 ad oggi: ho subito sofferenza, dolore, umiliazione e devastazione della mia esistenza e della mia famiglia. Si può immaginare ed è intuibile qual è il mio stato d'animo in questo momento. Poco fa ho sentito il mio avvocato che mi ha comunicato la decisione della Corte europea per i diritti dell'uomo. Aspetto di leggere la sentenza - conclude l'ex numero tre del Sisde - per rendermi conto di cosa dice e per quale motivo è stato accolto il mio ricorso". Da 23 anni la sua vicenda giudiziaria tiene banco non solo nelle aule di giustizia italiane ed europee ma anche nel dibattito politico e giudiziario perchè Bruno Contrada, 84 anni, napoletano ma palermitano d'adozione, quando fu arrestato era ai vertici degli apparati investigativi italiani, numero tre del Sisde, dopo aver percorso tutte le tappe dell'investigatore da dirigente di polizia ad alto funzionario dei servizi segreti nell' arco di un trentennio. Arrestato, la vigilia del Natale '92, l'anno delle stragi palermitane, poi a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa, è stato condannato a 10 anni di carcere il 5 aprile '96. Sentenza ribaltata in Corte d'appello il 4 maggio 2001: assolto. La Cassazione ha rinviato gli atti a Palermo. Poi la nuova condanna a 10 anni nel 2006, dopo 31 ore di Camera di consiglio della Corte d'appello palermitana, e la conferma della Cassazione l'anno successivo. Quindi il carcere, i domiciliari e poi la fine pena nell'ottobre 2012. Sono poi cominciati i tentativi di revisione del processo e gli appelli alla corte di Strasburgo per i diritti umani. Italia condannata due volte: nel febbraio 2014 perché il detenuto non doveva stare in carcere quando chiese i domiciliari per le sue condizioni di salute e oggi perchè l'ex poliziotto non doveva essere condannato per concorso esterno in associazione mafiosa perché, all'epoca dei fatti (1979-1988), il reato non "era sufficientemente chiaro". Contrada in questi anni ha sempre combattuto per "salvaguardare - diceva - l'onore di un uomo delle istituzioni". "Voglio l'onore che mi hanno tolto, non ho perso fiducia nello Stato" ripeteva. Ha parlato dei tanti collaboratori di Giustizia che lo accusavano, con disprezzo, ricordando quando lui e i suoi uomini della questura di Palermo li arrestavano trattandoli come delinquenti e presentavano ai magistrati dossier corposi sulla mafia. E si è sfogato, in questi anni, con gli amici su quella nebbia che nel processo è sembrata calare sul suo rapporto col capo della mobile di Palermo, Boris Giuliano, assassinato nel luglio '79 da Leoluca Bagarella mentre prendeva un caffè da solo al bar. "Eravamo due fratelli - ha detto - lavoravamo fianco a fianco. Non mi sono mai fermato nelle indagini sul suo omicidio". Sono stati scritti almeno quattro libri sulla sua vicenda giudiziaria e migliaia di articoli di giornale che hanno aperto dibattiti nel mondo politico e che hanno diviso l' opinione pubblica italiana.
Perché Contrada ha vinto a Strasburgo. Il Tribunale dei diritti dell'uomo: per l'ex numero 3 del Sisde, condannato per concorso esterno mafioso, il reato non era "sufficientemente chiaro", scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. All'epoca dei fatti contestati a Bruno Contrada, e cioè tra il 1979 e il 1988, "il reato in questione non era sufficientemente chiaro. Il ricorrente non poteva quindi conoscere in particolare che i fatti da lui compiuti potessero configurare una qualche responsabilità penale. Questi elementi bastano all Corte per concludere che c'è stata violazione dell'articolo 7 della Convenzione dei diritti dell'uomo". È tutta in queste righe la grande vittoria di Bruno Contrada, l'ex numero 3 del Sisde accusato di "intelligenza con Cosa nostra" e condannato definitivamente nel 2007 a dieci anni di reclusione. L'ha stabilita oggi la Corte europea dei diritti dell'uomo, condannando con quelle parole lo Stato italiano a risarcire l'imputato con 10 mila euro più 2.500 di spese legali. Per i giudici di Strasburgo, il controverso utilizzo combinato dei due articoli del codice penale, il 416 bis (associazione mafiosa) e il 100 (concorso esterno) non è stato configurato dalla Corte di cassazione italiana, se non "dopo il 5 ottobre 1994, con la sentenza Demitry". Scrivono i giudici: "È solo a partire da quella sentenza che viene fornita per la prima volta un'elaborazione della materia in oggetto (...) e viene ammessa in maniera esplicita l'esistenza del reato di concorso esterno in associazione mafiosa nell'ordinamento giuridico italiano". Magra consolazione, per Contrada, la cui vita è stata distrutta. Ma un formidabile assist giudiziario per quanti, condannati prima di quella data da giudici che abbiano incastrato i due reati, potranno utilizzare la sentenza per cercare non solo un risarcimento, ma forse anche una revisione del processo.
Concorso esterno in associazione mafiosa. L'epistemologia è quella branca della filosofia che si occupa delle condizioni, sotto le quali si può avere conoscenza scientifica, e dei metodi per raggiungere tale conoscenza, come suggerisce peraltro l'etimologia del termine, il quale deriva dall'unione delle parole greche Epistema ("conoscenza certa", ossia "scienza") e logos (discorso). In un'accezione più ristretta l'epistemologia può essere identificata con la filosofia della scienza, la disciplina che si occupa dei fondamenti delle diverse discipline scientifiche. In epistemologia, un assioma è una proposizione o un principio che viene assunto come vero perché ritenuto evidente o perché fornisce il punto di partenza di un quadro teorico di riferimento. Il termine dogma (o domma) è utilizzato generalmente per indicare un princìpio fondamentale di una religione, o una convinzione formulate da filosofi e poste alla base delle loro dottrine, da considerarsi e credere per vero da chi si reputa loro seguace o fedele. Il termine può essere applicato in senso estensivo a discipline diverse da quelle religiose. Bene, anzi male. In tema di mafia vi è un assioma elevato a dogma per il quale chi non è comunista, o comunque chi non è di sinistra, è per forza di cose un mafioso, un para mafioso o un sostenitore della mafia. Questo si evince dalle tante inchieste emerse in tutta Italia e dalla piega che ha assunto la cosiddetta lotta "Antimafia": lotta di parte o di facciata. E’ difficile trovare degli esponenti politici di sinistra che siano stato colpiti da inchieste di mafia, specialmente quanto i titolari delle indagini siano Pubblici Ministeri di una certa area politica. Di contro vi sono evidenti ed ostinati tentativi giudiziari di coinvolgere esponenti politici governativi del centro-destra, nonostante tutti gli schieramenti siano stati investiti di responsabilità governativa, dimostrando nei fatti di essere tutti uguali. Hanno cercato di colpire Andreotti e Berlusconi e i loro referenti istituzionali locali. Molti deputati, ma anche uomini servitori dello Stato. Come Giovanni Falcone, Bruno Contrada, Mario Mori, colpevoli di essere stati promossi a ranghi istituzionali al posto di chi altri aspirava ad occuparli: Falcone e Contrada nominati dall’area Adreottiana-craxiana; Mori da Berlusconi.
Giovanni Falcone, medaglia d’oro al valor civile. Palermo 5 agosto 1992. «Magistrato tenacemente impegnato nella lotta contro la criminalità organizzata, consapevole dei rischi cui andava incontro quale componente del 'pool antimafia', dedicava ogni sua energia a respingere con rigorosa coerenza la sfida sempre più minacciosa lanciata dalle organizzazioni mafiose allo Stato democratico. Proseguiva poi tale opera lucida, attenta e decisa come Direttore degli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, ma veniva barbaramente trucidato in un vile agguato, tesogli con efferata ferocia, sacrificando la propria esistenza, vissuta al servizio delle Istituzioni.»
Nel gennaio '90, Falcone coordina un'altra importante inchiesta che porta all'arresto di trafficanti di droga colombiani e siciliani. Ma a maggio riesplose, violentissima, la polemica, allorquando Orlando interviene alla seguitissima trasmissione televisiva di Rai 3, Samarcanda dedicata all'omicidio di Giovanni Bonsignore, scagliandosi contro Falcone, che, a suo dire, avrebbe "tenuto chiusi nei cassetti" una serie di documenti riguardanti i delitti eccellenti della mafia. Le accuse erano indirizzate anche verso il giudice Roberto Scarpinato, oltre al procuratore Pietro Giammanco, ritenuto vicino ad Andreotti. Si asseriscono responsabilità politiche alle azioni della cupola mafiosa (il cosiddetto "terzo livello"), ma Falcone dissente sostanzialmente da queste conclusioni, sostenendo, come sempre, la necessità di prove certe e bollando simili affermazioni come "cinismo politico". Rivolto direttamente ad Orlando, dirà: "Questo è un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario che noi rifiutiamo. Se il sindaco di Palermo sa qualcosa, faccia nomi e cognomi, citi i fatti, si assuma le responsabilità di quel che ha detto. Altrimenti taccia: non è lecito parlare in assenza degli interessati". La polemica ha continuato ad alimentarsi anche dopo la morte del giudice Falcone. In particolare, la sorella Maria Falcone in un collegamento telefonico con il programma radiofonico "Mixer" ha accusato Leoluca Orlando di aver infangato suo fratello, « hai infangato il nome, la dignità e l'onorabilità di un giudice che ha sempre dato prova di essere integerrimo e strenuo difensore dello Stato contro la mafia[...]lei ha approfittato di determinati limiti dei procedimenti giudiziari, per fare, come diceva Giovanni, politica attraverso il sistema giudiziario». In un'intervista a Klauscondicio, Leoluca Orlando ha dichiarato di non essersi pentito riguardo alle accuse che rivolse a Falcone. In un'intervista del 2008 al Corriere della Sera il Presidente emerito Francesco Cossiga ha imputato al Csm grosse responsabilità riguardo alla morte del Giudice Falcone, ha infatti affermato: «i primi mafiosi stanno al CSM. [Sta scherzando?] Come no? Sono loro che hanno ammazzato Giovanni Falcone negandogli la DNA e prima sottoponendolo a un interrogatorio. Quel giorno lui uscì dal CSM e venne da me piangendo. Voleva andar via. Ero stato io a imporre a Claudio Martelli di prenderlo al Ministero della Giustizia.» La polemica sancì la rottura del fronte antimafia, e da allora in poi Cosa Nostra si avvantaggerà della tensione strisciante nelle istituzioni, cosa che avvelenò sempre più il clima attorno a Falcone, isolandolo. Alle seguenti elezioni dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura del 1990, Falcone venne candidato per le liste collegate "Movimento per la giustizia" e "Proposta 88", ma non viene eletto. Fattisi poi via via sempre più aspri i dissensi con Giammanco, Falcone optò per accettare la proposta di Claudio Martelli, allora vicepresidente del Consiglio e ministro di Grazia e Giustizia ad interim, a dirigere la sezione Affari Penali del ministero. In questo periodo, che va dal 1991 alla sua morte, Falcone fu molto attivo, cercando in ogni modo di rendere più incisiva l'azione della magistratura contro il crimine. Tuttavia, la vicinanza di Giovanni Falcone al socialista Claudio Martelli costò al magistrato siciliano violenti attacchi da buona parte del mondo politico. In particolare, l'appoggio di Martelli fece destare sospetti da parte dei partiti di centro sinistra che fino ad allora avevano appoggiato una possibile candidatura di Falcone. Falcone in realtà profuse tutta la propria professionalità nel preparare leggi che il Parlamento avrebbe successivamente approvato, ed in particolare sulla procura nazionale antimafia. Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone è costretto a difendersi davanti al CSM in seguito all'esposto presentato il mese prima (l'11 settembre) da Leoluca Orlando. L'esposto contro Falcone era il punto di arrivo della serie di accuse mosse da Orlando al magistrato palermitano, il quale ribatté ancora alle accuse definendole «eresie, insinuazioni» e «un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario». Sempre davanti al CSM Falcone, commentando il clima di sospetto creatosi a Palermo, affermò che «non si può investire nella cultura del sospetto tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo». In questo contesto fortemente negativo, nel marzo 1992 viene assassinato Salvo Lima, omicidio che rappresenta un importante segnale dell'inasprimento della strategia mafiosa la quale rompe così gli equilibri consolidati ed alza il tiro verso lo Stato per ridefinire alleanze e possibili collusioni. Falcone era stato informato poco più di un anno prima con un dossier dei Carabinieri del ROS che analizzava l'imminente neo-equilibrio tra mafia, politica ed imprenditoria, ma il nuovo incarico non gli aveva permesso di ottemperare ad ulteriori approfondimenti. Il ruolo di "Superprocuratore" a cui stava lavorando avrebbe consentito di realizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile. Ma ancor prima che egli vi venisse formalmente indicato, si riaprirono ennesime polemiche sul timore di una riduzione dell'autonomia della Magistratura ed una subordinazione della stessa al potere politico. Esse sfociarono per lo più in uno sciopero dell'Associazione Nazionale Magistrati e nella decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che per la carica gli oppose inizialmente Agostino Cordova. Sostenuto da Martelli, Falcone rispose sempre con lucidità di analisi e limpidezza di argomentazioni, intravedendo, presumibilmente, che il coronamento della propria esperienza professionale avrebbe definito nuovi e più efficaci strumenti al servizio dello Stato. Eppure, nonostante la sua determinazione, egli fu sempre più solo all'interno delle istituzioni, condizione questa che prefigurerà tristemente la sua fine. Emblematicamente, Falcone ottenne i numeri per essere eletto Superprocuratore il giorno prima della sua morte. Nell'intervista rilasciata a Marcelle Padovani per "Cose di Cosa Nostra", Falcone attesta la sua stessa profezia: "Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere."
Bruno Contrada. Entrato in Polizia nel 1958, frequentò a Roma il corso di istruzione presso l’Istituto superiore di polizia. Dopo alcuni ruoli nel Lazio, nel 1973 gli venne affidata la direzione della squadra mobile di Palermo. Nel 1982 transitò nei ruoli del SISDE con l’incarico di coordinarne i centri della Sicilia e della Sardegna. Nel 1986 fu chiamato a Roma presso il Reparto Operativo della Direzione del SISDE. Il 24 dicembre 1992, venne arrestato perché accusato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso (estensione giurisprudenziale dell'art. 416 bis Codice penale) sulla base delle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia (tra i quali Gaspare Mutolo, Tommaso Buscetta, Giuseppe Marchese, Salvatore Cancemi) e rimase in regime di carcere preventivo fino al 31 luglio 1995. Il primo processo a suo carico, iniziato il 12 aprile 1994, si concluse il 19 gennaio 1996, quando, al termine di una requisitoria protrattasi per ventidue udienze, il pubblico ministero Antonio Ingroia chiese la condanna a dodici anni. Il 5 aprile 1996 i giudici disposero dieci anni di reclusione e tre di libertà vigilata. Il 4 maggio 2001 la Corte d'Appello di Palermo lo assolse con formula piena. Il 12 dicembre 2002 la Corte di Cassazione annullò la sentenza di secondo grado, ordinando un nuovo processo davanti ad una diversa sezione della Corte d'Appello di Palermo. Il 26 febbraio 2006 i giudici di secondo grado confermarono, dopo 31 ore di camera di consiglio, la sentenza di primo grado che condannava Bruno Contrada a 10 anni di carcere e al pagamento delle spese processuali. Il 10 maggio 2007 la Corte di cassazione ha confermato la sentenza di condanna in appello. Contrada venne rinchiuso nel carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta. Il 24 settembre 2011 la Corte d'appello di Caltanissetta ha ammesso la revisione del processo in cui Bruno Contrada è stato condannato a 10 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Il processo di revisione comincerà davanti alla Corte d'appello di Caltanissetta. Due richieste analoghe, presentate dal difensore di Contrada, l'avvocato Giuseppe Lipera, erano state rigettate.
SENATO: PRESENTAZIONE LIBRO "GIUSTIZIA ASSISTITA" DI PIERO MILIO. Roma, 06 giugno 2011 - Sala Conferenze ex Hotel Bologna in via di Santa Chiara 5, presentazione di "Giustizia assistita", volume che raccoglie scritti e interventi dell'avvocato Piero Milio, ex senatore radicale e storico avvocato difensore di Bruno Contrada e del generale Mario Mori, deceduto nel 2010 a Palermo. (relatori: Pierluigi Winkler, presidente della Koiné Nuove Edizioni, avv. Basilio Milio, sen. Emanuele Macaluso, direttore de "Il Riformista", sen. Luigi Compagna, dott. Massimo Bordin, giornalista di "Radio Radicale". Moderatore dott. Massimo Martinelli, giornalista de "Il Messaggero". Saluto di Maurizio Gasparri, presidente del Gruppo Pdl al Senato. Tra i presenti, l'ex ministro Interni Nicola Mancino, il gen.le Mario Mori, Ida e Pupa, sorelle del generale Bruno Contrada, Marina Salvadore del Comitato Bruno Contrada Napoli, la quale dà un dettagliato resoconto.
«Dall’umido esilio di Liternum marciava, ieri, verso il Senato di Roma imperiale un manipolo sgangherato dei “bona fides” di Scipione Bruno Contrada. Accadeva che in contemporanea con l’ennesima archiviazione della Procura dell’ennesimo esposto del generale contro i calunniatori ed i mistificatori, la contraddizione palese della sua piena riabilitazione morale e professionale sarebbe fiorita, per contro, sulle bocche dei più alti rappresentanti istituzionali, ripresi anche dalle telecamere. Il Camel Trophey degli impavidi invecchiati accanto al generale, arrancava motivato alle porte di Roma Sud, riannusandone la grandezza e la potenza. La speranza! Provenienti dalla bidonville del Mezzogiorno reietto, oltre la Porta romana li confondeva in quel caos urbanistico l’assenza totale di pattume, creando in loro la suggestione d’essere proiettati in un'altra realtà, in un altro mondo, in un’altra vita. Troppo era durato l’esilio da Roma, da non riconoscerla più! L’occasione propizia, utile a riaccendere ceri votivi per evocare la luce nel lungo tunnel buio dell’oblio ed a rigenerare gli esuli in un’istantanea reincarnazione, come esperienza mistica, esoterica, si doveva alla generosità biodinamica, ancora attiva, di chi della Verità, nel Senato di Roma, s’era fatto testimone e maestro, l’avvocato Piero Milio che – ancora – dalla quarta dimensione faceva udire distintamente la sua voce, consentendo alla platea di visualizzarlo con la toga gettata in spalla, l’indice puntato ai calunniatori ed il braccio sinistro – quello del cuore – a cingere le spalle di Bruno Contrada e Mario Mori! L’eredità di un suo libro di memorie, rinvenuto tra i files del computer dal suo degno figliolo, il giovane e capace avvocato Basilio, veniva così, ieri, equamente divisa a vittime e carnefici: ad ognuno onori ed oneri, a seconda del ruolo da loro rivestito nella italica “Giustizia Assistita”. Parole come sassi levigati dal mare, memorie del 2001 attualissime, dacché niente è cambiato nel “sistema” ma ad oggi, in progressione geometrica, lievitando l’una sull’altra, pagine di Mafia e Giustizia incombono come la nuvolaglia nera che ingrossa sempre più il diluvio delle iniquità! L’Italia del Diritto, dalla culla alla bara. La circostanza della presentazione del libro, voleva essere il giusto tributo al ricordo di Piero Milio, scomparso da un anno; invece, si è tradotto nel tributo del grande avvocato alla Giustizia Giusta, come per un’ultima appassionata arringa, a perenne monito. Sentire risuonare in quella sede prestigiosa di nuovo il nome di Bruno Contrada, il racconto delle sue eroiche imprese, é stato emozionante fino alla lacrime, seppure una strana rabbia formicolasse nel palmo della mano che avrebbe voluto levarsi per chiedere d’essere auditi, per dire la propria, partecipando di DIRITTO, come in un agorà o in un sacro conclave e non solo quale muto spettatore. Diciotto anni di persecuzione ambivano a trovare riscatto almeno in un fotogramma di umana rivendicazione… ma il prodigio era già tutto racchiuso, avaro, nel privilegio unico della condivisione spartana dell’evento: vietate le repliche e il contraddittorio, il dibattito ed addirittura non previsto un opportuno banchetto promozionale dei libri all’editrice Koinè, tanto che il nostro canuto manipolo di reduci della Silva Gallinaria, mostrava in quel consesso, ad uso di reliquia trasportata lungo la via Capuana e la via Appia fino in Roma imperiale, una copia del libro; come Saul, noto come san Paolo di Tarsia, che da Pozzuoli a Roma recò seco le sue lettere da spedire ai Corinzi. Prescelti, nevvero? Pochi ma buoni gli invitati al rito di ufficiosa riabilitazione, quasi che gli anfitrioni istituzionali provassero ancora ancestrale imbarazzo a trattare di certe vergogne nazionali, seppure nel pieno possesso, ora, dei più ampi poteri conferiti loro dal Governo della Nazione. Pertanto, l’evento è stato di portata eccezionale, con la maggioranza assoluta di relatori insigni ed augusti ospiti, da ridurre in minoranza la sorpresissima platea, oltremodo zittita nel disagio di “eccesso di grazia” non previsto. Il senatore Macaluso, autentico istrione, bene ci appassionava alla sua Lectio Magistralis sulla degenerazione della sinistra storica in sinistra complottista, rendendo onore ai servitori dello Stato ingiustamente intrappolati nel ruolo di capri espiatori, ricordando con estrema lucidità l’uso consapevole e riservato che dei “pentiti” di mafia il giudice Falcone intendeva, fino all’abominio odierno dell’abuso mirato e relative strumentalizzazione di questi, da parte di certe procure, con i risultati che ridondano nelle cronache giustiziere quotidiane. Riferendosi al vergognoso processo Contrada, Macaluso evidenziava come il ruolo degli investigatori dei “servizi” non abbia mai goduto delle opportune protezioni dovute ai professionisti di rango che, necessariamente, nel loro pericoloso ed esclusivo lavoro, al pari dei militari cosiddetti “infiltrati” devono impattarsi e relazionarsi con criminali pericolosissimi; questa assenza di misure speciali a tutela di uomini coraggiosi mandati allo sbaraglio dallo Stato medesimo, si è rivelata un’arma a doppio taglio, finendo col conferire autorevolezza più ai criminali che agli esponenti delle forze dell’ordine e allargando ancor più il solco tra lo Stato e “certe” Procure innegabilmente politicizzate, col risultato che i migliori uomini impegnati nella lotta alla Mafia e al Terrorismo si sono trovati, come Contrada e Mori, esposti al pubblico ludibrio e messi alla sbarra quando non ristretti nelle galere di quello Stato che sarebbe stato in dovere solo di ringraziarli e di premiarne l’audacia. A Macaluso faceva eco il senatore Compagna sul ruolo giocato da Ciancimino junior in due anni di pubbliche audizioni quasi quotidianamente divulgate con evangelici titoli sensazionali e che lo trasformavano in star televisiva da reality-show, salvo, poi, il sancire da altra procura concorrente l’inidoneità e l’inadeguatezza di questi al ruolo di “collaboratore di giustizia”. Come non sottolineare che ad un comune delinquente era stata posta sul capo l’aureola di “eroe romantico” e che ai Ciancimino, agli Spatuzza, ai Brusca e compagnia, lanciatori di coltello, si offrivano addirittura spade affilate per esercitare il ricatto, volgarmente ostentato quale riscatto. Emblematico il riferimento al micidiale quantitativo di esplosivo rinvenuto nel giardino di casa del finto fesso Ciancimino che… chissà perché, per cosa e da quando lo deteneva… e che solo un mese dopo il suo casuale rinvenimento è stato regolarmente denunciato quale reato, laddove ad un comune mortale non celebre quanto il fighetto in questione, le porte del carcere si sarebbero spalancate per direttissima. Ebbene, ad un soggetto di tal tipo si è consentito, per anni, di infamare ignobilmente, con racconti fantastici persone come il generale Mori, presente anch’egli al convegno e signorilmente premuroso con la non vedente signora Ida, sorella di Bruno Contrada delle cui condizioni si informava, pregandola di portargli un solidale saluto. L’intervento di Compagna non poteva non scivolare sulla necessità di una riforma della Giustizia, sulle dolenti note della separazione delle carriere e dei controversi rapporti tra polizia giudiziaria e magistrati. A quel punto, avremmo voluto urlare la necessità dell’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta sul Pentitificio di Stato e ricordare anche che gli italiani, molti anni fa, con referendum votarono già a favore della responsabilità civile dei magistrati e sull’onda del breve intervento di rito di Maurizio Gasparri in ordine alla necessità di trattare le responsabilità di chi accusa e di chi giudica, tanto noialtri profughi del litorale domitio quanto l’inossidabile senatore Mauro Mellini sussultavamo sulla sedia, pensando al trasferimento, al momento inopportuno, del ministro Alfano dalla Giustizia alla segreteria del partito, con guizzi di riforma congelati sul nascere ed un futuro – eccetto i soliti imprevisti – di soli due anni per consentire al suo successore di realizzare appieno la riforma medesima. Poteva mancare all’illustre consesso che godeva dell’armonia perfetta di quegli illustri uomini di sinistra, di destra… di sopra e di sotto l’inquietante convitato di pietra? L’ex ministro degli Interni, Nicola Mancino, seduto in prima fila, immobile come un animale a sangue freddo nell’autunno avanzato, ascoltava, senza emettere suono, senza battere ciglio… e ripensando, noialtri, alla recente riesumazione del primo patto Stato-Mafia, ripescato dagli annali occulti dell’annus orribilis 1992, un brivido lungo la schiena ci coglieva nonostante l’afa insopportabile della inoltrata primavera romana. Un brivido di paura, sì, al solo pensare – stante le cronache politiche alquanto bizzose; anzi, bislacche – ad una più violenta e perniciosa riedizione di quel fallito golpe sinistro del ’92. Tuttavia, la rassicurante presenza del senatore Milio aleggiava nell’aula, percepibile ancora attraverso l’umiltà e l’eleganza cortese di suo figlio Basilio che serenamente blandiva relatori, ospiti e spettatori, rammentando senza ostentazione il coraggio della dignità messo nelle numerose ed impegnative lotte civili da suo padre, in tempi e su territorio pericolosissimi. Di lui, proprio nel ’92, Giovanni Falcone disse: “L’avvocato Milio fa parte di quella eletta schiera, in verità abbastanza esigua, di avvocati palermitani che sono pronti anche ad addossarsi questo sacrificio e i pericoli non lievi che comporta l’assunzione di certe difese”; Falcone, occorrerebbe sempre ricordarlo, aveva precedentemente gratificato con un encomio scritto anche Bruno Contrada e il risultato dell’equazione è che – certamente – tutti coloro che ora sfruttano ideologicamente la memoria di Falcone (e di Borsellino) sono gli stessi che – in puro stile mafioso – se ne liberarono. Non a caso in “Giustizia assistita” Milio, come su un Golgota ideale, ricompone una trinità di martiri: Falcone, Contrada e Mori… ed il suo libro, pronto da anni ed ostacolato per anni nella debita divulgazione è quantomai attuale. Qualcuno, tra i relatori, faceva anche un rapido accenno alla denuncia fatta a Borsellino, dopo la morte di Falcone, degli intrallazzi tra partecipazioni statali e mafie… ah! se avessimo avuto l’opportunità di intervenire avremmo chiesto ai senatori della Repubblica perché allo sfortunato ex sindacalista UIL della Fincantieri Palermo, Gioacchino Basile, che da anni chiede inutilmente di essere audito dalla Commissione Antimafia, non gli si riconosce un briciolo solo dell’autorevolezza che permea i brutti ceffi “pentiti” nell’immaginario collettivo di certi PM rampanti… La ricca performance volgeva alla fine. Il senatore Gasparri, spariva veloce dietro una porta, per impegni di rango o perché tormentato al pensiero delle domande che leggeva sulle labbra di noialtri cafoni della Silva Gallinaria. Gradevolmente, l’aristocratica e gentile direttrice editoriale della Koiné, Madrilena Lioi e gli altri relatori si attardavano cordialmente con noi, prestandosi anche al rito delle foto-ricordo. Ida Contrada, affetta da cecità, percepiva più intensamente i sentimenti di chi la circondava e rideva felice. Di ritorno al paesello, mi confidava d’essersi divertita molto al pensiero che tutti quei politici importanti s’erano lasciati fotografare con una dei “Contrada”, richiamando alla memoria, sorniona, l’episodio degli scatti fotografici di Di Pietro alla medesima mensa di Bruno Contrada, nella prenatalizia del ’92… e tutto il casino che ne scaturì!... In realtà era felice per aver di nuovo, dopo tanto tanto tempo, sentito dire così bene ed in un contesto così importante, del suo adorato fratello, il generale Bruno Contrada.»
Mario Mori è un generale e prefetto italiano. È stato comandante del ROS e direttore del SISDE.
Quel che pensa davvero del gip che l’ha rinviato a giudizio d’imperio nonostante la richiesta d’archiviazione del pm, l’ormai ex ministro all’Agricoltura, Saverio Romano, lo rende noto nel libro-intervista La Mafia addosso (il Borghese editore). Prima, però, fa una premessa a buon intenditor: dal 1991 al 2000 ho fatto di tutto, dal consigliere provinciale al presidente di banca, ero conosciutissimo e mai è girata una chiacchiera. Dal 2001 sono diventato tre volte deputato e parlamentare europeo. A un certo punto, però, arrivano le «delazioni» del pentito Campanella che - sostiene Romano - si annullano coi riscontri in atti, con alcune sentenze e con le delazioni di un altro pentito di Villabate, Mario Cusimano. «Insomma, fino a settembre dell’anno scorso (2010) ero un parlamentare dell’opposizione. Il 29 settembre ho votato la fiducia e a novembre è stato riesumato il mio caso giudiziario, che ormai era un cadavere nel quale non si poteva che chiedere l’archiviazione». Aver fatto da salvagente al governo Berlusconi - dice - è la causa di tutto. Nel libro Romano non va a caccia di colpevoli, ma riserva critiche al gip che ha proceduto con l’imputazione coatta: «In generale, i magistrati non ce l’hanno con me, ma con Berlusconi. La cosa grave è che qualcuno vorrebbe alimentare lo scandalo nei confronti di questo (ex) governo dopo otto anni di indagine e due richieste di archiviazione del mio caso, rimasto tre anni in un cassetto senza che nessuno se ne curasse più. Un caso ormai chiuso, riesumato da un’ordinanza illogico-deduttiva». Proprio così: illogico-deduttiva. «Un’ordinanza che gli esami di magistratura avrebbe provocato la bocciatura del candidato perché è frutto di personalissime convinzioni, legate a una realtà virtuale, che solo questo giudice è riuscito a partorire». E giù con gli esempi, a cominciare dalle frequentazioni con mafiosi, tipo Guttadauro, «che le carte dei pm dimostrano non esserci mai state (...)». L’unico «persuaso dell’incontro con Guttadauro è il gip, ma solo sulla base di un suo convincimento personale formato su mere illazioni e smentito da tutti gli elementi acquisiti». L’ex ministro non parla di malafede del gip Castiglia. Però non può far a meno di notare che «è stato iscritto ai Verdi e Md, dove non hanno una buona opinione di Berlusconi. Non lo dico io, ma è lui stesso a dirlo. Basta andare su alcuni blog e leggere come si è espresso nei confronti del governo e dei suoi provvedimenti». In un intervento pubblico in materia di intercettazioni, il 10 giugno 2008, su toghe.blogspot.com Castiglia «osanna un post» dove si dice che «il terrore delle intercettazioni è un problema che hanno solo i potenti e i corrotti» e poi che la legge «è la prima vera legge vergogna che riguarda i processi di Berlusconi». In un altro blog, il 15 novembre 2009, il gip loda uno studente che prende di petto l’allora Guardasigilli Alfano («complimenti, complimenti, complimenti») poi sottoscrive un duro «appello per la giustizia civile» di Md contro la riforma dell’ordinamento giudiziario. «Non voglio dimostrare la sua acrimonia verso di me - chiosa Romano - però poi leggo un’altra sua ordinanza su tizio che inequivocabilmente partecipa a un vertice di Cosa nostra, e ne archivia il caso perché partecipare a un summit mafioso non equivale a essere mafioso. Per me, invece, pur non avendo uno straccio di prova di un mio semplice contatto con la mafia, ha chiesto l’imputazione coatta».
Corte di Strasburgo, dopo Contrada adesso spera anche Dell'Utri, scrive “Libero Quotidiano”. Si scrive Contrada ma si legge Dell'Utri. La sentenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo, che ieri ha stabilito l'illegittimità della condanna dell'ex funzionario del Sisde visto che ai tempi (1988) il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non era ancora stato configurato, apre la strada alla revisione della condanna dell'ex senatore di Forza Italia. Scrive infatti il quotidiano Il Giornale che i fatti per cui Dell'Utri è stato condannato in via definitiva per concorso esterno arrivano fino al 1992. Cioè prima di quel 1994 che nell'interpretazione di Strasburgo diventa l'anno chiave per una effettiva definizione del reato, che non è previsto da alcuna legge ma è nasce dall'incrocio delle norme studiate dai magistrati. La Corte europea, in pratica, dice che il concorso esterno si consolidò per effetto di quelle sentenze tra la fine degli anni '80 e il '94. Dunque, non può essere apprilcato retroattivamente per giudicare fatti commessi in precedenza. Per questo, secondo quanto riporta Il Giornale, dovrebbe essere rivista anche la posizione di Dell'Utri per quel che riguarda la nascita di Forza Italia nel '93-'94. L'avvocato Pietro Federico, storico legale di Dell'Utri, si dice "cauto" , ma sottolinea come "le due storie sono in gran parte sovrapponibili, almeno a livello cronologico visto che per Dell'Utri la condanna poggia addirittura su un summit del 1974 tra i vertici di Cosa nostra e il futuro parlamentare. Ebbene - prosegue il legale - nel '74 non solo non era configurato il concorso esterno ma non c'era nemmeno il 416bis che nel nostro codice penale configura l'associazione di stampo mafioso, che è stata introdotta solo nel 1982".
Dell'Utri indagato per ricettazione: gli sequestrano 20 mila libri antichi, scrive Sandro Iacometti su “Libero Quotidiano”. Per una volta invece di ascoltare noiosissime e incomprensibili telefonate gli ufficiali di polizia giudiziaria si sono dati alla lettura. Non si tratta di un corso di aggiornamento professionale, ma di una delicatissima inchiesta stile Dan Brown dove gli inquirenti sono a caccia di manoscritti rubati. Il ladro, manco a dirlo, risponderebbe al nome di Marcello Dell’Utri, che alla lunga lista di accuse (tra cui quella di concorso esterno in associazione mafiosa per cui è stato condannato in via definitiva a sette anni) stilata dai magistrati di mezza Italia da quando, nel 1994, decise di entrare in politica al fianco di Silvio Berlusconi, ora aggiunge anche la ricettazione e l’esportazione illecita all’estero di opere d’arte. I pm di Milano, che coordinano l’inchiesta, sostengono di avere accertato la presenza «di opere asportate, in epoca e con modalità ancora ignote, da biblioteche pubbliche ed ecclesiastiche insistenti sull’intero territorio nazionale». Ancora, però, mancherebbe la pistola fumante. Le indagini partono dal saccheggio della storica biblioteca dei Girolamini di Napoli, dalla quale furono sottratti migliaia di libri, molti dei quali di inestimabile valore. Vicenda che risale al 2012 e nell’ambito della quale sono stati effettuati una decina di arresti, anche oltreconfine. Il sospetto della procura partenopea era che l’allora senatore del Pdl, indagato per concorso in peculato, avesse ottenuto alcuni libri antichi da Massimo De Caro, ex direttore della biblioteca dei Girolamini finito in carcere. Da qui la decisione, presa circa un anno e mezzo fa, del pmdi Milano Luigi Luzi di sequestrare 20mila volumi di Dell’Utri, in parte tenuti nella biblioteca della sua Fondazione, in via Senato, e in parte in un magazzino di deposito, l’Opencare in via Piranesi, e di affidare al Nucleo tutela patrimonio artistico di Monza gli opportuni accertamenti. La procura, che indaga anche sui due responsabili della Sala Campanella della Fondazione in Via Senato, avrebbe chiesto una valutazione meticolosa libro per libro di tutti i 20mila titoli, tra cui ci sarebbero pure i 3mila volumi della collezione privata di Dell’Utri. Sembra, però, che dalle attente e scrupolose letture dei carabinieri non sia ancora emerso alcun nesso tra i volumi dell’ex manager di Publitalia, attualmente detenuto a Parma dopo l’estradizione dal Libano, e il materiale trafugato alla Girolamini. Il lavoro del Nucleo operativo di Monza non si è comunque ancora concluso. Alla fine degli accertamenti letterari i carabinieri consegneranno una relazione al pm Luzi da cui potrebbe risultare l’eventuale provenienza illecita di alcuni libri. Anche in quel caso, però, l’incriminazione non sarà automatica. L’autorità giudiziaria dovrà dimostrare l’elemento soggettivo del reato di ricettazione. Ovvero che i libri non siano stati regalati a Dell’Utri e che lui fosse a conoscenza dell’origine irregolare degli stessi. Cosa già avvenuta nell’inchiesta napoletana, dove l’ex senatore, la cui posizione è stata stralciata, ha precisato di aver avuto alcuni volumi in dono e li ha restituiti. All’appello mancava, però, un’edizione cinquecentesca dell’Utopia di Tommaso Moro. Che Dell’Utri disse di aver perso e che i pm, a quanto pare, sembrano ora convinti di poter ritrovare in un pagliaio di 20mila libri.
Dell'Utri e la balla dei libri rubati. L'ex senatore, in carcere a Parma, viene accusato dai mass media di avere "ricettato decine di migliaia di libri antichi". Ma non è vero, scrive Maurizio Tortorella su "Panorama". Ancor più che nel salto sul carro del vincitore, uno sport nel quale eccellono a livello mondiale, gli italiani sono campioni olimpionici nel tiro allo sconfitto. Prendiamo Marcello Dell’Utri: già senatore di Forza Italia e del Pdl, dal 13 giugno 2014 Dell’Utri è recluso nel carcere di Parma a causa di una controversa condanna definitiva a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa. L’uomo è atterrato, vinto. Anche se negli anni Novanta ha già dato prova di una grande tempra, durante una lunga custodia cautelare nel carcere di Torino, dove aveva trascorso il tempo leggendo I pensieri di Sant’Agostino. Per qualche tempo sui giornali si scrive del disagio del condannato per la sua impossibilità di tenere più di un libro per volta in cella: del resto, la passione di bibliofilo dell’ex numero uno di Publitalia è nota. Poi su di lui cala il silenzio. Ma la gogna non può accontentarsi, deve insistere. E allora che cosa accade, improvvisamente, il 31 marzo scorso? Accade che su più giornali, contemporaneamente, escono articoli nei quali si racconta che Dell’Utri è nuovamente nei guai. E che guai. Titoli e articoli sono a dir poco disastrosi, e non solo perché lo colpiscono nella sua grande passione: “Indagine su Dell’Utri per ricettazione: 10 mila libri da chiese e biblioteche” scrive il Corriere della Sera. Aggiunge il Fatto quotidiano: “L’ex senatore è accusato di ricettazione e di esportazione illecita di opere d’arte che per gli inquirenti valgono milioni di euro”. La Repubblica insiste: “Volumi stimati milioni di euro trafugati a enti pubblici e religiosi”. “Sequestrati a Dell’Utri 20 mila libri antichi rubati da biblioteche”, spara il Messaggero. Nessuno si sottrae all’attacco. Si parla di una rete di complici, attiva nella fornitura di libri rubati. Emerge la figura di un Dell'Utri, se possibile, ancor più abominevole di quella che lo vuole "amico dei mafiosi": espone un potente e ricco razziatore di chiese e di biblioteche, alla continua ricerca di libri antichi e ovviamente preziosissimi. Così che anche un'altra tra le caratteristiche positive dell'uomo, la sua cultura e l'amore per la pagina scritta, venga devastata. A nulla serve che Giuseppe Di Peri, l'avvocato che di Dell'Utri è lo storico difensore, controbatta quello stesso giorno con un comunicato stampa nel quale ricorda che “l’indagine è partita dalla Procura di Napoli nei confronti di Massimo De Caro”, già direttore della biblioteca nazionale dei Girolamini, a Napoli, e accusato di avervi sottratto numerosi libri, e aggiunge che Dell’Utri in realtà "ha collaborato con l’autorità giudiziaria mettendo spontaneamente a disposizione e consegnando tutti i volumi ricevuti in dono da De Caro”. Dal comunicato si capisce inoltre che il sequestro non è un fatto nuovo, né pertanto una notizia, perché in realtà risale al 12 aprile 2014. E a nulla probabilmente servirà il comunicato inviato oggi dallo stesso Dell'Utri in cui si dice che "Ancora una volta, partendo da notizie su indagini in corso, è stata posta in essere una campagna denigratoria e diffamatoria a mio danno. Sulla base di mere supposizioni investigative sono stato indicato come un ricettatore e un ladro, al cui confronto impallidisce la mitica figura di Guglielmo Libri. Quest’accusa è per me inaccettabile e mi ferisce più della stessa detenzione. Ho acquisito e raccolto uno per uno i volumi attraverso librerie antiquarie italiane ed internazionali, aste, mostre, bancarelle e privati collezionisti in un arco di tempo di oltre quarant’anni. E se anche, quindi, su decine di migliaia di testi si dovesse rinvenire qualche volume di cui è sospettabile la provenienza, sarebbe assurdo ritenermene responsabile. A testimonianza della mia buona fede, basta considerare che i libri in questione sono stati dettagliatamente descritti, catalogati e messi a disposizione del pubblico nella biblioteca milanese di Via Senato; pubblicati nel bollettino mensile della stessa ed esposti in numerose mostre tematiche. Ciò a riprova del fatto che mai ho dubitato della origine lecita degli stessi. La diffusione delle infamanti notizie mi ha colto nell’impossibilità di rispondere tempestivamente, data la condizione di prigioniero, limitativa della mia possibilità di difesa. Per quanto detto, e viste la superficialità e la scorrettezza con cui i “media” – e chi li ha informati – hanno trattato la vicenda, intendo rivolgermi all’Autorità Giudiziaria per ristabilire la verità dei fatti a tutela della mia dignità". Tutto, è inoltre avvenuto dopo che Dell'Utri ha catalogato ed esposto al pubblico i suoi libri nei locali della biblioteca di via Senato, a Milano. Se mai l'ex senatore avesse avuto la certezza che alcuni di quei volumi erano frutto di un furto, di certo non si sarebbe esposto a quel rischio. Aggiunge Di Peri: "Il sequestro è servito solo a consentire l'esame dei volumi in un luogo diverso rispetto a quello dove erano custoditi,tenuto conto sia del loro numero, sia del tempo necessario per il loro esame". Per di più, il legale spiega che i libri "sospetti" non sono 10 o 20 mila, ma sono pochi, alcune unità. E quindi se anche su decine di migliaia di testi si dovesse sospettare della legittima provenienza di qualche volume, sarebbe assurdo ritenerne in qualche modo responsabile l'ex senatore. Tutt'al più potrebbe trattarsi di un "incauto acquisto". Conclude il penalista: "Ipotizzare, come hanno fatto alcuni media, che vi sia una rete di complici in grado di fornire illegalmente volumi antichi e preziosi a Dell'Utri è una congettura, neppure suffragata dall'esito di indagini". Tutte balle, insomma, Ma intanto la gogna , ancora una volta, ha colpito nel segno.
Tre ore di camera di consiglio poi il verdetto: la Cassazione ha annullato con rinvio la sentenza d'appello di condanna a sette anni di reclusione per il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa. Il processo di secondo grado dovrà essere rifatto a Palermo davanti ad altri giudici. La conclusione era già apparsa probabile durante l'udienza. Perché anche il sostituto procuratore generale presso la Cassazione Francesco Iacoviello aveva chiesto l'annullamento con rinvio o in alternativa che la vicenda fosse trattata dalle sezioni unite penali. Il procuratore Iacoviello ha parlato di «gravi lacune» giuridiche della sentenza d'appello per mancanza di motivazione e mancanza di specificazione della condotta contestata a Dell'Utri, che a suo avviso deve essere chiarita. Il pg inoltre ha voluto dare atto alla V sezione della Cassazione di essere di «grandissimo e indiscusso profilo professionale». Rispondendo in modo esplicito alle critiche di quanti avevano indicato il presidente Aldo Grassi come un fedelissimo di Corrado Carnevale detto «ammazzasentenze». «Nessun imputato deve avere più diritti degli altri ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri: e nel caso di Dell'Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio». Ha aggiunto Iacoviello nella sua requisitoria. E ancora a suo dire «l'accusa non viene descritta, il dolo non è provato, precedenti giurisprudenziali non ce ne sono e non viene mai citata la sentenza 'Mannino della Cassazione, che è un punto di riferimento imprescindibile in processi del genere». Per questo ha chiesto l'inammissibilità del ricorso della procura di Palermo che aveva chiesto addirittura un inasprimento della pena. «Il concorso esterno è ormai diventato un reato autonomo, un reato indefinito al quale, ormai, non ci crede più nessuno! - da detto inoltre Iacoviello rivolto ai giudici- Spetta a voi il compito di smentirmi».
Secondo Marco Ventura su “Panorama” In Italia non c’è Stato di diritto. Un Paese nel quale un cittadino accusato di un reato gravissimo come il concorso esterno in associazione mafiosa deve attendere 17 anni solo per sentirsi dire che il processo va rifatto, che bisogna ripartire da zero, è un Paese ingiusto, incivile, inaffidabile. Uno Stato incapace di garantire la giustizia in tempi ragionevoli appartiene alla fascia dei sistemi non democratici, quelli che finiscono a ragione nella lista nera della violazione dei diritti fondamentali. Nel girone del Terzo mondo. Un Paese che non sa dare garanzie alle vittime né agli imputati non può avere l’ambizione di figurare degnamente in Europa. Tempi della giustizia dilatati fino al paradosso attraversano la vita delle persone (siano vittime o presunti innocenti) devastandole e accompagnandole verso la depressione e la morte.
L’Italia è un Paese che non ha rispetto per se stesso: nega la giustizia alle vittime non riuscendo a riconoscere un colpevole e punirlo, ma anche agli imputati perché non garantisce in tutte le fasi il diritto alla difesa e il rispetto equilibrato delle regole. E non si dica che l’Italia è così garantista che alla fine la Cassazione ha tirato un colpo di spugna. Se ci sono voluti 17 anni per questo, la giustizia ha comunque fallito.
Oggi il presunto innocente si chiama Marcello Dell’Utri. Le indagini su di lui sono cominciate nel 1994. Nell’ottobre 1996 il rinvio a giudizio. L’11 dicembre 2004, sette anni dopo, la prima condanna. A 9 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici (per un parlamentare che ha dato un contributo fondamentale alla nascita del primo partito italiano). In appello la condanna viene confermata, ma gli anni di carcere ridotti a sette. E sette anni dopo la prima condanna, la quinta sezione penale della Corte di Cassazione annulla con rinvio la sentenza d’appello. Tutto da rifare.
Il Procuratore generale dell’Alta Corte, Francesco Iacoviello (l’accusa, non la difesa), ha sostenuto che “nessun imputato deve avere più diritti degli altri, ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri: e nel caso di Dell’Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio”. E ancora: “Non si fanno così i processi, si devono descrivere i fatti in concreto”.
Argomentazioni accolte dalla sezione della Cassazione presieduta da Aldo Grassi. La difesa di Dell’Utri aveva indicato da parte sua ben 20 motivi di nullità del verdetto d’appello. Ma lo scandalo vero sono i tempi, soprattutto se valutati in proporzione a quello che agli occhi di molti appare come un vero e proprio accanimento. Che non produce, alla fine, condanne. Ma la loro cancellazione. La stessa economia italiana soffre oggi non tanto degli effetti dell’articolo 18, ma di quelli di una giustizia negata e davvero troppo lenta. Gli investitori non torneranno in Italia, se non potranno contare su un sistema giudiziario che abbia regole certe e tempi ragionevoli.
Una giustizia rapida ed efficiente è notoriamente uno dei pilastri della competitività. La sentenza di Dell’Utri prova una volta di più che l’Italia non è civile, né competitiva. E che l’amministrazione fallimentare della giustizia, indipendentemente da una singola sentenza, a fronte dello strapotere di un nucleo di intoccabili protetti dalla loro casta/corporazione, è la tragica cartina di tornasole di un Paese incapace di crescere. In giustizia, democrazia e forza economica.
Il resoconto di “Libero quotidiano”. Una storia lunga e complicata, dal 1994 al 2012. Sedici anni di accuse, di condanne, per poi scoprire che è tutto da rifare. E' il calvario giudiziario di Marcello Dell'Utri, bibliofilo, grande organizzatore politico, senatore Pdl e braccio destro di Silvio Berlusconi, di cui ha condiviso avventure e disavventure. E parallelamente al quale è passato dalle forche caudine della magistratura italiana. Il procuratore generale Iacoviello lo ha definito un "perseguitato" perché la condanna in Appello a 7 anni per concorso esterno in associazione mafiosa non era supportata da prove concrete. La Cassazione lo ha confermato: l'Appello deve ripartire da zero. A Dell'Utri non è mai mancata l'autoironia. Lui stesso spiegava di essere "un politico per legittima difesa". Palermitano, del '41, Dell’Utri dal '61 è a Milano e lì conosce Berlusconi, del quale diventa via via sempre più stretto collaboratore. La transazione sulla tenuta e la presenza di Vittorio Mangano legano a Dell'Utri l'ormai famosa casa di Arcore, quartier generale di Berlusconi, e la figura dello 'stalliere' considerato vicino alla mafia. La vicenda esploderà più avanti. Prima, nell'82, è presidente e ad di Publitalia, la concessionaria di pubblicità Fininvest, gruppo del quale diventa ad nell'84. Nel '93 l'ingresso in politica, con la discesa in campo di Berlusconi, ed è per unanime riconoscimento che la mente organizzativa dell’operazione Forza Italia sia proprio Dell’Utri. Escogita per primo l'uso dei manifesti 6x3 che faranno la fortuna delle campagne elettorali del Cavaliere. L'esordio quando ancora Forza Italia non esiste e Tangentopoli infuria. "Fozza Itaia", dicono una serie di bambini con le mani alzate in segno di vittoria. E' l'annuncio della discesa in campo e del successo del 27 marzo 1994. Berlusconi se lo porta in parlamento e lo elogia in pubblico. Vicende parallele, quelle di Dell'Utri e Berlusconi. E, caso della sorte, nel giro di poche settimane entrambi sono usciti dall'incubo delle toghe. Prima Berlusconi prosciolto per prescrizione dall'accusa di corruzione al processo milanese incentrato sulla figura dell'avvocato inglese David Mills. Ora, in Sicilia, Dell'Utri e il suo diritto riconosciuto ad un processo più equo, con prove provate. Vince il garantismo, perdono i pm contro Berlusconi e i suoi uomini, anche a costo di ignorare l'evidenza.
Marcello Dell’Utri non è un mafioso. Lo sfogo de "Il Giornale". La sentenza di condanna a 7 anni di galera è annullata. Via a un nuovo processo. Perché tutto è sbagliato, e dunque, tutto è da rifare. Di fronte agli obbrobri investigativi e alle carenze processuali la Quinta sezione penale della Cassazione dispone un altro processo per il senatore del Pdl. Poco dopo le 20 del 9 marzo 2012 i giudici con l’ermellino annullano con rinvio la sentenza di due anni prima accogliendo il ricorso della difesa sull’onda di una clamorosa requisitoria del procuratore generale che ha fatto letteralmente a pezzi anni di antimafia col paraocchi, senza prove, con meno diritti agli imputati e più credibilità per i pentiti. Ai giacobini in servizio permanente effettivo era già venuto un colpo ascoltando, nel pomeriggio, le parole di Francesco Iacoviello, che no, non è il presidente della Corte Aldo Grassi, additato carinamente nei giorni scorsi come l’amico dell’ex giudice «ammazza-sentenze» Corrado Carnevale con in più qualche vecchio problemino giudiziario (poi superato). Il pg Iacoviello aveva spiazzato i presenti chiedendo un nuovo processo d’appello o in subordine che se ne occupasse la Cassazione a Sezioni riunite. Nel sollecitarlo definiva inammissibile il ricorso della procura di Palermo (che chiedeva una pena maggiore rispetto ai 7 anni inflitti in appello) e a proposito della sentenza di condanna, oltre a gravissime lacune, evidenziava come apparisse poco motivata perché non precisava il «contributo specifico dato dal senatore al sistema mafioso». Per il procuratore Iacoviello, considerato una sorte di «faro giurisprudenziale» della Suprema Corte, il processo non solo non ha fornito uno straccio di prova sulla colpevolezza dell’imputato ma ha consacrato la violazione, palese, dei diritti di Dell’Utri: «Nessun imputato deve avere più diritti degli altri ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri: e nel caso di Dell’Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio». E questo è solo l’antipasto: «Al processo per concorso esterno - continua - l’accusa non viene descritta, il dolo non è provato, precedenti giurisprudenziali non ce ne sono e non viene mai citata la sentenza “Mannino” della Cassazione, che è un punto di riferimento imprescindibile in processi del genere» perché mette paletti certi alla contestazione del reato. Di più: «La sentenza impugnata - insiste il Pg - sostiene l’esistenza del reato di concorso esterno in associazione semplice fino al 1982, poi parla di concorso esterno in associazione mafiosa fino al ’92. Nessuno ha mai sostenuto una tesi del genere, e voi, giudici della Corte, sareste i primi». E poi giù mazzate sul concorso esterno mafioso «che è diventato un reato autonomo in cui nessuno crede. Io ne faccio una questione non a favore dell’imputato, ma a favore del diritto». Descrivere il senatore siciliano come il «referente o il terminale politico della mafia», non significa nulla per Iacoviello: «Non si fanno così i processi, si devono descrivere i fatti in concreto». Sempre lui critica l’appiattimento delle toghe sulle dichiarazioni dei pentiti non corroborate da riscontri, e già che c’è se la prende col collaboratore Di Carlo a proposito del fantasmagorico incontro fra il boss Bontade e Berlusconi. Chiede inoltre alla Corte di mettere per sempre la parola fine a indagini basate su «referenti» e «terminali». Se alla sentenza su Dell’Utri «togliamo tutte le frequentazioni e le conoscenze, non rimane niente, e la Cassazione, con la sentenza Mannino ha detto che queste cose sono irrilevanti (...) Vi invito a rileggere la sentenza Mannino nella quale le frequentazioni di persone mafiose o contigue ai clan sono molte di più di quelle che ricorrono nella vicenda di Dell’Utri, e vi esorto a ricordare che le Sezioni Unite della Suprema Corte hanno fatto piazza pulita dell’importanza attribuita dai giudici di merito a questi elementi». Alla lettura della sentenza esulta la difesa con gli avvocati Krogh, Federico e Di Peri che sin lì aveva parlato di «sentenze acrobatiche» su fatti mai commessi. La prescrizione non scatterà prima del 30 giugno 2014 «ma non è tra i nostri obiettivi» assicura Di Peri. Dell’Utri vuole giustizia. L’ha avuta alla faccia dei professionisti dell’antimafia. Lassù, ne siamo certi, pure Sciascia è contento.
''La sentenza della Corte di Cassazione sul senatore Dell'Utri riveste una grandissima importanza per molteplici ragioni. In primo luogo essa ha evidentemente condiviso le osservazioni del sostituto procuratore generale Iacoviello a proposito di indagini superficiali nelle quali 'l'accusa non viene descritta, il dolo non e' provato'. In secondo luogo, essa ha contestato alla radice questo falso reato del concorso esterno in associazione mafiosa che ha dato una incredibile discrezionalità a magistrati giudicanti e a pubblici ministeri faziosi di fare il bello e cattivo tempo''. E' quanto afferma Fabrizio Cicchitto, presidente dei deputati del Pdl, che aggiunge: ''In terzo luogo, essa mette in evidenza che la Procura di Palermo è un serio problema perchè è il luogo giudiziario dove a occuparsi dei più delicati rapporti fra la mafia e la politica sono dei militanti politici che ostentano il loro impegno politico a tempo pieno. In quarto luogo però, come è stato già rilevato dal senatore Quagliariello, essa impedisce a magistrati e a giornalisti faziosi di riscrivere la storia di questo Paese a loro piacimento, magari utilizzando un falso pentito come Ciancimino jr''.
In questa diatriba non può mancare l’intervista rilasciata da Ingroia a “La Repubblica” che spiega a suo modo in che mani il povero cristo potrebbe andare a parare. "Ho la sensazione che l'ultima sentenza della Corte di Cassazione su Marcello Dell'Utri e il dibattito che strumentalmente ne sta scaturendo rientrino in quel processo di continua demolizione della cultura della giurisdizione e della prova che erano del pool di Falcone e Borsellino". Non usa mezzi termini Antonio Ingroia, il procuratore aggiunto di Palermo che fu tra i pubblici ministeri del primo processo al senatore Dell'Utri. Questo a Repubblica.it è il suo primo commento ufficiale sulla decisione della Cassazione che venerdì sera del 9 marzo 2012 ha annullato la condanna per il parlamentare Pdl e ha disposto un nuovo processo d'appello.
Il migliore avvocato del senatore Dell'Utri sembra essere stato il procuratore generale, che ha criticato il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Come commenta la ricostruzione di Iacoviello?
«A tutti quelli che cantano vittoria come se fosse stata dichiarata l'innocenza di Dell'Utri, dico: non è affatto così. I giudici hanno deciso infatti per un annullamento con rinvio della sentenza d'appello. Solo un annullamento senza rinvio sarebbe equivalso a un riconoscimento di non colpevolezza dell'imputato. Attendiamo comunque di leggere le motivazioni. Per quanto riguarda il procuratore generale, ho letto le sue conclusioni. Lui stesso dice che chiedere l'annullamento con rinvio non significa che l'imputato sia innocente. Significa solo che la motivazione della sentenza d'appello è viziata ed è illogica. E per la verità lo sosteneva anche il pubblico ministero, che aveva fatto ricorso. Le illogicità di quella motivazione riguardavano soprattutto l'assoluzione di Dell'Utri dopo il 1992».
Il procuratore generale ha espresso però pesanti perplessità sul reato di concorso esterno contestato a Dell'Utri.
«Curioso che l'abbia detto, ed è anche incoerente con le sue conclusioni. E' la stessa Cassazione a credere al concorso esterno, visto che più volte a sezioni unite, sia con la sentenza Carnevale che con la sentenza Mannino, ha ribadito la configurabilità di questo reato e ha fissato i presupposti per l'applicazione. Sarebbe triste che proprio nel ventennale della strage Falcone e Borsellino si debba mettere una pietra tombale su una delle più importanti e innovative idee giurisprudenziali che proprio Falcone e Borsellino hanno fondato».
Vogliamo spiegare in quali occasioni Falcone e Borsellino parlarono del concorso esterno?
«Nella sentenza ordinanza del maxiprocesso ter ci sono delle frasi chiarissime. Falcone e Borsellino scrivono che la figura del concorso esterno è la figura più idonea per colpire l'area grigia della cosiddetta contiguità mafiosa. Dunque, il concorso esterno non è un'invenzione della Procura di Palermo, è un insegnamento di Falcone e Borsellino su cui si è continuato a lavorare in questi vent'anni, producendo sentenze di condanna definitive, piccole e grandi. Ora, che si voglia con un colpo di spugna tornare indietro mi pare davvero enorme».
Si aspettava questa decisione della Cassazione?
«Non posso dirmi sorpreso, conoscendo la cultura della prova dimostrata dal presidente Grassi. E' una decisione coerente con la sua impostazione di sempre. C'è chi ha avuto come maestri Corrado Carnevale, chi invece Falcone e Borsellino. E mi sembra pure normale che all'interno della magistratura convivano culture della giurisdizione e della prova diverse. Insomma, c'è una dialettica in corso. Però, sono preoccupato».
Perché?
«La mia sensazione è che questa sentenza e poi il dibattito che strumentalmente ne è scaturito possano rientrare in quel processo di continua demolizione della cultura della giurisdizione e della prova che fu del pool di Falcone e Borsellino. E' triste che ciò avvenga nel ventennale della loro morte, e soprattutto in un periodo così delicato in cui si scoprono e si confermano delle coperture e dei depistaggi che a lungo hanno impedito l'accertamento della verità su quelle stragi vent'anni fa».
Si farà dunque un nuovo processo a Marcello Dell'Utri. Pensa che le accuse reggeranno ancora?
«Mi spiace che il procuratore generale abbia liquidato l'impianto probatorio nei confronti di Dell'Utri come un insieme di amicizie e frequentazioni, come se la contestazione principale a Dell'Utri fosse di essere stato amico di mafiosi. Basta conoscere il processo per trovare una miriade di fatti specifici e di contributi concreti che Dell'Utri ha portato negli anni al consolidamento e al potenziamento di Cosa nostra».
Il procuratore generale ha parlato anche di violazione dei diritti dell'imputato.
«Mi pare davvero paradossale che si voglia ergere Dell'Utri a vittima di violazioni di diritti o chissà che, quando tutti i diritti di garanzia dell'imputato Dell'Utri sono stati rispettati. Questo è stato un processo pieno di prove e fatti specifici. In assoluto, uno dei processi per concorso esterno con più prove rispetto a quelli che si sono fatti in questi ultimi vent'anni».
Secondo “Il Giornale” Iacoviello, la toga rossa, fa infuriare i forcaioli.
Il giudice indipendente ha ottenuto l’annullamento del processo al senatore Pdl. Da magistrato modello è diventato il nuovo nemico di sinistra e giustizialisti.
Libertà di pensiero, correttezza, preparazione: secondo i suoi colleghi sono queste qualità che fanno di Francesco Iacoviello un «grande» magistrato. Il sostituto procuratore generale della Cassazione che ha chiesto e ottenuto dai supremi giudici l’annullamento del processo Dell’Utri è una delle toghe più stimate. Per la sua indipendenza di giudizio, prima ancora che per i suoi studi e le sue battaglie in difesa dei diritti dell’uomo e delle regole del «giusto processo». Non può certo essere sospettato di favoritismi politici, perché viene da una militanza nelle fila del «Movimento per la giustizia» e quattro anni prima fu candidato senza successo da «Area», la lista che riunisce le due correnti di sinistra, al Consiglio direttivo della Cassazione (l’organismo di autogoverno dei magistrati della Suprema Corte). Oggi che è diventato scomodo per la sinistra, liquidando 15 anni di inchieste e di giudizi e ottenendo un nuovo processo d’Appello per Marcello dell’Utri, è diventato un bersaglio.
Il Fatto lo critica aspramente, definendolo «estroso» per le sue posizioni personali, il «Pg smonta-prove» che mina la lotta alla mafia. In tanti agitano contro di lui il fantasma di Giovanni Falcone, che ideò il concorso esterno in associazione mafiosa, definito da Iacoviello «un reato autonomo, indefinito, al quale non crede più nessuno». E Nando Dalla Chiesa parla di «una vendetta postuma» nei confronti del magistrato ucciso dalla mafia. Il leader di Magistratura Democratica, Piergiorgio Morosini, definisce «sorprendenti» le parole del Pg sul concorso esterno: «Ci credono tre sentenze delle Sezioni unite della Cassazione e molti procedimenti si basano su questo istituto».
Ma solo 15 giorni prima, al Csm, era tutto un peana su di lui. Dalla Terza Commissione è arrivata in plenum la proposta appoggiata da molti di sceglierlo come rappresentante della Procura generale della Cassazione nel «Comitato dei saggi» che deve valutare la professionalità, le capacità scientifiche e di interpretazione delle norme dei nuovi magistrati che vogliono accedere alla Suprema Corte. Togati delle diverse correnti, laici di centrodestra e centrosinistra, per una volta hanno concordato sulle qualità di equilibrio e preparazione di Iacoviello. «È senza alcuna ombra di dubbio - disse allora all’assemblea il procuratore generale Vitaliano Esposito - uno dei migliori magistrati che ho conosciuto nella mia lunga carriera». Una frase condivisa a larghissima maggioranza. La proposta è passata e il 15 marzo 2012 Iacoviello sarà a Palazzo de’ Marescialli per la prima riunione della Commissione tecnica (composta da 3 toghe, un avvocato e un docente universitario) che incontrerà la Terza Commissione del Csm per avviare i lavori. Meno di 60 anni, nato a Giugliano di Campania, per anni sostituto procuratore a Ravenna, moglie consigliere di Cassazione nel settore civile e due figlie, giovanile e sportivo, di Iacoviello raccontano che per rilassarsi e tenersi in forma ama fare footing appena può. Di processi delicati e controversi nella sua carriera ne ha seguiti molti. E ogni volta si è attirato lodi e critiche, ma sempre accompagnate dal riconoscimento della sua statura professionale. Iacoviello è quello che ha ottenuto l’annullamento delle condanne del giudice Renato Squillante nel processo Imi-Sir e del capo della polizia Gianni De Gennaro per la vicenda della scuola Diaz al G8 di Genova. È quello che ha voluto la conferma dell’assoluzione di Calogero Mannino e ha bocciato il ricorso dei magistrati di Milano contro il proscioglimento di Silvio Berlusconi per il Lodo Mondadori. Convinto della mancanza di prove sui rapporti tra Giulio Andreotti e la mafia, ha chiesto la conferma dell’assoluzione con prescrizione per i fatti ante 1980 e ha bollato come «indagine sociologica» la sentenza della Corte d’appello. Posizioni in cui si può seguire il filo logico di una coerenza non minata da pregiudizi ma fondata su solide convinzioni. Un filo che spiega la sua posizione anche nel caso Dell’Utri. Uomo di cultura dai molti interessi, Iacoviello è anche professore all’Università di Cassino, relatore di conferenze e convegni, autore di molte pubblicazioni scientifiche di alto livello e studioso soprattutto di procedura penale e delle regole del «giusto processo». La sua passione sono i diritti umani e l’approfondimento di tutti gli aspetti giuridici che li riguardano. Infatti, segue in modo particolare la Corte europea di Strasburgo e ha pubblicato degli studi sulla sua giurisprudenza. «Nessun imputato - ha detto nella sua requisitoria in Cassazione - deve avere più diritti degli altri ma nessun imputato deve avere meno diritti degli altri e nel caso di dell’Utri non è stato rispettato nemmeno il principio del ragionevole dubbio».
Già. Si spera che questo assioma valga per tutti, anche per i poveri cristi, che non si chiamino Dell'Utri. Questo valga per tutti, anche per coloro i quali non hanno le loro mogli colleghe in magistratura.
Da Andreotti a Berlusconi i 101 politici nel tritacarne per il reato che non c’è. Ecco l’elenco stilato da Gian Marco Chiocci e Simone Di Meo su “Il Giornale”. Il «virus giudiziario» creato in laboratorio ne ha fatti di danni. Nell’ultimo quarto di secolo, il concorso esterno in associazione mafiosa, un reato che «non esiste» (Giuliano Pisapia, novembre 1996), è servito solo a stroncare carriere e isolare uomini politici (Emanuele Macaluso, giugno 2000). Percentualmente più nel centrodestra, ma anche a sinistra non mancano casi eclatanti. Quelli censiti sono 101, ma la lista è interminabile.Tra i big Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri, Calogero Mannino, Antonio Gava (pure risarcito per ingiusta detenzione), Carmelo Conte, Nicola Cosentino, Corrado Carnevale, Bruno Contrada, Mario Mori e decine e decine di altri sono passati per le forche caudine di una legge «bastarda» da cui sembra quasi impossibile sfuggire. E dentro ci sono caduti tutti: politici, giudici, magistrati, prefetti, sbirri. Qualche esempio: oltre al Cavaliere c’è la nota vicenda del Divo Giulio a cui è andata pure peggio: a processo addirittura per associazione mafiosa, dopo l’iniziale contestazione di concorrente esterno. Com’è finita, lo sanno tutti. Un altro dc: Calogero Mannino. Sbattuto in galera e, dopo un tira e molla tra appello e Cassazione, arriva la sentenza che lo scagiona. Un verdetto che fa scuola sul tema dei rapporti tra politica e mafia. Totò Cuffaro è invece in galera per favoreggiamento aggravato, dopo una condanna a sette anni, anche se l’iniziale accusa di concorso esterno è caduta. E don Antonio Gava? Dopo 12 anni di processi, i giudici ammettono: i pentiti Alfieri e Galasso hanno detto il falso. Idem per Carmelo Conte, ex potente ministro socialista delle Aree urbane. Il suo compagno di partito, Giuseppe Demitry, ex sottosegretario negli anni Ottanta e Novanta, s’è visto annullare senza rinvio la condanna dalla Cassazione solo nel 2003. Incappati incidentalmente nel concorso esterno anche l’ex senatore Pietro Fuda e Nino Strano. La lista delle assoluzioni e dei proscioglimenti è infinita: l’ex sottosegretario Santino Pagano, l’ex leader del Garofano Giacomo Mancini, l’ex presidente della Calabria Agazio Loiero, l’ex europarlamentare Francesco Musotto, Pino Giammarinaro, David Costa, Filiberto Scalone, Gaspare Giudice, l’ex sottosegretario alla Giustizia Salvatore Frasca, Sisinio Zito, Paolo Del Mese, l’ex sindaco di Pignataro Maggiore Giorgio Magliocca, il senatore Pdl Sergio De Gregorio, gli ex deputati regionali siciliani Nino Dina, Salvatore Cintola, Nino Amendolia, l’ex vicepresidente della Sicilia Bartolo Pellegrino. Peggio è andata al defunto ex senatore Francesco Patriarca (9 anni), a Gianfranco Occhipinti (4 anni), a Franz Gorgone (7 anni, è in carcere), a Giancarlo Cito (4 anni), a Roberto Conte (4 anni) e a Vincenzo Inzerillo (5 anni e 4 mesi) e tantissimi altri consiglieri comunali, provinciali, regionali. Posti in piedi nell’affollato limbo dove si aggirano quelli ancora indagati: si va dall’ex ministro Saverio Romano all’ex sottosegretario Nicola Cosentino, al governatore della Sicilia Raffaele Lombardo (con fratello), al senatore Antonio D’Alì (caso folle, più unico che raro: dopo ben due richieste di archiviazione i pm hanno cambiato idea, chiedendo il rinvio a giudizio!), all’avvocato Nino Mormino (storico difensore di Marcello Dell’Utri, già archiviato nel 1995), all’ex assessore comunale di Palermo Mimmo Miceli (che attende un nuovo processo d’Appello). Che dire, poi, del presidente del Senato Renato Schifani indagato secondo il settimanale l’Espresso ma non per la procura di Palermo che ha smentito l’iscrizione sul registro degli indagati. E, nel mare magnum del reato che non esiste, finirono nel 1994 pure Vittorio Sgarbi e Tiziana Maiolo – all’epoca deputati – prosciolti in un’inchiesta partita dalle sballate dichiarazioni del pentito ’ndranghetista Franco Pino. A finire nel tritacarne, molto spesso, sono state anche le toghe: di Corrado Carnevale si sa di tutto e di più. Il giudice ammazza-sentenze s’è ripreso la sua personale rivincita dopo un decennio di fango. Ma chi ricorda Ciro Demma, Giuseppe Prinzivalli, Pasquale Barreca, Carlo Aiello, Mario Pappa, Giacomo Foti, Antonio Pelaggi, Giovanni Lembo? Tutta gente indagata e, in alcuni casi, finanche arrestata per concorso esterno. Pure il pm di Brescia Fabio Salamone, l’anti-Di Pietro, si ritrovò tra le mani un avviso di garanzia per lo stesso genere di accuse. E che dire degli sbirri e dei carabinieri che, dopo aver lottato contro la Piovra, come ricompensa si sono ritrovati alla sbarra? La bastonata più dura è andata a un poliziotto esemplare come Bruno Contrada in tandem con quel galantuomo di vicequestore di Ignazio D’Antone. Condannato il primo sulla base delle parole (mai, dicasi mai, riscontrate) dei pentiti, detenuto a lungo il secondo a Santa Maria Capua Vetere. Ci sono poi Mario Mori e l’ex capo del Ros Antonio Subranni. Ai tempi fu processato e assolto il tenente Carmelo Canale, collaboratore di Borsellino, cognato del maresciallo Lombardo morto suicida per le vigliacche e false insinuazioni sul suo conto mentre stava per riportare in Italia il boss Badalamenti. Le eccellenze dell’Arma dei carabinieri sotto processo come i mafiosi cui davano la caccia. E tutto per un reato autonomo, a cui non crede più nessuno (pg Francesco Iacoviello, marzo 2011). Va detto che il concorso esterno è stato contestato anche a Massimo Ciancimino, figlio di Vito, l’ex sindaco mafioso di Palermo jr. Il che è tutto dire. Il Pm “partigiano” di Palermo, Antonio Ingroia a citato Falcone e Borsellino per esternare la sua disapprovazione alla sentenza “Dell’Utri”. Vediamo come stanno veramente le cose. Il reato di cui è accusato Dell’Utri è da anni al centro delle polemiche per colpa di pentiti strumentalizzati, testimonianze dubbie, prove ambigue. In realtà, il codice penale prevede soltanto il reato di «associazione mafiosa» all’articolo 416 bis, introdotto nel 1982. Ma dalla fine degli anni Ottanta «l’associazione esterna» è una consuetudine nei processi e una specie d’intoccabile reliquia, proprio perché è considerata un’invenzione di Falcone.
Effettivamente fu lui, nel rinvio a giudizio del maxiprocesso ter del 1987, a sottolineare la necessità di una figura giuridica capace di reprimere le condotte che definiva «fiancheggiamento, collusione, contiguità». È in base a questa logica che, dall’unione tra gli articoli 416 bis e 110 del codice penale (concorso nel reato), si è affermato il «concorso esterno in associazione mafiosa». Ma nel 1992, pochi mesi prima di morire, ecco che cosa sosteneva lo stesso Falcone: «Col nuovo codice di procedura penale (introdotto alla fine del 1989), non si potrà ancora a lungo continuare a punire il vecchio delitto di associazione (mafiosa) in quanto tale, ma bisognerà orientarsi verso la ricerca della prova dei reati specifici (cioè omicidi, riciclaggi, estorsioni). Con la nuova procedura, infatti, la prova deve essere formata nel corso del pubblico dibattimento. Il che rende estremamente difficile, in mancanza di concreti elementi di colpevolezza per i delitti specifici, la dimostrazione dell’appartenenza di un soggetto a un’organizzazione criminosa (…). C’è il rischio, con il nuovo rito, che non si riesca a provare nemmeno l’esistenza di Cosa nostra!». Ecco perché, da vivo, Falcone era osteggiato: più chiaro di così… Purtroppo, ha avuto ragione anche in una delle sue ultime frasi, amaramente profetica: «Per essere credibili, in questo Paese bisogna essere morti». Ancora meglio se falsificati.
E che dire di Totò Cuffaro. Rebibbia, un pomeriggio nella redazione del gr con il “collega” Totò Cuffaro, scrive Dina Lauricella su “Il Fatto Quotidiano”. «Dicono che hai passato centinaia dei tuoi voti al Pd siciliano». «E chi lo scrive? Li querelo, i voti sono decine di migliaia!». Salvatore Cuffaro finisce di scontare la pena a dicembre. E’ a Rebibbia da gennaio 2011 e lo hanno appena autorizzato a partecipare alla riunione della redazione del radio giornale carcere (messa su da Giorgio Poidomani con il supporto del gruppo Antigone). Una rubrica scritta, letta e montata dai detenuti e trasmessa da Radio Popolare Network, Radio Articolo 1 e Radio Città Aperta. «Mi scuso del ritardo, oggi avevo un esame. Ho preso 30 in diritto ecclesiastico, ancora quattro materie e mi laureo in giurisprudenza». In qualche modo qua dentro il tempo va occupato e la tesi vuole assolutamente discuterla in carcere «perché è qui che ha senso». Titolo: “Corte Europea dei diritti dell’uomo e decreti svuota carceri”, niente meno che con il preside della facoltà di giurisprudenza della Sapienza, il professore di procedura penale Giorgio Spangher. Uno che ha sempre sostenuto l’illegalità del reato in concorso esterno per associazione mafiosa. «La contiguità con la mafia può andare da uno a cento e si penalizza uno come cento», dice il luminare nel libro Giustiziopoli di Antonio Giangrande. Abbastanza per comprendere la stima che nutre Totò Vasa Vasa nei confronti del suo Prof. Immaginavo sarebbe diventato una star fra “noi colleghi” in riunione di redazione e invece Cuffaro mantiene la sobrietà e la dignità che ha dimostrato in questi anni di carcere. Gli do in pasto l’editoriale di Ilvo Diamanti sulla fiducia (persa) degli italiani nei magistrati, mentre con i suoi compagni (rei di omicidi, spaccio e truffe) si discute di carcere, di diritti, di pene e di temi da elaborare per il prossimo GRD. Fra i redattori c’è anche Federico, un ragazzone mulatto che in galera si è scoperto poeta e ha pubblicato il suo primo libro: “Sentimento prigioniero”. Sconta una condanna per omicidio. La sua è una storia kafkiana, il giudice gli ha ordinato di tornare al suo Paese. Ma come emerge dalle carte giudiziarie, Federico non conosce il suo Paese d’origine, sa soltanto di essere stato adottato e fa molta fatica a rispettare l’ordine del giudice! Te la racconta d’un fiato, fermandosi su un sorriso che non ha nulla d’ironico. “Avresti dovuto sentire quegli uccelli di galera fulminati cantare”, suonava Elvis Presley in Jailhouse Rock, ed è questo il nome del programma che ospita il GRC. L’unico computer presente è privo di connessione internet ed è custodito dagli agenti, ma basta quello, un microfono e un programma di editing per confezionare un prodotto di grande qualità e soprattutto in piena libertà. Condizione spesso auspicata anche dai giornalisti “oltre le sbarre”. Dopo due ore di confronti, dibattiti e suddivisione dei compiti ci lasciamo. Poidomani tornerà fra due giorni con una pen drive nella quale viene inciso il pezzo per le radio. Io li ascolterò on air. «Mi fido di voi perché siete comunisti, mica post-comunisti o peggio Renziani!». Ci dice il “collega Totò” quando ci lasciamo. Gli faccio notare che si era appena vantato di aver passato al pd decine di migliaia di voti e allora si corregge: «Mica glieli ho dati io quei voti, se li sono presi loro».
La regione degli onnipotenti scrive Domenico Tempio su “La Sicilia”. La pace non è di casa in Sicilia. A cominciare dalla Regione, la quale sprofonda sempre più in un girone infernale. Dove i peccatori si annidano tra noi. Addirittura, riescono a conquistare i posti di comando. Infettati come sono da un putrescente odore di mafia. Colpevoli o innocenti (ma le condanne ci sono), conta la macchia quasi indelebile che continua a essere gettata addosso alla Sicilia. Raffaele Lombardo dopo Totò Cuffaro, un unico destino. Concorso esterno nell'associazione mafiosa per il primo, favoreggiamento all'organizzazione mafiosa per il secondo. Lombardo ha ancora due gradi di giudizio. L'augurio è che riesca a togliersi di dosso questa accusa infamante. Non solo per lui, ma per quei siciliani che lo hanno votato. Per cancellare anche quello che un leghista di recente ha scritto: «Come mai tra tanta gente perbene giù in Sicilia, si va ad eleggere proprio chi è colluso con i mafiosi?». Difficile la difesa. Quando sembra spirare un vento di cambiamento, c'è chi fa di tutto per ammorbare l'aria. Persino i grillini, nati dalla rabbia della gente, giocano al tanto peggio. Basta guardare il loro leader, Beppe Grillo, è diventato un fenomeno da baraccone. Ieri nell'incontro con Renzi ha dato il massimo. Chi gli scrive i testi? Casaleggio? Roba da piazza. Utile solo alle Tv per fare ascolto. Quello che oggi sta accadendo alla Regione è emblematico del tempo in cui viviamo. Magari in alcune cose non ci sarà di mezzo la mafia (almeno si spera), ma di sicuro c'è una combriccola di saltimbanchi in preda a orgasmi di potere. Come in un'orgia si stracciano le vesti gli uni con gli altri, cercando di arraffare il più possibile. Vi sembra plausibile che la maggioranza di Crocetta, anche se in verità è variabile come il tempo, dopo avere raggiunto un difficile accordo sulla tanto decantata riforma delle Province, la boccia nel segreto dell'urna? Direte è storia antica. Ecco perché poi la mafia si insinua. Il disegno di legge varato da Crocetta poteva servire almeno a dare una prima potatura al carrozzone degli enti intermedi. Certo, alcune cose vanno specificate meglio, come l'estensione delle aree metropolitane o la creazione dei cosiddetti consorzi di liberi Comuni, però la legge si poteva considerare un primo passo verso un diverso assetto del territorio siciliano. Sia per trovare nuove sinergie nei servizi; sia per sfoltire la burocrazia; sia per i finanziamenti che solo uniti si possono ottenere; sia, consentiteci di dirlo, per selezionare meglio la classe amministrativa. Si perdono poltrone? Pazienza. I politici se ne facciano una ragione. I primi colpevoli sono loro. Hanno ridotto la Regione, pomposamente chiamata autonoma, a una palude dalla quale loro stessi non riescono a tirarsi fuori e dove, scavando, trovi una lunga lista di scandali milionari. Se Crocetta ha un merito è proprio questo: aver scoperchiato il malaffare. Per il resto, ci dispiace dirlo, il governatore ha lasciato immobile la macchina amministrativa. Non solo alla Regione, ma in quasi tutti gli enti. Li ha paralizzati con commissariamenti in serie. La sanità, ad esempio, è quella che soffre di più. Da tempo ormai attende i suoi vertici. Persino i teatri, vedi il Bellini di Catania, sono congelati. Tanto da temere che li si voglia azzerare. Si tratta di incapacità? Non crediamo. Forse è un metodo. Una onnipotenza di potere pericolosa per sé (Crocetta) e per gli altri (i siciliani). Anche i Cuffaro e i Lombardo hanno peccato, oltre ai presunti legami con la mafia, di onnipotenza. Comincia sempre così la caduta degli dei.
La Sicilia come metafora, scrive Mauro Mellini su “Giustizia Giusta”. Riandare col pensiero a Leonardo Sciascia è sempre utile, anzi, talvolta, è addirittura indispensabile, per capire le cose di Sicilia e non solo di Sicilia e d’Italia. Ne abbiamo la prova in questi giorni. Poco assai si parla, nel resto d’Italia, di quel che sta accadendo in Sicilia. Il governo regionale di Crocetta e tutta la politica siciliana hanno raggiunto limiti inimmaginabili, grotteschi di degrado. La Regione Sicilia, che dovrebbe essere una delle più forti per le condizioni finanziarie che le assicura lo Statuto Speciale, è praticamente al collasso, al fallimento, con un bilancio allo sbando, specie dopo gli interventi del Commissario dello Stato che hanno “rottamato” per illegittimità e per sostanziale falsità buona parte di quello raffazzonato dalla Giunta. Crocetta è “rientrato” nel P.D., dopo avere per qualche tempo navigato sotto le insegne di un suo personale gruppo, “Il Megafono”, che ora pare sia diventato una corrente del P.D. Che nell’Isola è, di colpo, diventato “renziano”, perché le correnti che si sono scannate in una lotta senza esclusioni di colpi, hanno fatto a gara per correre in soccorso del vincitore. Crocetta si regge alla presidenza grazie alla norma, oggi in vigore per regioni e comuni, per la quale Presidente e Sindaci possono essere abbattuti solo da Consigli kamikaze: chi li sfiducia e li manda a casa, automaticamente, perde il posto e va a casa con lo “sfiduciato”. Un sistema che sembra inventato dalla fantasia di un autore di spettacoli comici. In pratica i Presidenti della Regione Sicilia possono essere mandati a casa (o in prigione) solo dai magistrati. Gli ultimi due predecessori di Crocetta, Cuffaro e Lombardo hanno avuto questa sorte. Crocetta pare che da quel lato sia abbastanza ben protetto. Al suo fianco c’è un vecchio “professionista dell’Antimafia”, Lumia, che fu anche Presidente della Commissione Antimafia Parlamentare. Quando il partito provò ad escluderlo dalle liste per il Parlamento Nazionale, intervenne scopertamente e pesantemente la Magistratura a “censurare” quel tentativo di metterlo da parte. Fu subito “reintegrato”. Finché dura, naturalmente. Quelli che se ne intendono dicono che in Sicilia anche il Partito dei Magistrati è piuttosto ondivago al suo interno e tendenzialmente sospettoso e inaffidabile nei rapporti, per così dire, esterni. Ora Crocetta sembra tornato in grembo al P.D., ma non sembra che la sua Giunta rispecchi una tale posizione. D’altro canto se il P.D. sembra oramai ben allineato con l’ortodossia del “rottamatore”, i veri padroni della Sicilia sono i “monnezzari” (mestiere che, con quello dei rottamatori, cioè degli “sfasciacarrozze” ha una certa attinenza). Padroni di Sicindustria (la Confindustria dell’Isola) tre o quattro gestori di discariche, hanno in pugno la Regione, Crocetta, la Giunta e, per quel che conta, il Parlamento Siciliano. Sono “industriali antimafia” perché hanno rifiutato il pizzo (dopo, magari, essersi pentiti di averlo in un primo tempo pagato). In quanto antimafia sono in condizioni di mettere al bando chi non può vantarsi di essere tale o che essi stessi tale non considerano. Sono forti delle loro concessioni che non sempre (ad esser ottimisti) coincidono con l’optimum delle prospettive del gravissimo problema dei rifiuti (in una delle discariche siciliane pare che sia arrivata, in qualche momento, anche della “monnezza” di Napoli). Certo è che mettersi di traverso al loro “sistema” può essere pericoloso. Lo sostiene e lo proclama, ad esempio, il Sindaco di Racalmuto, il paese di Leonardo Sciascia, che si era messo in testa di far funzionare la raccolta differenziata e si è trovato prima indagato per mafia e poi con l’Amministrazione sciolta per “infiltrazioni mafiose”. E molte altre e gravi sono le storie che si sentono in giro. Intanto Crocetta ha “sistemato” il Procuratore super antimafia Ingroia che non era riuscito a riciclarsi come uomo politico (si era candidato addirittura alla Presidenza de Consiglio). Farà il presidente di un ente per l’esazione. Una volta c’erano i famosi “Cavalieri”. E prima ancora i baroni ed i loro gabellotti e campieri. Intanto la magistratura mette sotto processo ministri (e c’è mancato poco che s la prendesse anche col Presidente della Repubblica) perché “hanno abusato del diritto di fare la politici dello Stato”, “abbassando la guardia” ed entrando in trattative con la mafia. Nel processo di Palermo se ne stanno vedendo di tutte e di più. Trionfa il concetto che è la giurisdizione che “legittima” il diritto. Si applica così il principio che la Cassazione ha inventato per le questioni tributarie: il diritto è il diritto ma la magistratura può stabilire che se ne è abusato. Intanto diverse categorie di dipendenti pubblici lavorano, ma hanno cominciato a non ricevere lo stipendio. Non si sa se c’è un bilancio della Regione, se, dopo la prima bocciatura di buona parte di esso, le “toppe” che l’Ars ci ha messo reggeranno ad un altro esame di legittimità. Incombe il fallimento. E Crocetta, che aveva annunziato che a settembre l’abolizione delle Provincie sarebbe stata cosa fatta con la costituzione dei “liberi consorzi” di Comuni, è ancora alle prese con questa storia grottesca. Qualcuno ha cominciato ad accorgersi che una differenza tra Provincie e ”liberi consorzi” c’è sicuramente: questi ultimi saranno molti di più. Che malgrado ciò costino di meno e funzionano meglio ha il sapore dell’utopia. O della truffa. Un “libero consorzio” si farà sicuramente: quello di Gela, il paese di Crocetta. Gela non era riuscita a “diventare provincia” (benché “regionale”). Concludendo. Questa è la Sicilia di cui la stampa nazionale sembra far di tutto perché poco se ne parli. Questa è la Sicilia: sì, “come metafora” d’Italia, come diceva Sciascia, che scrisse anche un libro con questo titolo.
La Sicilia come metafora dell’Italia del Rottamatore, termine freddo e burocratico (la “rottamazione” delle armi di guerra confiscate era prevista dalla legge). Meglio dire “lo Sfasciacarrozze” termine sonante e chiaro del gergo e del dialetto romano. Sciascia ci ha fatto capire molte cose. A chi, naturalmente ha voglia di capire.
Il paese dove due presidenti di regione sono condannati per mafia: il primo (Cuffaro) con sentenza definitiva per favoreggiamento, il secondo (Lombardo) per concorso esterno. Ancora una condanna che ferisce la Sicilia, scrive Salvo Toscano su “Live Sicilia”. Dopo Cuffaro, un altro presidente condannato. La sentenza non è definitiva, ma l'immagine della Sicilia ne viene comunque colpita. E chi governa oggi la Regione ha un solo modo per risollevarla Un altro presidente della Regione, il secondo in pochi anni, ritenuto responsabile dai magistrati di una condotta che sottende legami con Cosa nostra. Il secondo dopo Totò Cuffaro, e ancora peggio, poiché per il politico di Raffadali il reato era quello di favoreggiamento aggravato, mentre l'ex leader dell'Mpa è stato giudicato responsabile di concorso esterno in mafia. Per Lombardo, è bene precisarlo da subito, si tratta ancora di un pronunciamento di primo grado, che potrà anche mutare negli altri livelli di giudizio, e che quindi ovviamente non cancella la presunzione di innocenza che per lui come per chiunque resta in piedi fino alla eventuale condanna passata in giudicato. Ma pur nella sua provvisorietà, la sentenza di condanna di Catania è una ferita, un'altra, per la Sicilia. L'onta di un pronunciamento nel nome del popolo italiano per fatti di mafia macchia ancora una volta la più alta istituzione siciliana e con essa travolge la Sicilia e la sua immagine martoriata. Lombardo avrà modo di difendersi nel secondo grado di giudizio e di dimostrare in quella sede di essere innocente, come ha protestato fino a questo pomeriggio. Se così è, e continueremo a presumerlo fino alla fine, glielo auguriamo. Il peso di questa sentenza sulla storia recente della politica siciliana, però, non si può ignorare. E impone alla classe dirigente chiamata oggi a governare la Regione, in questi tempi così difficili e oscuri, uno sforzo ulteriore, per aiutare l'Isola a scrollarsi di dosso il fardello di un marchio così sordido e infamante. Per farlo, i proclami e gli slogan servono poco. Le denunce in procura forse un po'. Ma quello che davvero occorre, perché la politica riappropri dell'onore perduto, è il buon governo. È la buona politica. Vogliamo aspettarla con un po' di speranza, malgrado tutto.
Mafia, condannato Lombardo. È la maledizione della Sicilia, scrive Mariateresa Conti su “Il Giornale”. Aveva perorato la sua innocenza, disobbedendo anche ai suoi avvocati, con una dichiarazione spontanea ieri mattina, nell'ultima udienza. E si era detto certo che no, non poteva essere condannato. Ma alla fine, per Raffaele Lombardo, ex governatore di Sicilia, è andata nel peggiore dei modi: sei anni e otto mesi, col rito abbreviato, per concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. Appena quattro mesi in meno del suo ex amico e predecessore alla presidenza della Regione siciliana, Totò Cuffaro, che per favoreggiamento aggravato alla mafia sta scontando sette anni. Una botta durissima. La decisione del Gup Marina Rizza è arrivata ieri pomeriggio, intorno alle 18 e 10. Lombardo, accompagnato dalla moglie, era presente e trattenendo a stento l'emozione ha commentato: «È l'epilogo naturale di questo processo. Me lo aspettavo, l'avevo detto a mia moglie». E presente, a sostegno dei suoi pm, era anche il capo della Procura di Catania, Giovanni Salvi. Il Gup ha pronunciato un doppio verdetto: da un lato la condanna dell'ex governatore, sei anni e otto mesi (i pm ne avevano chiesti dieci, ma il giudice ha ritenuto il voto di scambio assorbito dal reato più grave, il concorso esterno) più interdizione dai pubblici uffici e un anno di libertà vigilata, anche se è caduto uno dei capi d'accusa, la collusione con il clan Cappello; dall'altro il rinvio a giudizio del fratello di Lombardo, Angelo, ex deputato Mpa, che aveva optato per il rito ordinario e che sarà alla sbarra dal prossimo 4 giugno. Il Gup ha inoltre stabilito di trasmettere alla procura gli atti relativi alla posizione dell'editore del quotidiano La Sicilia ed ex presidente della Fieg Mario Ciancio Sanfilippo. La Procura esulta: «Il nostro castello - dice Salvi- ha retto. Oggi è avvenuto un fatto storico, si ha per la prima volta la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per un presidente della Regione Siciliana». Un iter travagliato, quello di questo processo. Inizialmente ai fratelli Lombardo viene contestato solo il reato elettorale (per voto di scambio l'ex governatore ha in corso un'altra inchiesta che coinvolge anche il figlio Toti, deputato regionale, ndr). Per le collusioni con la mafia la Procura aveva chiesto l'archiviazione. Poi è arrivata l'imputazione coatta, l'aggravante mafia. Adesso la sentenza. L'ex governatore, comunque, promette battaglia: «Sono di una serenità infinita - ha detto annunciando ricorso in appello - mi aspettavo questa sentenza. Non pensavo, infatti, che il giudice potesse avere il coraggio sovrumano di schierarsi con una sentenza di assoluzione, che pure sarebbe stata aderente ai fatti, contro la Procura che per il 50 per cento dei suoi componenti è venuta anche plasticamente a dimostrare la mia posizione nel processo». Lombardo ha attaccato la «grande stampa» e il sistema di interessi che, a suo dire, ha intaccato. Quindi, citando Sciascia, ha concluso: «Conosco il contesto. Ma affermeremo la verità».
Raffaele Lombardo è stato condannato a sei anni e otto mesi di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa, scrive “Il Corriere della Sera”. L'ex governatore della Sicilia era imputato anche per voto di scambio con il clan Cappello, accusa dalla quale è stato però prosciolto. La Procura aveva chiesto per Lombardo una condanna a 10 anni. L'ex governatore, su sua stessa richiesta, è stato giudicato con il rito abbreviato. Il gup di Catania, Marina Rizza ha anche rinviato a giudizio suo fratello Angelo Lombardo, ex deputato nazionale del Mpa e ha disposto la trasmissione alla Procura degli atti che la stessa Dda aveva prodotto di un'intercettazione nella sede del direttore e editore del quotidiano La Sicilia, Mario Ciancio Sanfilippo. «Me l'aspettavo, è l'epilogo naturale del primo grado di giudizio, ma non finisce qui: seguiremo tutte le strade legali per dimostrare la mia innocenza», ha commentato a caldo Raffaele Lombardo. L'inchiesta sui fratelli Lombardo è nata da uno stralcio dell'indagine Iblis dei carabinieri del Ros di Catania su presunti rapporti tra Cosa nostra, politica e imprenditori. Per l'ex governatore Lombardo, che si è sempre proclamato innocente, la Procura di Catania, in sede di requisitoria, aveva chiesto la condanna a dieci anni di reclusione. «Abbiamo fatto un lavoro importante», con una «procura unita», ha commentato il capo dei pm di Catania, Giovanni Salvi, dopo la condanna di Lombardo. «Oggi è avvenuto un fatto storico», ha aggiunto il magistrato, «si ha per la prima volta la condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per un presidente della Regione Siciliana. Frutto di un lavoro importante che ha avuto anche collaboratori importanti a sostegno dell'accusa». L'altro ex governatore siciliano, Totò Cuffaro, è stato invece condannato definitivamente a sette anni di reclusione per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra e rivelazione di segreto istruttorio. Da gennaio 2011 sta scontando la pena nel carcere romano di Rebibbia. «Sono momenti importanti e delicati», aveva detto stamattina l'ex governatore, attendendo il verdetto, «Sentiremo la sentenza, che accoglieremo con assoluto rispetto», aveva aggiunto, evidentemente commosso, a conclusione dell'ultima udienza del processo. In aula con lui c'era la moglie, Saveria Grosso. Lombardo, prima della conclusione dell'udienza, che si è svolta a porte chiuse, ha reso spontanee dichiarazioni davanti al Gup: «Ho detto alla Corte le mie ragioni - ha spiegato l'ex presidente della Regione - quello che sentivo di dire, non con l'approvazione piena dei miei legali che sono terrorizzati da quello che può dire contro se stesso l'imputato».
Il viaggio del ras autonomista fra ombre di mafia e tradimenti politici. Raffaele Lombardo fu eletto nel 2008 e mollò quasi subito l'ex amico Cuffaro e il centrodestra. Nel 2010 l'abbraccio con il Pd. Spiazzato dall'inchiesta catanese sulle collusioni del governatore con Cosa Nostra, scrive Emanuele Lauria su “La Repubblica”. "Io non ho concorrenti, perché sono l'Autonomia e sto su un pianeta diverso". Era il 12 aprile del 2008, e dal quartier generale di via Pola, a Catania, Raffaele Lombardo lanciava il suo proclama ai siciliani. Sullo schermo del suo studio, in quel preciso momento, compariva il volto di Anna Finocchiaro, chiamata affettuosamente "Annuzza", con l'elegante distacco di chi, a due giorni dal voto, già sapeva che avrebbe surclassato la concorrente del Pd. E così sarebbe andata: trentacinque punti percentuali, un milione di voti di differenza. C'era già tutto, in quella frase. C'era il governatore spavaldo e inafferrabile, insofferente ai diktat dei partiti e ai recinti delle alleanze. C'era il più formidabile distruttore di maggioranze che la storia della Sicilia abbia conosciuto. Ne ha cambiate cinque come i suoi esecutivi, Lombardo, rendendo i quattro anni della sua esperienza a Palazzo d'Orleans un'epopea profondamente controversa. "Raffaele-Raffaele". La convention di Acireale, il 24 febbraio del 2008, ospita 6 mila tifosi, accorsi per il lancio ufficiale della candidatura di Lombardo. Fra le bandiere della Trinacria, e persino dell'Evis (l'esercito di volontari per l'indipendenza della Sicilia), fanno capolino i big impettiti del nascente Pdl: in prima fila ecco Renato Schifani e Angelino Alfano, gli sponsor presso Berlusconi della nomination dell'alieno Lombardo, preferito al compagno di partito Gianfranco Micciché. Il leader dell'Mpa ricambierà il favore, un mese dopo, presentandosi sul palco della Fiera accanto al Cavaliere e cantando con lui e i suoi colonnelli il refrain di "Meno male che Silvio c'è". Quei tempi sembreranno ben presto lontanissimi. A tutti. Incassata l'elezione, Lombardo decide di smarcarsi repentinamente dalla coalizione con la quale ha governato la Sicilia negli anni precedenti. E il primo colpo lo assesta a fine maggio, al momento di formare la giunta. Il presidente non ascolta i consigli del suo amico e predecessore Totò Cuffaro e, al posto dell'udc Nino Dina, manda alla Sanità il magistrato Massimo Russo. Cuffaro stacca il telefono e non si fa più trovare. Si rompe un lungo sodalizio umano, quello politico fra l'Mpa e l'Udc cuffariana resisterà ancora qualche mese. E i primi mesi della sua gestione Lombardo li trascorre segnando il solco con il recente passato: dispone il blocco delle assunzioni e avvia un piano di ridimensionamento delle società partecipate che rimarrà per gran parte incompiuto. Nel frattempo esercita uno spoils-system con il quale manda a casa i "fedelissimi" di Totò. Fra questi la super-burocrate della Programmazione, Gabriella Palocci, congedata solo con una lettera, che sbotterà in lacrime: "Sono stata trattata peggio di una cameriera". Cuffaro, il 6 novembre 2008, ha capito l'antifona: "Raffaele? È in preda a una furia sostitutrice: sta colpendo sistematicamente tutti i miei uomini". È già nato, d'altronde, l'asse con Gianfranco Micciché, il sottosegretario da tempo divenuto nemico numero uno di Cuffaro e già in traiettoria di uscita dal Pdl. Lombardo, nella prima delle sue frasi celebri, comincia a parlare di "geometrie variabili" e in Parlamento, con l'aiuto del Pd, vede la luce la riforma della Sanità osteggiata dai berlusconiani. Le Europee del 2009 si svolgono in un clima caldissimo all'interno della maggioranza. Da battaglia. Anzi, da "guerra termonucleare" per dirla con le parole del presidente dell'Ars, Francesco Cascio, che di suo pugno mette alcune definizioni non proprio lusinghiere, come quella che vuole il governo Lombardo "il peggio degli ultimi quindici anni". Alle Europee trionfa l'astensionismo, ma l'Mpa di Lombardo- in una non memorabile alleanza con la Destra di Storace - tiene mentre il Pdl perde 600 mila voti rispetto alle Politiche dell'anno precedente. Il Popolo della Libertà - alla cui guida in Sicilia sono andati Giuseppe Castiglione e Domenico Nania - conosce in Sicilia l'inizio della sua crisi. E il primo rimpasto di Lombardo, nel luglio del 2009, fotografa lo strappo: al governo vanno - o rimangono - gli uomini vicini a Fini e Micciché, il gruppo che di lì a poco formerà il Pdl Sicilia. Fra loro Gaetano Armao, avvocato di grido che - attaccato dal Pd per una serie di conflitti d'interesse- sarà costretto a lasciare tutti gli incarichi in aula prima di essere rinominato nel Lombardo-ter. Con il Pdl i rapporti di Lombardo sono sempre più tesi. Da Roma, dal governo Berlusconi, non arrivano gli oltre quattro miliardi del Fas e quando, nell'ottobre del 2009, i deputati "lealisti" del Popolo della Libertà, non votano il Dpef, il presidente decide la rottura. Di lì a pochi mesi salteranno i due assessori pidiellini superstiti - Beninati e Milione - mentre con il Pd comincia il "fidanzamento" voluto in particolare dal capogruppo Antonello Cracolici. A novembre la cena fra Lombardo e Massimo D'Alema che darà vita al "patto dell'orata". Le feste di Natale fanno nascere il Lombardo-ter, che vede l'ingresso di due tecnici in quota Pd quali Mario Centorrino e Pier Carmelo Russo. Eccole, le geometrie variabili: Lombardo conosce alcune defaillances a livello amministrativo (come le nomine di nove dirigenti esterni che sarà costretto in gran parte a ritirare), prosegue nella sua opera di occupazione del sottogoverno guadagnandosi da l'appellativo di "Arraffaele", ma in aula riesce miracolosamente a condurre in porto alcune riforme: rifiuti, semplificazione burocratica. Grazie, appunto, alle geometrie variabili. E alla generosità del Pd. La svolta il 27 marzo del 2010, con la notizia - pubblicata da Repubblica - dell'indagine per mafia che riguarda il governatore. Lui, Lombardo, reagisce a muso duro, annuncia urbi et orbi che dirà in aula i nomi dei politici che, davvero, sono collusi con Cosa nostra. I nomi che Lombardo poi pronuncia, nella seduta del 13 aprile, sono quello - atteso - del senatore Pino Firrarello e del deputato Salvo Torrisi, entrambi del Pdl, entrambi additati per interessi nella realizzazione del termovalorizzatore di Paternò. Fioccano minacce di querela, finirà tutto in un polverone dentro il quale Lombardo prosegue la sua marcia a fari spenti, con improvvise accelerazioni, preceduto da una fama che riguarda sempre più i suoi vezzi: l'abitudine di mangiare la carta, la leggenda che vuole che la segretaria assaggi prima i suoi pasti, e poi quell'incredibile collezione di fucili - quaranta, tutti funzionanti - custoditi in una stanza di Palazzo d'Orleans. A settembre ecco il Lombardo-quater. Con Micciché, che fonda Forza del Sud, il legame è consunto anche per i contrasti su un mai nato comune partito meridionale. Entra al governo la nuova Udc di Gianpiero D'Alia. Lombardo diventa uno dei leader del Terzo Polo ma la sua storia è sempre più segnata dalla vicenda giudiziaria che, nel dedalo della Procura catanese, si dipana in un susseguirsi di colpi di scena. Sotto la scure di un processo incombente che dovrà chiarire i rapporti con i boss ma con una giunta in cui sono presenti magistrati, ex prefetti, esponenti degli industriali schierati contro il racket, Lombardo continua a dare una doppia immagine di sé. A confondersi è soprattutto il Pd, che diventa protagonista di un interminabile dibattito interno sull'opportunità di garantire ancora il sostegno al governatore. Il referendum interno al partito non si farà mai. E il dibattito spingerà i democratici all'opzione del ritiro dell'appoggio solo di recente, all'inizio di giugno del 2012, quando il governatore ha già deciso di lasciare anzitempo l'incarico. Il Lombardo-quinquies è in realtà uno stillicidio - via un assessore alla volta, ecco il sostituto - che caratterizza l'ultima scoppiettante fase politica della "volpe di Grammichele" sostenuta ormai da una minoranza composta da Fli, Api e Mps: Lombardo riesce a firmare 130 nomine di sottogoverno in tre mesi, inducendo l'Ars a varare una norma per imbrigliare il suo potere di assegnare incarichi. Mentre Bruxelles sospende trasferimenti per 600 milioni di euro, chiedendo chiarimenti sulle procedure degli appalti, a Roma crescono i timori per un default in stile greco della Regione che spingono persino il premier Monti a intervenire: la lettera di Palazzo Chigi a Lombardo provoca polemiche e ha una cassa di risonanza internazionale. Le società di rating, preoccupate, sospendono il giudizio o declassano l'amministrazione isolana. La saga di Raffaele finisce in una Sicilia messa sotto tutela dallo Stato. Una dura legge del contrappasso, per il presidente autonomista.
La Giustizia pallosa, scrive Massimo Zamarion su “Giornalettismo”. Milano, vicenda Maugeri: la procura: «processate Formigoni». Roma, vicenda polizza vita: la procura: «processate Gasparri». Napoli, vicenda compravendita senatori: nuovo filone di indagini (mentre è già iniziato il processo contro il Berlusca, quello col Senato che si è costituito parte civile). Napoli, vicenda rimborsi facili: arrestato l’ex braccio destro del governatore Caldoro. Verona, l’accusa è corruzione: arrestato Vito Giacino, ex vice-sindaco della giunta Tosi. Palermo, trattativa stato-mafia: il pm Di Matteo querela Sgarbi, Ferrara, Facci e Deaglio. Piemonte, elezioni regionali 2010: il Consiglio di Stato boccia il ricorso di Cota contro la sentenza del Tar che le aveva annullate. Sant’Agata di Militello (Messina), associazione a delinquere: indagato l’ex sindaco e attuale senatore di Ncd Bruno Mancuso. E’ tutta roba degli ultimi giorni. Ma non pensate anche voi che sia venuto il momento di chiedere alla magistratura di bastonare con calda passione, feroce determinazione, per davvero e non per finta, come fa da vent’anni, pure i sinistrorsi? Non per amor di giustizia, che ci è antropologicamente estranea, ma così, per capriccio, per il gusto del nuovo, per puro estetismo, e soprattutto per non farci morire di noia?
Lo strapotere dei giudici nasce dall'uso pubblico del bagnasciuga del mare, scrive Transatlantico su “L’Occidentale”. L’Italia è il paese dove si può finire sotto processo per una denuncia non circostanziata che la magistratura usa per cercare conferma a un’ipotesi investigativa; dove si può essere condannati in primo e secondo grado e dopo 15 anni vedere annullata la sentenza in Cassazione per sette capi su otto e per l’ottavo vederla confermare nonostante una legge in discussione (e approvata qualche mese dopo) non consideri più il fatto come reato. L’Italia è il Paese dove i pubblici ministeri che hanno sostenuto quell’accusa e i giudici che hanno deciso quei processi hanno fatto regolarmente la carriera, uno addirittura tentando quella politica, un altro divenendo ispettore presso il Ministero di Grazia e Giustizia. Questo per evitare di ribadire che l’Italia è il Paese dove il pm e i giudici di Enzo Tortora sono invecchiati solo in preda all’eventuale ansia per il rimorso delle loro coscienze. Come faranno quelli di Giovanni Mercadante. Il problema di molti processi italiani è il "libero convincimento del giudice", insindacabile al punto da non potersi neppure accertare, a posteriori, se in realtà esso si sia formato sulla base di un giudizio etico (quando non politico) anziché giuridico. Il "libero convincimento" (implicazione del monopolio interpretativo della legge da parte della Cassazione) si accompagna all’obbligatorietà dell’azione penale e al diritto dei magistrati di essere giudicati per i loro errori da un Organo di rilievo costituzionale nel quale sono in maggioranza rispetto ai componenti designati dal Capo dello Stato e dal Parlamento. Nel 1948 furono pensati quali giusti contrappesi per garantire l’indipendenza della magistratura e l’uguaglianza di tutti dinanzi alla legge stante un Parlamento in grado di incidere sullo status di magistrati/funzionari dello Stato (stipendi, regole per la carriera, eccetera) e protetto contro accuse improvvide o pretestuose grazie all’immunità riconosciuta ai suoi membri. Oggi però sono fonte di squilibrio istituzionale. Negli anni Ottanta iniziò a diffondersi il sospetto, poi rivelatosi fondato, che molta classe politica eccedesse nel coltivare interessi propri in nome altrui e che i partiti di opposizione sapessero. La verità era che tre decenni addietro i partiti dell’arco costituzionale avevano siglato un "patto" in forza del quale alla DC competeva l’esclusiva di governare e al PCI di decidere distribuzione dei costi e vantaggi sociali e ambedue si impegnavano a non fare riforme che potessero mettere in discussione l’impianto giuridico-ideologico della Costituzione repubblicana. Coerentemente negli anni Settanta/Ottanta, Centro e Centrosinistra si erano concentrati sull’occupazione dello Stato e delle sue articolazioni industriali e finanziarie mentre la Sinistra sulla penetrazione nei settori dell’istruzione, della giustizia, dei beni culturali e degli enti locali, finendo per dotarsi, democraticamente e legittimamente, di una controstruttura pubblica motivata politicamente. La Sinistra aveva compreso che col tempo la DC si sarebbe compromessa nel tentativo di conciliare interessi concorrenti che presiedevano altrettante scelte di vita aventi pari diritto e si stava preparando a sostituirla. Quella intuizione regalò alla Sinistra il governo del territorio, dell’istruzione (superiore e universitaria) e... della Giustizia ma non il governo del Paese di cui si sentì scippata da Silvio Berlusconi nel 1994. La liason tra Sinistra e Magistratura ebbe inizio, negli anni Settanta, con la decisione del pretore Amendola sull’uso pubblico del bagnasciuga del mare. La sentenza, nonostante le ricadute sulle regole di edilizia e urbanistica, sulla proprietà privata e alcune attività imprenditoriali, fu snobbata dalla DC come atto, politicamente inerte, di un pretore d’assalto. Alla sinistra non sfuggì invece che offriva la prova della possibilità della via giudiziaria alla riforma della società italiana. E soprattutto intuì che indicava come creare fra Magistratura e una parte della società civile (quella di volta in volta interessata) il feeling indispensabile per facilitare il suo avvento al potere. Tangentopoli doveva segnare il punto di svolta ma Berlusconi convinse gli Italiani che alcuni Magistrati avevano ceduto alle sirene del PDS (ex PCI) pronto a rappresentare i loro interessi corporativi in cambio del sostegno alla conquistare il potere. La sentenza di Amendola fu decisiva anche dal punto di vista ideologico perché affermava il diritto del metro etico/politico per la formazione del "libero convincimento del giudice". Con quella sentenza l’Ordine giudiziario affermò inoltre il suo diritto/dovere di far prevalere i principi costituzionali (come il principio di eguaglianza sostanziale) sulla legge vigente attraverso l’interpretazione provocatoria (più che creativa) delle norme. Qualche anno dopo altre sentenze sul rapporto di lavoro dipendente (cui seguì lo Statuto dei lavoratori) dissolse i residui dubbi sulla praticabilità della via giudiziaria alle riforme. Da allora molto è cambiato, rimane però intatta la potestà dei giudici di formare il proprio "libero convincimento" su personali parametri etico/politici di qualificazione giuridica dei fatti dunque di compensare i deficit normativi, che ritengono esistenti, ricorrendo a una giurisprudenza ermeneuticamente progrediente. Ma questa facoltà, in una Democrazia con sovranità popolare, non può essere riconosciuta a un Ordine Giudiziario privo di rappresentatività e la cui coscienza democratica e onestà intellettuale sono valutabili solo attraverso gli atti, non giudicabili e tantomeno sanzionabili, dei suoi componenti. Se poi il 70% degli Italiani chiede oggi alla Politica di riequilibrare il rapporto fra potere e responsabilità dei giudici (inquirenti e decidenti), è della scomparsa di sintonia con i cittadini che la Magistratura dovrebbe preoccuparsi, non di una legge che nascerà minus quam perfecta visto che a decidere sulla responsabilità dei giudici saranno comunque i colleghi.
"Giudici troppo vicini ai pm. È ora di separare le carriere". Il presidente nazionale delle Camere penali accusa anche la politica: "Si inseguono gli umori della piazza invece di fare una vera riforma", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. «Se fosse lei il difensore di Claudio Scajola si strapperebbe i capelli?», chiedo all'avvocato Valerio Spigarelli, presidente nazionale delle Camere penali e massimo esperto degli umori che serpeggiano tra i penalisti italiani. Le Camere penali sono 120, nelle maggiori città. Volendo parlare di una cosa avvilente come la giustizia penale in questo Paese, consola avere di fronte uno come Spigarelli. Ha lo sguardo fermo, folti capelli da strappare in caso di necessità e la giusta foga per affrontare il pantano. Covava fin da giovanetto la passione per i diritti dell'imputato. Ora ha 57 anni e un grosso studio nel centro di Roma, la sua città. «Diciassettenne, digiuno di diritto, già manifestavo contro la legge Reale (dura legge antiterrorismo del 1975, ndr)», dice, mentre in cravatta e maniche di camicia cerca di capire con chi ha a che fare prima di rispondere alla domanda su Scajola. Profitto, per sondarlo anch'io: «La peggiore malagiustizia in cui si è imbattuto?». «Non una, cento», risponde e si capisce che considera il mestiere di difensore un campo minato con una trappola al giorno. Poi, per dire che tipo è Spigarelli, improvvisamente si stufa dei preamboli e sbotta: «Le dico il punto debole della giurisdizione penale e potrei anche finire l'intervista. Tutto discende da lì». «Prego», gli dico incuriosito da questa prodigiosa capacità di sintesi.
«Il sistema giudiziario è squilibrato. Il giudice non è equidistante tra accusa e difesa».
Il giudice parteggia?
«È più vicino al pm, per ciò che l'accusa rappresenta: la pretesa punitiva dello Stato; piuttosto che al diritto di libertà dell'imputato».
Partito preso?
«Dato culturale. Giudice e pm sono contigui e hanno la stessa formazione. Ecco perché è necessario separare le carriere. I pm si oppongono, sentendosi sminuiti. La separazione serve ad avere un giudice libero, non un pm a metà».
Torniamo a Scajola: da difensore tremerebbe?
«Non penso proprio. Poi è ben assistito».
Intanto è in galera e non si intravede la fine.
«La magistratura intende la custodia cautelare, non come una cautela per ragioni processuali, ma come un'anticipazione di pena».
Maramaldeggiano?
«Temono che l'imputato sfugga alla condanna e presentano subito il conto: pochi, maledetti e subito. Che però è un detto di commercianti».
Su Scajola, arrestato per vicinanza a Matacena, ora piovono accuse su accuse. Dal solito concorso esterno, all'inedito «omicidio per omissione» di Marco Biagi...
«Un classico per chi è in carcere. Ricordi accuse e pentiti che si moltiplicarono per l'innocente Enzo Tortora».
Vale ancora il detto «male non fare, paura non avere»?
«Realisticamente, no. La legge impone al pm di non portare in giudizio un imputato se non sia convinto che ne otterrà la condanna. Poiché assoluzioni e condanne in uno stesso processo si accavallano, è chiaro che la norma è disattesa».
In più, la gogna delle intercettazioni di cui è vittima anche l'incolpevole.
«Pratica da Stato autoritario. Contraria alla legge che le regola e alla sentenza della Consulta che, nel '74, fissò i casi in cui sono ammesse».
Il «reato» di concorso esterno in associazione mafiosa è illegale.
«Invenzione giurisprudenziale, sconosciuta al Codice penale».
Ha fondamento questa invenzione per persone come Totò Cuffaro e Marcello Dell'Utri?
«Questo reato è spesso una forzatura: permette di criminalizzare i comportamenti più vari. La contiguità con la mafia può andare da uno a cento e si penalizza uno come cento».
Chi è responsabile di tanta illegalità nella Giustizia?
«I politici. Hanno l'enorme colpa di non avere fatto una vera riforma della Giustizia in questi vent'anni, inseguendo invece gli umori della piazza».
E le toghe sono dilagate.
«Un magistrato che fa un comizio politico contro il presidente della Repubblica (Ingroia, ndr). Quattro pm che vanno in tv per ammonire il governo a non fare una legge (pool di Milano ai tempi di Mani pulite, ndr). Settanta pm che mandano un fax al Parlamento ingiungendogli di bloccare la riforma della Giustizia (ai tempi della Bicamerale, ndr). Abbastanza per dire che c'è un enorme problema di separazione dei poteri che la politica non affronta».
Il Guardasigilli, Orlando, è all'altezza?
«Di buono ha che è un politico. Loro, prima o poi, capiscono. Se alla Giustizia mettiamo un giurista, è peggio. Il problema è quello manzoniano (Il coraggio, uno non se lo può dare, ndr).
Il Parlamento autorizza addirittura il carcere preventivo dei suoi, come con Genovese del Pd.
«Che quattro giorni dopo era ai domiciliari perché il giudice non ha ritenuto necessario il carcere. Che penseranno di sé i parlamentari che ce lo hanno spedito?».
Per dire il Paese: la sera delle manette, Crozza in tv ha fatto il pirla su Genovese (e mesi prima su Cosentino).
«Facile fare dello spirito sulla pelle degli altri. Ma se tocca a noi, cambiamo registro. Mai visto nessuno con tanta sfiducia nei giudici, quanto i magistrati che incappano nelle attenzioni dei colleghi».
Il carcere duro si concilia con lo Stato di diritto?
«Il 41 bis è una tortura democratica. Un trattamento disumano vietato dalla Costituzione».
La trattativa Stato-mafia, cara alla Procura di Palermo, attiene alla sfera giudiziaria o politica?
«Il reato di trattativa non esiste. Ci sono arrivati anche antimafiosi doc, come Marcelle Padovani, biografa di Falcone, e Giovanni Fiandaca, studioso pd del fenomeno. Pur di evitare che mettano una bomba all'Olimpico, io parlo anche con Belzebù».
Come se ne esce?
«Con la ventilazione della magistratura».
Frullarla via?
«Aprire ad altri l'accesso in magistratura: professori e avvocati. Aria fresca in una corporazione chiusa. E...».
E?
«Dopo la laurea, una Scuola superiore delle tre professioni giudiziarie per una comune cultura della giurisdizione. Poi si sceglie: chi avvocato, chi giudice, chi pm. Prima però, quindici giorni di carcere per tutti. Bugliolo, pane e acqua, ispezioni corporali».
"I magistrati forzano le leggi. Ormai è scontro con lo Stato". Giorgio Spangher, esperto di Procedura: "L'esempio di conflitto è il processo a Napolitano sulla trattativa Stato-mafia. Non c'è più equilibrio tra le parti, nei processi i giudici stanno con l'accusa", scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Quando incontri una persona, c'è un prima e un dopo. Il prima è l'infarinatura che hai di lei senza conoscerla. Il dopo è quando ti sta davanti agli occhi. Del professor Giorgio Spangher sapevo che è un numero uno della Procedura penale di cui, dopo averla insegnata a Sassari e Trieste (sua città natale), è ordinario alla Sapienza di Roma, supremo punto d'arrivo universitario. Al telefono mi ero fatto anche l'idea che fosse autoritario, perché di poche parole e ipermattiniero al punto che ho rischiato un appuntamento alle 7.30, spostato alle 8,30 con abile trattativa. Alla fine mi sono detto che a settant'anni, tanti ne ha Spangher, ha il diritto di essere bacchettone. Con questo bagaglio cognitivo, mi sono presentato da lui. Incontro uno di quei settantenni che madre natura moltiplica ai nostri giorni: dimostra a stento cinquant'anni. Ha parlantina torrentizia, è caratterialmente cordiale e propone, da bon vivant, di andare nel giardino a goderci il sole romano anziché starcene nella hall del suo albergo come due grami mediatori d'affari. Mentre sediamo, è lui a ricordarmi ciò che ho omesso nella presentazione. Ossia che, oltre a essere docente, è anche preside della Facoltà di Legge. Però lo dice solo per pregarmi di non scriverlo - ma come faccio? - perché lui, parlando di Giustizia, vuole farlo a nome suo, senza le cautele cui una veste istituzionale, come quella di preside, lo costringerebbe. Insomma, è unicamente il prof che parla. Stavo per fargli una domanda scemetta, tanto per rompere il ghiaccio, quando metto meglio a fuoco il suo aspetto. Ha barba nera, occhi vigili e un paio di jeans. Sembra il personaggio di un western. Così, adattandomi alla scoperta, ho sparato a bruciapelo una domanda micidiale: «Se fosse incriminato, direbbe: "Ho la massima fiducia nella magistratura?"». Spangher reagisce con un sorriso tirato, ci pensa su e dice: «Non mi sbilancerei con una affermazione così netta». Vuole dire che, se gli capitasse, sarebbe stravolto, conoscendo i suoi polli. Ma usa garbate circonlocuzioni. Lo farà spesso. È quindi utile che vi dica subito come ho capito io che la pensa Spangher, anche quando si esprime in modo cripitico-docenziale. Il professore è più che convinto che la Giustizia sia malata e i magistrati eccedano. Ma anche che la gente è dalla loro parte e non accetta distinguo. È furiosa per le ruberie dei politici, tanto più odiose in tempi di crisi. Invoca la ramazza e osanna chi la usa. Perciò, pensa con amarezza Spangher, è il momento peggiore per sognare riforme garantiste. Leggete dunque l'intervista con queste lenti.
Il giudice è più vicino al pm che ai diritti della difesa?
«Sostanzialmente vero. Il grande problema del processo è l'equilibrio dei poteri, tra difesa, pm e giudice».
Equilibrio che manca.
«Spesso il giudice si schiera più sulle tesi accusatorie. Ma c'è anche un altro equilibrio in crisi».
Cioè?
«Quello tra la magistratura e gli altri poteri dello Stato. Quando nasce un conflitto tra Procura di Palermo e capo dello Stato (trattativa Stato-mafia, ndr) o tra Procura di Milano e Governo (sul segreto di Stato nel caso Abu Omar, ndr), significa che il livello di guardia è superato».
C'è abuso del carcere prima del processo?
«Il nuovo codice di procedura aveva sostituito la carcerazione preventiva, ossia l'anticipo della pena, con la custodia cautelare, semplice misura di precauzione che non sottintendeva la probabilità della condanna. Ma le leggi successive ci hanno, di fatto, riportati al carcere preventivo. La galera non è più l'ultima ratio».
C'è abuso di intercettazioni?
«Spesso non sono rispettati i presupposti di legge per farle».
I giudici violano le leggi?
«Le forzano. Di fronte alle obiezioni della difesa, vanno avanti per la loro strada. Se nei codici c'è scritto immediato, che per me significa subito, il giudice interpreta dieci giorni; se c'è scritto assolutamente indispensabile, il magistrato interpreta opportuno, utile».
Pura illegalità. Bisognerebbe scendere in piazza.
«Ci andrebbe da solo. La gente no, perché capisce che si sta facendo pulizia. Sentito parlare della Rivoluzione francese? Quelli che andavano a vedere le esecuzioni? Siamo lì. Il processo penale è sensibilissimo a questi umori».
È tollerabile la legislazione speciale per i mafiosi, dai processi di massa al carcere duro?
«Il doppio binario è accettabile. Ci ha fatto uscire dal terrorismo, vincendolo per via giudiziaria, pur piegando le norme con leggi di emergenza. Ha consentito di restare nella legalità. Altri hanno impiccato i terroristi in carcere».
Con la scusa dei mafiosi si è finito per colpire i non mafiosi con il reato inventato del concorso esterno. Costituzionale?
«Dirmi perplesso è un eufemismo. I poliziotti, per esempio, per svolgere i loro compiti, devono navigare in una zona grigia: il caso Contrada».
Cuffaro e Dell'Utri hanno sette anni a testa per concorso esterno.
«Il diritto penale deve distinguere tra l'illecito e il grigio. Il cosiddetto concorso esterno non è nella zona illecita, ma in quella grigia. Come tale, non è sanzionabile».
L'Università come si schiera di fronte a queste bestiali forzature?
«Salvo eccezioni, sviluppa una linea garantista. Guarda al sistema, non all'emergenza. Docenti e studenti hanno metabolizzato i principi di garanzia della Convenzione Ue».
La magistratura dilaga dalla politica industriale (Ilva) alla camera da letto (Ruby). Perché?
«Vuole moralizzare la società, mentre dovrebbe solo applicare la legge».
Le colpe della politica per le invasioni di campo?
«Enormi! Ha delegato alle toghe funzioni proprie. Ma, soprattutto, con la sua corruzione, fa sempre più emergere la magistratura».
L'ultimo Guardasigilli degno del nome?
«Giuliano Vassalli. Introdusse il nuovo codice di procedura penale».
Separazione delle carriere tra giudici e pm?
«Certo. Nella logica dell'equilibrio dei poteri. Oggi, i muscoli sono solo da una parte: quella delle toghe contro i difensori».
Pensiero finale.
«Grande confusione sotto il cielo».
Siamo lo Stato dei Gattopardi? Non c'è niente da fare, deve ripartire tutto dalla legalità, scrive Camilla Doninelli su “L’Indro”. In un periodo storico dove sembra che il concetto di legalità abbia lasciato spazio al ‘malaffare’ e non solo, è il caso di riaprire le pagine della storia per ricordare che ci sono uomini che hanno dato la loro vita per difendere ciò che è giusto. In teoria dovrebbe venire spontaneo il collegamento diretto al 1992, anno in cui Falcone prima, Borsellino poi, persero la vita per portare alla luce verità scomode, per smantellare le organizzazioni criminali usando l’arma della giustizia, della legge e della perseveranza. A distanza di ventitré anni come è cambiata la percezione della legalità e della lotta alla mafia da parte della cittadinanza? Sicuramente qualcosa è cambiato. La paura ha lasciato il posto alla denuncia, da una parte, dall’altra c’è stata, purtroppo, una perdita di fiducia nelle istituzioni che ha portato ad uno smarrimento. Siamo ancora agli inizi di un processo lungo, ciò su cui si deve far leva maggiormente è la cultura della legalità, o meglio educare alla legalità. Vivendo in uno Stato di diritto, il rispetto delle leggi e delle regole dovrebbe essere una consuetudine affermata e radicata (soprattutto nella mentalità e nella cultura di ogni singolo individuo), però molte volte siamo sopraffatti da amnesie. La legalità è sempre sulle prime pagine, anche perché la cronaca ci sta mostrando l’anima nera della società, della politica, delle istituzioni, delle associazioni mafiose che continuano a padroneggiare. La vogliamo chiamare mafia, malaffare, illegalità? Anche se usiamo nomi differenti il risultato rimane sempre lo stesso: reato contro la civiltà, contro il singolo, contro tutti. Parlarne, unicamente, non è sufficiente, agire e pungolare il nostro senso di giustizia (vera e non farlocca o raffazzonata) è la leva giusta per cambiare. “E’ necessario che si faccia strada, in parti più avvertite della società civile, la convinzione che la strategia di contrasto alla criminalità mafiosa non sarà mai vincente se sarà incentrata solo sul terreno investigativo e non su quello socio,politico e culturale. E’ bene che si tenga presente che la mafia non è un fenomeno criminale circoscritto alla Sicilia, ma purtroppo ha scavalcato i confini per espandersi dove ha trovato terreno fertile, là dove ha potuto contare su reti di continuità, di connivenze ma anche di collusioni e complicità”. Come dar torto a Leonardo Guarnotta, ex magistrato del pool antimafia. “Ritengo che tutto parta dal significato del termine legalità. Ciò significa conformità alle prescrizioni legali, e prescrizione significa norma di legge e comando – continua Guarnita – Allora la legalità, e anche il suo sinonimo la legittimità, significa rispetto delle regole, acquiescenza alla norma, obbedienza al comando della legge; significa rispettare le regole della convivenza, uniformare la propria condotta alla legalità. Fare in modo che la forza del diritto abbia sempre la meglio sul diritto della forza. In altri termini per legalità si intende quel complesso di diritti e doveri, di ogni cittadino, che gli permetta una vita serena all’interno di una società Purtroppo, sempre più stesso, anche negli ultimi tempi, gli interessi personali e individuali hanno la meglio su quelli che sono i bisogni collettivi, denaro e potere continuano ad accentrarsi sempre nelle mani di soliti pochi. Parte tutto dal concetto di legalità”.
A che punto siamo nella pratica? Dovremmo essere più solerti. Nonostante ci sia, sicuramente, una maggiore coscienza e un malessere palpabile, come abbiamo ribadito c’è parecchio lavoro da fare. Non possiamo addossare la colpa unicamente alle Istituzione e allo Stato (c’è chi aggiungerebbe “lo Stato siamo noi”), “ma un esame di coscienza non guasterebbe. Abbiamo il difetto di inquadrare “il problema sempre in maniera individuale, non in generale. Dobbiamo pensare alla collettività. Tutti lottano e protestano per un loro problema, ma devono capire che il problema è di tutti. Purtroppo dobbiamo smantellare il nostro egoismo”. Antonio Giangrande, studioso di mafie e presidente dell’associazione CONTROTUTTELEMAFIE, ci mette davanti allo specchio.“Siamo lo Stato dei Gattopardi, tendiamo a mantenere lo status quo - spiega Giangrande – In Italia nulla è come appare. Noi, come cittadini, quando parliamo di legalità, cioè un comportamento conforme alla legge, dobbiamo fare un’esame di coscienza, analizzare tutto quello che facciamo chiedendoci se le nostre azioni si sono svolte conformemente alla legalità. Dobbiamo innanzitutto cambiare la nostra cultura. Non si possono fare le leggi contro qualcuno e non contro qualcosa, i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Lo Stato ha perso fiducia, basta vedere i risultati elettorali”. E’ fondamentale “l’impegno della società civile, perché giochiamo una partita: la lotta alla mafia e quindi la lotta all’illegalità, che noi non possiamo assolutamente perdere. E’ una partita che si gioca nella quotidianità delle relazioni umane, nelle scuole, nelle facoltà universitarie, negli ospedali, negli uffici pubblici, nelle imprese commerciali, negli istituti di credito ma anche nelle scelte individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali - afferma Leonardo Guarnotta - Le scelte che vengono fatte dai segretari dei partiti nel selezionare i candidati da inserire nelle liste. In mancanza di sanzioni, ma soprattutto nella più completa assenza di un’autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica (e c’è ne è molta in questi ultimi tempi) rimarrà impunita. Sarà solo un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare ed ad eleggere a Palermo Marcello Dell’Utri. Ciò che non va bene, anche, è che in questo contesto temporale si è palesata una forte contrapposizione tra potere politico e magistratura che certamente non ha fatto bene né all’una istituzione né all’altra”. Però in ambito sociale bisogna riconoscere il ruolo fondamentale delle Associazioni, che in questo momento rappresentano la parte coscienziosa della nostra società. Lotta alla mafia a viso aperto. O anche come, appunto, l’attività svolta da Giangrande (a livello associazionistico). “Ogni associazione, non solo antimafia, ha il compito di assistere, di far avvicinare le vittime all’autorità pubblica”. Ma ha anche sottolineato il problema che in alcuni casi il lavoro svolto diventa quasi un business, “in Italia l’antimafia è diventato un business, e sicuramente questo non lo volevano né Falcone né Borsellino”. Business o no, comunque, il nostro alleato di maggioranza dovrebbe essere lo Stato, le Istituzioni. Ma questa non è una rivelazione, meglio un appello. Siamo consapevoli che dal 1992 qualcosa è cambiato, “nulla sarà come prima - giustamente afferma Guarnotta – è stato un punto di non ritorno. La società civile è stata allertata da questi fatti, ha capito che era successo qualcosa di veramente importante, qualcosa che ha cambiato e contribuirà a cambiare lo status quo ante”. Ci fu “la costituzione di parte civile in processi di mafia da parte di associazioni di volontariato, anche da parte di associazioni come Confcommercio e Confartigianato e altre, hanno segnato una svolta perché mai era successo una cosa di simile in precedenza”.
G8 E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLO STATO.
7 aprile 2015. G8 Genova, Corte Strasburgo condanna l'Italia: "Alla Diaz fu tortura, ma colpevoli impuniti. La polizia non collaborò per identificare gli agenti". La censura al nostro paese per non aver promulgato una legge sul reato specifico, la cui assenza dall'ordinamento ha consentito ai responsabili del pestaggio di evitare qualsiasi sanzione. Il sindacato Siap: "Verdetto esagerato", scrive “La Repubblica. Quanto compiuto dalle forze dell'ordine italiane nell'irruzione alla Diaz il 21 luglio 2001 "deve essere qualificato come tortura". Lo ha stabilito la Corte europea dei diritti umani che ha condannato l'Italia non solo per il pestaggio subìto da uno dei manifestanti (l'autore del ricorso) durante il G8 di Genova , ma anche perché non ha una legislazione adeguata a punire il reato di tortura; un vuoto legislativo che ha consentito ai colpevoli di restare impuniti. "Questo risultato - scrivono i giudici - non è imputabile agli indugi o alla negligenza della magistratura, ma alla legislazione penale italiana che non permette di sanzionare gli atti di tortura e di prevenirne altri". All'origine del procedimento c'era il ricorso presentato da Arnaldo Cestaro, manifestante veneto che all'epoca aveva 62 anni e che rimase vittima del violento pestaggio da parte della polizia durante l'irruzione nella sede del Genova Social Forum. L'uomo, il 21 luglio 2001, era il più anziano dei manifestanti presenti nella scuola Diaz a Genova. Gli agenti lo sorpresero mentre dormiva, gli ruppero un braccio, una gamba e dieci costole durante i pestaggi. Nel ricorso, portato avanti dagli avvocati Nicolò e Natalia Paoletti, Joachim Lau e Dario Rossi, Cestaro afferma che quella notte fu brutalmente picchiato dalle forze dell'ordine tanto da dover essere operato e subire ancora oggi le conseguenze delle percosse subite. Sostiene inoltre che le persone colpevoli di quanto ha subìto avrebbero dovuto essere punite adeguatamente, ma che questo non è mai accaduto perché le leggi italiane non prevedono il reato di tortura o reati altrettanto gravi. I giudici gli hanno dato ragione in toto, decidendo all'unanimità che lo stato italiano ha violato l'articolo 3 della convenzione sui diritti dell'uomo dove recita: "Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti". La Corte di Strasburgo ha stabilito dunque che il trattamento che è stato inflitto al ricorrente deve essere considerato come "tortura". Ma nella sentenza i giudici sono andati oltre, affermando che se i responsabili non sono mai stati puniti è soprattutto a causa dell'inadeguatezza delle leggi italiane, che quindi devono essere cambiate. La mancata identificazione degli autori materiali dei maltrattamenti è dipesa, accusano poi i giudici, "in parte dalla difficoltà oggettiva della procura a procedere a identificazioni certe, ma al tempo stesso dalla mancanza di cooperazione da parte della polizia". Nella sentenza si sottolinea quindi che la mancata considerazione di determinati fatti come reati non permette, anche in prospettiva, allo Stato di prevenire efficacemente il ripetersi di possibili violenze da parte delle forze dell'ordine. In particolare per quanto riguarda il caso di Cestaro, "aggredito da parte di alcuni agenti a calci e a colpi di manganello", la Corte parla di "assenza di ogni nesso di causalità" fra la condotta dell'uomo e l'utilizzo della forza da parte della polizia nel corso dell'irruzione nella scuola e di maltrattamenti "inflitti in maniera totalmente gratuita" e qualificabili come "tortura"; reato per il quale non può essere prevista quella prescrizione che ha salvato anche i pochi responsabili delle violenze di quei giorni finiti sotto processo. L'azione avviata da Cestaro assume particolare rilevanza poiché è destinata a fare da precedente per un gruppo di ricorsi pendenti. L'Italia dovrà versare a Cestaro un risarcimento di 45mila euro. "I soldi non risarciscono il male che è stato fatto. E' vero, è un primo passo quello di oggi, ma mi sentirò davvero risarcito solo quando lo Stato introdurrà il reato di tortura", è stato il commento di Cestaro dopo la lettura della sentenza. "Oggi ho 75 anni, ma non cancellerò mai l'orrore vissuto. Ho visto il massacro in diretta, ho visto l'orrore con il volto dello Stato. Dopo quindici anni, le scuse migliori sono le risposte reali, non i soldi. Il reato di tortura deve essere introdotto nel nostro ordinamento". La proposta di legge che introduce nel codice penale il reato di tortura è all'esame del Parlamento da quasi due anni: approvata dal senato poco più di un anno fa, il 5 marzo 2014, dopo una discussione durata 8 mesi, ora è in seconda lettura alla camera dove il 23 marzo scorso è approdata in aula per la discussione generale. L'esame dovrebbe riprendere in settimana, dopo l'ok alla riforma del terzo settore, con i tempi contingentati e quindi certi e rapidi. Ma il testo, già modificato dalla Commissione giustizia di Montecitorio, dovrà tornare al Senato. Le sentenze della Corte europea dei diritti umani sui fatti avvenuti a Genova dopo il G8 non sono ancora finite. Davanti ai giudici di Strasburgo pendono altri due ricorsi presentati da 31 persone per i pestaggi e le umiliazioni ai quali furono sottoposti nella caserma di Bolzaneto. La Corte non ha ancora deciso ufficialmente quando emetterà le sentenze, ma fonti di Strasburgo affermano che non tarderanno molto ad arrivare.
Giuliani: ''Condanna positiva ma anche rabbia: la Corte bocciò nostro ricorso''.
Secondo il Sap, il Sindacato autonomo di polizia, "Diaz non è stata sicuramente una bella parentesi, ma parlare di tortura mi sembra eccessivo". Il segretario nazionale del Sap, Gianni Tonell, ha poi aggiunto: "In Italia la normativa c'è già ed è ampiamente presente ha aggiunto - il problema è che non è stata ancora qualificata come tale perché si cerca di far passare un manifesto ideologico contro le forze dell'ordine".
La sentenza di Strasburgo è stata commentata anche da Patrizio Gonnella, presidente dell'Associazione Antigone : "C'è una giustizia a Strasburgo. L'Italia condannata per le brutalità e le torture della Diaz che, finalmente in Europa e solo in Europa, possono essere chiamate tortura. In Italia questo non si può fare perché manca il reato nel codice penale. Un fatto vergognoso e gravissimo, lo avevamo detto più volte. Fra l'altro c'è un nostro ricorso analogo pendente a Strasburgo per le violenze nel carcere di Asti dove, ugualmente, la Corte ha rinunciato a punire in mancanza del reato. Speriamo che questa sentenza renda rapida la discussione parlamentare e ci porti ad una legge che sia fatta presto e bene, cioè in coerenza con il testo delle Nazioni Unite".
Secondo Enrica Bartesaghi, presidente del Comitato Verità e Giustizia per Genova, l'associazione che riunisce i familiari delle vittime dei pestaggi durante il G8, la sentenza rappresenta un "risarcimento morale": "Si tratta di un precedente ottimo. Un precedente che ci dà una risarcimento morale per le torture avvenute".
Diaz, il pm: "ci presero per pazzi". Il sindaco: "impuniti i colpevoli". Giuliano Giuliani: "Confermate le brutture dello stato italiano", scrive “la Repubblica”. "Quando abbiamo detto che c'erano stati casi di tortura siamo stati presi per pazzi e noi avevamo solo citato i principi della corte europea di giustizia". Lo ha detto Enrico Zucca che sostenne l'accusa nei processi per i fatti della Diaz. "Questi fatti sono gravissimi per l'Italia perchè hanno visto coinvolti i vertici delle forze di polizia che hanno ricevuto in questi anni attestazioni di stima e solidarietà come se non fossero stati coinvolti da questi fatti e mi rifiuto di credere che non abbiano funzionari migliori di quelli che sono stati condannati", ha aggiunto. Il sostituto procuratore generale Enrico Zucca ha proseguito: "Il quadro è molto desolante perché la gran parte dei fatti degli abusi non è stata perseguita. Bisogna riuscire a prevenire fatti di questo genere e in Italia non abbiamo antidoti all'interno del corpo di appartenenza. Le dichiarazioni fatte dopo la sentenza definitiva dall'allora capo della polizia Manganelli non sono solo insufficienti ma dimostrano la mancata presa di coscienza di quello che è successo. Lui fece delle scuse, ma parlando di pochi errori di singoli senza riflettere sulla vastità del fenomeno". "La tortura - ha detto Zucca - è l'abuso di autorità di chi la commette. L'ha detto la Cassazione, lo dice la Corte di Strasburgo". "La notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 abbiamo tutti vissuto una pagina oscura nella recente storia italiana. Non posso non esprimere il mio rammarico per gli eventi accaduti presso la scuola Diaz-Pertini di Genova, eventi che oggi la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo ha espressamente qualificato come atti di tortura. Il mio primo pensiero va al signor Cestaro e a tutti coloro che come lui quella notte furono torturati.". L'ha dichiarato all'Ansa Nicolò Paoletti, l'avvocato che ha rappresentato Arnaldo Cestaro alla Corte di Strasburgo. Il legale sottolinea anche l'altro motivo che rende così importante la sentenza Cestaro. "La Corte di Strasburgo ha condannato l'Italia anche per non aver previsto nel proprio ordinamento disposizioni penali adeguate a sanzionare efficacemente gli atti di tortura commessi nel caso di specie e a fungere da deterrente necessario per prevenire simili violazioni in futuro" afferma Paoletti. "L'assenza del reato di tortura in Italia nonostante gli obblighi internazionali assunti, in particolare con la ratifica della Convenzione di New York del 1984, è assolutamente deplorevole", conclude il legale di Cestaro. "La sentenza della Corte di Strasburgo riconosce la tragica realtà delle violenze perpetrate alla Diaz e mette a nudo la responsabilità di una legislazione che non prevede il reato di tortura e per questa ragione lascia sostanzialmente impuniti i colpevoli". Lo ha detto il sindaco di Genova, Marco Doria, secondo il quale si tratta di una "sentenza di grande valore, non solo da rispettare, ma da condividere pienamente. La Città di Genova, che è stato teatro di quelle violenze, la accoglie come fatto di verità e di giustizia"."Uno stato democratico non può ignorare il reato di tortura e non deve mai tollerare che uomini che agiscono in suo nome compiano atti di brutale violenza contro le persone e i diritti dell'uomo", ha osservato Doria secondo il quale "questa è una condizione essenziale anche per difendere la dignità di quanti operano invece negli apparati dello stato secondo i principi della Costituzione". "Finalmente la Corte europea ha determinato ancora una volta le brutture commesse dallo Stato italiano. Già la sentenza di Cassazione su Bolzaneto aveva stabilito che lì c'erano state torture ma questo povero paese non ha una legge sulla tortura come gli altri paesi civili e quindi non si è fatto nulla". Lo ha detto all'ANSA Giuliano Giuliani, papà di Carlo, ucciso da un carabiniere durante gli scontri in piazza a Genova durante il G8 del 2001."Per anni la Diaz era stata considerata una perquisizione legittima e a Bolzaneto si distribuivano cioccolatini e caramelle" ha aggiunto Giuliano Giuliani. "Fu la sentenza di secondo grado che diede un giudizio negativo, ma fino al 2010 il giudizio che veniva fuori dalle aule di tribunale, dal potere politico e dalla grande informazione era che si trattava di una perquisizione, non di una macelleria messicana, come un poliziotto che vi partecipò alla fine ammise". "Chissà se l'attuale governo troverà il tempo di occuparsi di queste cose che riguardano la dignità del Paese" ha detto ancora Giuliano Giuliani. "La Diaz fu tra l'altro un effetto delle pressioni dell'allora capo della polizia Gianni De Gennaro - ha aggiunto Giuliani - come scrive anche la Cassazione. Le sue pressioni per fare recuperare credibilità alla polizia dopo la morte di Carlo e gli scontri portarono alla Diaz". Giuliani ricorda: "la condanna in Italia per la Diaz non è tanto per la macelleria in sé ma per il falso che venne commesso inducendo l'ispettore e l'agente a introdurre le due bottiglie molotov nella scuola. I poveretti che presero le botte rischiarono anche 14 anni di carcere per terrorismo per le due molotov che i poliziotti misero nella scuola di nascosto". "Mi indigna una cosa - ha concluso Giuliani -: che la prova regina di quel falso è un filmato di 5,5 secondi che li fa vedere fuori dalla scuola con il sacchetto con le due molotov. 5,5 secondi di video sono serviti per condannare i più alti capi della polizia ma ore di video sulla morte di Carlo non sono serviti a smentire l'imbroglio sullo sparo deviato". "La sentenza di oggi descrive quello che tutti sapevano e tutti sanno in tutto il mondo, cioè che in quei giorni c'è stata una gravissima violazione dei diritti umani con l'irruzione alla Diaz e le torture" ma "a 15 anni di distanza da quei fatti non c'è ancora una legge sulle torture in Italia, non è stato messo il numero identificativo sui caschi dei poliziotti come avviene in altri paesi europei e soprattutto lo stato, le istituzioni non hanno neanche chiesto scusa ai giovani che sono stati massacrati e alle loro famiglie". Lo ha dichiarato Antonio Bruno, capogruppo della federazione della sinistra nel consiglio comunale di Genova e membro del Comitato Verità e giustizia per Genova. "Purtroppo -ha sottolineato Bruno- sono passati quasi 15 anni e con queste battaglie siamo invecchiati ma vedere riconosciuto ad un livello così alto quello che tutti sapevano è sicuramente un fatto positivo. Noi non vogliamo vedere la gente in carcere ma i responsabili di fatto -ha ricordato l'esponente del Comitato - non hanno avuto al momento nessun tipo di misura cautelativa, anzi molti sono stati anche promossi. Questo -ha concluso- dice molto su come la democrazia in Italia abbia avuto un decadimento".
Tortura, 30 anni di omissioni e ritardi. La Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia per le violenze alla Diaz e per non aver introdotto il reato nel codice penale. Come prevede una Convenzione Onu del 1984. Ma finora il Parlamento ha fatto di tutto pur di non tener fede agli impegni. E il provvedimento ora all'esame della Camera è assai lontano dal testo delle Nazioni Unite, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. La “macelleria messicana”, come il vice questore aggiunto Michelangelo Fournier definì l’irruzione alla scuola Diaz, “deve essere qualificata come tortura”. E l’Italia dev’essere condannata non solo per le lesioni subite da Arnaldo Cestaro, che quella notte del 21 luglio 2001 riportò la rottura di dieci costole, un braccio e una gamba. Ma anche perché, a trent’anni di distanza, il nostro Paese non ha ancora introdotto il reato di tortura nel codice penale, contrariamente a quanto prevede un’apposita Convenzione dell’Onu. Una “omissione” che di fatto non esclude la possibilità che casi del genere possano ripetersi. Nessuna divergenza di vedute: è una pronuncia all’unanimità quella con cui la Corte di giustizia europea ha previsto 45 mila euro di risarcimento nei confronti di Cestaro, il più anziano delle vittime di violenze alla Diaz nei giorni caldi del G8 di Genova. Un calvario che - fra le numerose operazioni subite e gli strascichi che le manganellate della polizia hanno lasciato - ancora fa sentire i suoi effetti su quest’uomo che all’epoca aveva 62 anni e oggi ne ha 76. Una sentenza che crea un precedente e spalanca le porte agli altri ricorsi pendenti davanti alla Corte di Strasburgo (solo per la Diaz sono 30 in tutto). Ma che colpisce soprattutto per le sue motivazioni. Nel mirino dei giudici finisce infatti anche l’inadeguatezza della nostra legislazione: nel 1984 l’Italia firmò la Convenzione di New York, che fu ratificata dal Parlamento quattro anni dopo con l’impegno a introdurre il reato di tortura nel nostro ordinamento. Solo che da allora ogni tentativo è miseramente fallito. Così Giuliano Giuliani, il papà di Carlo Giuliani, il ragazzo ucciso il 21 luglio del 2001 in piazza Alimonda durante gli scontri di piazza tra manifestanti e forze dell'ordine nell'ambito del G8 di Genova, commenta la sentenza della Corte Europea dei diritti dell'uomo che oggi ha condannato l'Italia stabilendo che quanto compiuto dalle forze dell'ordine durante l'irruzione nella scuola Diaz il 21 luglio del 2001 "deve essere qualificato come tortura"intervista di Lucia Tironi. In tempi recenti anche l’Universal periodical review - ovvero l’esame periodico della situazione dei diritti umani negli Stati membri dell’Onu, effettuato dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite - è tornato alla carica con l’ennesima “raccomandazione”. Ma non è cambiato nulla. E anche la proposta di legge approvata dal Senato oltre un anno fa (attualmente all’esame della Camera) è lontana rispetto al testo della Convenzione. A ripercorrere la storia di questi tentativi fallimentari, in filigrana si leggono tutte le resistenze con cui ampi settori della classe politica italiana hanno sempre affrontato questo tema. Come se punire un agente che si spinge troppo in là non fosse anche nell'interesse delle stesse forze dell'ordine. La prima proposta per introdurre il reato di tortura risale al lontano 1989. Ma non se ne fa nulla. Tre anni dopo, nel 1992, è il governo Amato a prendere in mano la situazione con un disegno di legge relativamente light: la tortura è prevista come semplice aggravante dei reati colposi contro la persona commessi da un pubblico ufficiale. Eppure il Parlamento non inizia nemmeno l’esame del provvedimento. E la storia si ripete a ogni legislatura: dal 1996 a oggi l'Espresso ha censito ben 66 proposte di legge sulla tortura, ma la maggior parte non ha neppure iniziato l'iter parlamentare. Nel 2006 la svolta sembra arrivare davvero: a fine anno la Camera approva in prima lettura un testo unificato ma al Senato la risicata maggioranza che sostiene il secondo governo Prodi non ha i numeri per l'approvazione e la norma naufraga pochi mesi dopo a Palazzo Madama. Scena identica nel 2012, col governo Monti: dopo anni di inerzia stavolta è il Senato ad approvare un ddl (in gran parte analogo a quello attualmente in Parlamento) solo che la legislatura finisce e alla fine il provvedimento non viene approvato nemmeno in prima lettura. Salvo imprevisti, ora potrebbe essere la volta buona per mettere la parola fine a questa querelle decennale. Almeno formalmente, perché l’ennesimo disegno di legge approvato al Senato e adesso all’esame di Montecitorio introduce sì il reato di tortura ma lo fa restare un reato comune. Insomma, è imputabile a qualunque cittadino (che può essere punito da 4 a 10 anni). Inoltre, diversamente da vari altri Paesi europei, le pene previste per le forze dell’ordine sono relativamente blande: in Italia si va da 5 a 12 anni, contro i 15 della Francia. Nel Regno Unito - dove la legge esiste dal 1988 - è addirittura previsto l’ergastolo. Nella prima versione, poi modificata alla Camera, il testo prevedeva perfino la reiterazione di “violenze o minacce gravi” per qualificare il reato di tortura. Come dire, essere picchiati brutalmente una sola volta non era ritenuto sufficiente. E pensare che per arrivare a questo mezzo risultato le resistenze sono state comunque durissime. Il disegno di legge, nato dalla fusione di sei diverse proposte dei partiti (Pd, Pdl, M5S, Sel e Gal) è rimasto fermo quasi un anno e mezzo prima di essere discusso: a ottobre 2013, in appena tre mesi, la commissione Giustizia aveva sfornato il testo, che però è arrivato in Aula solo a gennaio 2014 perché il governo Letta per evitare spaccature aveva deciso di accantonare tutti i temi “divisivi”. Come sui diritti civili. E la stessa scena si è ripetuta alla Camera, dove ci sono voluti altri dieci mesi prima che la commissione Giustizia desse al testo il via libera. Adesso il provvedimento è all'esame dell’Aula di Montecitorio. Si è iniziato ad affrontare il tema lo scorso 23 marzo, poi più nulla. Ma l’introduzione del reato di tortura non è l’unica battaglia interminabile. Un destino assai simile lo può vantare infatti anche l’introduzione del codice identificativo sui caschi delle forze dell'ordine, pensato per sanzionare gli agenti che si rendono protagonisti di episodi di violenze nelle manifestazioni come avviene in molti altri Paesi europei. Dopo un lungo e travagliato iter il disegno di legge (risultato di una mediazione fra tre ddl presentati da Pd e Sel), doveva arrivare in discussione al Senato proprio in questi giorni. Ma un paio di settimane fa il ministro dell’Interno Angelino Alfano - su pressing dei sindacati di polizia, che vedono l’identificazione come una sorta di misura punitiva - ha chiesto in commissione Affari costituzionali di rinviare. Questa la spiegazione fornita: non serve parlarne adesso, perché il governo a breve presenterà un progetto di legge sulla sicurezza urbana e il tema sarà affrontato in quella sede. La proposta di Alfano, grazie anche ai voti determinanti del Pd, è stata approvata. E adesso il rischio è di rimandare tutto alle calende greche, come ha detto esplicitamente il forzista Maurizio Gasparri: «Di fatto il governo ha archiviato il provvedimento».
Perché in Italia chi tortura, sia un agente o un privato cittadino, non può essere giudicato per tortura. La sentenza di Strasburgo sulla Diaz ci condanna a quel che sapevamo già: il reato di tortura (invocato, evocato e promesso dai politici) non esiste ancora, scrive Marco Imarisio su “Il Corriere della Sera”. L’ultima volta che se n’è parlato davvero fu alla fine di febbraio del 2008. Per forza di cose, non si poteva fare altrimenti. Anche solo per associazione di idee. Quella era tortura. «Riguardo alle giornate del 20 e 21 luglio 2001 citeremo in particolare il taglio di capelli imposto con la forza a Taline Ender, il capo spinto nella tazza del water a Ester Percivati, lo strappo della mano di Giuseppe Azzolina, le ustioni multiple con sigaretta sul dorso del piede a Carlos Balado, picchiato ripetutamente sui genitali, il terribile pestaggio di Mohamed Tabbach, persona con arto artificiale, l’etichettatura sulla guancia, come un marchio, per i ragazzi arrestati della Diaz al momento del loro arrivo, la sofferenza di Anna Kutschau che a causa della rottura dei denti e della frattura della mascella subìta all’interno della scuola non è neppure in grado di deglutire...». La requisitoria del pubblico ministero al termine del processo sulle violenze avvenute alla caserma di Bolzaneto, che fu il luogo dove vennero portati i ragazzi arrestati durante l’irruzione alla scuola Diaz, ebbe l’effetto di una secchiata di acqua gelida. Vittorio Ranieri Miniati, un magistrato timido, poco incline alla ribalta, quasi piangeva nel leggere quell’elenco di atrocità. Fece una lista della spesa di esseri umani ai quali era stata negata ogni dignità. Picchiati, malmenati, seviziati. Costretti a strisciare per la caserma gridando che Che Guevara era un bastardo comunista, viva il Duce, viva Hitler. Con le ragazze minacciate di stupro “Entro stasera con voi faremo come in Kosovo”, come le foto dei figli piccoli stracciate davanti alle madre, “Tanto non li rivedrai più”. Quel lungo elenco ebbe l’effetto temporaneo di smuovere qualcosa nella pancia del Paese, almeno nella sua opinione pubblica. Se all’indignazione del momento fossero seguiti i fatti, forse oggi non saremmo additati dalla Corte di Strasburgo alla stregua di un Paese sub-sahariano. Ci saremmo risparmiati l’ennesima brutta figura. Fino a quel momento i processi sui fatti del G8 del 2001 erano stati seguiti in una sorta di sbadiglio collettivo. Interessavano a pochi, soltanto alle vittime, a chi c’era, una parte importante della generazione dei ventenni-trentenni di allora che di quelle giornate ha fatto lo spartiacque della propria esistenza, e agli addetti ai lavori. La ragione non andava cercata soltanto nella lunghezza dei processi, che a sette anni da quei giorni tragici ancora navigavano al primo grado di giudizio. Forse c’era dell’altro, c’è sempre stato dell’altro. C’era quella lista della spesa, dettagliata, verificata in ogni possibile modo. Gli abomini compiuti alla Diaz e alla caserma di Bolzaneto da uomini in divisa sono sempre risultati disturbanti, indigeribili per una democrazia che voglia dirsi tale. Provocavano disagio al solo pensiero. Meglio tenerli lontani, dividersi in fazioni invece che affrontare quel che era accaduto. La realtà dei fatti echeggiata in un’aula di tribunale ebbe se non altro l’effetto di svegliare una classe politica, di indurre a un moto di indignazione. Quel processo era come un film del quale si conosceva il finale. E non era certo un happy end. I difensori degli imputati ostentavano una certa disinvoltura, perché sapevano che per i loro assistiti sarebbe stata una passeggiata. Ogni fatto era stato confermato nella sua gravità. Peccato mancasse il reato giusto. L’ordinamento giuridico italiano non prevedeva di chiamare le cose con il loro nome: tortura. Al suo posto i pubblici ministeri si dovettero arrampicare su decine e decine di ipotesi alternative, quasi tutte destinate alla prescrizione. Certo, abbiamo l’articolo 13 della Costituzione, la libertà personale è inviolabile, ogni violenza fisica e morale “sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà” deve essere punita. Ma non c’è scritto come, in che modo. Non c’è mai quella parola. Nel 1988 l’Italia ratificò la Convenzione dei diritti umani contro la tortura, ma si dimenticò di adeguare il codice penale. Da noi chi tortura, sia un funzionario di Polizia che un privato cittadino, non può essere giudicato per tortura. Bisogna farci intorno un lungo giro di parole e di codicilli. Ma dopo quelle requisitorie, sembrò quasi che finalmente qualcosa di stesse per muovere, dopo sette diversi disegni di legge che negli ultimi vent’anni avrebbero dovuto adeguare l’Italia agli standard internazionali. In un profluvio di promesse, l’approvazione del reato di tortura sembrava all’ordine del giorno, oggi no, domani forse, ma dopodomani sicuro. E infatti eccoci qui. Anche il sentimento comune su un argomento discusso e lacerante come il G8 di Genova è andato più veloce. A tanti anni di distanza, sulla Diaz esiste una memoria ormai condivisa, a prescindere da come una la pensa su quei giorni del 2001. Fu una schifezza, una macelleria messicana, per dirla con le parole di uno degli ufficiali di Polizia condannati. «Non c’è emergenza che possa giustificare quel che è accaduto» scrissero i giudici che pure furono costretti a dichiarare prescritti i reati. «L’offesa alla dignità di uomini, la compromissione dei diritti delle persone, quasi sempre spaventate e terrorizzate, a prescindere dal loro comportamento precedente». Nell’anno di grazia 2015 il reato di tortura, invocato, evocato, promesso a ogni battito di cronaca, in Italia non esiste ancora. La sentenza di Strasburgo ci condanna a quel che sapevamo già. Abbiamo una classe politica che si costerna, si indigna, si impegna, cavalca l’onda dell’emotività, e poi non appena quest’ultima è passata, torna subito a fare finta di niente.
Torture alla Diaz. C’è una giustizia in Europa. Non in Italia, scrive Patrizio Gonella su “L’Espresso”. C’è una giustizia in Europa. Non in Italia. A quattordici anni dalle brutalità della Diaz è arrivata la sentenza di condanna da parte della Corte europea dei diritti umani. Come già aveva scritto nero su bianco la Corte di Cassazione in Italia non si può punire per tortura in quanto manca il crimine. Così i giudici di Strasburgo ci hanno condannato per violazione dell’articolo 3 che proibisce la tortura e ogni forma di trattamento inumano o degradante ma anche perché a causa dell’assenza del delitto nel nostro codice in Italia vi è l’impunità per torturatori. Nei prossimi giorni la Camera discuterà la proposta di legge approvata oramai molti mesi fa al Senato. Non è il migliore dei testi. E’ incoerente rispetto al dettato Onu, eppure bastava tradurre dieci righe dall’inglese in italiano. Alla scuola Diaz e al carcere illegale di Bolzaneto si è ritenuto che si potesse instaurare uno stato di eccezione. Il film Diaz di Daniele Vicari ha il merito di avere fatto conoscere a molti giovani di oggi, che nel 2001 erano poco più che bambini, cosa accadde a Genova in quei giorni. Una vergogna nazionale. Uno Stato che non si è costituito parte civile nei procedimenti penali a Genova nei casi Diaz e Bolzaneto, ad Asti per le violenze in carcere, a Roma nel caso della morte di Stefano Cucchi, a Ferrara nel caso Aldrovandi, a Lecce nel caso Saturno etc. etc.. Non solo. Gli imputati in questi procedimenti penali hanno spesso fatto passi in avanti nella carriera nel corso del processo, o quanto meno non hanno subito alcuna sanzione disciplinare. Il messaggio è in questi casi devastante. E’ un messaggio inequivocabile di legittimazione e incentivazione alla perpetrazione di pratiche illegali di tortura. Un messaggio che serve a segnare la forza del potere punitivo incontenibile rispetto a ogni anelito illusorio e ingenuo di legalità democratica. Se queste sono le reazioni dei vertici istituzionali – solidarietà pubblica oppure impunità per i torturatori – di conseguenza non si può ragionevolmente e correttamente sostenere che la tortura sia una questione di mele marce. La tortura non è mai una questione di mele marce salvo non venga incrinato quello spirito di corpo che dal basso arriva sino all’alto e che si propaga dal singolo poliziotto sino alle più alte cariche istituzionali. La tortura e i torturatori si insinuano là dove trovano spazio e terreno fertile, là dove il sistema consenta che alberghi. La tortura è possibile se non trova resistenze istituzionali, contrasto, sanzioni, giudizio pubblico. La lotta alla tortura richiede, oltre alla previsione di un reato imprescrittibile che la punisca, anche una amministrazione dello Stato disposta a sanzionare in tutte le sedi i presunti torturatori. Richiede anche forze di polizia il cui lavoro non sia ispirato al machismo ma alla prevenzione sociale. Richiede infine la rinuncia allo spirito di corpo e la dismissione di squadre e corpi speciali. Il crimine, anche quello più spietato, lo si deve sconfiggere nella legalità e con gli strumenti ordinari del diritto.
Morti di botte, il filo rosso. Da Stefano Cucchi a Giuseppe Uva, fino ad Aldo Bianzino: le difficilissime inchieste per stabilire la verità sulle persone che in Italia vengono arrestate e non escono vive dagli interrogatori, scrive Alessandro Capriccioli su “L’Espresso”. Luigi Manconi insegna sociologia dei fenomeni politici presso l'Università Iulm di Milano. È stato senatore e sottosegretario alla giustizia e garante per i diritti delle persone private della libertà per il Comune di Roma. È presidente dell'associazione 'A Buon Diritto'. Ha scritto, con Valentina Calderone, 'Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri' (Il Saggiatore 2011). Cucchi, lo ricordiamo tutti, era un ragazzo romano morto il 22 ottobre del 2009, dopo essere finito in carcere per alcuni grammi di hashish. Ma il suo, purtroppo, non è stato un caso isolato. Manconi si occupa anche della vicenda di Giuseppe Uva, deceduto nel 2008 dopo essere stato fermato e interrogato dai carabinieri a Varese; e di Aldo Bianzino, falegname di 44 anni, trovato morto il 14 ottobre in una cella di isolamento del carcere di Perugia.
Cucchi, Uva, Bianzino. Tre morti misteriose accomunate dal fatto di essere avvenute in seguito ad arresti da parte delle forze dell'ordine, tre vicende ancora non chiarite. Ci sono novità?
«Ce ne sono, di positive e di negative, in tutti e tre i casi».
Da dove cominciamo?
«Cominciamo da una notizia positiva in relazione alla vicenda di Giuseppe Uva, morto a giugno del 2008 nel reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese dopo essere stato fermato in stato di ebbrezza dai carabinieri. Lo scorso 23 aprile il Tribunale di Varese ha assolto il medico che fino a oggi era l'unico incriminato per la morte di Uva».
Perché questa è una novità positiva?
«Il pubblico ministero aveva accusato due medici del reparto psichiatrico dell'ospedale di Varese di aver somministrato ad Uva degli psicofarmaci incompatibili con il suo stato etilico: il primo era stato prosciolto, e con l'assoluzione del secondo il giudice ha disposto l'invio degli atti alla Procura affinché le responsabilità di quella morte vengano cercate altrove».
Dove, precisamente?
«Nella caserma dei carabinieri, nel corso di quella notte, nel tempo intercorso tra il fermo e il trasferimento al pronto soccorso dell'ospedale. In quella caserma, dalle tre del mattino fino all'alba, erano presenti non solo i carabinieri, ma anche alcuni appartenenti alla Polizia di Stato lì convenuti».
Necessità di ulteriori approfondimenti, insomma.
«Assolutamente sì. Del resto secondo i familiari e secondo noi non ha avuto luogo alcuna indagine seria, al punto che Alberto Biggiogero, l'altro fermato insieme a Uva che afferma di aver sentito dalla sala d'attesa in cui si trovava le urla strazianti dell'amico, e che presentò a tale proposito un circostanziato esposto in Procura, non è mai stato sentito in quattro anni».
Mai?
«Neanche una volta. Si tratta quindi di una novità positiva, perché l'invio degli atti alla Procura affinché svolga le opportune indagini vale a sancire - secondo il mio punto di vista - il fatto che fino a ora quelle indagini non sono state svolte, e che il fascicolo contro ignoti aperto all'epoca dei fatti non è stato seguito in alcun modo».
Con quale caso andiamo avanti?
«Con quello di Stefano Cucchi, per cui la Corte d'Assise di Roma ha chiesto una nuova perizia».
Per stabilire cosa?
«Per rispondere all'interrogativo che, da parte dei familiari di Stefano e da parte nostra, si continua a porre e al quale finora la Procura ha dato risposta negativa: c'è una relazione tra le lesioni per cui sono stati imputati tre agenti della Polizia Penitenziaria e la morte di Stefano? Perché fino ad oggi ci si è occupati soltanto delle circostanze immediatamente precedenti il decesso: l'abbandono, la mancata assistenza, l'insufficienza delle terapie? Ma è di tutta evidenza che senza le percosse Stefano Cucchi non sarebbe stato trasferito all'ospedale Sandro Pertini, non si sarebbe trovato in quello stato di prostrazione fisica e psichica e non sarebbe stato sottoposto all'isolamento che ha dovuto subire».
La richiesta di nuova perizia, quindi, è senz'altro una novità positiva.
«Sì, ma ce n'è anche un'altra di segno opposto. Il funzionario responsabile del trasferimento di Stefano Cucchi al Sandro Pertini, che aveva scelto il rito abbreviato e che era stato condannato in primo grado per abuso d'ufficio e favoreggiamento, è stato assolto in appello perché il fatto non sussiste».
E questo cosa significa?
«Significa che a vari livelli viene smontato il circuito che noi avevamo pazientemente ricostruito: avvenuto il pestaggio e constatata la grave condizione fisica di Cucchi, scatta un meccanismo finalizzato ad allontanarlo ed isolarlo attraverso una serie di mosse convergenti. Lo spostamento al Sandro Pertini, l'isolamento dai familiari che cercano per sei giorni di vederlo e di parlare con lui senza riuscirci: vengono rinviati di ufficio in ufficio, finché il padre ottiene il permesso di accedere al Pertini quando Stefano è già morto da qualche ora».
Uno scenario agghiacciante…
«Che si protrae anche nelle ore successive: basti dire che la prima informazione sulla morte di Cucchi giunta alla famiglia consiste in una visita dei carabinieri alla madre: la invitano a porre nel girello la nipotina che ha in braccio, la fanno sedere e le chiedono di firmare dei fogli su cui c'è la comunicazione dell'orario in cui avverrà l'autopsia. L'autopsia di una persona, il figlio, che fino a quel momento lei riteneva ancora viva».
E sulla vicenda di Aldo Bianzino?
«Solo novità negative, purtroppo. Anche se, nonostante la totale iniquità dell'esito finale, dalle udienze a cui è seguita la condanna di un agente della Polizia Penitenziaria per omesso soccorso emerge che certamente quella notte le cose andarono in modo contrario alla legge. Con particolari addirittura inquietanti».
Ad esempio?
«In una delle ultime udienze un consulente di parte ha dimostrato che per anni nell'attribuire la morte di Bianzino a cause naturali si è partiti da un falso: l'aneurisma cui è stata attribuita la causa del decesso è stato evidenziato, per tutto questo tempo, da un cerchio rosso tracciato su una foto della lastra del cervello di Bianzino. In quella lastra, però, non c'era alcuna traccia dell'aneurisma».
Sembra incredibile.
«Eppure è documentato in modo incontrovertibile, ma non ha cambiato l'iter del processo perché in quella sede si giudicava solo l'omissione di soccorso».
Facendo un passo indietro, cosa unisce queste tre storie, al di là dei particolari che caratterizzano ognuna di esse?
«Certamente il fatto che uomini e apparati dello Stato che avevano in custodia dei cittadini, e che avrebbero dovuto considerare sacra la loro incolumità, hanno violato l'habeas corpus e il principio fondamentale della tutela dell'integrità fisica dell'individuo nelle loro mani. Come del resto avviene per altre decine, per non dire centinaia, di casi dei quali si parla molto poco».
Uno per tutti?
«La vicenda di Luciano Isidoro Diaz, che nel 2009 viene fermato per un controllo stradale e, a seguito del pestaggio subito, perde la vista totalmente ad un occhio e parzialmente all'altro. Un mese fa un carabiniere viene condannato a due anni e tre mesi per lesioni gravi, con l'aggravante di averle commesse nella sua qualità di esponente delle forze dell'ordine: ma altri carabinieri sono sotto processo con l'accusa di aver falsificato atti e verbali per insabbiare la vicenda. Inoltre la Cassazione ha annullato il non luogo a procedere per altri militari, che dunque dovranno rispondere delle violenze di quella notte».
Anche in questo caso le violenza sarebbero avvenute in caserma?
«Sia in caserma che fuori. Diaz ha avuto la forza di denunciare l'accaduto e di andare avanti, anche lui con il sostegno dell'associazione 'A buon diritto' e degli avvocati Fabio Anselmo e Alessandra Pisa».
Un percorso difficile?
«Sì, perché c'è sempre una spessa cortina di nebbia che si oppone all'accertamento della verità quando in fatti del genere sono coinvolti rappresentanti delle forze dell'ordine: mentre sarebbe interesse di tutti mettere in luce quei comportamenti e sanzionarli. Perché il disonore di un certo numero di elementi, non così irrisorio, non finisca per ricadere in modo indiscriminato sull'intera categoria».
AMANDA KNOX, RAFFAELE SOLLECITO E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLA GIUSTIZIA.
Amanda e Raffaele assolti per non aver commesso il fatto. Buona Giustizia Atto uno, scrive “Massimo Prati sul suo Blog “Volando Controvento”. La Cassazione ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito dall'accusa di aver ucciso Meredith Kercher e tutti i media salgono sulla barca del vincitore. Solo l'opinione pubblica, che ancora non ha capito come funziona il pregiudizio mediatico e quanto siano pronti i giornalisti a cambiare rotta pur di navigare in favore di vento, ha il dente avvelenato e chiede ancora la forca per i due ragazzi. Alle casalinghe di Voghera questa assoluzione resterà in gola, perché convinte dai guaiti di quei cagnolini che si accucciano sugli zerbini della procura in attesa di notizie colpevoliste da abbaiare sui video. E pensare che bastava fare due più due per capire che tutto era sbagliato, che tutto era solo l'enorme bluff di una procura che senza attendere gli esiti delle analisi tecniche aveva appoggiato troppo presto la sua lunga mano su due studenti che cercavano di aiutarli. Dopo sette anni e mezzo finalmente si chiude in maniera seria uno dei tanti capitoli di giustizia ridicola che sta infestando il nostro Paese, dove troppi magistrati pescano un colpevole e gli costruiscono addosso una gabbia di cartone, dipinta di color ferro, e usufruendo dell'aiuto mediatico convincono il popolo che la loro logica scadente è la migliore. Ma non è così, non può essere che la verità sia illogica e questa sarà una sentenza che servirà a mettere in riga i troppi magistrati che si sentono potenti e invincibili. Da ora in avanti, dice la Cassazione con questa assoluzione, chi inventerà storielle senza avere in mano nulla di serio, pur di mandare in carcere l'imputato preferito, non verrà coperto, ma lasciato solo a gestire il dopo sentenza. In quel frangente sarebbe il caso che qualche giornalista pubblicizzasse gli errori dei magistrati, così da non permettere che possano far carriera nonostante abbiano dimostrato di sbagliare grossolanamente... perché ancora il sistema non è pronto a decidere cosa farne della sua costola che si incrina. Infatti in questo caso, se non ci saranno giornalisti a criticare, il dopo cosa prevede? Nulla di nulla. E' chiaro che Rudy Guede è l'unico plausibile assassino, anche se è stato condannato perché ha partecipato all'omicidio e non per averlo commesso. Fra pochi mesi, alla faccia di tutti, sarà ugualmente libero di girare fra noi perché nessuna giustizia potrà cambiare le carte ormai cristallizzate. I procuratori non avranno conseguenze perché, come gli oncologi, sono liberi di seguire il loro istinto investigativo e, quindi, di sbagliare a discapito della vita altrui. I tecnici che hanno periziato non contano più niente, nessuno andrà da loro a chiedere il motivo per cui hanno lavorato in maniera scadente o scritto cose poco vere. I poliziotti presenti all'interrogatorio della Knox, che hanno anche visto una sensitiva assistere agli interrogatori, non dovranno neppure giustificarsi. Hanno fatto il loro lavoro. Sono militari: qualcuno più alto in grado ordina e loro ubbidiscono senza fiatare. Questa è la regola. Chi della sentenza si lamenterà è la parte civile che, purtroppo in questo caso come in altri, invece di restare al centro o cercare di fare indagini proprie senza lasciarsi influenzare dalle carte di chi vuole arrivare a una condanna, si adagia a corpo morto alla procura che mai le fornirà notizie o informative contrarie alla propria tesi colpevolista. La procura ha detto che più persone hanno ucciso Meredith, quindi la famiglia Kercher si aspetta che più persone vengano condannate. Poco importa come e con quali motivazioni. Poco importa se per un gioco erotico o perché Guede non ha voluto pulire il bagno. La condanna è ciò che vuole l'accusa e, di conseguenza, ciò che vuole la parte civile. Che ci sia qualcosa di sbagliato nel sistema è facile da capire, che ci sia da lavorare per dividere le carriere dei magistrati e per modificare certe congiunture (parte civile-procura) che ora lavorano in coppia anche. Perché le teste se lavorano in gruppo non ragionano in maniera autonoma... e la giustizia per funzionare al meglio ha bisogno di poca amicizia fra le parti.
Sotto a chi tocca. Oggi in carcere ci sono Veronica, Sabrina, Massimo e tanti altri, ma se il sistema giustizia non cambia domani l'inferno potrebbe toccare anche a noi... Il dottor Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, durante la "stagione storica" che tutti conosciamo col nome "mani pulite" - usò lo strumento che ancora utilizzano tanti procuratori per intimorire gli indagati e ottenere confessioni: la custodia cautelare in carcere. Detto questo, però, tempo dopo fu lui uno dei magistrati che, nonostante la legge gli consenta l'uso di tale strumento di tortura, fece autocritica dicendo che non sempre quanto dallo Stato è considerato legittimo è anche necessario e opportuno. Onore a lui, anche per quanto ha dichiarato dopo la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Non ha peli sulla lingua il dottor Norbio e non si è fatto scrupolo di dire che: "Il magistrato che manda in galera un indagato contro la legge non deve pagare, dev'essere buttato fuori dalla magistratura". Fatta questa premessa, parliamo di chi ha spedito in carcere persone che si proclamano innocenti nonostante gli indizi non siano sufficienti a suffragare un sequestro di stato. Ne parliamo perché troppo spesso capita di trovare persone mandate in carcere da magistrati che sbandierano una ricostruzione ad hoc, ma poco credibile, basata su indizi e perizie che solo all'apparenza sembrano concordare. Massimo Bossetti, ad esempio, è in carcere esclusivamente per colpa di uno strano Dna che non solo non doveva trovarsi su un cadavere esposto alle intemperie nei tre mesi invernali, ma che contiene anche stranezze non propriamente spiegabili. Il resto, gli indizi a contorno che escono dalla procura e tanto vengono pubblicizzati ogni volta che la difesa cala una buona carta o ha un appuntamento con un giudice, sono fronzoli sistemati a modo e adattati in un secondo tempo. D'altronde, la nuova moda adottata da molte procure moderne consiste nell'arrestare il colpevole predestinato prima di svolgere indagini. Indagini che si portano avanti ad personam in un secondo tempo, quando è facile adattarle al predestinato di turno (ma anche a qualsiasi altra persona). E' indagando a posteriori che si può smazzare il mazzo e cambiare in corso d'opera le carte già sistemate sul tavolo. Come si è fatto con Sabrina Misseri, arrestata perché coinvolta da suo padre in un delitto colposo avvenuto in garage mentre lui dormiva sulla sdraio in cucina. Questa ricostruzione "convincente" è stata avallata da un Gip e cristallizzata dai giudici in un incidente probatorio durato dieci ore. Peccato per la giustizia con la G maiuscola che tanti mesi dopo Sabrina Misseri sia stata rinviata a giudizio e processata per un assassinio avvenuto in cucina mentre il padre, che nella nuova ricostruzione non dormiva più sulla sdraio, si trovava in garage. Ma come? E la ricostruzione convincente avvallata da tanti giudici? Chissà che fine ha fatto. E non è l'unica anomalia, visto che per confermare la ricostruzione accusatoria si è usato il sogno che chi frequentava il fiorista conosceva da ottobre 2010. Sogno che è entrato in scena - e diventato irreale realtà - solo ad aprile 2011 quando Anna Pisanò - che girava per Avetrana col registratore fornitole dai carabinieri autorizzati dalla procura - decise finalmente di firmare un verbale con tanto di nome e cognome del sognatore. In poche parole, pare che le procure abbiano imparato bene quel gioco di prestigio in cui i fazzoletti colorati entrano nel cilindro per poi uscirne trasformati in mazzi di fiori. L'ultima vittima di questa nuova procedura è senza dubbio Veronica Panarello, probabilmente arrestata e spedita in carcere perché convinti di ottenere una rapida confessione (così da chiudere in velocità un caso mediatico troppo invadente). Contro di lei non c'è un Dna degradato, ci sono una serie di filmati, alcuni degradati, che riportano orari sballati. Solo quelli, nulla di più. Eppure son bastati per convincere un procuratore a far arrestare la madre di Loris e a far scrivere ai giudici che si tratta di una assassina immonda, altamente pericolosa che potrebbe reiterare il reato, scappare dall'Italia o inquinare le indagini. Cappero che filmati esaustivi hanno in procura! Che abbiano filmato l'assassinio? Ad Avetrana nei tre mesi successivi all'arresto di Sabrina Misseri si modificarono le testimonianze della prima ora. Testimonianze concordanti. Ad esempio, si spinse sulla coppia di fidanzati che videro Sarah per strada alle 14.30 - e cronologicamente questo era un orario molto compatibile con quello da subito fornito dalla famiglia Scazzi e dalla badante rumena che avevano parlato, e firmato a verbale, di un'uscita da casa a ridosso proprio delle 14.30 - affinché cambiassero l'ora dell'avvistamento. E lo stesso trattamento si riservò ad altri. Cosicché le indagini postume all'arresto di Sabrina Misseri riuscirono nel miracolo di limare quella mezzora che impediva la ricostruzione colpevolista. Tutti sappiamo che gli aggiustamenti ci furono, perché fu proprio un testimone a dichiarare in televisione che i nuovi orari li aveva ricostruiti assieme e grazie ai procuratori. E su questa affermazione è meglio stendere un velo pietoso. A Santa Croce Camerina si sta cercando di fare la stessa cosa? Probabile, dato che un agente della municipale aveva da subito dichiarato di aver visto Veronica Pannarello e la sua auto passare a pochi metri dalla scuola sulle otto e trenta o poco più. La sua testimonianza era concordante al 100% con quanto dichiarato dalla stessa Panarello, ma già nella richiesta d'arresto i procuratori scrissero che al secondo e terzo interrogatorio la persona in questione aveva modificato la sua versione non mostrandosi più sicura come all'inizio. Però il motivo di quella insicurezza è facile da capire, dato che di certo chi l'ha interrogata le ha sbandierato in faccia una nuova verità fatta di telecamere e filmati che parevano smentirla. Ma, c'è da chiedersi, quei filmati saranno davvero sicuri o saranno sicuri come quel testimone che inizialmente alla procura di Palermo non volevano vedere neppure in fotografia e finì per essere utilizzato dalla procura di Caltanisetta? Quello che Ilda Bocassini e altri bollarono a bugiardo cronico e che invece, grazie anche al procuratore Petralia, che ora segue in prima persona il caso dell'omicidio di Loris Stival ma che al tempo lavorava a Caltanisetta, diventò la bocca della verità in grado di far condannare delle persone all'ergastolo (dopo 16 anni di carcere liberate con tante scuse nel 2011) e di depistare tutta l'indagine sulla strage di via D'Amelio? Il pentito non pentito ma pentito si chiama Vincenzo Scarantino e per tutti era un criminaletto da strapazzo a cui piaceva violentare commesse (e aveva una moglie e tre fidanzati trans) che poco ci azzeccava con la mafia. Per tutti... ma non per alcuni procuratori e per chi si occupava delle indagini. Procuratori, uno proprio Carmelo Petralia, che si avvalsero delle indagini di un pool di poliziotti che a causa del loro modo di indagare stanno subendo un processo che li vede accusati di aver costruito prove false (ancora il processo non è concluso, ma vedrete che saranno tutti assolti) e costretto il pentito non pentito (e i suoi amici) a fare dichiarazioni false. Fra questi, certamente lo ricorderete perché venticinque giorni prima della scomparsa di Yara Gambirasio divenne Questore di Bergamo e fu lui a seguire le indagini sulla scomparsa e sulla morte della ragazzina di Brembate Sopra, un giovane Vincenzo Ricciardi affiancato, al tempo, da un altrettanto giovane Mario Bo. Quest'ultimo, diventato poi dirigente della squadra mobile in quel di Gorizia, è finito a processo per "falso". Processo che in questi giorni è alle ultime battute e che ha posto fine alla sua carriera. C'è da dire che anche la carriera di Vicenzo Ricciardi poteva interrompersi pochi mesi fa, quando fu indagato e rischiò di finire a processo. Insomma, come la giri la giri siamo sempre alle solite. Sempre a chiederci a cosa e a chi dobbiamo credere. A chiederci se le indagini sono sempre genuine oppure...Dobbiamo quindi credere ad occhi chiusi a un procuratore che fa di tutto per chiudere velocemente un "caso spinoso" (d'altronde lo ha fatto anche quando si è fidato del pool investigativo di La Barbera e delle parole estorte a Vincenzo Scarantino), o dobbiamo credere a una madre a cui hanno ucciso un figlio e che nonostante i mesi trascorsi in carcere continua a proclamarsi innocente? Veronica potrebbe essere colpevole? Se qualcuno porterà prove "genuine" tutti ci crederemo. Per il momento continuiamo a chiederci il motivo per cui sia in carcere. Esiste davvero un motivo... oppure è reclusa a causa di un sistema giustizia che si avvolge e si chiude in se stesso e invece di vagliare al meglio gli indizi, a favore e contro, si protegge isolando la difesa e adeguandosi alle conclusioni di chi ha indagato e della procura? La domanda è logica, perché gli esempi che portano a questa conclusione sono tanti dato che in tanti casi i Gip e i giudici si sono appiattiti alle procure. Inseriamo la mano nel sacchetto degli errori giudiziari e prendiamone uno a caso. Parliamo del grossolano sbaglio di valutazione di uno stimato magistrato che tante importanti inchieste sta portando avanti negli ultimi anni. La dottoressa Assunta Cocomello che opera in stimate istituzioni romane. Fu lei nel 2011 a chiedere il rinvio a giudizio di Josè Alberto Cadena Ruiz per aver ucciso, nel dicembre 2008 - secondo la sua procura durante un rapporto sessuale estremo - Graciela Carbo Flores. Lo chiese nonostante José avesse un alibi. Mentre Graciela moriva lui era dall'altra parte di Roma, a trenta chilometri da lei, con tre amiche che inizialmente testimoniarono in suo favore. Poi due ebbero paura e si defilarono. Ne restò una che ribadì sempre la stessa storia...Ma, ormai s'è capito, poco importano i testimoni che forniscono alibi quando una procura ha un disegno chiaro in mente (come dimostrano le condanne di tanti testimoni della difesa). Così la sua amica da testimone a favore diventò parte attiva del crimine e fu incriminata per favoreggiamento. José era già in carcere al momento della richiesta di rinvio a giudizio, nonostante la logica non volesse un'incriminazione perché la situazione che aveva generato la morte, il rapporto sessuale estremo ipotizzato dalla procura, non esisteva proprio. Infatti gli accertamenti provarono che Graciela non aveva avuto alcun rapporto sessuale prima di morire. E questa sicurezza toglieva valore alla ricostruzione della procura e avrebbe dovuto impedire un qualsiasi arresto. Così si cambiò leggermente il movente, e si insinuò che ci fossero screzi fra José e Graciela. Ma Graciela aveva una malattia cronica che l'obbligava a recarsi spesso in ospedale, e in fondo non era difficile capire che la povera donna era morta di morte naturale a causa del complicarsi della malattia e che i leggeri segni sul collo erano riferibili al foulard che sempre indossava aderente (come testimoniato da quelli che la conoscevano). Infatti, "morte naturale" fu la diagnosi che si fece al ritrovamento del cadavere (constatata anche dalla Polizia Scientifica). Il problema nacque dopo, quando un perito incaricato dalla dottoressa, unico fra tanti, sbagliando clamorosamente scrisse che la donna era stata strangolata. Vabbé, dirà il lettore, una svista del genere sarebbe stata semplice da smontare per la difesa. Quando uno sbaglio è clamoroso è facile da smentire. Per cui, se nonostante tutte le garanzie che esistono in Italia l'imputato non fu scarcerato, significa che in fondo in fondo qualcosa di criminale aveva fatto. Che la difesa non aveva nulla (che servisse a scagionarlo) da portare a discolpa ai giudici. Nessun magistrato metterebbe in carcere una persona incensurata senza averne motivo. Ecco il ragionamento che fa la gente quando viene a sapere di un arresto. Il luogo comune vuole che chi finisce in carcere qualcosa abbia commesso di sicuro. E' un ragionamento che a priori non è sbagliato perché si fonda sul fatto che le indagini e gli accertamenti non sono in mano a una sola persona o una sola istituzione. Infatti, la giustizia pretende che a indagare siano le forze dell'ordine (polizia, carabinieri, guardia di finanza ecc...) che poi devono riferire a un procuratore (quello di turno al momento del crimine) che ordina nuove indagini e si affida a suoi periti (anche esterni) e dopo aver trovato e vagliato prove o indizi ipotizza una ricostruzione del crimine e presenta una richiesta di arresto al Gip - che solo dopo aver a sua volta verificato la logicità del quadro accusatorio e delle prove portate dal procuratore decide se arrestare oppure no. Insomma, un indagato non va mai in carcere per colpa di un singolo. E se ad andare in carcere è un innocente, significa che c'è stato un concorso di colpa che ha coinvolto molte "persone perbene e stimate". Compreso quel giudice che alle persone stimate ha creduto a prescindere dalla logica che hanno usato nelle indagini e nelle ricostruzioni. Per questo sui media si può leggere, a fronte di un omicidio che non c'è stato, che una coppia di amanti diabolici è stata finalmente arrestata. Per tornare al povero José Alberto, anche in quell'occasione il Gip si adeguò alle conclusioni colpevoliste della procura. E a lui si adeguarono i giudici del tribunale del riesame, cui il difensore portò tutto ciò che serviva per scarcerare il proprio assistito. Tribunale del riesame che invece di scarcerare José - perché come dicevano tanti periti non c'era alcun omicidio ma si trattava di una morte naturale - si complimentò per il lavoro certosino svolto sia dalla procura che dal Gip e decise che l'imputato era un essere immondo, un assassino altamente pericoloso che avrebbe potuto sia inquinare le prove, sia reiterare il reato, sia fuggire all'estero. Solo nel 2013 - nel frattempo l'imputato aveva trascorso due anni e mezzo in carcere - un giudice si attivò per scarcerarlo in quanto, scrisse nelle motivazioni, "il fatto non sussiste dato che non ci fu alcun omicidio". E la Procura, che nel frattempo aveva cambiato i procuratori, neppure impugnò la sentenza tanto era pacifico e chiaro che José Alberto non fosse un assassino. E tutto finì così, senza neppure le scuse di chi aveva imbastito un quadro accusatorio immaginario né quelle di chi quel quadro ridicolo lo aveva accettato chiudendo un innocente in cella per due anni e mezzo. No problem José, chiedi (un rimborso milionario allo stato italiano) e ti sarà dato... tanto i sudditi del Bel Paese pagano volentieri per gli errori dei loro magistrati e dopo aver pagato continuano ad essere contenti e a sproloquiare contro chiunque venga arrestato e contro chiunque chieda siano rispettate le giuste regole. Lo fanno quando leggono i giornali, quando ascoltano gli opinionisti e gli pseudo criminologi televisivi lavorare pro' procura e di fronte a milioni di telespettatori accusare di omicidio, senza avere alcuna prova in mano, chi si dichiara innocente. In fondo José, il tuo è solo uno dei tanti errori giudiziari che capitano giornalmente in Italia a causa di "qualche persona stimabile". In fondo tu alla fin fine hai trovato un giudice capace e grazie a lui sei restato in carcere "solo" trenta mesi... tu dall'inferno ne sei fuori José, pensa a chi ci è appena entrato o a chi ci vive da anni e non sa se mai ne uscirà...
RAFFAELE E' STATO AIUTATO DAL SIGNORE IDDIO!
Raffaele Sollecito in chiesa in attesa della sentenza: le mani giunte e gli occhi al cielo. Delle immagini inedite che mostrano Raffaele Sollecito poco prima della sentenza con cui la Cassazione lo ha definitivamente assolto, insieme ad Amanda Knox, per l'omicidio di Meredith Kercher. Dopo un'odissea durata otto anni, di cui quattro spesi in carcere, Raffaele può riprendere la sua vita da uomo libero. E poco prima di scoprire quale sarebbe stato il suo destino, come mostrano questi scatti proposti da Diva e Donna, Raffaele si era rifugiato in una chiesa, a Roma, per pregare in attesa della sentenza. In una delle immagini lo si vede pregare, solo, su una panca. L'espressione del volto è tesissima: da lì a poche ore Sollecito sarebbe potuto finire in carcere. Rischiava una condanna pesantissima, che lo avrebbe costretto al carcere fino a 56 anni. Ma le sue preghiere, con gli occhi al cielo e le mani giunte, sono state esaudite. Assolto.
OSSESSIONE AMANDA.
Ossessione Amanda. È sospettata di aver ucciso Meredith. Eppure ha scatenato la fantasia e la morbosità mediatica. Con schiere di fan. Il parere di uno psichiatra, scrive Enrico Arosio su “L’Espresso”. L'Angelo Demone e l'Uomo Nero. Il truce feuilleton multimediale di Perugia si semplifica e si complica al tempo stesso. L'Uomo Nero ora è il secondo, il Rudy Hermann Guede, 21 anni, ivoriano, arrestato in Germania; mentre il primo, Diya 'Patrick' Lumumba, nelle stesse ore ha ottenuto la scarcerazione dal magistrato. Ma l'omicidio di Perugia, il crudo omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, è ancora tutto da chiarire. E Amanda Knox (ma il cognome pochi lo ricordano), la sospettata principale (finora) non ha finito di stupire, turbare, emozionare tanti giovani italiani. Addirittura di affascinarli. Lo testimoniano i messaggi di simpatia e ammirazione per lei, l'americanina bionda dal viso angelico, ma anche bugiarda ed esibizionista, che girano da giorni nell'immenso frullatore di Internet. E pensiamo allo strano delitto di Parigi compiuto pochi giorni dopo da una ragazza inglese di buona famiglia, che ravviserebbe elementi di emulazione della vicenda di Perugia. È normale o abnorme il fascino di Amanda presso quella parte di pubblico che ne segue la vicenda giorno dopo giorno, come ipnotizzato? Lo abbiamo chiesto a uno psicoanalista e psichiatra molto navigato, Giorgio Abraham, che vive ed esercita a Ginevra.
Dottor Abraham, da dove scaturisce questo fascino ambiguo di Amanda?
"Per rispondere vorrei partire dal concetto di dipendenza. Emotional addiction, dipendenza dalle emozioni. O anche: le emozioni come droga. Questa è una chiave per provare a capire".
Le emozioni come droga?
"Di droga classica a Perugia ne è circolata parecchia, tra i protagonisti della vicenda. La droga viene assunta per provare sensazioni. Ma qui entra in campo qualcos'altro, la droga da emozioni: è una ricerca sempre più diffusa, nel sesso, nel gioco d'azzardo, negli sport estremi. Ho avuto in terapia non solo soggetti con varie forme di dipendenza sessuale, ma anche patiti del bungee-jumping che mi dicevano che la botta di adrenalina del salto nel vuoto è molto più forte della miglior pratica sessuale. Ecco, anche a Perugia è in gioco la droga da emozioni. Emozioni negative: paura, violenza. Ma anche la colpevolezza è una droga potente. Molto più dell'euforia".
La colpevolezza una droga? Per i protagonisti o per il pubblico che segue?
"Buona domanda. Intanto dico questo: Amanda che dà la colpa al Lumumba, che mente alla polizia, che cambia versione, confonde le acque, non è così distante dall'infanticida che si mette alla ricerca del cadavere insieme ai soccorritori. Amanda sembra giocare con la colpevolezza: vera o presunta, o solo complicità. È qualcosa che ricorda il delitto di Cogne, o la scomparsa della bambina inglese in Portogallo. E il pubblico italiano, in parte, partecipa a questo gioco eccitante. C'è forte ambiguità, in Amanda, in come si contraddice. E poi i vent'anni, la droga, gli amici, le notti. Il tutto tiene viva l'attenzione".
Il fascino del male? È questo che ci turba?
"Il fascino del male, o la sua banalità".
Perché Amanda ha ammiratori? Viene in mente Pietro Maso, il ragazzo veronese che aveva ucciso i genitori e sin da subito ricevette lettere d'amore in carcere.
"I messaggi che le arrivano credo siano di due tipi. I primi dicono: povera Amanda, ti credo, sei un angelo, non puoi essere stata tu, sei vittima dell'errore giudiziario. I secondi: sei eroica, sei figlia del nostro tempo, hai la forza di sopportare la colpa, il male che hai inflitto. L'idea di colpevolezza è la droga emozionale che eccita chi le invia la sua solidarietà".
Non è aberrante?
"Forse. Ma meno raro di quanto si pensi, quando c'entra la sessualità".
Cioè?
"Se guardo alla mia pratica clinica, un quadro sessuologico frequente è la donna che si lamenta della propria scarsa reattività sessuale. E che a volte racconta che solo fantasie violente, come l'essere presa con forza da uno sconosciuto di notte e costretta a pratiche estreme, la portino a vera eccitazione. Al tempo stesso vive queste fantasie con disagio, ecco perché ricorre al terapeuta. La forte dose di paura, insieme alla rabbia di non poter reagire, è moneta corrente per un sessuologo. Questo per dire come fantasie e paure non siano rarità, né aberrazioni".
Qui parliamo di ragazzi di vent'anni appena. Vorremmo associarli alla freschezza, alla gioia, alla scoperta.
"Ma a vent'anni, l'età di Amanda, Meredith, Rudy, Raffaele, c'è molta confusione sessuale. Più di prima. Una volta c'era la proibizione a fungere da stimolante. Oggi il consumismo sessuale, l'apparente facilità di appagamento porta ad alzare sempre più l'asticella. Vale già per gli adolescenti, dove si registrano nuovi livelli di violenza e crudeltà, individuali e di gruppo".
Qual è l'archetipo, l'Angelo Demone? Un amico di Meredith, la vittima, ha definito così Amanda: "Sembrava una ragazza normale, ma sotto sotto si capiva che era una selvaggia".
"Eh, stiamo attenti, stiamo attenti agli angeli".
Che cosa vuole dire?
"Pensiamo alla Principessa Diana. Al suo culto post mortem. Ma ricordiamo che è morta insieme al suo amante in un incidente stradale; sul quale peraltro si sono espressi dubbi, l'omicidio, i servizi segreti, eccetera. C'è la testimonianza del soccorritore che le tenne la mano, le ultime parole, My God, my God. È per paura che invoca Dio, o per colpa?".
Tornando ad Amanda...
"Il viso d'angelo di Amanda è un po' il viso di Perugia, città graziosa, civile, città della gioventù, del dialogo, dell'amicizia. Ma è un viso che cela sottofondi tumultuosi. Amanda appare ambigua come l'Angelo Caduto, più che il Demone, e l'Angelo Caduto è Lucifero...".
Ed ecco servito il romanzo popolare, il noir postmoderno. C'è pure l'Uomo Nero, l'antagonista su cui scaricare la colpa. Prima Lumumba, poi Rudy.
"Dare la colpa all'Uomo Nero: facile, lei dice?".
Facile provarci. Erika e Omar, a Novi Ligure, diedero la colpa agli albanesi. La Franzoni, a Cogne, prima al matto del paese, poi alla vicina montanara.
"Certo anche l'Uomo Nero è un archetipo. Per noi. La conosciamo fin da bambini, la paura dell'Uomo Nero. Poi magari è peggio la donna bianca. Qui a Perugia lo vedremo. Prima sembrava lo zairese, ora tocca all'ivoriano. Cosa facevano tutti intorno ad Amanda quella notte, oltre alla povera vittima?".
Dottor Abraham, alla fine che giudizio dà del voyeurismo del pubblico in questo caso così spinoso?
"Penso che da un lato questo attaccamento sia una reazione, diciamo così, malsana: la partecipazione corale a un delitto, o addirittura l'attrazione per chi vi ha partecipato. Dall'altro può essere una reazione utile. Noi assistiamo alla crudeltà altrui, loro recitano, noi stiamo in platea. Ne siamo fuori, ne siamo salvaguardati, vediamo dove porta la cattiveria. È un dramma dell'Homo connectus, immerso in un flusso continuo di immagini. Un grande delitto è anche una forma di teatro pubblico. Un gioco collettivo".
I media esagerano? Hanno una colpa? O fanno solo il loro dovere, in quest'epoca dell'Homo connectus?
"Non vorrei rispondere con un giudizio morale, ma con un giudizio, come posso dire, estetico".
Davvero?
"Ma sì. Io dico che i media devono fare rumore, è nella loro natura. Cronache esagerate, troppo morbose possono infine rivelarsi grottesche, e quindi dannose per gli stessi media. Una cosa lenta, raffinata, raccontata anche a lungo, può intrattenere meglio, e dare un vantaggio".
Lei è un bel cinico, dottor Abraham.
"Forse sono solo realista".
L'attrice che interpreta Amanda Knox: "Io, solidale con Meredith". L'attrice Genevieve Gaunt: "Non sono un giudice per biasimare Amanda Knox, il personaggio che rappresento. Ma provo grande empatia per Meredith", scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Amanda Knox contro Amanda Knox. L'attrice che interpreta la ragazza americana accusata dell'omicidio di Meredith Kercher nel film "The Face of an Angel" confessa di provare "grande empatia" nei confronti della famiglia della studentessa inglese massacrata a Perugia nel novembre di otto anni fa. La bella Genevieve Gaunt, nata nel 1991, è stata fra le protagoniste del film di Michael Winterbottom, uscito nelle sale l'anno scorso. L'attrice ha spiegato di aver accettato la parte nella speranza che il film possa ricordare agli spettatori la tragica fine di Meredith, dopo anni in cui i media si sono concentrati, a suo dire, solo sulle vicende giudiziarie di Amanda. "Questo è un film in memoria di Meredith. Penso che la gente dovrebbe ricordare la sua innocenza e la sua speranza - e dovrebbe evitare di essere attratta verso la violenza gratuita.Penso anche che le persone possano essere trascinate in un processo per omicidio per le ragioni sbagliate." La Gaunt, d'altro canto, ha puntualizzato di essere "un'attrice e non un giudice", aggiugendo di non avere intenzione di biasimare in alcun modo il personaggio che si è trovata ad interpretare. Eppure l'empatia, la solidarietà, della Gaunt è andata d'istinto a Metz.
LA VERSIONE DI AMANDA
La versione di Amanda, scrive Clizia Gurrado su “Il Giornale”. Può una recensione teatrale delineare il profilo psicologico di chi l’ha scritta? Quando possiamo parlare di bocciatura premeditata? E’ opportuno cimentarsi in indagini preliminari e possedere mansioni specifiche di laboratorio per attestare l’onestà di chi stronca un attore o ne osanna un altro? Si possono fare comparazioni balistiche tra repliche e debutti? Tutto questo per introdurre lo scoop del giorno: ho scoperto una nuova firma nel vasto panorama dei critici e delle penne teatrali online e cartacee. Non so se indovinerete il suo nome facilmente perché oggi di teatro scrivono un po’ tutti. Ma in questo caso sto parlando di una collega che scrive senza sviste, lapsus ed errori grossolani e che per mia fortuna lo fa dall’altra parte del mondo, per la precisione nella lontana West Seattle. Così la temuta concorrenza è eliminata in partenza. Ci siete arrivati? Non ancora? Coraggio, vi sollecito a rispondere in fretta. Sto parlando di Amanda Knox. Sappiamo che oggi conduce una vita normale, è di nuovo innamorata, è una collaboratrice freelance del West Seattle Herald e ha frequentato una scuola di scrittura creativa a Washington. Non dimentichiamo che è anche l’autrice del best-seller Waiting to be heard, il memoir che ha visto le stampe nel 2013. Per me è stata una sorpresa, non sapevo che si occupasse di teatro. Così ho voluto leggere subito le sue recensioni. Non per niente sono una persona incredibilmente curiosa. Andate anche voi a questo indirizzo http://www.westseattleherald. com. e nello spazio “search” digitate il nome e il cognome della fanciulla americana. Confesso di aver letto i testi di Amanda con un occhio particolare, come se fossi alla ricerca di un indizio, di una traccia di dna, di reperti biologici. Ho iniziato controllando alcune prove organiche su un avverbio, su un sostantivo, poi ho notato un accento forse spostato dalla scena grammaticale originale. Ho controllato la data del decesso di un’interrogativa, campioni di virgole e di punti esclamativi. Devo dire che ho visto subito il buongiorno, già dalle prime righe. Amanda descrive con precisione scenografie e ambienti, si sofferma sui particolari, analizza con cura i testi, parla degli attori e dei personaggi con competenza, virgoletta dichiarazioni di interpreti e autori, non ritratta mai i giudizi, riesce a essere spiritosa e anche onesta (“durante una lezione puo’ capitare di addormentarsi…” scrive nella recensione dello spettacolo Chinglish che ha visto qualche settimana fa – “if you’re going to slip and fall, as we all inevitably do sometimes…….”), ma non so cosa scriverebbe di uno spettacolo annullato all’ultimo minuto senza rinvio. Adesso poi che è stata giudicata “not guilty” e che ha avuto una condannata solo per calunnia, sono sicura che le sue recensioni saranno giudicate ancora più autentiche e credibili: nessuno dubiterebbe della sua presenza alla replica di una commedia o di un monologo all’Arts West Theater, anche quando invece se ne sta pigramente sul divano di casa col fidanzato come, ahime, fanno molti nel nostro paese, che scrivono di teatro senza vedere gli spettacoli. E senza avere un fidanzato o fidanzata. C’e solo un problema: se fossi uno spettatore congolese, a Seattle per lavoro o per turismo, non vorrei avere un posto in platea vicino alla Knox.
Amanda Knox dopo la sentenza: "Grido la mia innocenza da anni". In un'intervista a Chi ringrazia chi ha creduto in lei. "Non me l'aspettavo, ma ho atteso tanto questo momento", scrive Franco Grilli su “Il Giornale”. La sentenza definitiva è arrivata pochi giorni fa: Amanda Knox non è colpevole per l'omicidio di Meredith Kercher, trovata morta a Perugia nel 2007. E la giovane americana, in una intervista a Chi, non nasconde di essere sollevata dalla decisione della corte. "Non me l'aspettavo - ammette -, ma l'ho sognato tante volte". E ringrazia chi ha creduto in lei, "quando tutti erano contro" e la pensavano colpevole dell'omicidio. Sul numero del settimanale anche un'intervista a Raffaele Sollecito, accusato come lei per la morte di Meredith. "La prima cosa che voglio fare è andare in questura a chiedere che mi restituiscano il passaporto", ha detto l'uomo. Il documento gli era stato ritirato quando si temeva che potesse darsi alla latitanza. Anche se lui ribadisce: "Io da Santo Domingo e dalla Svezia sono tornato per presentarmi al processo. Il sospetto che fuggissi faceva comodo".
RAFFAELE SOLLECITO: NON CHIAMATEMI MAI PIU' ASSASSINO.
Raffaele Sollecito ai giornalisti: «Non chiamatemi mai più assassino». La conferenza stampa con gli avvocati, a Roma: «Questa sentenza doveva finire così, ora ritorno alla vita normale». L’avvocato Bongiorno: «Valutiamo richiesta danni», scrive “Il Corriere della Sera”. «Ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato: senza il loro supporto non avrei avuto la forza di arrivare fino a qui. Ringrazio in particolare mio padre, i miei avvocati e i miei familiari». Dopo l’assoluzione per il delitto di Meredith Kercher, Raffaele Sollecito ha parlato con i giornalisti durante una conferenza stampa a Roma. «Mi sento come un sequestrato tornato alla libertà», ha detto. «Il mio sequestro è stato insopportabile. Sono stato additato come un assassino senza uno straccio di prova. La mia famiglia è stata fatta a pezzi, sbriciolata. Non è vero che non mi aspettavo questa sentenza: questa vicenda doveva finire così». Adesso, ha detto il ragazzo, «Non accetterò più di essere definito “assassino” e sono pronto a tutelare la mia immagine nelle sedi opportune», ha avvertito, raccomandando ai cronisti: «Attenetevi ai fatti, massima cautela». «Ora valuteremo la richiesta di risarcimento». Nei prossimi giorni «valuteremo la richiesta di risarcimento» ha annunciato l’avvocato di Sollecito, Giulia Bongiorno. «Non ci sono sentimenti di vendetta nel suo animo», ha aggiunto. «Aspetteremo le motivazioni. Non frusteremo chi ha sbagliato. Vedremo se ci sono stati degli errori e che iniziative intraprendere. La responsabilità civile - ha concluso - è un istituto serio, che non va esercitato con lo spirito di vendetta». «Il momento più bello che ha messo fine a un incubo è stata la chiamata di mia sorella dopo la lettura della sentenza. È stato veramente l’inizio di una nuova vita, il ritorno alla mia normale esistenza e alla possibilità di vivere come un ragazzo della mia età senza più questo fardello che mi impediva di fare progetti e sogni», ha detto Sollecito. «Ho una lista infinita di momenti brutti, sette anni e cinque mesi sono un tempo infinito», ha aggiunto Raffaele, ricordando come «il momento più brutto è stato il mio arresto». «Avevo dato l’allarme io», ha proseguito. «Per me è stato surreale essere incolpato di un delitto così atroce senza avere colpe. La certezza della mia innocenza mi ha consentito di sperare nella giustizia e che mi avrebbe dato ragione. Dopo questa conferenza stampa non voglio più parlare di atti processuali», ha aggiunto poi. Tra me e Amanda solo affetto: così Sollecito ha definito il rapporto che lo legava alla ragazza di Seattle cno lui accusata di aver ucciso la Kercher. «Anche lei ha festeggiato con la famiglia - ha raccontato ancora Raffaele durante la conferenza stampa - e la telefonata si è chiusa con tanti auguri reciproci per la nostra nuova vita». Sollecito ha poi concluso: «Non so se ci vedremo in futuro, ma non ho questo desiderio imperterrito di vederla. La nostra è rimasta un amicizia come tantissime altre e sulla nostra relazione non c’è alcun alone cupo, come è stato detto da molti». Domenica Raffaele e Amanda si sono sentiti brevemente al telefono, dopo un anno di silenzio. «Ci siamo parlati al telefono per qualche minuto», ha detto Sollecito al Sun. «È stato bello sentirla anche se per la maggior parte della telefonata abbiamo pianto. È stato un grande sollievo», ha ammesso ancora il giovane pugliese al tabloid londinese. «Perché tanto odio nei miei confronti?» «Non dimentico», ha detto Raffaele, «che nelle carte processuali ho trovato offese gravissime nei confronti dei miei familiari, ancora oggi mi chiedo il perché di tanto odio. Ho avuto paura perché ho percepito un fortissimo livore nei miei riguardi. Il disprezzo non me lo so spiegare. Ho percepito un sentimento di odio verso me e verso la mia famiglia». Parlando dell’unica persona condannata per il delitto, Sollecito ha detto: «Rudy Guede non lo conosco affatto e quindi non ho nulla da dire su di lui». «C’è una persona che sa come sono andate le cose, perché il delitto è avvenuto per mano di Rudy Guede che è stato condannato con una pena bassissima», ha aggiunto l’altro avvocato di Raffaele, Luca Maori. «È giusto che faccia sapere cosa è successo, lo deve soprattutto alla famiglia di Meredith». E sulla famiglia di Meredith, SOllecito ha aggiunto: «Mi dispiace tantissimo che la famiglia di Meredith sia delusa e dispiaciuta da questa sentenza ma questa volta la verità processuale coincide con la verità dei fatti. Io non ho nulla a che fare con quel delitto, non avevo nessun motivo per nutrire astio verso Meredith e per rendermi partecipe di un delitto tanto orribile. Spero che loro riconoscano la verità dei fatti». Sollecito ha infine concluso: «Forse scriverò un libro, ora voglio dimenticare. Questa ferita non si rimarginerà mai purtroppo. Ringrazio i giudici che mi hanno risarcito di tante sofferenze, la ferita non smetterà mai di sanguinare, non si cicatrizzerà mai. Sono completamente estraneo a tutta questa vicenda».
Sollecito: «Voglio mezzo milione. Io Forrest Gump? Ha fatto grandi cose». La pm di Perugia: Raffaele e Amanda unici indiziati. I coniugi Kercher sotto choc: «Ma almeno è finita», scrive Alessandro Capponi su “Il Corriere della Sera”. Cinquecentosedicimila euro. È questa la somma che gli avvocati di Raffaele Sollecito chiederanno per l’«ingiusta detenzione». Il giorno dopo l’assoluzione disposta dalla Cassazione, Raffaele è a casa, in Puglia, e nel primo pomeriggio passeggia in riva al mare con la fidanzata Greta Menegaldo, che negli ultimi due anni gli è stata sempre vicina: «Quello che è accaduto a me non deve accadere più a nessuno - dice Raffaele - perché combattere contro una montagna di falsità è inimmaginabile dall’esterno. In questi otto anni ho combattuto senza mai arrendermi ma via via che abbattevo le accuse, altre ne nascevano... Un incubo». Venerdì ha lasciato Roma senza aspettare la sentenza: «Ma non stavo scappando, come si può anche solo pensarlo? Avevo dieci poliziotti con me e poi in questa storia ho sempre messo la faccia, non sono mai fuggito». Uno dei suoi legali, Giulia Bongiorno, l’ha paragonato a Forrest Gump: «È vero che era un ingenuo - sorride lui - ma di certo ha fatto grandi cose...». L’emozione per l’assoluzione è stata immensa: «Sono ancora disorientato, non è facile, sono stati anni duri». Ha sentito Amanda al telefono, in mattinata, ma preferisce non parlarne: adesso, per lui, c’è una nuova vita. Forse andrà all’estero a lavorare, in ogni caso da uomo libero. Sull’ipotesi del risarcimento, invece, si lavora allo studio dell’avvocato Giulia Bongiorno, dove infatti è già stato identificato «il tetto» stabilito per «i casi gravi come questo», oltre mezzo milione appunto. L’altro avvocato di Raffaele, Luca Maori, sostiene però che la richiesta sarà più alta: «Non c’è solo l’ingiusta detenzione perché ci sono ben altri danni, qui c’è la vita spezzata a Raffaele e la distruzione di un’intera famiglia dal punto di vista morale, materiale e d’immagine. Sarà una cifra a molti zeri». La sentenza che a Raffaele ha «restituito la vita», ha lasciato «sotto choc» la famiglia Kercher. La sorella di Mez, Stephanie, al telefono con il legale Francesco Maresca spiega, almeno in parte, cos’hanno rappresentato gli ultimi otto anni: «Da un certo punto di vista il fatto che il processo si sia chiuso va bene, perché ogni udienza per noi era una ferita al cuore, ogni tappa processuale ha rappresentato per la nostra famiglia il riaprirsi di ferite dolorosissime, e in questo senso il giudizio finale, sia pure per noi con un esito devastante, rappresenta anche un punto fermo». Da Perugia, però, arriva l’incredulità di Manuela Comodi, che ha affiancato il pm Giuliano Mignini nel secondo grado: «Gli unici due indiziati rimangono Amanda e Raffaele perché sulla scena del delitto, oltre loro e Rudy, non c’è traccia di nessun altro. La Cassazione ha smentito se stessa...».
Greta, che ha creduto in Sollecito: «Chi critica non sa di cosa parla». La fidanzata di Raffaele: «Sul web mi attaccano, il mondo reale è molto diverso». Si sono incontrati in aereo, lei hostess lui passeggero. La famiglia la sostiene, scrive Alessandro Capponi su “Il Corriere della Sera”.
L’amore, a volte, richiede coraggio.
«Per me il momento più difficile è stato sicuramente l’ultima settimana prima della sentenza, sono stata davvero molto in ansia».
Infatti venerdì, qualche ora prima della sentenza della Cassazione, lei Raffaele e la famiglia di lui siete andati via da Roma e siete tornati in Puglia.
«A proposito di momenti difficili, certo: le ultime ore prima della sentenza sono state le peggiori. Però io ci ho sempre creduto, ho sempre saputo che sarebbe finita così...».
Greta, scusi: però non deve essere stato facile. Ha conosciuto Raffaele Sollecito nel 2013 e da allora, per lei, ci sono state anche molte critiche.
«Ci sono tante persone che mi hanno criticata sui social network, ma dopo un po’ di tempo mi sono accorta che sono persone a cui piace vomitare veleno solo per il gusto di farlo».
Le hanno fatto male?
«No, queste persone non hanno alcuna idea delle cose di cui parlano, proprio non ne sanno niente: per questo, sinceramente, non ho mai dato loro alcun peso».
Si sono incontrati a diecimila metri d’altezza, Greta Menegaldo, 32 anni, e Raffaele Sollecito, assolto (definitivamente) venerdì dalla Corte di Cassazione dall’accusa di essere, insieme con l’americana Amanda Knox, l’assassino di Meredith Kercher, nel 2007 a Perugia: lei era in aereo per lavorare come hostess, lui era a bordo come passeggero. Una volta scesi a terra, Greta ha creduto in Raffaele - che da lì a pochi mesi sarebbe stato condannato a venticinque anni dalla Corte d’appello di Firenze, e sul quale pesava già la precedente sentenza della Cassazione - e l’ha fatto in un modo che, forse, ha poco a che vedere con la ragione: senza mai dubitare. I settimanali, per Greta, hanno usato quasi sempre tre aggettivi: «Bella, discreta, elegante». Di certo è una ragazza riservata, perché in questi anni di cupa notorietà non ha mai parlato. Se è finita nelle foto delle udienze, quindi, è per un motivo diverso dal protagonismo: semplicemente, era accanto a Raffaele. Lo è stata in ogni momento, quelli belli come la laurea in Ingegneria informatica e quelli drammatici come la condanna di Firenze a venticinque anni e, negli ultimi mesi, l’attesa della Cassazione. È una trevigiana di Ponte di Piave, con un diploma al liceo linguistico di Oderzo, un lavoro da hostess all’aeroporto di Venezia e, soprattutto, con una solida famiglia alle spalle. Che, in questo amore - per un ragazzo che, tecnicamente parlando, fino a venerdì è stato considerato «un assassino» - l’ha sempre difesa e sostenuta. Sia chiaro, lei non ha mai nascosto la sua storia con Raffaele: a Oderzo, dove lei vive, i due hanno sempre passeggiato mano nella mano. A testa alta, nonostante tutto. Anche se, soprattutto in Italia, il fronte «colpevolista» è stato di gran lunga più compatto di quello innocentista: anche perché, forse, Amanda Knox e Raffaele Sollecito prima di venerdì erano stati assolti una sola volta, nell’appello di Perugia del 2011. Per il resto, cioè per quasi otto anni, c’erano state solamente condanne.
Ha ragione chi dice che per amore di Raffaele lei abbia, in qualche modo, sfidato il mondo? Anche il mondo di una certa provincia italiana, dell’opinione pubblica e, appunto, dei social network...
«Non penso di averlo sfidato, ma semplicemente perché credo che il mondo sia molto diverso da quello che ho conosciuto con le critiche sui social network».
Lei cosa chiede, adesso, alla vita?
«Voglio solamente godermi questi momenti di felicità, di gioia e di vita nuova».
Come sta? E con Raffaele avete progetti per il futuro?
Non risponde, inizialmente. Poi invia un altro sms.
«Sono felicissima».
CHE RAZZA DI INDAGINI...
Le indagini in Italia non le sa fare più nessuno, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista. Edoardo Mori, magistrato in pensione dopo essere stato prima giudice istruttore, poi gip e infine al tribunale della libertà e che adesso gestisce il sito earmi.it dove raccoglie, fra l’altro, errori e orrori delle indagini scientifiche, dice: «I pm che chiedono una perizia alla Scientifica o al Ris sono come quelli che sulla salute di un congiunto chiedono informazioni al portantino». Marco Morin, fra i maggiori esperti mondiali di balistica: «A volte sono più fondate le ipotesi investigative elaborate dai poliziotti della Digos delle perizie prodotte dai loro colleghi della Scientifica». Giuseppe Fortuni, docente di Medicina legale a Bologna con quattro decenni di esperienza sul campo: «Nonostante tutte le tecniche scientifiche d’indagine si trovano meno colpevoli di prima». Già. Il clamore suscitato dalla sentenza di assoluzione di Amanda e Raffaele non è solo un risvolto della canea giustizialista che vuole il sangue, a ogni costo. È, piuttosto, lo sgomento di lasciare impunito un delitto, di lasciare una vittima senza una qualche giustizia. È una sconfitta dell’accusa, più che una vittoria della difesa, e la differenza non è da poco: non sono innocenti, sono non condannabili. I giudici dichiarano che sulla base delle prove raccolte non sono in grado di accertare una verità. Ovviamente, hanno fatto bene, in questo caso, a scegliere di non condannare senza la certezza di un giudizio. E hanno fatto male a chiudere ogni possibilità di revisione del processo. Per deciderlo, tutto dev’essere ormai così compromesso da non lasciare speranza di accertare alcunché. Come è stato possibile che in otto anni di processi nessuno si fosse reso conto che le prove valevano meno di niente? Viene da pensare, a esempio, che la condanna di Alberto Stasi – anche lui in un’altalena di sentenze – per l’omicidio di Chiara Poggi sia basato su una raccolta di prove ancora più labili di quelle che non sono bastate a condannare Amanda e Raffaele. Viene da pensare che le polemiche su Bossetti e il caso Yara siano ben più che un pregiudizio innocentista o antimagistratura. Viene da pensare che l’aleatorietà del giudizio – «la Cassazione che smentisce se stessa», come è stato detto per Knox e Sollecito – dipenda troppo dalla casualità del giudice cui sei affidato. Dai caratteri del giudice cui sei affidato. Questa però non è la perfettibilità umana dell’indagare e del giudicare. Questo è un pasticcio. L’abilità e la competenza giuridica, la capacità e l’acume di un avvocato come di un pubblico ministero fanno certo la differenza: questo è il principio per cui si dovrebbe garantire a ogni cittadino di avere un’adeguata difesa e non consentirla solo a chi può permettersi di pagare i principi del Foro e i migliori periti. Ci eravamo convinti però – ci avevano convinti però – col nuovo processo e il dibattimento e queste cose qua che tutta la giurisprudenza del mondo, tutta la sapienza giuridica venisse sempre più ancorata al rigore della prova scientifica. Che non fossimo ancora al tempo del processo Bebawi, quando marito e moglie si accusarono l’uno contro l’altra di avere ucciso l’amante di lei e la giuria incapace di dire chi fosse stato davvero il colpevole – se lui, lei o insieme – li mandò assolti entrambi. Due colpevoli di troppo – scrisse Oriana Fallaci. Non ce la bevevamo più, pensavamo. Due colpevoli di troppo sono diventati pure Amanda e Raffaele – uno c’è, è Rudy Guede, nella nuova figura di reato del «concorso da solo». Un colpevole basta e avanza, evidentemente. Non c’entra niente l’abbuffata di telefilm e fiction in cui le squadre dei forensic, la polizia scientifica, con un capello ritrovato in un sifone di lavello o una scheggia d’un faro d’automobile, risalgono all’assassino e al complotto che sta preparando una strage. Fiction, certo. C’entra solo che dalla fisiognomica di Lombroso, che pure nella sua orribile deformazione puntava a rendere scientifica la criminologia, pensavamo di avere fatto dei passi avanti nella tecnologia e nelle tecniche, nell’analisi di una scena del crimine, nella raccolta delle prove. Invece, così non è. Le figure chiave nella soluzione dei delitti rimangono il pentito e l’intercettazione. Ma pentito e intercettazione sono figure ricorrenti nelle associazioni criminali, non nei delitti “qualunque”. Pentito e intercettazione sono elementi “passivi” di un’indagine, e non a caso estremamente problematici. Il pentito confessa le cose più turpi, che servono all’indagine del magistrato, per i suoi scopi, che possono essere una pena ridotta, un cambio di identità, la distruzione di un clan nemico, una qualche vendetta. L’intercettazione, a parte tutte le questioni legate alla loro legittimità e ai loro abusi, ha limiti evidenti: si conversa, si cazzeggia, uno può ingigantire una cosa, per mille motivi, per darsi peso, per pavoneggiarsi, per incutere timore o rispetto, oppure minimizzarli, uno può dire una cosa solo per vedere l’effetto che fa sull’interlocutore, e così via. L’intercettazione non prova un bel niente, proprio come un pentito non prova un bel niente. Non sono fatti inoppugnabili, incontrovertibili, anzi sono sempre reversibili. Nella lotta alle cosche e ai clan, spesso possono consentire chiavi di lettura, possono servire a incrociare dati, a sovrapporre cose apparentemente lontane, proprio perché ci si trova di fronte fenomeni complessi e segreti. Non è così per gli omicidi. Il carattere “passivo” degli elementi-chiave di questi anni – intercettazioni e pentiti – ha finito col produrre una sorta di pigrizia intellettuale nelle indagini, una sorta di “pigrizia investigativa”.
Se si ripercorrono alcuni dei casi più clamorosi e controversi della cronaca “nera” di questi anni, si rimane sconcertati dalla mole di errori nelle indagini. Ora sembra che il Dna risolva tutto, e investigatori e giudici si siano “impigriti”, convinti di avere in mano lo strumento risolutivo. Il Dna è uno straordinario strumento di indagine, ma solo se si seguono rigorose metodologie, dal primo istante delle indagini; se gli investigatori scientifici arrivano dopo altri, si è già creato un inquinamento della scena del crimine, spesso non più controllabile. A esempio, nel caso Anna Maria Franzoni e del delitto di Cogne si susseguirono oltre venti sopralluoghi nella casa del delitto ma solo dopo che per casa c’era stato un gran viavai di persone. Ancora nel caso di Cogne, le indagini non hanno mai portato al ritrovamento dell’arma del delitto. Si è ipotizzato che si trattasse di un mestolo di rame, di una piccozza da montagna, di un pentolino del tipo usato per bollire il latte o di altri oggetti, ma non è mai stata raggiunta alcuna certezza. L’arma del delitto, malgrado le approfondite ricerche non è mai stata trovata. Il professor Carlo Torre, cui era stata affidata inizialmente dalla famiglia Lorenzi la consulenza medico-legale passò diversi giorni nel laboratorio dell’Istituto di Anatomia di Torino per studiare i diversi modi in cui gli schizzi di sangue avessero potuto macchiare il pigiama azzurro ritrovato sul letto del piccolo Samuele. Per concludere, che – contrariamente a quanto sostenuto nelle indagini, che ipotizzavano se lo fosse sfilato dopo il delitto – l’assassino non poteva indossare quel pigiama macchiato di sangue. Per un motivo molto semplice: se quell’indumento fosse stato indossato da chi ha ucciso il bimbo di Cogne sarebbe stato sì sporco di sangue ma le tracce ematiche si sarebbero deformate nel momento in cui fosse stato sfilato. E così non era.
Nel caso di Marta Russo i laboratori della polizia avevano scambiato una particella di ferodo di freni, ampiamente diffuse nell’aria di Roma, per un residuo di sparo e su di esso avevano costruito tutta la tesi accusatoria. Per non parlare della traiettoria del proiettile ricostruita sulla base di un solo punto e che, guarda caso, passava proprio per dove era stato trovato il residuo fasullo.
Il 7 agosto 1990 in via Poma viene ritrovato il corpo di Simonetta Cesaroni. È stata immobilizzata a terra, qualcuno si è messo in ginocchio sopra di lei e l’ha colpita con un oggetto o le ha battuto la testa contro il pavimento facendola svenire. Poi, l’assassino ha preso un tagliacarte e ha iniziato a pugnalarla a ripetizione. Simonetta viene lasciata nuda, con il reggiseno allacciato, ma calato verso il basso, con i seni scoperti. Su uno dei capezzoli c’è una ferita che sembra un morso. Non vengono analizzati eventuali ritrovamenti di saliva attorno al capezzolo, posto che quella escoriazione sia dovuta a un morso. Dopo Pietrino Vanacore, portiere del palazzo, e Federico Valle, nipote di uno dei residenti, nel 2007, l’ex-fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, viene formalmente indagato. Sono passati diciassette anni dal delitto. Nel 2009 il pubblico ministero chiede il rinvio a giudizio di Busco. Il giudice decide di ascoltare i cinque consulenti che hanno eseguito la perizia sull’arcata dentaria di Busco e il confronto tra l’arcata dentaria dell’imputato e il morso al capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni. Viene anche convocato il consulente tecnico di Raniero Busco. I cinque periti del pubblico ministero – tra i quali un capitano del Ris – espongono i risultati della loro analisi sull’arcata dentaria di Raniero Busco e dimostrano, anche attraverso prove fotografiche, la perfetta compatibilità tra i segni del morso sul capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni e i denti dell’imputato. Il giudice ascolta anche la relazione del consulente nominato dalla difesa di Busco, che ritiene la lesione sul capezzolo della vittima come compatibile solo con l’azione di un morso laterale per il quale non è possibile giungere a alcuna attribuzione; evidenzia pure che le incisioni dentali di Busco, se di morso si tratta, sarebbero state completamente differenti, escludendo quindi che sia lui l’autore della lesione sul capezzolo. Il giudice accoglie la richiesta del pubblico ministero e rinvia a giudizio Raniero Busco. A gennaio 2011, al termine del processo di primo grado, Raniero Busco viene riconosciuto colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni e condannato a 24 anni di reclusione. A aprile 2012, al termine del processo di secondo grado, Busco viene assolto dall’accusa del delitto Cesaroni per non aver commesso il fatto. La Procura ricorre in Cassazione e nel febbraio 2014 Busco viene definitivamente assolto. Morso, tracce di Dna, sangue mischiato, perizie sballate, tutto un pasticcio. Il delitto resta senza colpevoli; Simonetta rimane senza giustizia.
Garlasco: nel settembre 2007 viene inviata alla procura di Vigevano una “relazione preliminare” che contiene l’accertamento sui pedali di una bicicletta di Alberto Stasi: è stato individuato un profilo genetico riconducibile, al di là di ogni ragionevole dubbio, alla vittima, secondo il Ris di Parma. Su quei pedali c’è il sangue di Chiara Poggi. Se ne convince anche il Pubblico Ministero incaricato dell’indagine, che, sulla base di quella relazione, dispone il fermo di Stasi. È il 24 settembre del 2007, quaranta giorni dopo il delitto. Il giorno seguente, il reparto scientifico dell’Arma manda una “nota tecnica” sugli esami del giorno prima: i risultati sono stati comunicati «senza procedere a ulteriori accertamenti». Un giorno dopo la consegna della relazione tecnica la posizione del Ris si fa più sfumata: il profilo genetico relativo alla vittima è solo «con elevata probabilità riconducibile a sangue». Passano altri due giorni e il 27 settembre il consulente tecnico della difesa di Stasi invia le sue osservazioni alla Procura: le analisi del Ris non dimostrano la presenza di emoglobina, quindi non si può parlare di sangue. Il gip considera “insufficienti” gli indizi raccolti e scarcera Stasi. Come si sa, i vari processi hanno poi finito per condannare definitivamente Stasi, e la bicicletta e i suoi pedali – forse non quella, forse non quelli – sono risultati poi determinanti. Più sconcertante era stato il fatto che una settimana dopo il delitto la salma di Chiara Poggi fosse stata inaspettatamente riesumata. I tecnici della scientifica devono obbligatoriamente prendere le impronte digitali sul cadavere per effettuare l’esclusione con quelle raccolte sulla scena del crimine. Era però successo che nei momenti immediatamente successivi alla scoperta del delitto nessuno lo aveva fatto.
E parliamo adesso di uno dei casi più recenti e ancora aperti, l’uccisione di Yara Gambirasio e l’accusa nei confronti di Massimo Bossetti. Il Dna che ha portato in carcere Bossetti è stato estratto dal Ris da una traccia mista scoperta sugli slip di Yara. È una traccia mista, perciò va separata: da una parte Yara, dall’altra Ignoto 1. Gli esperti stimano che quella traccia sia composta per quattro quinti dal materiale biologico (forse sangue) di Ignoto 1 e solo per un quinto dal sangue di Yara. Succede però che il perito nominato dal pubblico ministero scopre e certifica che le proporzioni sono invertite: quella traccia sono per quattro quinti di Yara e solo per un quinto di Ignoto 1. Forse non cambia nulla per Bossetti. Il Ris ha proceduto con l’estrazione del Dna nucleare, quello che individua con la massima precisione solo un individuo nel mondo e quel Dna nucleare, estratto dagli slip di Yara, combacia con quello di Massimo Bossetti. È lui Ignoto 1. Viene però esaminato e riesaminato il Dna mitocondriale, quello cioè che trasmette all’individuo le informazioni genetiche da parte materna. E qui, misteriosamente, Bossetti scompare. Anzi, compare proprio un’altra persona, mai individuata. Chi è? Il problema vero è un’altra scoperta del perito del pubblico ministero: l’originaria traccia di Dna nucleare che ha portato all’identificazione di Massimo Bossetti sembra esaurita. Quindi, posto che Bossetti non compare nel Dna mitocondriale estratto dalla traccia degli slip, resta in piedi la prova del Dna nucleare. Se si volesse ripeterla in sede processuale non sarebbe però piùpossibile. E questo, per Bossetti, può cambiare le cose.
Non sono un esperto di giudiziaria, non ho mai letto una sola carta processuale dei casi riportati, e mi sono limitato a riprodurre quanto spulciato nelle cronache, il che andrebbe di sicuro tarato. Peraltro qui non si vuole dare la croce addosso a nessuno. Ci sono stati tanti casi in cui le perizie sono state determinanti per accertare la verità. Basta però qui riportare le parole dell’ex generale Luciano Garofano, a lungo responsabile del Ris di Parma, e “volto noto” di tante trasmissioni televisive: «La polizia giudiziaria ha fatto passi di gigante nella tecnica del sopralluogo e negli esami di laboratorio ma molto resta da fare. Sulla scena del crimine dovrebbero andare solo specialisti puri che non abbiamo». Suona come una responsabile constatazione, piuttosto che una voce dal sen fuggita. E allora perché non li rifondiamo questi laboratori, perché non li formiamo meglio questi esperti, questi tecnici, questi periti? Perché consideriamo ogni perizia come fosse una pistola fumante e non qualcosa che va analizzato, considerato, soppesato, riscontrato attraverso altri mezzi di investigazione? Perché si è talmente impigrita l’indagine, affidandosi esclusivamente a elementi tecnici la cui ponderabilità è quasi sempre controversa? Cosa fanno i pubblici ministeri, i passacarte dei laboratori scientifici? Cosa fanno i pubblici ministeri, per sapere della salute di un congiunto chiedono informazioni al portantino? Io credo sia questo il vero problema. La sentenza Knox-Sollecito a me non dà alcun sollievo: qualcuno deve dare conto a Meredith Kercher.
PROCESSO AL PROCESSO!
Omicidio Meredith, processo al processo. Un colpevole con complici non individuati. Così le assoluzioni per il delitto di Perugia mettono a nudo l’assurdità delle nostre regole. Da rivedere subito, scrive Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”. Meredith Kercher Per l’omicidio di Meredith Kercher c’è un solo colpevole. Si chiama Rudy Guede e sta scontando la sua pena. Nella sentenza che lo condanna a 16 anni di reclusione è scritto che il delitto è stato commesso in concorso con altri individui. Costoro non sono, e non potranno mai essere, Amanda Knox e Raffaele Sollecito, assolti definitivamente qualche giorno fa dalla Cassazione. Conclusione che ha seminato sconcerto nell’opinione pubblica, come sempre più spesso accade quando ci si addentra nei meandri del sistema processuale italiano. Per la storia, Raffaele e Amanda sono due bei ragazzi dal volto pulito finalmente liberati da un’assurda persecuzione. Agli occhi di qualche commentatore la condanna di un giovane nero, e per di più “difficile”, ha avuto il sapore di una beffarda palingesi di quella che un tempo si chiamava “giustizia di classe”. Si rinnovano interrogativi ricorrenti: com’è possibile che gli stessi imputati siano due volte assolti e due condannati? Era necessario farlo, questo processo, visto l’esito? Torna a risuonare il mantra più diffuso nel contemporaneo: chi paga? Qualche precisazione, anche se impopolare, è doverosa, da parte del tecnico. Qui nessuno era stato colto in flagrante con la pistola fumante. Il processo era indiziario. Vale a dire che mancava la prova certa, ma c’erano argomenti da collegare insieme per arrivare alla ricostruzione del fatto. Elementi che la legge vuole “gravi, univoci e concordanti”, chiedendo al giudice di esaminarli e valutarli. In questa attività, tipicamente interpretativa, sono possibili esiti difformi. Prendiamo la prova scientifica, snodo ormai cruciale di ogni vicenda criminale. Inizialmente, consulenti e periti del pm e del giudice per le indagini preliminari non erano affatto certi che il delitto fosse stato commesso da più persone, ritenendo possibile l’esistenza di un solo assassino. Altri consulenti - e giudici - propenderanno per l’ipotesi del delitto collettivo, ma la prima considerazione resta agli atti. Ed è, come tutto, materia d’interpretazione. Materia scientifica d’interpretazione. Tocca rassegnarsi: è la scienza in sé a costituire materia opinabile, e la dialettica processuale sembra ideata da una mente perversa che gode ad amplificare i contrasti, lungi dal sanarli. Gli esperti possono comparire in un processo come consulenti di parte o del giudice. Nel primo caso, sono ontologicamente chiamati a portare acqua al mulino di una delle tesi contrapposte. In un processo accusatorio, dunque di parti che godono di eguali facoltà e diritti, non è ammissibile accordare - in ipotesi - maggior fiducia al poliziotto o al carabiniere in quanto “rappresentanti dello Stato”, ma ogni argomento scientifico, da chiunque sia portato, deve essere attentamente vagliato, sia esso accolto o confutato. Nel secondo caso, i periti rispondono direttamente al giudice. E questo, se offre una garanzia aggiuntiva, liberando il campo da ogni sospetto (per quanto tendenzioso) sulla qualità dell’analisi offerta, dall’altro non mette al riparo da altri pericoli. O, per meglio dire, dal multiforme atteggiarsi dell’esperienza umana, anche nel campo del sapere scientifico. Gli esperti sono spesso di provenienza accademica. Si dividono per l’adesione all’una o all’altra metodologia d’indagine, per il riconoscersi o meno in una determinata scuola di pensiero. Nel caso di Perugia, gran parte del contrasto sul Dna, momento decisivo della vicenda, dipendeva, in ultima analisi, dal confronto/scontro fra genetisti su alcuni temi specifici che da anni alimentano il dibattito della comunità scientifica. Quando il Dna è poco, lo si definisce “Low copy number”, e per sottoporlo all’analisi (la “corsa elettroforetica”), occorre amplificarne il volume mediante il ricorso a reagenti chimici. Ma l’amplificazione può indurre risultati artefatti: la comparsa di dati inesistenti, la scomparsa di dati esistenti. Sino a che punto il materiale genetico può essere “stressato” senza che ciò comporti risultati del tutto inattendibili? E un risultato dubbio, come va interpretato? Come “non c’è prova che il Dna sia di Tizio”, secondo una certa opinione, molto autorevole, o come “non si può escludere che quel Dna sia di Tizio, pur non potendolo dire provato”, secondo un’altra opinione, altrettanto autorevole? Quali procedure adottare per garantire che nelle fasi di prelevamento, custodia, esame dei reperti non si verifichino contaminazioni? Un risultato ottenuto in violazione dei protocolli è da scartare, o è comunque valido, perché i protocolli non sono legge, e l’esperienza del perito deve prevalere su astratte regole ideate per qualche caso-limite? I consulenti del primo processo svolto a Perugia sostengono di aver trovato Dna misto di Amanda e della vittima su un coltello sequestrato, e Dna di Sollecito sul reggiseno della vittima. I periti nominati dalla Corte, nel processo di appello, censurano l’errata conservazione dei reperti, giudicano inattendibile il materiale genetico trovato sul reggiseno, escludono il Dna della vittima dal coltello. Primo annullamento della Cassazione. Nuovo appello, nuovi periti. I quali non possono ripetere l’analisi sulle tracce già esaminate del coltello per carenza di materiali genetici, ma valutano un’altra traccia, ignorata perché ritenuta troppo esigua dai precedenti periti, e l’attribuiscono alla sola Amanda. I giudici degradano il Dna misto Amanda/Meredith a indizio (prima era una prova piena), ma nella loro valutazione complessiva il Dna della cui conservazione si dubitava è comunque valido. L’ultima Cassazione - vedremo le motivazioni quando saranno disponibili - evidentemente non ha condiviso il ragionamento. La prova scientifica, insomma, lungi dal fornire certezze, rischia di produrre nebbia ancora più fitta. Accade in continuazione: non a caso negli Stati Uniti si stanno studiano protocolli imperativi, nel senso dell’adozione di linee-guida da rendere obbligatorie per l’uso della scienza nel processo. Dovremmo fare qualcosa di simile anche noi. E farlo presto. E che dire del movente? Indicato in un primo momento nella violenza sessuale, viene ricondotto, dall’ultima sentenza di condanna (quella annullata per sempre dalla Cassazione) a una lite progressivamente degenerata. Inutile dire che il tecnico sa bene come l’individuazione del movente non sia necessaria, quando c’è la prova della colpevolezza: all’uomo della strada questa constatazione appare un sofisma del quale diffidare. Su un punto, però, senso comune e tecnica concordano. È irrazionale che tre individui coinvolti nella medesima vicenda siano processati in due diverse sedi e con regole processuali diverse. È qui, in questa diversità, che si annida un baco profondo: finché non vi si metterà mano, l’irrazionalità del sistema risulterà ineliminabile. Rudy Guede ha scelto il rito abbreviato, e in cambio ha ottenuto uno sconto sulla pena. Nel processo contro di lui sono stati utilizzati materiali investigativi che non potevano essere spesi contro Knox e Sollecito: perché il processo abbreviato si fa sulla base delle indagini del pm, mentre nel processo ordinario la prova si forma in dibattimento. All’imputato, in sostanza, si offre un patto: tu accetti di essere giudicato “allo stato degli atti”, e in caso di condanna prendi meno anni. Nessuno, tanto meno il pm, può opporsi. Per giunta, finché il processo abbreviato dura, chi vi è assoggettato ha facoltà di non rispondere in quello contro gli eventuali coimputati. Sono le nostre regole. Sul piano astratto hanno una sostanziale nobiltà. Su quello concreto, contribuiscono a rendere la giustizia un affare tendenzialmente gnostico. Siamo stati molto criticati, per la vicenda di Perugia, specialmente dagli americani: una loro cittadina accusava di brutalità le nostre forze dell’ordine, la sentenza contro Guede appariva incomprensibile, i membri della giuria popolare non erano sequestrati durante il dibattimento - come avviene negli States - ma vivevano come liberi cittadini, godendo persino del diritto di leggere il giornale o guardare la Tv. Sistemi diversissimi, chiaro. Da quelle parti, quando un imputato vuole uno sconto di pena, si mette d’accordo con il pm e si impegna, con un contratto formale, ad accusare i complici. Da quelle parti, l’imputato o parla, sotto giuramento, o tace, ma una volta che abbia parlato, le sue dichiarazioni sono eterne e incancellabili. Da noi l’imputato è il signore del processo: decide se e quando parlare, ritrattare, mentire. Senza pagare dazio. Non c’è da entusiasmarsi per la giustizia contrattualistica all’americana, ma il nostro processo, così com’è, è una sorta di surreale macchina celibe, un modello indecifrabile. È accaduto, insomma, in questo caso, quanto si verifica sovente nei processi indiziari: alcuni giudici li hanno ritenuti, questi indizi, sufficienti a condannare, altri sono stati di diverso avviso. Niente che si discosti dalla fisiologia del sistema. Esistono valide alternative? In un regime democratico no. In passato si usava la tortura, ma è lecito dubitare che persino il più scatenato colpevolista la rimpianga. Del resto, più gradi di giudizio sono previsti proprio per evitare le conseguenze disastrose a cui porterebbe una decisione errata, o controversa, se ci si attenesse solo ad essa, senza possibilità di riesame. Ma si poteva evitare un giudizio così difficile e scivoloso, il cui esito è letto da molti come una sconfitta per la giustizia? Premesso che non si può pensare di processare soltanto chi confessi immediatamente (di solito, l’accusato si difende, è così che funziona), nel nostro sistema il pm ha l’obbligo di procedere e non può “scegliere” chi processare e per quali reati. Insegue un’ipotesi accusatoria e spetta poi ai giudici vagliarla. Ogni processo è una partita aperta che ruota intorno a un interrogativo di fondo: gli elementi offerti dall’accusa sono o no sufficienti alla condanna? Anche se si introducesse la discrezionalità dell’azione penale, i termini della questione non cambierebbero. Ci sarebbero sempre un’accusa e una difesa, e possibili esiti contraddittori del giudizio, perché quando il giudice condivide le prospettazioni dell’accusa, condanna, quando le confuta, assolve. Ma, si dice, oggi una famiglia colpita a morte non ha avuto giustizia. Eppure, per il delitto c’è un sicuro colpevole. Gli altri devono necessariamente essere i due imputati? Anche se nei loro confronti le prove non sono sufficienti? La vicenda si è trascinata per otto lunghi anni. Il nostro sistema processuale presenta indubbie falle, alcune delle quali sono emerse proprio in occasione di questo caso. Ma l’accertamento della verità è un percorso accidentato, dialettico, difficile, e in qualche caso impossibile. Sui tempi si potrà e si dovrà lavorare, ma dovremo avere tutti l’onestà intellettuale di spiegare all’uomo della strada che un omicidio vero non accetterà mai di farsi comprimere nei cinquanta minuti di un format tipo Csi.
IL DELITTO DI PERUGIA E LE FIGURACCE DEI MAGISTRATI.
Nella roulette giudiziaria è uscita la sentenza di assoluzione, ma nella girandola delle pronunce emesse nulla ci impedisce di pensare che poteva uscirne qualcosa di diverso per gli imputati. E’ solo questione culo. In Italia sei fortunato se trovi un Giudice con la G maiuscola. Ancor più importante è avere tanti, tanti di quei soldi che ti permettano di cercarlo. Per questo stiamo qui a parlarne in un certo modo. Se la sorte fosse cambiata, il senso delle parole e dei reportage dei pennivendoli sarebbero diversi.
Che grama vita affidarsi alla fortuna!
La Bongiorno: "La Cassazione ha avuto il coraggio di affermare che Raffaele è innocente". L'avvocato difensore del giovane commenta la sentenza di assoluzione in via definitiva, scrive Caterina Pasolini su “La Repubblica”. "E' stata una battaglia durissima, Sollecito è innocente, e questa Cassazione ha avuto il coraggio di affermarlo. Ora Raffaele torna a riprendersi la sua vita". Fuori dal palazzaccio parla del suo assistito che ancora non riesce a credere alla fine dell'incubo, dei giudici "preparati, che hanno studiato a fondo le carte e per questo lo hanno assolto". L'avvocato Giulia Bongiorno nella notte più lunga scioglie la tensione e allarga un sorriso dopo anni di carte, di prove e perizie contestate. Ha vinto la sua linea, la sua costanza.
Se l'aspettava?
"Sì, avevamo consegnato seicento pagine per spiegare gli errori della sentenza, di una realtà frantumata nel corso di anni di processi e resa ormai irriconoscibile dal vero. Ho sempre detto che se si studiavano le carte si sarebbe capita la verità. E i giudici erano molto preparati, si vedeva, hanno fatto relazioni puntuali e rigorose. Hanno avuto coraggio".
Hanno avuto coraggio i magistrati?
"Sì, il coraggio di andare a fondo, di rileggere il materiale, in fondo c'era un'altra sentenza di Cassazione da valutare. Il coraggio di andare oltre l'apparenza e l'opinione pubblica. Il coraggio di essere indipendenti".
Raffaele e Amanda assolti per sempre?
"Si, i giudici potevano annullare la sentenza e decidere di approfondire, invece hanno deciso di annullare senza rinvio: è come dire basta indagini, non c'è alcun coinvolgimento di Sollecito".
Ha parlato con Raffaele?
"L'ho sentito, ha capito che è andata bene, non i passaggi tecnici. Mi è sempre piaciuto, mi è piaciuto il modo in cui ha affrontato a testa alta i momenti duri e sono stati tanti in questi otto anni di indagini, 4 dei quali passati in carcere. E in questo tempo non l'avete mai sentito imprecare, insultare i giudici o la giustizia. Sempre rispettoso, pacato, anche per il suo carattere mi sembrava impossibile l'accusa. Certo, ha avuto la fortuna di avere accanto un padre straordinario pronto a sostenerlo. Sempre".
Cosa le ha detto?
"È come se non riuscissi ancora a crederci. Dopo otto anni, dopo essermi svegliato tutte le mattine con questa spina nel cuore mi sembra impossibile sia finita. Invece, ora per Raffaele è il momento di riprendersi la sua vita".
Delitto Meredith, ecco ciò che non torna, scrive Angela Di Pietro su “Il Tempo”. Chi è complice di Rudy? Chi inscenò la rapina e lanciò il sasso dall’interno? A Seattle esplodono i fuochi d'artificio, a Bisceglie si ringrazia come dopo un avvenuto ed inatteso miracolo. Amanda Knox si commuove e lancia un pensiero affettuoso all'«amica» Meredith Kercher, aggiungendo di essere stata fortunata a conoscerla. A fatica riesce a muovere le labbra per ringraziare chiunque l'abbia aiutata, con la mano poggiata sul cuore come a trattenere l'emozione. È' il suo avvocato a trovarle, le parole: «Amanda chiederà i danni per l'ingiusta reclusione». Potrebbe arrivare ad intascare cinquecentomila euro dallo Stato Italiano. Festeggiano anche gli organi di comunicazione, soprattutto quelli americani e inglesi. The Indipendent sottolinea come in passato Amanda sia stata «vittima di un aborto spontaneo della Giustizia italiana», il New York Times riserva ampio spazio all'assoluzione senza trovare motivi per non promuovere il sistema giudiziario italiano, questa volta. Dal canto suo Candace Dempsey, autrice del libro «Murder in Italy», parla di una «brillante mossa» da parte dell'Italia che a suo parere ha evitato una crisi diplomatica con gli Stati Uniti. L'euforia collettiva coinvolge anche Claudio Pratillo Hellmann, presidente della Corte di Assise di Appello di Perugia che nel 2011 fece assolvere Amanda e Raffaele all'accusa di aver ammazzato la studentessa inglese Meredith Kercher. «Evidentemente - risponde a chi gli chiede un commento sugli esiti della Cassazione - avevamo ragione noi». Svanisce in questa ricostruzione narrativa proprio «Mez», la ventiduenne vittima dell'omicidio, come dissolta dalle increspature di uno slalom giudiziario in cui è risultata una minaccia incombente più che la vittima di una notte di follia, uccisa senza un movente. La sentenza della Corte di Cassazione sembra aver accontentato tutti (imputati, legali, una nazione così amata dall'Italia come gli Stati Uniti) ma la verità risulta più complessa di come appaia. Intanto perché la Giustizia italiana si è dimostrata ancora una volta incerta fino in fondo, rivelando titubanze imbarazzanti. Cinque dibattimenti ed otto anni di inchiesta non hanno detto né mai lo diranno, presumibilmente, chi abbia ucciso Meredith Kercher la notte tra il primo ed il due novembre 2007. I buchi neri restano e rendono solforosa la ricostruzione di un omicidio solo parzialmente risolto. Si parta dalla dichiarazione dell'avvocato dell'affranta famiglia Kercher, pochi minuti dopo la sentenza di assoluzione definitiva: «Non è stata evidentemente raggiunta la prova che inchiodasse Raffaele Sollecito e Amanda Knox - ha affermato Francesco Maresca - ma di fatto restano sconosciute le persone insieme alle quali Rudy Guede ha compiuto il delitto. Ricordo che lui è stato condannato per concorso in omicidio». Se, come ha ribadito il procuratore generale Pinelli nella sua requisitoria di martedì scorso, ad infierire su Meredith sono state tre persone, l'inchiesta si chiude con un punto interrogativo. Anzi due. Improbabile che si approfondirà perché sotto questo profilo l'avvocato Bongiorno, che ha difeso Raffaele Sollecito con l'efficacia che le viene riconosciuta, ha ragione: l'aspetto scientifico dell'indagine è stato caratterizzato da lapsus, ritardi, incongruenze. C'è poco da esultare dunque, perché di fatto c'è ancora in giro un assassino che se la spassa. O due assassini, se la dinamica omicidiaria è quella che sembra essere. La camera da letto in cui morì Meredith Kercher fu messa a soqquadro come se qualcuno volesse inscenare una rapina. Di più: un sasso ha rotto una finestra del casolare, ma dall'interno verso l'esterno. In altro modo non sarebbe stato possibile a causa della presenza di una serranda incrostata. Guede non ha confessato di aver simulato l'azione di un malintenzionato entrato per rubare ed uscito con un omicidio da aggiungere ai suoi reati. Non aveva motivi per negare la circostanza. E allora chi è stato? Resterà ancorata al porto dei misteri l'accusa che Amanda Knox rivolse al suo datore di lavoro, Patrick Lumumba, titolare di un bar. Lei lo accostò al delitto e la calunnia le è costata tre anni di condanna, confermata due giorni fa dalla Cassazione. Le ragioni per le quali l'americana cercò di incastrarlo non trovano risposta. Non è stato finora possibile chiarire all'opinione pubblica neanche uno dei tanti enigmi legati a questa storia: gli esiti delle indagini sul coltello sequestrato a Sollecito nel quale erano stati individuati i dna di Amanda e di Meredith sono stati sconfessati dalla Difesa. Un duello di perizie che avrà convinto pure i giudici, ma non ha dimostrato in maniera elementare agli italiani perché si sia arrivati al primo risultato e poi ai successivi. La cronaca di questo delitto si chiude in maniera definitiva senza dirci granché insomma. Meredith Kercher riposa nel cimitero di Croydon, alla periferia di Londra. Una mamma piange la propria figlia senza aver potuto conoscere la verità sulla sua morte: se dall'altra parte dell'oceano si accendono i fuochi d'artificio, una famiglia inglese continua a chiedere giustizia. Senza poter contare su una buona quantità di misericordia. In un quieto realismo, ci si rassegni ora ai libri autobiografici, ai film, al foklore mediatico, probabilmente al business che incornicia gli eventi, anche quelli così spiacevoli come l'omicidio di una brava ragazza.
«Amanda Knox e Raffaele Sollecito, le prove erano insufficienti». I dubbi di Gennaro Marasca, il giudice napoletano che ha presieduto il collegio di Cassazione che ha assolto i due imputati dell’omicidio di Meredith a Perugia, scrive Gianluca Abate su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Il giudice Gennaro Marasca. Uno come lui, uno che ha speso una carriera intera a stigmatizzare «i magistrati che parlano con i giornalisti» (l’ultima volta l’ha fatto nel consiglio direttivo della Cassazione, criticando il collega Antonio Esposito per l’intervista rilasciata dopo la condanna di Silvio Berlusconi), uno così non è certo magistrato da lasciarsi andare ad interviste dopo la sentenza che ha spaccato l’Italia mandando definitivamente assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito, imputati nel processo per l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. Eppure, nonostante la ritrosia, quel giudice non ha potuto evitare le di telefonate di colleghi e amici napoletani, tutti in cerca (vanamente) di qualche dettaglio. E già, ché il presidente della quinta sezione della Cassazione che ha emesso la sentenza due giorni fa è un magistrato di Napoli, Gennaro Marasca, una delle toghe più conosciute in città. Lui, con il garbo di sempre, s’è limitato a rispondere a tutti che parlerà la sentenza, ma che molte cose già può dire il dispositivo emesso al termine del processo. Quello che ha assolto Amanda e Raffaele nella stessa identica maniera con la quale fu assolto l’ex senatore a vita Giulio Andreotti, cioè applicando il secondo comma dell’articolo 530 del codice di procedura penale. C’è, in questa spiegazione di Marasca, gran parte delle ragioni della sentenza, dal momento che la norma stabilisce che «il giudice pronuncia sentenza di assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova che il fatto sussiste o che l’imputato lo ha commesso». E, non a caso, al Palazzaccio di piazza Cavour a Roma si fa notare che raramente un articolo di legge viene indicato (come in questo caso) in un dispositivo di sentenza della Corte di Cassazione. E dire che Marasca, in quelle aule, neppure doveva arrivarci. Non per demeriti, beninteso (è considerato uno dei migliori giudici napoletani, e non a caso il 25 gennaio 2014 il procuratore di Nola Paolo Mancuso lo citò tra le «eccellenze» accanto a Carlo Alemi, Giuseppe Fusco e Nino Vacca), ma perché la sua aspirazione — quattro anni fa — era quella di essere nominato procuratore generale di Napoli. Fece anche regolare domanda al Csm, ma fu bocciata. Il motivo? Accadde che, nel Paese in cui i magistrati si rimettono la toga dopo aver fatto politica, il Consiglio superiore della magistratura decise di non nominarlo perché «non va trascurato — si leggeva nelle motivazioni della relazione — che Marasca ha ricoperto per più anni, dopo il 1994, l’incarico di assessore presso il Comune» all’epoca della giunta di Antonio Bassolino. Quella parentesi, oggi, è dimenticata. Marasca ha più volte ribadito che «quello in Cassazione è il lavoro che mi piace», anche perché — ha confidato ad alcuni colleghi — è quella la sede dove «cerchiamo di applicare il diritto a volte dimenticato nelle sedi locali». E, da magistrato navigato, Marasca ha saputo governare anche l’improvvisa popolarità in un’Italia divisa tra chi ha esultato per l’assoluzione di Amanda e Raffaele e chi invece ha contestato la decisione. Lui, a chi gli domandava se giustizia era stata fatta, ha risposto che un giudice deve basare la sua decisione sugli elementi processuali, e che quindi «giustizia è stata fatta sol perché abbiamo fatto il nostro mestiere». Certo, la soluzione più semplice sarebbe stata quella di annullare la sentenza d’appello disponendo un nuovo processo, ma la «insufficienza delle prove» è stata giudicata «non colmabile» neppure successivamente. E dunque — ha spiegato il presidente ai colleghi — se quelli sono gli elementi, «che bisogno c’è di fare un altro processo?».
Il giudice che assolse Knox e Sollecito: "Io linciato dai colleghi". Pratilllo Hellmann: "Fui costretto a lasciare la magistratura. Per me solo sdegno", scrive Mario Valenza su “Il Giornale”. "L’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito da parte della Corte di Cassazione? Non è soltanto la soddisfazione per il riconoscimento implicito della validità della sentenza emessa a suo tempo dalla corte che presiedevo, ma è soprattutto la fine di una grande sofferenza. Per tre anni e mezzo ho sofferto per la sorte di due ragazzi che ritenevo innocenti e che rischiavano di scontare una pena durissima per un delitto che non avevano commesso". Lo afferma a Repubblica, Claudio Pratillo Hellmann, 72 anni, nel 2011 presiedeva la Corte d’Appello di Perugia che assolse Amanda e Raffaele e da allora è in pensione. Pratilllo Hellmann spiega come "praticamente fui costretto a lasciare la magistratura. La nostra decisione fu accolta con reazioni di sdegno. Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un’ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alla pressioni della Cia". "Panzane, certo, ma - prosegue - quello che mi ha colpito di più del linciaggio diffamatorio durato per anni fu la reazione dei colleghi magistrati. Quasi tutti mi tolsero il saluto. In particolare quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda. Mi resi conto - prosegue - che quella della mia Corte era stata una voce fuori dal coro in un tribunale dove tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l’inchiesta, avevano avallato l’accusa. In più ero in predicato per la presidente del Tribunale e naturalmente quella carica venne assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne. Sei mesi dopo la sentenza quindi decisi di andare in pensione".
Claudio Pratillo Hellmann: "Per avere assolto Amanda e Raffaele venni linciato anche dai magistrati". Parla l'uomo che nel 2011 presiedeva la Corte d'Appello di Perugia che assolse Amanda e Raffaele; da allora è in pensione, scrive Meo Ponte su “La Repubblica”. "L'Assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito da parte della Corte di Cassazione? Non è soltanto la soddisfazione per il riconoscimento implicito della validità della sentenza emessa a suo tempo dalla corte che presiedevo, ma è soprattutto la fine di una grande sofferenza. Per tre anni e mezzo ho sofferto per la sorte di due ragazzi che ritenevo innocenti e che rischiavano di scontare una pena durissima per un delitto che non avevano commesso". Claudio Pratillo Hellmann, 72 anni, nel 2011 presiedeva la Corte d'Appello di Perugia che assolse Amanda e Raffaele e da allora è in pensione.
Come mai lasciò la magistratura proprio dopo quel verdetto?
"Praticamente fui costretto. La nostra decisione fu accolta con reazioni di sdegno. Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un'ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alla pressioni della Cia. Panzane, certo, ma quello che mi ha colpito di più del linciaggio diffamatorio durato per anni fu la reazione dei colleghi magistrati. Quasi tutti mi tolsero il saluto. In particolare quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda. Mi resi conto che quella della mia Corte era stata una voce fuori dal coro in un tribunale dove tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l'inchiesta, avevano avallato l'accusa. In più ero in predicato per la presidente del Tribunale del Tribunale e naturalmente quella carica venne assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne. Sei mesi dopo la sentenza quindi decisi di andare in pensione".
Che cosa la convinse dell'innocenza di Amanda e Raffaele?
"Il fatto che l'indagine era del tutto lacunosa e secondo me sbagliata sin dall'inizio. Tanto è vero che in primo momento fu arrestato Patrick Lumumba che poi risultò del tutto estraneo alla vicenda diventando parte lesa. Ricordo che il collega Massimo Zanetti che presiedeva la Corte con me aprì la sua relazione dicendo che di certo c'era solo la morte di Meredith Kercher. Ordinammo le perizie che non erano state fatte durante il processo di primo grado e la contaminazione delle prove scientifiche apparve in tutta evidenza. Era palese che il coltello sequestrato a casa di Raffaele Sollecito non era l'arma del delitto, la lama non combaciava con la ferita. In più mi sono sempre chiesto perché dovevano per forza essere state tre persone ad uccidere la povera Meredith e veniva invece scartata a priori la possibilità che potesse essere stato soltanto Rudy Guede".
L'unico ora ad essere condannato per l'omicidio...
"E soprattutto l'unico a sapere che cosa è davvero accaduto quella notte in via Della Pergola e chi c'era con lui, se c'era qualcuno. Abbiamo provato a farglielo dire ma quando venne nella nostra aula, alla precisa domanda se riconoscesse Amanda e Raffaele lui rispose fumosamente che aveva sempre pensato che gli assassini fossero loro. E mi ha sempre sorpreso il riguardo con cui era stato trattato nonostante fosse l'unico la cui presenza sulla scena del crimine fosse indiscutibile".
Che cosa provò quando la Corte di Cassazione annullò la sua sentenza di assoluzione?
"Sgomento, soprattutto. La mia corte aveva cercato di capire davvero chi avesse ucciso Meredith, senza lasciarsi intrappolare dai pregiudizi o da tesi precostituite. Avevamo assolto quei due ragazzi perché il dibattimento aveva dimostrato che non c'erano prove della loro partecipazione al delitto. Naturalmente quella decisione rinfocolò la campagna diffamatoria nei miei confronti e ritornarono in circolo le voci che fossi stato assoldato dagli Stati Uniti per liberare Amanda".
E quando il secondo processo di appello a Firenze li condannò entrambi nuovamente?
"Rimasi perplesso. Non riuscivo a capire come avessero potuto farlo dato che dal dibattimento non era emerso nulla di nuovo. Avevano cambiato il movente ma si trattava ancora di una supposizione e non di un dato di fatto. Avevano ordinato anche lì una perizia scientifica sul coltello che aveva avuto sostanzialmente la stessa conclusione della nostra. Mi chiedo ancora come fecero ad arrivare ad una condanna".
Bella lezione della Cassazione, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. E così la Corte di Cassazione ha assolto Raffaele Sollecito e Amanda Knox dall’omicidio della giovane Meredith Kercher, dopo circa otto anni di processi e sentenze. Soltanto gli sprovveduti – cioè coloro che non son provvisti di senso del diritto – possono restarne sorpresi, immaginando chissà quali contorsionismi giuridici. In realtà, la Cassazione ci ha impartito una lezione di prudenza giuridica – la quale, peraltro, non fa male nel nostro tempo caratterizzato da una eccessiva disinvoltura – ricordando a tutti appunto che quando si tratta di giudicare essere umani per delitti così gravi, ciò che occorre è la “iuris-prudentia”, vale a dire il senso del limite. Infatti, la cosa più importante del diritto, ciò che lo fa essere indispensabile per la coesistenza umana, non è tanto il comando – ciò che va fatto – quanto il divieto – ciò che non può mai essere permesso, vale a dire, appunto, il limite: in linea teorica, un codice di soli divieti sarebbe preferibile ad uno di soli comandi, perché è più importante vietare l’omicidio o di passare con il rosso, che imporre di pagare la tassa di circolazione (indipendentemente da ciò che si comandi o si vieti). Ebbene, la Cassazione ha mostrato come si possa e in che senso si debba rispettare il senso del limite, proprio annullando la sentenza di condanna emessa a carico dei due giovani e, soprattutto, evitando di rinviare ad altro giudice per la prosecuzione del processo. È come se la Corte avesse implicitamente detto che non è giuridicamente possibile processare sei o sette volte gli stessi imputati per lo stesso fatto, provocando una girandola inesplicabile di assoluzioni e condanne che si susseguono l’una dopo l’altra, ma prive di un senso riconoscibile e fondato. Proprio così. Qualcosa del genere accadde anni or sono con Adriano Sofri, assolto, condannato, poi ancora assolto e poi condannato in una sorta di capriccioso giuoco dell’oca durato per una dozzina di processi e alla fine del quale c’era una sola certezza: che cioè nessuno ci capiva più nulla. Nel senso che non si capiva più che ci fossero prove reali per condannare o per assolvere e che perciò, come è necessario fare, bisognava assolvere: cosa che allora non fu fatta e ne ebbero rimorso tutti, perfino coloro che si battevano per una condanna. Prova ne sia che si premurarono a trovare il sistema di metterlo fuori, ma con poco costrutto umano e giuridico: poco del primo, perché comunque una condanna assai dura ne colpiva l’anima e l’immagine pubblica; poco del secondo, perché la sollecitudine per consentirgli di star fuori dalle mura del carcere strideva con la pesantezza della pena inflitta. Oggi, invece e per fortuna, la Cassazione ha saputo porre un freno ad una simile deriva processuale, annullando la condanna dei due giovani senza alcun rinvio, cioè senza che si possa ancora rimestare quella che in senso proprio è soltanto aria fritta. In questa prospettiva, si comprende bene perché anni fa il governo Berlusconi aveva sancito la non appellabilità, da parte delle Procure, della sentenza di assoluzione di primo grado: perché se un collegio di giudici – anche uno soltanto – dichiara l’imputato innocente, anche se un altro collegio lo ritenesse colpevole, non per questo il dubbio residuo ne permetterebbe la condanna. Tuttavia, urgono anche altre brevi riflessioni. Bisogna chiedersi come siano state svolte nel caso in esame le investigazioni tecnologiche dei primi momenti: probabilmente male, malissimo, tanto da far revocare in dubbio i risultati conseguiti. Non solo. Da qualche anno a questa parte, si diffonde l’idea che le indagini tecnologiche siano autosufficienti, bastevoli a sé, capaci di far tutto comprendere e tutto giudicare. Che non sia così è sotto gli occhi di tutti: anche se non tutti lo ammettono, spesso gli esiti delle indagini scientifiche si presentano ambigui, suscettibili di letture diverse o contrapposte. Non sarebbe male allora usare la sana logica induttiva e deduttiva, vale a dire la capacità di ragionare quale antidoto contro gli stalli delle prove scientifiche. Bene allora ha fatto la Cassazione. Non semplicemente perché ha assolto Sollecito e la Knox. Ma perché ha mostrato che non li si poteva in alcun modo condannare.
Omicidio Meredith: «Inutile un altro processo su Amanda e Raffaele». La decisione all’unanimità in camera di consiglio «Prove troppo contraddittorie così un altro processo è inutile», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Un nuovo processo non avrebbe potuto accertare la verità sul delitto di Meredith Kercher. Il «complesso probatorio era talmente contraddittorio» da rendere impossibile il superamento dei dubbi e delle incongruità. Per questo, dopo otto ore di discussione, i giudici della quinta sezione della corte di Cassazione, sono stati tutti d’accordo sull’annullamento della condanna a 28 anni e sei mesi per Amanda Knox e a 25 anni per Raffaele «senza rinvio». «Assurdo», questa la linea condivisa, sarebbe stato «disporre un nuovo dibattimento potendo contare su indizi così labili». Il collegio presieduto da Gennaro Marasca ha anche ritenuto «non vincolante» la precedente sentenza della Cassazione che nel marzo di due anni fa aveva ordinato un nuovo giudizio, nella convinzione che la propria pronuncia dovesse valutare esclusivamente il verdetto raggiunto in appello a Firenze il 30 gennaio di un anno fa, quello per cui Amanda e Raffaele erano stati giudicati colpevoli di omicidio. Si chiude dunque per sempre la possibilità di scoprire che cosa accadde davvero nella villetta di via della Pergola il primo novembre del 2007. L’unico responsabile rimane Rudy Guede, condannato a sedici anni di carcere e - dopo averne scontati quasi la metà - già pronto a chiedere permessi per il lavoro esterno. Otto lunghi anni non sono stati sufficienti a fare luce sui lati oscuri di una storia che rimane tuttora segnata da troppi misteri. E sono almeno quattro gli interrogativi rimasti insoluti, ai quali sembra ormai impossibile trovare delle risposte convincenti.
La stanza. La sera di quel giovedì Meredith torna a casa e con lei c’è sicuramente Rudy. Ma che cosa accade dopo? Secondo la sentenza di condanna dell’ivoriano, ci sono almeno due «concorrenti». I giudici della Cassazione il 26 dicembre del 2013 chiedono alla Corte d’assise d’appello di Firenze di individuarli e scrivono: «Bisogna porre rimedio, nella più ampia facoltà di valutazione, agli aspetti di criticità argomentativa operando un esame globale e unitario degli indizi», specificando poi la necessità di «sommare e integrare ogni indizio con gli altri». Poi aggiungono: «L’esito di tale valutazione osmotica sarà decisiva non solo a dimostrare la presenza dei due imputati sul luogo del delitto, ma eventualmente delineare la posizione soggettiva dei concorrenti del Guede». Un obiettivo che evidentemente non è stato raggiunto. La perizia medico legale ha accertato che Meredith ha subito molestie sessuale ed è morta, dopo essere stata ferita con alcune coltellate, per un fendente sferrato alla gola. Nessuno, a questo punto, può dire se Rudy Guede abbia fatto tutto da solo o se invece qualcuno l’abbia aiutato a immobilizzare la ragazza inglese e le abbia poi inferto il colpo fatale.
L’arma. È certamente uno degli aspetti più controversi. L’arma del delitto viene individuata dai pubblici ministeri in un coltello sequestrato nella cucina a casa di Raffaele Sollecito. Le indagini genetiche trovano tracce del Dna di Amanda sulla lama e questo convince l’accusa che la giovane americana l’abbia usato per uccidere la sua coinquilina. Motivando la sentenza di condanna i giudici fiorentini scrivono però che «la vittima fu colpita con due coltelli». Secondo loro «l’arma che produsse la ferita sulla parte sinistra del collo e provocò la morte era impugnata da Amanda e si tratta del coltello sequestrato a casa di Raffaele», mentre le ferite sulla parte destra furono provocate da un «coltello più piccolo impugnato da Raffaele», ma nulla dicono sull’origine dell’arma, su dove fosse stata presa e, soprattutto, dove sia finita.
Il movente. I primi a parlare di «gioco erotico degenerato» come movente del delitto furono i pubblici ministeri, confortati dai diversi giudici che avevano confermato le tesi dell’accusa. L’ipotesi nata dalla certezza che Rudy avesse avuto un rapporto sessuale con Meredith - come dimostrato dall’autopsia - non era però supportata da ulteriori elementi e questo ha portato i giudici di Firenze a disegnare un diverso scenario. Nella sentenza di condanna emessa un anno fa si parlava di «progressiva aggressività» innescata da una lite, sfociata in una violenza sessuale e conclusa con l’omicidio, perché la vittima, che era stata «umiliata e prevaricata», alla fine «doveva essere messa in condizione di non denunciare». Una ricostruzione che la Cassazione ha giudicato ora - evidentemente - non sostenuta da alcuna prova.
Il memoriale. Afferma Amanda nel memoriale scritto in questura, cinque giorni dopo il delitto, e poi ritrattato: «Io e Patrick Lumumba (arrestato, ma poi scarcerato e prosciolto ndr) ci siamo incontrati intorno alle ore 21 e siamo andati a casa mia. Non ricordo precisamente se la mia amica Meredith fosse già in casa o se è giunta dopo, quello che posso dire è che Patrick e Meredith si sono appartati nella camera di Meredith, mentre io mi pare che sono rimasta nella cucina. Non riesco a ricordare quanto tempo siano rimasti insieme nella camera ma posso solo dire che a un certo punto ho sentito delle grida di Meredith e io, spaventata, mi sono tappata le orecchie. Poi non ricordo più nulla, ho una grande confusione nella testa. Non ricordo se Meredith gridava e se sentii anche dei tonfi perché ero sconvolta, ma immaginavo cosa potesse essere successo. Non sono sicura se fosse presente anche Raffaele quella sera, ma ricordo bene di essermi svegliata a casa del mio ragazzo, nel suo letto, e che sono tornata al mattino nella mia abitazione dove ho trovato la porta dell’appartamento aperta». Amanda descrive il delitto, ma al posto di Rudy pone sulla scena del delitto Lumumba, anche lui giovane, ugandese, quindi di colore. Come mai? Possibile fosse soltanto una coincidenza? Certamente è questo l’interrogativo al quale nessuno è mai riuscito a dare una risposta convincente.
LE TAPPE DELLA VICENDA.
La notte tra il primo e il due novembre 2007, la studentessa inglese, Meredith Kercher, venne barbaramente uccisa nella sua abitazione di via della Pergola, a due passi dall'Università per Stranieri di Perugia, dove si trovava per seguire il progetto Erasmus, mai terminato. Il suo corpo senza vita venne trovato in camera da letto, in una pozza di sangue, accoltellata alla gola e coperta con un piumone. Per lo stesso delitto il giovane ivoriano, Rudy Guede, è stato condannato con rito abbreviato a 16 anni di carcere per concorso in omicidio e violenza sessuale.
2 NOV. 2007 - Meredith Kercher, studentessa inglese di 22 anni, viene trovata morta nella sua camera da letto, nella casa di via della Pergola, a Perugia, dove si trovava per il progetto Erasmus. Meredith viene uccisa con una coltellata alla gola nel proprio appartamento. Il corpo viene trovato il giorno dopo in camera da letto, coperto da un piumone. A occuparsi delle indagini è la polizia.
6 NOV 2007 - la polizia ferma per l'omicidio la coinquilina di Mez, Amanda Knox, il fidanzato di questa ultima, Raffaele Sollecito e il musicista congolese Patrick Lumumba Diya. Lumumba è il datore di lavoro di Amanda. E' lei a indicarlo come l'autore del delitto. Amanda, americana, di Seattle, all'epoca ventenne, è la coinquilina di Meredith e studia all'Università per stranieri di Perugia. Sollecito, 24 anni, pugliese, laureando in ingegneria, ha da un paio di settimane una storia con Amanda. Lumumba, 38 anni, originario dell'ex Zaire, dal 1988 vive in Umbria dove gestisce un pub in cui lavorava Amanda. Tutti e tre si dichiarano estranei all'omicidio.
9 NOV 2007 - Il gip convalida i fermi.
11 NOV 2007 - Un docente svizzero racconta alla polizia di essere stato nel pub di Lumumba la sera del delitto e conferma l'alibi del musicista congolese.
15 NOV 2007 - Tracce del dna di Meredith e Amanda vengono rilevate su un coltello da cucina sequestrato a casa di Sollecito.
19 NOV 2007 - Rudy Hermann Guede, 21 anni, originario della Costa D'Avorio è indicato come il quarto uomo. La polizia spicca un mandato di cattura internazionale.
20 NOV 2007 - Patrick Lumumba viene rimesso in libertà dopo che dalle indagini è emersa la sua estraneità al delitto. Nello stesso giorno viene arrestato Rudy Guede, ivoriano di 21 anni, bloccato dalla polizia a Magonza, in Germania, dopo che gli investigatori palmari hanno individuato l'impronta di una sua mano insanguinata su un cuscino accanto al cadavere della studentessa inglese e a diverse tracce di Dna in casa. Si dichiara innocente.
6 DIC 2007 - Rudy è trasferito in Italia.
27 MAG 2008 - Il gip Claudia Matteini, su richiesta della procura, archivia il procedimento penale nei confronti di Patrick Lumumba.
19 GIU 2008 - I pm Giuliano Mignini e Manuela Comodi depositano l'atto di chiusura indagini. Per loro Meredith Kercher fu uccisa da Knox, Sollecito e Guede per futili motivi.
16 SET 2008 - Inizia l'udienza preliminare davanti al gup di Perugia, Paolo Micheli. Il gup dispone di procedere con rito abbreviato per Guede e lo condanna a 30 anni di carcere per omicidio volontario e violenza sessuale e rinvia a giudizio Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Il gup Paolo Micheli accoglie la richiesta di rito abbreviato per Guede.
18 OTT 2008 - I pm chiedono al gup di Perugia la condanna all'ergastolo per Guede e il rinvio a giudizio per Sollecito e la Knox.
28 OTT 2008 - Il gup condanna a 30 anni di reclusione Rudy e dispone il processo per Amanda e Raffaele.
16 GEN 2009 - Inizia davanti alla Corte d'assise di Perugia il processo a Raffaele e Amanda.
18 NOV 2009 - Si apre davanti alla Corte d'Assise d'Appello di Perugia il processo d'appello nei confronti di Rudy Guede.
5 DIC 2009 - La corte d'Assise di Perugia, escludendo le aggravanti, condanna Knox a 26 anni di carcere e Sollecito a 25. La Corte di assise, dopo oltre 14 ore di camera di consiglio, condanna Amanda e Raffaele a 26 e 25 anni di carcere.
22 DIC 2009 - La Corte d'assise d'appello di Perugia riduce da 30 anni a 16 anni la pena inflitta a Guede. Concesse le attenuanti generiche.
4 MAR 2010 - Depositate le motivazioni della sentenza di primo grado nei confronti di Amanda e Raffaele. Hanno ucciso spinti da un movente "erotico, sessuale, violento".
22 MAR 2010 - Depositate anche le motivazioni sulla condanna a Guede: "concorse pienamente", scrivono i giudici della Corte d'Assise d'Appello, all'omicidio Kercher.
15 APR 2010 - I difensori di Sollecito depositato l'appello contro la sentenza di primo grado. Anche la procura di Perugia presenta appello contro la concessione delle attenuanti generiche agli imputati e l'esclusione dell'aggravante dei futili motivi.
17 APR 2010 - La difesa di Amanda Knox deposita l'appello e chiede nuove perizie.
7 MAG 2010 - la difesa di Guede presenta ricorso in Cassazione contro la sentenza della corte d'assise di appello di Perugia. - 24 NOV 2010: Si apre il processo davanti alla Corte d'assise d'appello di Perugia a Raffaele Sollecito ed Amanda Knox.
24 NOV 2010 - Si apre il processo d'appello per Amanda e Raffaele.
16 DIC 2010 - La Cassazione conferma i sedici anni di reclusione inflitti a Guede dalla Corte di appello, che diventa così definitiva..
18 DIC 2010 - La Corte d'assise d'appello di Perugia riapre il dibattimento del processo a Raffaele Sollecito e ad Amanda Knox e dispone una nuova perizia super partes per le tracce genetiche sul coltello e sul gancetto del reggiseno indossato dalla vittima quando venne uccisa. La Corte d'assise d'Appello di Perugia accoglie la richiesta delle difese per una nuova perizia del Dna presente sul coltello considerato l'arma del delitto e sul gancetto del reggiseno di Mez. Gli accertamenti tecnici, diranno sei mesi dopo i consulenti della Corte, "non sono attendibili".
29 GIU 2011 - I periti della Corte di assise di appello bocciano il lavoro svolto dalla polizia scientifica, definendo gli accertamenti tecnici "non attendibili", per il Dna attribuito a Meredith sul coltello e a Raffaele Sollecito sul gancetto di reggiseno. Gli esperti, inoltre, non escludono che i risultati delle analisi possano derivare da contaminazione.
24 SET 2011 - La Procura generale chiede la condanna all'ergastolo per Amanda Knox e Raffaele Sollecito.
3 OTT 2011 - La Corte di assise di appello di Perugia assolve Amanda e Raffaele dall'accusa di aver ucciso Meredith Kercher. Amanda scoppia in un pianto liberatorio e subito dopo l'assoluzione torna in America con la sua famiglia.
15 DIC 2011 - La Corte di assise di appello di Perugia deposita le motivazioni della sentenza di assoluzione e parlano di mancanza di prova di colpevolezza. Secondo i giudici di secondo grado i "mattoni" su cui si è basata la condanna "sono venuti meno": c'e' una "insussistenza materiale" degli indizi, dalle tracce di Dna all'arma del delitto.
14 FEB 2012 - La procura generale e la famiglia di Meredith Kercher depositano il ricorso in Cassazione contro la sentenza di assoluzione.
19 LUG 2012 - La Cassazione fissa per il 25 marzo 2013 l'udienza per l'esame del ricorso.
25 MAR 2013 - Il processo ad Amanda e Raffaele approda in Cassazione. Il pg chiede l'annullamento della sentenza di assoluzione, definita un "raro concentrato di violazioni di legge e di illogicità".
26 MAR 2013 - La Cassazione annulla con rinvio la sentenza di assoluzione di secondo grado emessa dalla Corte di Assise di appello di Perugia. Conferma la condanna per calunnia ad Amanda. La Suprema corte annulla la sentenza di secondo grado e rinvia alla Corte d'appello di Firenze per un nuovo processo.
30 SET 2013 - Il processo bis riprende davanti alla Corte di Assise di appello di Firenze e riparte da capo, con difese e accuse che rappresentano, a partire dalla scena del delitto, le proprie arringhe. Sollecito, la Knox, così come i familiari di Meredith non sono presenti in aula.
26 NOV. 2013 -Il sostituto procuratore generale di Firenze, Alessandro Crini, chiede 30 anni di carcere per Amanda Knox e 26 anni per Raffaele Sollecito.
30 Gen 2014 - La Corte d'Assise di Appello di Firenze condanna a 28 anni e mezzo di carcere Amanda Knox e a 25 anni Raffaele Sollecito per il quale viene anche disposto il divieto di espatrio. Ad Amanda viene riconosciuta l'aggravante per il reato di calunnia nei confronti di Lumumba.
31 GEN 2014 - la polizia ritira il passaporto a Raffaele Sollecito in un albergo tra Udine e Tarvisio.
29 APR 2014 - la Corte d'Appello di Firenze deposita le motivazioni della sentenza.
16 GIU 2014 - i difensori di Amanda Knox e Raffaele Sollecito depositano i ricorsi in Cassazione contro la condanna nei confronti dei loro assistiti da parte della Corte d'assise d'appello di Firenze. Le difese chiedono l'annullamento della sentenza di appello bis e, quindi, l'assoluzione per i due ex fidanzatini.
30 SET 2014 - La Corte di Cassazione fissa per il 25 marzo 2015 il nuovo processo per Sollecito e la Knox.
25 MAR 2015 - Si apre il processo in Cassazione davanti alla quinta sezione penale. Il pg Mario Pinelli, nella sua requisitoria, chiede di confermare le condanne di Amanda e Raffaele per l'omicidio di Meredith.
27 MARZO 2015 . La Sentenza definitiva di assoluzione per gli imputati Amanda Knox e Raffaele Sollecito per e l'omicidio di Meredith. La Quinta sezione penale della corte di Cassazione presieduta da Gennaro Marasca ha assolto Amanda Knox e Raffaele Sollecito, imputati nel processo per l'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher.
IL MONDO RIDE DELLA GIUSTIZIA ITALIANA.
Mario Giordano su “Libero Quotidiano”: "Raffaele e Amanda assolti. Ora tutto il mondo ride della giustizia italiana". Condannati. Assolti. Rinviati. Condannati. Assolti. Ora provate voi a spiegare al mondo il gioco dell’oca della giustizia italiana, il Monopoli di vicolo stretto e largo assassino, dove le leggi sono come i dadi, basta un tiro sbagliato per ricominciare dal via o trovarti in prigione. Probabilità e imprevisti: provate voi a spiegare al mondo che ci guarda con un po’ di stupore che in questo disgraziato Paese se una ragazza viene uccisa in casa, nella civile e internazionale Perugia, ci vogliono otto anni e cinque processi per non sapere chi è stato. O, meglio, per condannare un ivoriano per concorso in omicidio senza però che abbia concorso con nessuno. Questo, infatti, è stato deciso dopo otto anni di indagini e perizie e requisitorie e arringhe e sentenze, costate chissà quanto: Rudy Guedé ha aiutato alcune persone a uccidere Meredith Kercher però queste persone non esistono. In quella maledetta stanza dunque era con altri, ma nello stesso tempo era da solo. Nemmeno Houdini riuscirebbe a tanto…Provate voi a spiegare agli stranieri che qui c’è una Corte suprema che prima respinge un’assoluzione, poi respinge una condanna e la trasforma in quell’assoluzione che aveva da poco respinto. Provate a spiegare che si tratta sempre della stessa Cassazione. Provate, in generale, a spiegare la logica surreale che esce dalle nostre aule di giustizia, dove si ricostruiscono delitti giocando a «indovina quale» e si scambiano moventi come figurine Panini. E quando a un certo punto ci si accorge che l’accusa (delitto a scopo sessuale) non regge alla prova del tribunale si cambiano le carte in tavola: macché sesso, hanno ucciso per una lite sulla pulizia domestica. Come se uno stupro e lo Spic&Span fossero all’incirca la stessa roba, «spogliati nuda» vale quanto «perché non hai passato Mastrolindo?», «ti strappo le mutande» è uguale a «passami il Dixan». Provate voi a spiegare al mondo che in Italia indagini e accuse si fanno così, un po’ alla carlona, e poi, se sei fortunato, dalla ruota del superenalotto ti escono l’avvocato bravo e il giudice giusto. Altrimenti resti in galera il resto della tua vita. Sia chiaro: Amanda e Raffaele sono innocenti, non ci sono dubbi, la sentenza è definitiva, e non si può che essere felici per il fatto che il loro incubo è finito, e possono tornare a vivere. Hanno pagato fin troppo per una cosa che non hanno commesso. Ma, di fronte alla legittima esultanza e di fronte alle altrettanto legittime richieste di risarcimento dei due ragazzi, non si può non pensare che mentre Amanda e Raffaele vincevano la loro partita, la nostra giustizia perdeva la sua. E la perdeva clamorosamente, collezionando una figuraccia planetaria, una specie di Caporetto togata, roba che al confronto Waterloo fu una marcia trionfale. Per carità: ci sono anche molte persone che escono bene da questo percorso a ostacoli nell’assurdo: per esempio Raffaele Sollecito che ha affrontato il processo a testa alta e con serietà, o gli avvocati difensori (non quello del povero Guede, purtroppo), e anche alcuni giudici, come quelli del primo appello, a Perugia, che avevano capito già tutto, o come quelli della Cassazione di ieri, che hanno dimostrato di essere scrupolosi fino all’ultimo, e pure coraggiosi. Ma nel complesso, ecco, in questa vicenda il nostro sistema giudiziario ha dimostrato di essere quello che è: un malato grave. E stavolta purtroppo (o per fortuna) l’ha dimostrato in mondovisione. Il caso, infatti, ha avuto una dimensione inevitabilmente internazionale: l’altro giorno l’americana Amanda stava sulla copertina di People negli Stati Uniti, l’attesa della sentenza sull’inglese Kercher era la terza notizia nei telegiornali britannici. Dall’estero, in questi giorni, avevano gli occhi puntati sul nostro tribunale. E dunque ora provate voi a spiegare all’estero come funziona la giustizia italiana. Provate a convincerli, con tutto ciò, che si possono ancora fidare, se devono venire a investire, o anche solo a fare un viaggio, se vogliono portare qui la famiglia o la loro impresa, possono star tranquilli. Provate voi a rassicurarli, persuadeteli che se nasce un contenzioso potranno far valere rapidamente i loro diritti, che non ci vorranno otto anni, cinque processi e magari un po’ di galera per aver riconosciute le proprie ragioni. Anzi, già che ci siete, consigliate loro subito lo studio dell’avvocato Bongiorno. E se non possono permetterselo, beh, dite loro di stare attenti a varcare i nostri confini…E poi provate a spiegare tutti gli assurdi paradossi che abbiamo visto in questo processo, il ginepraio delle sentenze, l’inchiesta fallata. Soprattutto provate a spiegare che una ragazza inglese venuta in Italia per studiare non avrà mai giustizia, provate a dire ai suoi genitori che ad ucciderla è stata uno che stava insieme ad altri ma che nello stesso tempo era anche da solo. Provate a spiegare che Rudy Guede ha agito in concorso, sì, ma in concorso con il nulla, con l’aria, con la sua ombra o forse con qualche fantasma, può darsi, in fondo era la notte di Halloween. Provate a spiegarglielo a loro, al resto del mondo, perché noi in fondo ci siamo abituati, purtroppo ormai ogni mostruosità giudiziaria ci passa sopra quasi fosse normale. Compreso il fatto che non ci siano mai responsabili. Provate voi a spiegarlo agli stranieri, dunque, che per questo infernale guazzabuglio diventato vergogna internazionale, alla fine non pagherà nessuno. A parte, ovviamente, i soliti contribuenti italiani.
Amanda e Raffaele assolti: figuraccia dei magistrati in mondovisione, scrive Andrea Asole su Quelsi. Dopo otto anni, la Corte di Cassazione ha chiuso definitivamente la vicenda dell’omicidio di Meredith Kercher, la studentessa inglese assassinata in circostanze ancora non troppo chiare a Perugia il 1 novembre 2007: Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati definitivamente assolti. Unico condannato, Rudi Guede. Tralasciando le singole opinioni sulla veridicità dell’innocenza, che fioccano da ogni parte quando casi di cronaca giudiziaria come questo finiscono sotto i riflettori, il percorso che ha portato entrambi all’assoluzione risulta alquanto contorto. Riassumendo: Amanda e Raffaele sono stati condannati in primo grado e assolti in Appello. Si va in Cassazione e qui i giudici della Suprema Corte decidono che il processo d’appello va rifatto: si tiene dunque un nuovo appello e stavolta Amanda e Raffaele vengono condannati, 28 anni e mezzo per la ragazza di Seattle, 25 anni per il pugliese. Finita qui? Chiaramente no, c’è bisogno della Cassazione affinché la sentenza passi in giudicato. E ieri si è assistito a un nuovo totale ribaltamento delle sentenze precedenti: stavolta, Amanda e Raffaele sono assolti per non aver commesso il fatto, e non viene neppure disposto un nuovo processo d’appello. La vicenda viene finalmente chiusa dopo un totale di cinque sentenze, ognuna di esse discordante da quella che l’ha preceduta. Difficile non notare la grossa anomalia: come è possibile che ci siano state cinque sentenze che si contraddicano l’una con l’altra? Saranno emersi nuovi elementi in fase dibattimentale, si potrebbe pensare, e invece no: tutte e cinque le sentenze sono state emesse con lo stesso materiale probatorio. Come è possibile che gli stessi elementi conducano a esiti così discordanti tra loro? Ma soprattutto, poniamo il caso che il materiale in mano all’accusa fosse insufficiente: come è possibile che con un una insufficienza di prove si sia arrivati a due condanne, una più pesante dell’altra? Poniamo anche il caso contrario, cioè che quelle prove fossero sufficientemente corpose: se quello che avevano in mano gli inquirenti era più che sufficiente, come è stato possibile arrivare a tre assoluzioni tra cui quella definitiva? Evidentemente le presunte tracce dei due sul reggiseno di Meredith non erano la prova certa e definitiva che invece avevano spacciato per tale. Altra cosa di cui tenere conto: Rudi Guede, l’unico condannato per la vicenda, non avrebbe mai fatto il nome di Amanda e Raffaele né durante gli interrogatori né durante il processo. La magistratura italiana, nel suo complesso, ha insomma rimediato una sonora figuraccia, e, quel che è peggio stavolta davanti al mondo. Non dimentichiamo infatti la grande eco mediatica anche negli Stati Uniti, paese di Amanda, e in Gran Bretagna, paese di Meredith. Davanti al mondo, la magistratura ha fatto una figuraccia perché ha dimostrato tutte le falle della giustizia penale italiana e anche l’assurdità delle sue contraddizioni. Un figuraccia anche di fronte agli italiani, poiché ora, forti di sentenze contraddittorie, saranno in molti a ipotizzare una qualche influenza statunitense nel verdetto di assoluzione: se ciò però fosse vero, non si spiegherebbe perché la Cassazione dispose un secondo processo d’appello dopo la prima assoluzione. Forse questo è l’unico lato positivo di tutta la vicenda: i giudici della Cassazione, dopo quattro processi diversi, hanno avuto il coraggio di smentire tutto e di ristabilire la certezza del diritto a costo di coprire di ridicolo i loro colleghi e tutta la magistratura. E non era facile. Alla fine il classico “giudice a Berlino” insomma si è trovato, ma di una giustizia che opera in questo modo mettendo le persone in un calvario per poi assolverle c’è da aver paura davvero. Nota finale: Amanda ha già fatto sapere che presenterà una richiesta di risarcimento danni all’Italia: indovinate chi dovrà pagare, se glielo concedessero? No, sbagliato, non pagheranno i magistrati.
Meredith, giustizia italiana sbertucciata in tutto il mondo. Il verdetto della Cassazione è la Waterloo della giustizia italiana: mostrata al mondo l'assurdità del nostro sistema. Adesso chi paga? Si chiede Sergio Rame su “Il Giornale”. Cinque gradi di giudizio, otto anni di indagini e processi, due ragazzi (Amanda e Raffaele) condannati e poi assolti: la Corte di Cassazione mette la parola fine a un processo, quello per l'omicidio di Meredith Kercher, che ha avuto un'eco impressionante in tutto il mondo. Per Raffaele Sollecito è "la fine di un incubo", Amanda Konx invece si sente finalmente "sollevata e grata" di poter riavere la propria vita indietro. Ma chi paga per tutto questo? La sentenza di ieri, che ha dimostrato al mondo l'assurdità del nostro sistema, è la Waterloo della giustizia italiana. Adesso sarà chiaro al mondo intero. Una pillola amara da ingoiare e Una sentenza che ha causato uno shock alla famiglia sono i primi commenti della stampa inglese all'assoluzione in via definitiva di Amanda e Raffaele per l’omicidio della studentessa inglese. Per il Guardian, "la famiglia Kercher dopo il verdetto deve ora ingoiare una pillola molto amara", soprattutto perché, "dopo sette anni di giravolte, cambi di direzione e nuovi processi, questa non è affatto la conclusione che la famiglia Kercher avrebbe mai potuto desiderare". In particolare, per il quotidiano progressista, il problema principale è che sono state assolte "le uniche persone che siano mai state seriamente sospettate, per la famiglia una pillola assai amara da ingoiare". Anche il resto della stampa britannica sottolinea gli elementi più sorprendenti, almeno per l’opinione pubblica del Regno Unito. Il Daily Mail, tabloid molto seguito in Gran Bretagna, scrive chiaramente della "lunga saga" dei processi e di "uno choc da assoluzione per la madre di Meredith". Per il Daily Telegraph la coincidenza della sentenza con l’uscita del film Il volto dell’angelo del regista Michael Winterbottom, pellicola chiaramente ispirata ai fatti di Perugia e nelle sale americane proprio da venerdì 27 marzo, è indicativa di "un’ossessione per Amanda Knox" alimentata dal circo mediatico che "insulta Meredith Kercher". Obiettivo ora, scrive la giornalista Barbie Latza Nadeau, autrice del libro che ha ispirato il film, è riportare Meredith, "la vera vittima", al centro dell’attenzione. A giocare un ruolo decisivo nell’assoluzione sono stati probabilmente i forti dubbi sulla validità dei test del dna eseguiti durante le indagini. A criticare le conclusioni degli investigatori italiani, ricorda la rivista New Scientist, sono stati diversi esperti su entrambe le sponde dell’Atlantico. In particolare ad incriminare i due erano tracce di dna trovate su un coltello nell’appartamento di Sollecito, sul cui manico c’era materiale genetico di Amanda mentre sulla lama c’era quello di Meredith. Su un ferretto del reggiseno della ragazza uccisa c’era invece il Dna di Sollecito. Nel 2009 una lettera di un’associazione di esperti statunitensi aveva scritto una lettera aperta alla corte mettendo in dubbio le conclusioni dei test. "Un esame chimico per la presenza di sangue sul coltello ha dato esito negativo, ma non è stato preso in considerazione - era scritto nella lettera dell’associazione The Innocence project - inoltre il Dna trovato era sufficiente solo per un profilo parziale". Se non c’erano tracce di sangue sul coltello, hanno sempre sottolineato quindi anche gli altri scienziati "innocentisti" che si sono interessati alla vicenda, come Bruce Budowles, genetista dell'Università del North Texas e consulente dell’Fbi, non era possibile che quella fosse l’arma del delitto. Gli esperti americani hanno anche paventato la possibilità che i campioni fossero contaminati, soprattutto perché l’analisi è stata condotta insieme a quella di altri reperti. Ad essere criticata è stata anche la lettura data dei risultati. Negli Stati Uniti infatti l’elettroforesi viene considerata valida se dà picchi sopra 150, mentre quelli sotto 50 vengono scartati, e quelli presi in esame per l’accusa erano tutti sotto questo livello. "Anche il reggiseno - hanno scritto gli esperti statunitensi - conteneva diversi Dna di cui uno compatibile con Sollecito, ma i giovani si frequentavano, quindi potrebbe essere finito lì in diversi modi innocenti".
"Uno scandaloso flop giudiziario". La stampa estera demolisce i pm. Il più duro è il britannico "Independent" che si chiede "quanto ingiustamente può agire il sistema di un Paese illuminato". L'americano "Huff Post": "Saga legale" tutta italiana, scrive Erica Orsini su “Il Giornale”. Spiazzati, sconcertati, indignati. È un giudizio unanime e durissimo quello dei media britannici e americani sul verdetto finale del caso Kercher. Per ragioni diametralmente opposte - i primi solidali verso il dolore di una famiglia colpita da un lutto gravissimo che rimarrà per sempre senza una spiegazione, i secondi strenui difensori di una connazionale la cui innocenza è stata finalmente riconosciuta - entrambi hanno riservato ieri commenti lapidari e titoli al vetriolo alla sistema giudiziario italiano. Per il quotidiano progressista britannico The Guardian il verdetto «è una pillola molta amara da ingoiare per i Kercher» perché «dopo sette anni di giravolte, cambi di direzione e nuovi processi questa non era affatto la conclusione che la famiglia avrebbe mai potuto desiderare». Ma soprattutto per il fatto che «sono state assolte le uniche due persone sospettate in questo caso». Anche i tabloid nazionali concordano su questo punto, enfatizzando la disperazione e lo stato di shock in cui è precipitata la famiglia della povera Meredith dopo una sentenza che ha messo per sempre la parola fine alla loro più che legittima richiesta di verità. Il Daily Mail , tra i quotidiani più seguiti in Gran Bretagna, accenna più volte in modo sprezzante alla «lunga saga di processi» mentre i titoli sul sito online spiegano che la sentenza della Cassazione italiana lascia «molti punti insoluti sulla vicenda» e si chiedono «allora chi ha ucciso Meredith?». È questo l'interrogativo che più pesa per la stampa d'oltre Manica mentre ciò che più sconcerta è la giustizia italiana che per l'ennesima volta esce a pezzi da questo vicenda. I giornali ripercorrono sette anni di clamorosi corsi e ricorsi, ricordano le ipotesi e le accuse, gli errori e le mancanze, l'insopportabile altalena emotiva a cui la famiglia di una vittima che non è mai stata al centro dell'attenzione, è stata sottoposta. Per il Daily Telegraph , quotidiano conservatore dai toni solitamente moderati, la coincidenza temporale dell'annullamento della Cassazione e l'uscita del film americano Il volto dell'angelo chiaramente ispirato ai fatti di Perugia, dimostrano «l'ossessione per Amanda Knox» alimentata da un circo mediatico che «insulta e offende la famiglia Kercher». Ma le parole più dure sulla nostra giustizia emergono sicuramente dal commento privo di retorica del corrispondente dell' Independent Peter Popham che scrive: «Knox e Sollecito assolti: è stato un terribile errore giudiziario. Il verdetto della Corte suprema mette la parola fine sull'intera vicenda. Ero stanco di sentir parlare del caso di Amanda Knox, di leggerne, di pensarci, di sentire cose su una storia su cui ormai nulla di più doveva essere detto. Eccetto una constatazione e cioè quanto ingiustamente può agire il sistema giudiziario di un meraviglioso, illuminato Paese. Quanto profondamente si può impantanare nelle sue stesse contraddizioni un sistema legale quando delle azioni decisive vengono prese in fretta, prima di avere delle prove cruciali». E mentre la madre di Amanda Knox minaccia una richiesta di risarcimento danni nei confronti della giustizia italiana per i quattro anni che la figlia ha trascorso in carcere, il sito dell' Huffington Post cerca di spiegare ai suoi lettori l'incomprensibile storia di una «complessa saga legale» tutta italiana.
Processo Meredith, i colpevoli sono i pm. Otto anni sono troppi per rimediare a una brutta figura, e la figuraccia rimane, soprattutto perché si poteva evitare, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Dal punto di vista degli imputati assolti, meglio tardi che mai. Ma otto anni sono troppi per rimediare a una brutta figura, e la figuraccia rimane, soprattutto perché si poteva evitare. L'elenco degli errori è lungo e non riguarda solo gli investigatori e i giudici di vario grado, ma anche il sistema giustizia italiano, contorto e profondamente confuso, oltre che di una lentezza mediorientale. Tutto è bene ciò che finisce bene, si fa per dire. Raffaele Sollecito e Amanda Knox, tra una doccia fredda e una doccia calda, sono stati scagionati, come era giusto che fosse, per un motivo tanto semplice da essere disarmante: non si condannano persone per un delitto che non si è certi abbiano commesso. Punto e amen. La strada che si è percorsa per giungere a questa conclusione è piena di accidenti, di crudeltà e di assurdità. E meno male che la Cassazione ha dimostrato un'assennatezza di cui francamente non la accreditavamo. Altrimenti oggi saremmo di fronte al sospetto che un paio di innocenti fossero in carcere, ciò che spesso è accaduto e accadrà ancora finché non cambieranno i metodi processuali. Metodi che suscitano perplessità in altri Paesi dove pure si sbaglia, ma si cerca almeno di evitarlo. Come? Per esempio consentendo di ricorrere in appello soltanto a chi in primo grado sia stato condannato, al quale bisogna assicurare la possibilità di un «esame di riparazione». Appello, viceversa, non previsto per la pubblica accusa in base al principio che se essa non è stata capace di provare la colpevolezza dell'accusato, significa che le prove e gli indizi raccolti non sono abbastanza forti. Da noi, invece, il secondo grado è aperto sia all'accusa sia alla difesa col risultato che tra magistrati (Pm) e avvocati scoppia una vera e propria lite, con tanto di ripicche che assomigliano molto a vendette. Ma che giustizia è quella che sfocia regolarmente in risse, quasi che il soccombente rischiasse di perdere la faccia? Talvolta gli effetti prodotti da simile braccio di ferro sono surreali. È stato il caso di Amanda e Raffaele, i quali si sono fatti quattro anni - una vita, alla loro età - di carcerazione preventiva e altri quattro di libertà provvisoria (in attesa di verdetto definitivo), immagino trascorsi nell'angoscia e senza alcuna opportunità di costruirsi un'esistenza normale. Tutto questo è inammissibile. All'estero incomprensibile. Ovvio che la stampa straniera consideri l'Italia fuori dal mondo civile, altro che culla del diritto. Da vari anni è stata abolita una vecchia formula salvifica: la cosiddetta «insufficienza di prove», grazie alla quale in «dubio pro reo». Cancellata questa scappatoia, oggi i tribunali sono di fronte a un bivio: o colpevole o innocente. Tertium non datur . Cosicché in camera di consiglio, i magistrati si scannano per far valere le loro opinioni. E sottolineo opinioni. Se teniamo conto che i giudici popolari - non togati - non capiscono un cavolo di diritto, immaginate quale scempio del diritto stesso avverrà nelle sacre stanze della giustizia. A complicare le cose negli ultimi tempi è intervenuta la scienza, di cui abbiamo il massimo rispetto, che però, essendo maneggiata da uomini, può trasformarsi in una fonte di topiche macroscopiche. Non raramente le perizie ordinate dal tribunale e quelle di parte sono contrastanti, si smentiscono l'una con l'altra. Quali sono esatte e quali no? Se anche gli esperti non sono d'accordo tra loro, ci si può fidare delle congetture e dei teoremi dei pubblici ministeri, che affrontano i processi con lo stesso spirito combattivo dei pugili, pronti a tutto pur di vincere il match dal cui esito dipendono fama e carriera? In alcune circostanze si ha l'impressione che le toghe siano sadiche e godano allorché le loro decisioni servano a sbattere in prigione gli imputati a ogni costo, anche quello di prendere un granchio. In questo senso la vicenda di Amanda e Raffaele è paradigmatica. Rudy Guede, condannato a 16 anni per concorso in omicidio di Meredith Kercher, non ha mai fatto i nomi dei due quali suoi complici. Le cui tracce nel teatro dell'omicidio non sono state rilevate, se si esclude una briciola di Dna sul gancetto del reggiseno recuperato sotto il letto della vittima 40 giorni dopo il delitto. Altri elementi non c'erano per incastrare lei e lui. Solo elucubrazioni. Qualche labile indizio. Occhio, però. L'opinione pubblica era divisa in due parti: innocentisti e colpevolisti. Più numerosi quelli che pretendevano di aver capito, sulla scorta di sensazioni, che i due innamorati meritassero la cella. Le pressioni ambientali, le aspettative della gente influenzano tutti, in particolare i giudici popolari. E così si comprende la piega negativa che hanno assunto le sentenze di primo grado e dell'Appello bis. Ma, al netto delle supposizioni, delle malevolenze e delle stupidaggini a cui la stessa Amanda ha dato corpo nel corso dell'inchiesta, nulla giustificava una pena detentiva da infliggersi ai due giovani. L'avvocato Giulia Bongiorno e il suo collega Carlo Della Vedova sono stati impeccabili. Mi domando se il merito dell'assoluzione sia tutto loro o abbia giocato favorevolmente la notevole sensibilità della Corte. Difficile rispondere. Comprensibile il dolore dei genitori della vittima, i quali a distanza di otto anni dal fatto di sangue non sanno ancora se ad averlo commesso sia solo Rudy o se questi si sia avvalso della complicità di qualcuno. Eventualmente, chi? Ma è anche vero che o gli assassini vengono identificati con sicurezza, e castigati, oppure, nella vaghezza delle ipotesi, è criminale selezionare due individui e punirli per ciò che forse hanno compiuto o forse no. Comunque la nostra giustizia - e non mi riferisco alla Cassazione - ha confermato di essere malata. Soprattutto di protagonismo.
L'ITALIA DEI PROCESSI INFINITI DAI COSTI INCALCOLABILI.
L'Italia dei processi infiniti dai costi incalcolabili. Se il processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito è stato l'oggetto di un ping pong giudiziario quasi interminabile, la colpa è dei meccanismi stessi del processo penale, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Non è stato il primo, e sicuramente non sarà l'ultimo: se il processo ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito è stato l'oggetto di un ping pong giudiziario quasi interminabile, la colpa è dei meccanismi stessi del processo penale. Il codice non prevede un tie break, un momento in cui si debba per forza tirare le fila, facendo pendere la bilancia da una parte o dall'altra. L'andirivieni tra Corti d'appello e Cassazione può andare avanti in teoria all'infinito: specie per i processi per omicidio, che non possono essere inghiottiti dalla prescrizione. Certo, i costi per la collettività sono incalcolabili, e pesanti anche i costi materiali e psicologici per vittime e imputati. Ma di una norma che metta fine al rimpallo non si è mai parlato. E così non è affatto da escludere che lo stesso esito del processo per il delitto di Perugia possa averlo a breve quello per il delitto di Garlasco, visto che la Cassazione dopo avere annullato la assoluzione di Alberto Stasi potrebbe tranquillamente annullare anche la sua condanna. Come capostipite dei processi interminabili viene indicato abitualmente quello per la strage di piazza Fontana: che però ebbe un percorso accidentato ma tutto sommato lineare, anche se molti anni dopo la stessa Cassazione scrisse che la Cassazione si era sbagliata ad assolvere i neofascisti Freda e Ventura. Ben più surreale fu invece l'andirivieni di un altro processo degli anni di piombo, quello per l'omicidio del commissario Calabresi: Adriano Sofri venne condannato in primo e secondo grado, la Cassazione annullò la condanna, nel nuovo processo d'appello Sofri venne assolto ma la Cassazione annullò anche questa sentenza, e ci vollero un terzo processo d'appello e una nuova condanna, stavolta confermata dalla Cassazione, per chiudere la vicenda. In tempi più recenti, quasi impossibile da spiegare ai non addetti ai lavori è stato l'iter del processo per il rapimento dell'imam terrorista Abu Omar: gli 007 del Sismi vennero assolti in primo e secondo grado, la Cassazione annullò le assoluzioni, a quel punto l'appello bis si concluse con la condanna di tutti gli imputati, ma la Cassazione annullò (fortunatamente senza rinvio, altrimenti si sarebbe andati avanti chissà quanto) anche la sentenza di condanna. Per i reati non puniti dall'ergastolo, a dare un taglio alla faccenda arriva prima o poi la prescrizione, ma l'effetto è ugualmente straniante: la Procura di Milano non ha mai rinunciato a considerare Antonio Fazio, ex governatore della Banca d'Italia, colpevole del caso Unipol, ma si è dovuta arrendere - a causa del tempo trascorso - di fronte alla sentenza di assoluzione dell'appello-bis, dopo che la Cassazione aveva annullato le prime assoluzioni. E nel vuoto rischia di svanire anche il triste caso di Matilda Borin, la bambina uccisa nel 2005 vicino Vercelli. Prima fu assolto l'amante della madre, poi anche la madre; altri non potevano essere stati; la Cassazione ha riaperto il caso, ma - trattandosi di omicidio preterintenzionale - la prescrizione potrebbe arrivare prima di qualunque condanna.
FORCAIOLI: ORA TACETE!
Delitto di Perugia. L’assoluzione di Amanda e Raffaele una lezione per la piazza forcaiola, scrive “Tempi”. L’istruttivo racconto dei giudici che per primi sancirono la non colpevolezza degli imputati: siamo stati «denigrati per anni», ma in mancanza di prove certe «si può tollerare l’assoluzione del colpevole, non la condanna dell’innocente». In margine al clamore suscitato dall’assoluzione definitiva di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher, avvenuto a Perugia nella notte di Halloween ben 8 anni fa (otto), oltre alla durata e alle alterne sorti della vicenda processuale (condanna in primo grado, assoluzione in appello, annullamento in Cassazione, nuova condanna in un nuovo appello e infine assoluzione «per non aver commesso il fatto»), devono far riflettere tutti, magistrati e giornalisti in primis, le parole consegnate alla stampa in questi giorni da due dei giudici della Corte di assise di appello del capoluogo umbro, quella che nell’ottobre 2011 per prima riconobbe i due ex fidanzati non colpevoli per l’uccisione della povera ragazza. Si tratta dell’allora presidente di quella Corte, Claudio Pratillo Hellmann, oggi in pensione, e del giudice Massimo Zanetti. In una intervista pubblicata da Repubblica, parlando del verdetto «senza rinvio» stabilito dai giudici della Cassazione venerdì 27 marzo, Hellmann esprime «soddisfazione per il riconoscimento implicito della validità della sentenza emessa a suo tempo dalla corte che presiedevo», ma spiega che per lui questa decisione rappresenta «soprattutto la fine di una grande sofferenza». Per tre anni e mezzo, infatti, il magistrato ha «sofferto per la sorte di due ragazzi che ritenevo innocenti e che rischiavano di scontare una pena durissima», a causa di un processo divenuto assurdamente “mediatico”, le cui conseguenze Hellmann ha finito per pagare di tasca propria. «La nostra decisione – racconta il magistrato a Repubblica – fu accolta con reazioni di sdegno». Hellmann parla di vero e proprio «linciaggio diffamatorio». «Ricordo ancora i fischi e le urla di una claque che si era radunata la sera del verdetto davanti al tribunale. Dal giorno dopo mi sentii circondato da un’ostilità crescente. Nei bar di Perugia dicevano che mi ero venduto agli americani, che avevo ceduto alla pressioni della Cia». Evidentemente la folla aveva già deciso, a prescindere dai fatti (non) accertati in tribunale, che Amanda e Raffaelle dovevano essere riconosciuti colpevoli. Ma non solo la folla. Helmann rimase particolarmente colpito dalla «reazione dei colleghi magistrati». «Quasi tutti» i colleghi, ricorda il giudice, «mi tolsero il saluto. In particolare quelli che a diverso titolo erano stati coinvolti nella vicenda». Secondo lui nel tribunale di Perugia «tutti i giudici, a partire dal gup per arrivare a quelli dei diversi Riesami, pur criticando l’inchiesta, avevano avallato l’accusa». E la sentenza di assoluzione fu a tal punto indigesta per il suo ambiente che la presidenza del Tribunale, per la quale Hellmann dice di essere stato «in predicato», fu invece «assegnata ad un altro collega sicuramente degnissimo ma qualche sospetto che si trattasse di una ritorsione mi venne. Sei mesi dopo la sentenza quindi decisi di andare in pensione». Dice: «Praticamente fui costretto». Nel colloquio con il quotidiano Hellmann spiega che l’indagine sul conto di Amanda e Raffaele, evidentemente non agevolata dall’eccessiva attenzione mediatica di cui è stata oggetto, «era del tutto lacunosa e secondo me sbagliata sin dall’inizio». Lo dimostrerebbero l’arresto ingiusto di Patrick Lumumba («che poi risultò del tutto estraneo alla vicenda diventando parte lesa») e le perizie ordinate dalla stessa Corte di appello che «non erano state fatte durante il processo di primo grado», e grazie alle quali, soprattutto, «la contaminazione delle prove scientifiche apparve in tutta evidenza». Secondo il giudice era «palese» che «il coltello sequestrato a casa di Raffaele Sollecito non era l’arma del delitto», tanto che perfino nel secondo processo di appello, che pure terminò con una condanna per i due imputati (inspiegabile, secondo Hellmann), la perizia scientifica disposta dalla Corte di Firenze «aveva avuto sostanzialmente la stessa conclusione della nostra». Anche Zanetti, intervistato domenica 29 marzo dal Tg1, ricorda di essere stato «denigrato ingiustamente per anni» per l’assoluzione della Knox e di Sollecito. Il fatto è che per la Corte di assise di Perugia «le prove raccolte non erano sufficienti per una condanna», racconta Zanetti, e però la legge impone al giudice di raggiungere nel processo una certezza superiore a ogni ragionevole dubbio prima di giudicare qualcuno colpevole di un reato. Non fu facile sottoscrivere un verdetto evidentemente contrario a quello stabilito a priori dal circuito mediatico-giudiziario, ma «il destino degli altri che in quel momento è in mano nostra – spiega Zanetti – non è barattabile con la comodità di una carriera spianata». Sono le conseguenze “scomode” dello Stato di diritto: in mancanza di prove certe, meglio mandare in libertà un criminale che rischiare di colpire qualcuno ingiustamente. La verità processuale non equivale alla verità dei fatti, e non a caso l’ordinamento italiano, sintetizza Zanetti, «può tollerare l’assoluzione del colpevole, ma non la condanna dell’innocente». Nemmeno se a deciderla è stata la piazza.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
Sentenza da annullare. Diritti Mediaset, irregolare il collegio di giudici che ha condannato Berlusconi. Tra le toghe c'era anche un giudice civile, presenza non ammessa nei procedimenti penali dall'articolo 67 dell'ordinamento giudiziario. Due avvocati romani presentano ricorso alla Cassazione, scrive “Libero Quotidiano”. Salta fuori una nuova magagna nella vicenda giudiziaria che ha portato alla condanna di Silvio Berlusconi per frode fiscale sui diritti Mediaset. Ed è una magagna non da poco. Il collegio di toghe della sezione che ha giudicato il Cavaliere era irregolare e la sentenza di condanna nei suoi confronti è da annullare. Per questo, l'avvocato Daniele Morelli e il dottor Fabrizio Benedettini dello studio legale romano Morelli & Partners hanno presentato ricorso contro la sentenza al procuratore generale della Cassazione. Il punto è che una delle toghe che componevano il collegio non era un giudice penale, bensì civile: Giuseppe De Marzio. Mentre l’articolo 67 dell’ordinamento giudiziario recita che "la Corte di cassazione in ciascuna sezione giudica con il numero invariabile di cinque votanti. Giudica a sezioni unite con il numero invariabile di nove votanti. Il collegio a sezioni unite in materia civile è composto da magistrati appartenenti alle sezioni civili; in materia penale è composto da magistrati appartenenti alle sezioni penali”. Non sono previste sezioni “promiscue”. "Abbiamo presentato questo ricorso, perché è stato violato non solo l’articolo 67 dell’ordinamento giudiziario, ma anche l’articolo 25 della Costituzione sulla precostituzione del giudice naturale e il principio di uguaglianza davanti alla legge previsto dall’articolo 3” spiega Benedettini, che tiene a precisare di essere "un semplice cittadino elettore" e di non avere "alcun mandato da parte di Silvio Berlusconi". Una copia del ricorso è stata consegnata oggi anche alla Giunta per le elezioni del Senato, che domani deciderà sul nodo della decadenza del Cavaliere. "Giunta che a questo punto, secondo noi, dovrebbe sospendere il suo giudizio in attesa che a pronunciarsi sia il procuratore generale o la Corte costituzionale, alla quale pure abbiamo inviato gli atti".
BERLUSCONI E LA GUERRA PERSECUTORIA DEI MAGISTRATI.
Se lo merita, in fondo. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non ha fatto un cazzo….nemmeno per difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello che succede capita a lui, figuriamoci alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani. Detto questo, non ci si può esimere dal far diventare storia la cronaca contemporanea.
Duplice assalto della Cassazione: prima la condanna a 4 anni di carcere per il caso Mediaset, oggi la decisione sul Lodo Mondadori, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Dopo l'assalto alla libertà personale, il durissimo colpo alle aziende. Nel giro di un paio di mesi la Cassazione sferra due sentenze violentissime per far fuori Silvio Berlusconi, politicamente ed economicamente. Dopo aver confermato la condanna a quattro anni di reclusione al processo Mediaset, la Suprema Corte ha respinto il ricorso della Fininvest contro la Cir per il risarcimento del Lodo Mondadori. Risarcimento che, dopo il ritocco al ribasso di circa 23 milioni di euro sulla cifra liquidata dai giudici, farà arrivare nelle casse del gruppo di Carlo De Benedetti oltre 541 milioni di euro. Un colpo dietro l'altro, sferrati a distanza tanto ravvicinata da dare un'idea dello scopo ultimo. Mentre la Giunta per le elezioni briga e cavilla per far decadere il Cavaliere da senatore e cacciarlo dal parlamento, va in scena la più grande rapina del secolo: il saccheggio delle sue finanze a vantaggio della tessera numero uno del Partito democratico, nonché editore di riferimento delle procure. Gli ermellini mettono la parola fine alla "guerra di Segrate" dando ragione a De Benedetti e confermando la condanna inflitta alla Fininvest dai giudici milanesi a versare un maxi risarcimento alla Cir. Come si legge nella sentenza sul Lodo, La valutazione complessiva riconduce alla Fininvest la responsabilità del corruzione di cui è "imputabile anche Berlusconi", anche se soltanto dal punto di vista civilistico dal momento che era stato prosciolto per prescrizione dalla vicenda penale. Condividendo quasi totalmente le conclusioni dei giudici del merito, la Suprema Corte ha infatti accolto solo uno dei motivi di ricorso presentati dalla Fininvest. Da qui la lieve, irrisoria riduzione di 46,5 miliardi delle vecchie lire, ossia 23 milioni (euro più, euro meno) che saranno detratti dal risarcimento stabilito dalla Corte d’Appello di Milano. Sebbene sia ben lontano dai 749,9 milioni di euro decisi in primo grado dal giudice Raimondo Mesiano, il bottino che De Benedetti si porta a casa è davvero senza precedenti. "Dopo più di vent'anni viene definitivamente acclarata la gravità dello scippo che la Cir subì dalla corruzione di un giudice", ha commentato l'Ingegnere sapendo bene di aver fatto un affare migliore di quello che avrebbe messo a segno se nel 1991 gli fosse stato assegnato il controllo della Mondadori. In realtà i "giochi" erano già stati chiusi lo scorso 28 giugno 2013 quando, al quarto piano del Palazzaccio di piazza Cavour, il collegio chiudeva il dispositivo della sentenza in un cassetto per tirarlo fuori al momento più opportuno. "Sarà resa nota con la sua motivazione tra un mese, giorno più giorno meno", spiegava Liana Milella su Repubblica facendo sapere che la busta sigillata era stata subito consegnata ai massimi vertici della Cassazione, il presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani. Dalle schermaglie giudiziarie di fine giugno, però, sono passati più di due mesi e mezzo. Tanto da far sorgere il dubbio sulla coincidenza temporale. È forse un caso che l'ultima puntata dello scontro epocale tra Berlusconi e De Benedetti sia arrivata nelle ore in cui il Cavaliere sta mettendo a punto il videomessaggio da cui dipendono le sorti del governo Letta? Forse il partito delle toghe fa il tifo per una nuova maggioranza, che non contempli il Pdl, o per le elezioni anticipate?
La Cassazione ha respinto il ricorso della Fininvest contro la Cir per il risarcimento del Lodo Mondadori, che rimane confermato con un ritocco al ribasso, un taglio di circa 23 milioni di euro sulla cifra liquidata dai giudici e pari a 564,2 milioni di euro (in una nota successiva la holding De Benedetti ha precisato che la cifra ammonterebbe in realtà a 494 milioni di euro. Lo scrive la Cassazione. Ecco il dispositivo del verdetto di 185 pagine depositato dalla Cassazione sul Lodo Mondadori: «La Corte accoglie il tredicesimo motivo di ricorso (della Fininvest, ndr) e rigetta i restanti motivi. In conseguenza dell'accoglimento del tredicesimo motivo, cassa senza rinvio il capo della sentenza di appello contenente la liquidazione del danno in via equitativa, come stimata nella misura del 15% del danno patrimoniale già liquidato. Conferma nel resto l'impugnata sentenza».
I giudici respingono il ricorso dell'azienda e riducono il maxi risarcimento alla Cir di circa 70 milioni sui 564 già pagati. Le accuse al Cav: "Colpevole di corruzione, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Uno «sconto» di quasi 24 milioni (ma con gli interessi e le rivalutazioni dovrebbero arrivare a 70) sui 564 complessivi del megarisarcimento per il Lodo Mondadori che Fininvest ha già versato a Cir nel luglio 2011: con questo unico ritocco la Cassazione respinge il ricorso del gruppo di Silvio Berlusconi e dei figli contro la holding della famiglia De Benedetti. E assesta un'altra batosta, finanziariamente pesantissima ma altrettanto nel merito, al leader Pdl e alle sue aziende. Un verdetto «monumentale» di quasi 200 pagine mette la pietra tombale sulla partita aperta 25 anni fa sulla cosiddetta «guerra di Segrate», lo scontro tra il Cavaliere e l'Ingegnere per il controllo di uno dei maggiori gruppi editoriali italiani. Una sentenza «corrotta», affermano gli ermellini, provocò un «danno ingiusto» alla Cir e la sua valutazione in secondo grado è corretta complessivamente. Per la difesa di Fininvest si tratta di un risarcimento monstre, non giustificato in alcun modo. Ma la Terza sezione civile, nel dispositivo depositato ieri della sentenza d'appello di giugno, conferma il verdetto d'Appello spiegando che può essere accolto, in parte, solo uno dei motivi del ricorso. È il tredicesimo, che denuncia l'eccessiva valutazione delle azioni del gruppo Espresso. Quindi, va detratta dalla somma dovuta alla Cir l'equivalente di 46.552.025.071 lire. Per il resto, «nessuna ipotesi di illegittima overcompensation o di ingiustificato arricchimento», per i supremi giudici. Il risarcimento già liquidato è «corretto e conforme ai possibili criteri di valutazione equitativa del danno». La Fininvest dovrà anche pagare metà delle spese di giudizio della Cir, cioè oltre 900 mila. La Cassazione condivide l'impostazione della Corte d'appello di Milano, secondo la quale la corruzione da parte della Fininvest del giudice romano Vittorio Metta ha privato la Cir di De Benedetti «non tanto della chance di una sentenza favorevole (come sostenuto in primo grado dal giudice Raimondo Mesiano, ndr) ma, senz'altro, della sentenza favorevole». In conclusione, scrivono i Supremi giudici, «una Corte incorrotta avrebbe, più probabilmente che non, emesso una sentenza di rigetto dell'impugnazione del lodo». Parole dure come pietre, che arrivano a prevedere il futuro, come sarebbe finita la vicenda, affidandosi al calcolo delle probabilità. La sentenza riguarda il risarcimento, ma la Cassazione vuole precisare tutti i ruoli dei protagonisti. E ricorda che il processo penale del Lodo Mondadori si è ormai «irrevocabilmente» concluso per il Cavaliere, che è stato prosciolto per prescrizione, ma in sede civile è stata accertata «la responsabilità del fatto corruttivo imputabile anche al dottor Berlusconi». I giudici calcano la mano, affermano che lui è stato «indiscusso beneficiario delle trame illecite materialmente attuate da altri sodali». A partire da Cesare Previti, che «doveva ritenersi organicamente inserito nella struttura aziendale» della Fininvest e «non occasionalmente investito di incarichi legali conseguenti alle incombenze demandategli». E tra queste, c'erano «attività di corruzione di alcuni magistrati, attuate allo scopo di conseguire illeciti vantaggi per l'azienda nella quale Previti svolgeva i suoi compiti e la sua attività» . La sentenza della Cassazione taglia circa un sesto del patrimonio netto di Fininvest, che in base ai dati del bilancio 2012 dispone di 2.437 milioni di euro, a fronte di 282 milioni di debiti. Finora, la holding della famiglia Berlusconi ha ritenuto la grossa somma già trasferita a Cir «un trasferimento di liquidità non definitivo», quasi un deposito cauzionale, temporaneo. Ma non è così, adesso è chiaro. La cifra del maxi risarcimento di Fininvest alla Cir dopo lo sconto e il calcolo di interessi e rivalutazioni.
LA CRONISTORIA
10 maggio 1988
Carlo De Benedetti acquisisce il controllo della Mondadori grazie a un’alleanza con la famiglia Formenton, erede di Arnoldo e azionista della casa editrice.
25 gennaio 1990
Cristina Mondadori e Luca Formenton rovesciano il fronte e si alleano con Silvio Berlusconi, che diventa presidente.
20 giugno 1990
Gli arbitri Pietro Rescigno (Cir), Natalino Irti (Mondadori) e Carlo Maria Pratis (procuratore in Cassazione) sanciscono che l’accordo tra De Benedetti e i Formenton è ancora valido.
25 giugno 1990
Berlusconi è costretto a lasciare la presidenza, ma prepara il ricorso in corte d’appello sostenendo che il lodo è nullo.
24 gennaio 1991
La Corte d’appello di Roma dà ragione a Berlusconi. I tre giudici sono Arnaldo Valente, Vittorio Metta e Giovanni Paolini.
29 aprile 1991
De Benedetti e Berlusconi concordano extragiudizialmente la spartizione e dichiarano di «non avere più nulla da pretendere reciprocamente». Repubblica, L’Espresso e i giornali locali vanno alla Cir, mentre Panorama, Epoca e il resto della Mondadori restano alla Fininvest. Finisce la «guerra di Segrate».
Febbraio 1995
La procura di Milano avvia una serie d’inchieste su alcuni giudici romani, ipotizzando casi di corruzione giudiziaria. Tra di loro c’è anche Metta, per la sentenza del gennaio 1991.
19 giugno 2000
Il giudice milanese Rosario Lupo proscioglie Berlusconi, Metta e altri indagati dall’accusa di corruzione sulla sentenza del gennaio 1991.
25 giugno 2001
La corte d’appello rovescia il proscioglimento: Metta e altri indagati sono rinviati a giudizio. Per Berlusconi si ipotizza la corruzione semplice, ma l’eventuale reato è prescritto.
29 aprile 2003
Metta viene condannato a 13 anni di reclusione.
Aprile 2004
La Cir notifica un atto di citazione alla Fininvest: chiede circa 500 milioni di euro oltre interessi perché sostiene che la sentenza del 24 gennaio 1991 è frutto di corruzione e l’ha indebolita nelle trattative che hanno portato alla transazione dell’aprile 1991.
23 maggio 2005
Sentenza contro Metta ribaltata in appello: assolto il giudice. Nelle motivazioni si legge: «La sentenza del gennaio 1991 non presentava aspetti di abnormità o di arbitrarietà tali da essere sintomo di un sottostante patto corruttivo».
4 maggio 2006
La cassazione annulla l’assoluzione e ordina un nuovo processo per il Lodo Mondadori.
23 febbraio 2007
Nel nuovo processo d’appello Metta viene condannato a 2 anni e 8 mesi per corruzione giudiziaria.
13 luglio 2007
Metta viene condannato definitivamente in Cassazione a 2 anni e 9 mesi di reclusione.
3 ottobre 2009
Il giudice milanese Raimondo Mesiano condanna la Fininvest a risarcire la Cir con quasi 750 milioni di euro.
9 luglio 2011
La Corte d’appello condanna la Fininvest a risarcire la Cir con 564 milioni di euro: in borsa, quel giorno, la quota Fininvest nella Mondadori vale meno della metà di quella cifra.
17 settembre 2013
La Corte di cassazione condanna definitivamente la Fininvest: il risarcimento scende di 23 milioni circa rispetto alla cifra stabilita in secondo grado, a un nuovo totale di 541 milioni. Oggi la capitalizzazione di borsa della società è di 262 milioni.
«Questa sentenza non è giustizia, è un altro schiaffo alla giustizia. Rappresenta la conferma di un accanimento sempre più evidente. E la sua gravità lascia sgomenti. Da vent'anni certa magistratura assieme al gruppo editoriale di Carlo De Benedetti tentano di eliminare dalla scena politica mio padre aggredendolo su tutti i fronti. E ora la magistratura ci impone definitivamente di finanziare proprio il gruppo De Benedetti, per un importo spropositato, infinitamente superiore al valore della partecipazione Fininvest nella Mondadori. Tutto ciò è compatibile con la democrazia? Davvero si può far finta di niente di fronte ad una simile anomalia? Sappiamo meglio di tanti altri che le sentenze si devono rispettare, lo abbiamo dimostrato nei fatti eseguendo alla lettera quanto stabilito dai primi due gradi di giudizio. Però le sentenze ingiuste non solo si possono, si devono criticare. E anche questo, al di là delle motivazioni che leggeremo molto attentamente, è un verdetto in palese contrasto con la realtà dei fatti ma anche con le regole del diritto. Siamo dalla parte della ragione, lo abbiamo provato senza ombra di dubbio ma ci vediamo ugualmente condannati ad un autentico esproprio, che senza alcun fondamento colpisce così duramente uno dei più importanti gruppi imprenditoriali del Paese. Il ridimensionamento molto modesto della somma determinata dalla Cassazione non intacca in alcun modo l'eccezionale peso dell'ingiustizia di cui siamo vittime. Al contrario, suona come una vera e propria beffa. La Cir non ha subito alcun danno, lo sa per primo Carlo De Benedetti che continua a straparlare di «scippo», neppure un euro da parte nostra era ed è dovuto. Oggi la Cassazione aveva la possibilità di cancellare quello che non esito a definire uno scandalo giuridico. Ha deciso di non farlo. È una nuova, bruciante sconfitta per la giustizia, una ferita profonda per quanti si ostinano ancora a credere nei valori della giustizia e della verità. Ma noi non ci arrendiamo. Percorreremo tutte le strade che riguardo alla sentenza l'ordinamento consente perché questi valori possano tornare a essere rispettati.» Marina Berlusconi, presidente Fininvest e Mondadori.
Marina Berlusconi: "Ecco perché l'estremismo giudiziario può uccidere il Paese". In un'intervista esclusiva di Giorgio Mulè su Panorama il presidente di Mondadori e Fininvest ripercorre il calvario giudiziario di suo padre Silvio Berlusconi e definisce il processo Ruby "una farsa".
«E' un attacco concentrico. Un assedio. L’obiettivo è chiaro: colpire una volta di più mio padre, come politico, come imprenditore, ma anche nella sua dignità di uomo. E, una volta di più, per colpire Silvio Berlusconi non si fermano neppure davanti al rischio di fare danni gravi, molto gravi, all’intero Paese».
Marina Berlusconi lascia perdere i preamboli. La presidente di Fininvest e di Mondadori (editore, tra l’altro, di Panorama) va dritta al cuore del suo ragionamento e afferma: «Sbaglia chi pensa che oggi la questione riguardi solo le vicende giudiziarie di mio padre. No, siamo davanti a un’emergenza che riguarda tutti. E in questa situazione non è possibile tacere».
Pensa che le iniziative della magistratura possano far saltare gli accordi di governo?
«Mio padre è stato molto chiaro. Non ce la faranno. Non la si darà vinta ai signori della guerra, a un sistema che da vent’anni paralizza l’Italia e su questa paralisi ha costruito le sue carriere e le sue fortune.»
Anche perché il Paese ha uno straordinario bisogno di stabilità…
«Credo che nessuna persona di buon senso possa tifare per l’instabilità. A maggior ragione chi di mestiere fa l’imprenditore. E, mi lasci aggiungere, se oggi, tra mille difficoltà, la politica tenta di superare le barricate e di garantire governabilità e stabilità, un grandissimo merito va proprio a mio padre. Con un atteggiamento molto responsabile e leale, più di tanti altri si è speso e si sta spendendo.»
Beh, al di là delle dichiarazioni di principio, l’esecutivo deve ancora dimostrare quel che sa fare.
«Il governo Letta di fatto non ha ancora cominciato a operare, verrà giudicato dai risultati. Quel che è certo è che abbiamo bisogno di scelte, e scelte veloci. Anche se sappiamo bene che non tutto dipende da noi, i vincoli dell’Europa sono pesanti. È in Europa che il governo si giocherà una partita decisiva.»
Ma la Germania non sembra disposta a fare sconti.
«Che questo rigorismo a senso unico non ci porti da nessuna parte è ormai evidente. Guardiamo a quel che sta succedendo nel resto del mondo. Di ricette alternative ce ne sono. Pensi per esempio agli Stati Uniti, e, su un piano ben più radicale, anche al Giappone. È presto per dare un giudizio, bisognerà vedere come andrà nel medio-lungo termine, ma qualche primo risultato positivo mi pare ci sia. E in ogni caso, anche se di formule magiche non ne esistono, resta il fatto che economie molto importanti hanno rifiutato la linea del rigore a ogni costo.»
In Italia, però, ai problemi creati da una crisi economica drammatica, si aggiungono i guasti provocati dalla «guerra dei vent’anni».
«È mostruoso il solo pensare che il destino del Paese passi per le mani di un gruppo di magistrati spalleggiati da qualche redazione e qualche arruffapopoli.»
Così però si mette in discussione un principio cardine della nostra Costituzione: l’indipendenza della magistratura.
«L’indipendenza della magistratura è un principio costituzionale sacrosanto. Il problema è che è stato usato per cancellare altri principi, altrettanto fondamentali. Si è fatto scempio dei più elementari diritti della persona: il diritto al rispetto della propria dignità, a una privacy, a non vedersi linciati sui media prima ancora non dico di una sentenza, ma di un processo… Hanno imposto un meccanismo in cui sono saltati tutti i confini tra personali opinioni di tipo morale, valutazioni di tipo politico, verdetti giudiziari. È un meccanismo diabolico, dove rischi di trovarti in totale balia dei personalismi e dei protagonismi di certe toghe. Che a volte sembrano proprio aver dimenticato quel che dovrebbero essere: servitori della giustizia, e non «giustizieri» in nome di qualche fanatismo ideologico.»
Ma molti sostengono che suo padre insista sui problemi della giustizia soprattutto o solo perché lo riguardano da vicino.
«So bene che oggi, con la crisi, le preoccupazioni delle famiglie sono altre. Ma dobbiamo tutti renderci conto che l’incertezza del diritto può distruggere un Paese. In una comunità in cui le regole vengono sovvertite, in cui basta anche un solo avviso di garanzia per cambiare il corso della politica o devastare la vita di un’azienda, in una comunità dalla quale le imprese che potrebbero venire a investire e creare benessere si tengono alla larga spaventate da questa giungla, ecco, non credo si possa far finta di niente dicendo: tanto a me non capiterà mai. A parte il fatto che può capitare a tutti – e ogni giorno leggiamo storie di condannati poi assolti, di assolti poi condannati, di innocenti finiti in galera, di criminali in libertà – a parte questo, quello della giustizia malata non è un concetto astratto, è un problema che tocca direttamente la vita quotidiana di ciascuno di noi.»
Con queste critiche, ha già messo nel conto che sarà accusata anche lei di delegittimare la magistratura?
«Credo che il problema, per la magistratura, non siano le critiche. Intanto, qui nessuno si sogna di criticare la magistratura, qui stiamo parlando di un gruppo non ampio di magistrati, a cominciare da una pattuglia di procure, che sono, quelle sì per davvero, procure ad personam. E poi, è proprio il comportamento di certe toghe a minare la credibilità della magistratura.»
Facciamo un esempio concreto?
«Gliene faccio uno fra i tanti. Pensi a quel pm che ha costruito la sua carriera politica sulle inchieste, naturalmente a vuoto, contro mio padre, che si è candidato alle elezioni senza nemmeno avvertire il pudore di dimettersi, che adesso, bocciato sonoramente dal voto, contesta la sua nuova sede di lavoro e continua a comportarsi, tra una dichiarazione infuocata e un tweet, come se non fosse a tutti gli effetti un magistrato ma un leader politico. Le pare normale tutto questo? Non meriterebbe un po’ più di attenzione da parte di chi, in Italia ma anche all’estero, è sempre pronto ad alzare il ditino scandalizzato?»
Facciamo pure nome e cognome del pm di cui sta parlando: Antonio Ingroia.
«Certo, facciamolo. Questo signore si permette di descrivere la Fininvest come una società che ha riciclato capitali mafiosi. E lo fa ignorando, o addirittura manipolando, i risultati dei processi nati dalle sue stesse inchieste, i quali non hanno potuto che dimostrare l'assoluta inconsistenza di ipotesi simili. Firmerò personalmente l'atto di citazione dei suoi confronti che gli avvocati stanno ultimando. Il tentativo di riproporre la storia del nostro gruppo come quella di un gruppo di malfattori è degno dei peggiori regimi sempre rispettato nel modo più totale le regole. Siamo una delle realtà imprenditoriali più significative del Paese. Negli ultimi vent'anni abbiamo pagato più di 9 miliardi di euro di tasse, ne abbiamo investiti 27, diamo lavoro a quasi 20 mila persone. E' troppo chiedere un po' di rispetto, che poi non è altro che il semplice rispetto della verità?»
D’accordo, ma resta il fatto che non tutti credono alla tesi della persecuzione giudiziaria.
«Quando è entrato in politica mio padre era, da tempo, uno dei più importanti imprenditori italiani. Era arrivato all’età di 58 anni senza ricevere nemmeno un avviso di garanzia. Poi, non si sa perché, anzi, mi correggo, si sa benissimo perché, nel giro di pochi mesi si è scatenato un attacco che dura ininterrotto da vent’anni e che peraltro non ha portato neppure a una condanna definitiva, nonostante 33 procedimenti. Qualcuno in buona fede può ancora mettere in dubbio che si tratti di persecuzione giudiziaria? Tutti dobbiamo essere uguali di fronte alla legge, e ci mancherebbe, ma anche la legge deve essere uguale per tutti.»
E infatti per questo si celebrano i processi. Come quello sulla vicenda Ruby, per il quale il pm Ilda Boccassini ha appena chiesto una condanna a 6 anni di reclusione oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici.
«Il processo Ruby? Quello non è un processo, è una farsa che non doveva neppure cominciare. Le presunte vittime negano, o addirittura accusano l’accusa. I testimoni dei presunti misfatti non ne sanno nulla. Di prove neppure l’ombra. Hanno lavorato per anni, hanno accumulato lo sproposito di 150 mila intercettazioni, hanno raccolto quintali di verbali, hanno vivisezionato in modo morboso e vergognoso la vita di mio padre e tutto per realizzare non un processo, ma una fiction agghiacciante a uso e consumo di media molto compiacenti. Certi interrogatori, nella loro sconcertante insistenza, facevano pensare ben più al voyeurismo che alla ricerca della verità. Finirà tutto in una bolla di sapone, come sempre, ma all’associazione della gogna non importa nulla di come andrà a finire, interessa solo la condanna mediatica. E, quando il teorema dell’accusa crollerà, quale interdizione dovrebbe essere chiesta per coloro che hanno costruito questa montatura infernale?»
Intanto ci sono anche le condanne già pronunciate, come quella in primo grado per la vicenda dell’intercettazione su Unipol-Bnl…
«Sì, l’uomo più intercettato d’Italia, il presidente del Consiglio che ha visto pubblicati sui giornali migliaia di suoi privati e ininfluenti colloqui, condannato senza la minima prova per una intercettazione di cui neppure conosceva l’esistenza. La prima e unica condanna del genere in Italia.»
E' arrivata anche la condanna in appello per la frode fiscale sui diritti Mediaset tra il 2002 e il 2003.
«Accusano mio padre per l’evasione di 3 milioni di euro, a fronte dei 567 milioni di imposte che il nostro gruppo ha pagato in quello stesso biennio. E ignorano due sentenze definitive sugli stessi fatti contestati, che lo scagionano completamente, chiarendo che non si occupa più, da tempo, delle aziende. Guardi comunque che all’elenco che lei sta facendo deve aggiungere una voce, pesantissima: gli attacchi al patrimonio. Quell’esproprio da 564 milioni per la vicenda del Lodo Mondadori, ma non solo.»
Che altro?
«Per chi avesse ancora dei dubbi sull’aria che tira nel palazzo di giustizia di Milano, c’è anche la sentenza sul divorzio di mio padre. La cifra fissata mi pare dimostri come ogni senso della realtà e della misura sia stato ampiamente superato.»
Che cosa si attende dai processi in corso e dalle sentenze che arriveranno?
«Posso dirle quel che dovrei attendermi. Una cosa soltanto. Giustizia.»
Dopo la condanna per i diritti Mediaset, però, anche a sinistra si è sottolineato che non si può essere considerati colpevoli prima del giudizio di Cassazione.
«Troppo facile pensare di salvarsi la coscienza recitando l’inciso rituale: «Premesso che nessuno può essere considerato colpevole fino a sentenza definitiva…», e poi però avanti, dagli addosso al Caimano. Di questo garantismo ipocrita non si sa che farsene.»
Insomma, a suo giudizio questo Paese resta prigioniero dell’antiberlusconismo, della caccia al nemico che ha sostituito il confronto politico?
«Uno dei più gravi errori della sinistra, che mi pare stia pagando a carissimo prezzo, è stato proprio quello di aver rinunciato a fare politica, ad affrontare l’avversario sul terreno della politica. Ha preferito illudersi che altri provvedessero, in altri modi. Si è consegnata così alle procure e a determinati gruppi editoriali, ma ha fatto anche di più: ha perfino inseguito un ex comico che straparla di golpe, sperando che fosse lui a toglierle finalmente le castagne dal fuoco. Sia chiaro, una sinistra così non è un bene per nessuno: prima torna la politica, la buona politica, e meglio è. Almeno questo, per quel che vale, è il mio auspicio.»
…lasciando in questo modo ai grillini la bandiera dell’antiberlusconismo?
«Facciamo chiarezza: per Grillo e i suoi guardiani della rivoluzione parlerei piuttosto di nullismo, con l’antiberlusconismo e con il loro essere antitutto tentano di mascherare il nulla assoluto di programmi e proposte. La politica avrà mille colpe, ma non può finire nelle mani di un gruppo di dilettanti, o replicanti, allo sbaraglio. Certo, se poi i replicanti dimostrano di avere un’anima e un portafoglio, e se l’antipolitica va subito a impantanarsi nelle questioni più «terrene» della politica, rimborsi spese e diarie, beh, chissà che non ci siano presto sorprese.»
Ha appena accusato «determinati gruppi editoriali». Va da sé che in cima alla sua lista c’è L’Espresso-Repubblica. O no?
«Va da sé, anche se devo dire che negli ultimi tempi, sul fronte dello sciacallaggio editoriale, la Repubblica ha ceduto abbondanti quote di veleno al Fatto. Ci sono media che sono diventati vere e proprie incubatrici permanenti di faziosità, di menzogne e di odio. E ci sono giornalisti che ormai conoscono solo l’insulto. Ma io mi auguro che chi ha scelto come mestiere quello di spargere odio conservi ancora quel minimo di obiettività per capire che questo gioco perverso rischia di sfuggirgli di mano, di diventare molto pericoloso. In Italia si respira un’aria brutta, un’aria incattivita, non solo nella rete, che è ormai lo sfogatoio della peggiore intolleranza, ma anche nelle piazze, lo abbiamo visto pochi giorni fa a Brescia.»
L’Espresso-Repubblica ha un editore, l’ingegner Carlo De Benedetti, che ha appena definito suo padre un impresario, e non un imprenditore.
«Certo che vedere De Benedetti dare lezioni di imprenditorialità… Proprio lui, con le macerie industriali che si è lasciato alle spalle… Altro che imprenditore: lui era e resta un inarrivabile prenditore, il numero uno di quel capitalismo cannibale che pensa solo ad arricchirsi senza dare nulla in cambio, anzi, costruisce le sue fortune sulle sfortune altrui. E non mi sorprende che ormai sembri un disco rotto, è innamorato della patrimoniale: la sua unica ricetta per risolvere i guai del Paese è quella di impoverire gli altri.»
L’Ingegnere adesso sponsorizza Matteo Renzi alla leadership del Pd…
«Sono questioni che non mi riguardano. Anche se, visto com’è andata a finire per tutti quelli che finora hanno ricevuto l’investitura dell’Ingegnere, fossi in Renzi magari qualche scongiuro lo farei.»
Fin qui abbiamo parlato molto di antiberlusconismo. Ma mi dia una definizione del berlusconismo.
«Posso parlare di quello che conosco, e benissimo: le idee, i valori, i tanti risultati che Silvio Berlusconi ha raggiunto. Ma quello che sento chiamare berlusconismo non so davvero cosa sia, semplicemente perché non esiste. Se l’è inventato l’antiberlusconismo per darsi una identità e legittimare se stesso. È la tattica vecchia come il mondo di creare, quando non hai idee migliori, un nemico che non c’è.»
Da tutto quel che ha detto in questa intervista, si potrebbe obiettare che lei parla per amor filiale...
«L’amore filiale c’è, chi ha intenzione di negarlo? C’è ed è enorme, perché mio padre se lo merita, per il padre che è sempre stato e per il padre che è. Sono orgogliosa di essere figlia di Silvio Berlusconi, non c’è mai stato nulla che potesse anche lontanamente incrinare questo orgoglio. Ed è un orgoglio che diventa ancora più grande per il coraggio con cui mio padre si difende e si batte per quello in cui crede. A volte mi chiedo come faccia a sopportare tutto quello che gli hanno inflitto e gli stanno infliggendo.»
E quale risposta si dà?
«È riuscito a rimanere sempre se stesso, a non cambiare mai. Di fronte ai successi ma anche agli attacchi più ignobili. Ha saputo affrontarli senza mai perdere il suo entusiasmo per la vita, il suo ottimismo, e senza mai lasciarsi andare alla rabbia, al rancore, al desiderio di vendetta. Reazioni che, con quel che gli hanno fatto, personalmente ritengo sarebbero state più che legittime.»
Che cosa l’ha ferita di più in questi anni?
«Tutto quel che mio padre ha dovuto subire e sta subendo mi fa star male. Ma c’è una cosa, una in particolare. Ed è la distanza siderale fra quello che lui è e il modo in cui in tanti cercano di dipingerlo. Sui giornali, in tv, in certe aule di tribunale. Quando vedo personaggi che di Silvio Berlusconi hanno fatto la loro spesso redditizia ossessione descrivere mio padre in un modo che non c’entra nulla, ma proprio nulla con quello che lui è veramente, sento tutto il peso di un’ingiustizia inaccettabile, ma provo anche una gran rabbia, la rabbia dell’impotenza, perché da questa ingiustizia è molto difficile difendersi. Ecco, questa è la cosa più insopportabile.»
E questo, mi scusi, non è parlare per amor filiale?
«No. Io parlo per amore di verità.»
scrive “Il Corriere della Sera”. Con il rapimento del ragioniere di Berlusconi, Giuseppe Spinelli, torna alla ribalta, dopo oltre venti anni di battaglie legali e svariati processi con sentenze civili e penali, la «Guerra di Segrate». Così è passato alla storia lo scontro, avvenuto tra la fine degli anni 80 e l'inizio degli anni 90, tra Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti per assicurarsi il controllo di uno dei maggiori gruppi editoriali italiani, soprattutto dopo che nel 1989 la Mondadori aveva conquistato l'Editoriale L'Espresso e ottenuto il controllo di Repubblica, di una catena di quotidiani locali (Finegil) e di importanti settimanali come Panorama, L'Espresso, Epoca. Una vicenda che alla fine, salvo un ricorso pendente in Cassazione da parte di Fininvest, ha visto la holding di Silvio Berlusconi condannata in appello a pagare 560 milioni di euro a titolo di risarcimento alla Cir di De Benedetti. Il lodo arbitrale sul contratto Cir-Formenton è del 20 giugno 1990. La decisione fu presa dai tre arbitri, Carlo Maria Pratis (Presidente), Natalino Irti (per Cir) e Pietro Rescigno (per la famiglia Formenton), incaricati di dirimere la controversia tra De Benedetti e Formenton per la vendita alla Cir della quota di controllo della Mondadori, promessa a De Benedetti e poi venduta all'asse Silvio Berlusconi/Leonardo Mondadori. Il lodo è favorevole alla Cir e dà a De Benedetti il controllo del 50,3% del capitale ordinario Mondadori e del 79% delle privilegiate. Berlusconi perde la presidenza, da poco conquistata, che va al commercialista Giacinto Spizzico, uno dei quattro consiglieri espressi dal tribunale, gestore delle azioni contestate. Nel luglio del '90 la famiglia Formenton fa ricorso. Il 24 gennaio 1991, la Corte d'Appello di Roma, presieduta da Arnaldo Valente e composta dai magistrati Vittorio Metta e Giovanni Paolini, dichiara che, dato che una parte dei patti dell' accordo del 1988 tra i Formenton e la Cir era in contrasto con la disciplina delle società per azioni, era da considerarsi nullo l'intero accordo e, pertanto, anche il lodo arbitrale. La Mondadori sembra così tornare nelle mani di Berlusconi. Dopo alterne vicende di carattere legale e dopo l'approvazione della legge Mammì, nell'aprile 1991, con la mediazione di Giuseppe Ciarrapico, Fininvest e Cir-De Benedetti raggiungono un accordo: la transazione in sostanza attribuisce la casa editrice Mondadori, Panorama ed Epoca alla Fininivest di Berlusconi, che riceve anche 365 miliardi di conguaglio, mentre il quotidiano La Repubblica, il settimanale l'Espresso e alcune testate locali a Cir-De Benedetti. Questa transazione è al centro del risarcimento chiesto in sede civile (complessivamente un miliardo) da parte della holding della famiglia De Benedetti alla luce della sentenza penale arrivata nel 2007 con la condanna definitiva per corruzione in atti giudiziari del giudice Vittorio Metta, dell'avvocato di Fininvest Cesare Previti e degli altri due legali Giovanni Acampora e Attilio Pacifico. La Cassazione ha confermato l'ipotesi delle indagini avviate dalla Procura di Milano: la sentenza del 1991 della Corte d'Appello di Roma sfavorevole a De Benedetti fu in realtà comprata corrompendo il giudice estensore Metta con 400 milioni provenienti da Fininvest. Tesi quest'ultima contestata dalla holding della famiglia Berlusconi secondo la quale dei tre giudici che annullarono il Lodo Mondadori nel 1991 due «avevano condiviso» la sentenza di annullamento «in piena autonomia». In primo grado il giudice civile Raimondo Mesiano, il 3 ottobre 2009, ha condannato Fininvest a versare alla controparte quasi 750 milioni di euro per danni patrimoniali «da perdita di chance» per un «giudizio imparziale». Il 9 luglio del 2011 è arrivata la conferma della condanna da parte della Corte d'Appello di Milano che ha però ridotto l'entità del risarcimento a circa 564 milioni. Verdetto che, essendo stato immediatamente esecutivo, ha già portato Fininvest a versare a Cir la cifra. La sentenza ha fatto dire a Silvio Berlusconi: «I 564 milioni che ho dovuto dare» a De Benedetti «non sono la rapina del secolo, ma del millennio». E all'Ingegnere: «La sua allora è stata la corruzione del millennio». La Fininvest non si è ancora arresa e ha prima presentato, il 4 ottobre 2011, un esposto al ministro della Giustizia e al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione sulla sentenza d'appello per «sconcertanti omissioni». Quindi, a novembre ha presentato ricorso in Cassazione articolato in 15 motivi i quali, secondo Fininvest, mettono in luce «le forzature, le sviste, i travisamenti, le illogicità che hanno reso possibile» la pronuncia dei giudici di secondo grado.
La cosiddetta guerra di Segrate per il controllo della Mondadori ha inizio alla fine degli anni Ottanta, quando Fininvest, Cir e un terzo gruppo guidato dalla famiglia di imprenditori Formenton controllavano ciascuno circa un terzo delle azioni della casa editrice milanese.
Nel 1988 i Formenton avevano deciso di cedere la propria parte delle azioni, e De Benedetti li convinse a firmare un pre-contratto secondo il quale entro la fine del 1991 le loro azioni sarebbero passate al gruppo Cir. Nel 1989 i Formenton cambiarono idea e vendettero le proprie azioni a Fininvest; il 25 settembre 1990 Silvio Berlusconi diventò così presidente del gruppo Mondadori. Ma l'improvviso voltafaccia provocò la reazione di De Benedetti e la lunga contesa giudiziaria.
L'ingegnere a capo della Cir, in accordo con i Formenton, decise di ricorrere all'arbitrato di tre giudici (tra i quali uno a testa scelto da De Benedetti e dai Formenton, e uno scelto dalla Corte di Cassazione), per stabilire se la cessione delle azioni a Berlusconi fosse stata legale e che non avesse violato il pre-contratto firmato dalla famiglia Formenton. L'arbitrato diede ragione a De Benedetti, ma i Formenton impugnarono a loro volta il verdetto dell'arbitrato (il cosiddetto lodo, in termini giuridici) davanti alla Corte d'Appello di Roma, che stabilì che a decidere dovesse essere la prima sezione civile del Tribunale (quella che si occupa del diritto cosiddetto della persona, cioè di separazioni, interdizioni, tutele e risarcimenti vari). La prima Sezione civile era presieduta dai giudici Valente, Paolini e Metta, e il 24 gennaio 1991 diede ragione ai Formenton - e quindi indirettamente a Berlusconi, che rimase a capo della Mondadori.
Nel 1995 la procura di Milano scoprì però che ai tempi della sentenza della prima Sezione Civile uno dei giudici che la presiedeva, Vittorio Metta, aveva ricevuto più di un miliardo di lire da Cesare Previti, uno degli avvocati del gruppo Fininvest e amico intimo di Berlusconi, tramite un conto corrente riconducibile alla società offshore All Iberian, controllata da Berlusconi. Metta avrebbe poi usato quei soldi per acquistare un appartamento, e in seguito aveva anche iniziato a collaborare con lo studio di Previti; i giudici di Milano gli chiesero conto della provenienza di quei soldi, e Metta dichiarò che erano parte di un'eredità recentemente acquisita.
Nel 2007 la Corte di Cassazione decise di condannare Previti e altri due avvocati Fininvest a un anno e mezzo di reclusione per corruzione giudiziaria, e Vittorio Metta a due anni e otto mesi; Berlusconi venne prescritto già nel 2001 perché il suo coinvolgimento nella vicenda era stato accertato fino al 1991, a differenza degli altri imputati, per i quali era continuato fino al 1992.
Nel 2004, su richiesta di CIR, si aprì a Milano un contenzioso civile per quantificare il danno economico subìto da CIR per la mancata acquisizione di Mondadori. Il 3 ottobre 2009 il Tribunale stabilì che la Fininvest doveva versare a CIR circa 750 milioni di euro, sulla base della condanna definitiva ricevuta da Previti, Metta e le altre persone coinvolte. Nei processi civili le sentenze sono immediatamente esecutive, non bisogna aspettare l'ultimo grado di giudizio: eventualmente si torna indietro. Nel 2010 però la Corte di Appello di Milano rilevò che Mesiano aveva emesso la sentenza senza aver interpellato nessun consulente tecnico; venne quindi formata una commissione di tre esperti, che ricalcolò al ribasso il risarcimento, sostenendo che ci fu un errore di calcolo. La Corte di Milano approvò la modifica richiesta dalla commissione, e Fininvest fu quindi condannata a pagare 540 milioni di euro, che salirono però a 560 con gli interessi; in tutto 190 milioni in meno rispetto alla sentenza del 2009.
Nel 2011 Fininvest presentò un esposto al Ministero della Giustizia provando a spiegare che il risarcimento non aveva senso, perchè un principio della Corte di Cassazione pena citato dalla Corte di Appello era stato male interpretato, e quindi il verdetto non aveva base giuridica.
Ecco le tappe principali della vicenda giudiziaria con al centro il Lodo Mondadori. Vicenda i cui risvolti civili hanno portato la Cassazione a confermare in sostanza la sentenza con cui i giudici di secondo grado, nel luglio del 2011, hanno condannato Fininvest a risarcire Cir. La Suprema Corte ha però ridotto la cifra del risarcimento del 15%.
4 ottobre 2001 - Davanti alla quarta sezione del Tribunale di Milano comincia il processo per il Lodo Mondadori. Imputati per corruzione in atti giudiziari sono Cesare Previti, Attilio Pacifico, Vittorio Metta e Giovanni Acampora. Qualche mese prima la quinta Corte d'Appello di Milano dichiara la prescrizione del reato per Silvio Berlusconi in quanto, per via della concessioni delle attenuanti generiche, gli è stata contestata la corruzione semplice.
28 gennaio 2002 - Il processo Imi-Sir, cominciato nel 2000, viene riunito con quello sul Lodo Mondadori. 29 aprile 2003 - Il Tribunale condanna a 13 anni Metta, a 11 anni Previti e Pacifico, a 8 anni e 6 mesi Squillante, a 6 anni Felice Rovelli, a 5 anni e 6 mesi Acampora, 4 anni e 6 mesi Primarosa Battistella. Assolto Filippo Verde. 7 gennaio 2005 - Comincia a Milano, davanti alla seconda Corte d'appello, presieduta da Roberto Pallini, il processo di secondo grado per i casi Imi-Sir e Lodo Mondadori.
23 maggio 2005 - I giudici della seconda sezione penale Corte d'appello confermano la condanna di Previti per la sola vicenda Imi-Sir, assolvendolo per quella sul Lodo Mondadori. Previti e Pacifico hanno avuto una riduzione della condanna da 11 a 7 anni. Riduzioni delle pene per gli altri imputati: Metta da 13 a 6 anni, Squillante da 8 anni e 6 mesi a 5 anni, Rovelli da 6 a 3 anni, Primarosa Battistella da 4 anni e 6 mesi a 2 anni. Per la vicenda Lodo Mondadori l'avvocato Giovanni Acampora, Metta, Pacifico e Previti sono stati assolti «perchè il fatto non sussiste».
4 maggio 2006 - Per il caso Imi/Sir, la Cassazione riduce a 6 anni la condanna per Previti e Pacifico, conferma la condanna a 6 anni per Metta, riduce la pena per Acampora a 3 anni e 8 mesi, annulla senza rinvio la condanna per Squillante e Battistella e considera prescritta l'accusa per Felice Rovelli. Per il Lodo Mondadori, la Suprema Corte accoglie il ricorso della Procura Generale di Milano e della parte civile Cir, contro le assoluzioni del maggio 2005.
18 dicembre 2006 - Davanti alla terza sezione della Corte d'appello di Milano, si apre il nuovo processo di secondo grado per il Lodo Mondadori. 23 febbraio 2007 - I giudici condannano Previti, Acampora e Pacifico ad un anno e 6 mesi, Metta a due anni e 9 mesi.
13 luglio 2007 - Le condanne del processo bis di secondo grado vengono confermate dalla Cassazione che ha così cristallizzato l'ipotesi delle indagini avviate nel 1996 dalla Procura di Milano: la sentenza del 1991 della Corte d' Appello di Roma sfavorevole a De Benedetti fu in realtà comprata corrompendo il giudice estensore Vittorio Metta con 400 milioni provenienti da Fininvest. La somma, questa l'accusa, faceva parte dei 3 miliardi di lire che il 14 febbraio 1991, 20 giorni dopo la sentenza di Metta, dai conti esteri Fininvest «All Iberian» e «Ferrido» vennero bonificati sul conto svizzero «Mercier» di Previti, e che poi vennero movimentati da Acampora e Pacifico per fare arrivare, appunto, i 400 milioni a Metta.
3 ottobre 2009 - Il giudice civile del Tribunale di Milano Raimondo Mesiano ha stabilito che la Cir ha diritto al risarcimento di 750 milioni da parte di Fininvest per il danno patrimoniale da «perdita di chance».
9 luglio 2011 - La seconda sezione civile della Corte d'Appello di Milano ha confermato la condanna di primo grado alla Fininvest riducendo però il risarcimento dovuto alla Cir a circa 564,2 milioni di euro compresi spese ed interessi.
Ecco perché il rimborso è una rapina. Altro che danno, la sentenza Mondadori "corrotta" non spostò nulla. E De Benedetti fece un affare da oltre 100 miliardi di lire, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. L'affare del secolo. Questo, per i difensori di Berlusconi, è stato per Carlo De Benedetti - ora che, dopo ventitrè anni, se ne possono tirare definitivamente le somme - la vicenda Mondadori. Perché l'Ingegnere ha prima firmato un accordo che gli garantiva di conquistare ciò che gli stava a cuore: Repubblica, l'Espresso, i quotidiani locali. E ora incassa il risarcimento più ingente della storia giudiziaria italiana. Un risarcimento che equivale a un sesto del bilancio Fininvest di un anno. E che - come si segnala quasi con incredulità negli ambienti dell'azienda del Biscione - corrisponde a vent'anni degli utili al netto delle tasse della Mondadori. Mezzo miliardo di euro di risarcimento per un danno mai subìto: questa è, per Berlusconi, la sua famiglia e il suo staff, la morale del processo. Per capire le basi di questa lettura bisogna addentrarsi in un groviglio fatto di sette sentenze accavallatesi nel corso di due decenni. Ma il punto chiave è, in fondo, abbastanza semplice. Ed è il confronto tra due ipotesi di armistizio che, nei mesi convulsi della guerra di Segrate, puntavano a chiudere le ostilità e a dividere salomonicamente il colosso editoriale tra Berlusconi e De Benedetti. La prima è la proposta che nel giugno 1990 il Cavaliere rivolse all'Ingegnere. La seconda è quella che nell'aprile 1991 Berlusconi e De Benedetti sottoscrissero. Cosa era cambiato nel frattempo? Che era scesa in campo la politica, premendo per un accordo. E che la Corte d'appello di Roma aveva dato ragione alla famiglia Mondadori, che si rifiutava di cedere a De Benedetti - da cui si sentiva tradita - il controllo dell'azienda. Ma quella sentenza della Corte d'appello di Roma era viziata dalla corruzione di uno dei tre giudici, il relatore Vittorio Metta. Fu a causa di quella sentenza ingiusta, dice la Cir, che dovemmo scendere a patti. E i giudici - di primo grado, d'appello e di Cassazione - le hanno dato ragione. Così, per calcolare il danno economico subìto dall'Ingegnere, sono state messe a confronto le due proposte: la prima, quella avanzata da Berlusconi quando ancora la Corte d'appello non gli aveva fornito un'arma di pressione micidiale; e la seconda, quella su cui De Benedetti mise la firma. E poiché nella prima era la Cir a dover incassare un conguaglio, e invece nell'intesa finale il conguaglio andò a Fininvest, questo conto algebrico del dare e dell'avere è il danno, secondo i giudici, subito dalla Cir. Peccato che tra le due proposte passarono dieci mesi. Un'eternità, in quei mesi di Borsa tempestosa, durante i quali i valori dei pacchetti azionari cambiarono profondamente. «Le valutazioni riferite ad aprile 1991 avrebbero totalmente giustificato per l'intero ammontare la variazione dei prezzi delle azioni scambiate, con la conseguenza che la sentenza dovrebbe essere cassata per aver riconosciuto un danno esorbitante a favore di Cir mentre nessun danno risulterebbe esistente», scrivevano i legali di Fininvest nel ricorso che la Cassazione ieri ha respinto. E la spiegazione starebbe tutta nell'andamento delle azioni Espresso: comprandole nel 1991 anziché a giugno 1990, De Benedetti fece in realtà un affarone. Roba da 104 miliardi di lire, secondo i conti della difesa Berlusconi. Insomma, la sentenza «corrotta» non avrebbe modificato in nulla la sorte della guerra. E fu anche per questo, dicono i legali Fininvest, che De Benedetti si guardò bene dall'impugnarla davanti alla Corte di Cassazione, e firmò l'accordo che gli consegnava Repubblica. E allora, perché oggi il risarcimento?
DOPO BERLUSCONI, I RIVA. ILVA E GLI ESPROPRI PROLETARI.
«Il caso ILVA acquista ogni giorno di più uno straordinario significato di carattere generale che si aggiunge agli evidenti danni prodotti sull’economia e sul lavoro italiano da provvedimenti giudiziari sproporzionati e indifferenti ai terzi incolpevoli come i lavoratori, i clienti e i fornitori. Ora viene invocato il commissariamento generale del gruppo quale dichiarata premessa per la sua nazionalizzazione. Si vuole non solo sottrarre al mercato – con prevedibili effetti disastrosi sulla sua competitività – un gruppo produttivo decisivo per tutta l’industria metalmeccanica nazionale, ma costituire anche un più generale precedente per l’esproprio di società italiane sgradite facendo magari leva perfino sulla responsabilità oggettiva. Coloro che credono nell’economia di mercato e nelle più elementari libertà economiche, coloro che temono la fuga degli investitori – esteri in primo luogo – devono reagire con determinazione nelle sedi istituzionali». Maurizio Sacconi.
Il sequestro da parte del Gip di Taranto ”sottrae alla disponibilità di Riva Acciaio tutti i beni, senza disporre alcuna facoltà d’uso a beneficio dell’azienda”. Lo precisa Riva Acciaio, dopo la nota della procura di venerdì. ”Il sequestro preventivo penale – aggiunge Riva – impedisce all’azienda ogni utilizzo dei beni”. Inoltre Riva Acciaio sottolinea che le banche finanziatrici hanno congelato i fondi e che non è quindi possibile neanche pagare le utenze.
L'ultimo passaggio formale verrà espletato quando al commercialista Mario Tagarelli verrà notificato il verbale di immissione dei beni posti sotto sequestro dalla Guardia di Finanza per ordine del gip di Taranto. A quel punto non ci saranno più scuse, e il ping pong di responsabilità tra azienda e magistrati potrebbe finalmente cessare, scrive Flavio Bini. Riva acciaio, dopo aver fermato tutte le proprie attività mettendo in libertà i suoi 1402 lavoratori, ha motivato la propria decisione con un messaggio molto semplice: con i beni sotto sequestro e i conti congelati come si pagano dipendenti e fornitori? Colpa dei magistrati, insomma. Da Taranto, invece, il procuratore Sebastio con un comunicato stampa chiarificatore ha cercato di sgomberare il campo da ogni equivoco, spiegando senza mezzi termini che i beni sono posti sotto custodia "al fine di garantire la continuità produttiva dell'azienda". Insomma, si può continuare a produrre, eccome. Insomma, colpa dei Riva. Il rimpallo di responsabilità è destinato a finire. O Quasi. Perché nominato ufficialmente custode dei nuovi beni, Tagarelli avrà in carico, sì, la loro gestione ma per quanto riguarda le risorse liquide, i famosi conti correnti congelati, la questione è diversa. Ricevuto il verbale di immissione, Tagarelli non potrà disporre automaticamente dei conti correnti sequestrati. Quelle risorse liquide restano nel congelatore. A meno di un'istanza di dissequestro o di nuovo provvedimento dei magistrati che dia una sorta di semaforo verde al commercialista per potere avere a disposizione le risorse liquide. Solo a quel punto quelle somme saranno finalmente disponibili. Ma il punto è un altro. C'è un protagonista defilato nel braccio di ferro. Un passo indietro rispetto ai due contendenti, ma non per questo meno importante: le banche. L'irritazione dei magistrati tarantini non è solo per la drammatizzazione messa in atto dai proprietari. In teoria, pur con i conti congelati, e in attesa delle decisioni del custode, l'attività avrebbe potuto proseguire finanziandosi con il flusso del credito bancario, rimasto al riparo dal sequestro dei magistrati. Ma l'interruzione dei fidi da parte delle banche ha bloccato tutto. Dando all'azienda, questo trapela da fonti vicino alla procura, l'alibi perfetto per mettere davanti al Paese l'impossibilità reale di pagare i propri dipendenti. E quindi chiudere.
Michele Imperio a commento dell’articolo scrive sulla sua pagina Facebook. «Mi vergogno di essere tarantino concittadino di Sebastio: Un commercialista amico dei Magistrati tarantini che gestisce tutta la liquidità e tutte le aziende dei Riva. L'esproprio giudiziario invece che l'esproprio proletario! Siamo alla follia! Mi vergogno di essere tarantino!»
Gli risponde un suo amico su Facebook, tal Cosimo Coppola: anche noi ci vergognamo (elevata conoscenza della grammatica ndr) di quei tarantini (pochi) che come te difendono i delinquenti...
Michele Imperio, mosca bianca in quel di Taranto, scrive su “La Notte On Line”: La vera storia dell’Ilva di Taranto quella che sta facendo crollare il comparto italiano dell’acciaio. Chiusura immediata di sette stabilimenti e di due società di servizi e trasporti facenti capo a Riva Acciaio sparsi in tutta Italia, con la messa in libertà di circa 1.400 addetti: è la decisione presa dal gruppo Riva all’indomani del sequestro di beni mobili e immobili e di conti correnti per ulteriori 916 milioni di euro eseguito dalla Guardia di finanza nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Taranto sull’Ilva per disastro ambientale. Gli stabilimenti interessati sono quelli di Verona, Caronno Pertusella (Varese), Lesegno (Cuneo), Malegno, Sellero e Cerveno in provincia di Brescia, Annone Brianza (Lecco) e le società sono Riva Energia e Muzzana Trasporti. Lo stop degli impianti – spiega la società in una nota – «non è una “scelta” aziendale, bensì un atto dovuto, dipendente dalla esecuzione del provvedimento del Gip di Taranto Patrizia Todisco la quale, ordinando il sequestro, ha sottratto alla proprietà la libera disponibilità degli impianti e dei saldi attivi di conto corrente». Decisione «purtroppo necessaria», è scritto nella nota. Con il provvedimento del gip di Taranto Patrizia Todisco, datato 17 luglio 2013 che estende il decreto del 22 maggio 2013 di sequestro preventivo di beni per equivalente fino alla concorrenza di 8,1 miliardi di euro, «vengono sottratti – sostiene il gruppo – a Riva Acciaio i cespiti aziendali, tra cui gli stabilimenti produttivi, e vengono sequestrati i saldi attivi di conto corrente e si attua di conseguenza il blocco delle attività bancarie, impedendo il normale ciclo di pagamenti aziendali», facendo sì che «non esistano più le condizioni operative ed economiche per la prosecuzione della normale attività». Di conseguenza, l’attività negli stabilimenti viene sospesa, gli impianti messi in sicurezza e i lavoratori posti in libertà, Il decreto del gip del 22 maggio 2013 escludeva invece la possibilità di sequestrare i beni «strettamente indispensabili all’esercizio dell’attività produttiva nello stabilimento siderurgico tarantino» E ora invece i giudici tarantini hanno deciso di sequestrare i beni «strettamente indispensabili all’esercizio dell’attività produttiva degli altri stabilimenti del gruppo. Un nuovo attacco ai Riva dunque. Un nuovo capitolo arricchisce dunque questa storia dell’Ilva, una storia molto torbida per i motivi che qui spieghiamo. La Procura della Repubblica di Taranto con indagine espletatasi soprattutto negli anni 2011 e 2012 ha accertato l’esistenza di un grave disastro ambientale in tutto il territorio circondante lo stabilimento siderurgico dell’Ilva di Taranto per un raggio di circa 20 km, causato presumibilmente dalle emissioni dell’Ilva dal 1965 in poi. Già nel giugno 2012 voci provenienti dagli ambienti giudiziari preannunciavano un provvedimento di sequestro degli impianti da parte dei giudici al fine di attivare più incisive procedure di risanamento degli impianti. Fino ad allora infatti i Riva avevano attivato un sistema di abbattimento della diossina chiamato urea, avevano apposto i filtri ai camini, avevano fatto ex novo l’altoforno n. 4 ma queste opere venivano giudicate non sufficienti, stante anche un’alta incidenza di tumori registrata nel quartiere Tamburi di Taranto il quartiere posto scelleratamente a ridosso dell’impianto, realizzato nel 1965 dall’Iri e poi ceduto nel 1995 a Riva. Tutta la Magistratura tarantina e tutti gli ambienti politici della città di Taranto condividevano inizialmente il provvedimento dei magistrati allo scopo precipuo di avviare un risanamento dell’opificio ma a condizione che il sequestro giudiziario comprendesse la facoltà d’uso degli impianti onde consentire la prosecuzione della produzione e quindi il mantenimento dei livelli di occupazione. Lo stabilimento infatti da lavoro diretto o indotto a circa 40.00 unità lavorative tra le province di Taranto e Genova. Senonchè con incredibile tenacia e con la più totale insensibilità e il più totale disprezzo per ogni richiamo alla ragionevolezza i magistrati Franco Sebastio (P.M.) e Patrizia Todisco (G.I.P.) disponevano la chiusura tout court degli impianti e il licenziamento ad horas di tutti i dodicimila addetti. Ai giornalisti che gli chiedevano come pensasse lui di risolvere il problema dei 20.000 occupati (diretto e indotto) che perdevano il posto di lavoro su Taranto il Procuratore della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio così sorprendentemente rispondeva: E CHE ME NE FOTTE A ME DEI 20.000 OCCUPATI !!!!!!! SI ARRANGIASSERO CON GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI !!!!!!!!!!!!! NOI – proseguiva il dott. Franco Sebastio – FACCIAMO TUTTI I GIORNI SEQUESTRI DI AZIENDE!. In effetti la Procura della Repubblica di Taranto detiene il record dei sequestri preventivi in Italia sia per numero che per entità di valori sequestrati, avendo già eseguito prima del sequestro dell’Ilva, numerosi altri sequestri per equivalente di aziende del territorio in molti casi però del tutto infondati e in un caso (caso Criam) addirittura criminale, in quanto qualcuno aveva sollecitato i carabinieri di falsificare foto e altri documenti al fine di pervenire ugualmente al provvedimento di sequestro di un’azienda nonostante non ci fossero i presupposti. Forse bisognava allenarsi per altri sequestri più impegnativi. O forse a Taranto ci sono altri interessi oltre quelli connessi all’amministrazione della giustizia. Non sappiamo. Fortunatamente la nuova dirigenza dell’Ilva nella persona del dott. Bruno Ferrante già vicecapo della polizia già Prefetto di Milano e quindi prestigioso esponente delle Istituzioni non dava esecuzione al provvedimento dei Magistrati Sebastio e Todisco, beccandosi un’incriminazione per omessa osservanza dell’ordine legalmente dato dall’Autorità Giudiziaria sempre da parte del Procuratore della Repubblica di Taranto Franco Sebastio e l’attività dell’Ilva continuava. Con legge n. 231 del 24 dicembre 2012 , su impulso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il Senato della Repubblica adottava d’urgenza un decreto-legge sull’Ilva di Taranto poi convertito in legge che prevedeva una moratoria di tre anni per l’Ilva per l’applicazione delle normative sull’ambiente onde dare tempo alla grande industria di adeguarsi alle normative medesime e alla nuova Aia emanata dal Governo in seguito alle irregolarità e alle omissioni riscontrate dall’Autorità Giudiziaria nell’inchiesta. Il provvedimento disponeva altresì la restituzione dell’acciaio prodotto nei quattro mesi in cui l’impianto era stato attivo nonostante il provvedimento di sospensione della produzione da parte dei Magistrati Sebastio e Todisco . La legge voleva rappresentare una prima risposta che Governo e Parlamento avevano messo a disposizione nei confronti di una città che stava pagando un tributo altissimo rispetto a scellerate scelte di concentrazione industriale fatte in passato, facendo al contempo fronte a una emergenza nazionale di straordinaria gravità. In più la nuova più rigida Autorizzazione Integrata Ambientale doveva dare con la collaborazione dell’azienda risposta concreta a quanto disposto dalla Magistratura e anche alla necessità di assicurare che la produzione non si fermasse, prospettiva questa che avrebbe provocato danni incalcolabili all’intero sistema industriale del Paese e all’occupazione. Dunque il Potere Politico manifestava una chiara volontà indirizzata al Potere Giudiziario che andava nel senso che l’industria si risanasse senza che per questo si fermasse la produzione. Da subito però sia il dott. Franco Sebastio (P.M.) che la dott.sa Patrizia Todisco (G.I:P) titolari dell’inchiesta Ilva e in verità solo loro, cominciarono a manifestare una strana insofferenza e una pervicace ostilità verso questa legge (la legge n. 231/2012) continuando illegalmente a mantenere sequestrato – contro il suo dettato – il materiale prodotto nei quattro mesi dopo il fermo, quasi che la nuova legge costituisse offesa e negazione del loro prestigio e delle loro prerogative istituzionali. Il GIP Patrizia Todisco predispose e inviò alla Corte Costituzionale un ricorso contro il decreto legge n. 207/2012 e sollevò altresì addirittura una questione di conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato. Il Procuratore della Repubblica Franco Sebastio, non appena il decreto fu convertito in legge, presentò anche lui un secondo ricorso alla Corte Costituzionale basato più o meno sugli stessi motivi di quello del g.i.p. Tutte queste iniziative furono accompagnate da atteggiamenti e da dichiarazioni dei due Magistrati improntate alla derisione, al contrasto, al ripudio e perfino allo sbeffeggiamento della legge e dei ministri o dei parlamentari che l’avevano patrocinata. Gravi le accuse del Procuratore della Repubblica Franco Sebastio e del G.I.P. Patrizia Todisco contro l’Autorità governativa che segnavano una strana e insolita contrapposizione fra Potere Giudiziario e Potere Esecutivo. Secondo i predetti Magistrati infatti, riconsegnando gli impianti dell’area a caldo(sotto sigilli dal 26 luglio 2012) e permettendo all’Ilva di tornare a produrre acciaio, il governo aveva di fatto illegittimamente impedito l’esercizio di un’azione penale interferendo in un’indagine ancora in corso. Perchè sugli impianti vigeva un sequestro con giudicato cautelare, ordinato dal gip e confermato dal tribunale del riesame, che – a loro dire – il governo non poteva sbloccare con una moratoria delle norme a tutela dell’ambiente e a vantaggio dell’Ilva. Questa strenua resistenza all’applicazione di una legge dello Stato veniva rappresentata dai Magistrati all’opinione pubblica anche con dichiarazioni ufficiali come loro estremo baluardo difensivo del diritto alla salute dei cittadini di Taranto messa a rischio con la legge da politici corrotti e incompetenti. Manifestando con ciò sia il Procuratore della repubblica di Taranto Franco Sebastio che il magistrato dell’Ufficio del g.i.p. Patrizia Todisco un rifiuto apodittico di volersi a prescindere adeguare al chiaro indirizzo espresso dalla legge nonché astio e risentimento per la parte inquisita la quale aveva presentato anche una denuncia e un esposto in via disciplinare alla procura della Repubblica di Potenza e al CSM. Dopo alcuni mesi la sentenza della Corte Costituzionale dichiarava inammissibile il conflitto di attribuzioni fra poteri dello Stato e respingeva l’eccezione di incostituzionalità presentata dalla procura e dall’Ufficio del G.I.p. di Taranto esprimendo gravi censure all’operato dei giudici tarantini Sebastio e Todisco. Infatti la sentenza della Corte Costituzionale tra l’altro diceva: Se l’amministrazione pubblica ha «male operato nel passato, non è questa una ragione giuridico-costituzionale sufficiente per determinare un’espansione dei poteri dell’autorità giudiziaria oltre la decisione dei casi concreti. E una soggettiva prognosi pessimistica sui comportamenti futuri dell’azienda non può fornire base valida per una affermazione di questa maggiore competenza dell’organo giudiziario rispetto a quello politico». Quando si oltrepassa «l’incerta linea divisoria tra provvedimenti cautelari funzionali al processo, di competenza dell’autorità giudiziaria, e provvedimenti di prevenzione generale spettanti all’autorità amministrativa» non si può che osservare il tentativo di inibire l’intervento del potere politico (che intende risanare n.d.r.), per raggiungere una finalità peraltro esplicitata dai giudici tarantini: chiudere l’impianto. Non c’è dubbio che quella della chiusura è un’ipotesi, ma il compito eventuale di raggiungerla non spetta ai giudici ma agli organi che detengono il potere di definire – con la discrezionalità del caso – la politica industriale del Paese e cadenzare i tempi e le modalità di un necessario risanamento ambientale. E quanto alla diatriba fra diritto alla salute e diritto al lavoro la nostra Costituzione, non contiene gerarchie di diritti: il più e il meno importante, quello che soccombe e quello che prevale. Il diritto alla salute non è il tiranno di quello al lavoro, nella stessa misura in cui quest’ultimo non è il becchino del primo. Senonchè pochi giorni dopo la pubblicazione della sentenza della Corte Costituzionale e chiaramente in polemica anche con questo altissimo rogano dello Stato i Magistrati Sebastio e Todisco posero in essere altri fatti gravissimi che denotavano ostilità avversione e disprezzo per gli organi politici nonché inimicizia grave nei confronti dei titolari dell’Ilva e una vera e propria strategia per inibire all’Ilva il risanamento degli impianti. Ciò avviene alla fine del mese di maggio 2013. L’agenzia Reuters riferisce che il giorno 24.5.2013 Emilio Riva stava per presentare il piano industriale per le opere di risanamento dell’Ilva in base alla nuova AIA, quando quello stesso giorno si è visto recapitare a distanza di due ore l’uno dall’altro un decreto di sequestro preventivo di beni da parte della Procura della Repubblica di Taranto (per € 8.100.000.000 per inquinamento) e un secondo decreto di sequestro preventivo da parte della Procura della Repubblica di Milano (per € 1.200.000.000 per evasione fiscale), questa volta non più dell’ azienda e degli impianti bensì di tutte le risorse dell’impresa per un ammontare pari a 8.100.000.000 di euro (Procura della Repubblica di Taranto) a fronte del costo ipotetico di tutte le opere di risanamento a farsi e di € 1.200.000.000 miliardi (Procura della Repubblica di Milano) per l’equivalente dell’ipotetica evasione fiscale che il Riva avrebbe commesso. Questi due sequestri praticamente rendevano inutile la presentazione del piano a seguito di quei provvedimenti non più finanziabile. Quindi una tempestiva iniziativa delle due Procure in simbiosi fra loro, per bloccare il piano di risanamento da parte di Riva e quindi problematizzare la situazione. Inoltre nello steso contesto Emilio Riva apprendeva dai giornali che da tempo egli era pedinato e sorvegliato a vista dai Servizi Segreti per ordine – evidentemente – di qualcuno e con gravissima deviazione delle funzioni istituzionali dei Servizi stessi, i quali non hanno certo il compito di fare indagini tributarie ma hanno invece la funzione di difendere il paese da possibili aggressioni esterne. Quali erano queste aggressioni esterne da parte dei Riva? E chi aveva dato ordine ai Servizi segreti di mobilitarsi? Ricordo a me stesso che i Magistrati non possono attivare i servizi segreti perché quelli normali dipendono dal Potere Esecutivo Italiano e quelli cosiddetti deviati dipendono da altri poteri esecutivi extranazionali. Eppure nella storia delle stragi del 1992 si nota uno strano coordinamento fra magistrati della procura della Repubblica di Milano e Servizi Segreti. Il dott. Francesco Di Maggio per esempio apparteneva ai Servizi Segreti come è stato accertato dalla Commissione Parlamentare Stragi. Questo giornale online ha già fatto le sue ipotesi delle ragioni di tutte queste stranezze in un articolo che vi riproponiamo. In sintesi – secondo la nostra ricostruzione – Emilio Riva avrebbe commesso un grave sgarro internazionale accettando una grossa commessa della Russia per la realizzazione di un gasdotto che doveva portare gas russo in Europa transitando anche per l’Iran. Questo gasdotto andava in concorrenza con altri gasdotti europei che invece dovevano trasportare gas dall’Azerbajan per evitare l ‘acquisto di gas russo da parte dell’Europa perchè questi acquisti – secondo gli Stati Uniti – avrebbero rafforzano eccessivamente la Russia. E Berlusconi è stato costretto a sloggiare da presidente del consiglio alla fine del 2011 non per contrasti interni in seno alla sua maggioranza sul federalismo bensì per la sua rinnovata manifestata amicizia con Vladimir Putin che si traduceva in accordi energetici, tanto per la costruzione del gasdotto south stream (quello che coinvolgeva anche Riva il quale lo doveva materialmente riprogettare e realizzare) quanto per vari altri business, in comparti viciniori agli idrocarburi, spartiti tra italiani, russi, libici, algerini, ecc. ecc.. “Notificato il proprio decreto di sequestro per 8 miliardi il Procuratore di Taranto Franco Sebastio con tono minaccioso e fare di sfida faceva nuove dichiarazioni alla stampa, con cui diceva: EH!!!!!!!!!! E’ ORA VEDREMO SE IL POTERE POLITICO AVRA’ ANCORA IL CORAGGIO DI FARE UNA NUOVA LEGGE!!!!!!!!!!!!! PER FERMARCI!!!!!!!!!! Dunque Potere Politico e Corte Costituzionale venivano ancora una volta sbeffeggiati da singoli rappresentanti del Potere Giudiziario e un imputato veniva attaccato con estrema violenza sempre da quegli stessi esponenti del Potere Giudiziario. Peraltro se qualche ingenuo può ancora illudersi che tutto ciò avveniva al solo scopo di tutelare la salute dei tarantini, senza alcuna implicazione politica, nessuno può coltivare l’illusione che l’operato dei Servizi Segreti o quello della Procura della Repubblica di Milano fosse finalizzato ai medesimi scopi perché a questi organismi istituzionali della salute dei tarantini non gliene frega assolutamente niente! Dunque gli interessi in gioco sono altri! Ma quali? inoltre la chiara sinergia che si nota fra l’azione della Procura della Repubblica di Taranto, il GIP Patrizia Todisco e quella della procura di Milano e dei Servizi Segreti, distolti dalle loro funzione istituzionali fa pensare al peggio. Che infatti si manifesta qualche tempo dopo. Nel luglio 2013 il G.i.p. Patrizia Todisco in una sua ordinanza dapprima scrive che vorrebbe che fossero incriminati anche tecnici, ingegneri capi e dirigenti dell’impianto per concorso in associazione a delinquere finalizzata al disastro ambientale e poi ottenuta l’istanza dei P.M. ottiene proprio nei giorni scorsi la richiesta di cinque mandati di cattura contro operai dell’Ilva i quali a suo dire erano il governo ombra dell’azienda. Poi con un nuovo provvedimento estende il primo provvedimento di sequestro anche alle altre aziende possedute dai Riva ai suoi conti correnti e insomma a tutto ciò che l’imprenditore possiede. Riva ha dovuto chiudere tutte le fabbriche e ora il comparto dell’acciaio dell’intero paese è in ginocchio. La cassa integrazione che finanziamo tutti noi continua a espandersi. Il governo è – almeno apparentemente – di nuovo in grave difficoltà e in grave imbarazzo. Si pensa a nuovi commissariamenti. Il ministro Zanonato (P.D.) però dice: l’imprenditore potrebbe continuare a farlo il custode nominato dal giudice. Mi chiedo: ma Zanonato c’è o ci fa? Questi uomini devono salvare l’Italia? Non sarebbe meglio smetter e di fare i maggiordomi eunuchi del Partito Democratico Americano e fare una bella proclamazione di indipendenza dai poteri stranieri forti e occulti e il taglio delle unghie dei Magistrati che vi si asserviscono?
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)». Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche F. Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
IN ITALIA UN ERRORE GIUDIZIARIO GRAVE OGNI DUE MAGISTRATI.
Ma non se ne deve parlare. Ed infatti nessuno ne parla. Anzi…….quasi nessuno. L’imprenditore Fabrizio Pilotto e il giornalista Dimitri Buffa, ospiti alla trasmissione di Radio Radicale Hyde park corner, affrontano i temi della diffamazione a mezzo stampa e della giustizia italiana. Buffa sostiene che è in molti casi di fronte a “concorrenza sleale” quando i pm perdonano ai giornalisti l’utilizzo di un linguaggio scorretto ma che procura lettori alla testata e guadagni all’editore. “Basta essere amici di tutti i principali magistrati della pubblica accusa in Italia per ottenere un occhio di riguardo quando si viene querelati da politici e potenti – dice Buffa - mentre chi non milita nel partito delle procure deve stare bene attento a ciò che scrive”. Sul tema della giustizia, Fabrizio Pilotto racconta la sua storia personale come testimonianza. Nel marzo scorso l’imprenditore del settore telemarketing è stato diffamato dal Mattino di Padova, che ha cavalcato una montatura giudiziaria che lo ha visto ahilui protagonista.
IN ITALIA UN ERRORE GIUDIZIARIO GRAVE OGNI DUE MAGISTRATI.
- Scrive Giorgio De Neri – Una fabbrica seriale di mostruosi errori giudiziari. Che stanno diventando la regola, non l’eccezione, almeno in certi casi. Questa l’Italia che viene fuori leggendo l’inchiesta de “Il tempo”, oggi arricchitasi del contributo di Marco Pannella che in un editoriale di prima pagina invita tutti a firmare e poi a votare i dodici referendum radicali, la maggior parte dei quali dedicata proprio alla giustizia. Le statistiche, i numeri, pongono un problema di quantità ancora prima che di qualità di questi inescusabili errori per i quali l’ultra casta in toga pretende di non dovere in nessun caso pagare pegno. E questi numeri tenuti accuratamente nascosti dalla burocrazia passiva del ministero oggi sotto la responsabilità della bravissima e intellettualmente onestissima Anna Maria Cancellieri (che più volte si è pronunziata a favore dell’amnistia sia per sfoltire i posti in carcere sia per abbattere l’arretrato) parlano di 50 mila casi di “errore grave” dal 1989 a oggi. Cioè dalla entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale teoricamente accusatorio al 2013. Beh, dividendo 50 mila casi umani per 24 lunghi anni di ingiustizie come regola, si ottiene il numero di 2500 tragedie umane l’anno. Posto che i giudici sono 9 mila, di cui, mille distaccati in incarichi ministeriali e para tali, 4 mila al civile e 4 mila al penale, e dato che questi errori riguardano il settore penale, se la matematica non è un ‘opinione ogni due magistrati di diritto penale c’è un caso di errore grave l’anno. Che, anche a volere fare la tara di Totò alla statistica (la storiella del pollo intero del mezzo pollo e del “non pollo”), è un numero pazzesco. In proporzione più alto di quello degli errori per mala sanità. Che invece ricadono sulle spalle di chi li commette. Con l’aggravante che mentre un medico spesso è costretto a intervenire di urgenza con il rischio che la probabilità di errore si moltiplichi, il magistrato ha tutto il tempo di pensarci due volte prima di mettere in carcere un innocente. E la obbligatorietà dell’azione penale in questo contesto non è altro che un alibi. Anzi una foglia di fico. Periodicamente si registra non a caso l’astensione dalle udienze di tutti gli avvocati penalisti che si riconoscono nella “visione delle cose” dell’Unione delle camere penali italiane. Tale “visione delle cose” contempla tra l’altro un minore e meno disinvolto uso della custodia cautelare, soprattutto a fini coercitivi di formazione della prova, ma anche la separazione delle carriere e la responsabilità civile del magistrato che sbaglia. Spiace vedere che anche le nuove, o quasi, speranze della politica, come Matteo Renzi, si appiattiscano oggi sulla difesa di un ruolo sacrale della magistratura al di là di ogni ragionevolezza e sulla difesa dello status quo, con la formuletta “le riforme le deve fare il Parlamento non i cittadini con i referendum”. Purtroppo tutto ciò non è vero oggi come non lo era neanche nella prima Repubblica. E se i cittadini non coglieranno questa occasione fra venti anni staremo ancora qui a parlare degli stessi irrisolti, e ovviamente aggravati, problemi.
IL PROFESSORE DI SALUZZO, LE ALLIEVE E LA GIUSTIZIA ITALIOTA.
- Scrive Dimitri Buffa – Non era mai successo che un’intera ex classe di liceo scrivesse, firmasse e spedisse a un quotidiano, “La Stampa”, una lettera di piena solidarietà a un professore accusato di “pedofilia”. Le virgolette sono d’obbligo perché parlare di pedofilia per un rapporto consenziente tra un adulto e una ragazza di diciassette anni è una delle follie del nostro sistema giuridico penale italiano. O meglio italiota. Che raccoglie l’emotività furbetta dei politici in cerca di visibilità sotto campagna elettorale, quindi quasi sempre perché il paese purtroppo è in perenne campagna elettorale, per inasprire senza alcuna logica le norme che già punivano i rapporti con i minorenni purché non avessero raggiunto i quattordici anni di età. In quel caso infatti si giudicava impossibile un consenso consapevole. Anche se la storia e la letteratura ci consegnano migliaia di casi che ci fanno capire che le cose non stanno in bianco e nero come le vuole la legge. Comunque un limite ci deve stare e quello dei 14 anni era accettabile. Purtroppo arrivò l’era del puritanesimo alle vongole al governo, che coincise con il secondo e il terzo governo Berlusconi e con la breve parentesi del Prodi due, in cui, in mancanza di riforme, si ubriacò la pubblica opinione, mercè un giornalismo radio televisivo pubblico e privato e dei grossi quotidiani, che definire servile, volgare e vigliacco ( e persino un po’ “stronzetto”) è semplicemente un eufemismo, di nuovi allarmi securitari. Tra cui il satanismo, la pedofilia e quant’altri. Nacquero così leggi assurde di cui hanno finito per fare le spese anche i leader dei partiti che le avevano promosse, vedi il caso del processo Ruby Berlusconi. Ora nel caso del prof di Saluzzo non c’è neanche di mezzo un rapporto a pagamento, come nel caso delle “olgettine”, almeno secondo le ipotesi accusatorie abbastanza difficili da dimostrare, se non con deduzioni logiche, ma una vera e propria storia d’amore con una o due allieve. Secondo la pm locale e gli inquirenti, la prova del mercimonio sessuale risiederebbe nel fatto che una delle ragazze nel primo trimestre del 2008 aveva solo “sei” in italiano, mentre poi nel secondo passò a “sette” e a fine anno fu promossa con “otto”. Tutto ciò meriterebbe di passare alla storia degli errori giudiziari e dei problemi psicologici di non pochissimi rappresentanti della pubblica accusa in Italia se non ci fosse di mezzo un povero Cristo che da oltre una settimana è in cella per aver avuto quattro anni fa un rapporto sessuale consenziente con un’allieva allora diciassettenne che ovviamente non ha alcuna intenzione di denunciarlo e di diventare parte civile in un processo. A parte la rabbia che simili accadimenti generano nell’opinione pubblica più avveduta, e meno manettara “a prescindere”, questa storia di per sé non è un’ottima prova della bontà di tutti i referendum radicali sulla giustizia e, nella fattispecie, di quello sulla responsabilità civile del magistrato? Speriamo solo che il prof di Saluzzo abbia la forza di resistere a questa assurda carcerazione preventiva e non accada, Dio non voglia, qualche disgrazia tipica delle nostre galere da terzo mondo. Visto che le prigioni italiane sono diventate vere e proprie anticamere degli obitori. Cosa che l’Europa ormai fra pochi mesi sanzionerà con un vero e proprio commissariamento della giustizia italiana.
L'INGIUSTIZIA E LA FICTION.
Tutti i presunti innocenti con i film di Sordi e Ford. Il cinema ha indagato a lungo su storie oscure del recente passato che vedono al centro errori giudiziari clamorosi. A cominciare da «L’istruttoria è chiusa» di Damiani sulla storia dell’architetto..., scrive Dina D’Isa su “Il Tempo”. Il cinema ha indagato a lungo su storie oscure del recente passato che vedono al centro errori giudiziari clamorosi. A cominciare da «L’istruttoria è chiusa» di Damiani sulla storia dell’architetto Vanzi che finisce in prigione con l’accusa di omicidio colposo e omissione di soccorso, in seguito a un incidente stradale. Una volta dentro, vive sulla propria pelle l’esperienza del carcere, tra metodi repressivi delle guardie, violenza dei compagni di cella e prevaricazioni. Analogo, per vicenda e richiesta di una riforma carceraria, a «Detenuto in attesa di giudizio» (1971) di Loy, con Alberto Sordi nei panni del geometra romano Di Noi, da anni in Svezia, sposato con una svedese e stimato professionista, che va in vacanza in Italia con la sua famiglia. Alla frontiera italiana l’uomo viene fermato e arrestato senza che gli venga fornita alcuna spiegazione. Poi scoprirà di essere accusato di «omicidio colposo preterintenzionale» di un cittadino tedesco. Da allora, il suo sarà un autentico calvario giudiziario, costellato di trattamenti umilianti e spersonalizzanti, che anche da uomo libero lo segneranno per sempre. «Il fuggiasco» di Manni, con Liotti, si rifà invece all’autobiografia di Carlotto, scritto alla fine della sua odissea giudiziaria, dopo 11 processi, 6 anni di prigione e 5 da fuggiasco, fino alla grazia del presidente Scalfaro: il giovane militante di Lotta Continua venne accusato di un omicidio di cui era solo testimone. Anche la vita di Lelio Luttazzi venne stravolta: in seguito all’intercettazione di una telefonata fu arrestato, con Walter Chiari, con l’accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti. L’artista rimase in carcere 27 giorni: un’esperienza devastante dalla quale non si riprese più. L’ispirazione per «Detenuto in attesa di giudizio» venne a Sordi quando lesse il libro «Operazione Montecristo» scritto in carcere da Luttazzi. Anche il cinema internazionale ricorda casi eclatanti come ne «Le ali della libertà» di Darabont, con Morgan Freeman e Tim Robbins, nel ruolo di un dirigente bancario condannato a due ergastoli per l’uccisione della moglie e del suo amante, benché egli proclami la sua innocenza. E ancora il cult «Presunto innocente» di Pakula con Harrison Ford; ma anche il «Presunto colpevole» di Yates con Cher, Liam Neeson e Dennis Quaid; fino a «L’angolo rosso - Colpevole fino a prova contraria» di Jon Avnet con Richard Gere e a «Présumé Coupable» di Vincent Garenq, su uno dei più gravi errori giudiziari francesi. Mentre in tv il caso Tortora è stato portato da Ricky Tognazzi e la storia di Barillà, imprenditore milanese arrestato per uno scambio di persona, è stata interpretata da un intenso Giuseppe Fiorello.
LA DRAMMATICA LETTERA DI GAIA TORTORA A “IL TEMPO” SULLA GIUSTIZIA ITALIANA.
- Scrive Dimitri Buffa - Uno, dieci, cento, mille e forse persino centomila errori giudiziari come quello che colpì Enzo Tortora caratterizzano la giustizia italiana odierna. Parola di Gaia Tortora, intervenuta oggi con una drammatica lettera a “Il Tempo” (nuova gestione a cura dell’ex inviato del “Giornale”, Gian Marco Chiocci, ndr) che ha aperto il giornale con il titolo “Cinquantamila innocenti in prigione”. Quante volte anche da queste colonne, on line, abbiamo parlato di fabbrica seriale di errori giudiziari. Era intuitivo. Ma “Il Tempo” oggi ha tirato fuori i dati tenuti nascosti da via Arenula sul numero esatto dei poveri Cristi finiti in galera per errori attribuibili ai vari pm d’assalto in Italia dal 1989 a oggi. Cioè dall’entrata in vigore del codice firmato dalla buonanima di Giuliano Vassalli sino ai giorni nostri: e il numero, la quantità, lasciando perdere per un attimo, la “qualità”, dell’errore, fa paura: 50 mila unità. In ventiquattro anni fa la media di duemila errori giudiziari completi ogni anno. Una persona ogni 40mila in Italia, considerando anche neonati e centenari, ogni anno si becca la galera gratis perché magari qualche investigatore deve finire in prima pagina e qualche giornalista amico suo lo pompa. Così il caso Tortora non è servito a niente, ammette desolatamente la figlia dell’ex presentatore che oggi lavora a “La7” e che per anni ha sempre diffidato, giustamente, chicchessia a paragonarsi a suo padre. Ora però, constatato il fallimento verticale, senza sé e senza ma, dell’impresa giustizia nel Bel Paese, i paragoni con enorme onestà intellettuale li fa lei. E cita il caso del povero Giuseppe Gulotta. Che in un libro sulla propria lunga Odissea nelle carceri e nella giustizia italiana sostiene che siccome “Giuseppe Gulotta non è Enzo Tortora nessuno si occupa del suo caso..” Cosa che purtroppo rappresenta altra vergognosa realtà del sistema. Insomma oramai il paragone con Tortora viene sdoganato anche perché in fondo era proprio lui che da vivo si metteva sullo stesso piano di “chi non ha voce”. Per dargliela. E mai come in questo momento il docufilm sulla vicenda umana e giudiziaria di Enzo Tortora, curato da Ambrogio Crespi e prodotto dal Gruppo Datamedia, appare l’iniziativa giusta al momento giusto.
Questa è la prova che mio papà è morto invano. Quante volte mi è stato chiesto un ricordo, un commento, una intervista sulla vicenda di mio padre? Molte. Com’è normale che sia in questi casi. Le stesse volte in cui ho accettato e poi mi sono..., scrive Gaia Tortora su “Il Tempo”. Quante volte mi è stato chiesto un ricordo, un commento, una intervista sulla vicenda di mio padre? Molte. Com’è normale che sia in questi casi. Le stesse volte in cui ho accettato e poi mi sono ritrovata davanti al computer e a tanti ricordi e parole e immagini nella testa. Questa volta però, mentre da«Il Tempo» mi spiegavano come sarebbe uscita l’inchiesta del giornale, la mia mente è tornata a poche settimane fa. Ad un libro. Alla storia di un uomo. Lui si chiama Giuseppe Gulotta. Il suo libro Alkamar - la mia vita in carcere da innocente. È la storia di un uomo che per 36 anni è stato considerato un assassino. È stato costretto a firmare una confessione con le botte e le torture. Oggi ha 55 anni. Ha passato in cella gran parte della sua vita. È un uomo innocente finito in un meccanismo che può stritolare chiunque. Ho letto d’un fiato la sua storia, che pure conoscevo. Ma non così nei dettagli. Mi sembrava in alcune pagine di rivivere l’incubo. Quel senso di impotenza che ti soffoca. Anche in quel caso tutto è cambiato in una notte. Esattamente come per mio padre. E per noi. Dalle 4 del mattino del 17 giugno 1983 l’esistenza di mio padre viene stroncata. Giorgio Bocca lo ha definito «il più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana». Dall’arresto di quella notte alla morte di nostro padre passarono 5 anni. In mezzo, una condanna a 10 anni di carcere, poi la piena assoluzione e infine il cancro ai polmoni che lo ha portato via. Potrei dire molte cose in queste righe che mi è stato chiesto di scrivere. Molte e forse troppe ne ho già dette. Allora, come spesso mi capita quando mi chiedono qualcosa su mio padre, chiudo gli occhi e cerco di riascoltare le sue raccomandazioni. «Date voce a chi voce non ha». Ecco oggi i casi Tortora ci sono ancora. Sono molti e non li conosciamo. Mio padre era un uomo famoso. E nel bene e nel male questo ha avuto un peso. I riflettori si sono inevitabilmente accesi. Cosi riprendo tra le mani il libro di Giuseppe Gulotta e quelle parole a pag 127: «Gli anni 80 sono anni caldi per chi amministra la giustizia. Un referendum promosso dai radicali chiede una legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Troppi errori, dicono i promotori citando il caso Tortora. Ma Giuseppe Gulotta non è Enzo Tortora, nessuno si occupa del suo caso, non c'è una campagna innocentista né un garantista, fra i tanti che si definiscono tali, che parli di lui». È terribilmente vero. Ieri come oggi. I casi Tortora non hanno voce. Ieri come oggi siamo ancora qui a dibattere di riforma della giustizia. A firmare di nuovo referendum per i quali gli italiani si erano già espressi e che poi come spesso accade i nostri politici hanno fatto diventare carta straccia. Mentre infuria la battaglia sulla magistratura i processi vanno avanti. Lentamente. Le persone aspettano. La sete di giustizia in questo Paese è diventata arsura. In molti risvolti delle nostre vite. Il problema non è la magistratura italiana, ma alcuni uomini che ne fanno parte. E che possono sbagliare come tutti. Ma che avendo per le mani la vita di un essere umano dovrebbero avere maggior scrupolo proprio come un chirurgo con il bisturi o un giornalista con la penna. Sulle responsabilità dei magistrati è stato vinto un referendum nel 1987. Non chiedo che vada limitata la loro libertà. Ma i magistrati che sbagliano almeno non dovrebbero essere promossi. Basterebbe un po’ di buonsenso e di coerenza. Invece, nella maggior parte dei casi, non ti chiedono neanche scusa.
QUANDO IL PM SBATTE IL VIP IN CARCERE PER ANDARE IN PRIMA PAGINA.
- Scrive Dimitri Buffa – Sbatti il vip in carcere e poi la tua inchiesta sarà famosa, la tua carriera in ascesa e tu potrai viverci di rendita senza occuparti dell’ordinaria amministrazione. Funziona sempre. Quando un pm d’assalto vuole che la propria inchiesta vada in prima pagina e lui venga immortalato da flash e telecamere, il sistema è quello. E giustamente il quotidiano “Il tempo”, cui la nuova direzione a cura di Gian Marco Chiocci sta dando una connotazione estremamente garantista, anche oggi azzecca il cavallo su cui puntare: quei vip che, dall’epoca di Walter Chiari, Lelio Luttazzi, Mario Schifano e Franco Califano, vengono periodicamente sbattuti in carcere, alcuni di loro magari per via della loro tossicodipendenza, sono una scorciatoia sicura per fare carriera. E ha ragione Valerio Spigarelli, presidente dell’Unione delle camere penali italiane, a indicare, sempre oggi in un editoriale in prima pagina sul giornale romano in questione, il vero guaio di questo cortocircuito: la mancata separazione delle carriere tra chi accusa e chi giudica. Cosa che ha determinato nei decenni una sorta di colleganza omertosa tra le toghe che molto difficilmente si smentiscono a vicenda. Specie a livello di fase della custodia cautelare che molto raramente un gip nega a un pm. Ma il problema della mancata separazione delle carriere si riverbera anche sul primo grado di giudizio, specie quando si tratta di un giudizio abbreviato davanti al gup, o di materie che per competenza richiedono il giudice unico. “Il Tempo” ieri ha rievocato, in coda al caso Tortora che fu quello più eclatante in cui un’inchiesta modesta e scalcinata veniva per così dire “sponsorizzata” grazie al nome eccellente, la storia tragica di Lelio Luttazzi, che si fece 27 giorni di carcere telefonando senza saperlo al pusher dell’epoca di Walter Chiari, che aveva in pratica “usato” l’amico da tramite senza avvertirlo. Era poi una storia modestissima di consumo di cocaina da parte di Chiari, ma i pm dell’epoca si fecero belli con questi due trofei vip. Più recentemente tutti ricorderanno l’inchiesta sballata su Vallettopoli, in cui vennero arrestati prima e poi assolti, Gigi Sabani e Valerio Merola, esposti al pubblico ludibrio con epiteti come “il merolone”, come presunti organizzatori di un giro di squillo per vip. La vicenda in quel caso sprofondò nel grottesco quando sui rotocalchi venne fuori che il pm Chionna si stava per sposare con una delle testi coinvolte nella storia di prostituzione di alto bordo. E’ appena il caso di ricordare che tra i dodici referendum proposti in questi giorni dai radicali e da Marco Pannella, quello sulla separazione delle carriere e quello per ripristinare la responsabilità civile personale del magistrato che sbaglia per colpa grave, sono tra i più gettonati.
Da Luttazzi a Sabani Come rovinare vita e carriera a un vip.
È il padre di tutti gli errori giudiziari. Non è il primo in ordine di tempo che ha coinvolto un personaggio famoso, un volto noto del piccolo schermo, un vip insomma. Ma è emblematico, come si dice,...scrive “Il Tempo”. È il padre di tutti gli errori giudiziari. Non è il primo in ordine di tempo che ha coinvolto un personaggio famoso, un volto noto del piccolo schermo, un vip insomma. Ma è emblematico, come si dice, per l’immensa gravità dello «svarione» e la totale lontananza della vittima dai reati contestati. È il «caso Tortora». Il «re di Portobello» fu condannato senza prove come spacciatore e sodale di Cutolo. Giorgio Bocca lo definì «il più grande esempio di macelleria giudiziaria all’ingrosso del nostro Paese». Enzo, un elegante signore borghese di opinioni liberali, viene arrestato il 17 giugno 1983 all’hotel Plaza di via del Corso. Lo immortalano in manette, il volto stanco per la notte in bianco, all’uscita della caserma dei carabinieri. Ad accusarlo è il fior fiore della camorra: il pluriomicida Giovanni Pandico, Pasquale Barra, detto «’O ’animale», 67 assassinii sulle spalle, e Gianni Melluso, «il bello». Quest’ultimo è l’unico che, nel 2010, si scusa con la famiglia: «Mi inginocchio davanti alle figlie», dichiara all’Espresso. «Resti pure in piedi», replica Gaia, la terzogenita. Tortora è condannato a 10 anni. Sconta sette mesi in cella e un anno e mezzo circa ai domiciliari. Prima del verdetto diventa eurodeputato. Ma si dimette, rinuncia all’immunità e torna in Italia per farsi arrestare, pur continuando a proclamarsi innocente. Il 15 settembre 1986 è assolto in appello. La Cassazione conferma. Ma la sua richiesta di risarcimento danni (100 milioni) viene rigettata. Il 18 maggio 1988 Tortora muore per un cancro. Nessuno dei camorristi che aveva puntato l’indice contro di lui è indagato per calunnia e Pandico, dal 2012, è un libero cittadino. Prima era stata la volta di Lelio Luttazzi. Nel giugno del ’70 il conduttore, 46 anni e all’apice del successo, viene arrestato con Walter Chiari per spaccio di droga. Tutto a causa dell’intercettazione di una telefonata in cui si era limitato a girare a uno sconosciuto, che si rivelò poi uno spacciatore, un messaggio di Chiari. Dopo 27 giorni in cella viene rilasciato, la sua posizione processuale stralciata. Tornò in radio nel ’71 con «Hit parade», ma la sua vita fu devastata da quest’esperienza. Vi ricordate i mondiali dell’82? Come dimenticarli. Il medico della Nazionale era Leonardo Vecchiet, triestino, «classe 1933». L’8 aprile 1994, dodici anni dopo il trionfo degli azzurri, è arrestato a Napoli. Duilio Poggiolini (il re Mida al contrario della Sanità) lo accusa di aver intascato una tangente di 50 milioni (di lire) dal presidente della Sigma-Tau per favorire un prodotto farmaceutico, la carnetina. Ci vuole un decennio perché la decima sezione penale del tribunale di Roma, su richiesta del pm, lo riconosca innocente: il fatto non sussiste. «Questa vicenda mi ha distrutto. Sono stati dieci anni terribili», dirà nel 2004 Vecchiet, scomparso nel febbraio 2007. Il drammatico elenco continua. Che dire dell’avventura giudiziaria di Serena Grandi? Nel 2003 l’attrice, all’anagrafe Serena Faggioli, protagonista nel fim erotico «Miranda» di Tinto Brass e che nel ’90 recitò anche al fianco di Alberto Sordi, finisce ai domiciliari per quasi sei mesi. È coinvolta in un’inchiesta su un giro di droga e prostituzione. «Mi hanno rovinato la vita e annientato la carriera - dirà la rubiconda attrice - Questa storia mi ha messo una depressione terribile, ho passato mesi a letto». La sua posizione è archiviata nel marzo 2009. Il suo legale, Valerio Spigarelli, chiede 500 mila euro di risarcimento. Nel giugno 2011 la Grandi ne ottiene 60 mila. E ancora: Gioia Scola negli anni ’90 è un’attrice bellissima che cerca di farsi strada nel cinema e nella tv. In «Yuppies 2» interpreta la parte della bruna fatale. Ma non ha fatto i conti con i verbali di un «pentito», Mario Fienga, che racconta ai pm di Napoli storie di camorra e di cocaina. «Mi arrestarono il 7 giugno del ’95 – ricorda – Mi contestavano di essere la mente di un traffico internazionale di stupefacenti fra Brasile e Italia». Di vero c’è solo che Gioia è stata a Rio de Janeiro, nel ’92, per un intervento di chirurgia estetica nella clinica di Ivo Pitanguy, e lì ha un flirt con Vincenzo Buondonno, poi arrestato perché considerato un trafficante di alto livello. Sempre negli Anni ’90 esplode la vicenda cosiddetta «merolone», che travolge diversi nomi della tv, tra cui il presentatore Gigi Sabani e Valerio Merola. Sabani è accusato di induzione alla prostituzione nei confronti di Raffaella Zardo e Patrizia De Angelis e il 18 giugno 1996 viene messo ai domiciliari per 13 giorni. «Liberato» il primo luglio, il 13 febbraio del ’97 si chiede l’archiviazione dell’inchiesta nei confronti suoi e di Merola. La Corte d’Appello «concede» 24 milioni di risarcimento. Il sostituto procuratore di Biella che lo aveva accusato, Alessandro Chionna, il 10 maggio 1997 sposa a Roma la sua ex-teste nell’inchiesta, Anita Ceccariglia, che per quattro anni era stata la compagna di Gigi, stroncato da un infarto nel settembre di dieci anni dopo.
GLI INNOCENTI? PARLIAMONE....
Ecco gli innocenti finiti in cella per uno sbaglio. Mettete da parte per un attimo il «fattore B». Dimenticate i guai di Silvio e concentratevi sul problema vero della giustizia, che riguarda tutti noi, cittadini del Belpaese e potenziali vittime di... , scrive “Il Tempo”. Mettete da parte per un attimo il «fattore B». Dimenticate i guai di Silvio e concentratevi sul problema vero della giustizia, che riguarda tutti noi, cittadini del Belpaese e potenziali vittime di un «errore» che può trascinarci in un’aula di tribunale e poi dietro le sbarre di una cella. Prima del processo e senza aver fatto quello di cui siamo accusati. Ecco i numeri della vergogna, rimasti segreti per vent’anni e di cui siamo entrati in possesso insieme con il sito www.errorigiudiziari.com, il primo archivio italiano sull’ingiusta detenzione. Dal 1989, con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale, a oggi, circa 25 mila italiani (e non) sono stati incarcerati ingiustamente. Per rimborsarli lo Stato ha pagato 550 milioni di euro. Se a questi aggiungiamo altri 30 per errori giudiziari, arriviamo a quasi 600 milioni. Cento abbondanti in più di quanto stanziato giorni fa dal Governo con il «decreto del Fare» per rendere più sicuri i 43mila plessi scolastici italiani e costruirne di nuovi. Non solo. Bisogna aggiungere le persone alle quali la richiesta di riparazione è stata negata, a volte per un cavillo. Eurispes e Unione Camere Penali parlano di una media di 2500 domande all’anno di risarcimento per ingiusta detenzione e sottolineano che appena un terzo (800) sono state accolte. Quindi possiamo stimare che da 25.000 casi si arrivi a circa 50.000. Immaginate lo stadio Olimpico: gli innocenti finiti dietro le sbarre ne riempirebbero oltre la metà. Ma non è un fenomeno degli ultimi 22 anni. Accadeva anche prima e non c’era la legge sulla riparazione di ingiuste carcerazioni (galera preventiva) ed errori giudiziari (sentenza sbagliata). Per il Censis durante la storia repubblicana quattro milioni di persone sono state coinvolte in inchieste e sono risultate innocenti. E i giudici raramente hanno pagato. Dall’entrata in vigore della legge Vassalli (1988), che regolamenta la loro responsabilità civile, le cause contro le toghe sono state 406. Solo 4 concluse con una condanna, meno di una su 100. Le vittime sono sconosciuti e vip, uomini politici e tutori dell’ordine, medici e impiegati, liberi professionisti e, naturalmente, anche magistrati. Vi racconteremo le loro storie, le sofferenze patite, dalla perdita del lavoro a quella dell’immagine, nel caso di personaggi pubblici. Dopo, a poco servono le smentite e le rettifiche. E perfino i risarcimenti. Perché non è solo una questione di denaro. Quello che resta delle loro esistenze, famiglie, rapporti di amicizia e professionali sono macerie, rovine sulle quali è difficile, a volte impossibile, ricostruire. Vite bruciate. Per uno sbaglio.
50.000 VITTIME.
Gezim Muca finisce in manette nel 1996 per sequestro di persona; trascorre 210 giorni di carcere: la Corte d'appello gli riconosce 120 milioni di risarcimento. Arben Kola, 1996, viene arrestato con..., scrive “Il Tempo”. Gezim Muca finisce in manette nel 1996 per sequestro di persona; trascorre 210 giorni di carcere: la Corte d'appello gli riconosce 120 milioni di risarcimento . Arben Kola , 1996, viene arrestato con l'accusa di sequestro di persona; resta 210 giorni di carcere: riceverà dallo Stato 120 milioni di lire di risarcimento. Dritain Peculi , 1996, sempre per sequestro di persona e sempre con una detenzione che arriva a 210 giorni di carcere, ottiene un assegno di 120 milioni di lire. Ardian Buzzani , 1999, lo fermano per prostituzione; trascorre 21 giorni in un penitenziario: il risarcimento per ingiusta detenzione ammonta a 12 milioni di lire. Anna Iacono , 1992, è indagata per associazione camorristica; in galera ci rimane 270 giorni, l'indennizzo è di appena 12 milioni. Roberto Salmoiraghi , 2006, viene accusato di corruzione dai pm; assolto, ottiene 11mila euro di risarcimento. Gino Protto , 1994, indagato per falso e truffa, sconta 14 giorni di carcere preventivo a fronte dei quali ottiene 11mila euro di risarcimento. Enzo Sindoni , 2012, deve rispondere di truffa: per 22 giorni di carcere, gli riconoscono appena 11mila euro. Gianluigi Centofanti , 2002, finisce dentro per omicidio preterintenzionale; ci resta 120 giorni e alla fine lo Stato lo rimborsa con 112mila euro. Norberto Molini , 1999, è accusato di spaccio di droga; sconta 180 giorni di carcere e viene rimborsato, dalla Corte d'appello, con un assegno da 110mila euro. Klaus Rainer , 1999, viene anche lui sottoposto a fermo per droga; il gip lo lascia 180 giornicarc di ere: alla fine, otterrà 110mila euro. Salvatore Pangallo , 1999, per i pm è un picciotto, un uomo d'onore: per 479 giorni di carcere, viene liquidato con 110mila euro. Karl Schweigkofler , 1999, lo mettono sott'inchiesta per droga; passa 160 giorni in stato di detenzione, alla fine, l'assegno è di 110mila euro. Francesco Adesso , 2013, è accusato di violenza; la sua detenzione dura 17 giorni, a fronte dei quali ottiene 10mila euro come "scuse" da parte dello Stato italiano. Claudio Pedicone , 2002, viene indagato per sfruttamento della prostituzione; accusa che gli costa 90 giorni di carcere e che lo Stato quantifica in appena 10mila euro di indennizzo. Luca Delli , 2002, è indagato per reati da paura: omicidio e soppressione di cadavere; si fa 38 giorni di carcere e si ritrova, dopo l'assoluzione, senza scusa e con una "mancia" da 10mila euro. Salvatore Cacace , 2004, lo ritengono colpevole di tentata violenza sessuale; 27 giorni di detenzione valgono 10mila euro. Walter Di Clemente , 2012, finisce in un fascicolo giudiziario per droga con un "soggiorno" detentivo di 12 giorni che vale 10mila euro tondi tondi. Daniele Perrucci , 2012, trascorre 2 giorni di carcere per l'accusa di omicidio, per lui, l'assegno sarà di 10mila euro. Z.C., 1999, un bel giorno si scopre mafioso: trascorre 365 giorni di carcere: dopo la sentenza di assoluzione, passa all'incasso dei 107mila euro di indennizzo. Sergio Marcello Gregorat , 1996, finisce nei guai con l'accusa di violenza sessuale; tutto falso, otterrà 100mila euro di "buonauscita". Ben Mansour , 2002, lo mettono in galera per terrorismo; dopo 540 giorni di custodia cautelare, ritirerà l'assegno firmato dal ministero del Tesoro: 100mila euro. Così il suo presunto complice, Mohamed Ikbal , 2003, anche lui accusato di terrorismo e anche lui per 540 giorni ospite delle patrie galere: il risarcimento è lo stesso, 100mila euro. Ottavio Zirilli , 2003, è indagato per corruzione; la custodia cautelare si ferma a 80 giorni per 100mila euro di indennizzo per ingiusta detenzione. Pino Torielli , 1993, lo ritengono addirittura un omicida; il suo incubo dura 131 giorni di carcere: il ministero gli riconoscere 100 milioni di lire di indennizzo. Giovanni Martelli , 1993, accusato di spaccio di droga, trascorre 165 giorni di detenzione preventiva: alla fine del processo in Cassazione, chiederà e otterrà 100 milioni di lire. Clelio Darida , 1993, finito nel mirino dei pm con l'accusa di corruzione, trascorre 54 giorni in custodia cautelare: i magistrati gli riconoscono il danno subito e lo liquidano in 100 milioni di lire. Altin Leka , 1997, è sottoposto a fermo con l'accusa di rapina; viene privato della libertà per 450 giorni: il risarcimento è di 100 milioni di lire. Vincenzo Deaglio , 1992, per il reato di abuso ufficio trascorre 25 giorni in stato di detenzione: l'indennizzo? Quasi da ridere: 10 milioni di lire. Ottavio Berardo , 1993, è indagato per rapina; così, trascorre 90 giorni in regime di custodia cautelare: l'errore della giustizia vale, per lui, 10 milioni di lire. Donato Ricci , 1994, viene travolto da una storia di tangenti e passa 7 giorni in carcere: i giudici gli riconosceranno 10 milioni di lire di indennizzo. Vincenzo Campana , 1994, trascorre 75 giorni di custodia cautelare per omicidio: 10 milioni di lire. Dario Ruggiero , 1994, è considerato un armiere dai pm, che lo spediscono 4 giorni in carcere; ricostruzione errata, risarcimento tocca quota 10 milioni di lire. Maurizio Corleone , 1994, è accusato di tentata estorsione; la misura cautelare sfonda il tetto dei 100 giorni (107 in realtà) ma per i giudici sono sufficienti 10 milioni di lire per ristorarlo. Leonard Zaimi , 1999, per i pubblici ministeri sarebbe uno dei capi di un giro di prostituzione; gli fanno fare 76 giorni di carcere, ma poi davanti all'assoluzione, il ministero dell'Economia gli deve 10 milioni di lire di risarcimento. Rudi Poli , 1999, secondo i magistrati, sarebbe un camorrista: le assoluzioni a raffica non gli fanno ottenere più di 10 milioni di lire. Francesco Sossi , 1992, deve rispondere di traffico di armi e ricettazione; 4 giorni di carcere gli "fruttano" 1 milione di lire. Vito Sacconi , 1992, viene ritenuto colpevole di truffa ed estorsione, e per questo sottoposto a una misura cautelare che dura 80 giorni, il risarcimento è tra i più alti mai pagati dal ministero del Tesoro: 1 miliardo di lire. Nicola Siccardi , 2003, finisce sott'inchiesta per corruzione; scattano le manette e una detenzione lunga 180 giorni: sarà risarcito. Naim Stafa , 1998, si ritrova davanti al giudice per violenza sessuale; in totale, trascorre 720 giorni di detenzione: sarà assolto e risarcito. Ines Pagnozzi , 2000, è processata per appartenenza a un clan di camorra; 91 giorni di detenzione, ottiene il risarcimento dopo l'ennesima assoluzione. Terenzio Mué , 2002, deve rispondere di ricettazione, corruzione e truffa; la detenzione è assai lunga: 900 giorni: anche lui, otterrà l'assegno firmato dal ministero del Tesoro. Turi Lombardo , 1994, lo mettono ai ceppi per corruzione e lo lasciano in custodia cautelare per 130 giorni: 210mila euro è l'entità del risarcimento che riesce ad ottenere. Adriana Iacob , 2013, passa 900 giorni di detenzione per l'accusa di omicidio: l'assegno porta questa cifra: 210mila euro. Anastasia Montanariello , 2000, finisce sott'inchiesta per corruzione di minori; sopporta la custodia cautelare, e alla fine le riconoscono 20mila euro; Calogero Giordano , 2004, è imputato per turbativa d'asta, passa 180 giorni di detenzione, e alla fine incassa 20mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione. Gheorghe Florin , 2007, per l'accusa di violenza sessuale "soggiorna" 90 giorni in regime di custodia cautelare: otterrà solo 20mila euro. Donato Privitell i, 2012, sarebbe secondo i pm un corriere della droga: il gip lo lascia 101 giorni in custodia cautelare, salvo poi essere assolto e risarcito con 20mila euro per ingiusta detenzione. Vincenzo Fragapane , 2012, i giudici sono convinti che faccia parte della mafia siciliana: "dona" alla malagiustizia 500 giorni della sua vita, e la magistratura gli restituisce 204mila euro. Antonio Gava , 1993, è l'unico ex ministro dell'Interno finito in un'inchiesta per associazione camorristica: 180 giorni di detenzione domiciliare: assolto, e risarcito da quello stesso Stato che aveva rappresentato per tanti anni con un assegno da 200mila euro, Vincenzo Guarneri , 2004, lo tirano in ballo per una storiaccia di mafia; 780 giorni di detenzione non sono facili da smaltire, ma per i magistrati un assegno da 200mila euro può andar più che bene. Roberto Giannoni , 1992, anche lui è indagato per mafia; la sua detenzione cautelare dura giusto la metà: 365 giorni ma ottiene 200 milioni di lire. Piero Pizzi , 1993, agli occhi dei sostituti procuratori che lo ammanettano sarebbe un tangentista: gli unici soldi che incassa, invece, sono i 200 milioni di lire di risarcimento danni, dopo le assoluzioni. Adriatik Goga , 1994, è indagato per droga e un bel po' di reati minori: la custodia cautelare arriva a 440 giorni ma il risarcimento per ingiusta detenzione si ferma a 200 milioni di lire. Salvatore Giambrone , 1993, finisce in galera in un’inchiesta assai complessa: assai facile, invece, è la procedura per ottenere il risarcimento che tocca 20 milioni di lire. Filippo Portaro , 1995, droga, 27 milioni di lire; Filippo Portaro , 1999, droga, 1020 giorni di detenzione, 52 milioni di lire;
Claudio Sanna, 1991, per i pm che gli mettono i ceppi ai polsi è un trafficante di droga; per questo, resta 130 giorni in stato di fermo: risarcimento? Appena 3 milioni di lire. Anche Fausto Giunta,...continua “Il Tempo”. Claudio Sanna , 1991, per i pm che gli mettono i ceppi ai polsi è un trafficante di droga; per questo, resta 130 giorni in stato di fermo: risarcimento? Appena 3 milioni di lire. Anche Fausto Giunta , 1993, accusato di corruzione, ottiene 3 milioni di lire di risarcimento. Daniele De Santis , 1994, per danneggiamento, passa 50 giorni di custodia cautelare, ma il suo risarcimento si ferma anche per lui a 3 milioni. Domenico Di Domenico , 2011, viene arrestato per guida in stato di ebbrezza; trascorre 10 ore in una camera di sicurezza e ottiene 2mila euro. L’ex manager di Stato Vito Gamberale , 1993, finisce in manette per concorso in tentata concussione; dopo 126 giorni di detenzione, ottiene 290 milioni di lire. Francesco Nangano , 1995, per mafia trascorre la “bellezza” (per modo di dire) di 1740 giorni di custodia cautelare: ottiene 270mila euro di risarcimento. Antonio Turia no , 1992, è accusato anche lui di mafia; 240 di detenzione e 27 milioni di lire di “buonauscita”. Salvatore Muroni , 2012, sotto processo per violenza sessuale, dopo 121 giorni di detenzione, ottiene 26mila euro. Domenico Frustagli , 1991, è sott’inchiesta per mafia; 13 giorni di detenzione, 26 milioni di lire di risarcimento. Antonio Commoda ri , 1991, è pure lui indagato per mafia, ma nel suo caso la custodia cautelare dura soltanto 13 giorni; ottiene, 26 milioni di lire. Il prefetto Ennio Blasco , 2001, viene ingiustamente arrestato per truffa e abuso d'ufficio; 16 giorni di detenzione domiciliare e appena 25mila euro per una carriera distrutta. Bortolo Mainardi , 1995, sott’inchiesta per estorsione e concussione; passa 18 giorni di custodia cautelare, ottiene in cambio 25mila euro di risarcimento. Paolo Garbano, 1998, per rapina, passa un solo (orribile) giorno di detenzione; gli riconoscono i giudici un indennizzo di 2500 euro. Nicolò Nicolosi , 1993, è accusato di voto di scambio, 63 giorni di detenzione e 250 milioni di lire. Bruno De Santis, 1991, viene ingiustamente arrestato per omicidio e, dopo 310 giorni di detenzione, rimborsato con 25 milioni di lire. Mario Mirko Barison , 1996, è colpevole di rapina secondo i giudici, che lo lasciano in arresto per 48 giorni, salvo poi rimborsarlo con 25 milioni di lire. Adrian Florian , 2007, è imputato per violenza sessuale; 90 giorni di custodia cautelare e 24mila euro di risarcimento. Edmondo Arapi , 2012, è coinvolto in un fascicolo per omicidio, e l’arresto ingiusto che ne consegue viene indennizzato con appena 24mila euro. Remo Molteni , 1993, sarebbe un traf ficante di droga secondo il capo di imputazione; dopo 164 giorni di detenzione, ottiene 24 milioni di lire. Gigi Sabani , 1995, viene arrestato per truffa e induzione alla prostituzione, passa 13 giorni di custodia cautelare: una carriera polverizzata “ripagata” con 24 milioni di lire. Duran Castillo , 2013, finisce in manette nove giorni per droga: indennizzo deciso dai giudizi? Appena 2250 euro. Valentino Tavolazzi , 1995, è per i pm il cervello di un giro di tangenti; 25 giorni di custodia cautelare e 22 milioni di lire di risarcimento. Antonio Cimino , 1994, per corruzione, passa in stato di arresto un bel po’ di tempo: l’assegno per ingiusta detenzione è di 21mila euro. Tanti quanti ne prende Emanuele Zanoncini , 2008, accusato di rapina che trascorre 120 giorni di detenzione. Angelo Ugoni ; 2007; è accusato di corruzione in atti giudiziari; passa 78 giorni in stato di detenzione; 50mila euro è il risarcimento che il suo avvocato riesce a ottenere dalla Corte d'appello. Antonio Di Nicola , 2011, viene ammanettato nell'ambito di una maxi-operazione per droga; resta quasi un anno in stato di fermo (210 giorni di detenzione) e ottiene, anche lui, 50mila euro. Gianfranco Callisti , 2013, viene anche lui indagato per reati legati al mondo della droga; i giorni di detenzione, nel suo caso, sono addirittura maggiori: 270, ma identico l'indennizzo liquidato dal ministero del Tesoro: 50mila euro. Serafino Generoso , 1992, è imputato per tentata concussione; per i 10 giorni trascorsi in stato di detenzione, ottiene 50 milioni di lire. Luigi Petrini, 1993, si ritrova al centro di un maxi-scandalo con ricatti e tangenti; trascorre 13 giorni di detenzione, e alla fine lo Stato lo "rimborsa" con 50 milioni di lire; Stefano Pala , 1993, accusato di rapina, passa 50 giorni di detenzione; la Corte d'appello lo "ripaga" con un rimborso di un milione al giorno: in totale, 50 milioni di lire. Ettore Scarfò, 1993, finisce in manette addirittura per omicidio; i giorni di detenzione sono 368 a fronte di un indennizzo di 50 milioni di lire. Giovanni Franzoso , 1994, finisce sott'inchiesta per falso in bilancio; dopo 6 giorni di detenzione, si ritrova tra le mani un assegno da 50 milioni di lire. Stessa cifra che arriva anche a Piero Bava , 1994, accusato ingiustamente di falso in bilancio e detenuto per 6 giorni. Carmelo Nista , 1994, processato e assolto per omicidio, viene liquidato con 50 milioni di lire. Anche Baldassarre Furnari , 1994, arrestato ingiustamente con l'accusa di concussione e "ospite" per 20 giorni dello Stato, ottiene la stessa cifra. Kuze Radulovic , 1992, 32 per giorni di detenzione, incassa la miseria di 5 milioni di lire. Così Giovanni Andreoni , 1993, trascinato in una storiaccia di reati contro la Pubblica amministrazione con appendice di 14 giorni di detenzione. E così anche Giuseppe Iannone , 1995, accusato di essere un usuraio; 30 giorni di detenzione, e 5 milioni di lire di risarcimento. Elsa Caroli , 2012, trascorre 14 giorni di detenzione con l'accusa (rivelatasi infondata) di associazione sovversiva; 4mila euro appena l'indennizzo. A Joy Idugbor , 2012, arrestato in un'indagine per riduzione in schiavitù, dopo 180 giorni di detenzione e assoluzioni a raffica, vanno 48mila euro. A Gianni Mastarone , 1996, accusato di omicidio, dopo 210 giorni di detenzione, vanno 47 milioni di lire. Giuseppe Pecorilli , 1999, viene arrestato per violenza sessuale; per 180 giorni di detenzione, 45mila euro. Carlo Iacovelli , 2010, messo sott'inchiesta per corruzione e abuso d'ufficio, dopo 90 giorni di detenzione, gli vengono riconosciuti 45mila euro. Adnan Peculi , 1996, accusato di sequestro di persona, dopo 60 giorni di detenzione, ottiene 45 milioni di lire. Francesco Lauria , 1996, finisce coi ceppi ai polsi per omicidio per 210 giorni: l'assegno? Appena 45 milioni di lire. Mohamed Hamzaoui, 2002, arrestato per droga, dopo 190 giorni di detenzione incassa 44mila euro. Vincenzo Federico , 1999, accusato di traffico di droga, dopo 240 giorni di detenzione, si ritrova con un assegno di appena 42mila euro. Hassan Issa , 2011, anche lui ammanettato con l'accusa di traffico di droga, per 150 giorni di detenzione, ottiene 42mila euro. Franco Moceri , 2013, arrestato sempre per droga, per 180 giorni di detenzione, ottiene un riconoscimento per ingiusta detenzione di 41mila euro. Vincenzo Daglio , 1992, sott'inchiesta per abuso d'ufficio, trascorre una custodia cautelare di 10 giorni in "cambio" di un indennizzo di 10 milioni di lire. Giuseppe Andronico , 2001, viene messo sotto processo per omicidio, dopo 1000 giorni di detenzione, ottiene un risarcimento pari a 150mila euro. Gianfranco Crenna , 1983, accusato ingiustamente di corruzione, dopo 11 giorni di detenzione, viene indennizzato con 15 milioni di lire. Ernesto Cavallero , 1983, anche lui indagato per corruzione, dopo una detenzione lunga 11 giorni, riceve la stessa cifra: 15 milioni di lire. Vita La Mari , 1993, mafia, per 480 giorni di detenzione, incassa 32 milioni di lire. Samuel Balou , 2006, accusato di violenza sessuale, passa 163 giorni in stato di fermo; la Corte d’appello non va oltre un indennizzo da 5810 euro. A Franco Covello , 1996, coinvolto in un processo per tangenti, dopo una detenzione carcere/domiciliari lunga, in totale, 285 giorni, vanno 100 milioni di lire.
HANNO CHIESTO IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE.
Leke Prebibaj, 730 giorni in cella, Salvatore Natalino, 93 giorni, Emanuele M., 368, Giuseppe Valentini, 870, Giuseppe Gulotta, 7.920, Davide Matzeu, 26, Samuel Gino Apogeo, 26, Samuel Caforio, ergastolo (in attesa revisione processo), Giovanni Pedone, 2.520, Francesco Aiello, 2.520, Cosimo Bello, 2.520, Salvatore Donadei, 12, Yili Muca, 15, Mario Stracqualursi, 58, Carmine Torella, 10, Mauro Scatolini, due giorni, Abdelhamid Chaar, 17, F. G., 13, N. T., 13, Settimio Passalaqua, Paolino Di Marco, Fabrizio Barone, 21, Renato Bertozzi, 180, Giuseppe Acciaro, 1.440, Egidio Rangone, cinque giorni, Mario La Mari, 1.825, Flavia Verardi Pignanelli, 28, Florenc Seferi, 1.260, Sergio Ferrandino, dieci giorni, Maria Carella, dieci giorni, Giovanni De Luise, 2.920 giorni in carcere.
«Sei anni in isolamento e nessun risarcimento».
Il telefono gracchia. La voce va e viene. Giulio Petrilli è a Belgrado per un lavoro. «Ogni tanto torno in Italia», spiega. Ma, dal tono, sembra che stia meglio in Serbia. Qui, nel suo Paese, gli..., continua “Il Tempo”. Il telefono gracchia. La voce va e viene. Giulio Petrilli è a Belgrado per un lavoro. «Ogni tanto torno in Italia», spiega. Ma, dal tono, sembra che stia meglio in Serbia. Qui, nel suo Paese, gli hanno rubato sei anni di vita e poi, dopo aver riconosciuto tardivamente l’errore, si sono rifiutati di risarcirlo. Il danno e la beffa. Per un cavillo, il primo comma dell’articolo 314 del codice di procedura penale, che dà ai giudici il potere di decidere se il rimborso va concesso o no. Petrilli fu arrestato il 23 dicembre 1980. L’accusa era pesante: banda armata. I pm sostenevano che era coinvolto nell’organizzazione terroristica Prima Linea. Lui all’epoca era uno studente ventunenne della facoltà di Lettere all’Aquila. In primo grado fu condannato. A otto anni. Ne ha scontati sei, in regime speciale: un’ora d’aria e 23 in cella. Poi, in appello, è stato assolto. La sentenza venne confermata in Cassazione. E Giulio nel maggio dell’86 tornò libero. Anche se la sua vita era ormai devastata. «Mi accusarono di partecipazione a banda armata con funzioni organizzative», ricorda. Un’accusa pesante, specialmente in quegli anni. Il pm chiese undici anni. La Corte ne «concesse» otto, trascorsi passando da un penitenziario all’altro in un regime peggiore dell’attuale 41-bis: isolamento totale e sessanta minuti soltanto all’aperto. «Il primo comma del 314 - sottolinea - prevede il rifiuto del risarcimento in caso di colpa grave o dolo. Ma, in realtà, basta una frequentazione sbagliata. Nel caso mio facevo politica e andavo all’università. È una cosa folle perché così il giudizio diventa arbitrario». In secondo grado, l’assoluzione. «Marco Donat Cattin mi scagionò e venni assolto - continua Petrilli - Allora avviai le pratiche per la riparazione da ingiusta detenzione». Il primo ostacolo fu il tempo. nel senso che i fatti risalivano a nove anni prima l’entrata in vigore del nuovo codice penale, che prevedeva i rimborsi per errori giudiziarie e ingiuste carcerazioni. «Per questo feci una battaglia che vinsi - spiega ancora Petrilli - Riuscimmo a far passare una legge nazionale che rendeva retroattivo il rimborso». Il secondo ostacolo venne rappresentato dal parere «discrezionale» dei magistrati. «La Corte d’appello di Milano e la Cassazione mi negarono il risarcimento per i sei anni che avevo passato dietro le sbarre. Non solo. Mi condannare anche a pagare le spese processuali». Il motivo? Semplice: dietro quelle definizioni di «colpa grave» e di «dolo» ci può essere di tutto. «Nel mio caso dissero che avevo tratto in inganno gli inquirenti frequentando persone di un certo tipo - precisa Petrilli - È una normativa assurda, che non esiste nel resto dell’Unione europea. E il 70 per cento delle domande vengono rigettate con questa motivazione, com’è accaduto per Calogero Mannino. Ma chi vive in quartieri particolari di Napoli o Palermo è normale che possa conoscere qualche pregiudicato. Che vuol dire?». Ora Petrilli ha presentato, tramite il suo legale Francesco Caterini, un ricorso alla Corte di Strasburgo. «Ma quel comma andrebbe abolito - conclude lui - Dà la possibilità ai giudici di decidere in base a un criterio morale, su chi frequenti. Ma se io sono stato assolto, perché non rispettano la sentenza e basta. E perché i magistrati non pagano mai?»
Galeotta fu la lettera «r». In cella 6 mesi senza colpa.
Il soprannome di Giancarlo era «Callo». Scambiato per il trafficante Carlo Elsa, barista considerata anarchica. Angelo, poliziotto arrestato per sbaglio, scrive Simone Di Meo su “Il Tempo”. Sei mesi in carcere, tre ai domiciliari e altrettanti in libertà vigilata. E tutto per colpa di una «r» che nelle intercettazioni storpia il suo soprannome «Callo» nel nome di un trafficante di droga, Carlo. Gianfranco Callisti, dieci anni dopo, ha ottenuto l'assoluzione, le scuse del Tribunale di Bari e 50mila euro. Lo ammanettarono alle 5,30 del mattino i carabinieri spacciandosi per vigili del fuoco. La sua sfortuna è stata conoscere uno degli indagati nella maxi-inchiesta «Operazione fiume». Ci ha parlato un paio di volte al telefono ed è finito nel tritacarne. A Bologna, Elsa Caroli, si ritrova in manette nel blitz contro i bombaroli anarco-insurrezionalisti senza un perché. Resta in galera due settimane. Lo Stato le riconosce un indennizzo di 4mila euro. Ma, nel frattempo, è stata licenziata. Franco Moceri si fa sei mesi per aver costruito un muro che, tempo dopo, sarà utilizzato come «protezione» per una piantagione di cannabis. Ha preso 41mila euro. Per una (inesistente) mazzetta di 50 milioni di lire un (realissimo) indennizzo della stessa cifra per Baldassarre Furnari. Il pover’uomo «soggiornò» dietro le sbarre per venti giorni dopo essere stato ingiustamente accusato di concussione da un imprenditore. E che dire dell’ex comandante della polizia provinciale di Lodi, Angelo Ugoni, oltre due mesi e mezzo in carcere per corruzione in atti giudiziari e abuso d’ufficio senza aver fatto nulla? È stato risarcito con 50mila euro. Ma la sua carriera è stata polverizzata.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
IL CSM ASSOLVE IL GIUDICE ROSSO CHE ANDAVA A CACCIA CON I BOSS.
Il Csm assolve il giudice rosso che andava a caccia con i boss.
Mancuso, ex capo della Procura antimafia di Napoli ed esponente di Md, salvato dal tribunale della categoria. Ignorate le intercettazioni in cui parlava con i camorristi, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Era il coordinatore della procura antimafia di Napoli, ma andava a caccia in Albania con camorristi e criminali. Anzi, uno di loro, Andrea Spiezia, fornisce nel 2004 il più granitico degli alibi ai carabinieri che sono piombati a casa sua dopo l'ennesimo omicidio fra i clan di Napoli: «Non sono stato io, io ero a caccia con il procuratore in Albania». Vero, Paolo Mancuso, allora a Napoli e oggi alla guida della procura di Nola, aveva una certa dimestichezza non con uno ma con ben tre soggetti legati o sospettati di appartenere alla malavita. Ma il 20 ottobre 2006 la sezione disciplinare del Csm, scioglie questo nodo increscioso, ai limiti dell'incredibile, e assolve Mancuso, pezzo grosso di Magistratura democratica in Campania, ai vertici del Dap, le carceri italiane, fra il luglio 97 e il luglio 2001, e gli restituisce la carriera e la possibilità di conquistare nuovi traguardi. Mancuso aveva addirittura vistato il provvedimento di cattura nei confronti di uno dei tre. Irrilevante, dicono i giudici del Csm, perché Mancuso ne firmava centinaia. Figurarsi se poteva ricordarsi tutto. È una vicenda surreale quella del magistrato napoletano per cui, secondo il Csm, non valgono nemmeno le intercettazioni telefoniche raccolte in un procedimento penale. No, non si possono «traslocare» dal penale al disciplinare le telefonate ascoltate dalla polizia. Sacrosanto. Peccato che lo stesso tribunale, con gli stessi membri, il 10 marzo del 2009, affermi l'esatto opposto: come no, le intercettazioni possono essere trasferite da un'inchiesta al procedimento disciplinare. E infatti sono le intercettazioni a fregare Vincenzo Barbieri, militante centrista di Unicost, ex dirigente del ministero della Giustizia, portato ai vertici di via Arenula da Roberto Castelli e confermato da Clemente Mastella, poi procuratore ad Avezzano. Due pesi e due misure? Le sentenze fanno a pugni come nemmeno in una finale mondiale di boxe. Però si resta a disagio a leggere quelle pagine. Mancuso ama la caccia e partecipa a battute fra la Puglia e l'Albania. Fra i suoi compagni di avventura ci sono anche alcuni personaggi non proprio immacolati: Stefano Marano, condannato per omicidio colposo, violazione dei sigilli, violazioni della legge urbanistica. Ma questo è niente rispetto ai sospetti degli investigatori che nel '96 l'hanno proposto per la sorveglianza speciale, ipotizzando una sua contiguità con i Licciardi: il procedimento non ha avuto seguito ed è stato archiviato, anche con l'intervento dello stesso Mancuso; poi c'è Andrea Spiezia, ricettatore, al centro di un'infinità di procedimenti, uno dei quali, per truffa, è passato tanto per cambiare per l'ufficio di Mancuso; e poi ancora c'è Giovanni Pellecchia, indagato per associazione a delinquere, truffa e falso, con iscrizione nel registro degli indagati all'epoca in cui Mancuso era coordinatore della Direzione distrettuale antimafia. Non è chiaro quando Mancuso abbia conosciuto i tre, o meglio ciascuno dei tre, pare abbia incrociato Spiezia solo una volta, ma la frequentazione complessiva va avanti per anni e anni. Quasi dieci. Fra la metà degli anni Novanta e il 2004. Mancuso va a caccia, nelle intercettazioni lo chiamano «Il bimbo», ma non si accorge di nulla. Nulla di nulla. Meglio di Sherlock Holmes. La procura lo intercetta con grande imbarazzo. Nulla. Finché si arriva al paradosso dei paradossi. Il 21 novembre 2004 si riaccende la faida di Scampia e muore Francesco Tortora. I carabinieri sono convinti che fra gli assassini ci sia Andrea Spiezia e vanno a casa sua sottoponendolo anche al prelievo stube. Ma lui ha un alibi inattaccabile. È appena arrivato dall'Albania, dove era a caccia con Mancuso e con un funzionario di polizia. Le indagini confermano e Spiezia viene scagionato. Però parte l'informativa. E si scopre che i personaggi poco raccomandabili con cui Mancuso è andati a caccia sono addirittura tre. Non ci sono risvolti penali. Mancuso non avrebbe alterato o forzato le indagini, anzi, a quanto pare, i camorristi gli davano al telefono del «voi» e non si sarebbero mai azzardati a chiedergli favori. Una bella consolazione per il Csm che liquida la pratica alla voce imprudenza. E trova il sistema per scagionare Mancuso da ogni accusa. È vero che aveva incrociato i colleghi di caccia nel loro percorso giudiziario, ma come si fa a ricordare tutto quando si vistano centinaia di provvedimenti? E poi le date non sono sincronizzate: come si fa a sapere se nel '96, quando Marano era stato proposto per la sorveglianza speciale, Mancuso l'avesse già incontrato con la doppietta in mano? Mistero. Insolubile. Mancuso per il Csm è inconsapevole. Un capo perfetto dell'ufficio che combatte la criminalità organizzata in una terra difficile come Napoli. Non c'è che dire. E le intercettazioni? Per la Disciplinare il legame era puramente venatorio, ma in ogni caso non si possono utilizzare. Devono restare confinate nel recinto del penale. Così per il procuratore aggiunto di Napoli, alto esponente di Magistratura democratica, vice di Giancarlo Caselli al Dap, oggi procuratore a Nola e in corsa, via Tar, per ottenere proprio la ben più importante procura di Napoli. Diversa la sorte di Vincenzo Barbieri, già dirigente al ministero della Giustizia e attivista di Unicost. Si mette nei guai chiedendo favori, segnalando amici e pratiche, insomma mettendo il naso dove non dovrebbe. Le intercettazioni questa volta possono essere utilizzate e travasate dal penale al disciplinare. Disco verde. Va giù pesante il tribunale disciplinare: «Le condotte addebitate all'incolpato sono proprio le numerose telefonate di raccomandazioni, sollecitazioni ed altro, effettuate a vario titolo con magistrati, cancellieri, ufficiali dei carabinieri, spesso avvalendosi delle linee telefoniche in sua dotazione e della particolare posizione di potere che gli derivava dall'essere direttore generale». L'esatto contrario di quanto affermato il 20 ottobre 2006 nel procedimento Mancuso: «Se quindi i risultati delle intercettazioni legittimamente disposte nell'ambito di un procedimento penale non possono essere utilizzati nell'ambito di altro procedimento penale... anche e a maggior ragione deve valere in una procedura diversa da quella penale ed in particolare in quella disciplinare». Due pesi e due misure: Mancuso assolto, Barbieri condannato alla sanzione della censura. Chissà quale delle due sentenze merita maggior rispetto.
Mancuso ha già provato a tutelare la sua immagine.
Con poco più di una pagina Rosalba Liso, gip del tribunale di Roma, ha archiviato la querela presentata nel novembre 2006 da Paolo Mancuso, oggi procuratore capo a Nola, contro il giornalista Roberto Paolo e il direttore responsabile del Roma Antonio Sasso, scrive Iustitia.it. All’origine della querela un articolo, pubblicato dal Roma il 21 ottobre 2006 e firmato dal redattore capo Roberto Paolo, centrato sulla decisione del Consiglio superiore della magistratura di archiviare l’azione disciplinare, per frequentazioni ‘discutibili’, avviata nei confronti di Mancuso, all’epoca procuratore aggiunto a Napoli. L’occhiello del servizio è: “Giustizia e Veleni / Il procuratore aggiunto napoletano ora ha la via spianata per diventare capo del Dap, il vertice delle carceri italiane”; il titolo: “Il Csm scagiona Mancuso”; il sommarione: “Un magistrato può andare a caccia con pregiudicati, imputati di camorra o persone indagate dal proprio ufficio: nessun illecito disciplinare”. Il gip di Roma, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Carlo Luberti, ha respinto l’opposizione all’archiviazione presentata dall’avvocato di Mancuso, Giuseppe Fusco. “Appaiono ravvisabili nel caso in esame – scrive il giudice Liso – i tre presupposti dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca indicati dalla giurisprudenza per la sua esistenza, cioè il pubblico interesse o meglio l’interesse diffuso, riscontrabile nell’attenzione che può suscitare la correttezza istituzionale di un magistrato, e la veridicità della notizia, poiché i soggetti con i quali il Mancuso era entrato in contatto erano di fatto indagati e nei cui confronti, sia pure limitandosi ad apporre un visto, costui aveva esercitato una supervisione ed un controllo nel corso delle indagini”. “Anche la continenza dell’espressione, nel caso in esame, rileva la correttezza di contenuto e forma, essendo state utilizzate nel riferire i fatti espressioni di per sé non offensive, né di particolare significato evocativo ed insinuante”. Del resto, annota il gip, “non può non rilevarsi come nella querela l’opponente (Mancuso, ndr) in realtà abbia lamentato solo e unicamente l’effetto lesivo della valutazione sottesa alla descrizione dei fatti offerta nell’articolo, mentre in realtà egli non ha mai contestato la veridicità degli eventi, nella sostanza fornendo una versione dei fatti non del tutto lontana da quella riportata nell’articolo”. Un’affermazione sulla quale è in totale disaccordo la difesa del procuratore Mancuso, che ha già presentato ricorso in Cassazione. Due i punti al centro delle nove pagine del ricorso firmate dall’avvocato Fusco: “l’inosservanza di norma processuale stabilita a pena di nullità”; “l’inosservanza ed erronea applicazione di legge penale”. Sul primo punto “la pacifica e non contestata ammissibilità dell’opposizione (all’archiviazione) – sostiene il legale di Mancuso – avrebbe imposto la fissazione della camera di consiglio anche perché non ricorrevano le condizioni per la pronuncia di un decreto de plano”. Più articolata e complessa l’analisi del secondo punto che parte da una premessa: “la capacità e potenzialità oggettivamente diffamatoria delle espressioni usate dal giornalista nell’articolo denunciato sono riconosciute come sussistenti dallo stesso pubblico ministero”. Nel servizio del Roma, osserva Fusco, “si afferma che Mancuso, non solo era frequentatore di ‘persone condannate per gravi reati’, ma che era addirittura andato a caccia "con pregiudicati imputati di camorra" e anche "con presunti fiancheggiatori del clan Di Lauro, indagati o condannati per gravi reati (fra essi Stefano Marano)" e frequentava persone indagate per camorra o condannate per droga, ricettazione e estorsione“. Ma, secondo l’avvocato del magistrato, sono affermazioni inesatte. “Dalla lettura del capo di incolpazione (al Consiglio superiore della magistratura) – puntualizza Fusco nel ricorso in Cassazione – risulta che Marano Stefano era stato più volte condannato ma ‘per plurime violazioni della legge urbanistica, per omicidio colposo, per violazioni dei sigilli’; era stato inoltre sottoposto a processo, conclusosi in primo grado con l’assoluzione per i delitti di cui agli articoli 416 bis, 640, 629 del codice penale (associazione camorristica, truffa e estorsione, ndr) e aveva subito altro procedimento per il delitto di cui all’articolo 416 bis definito con l’archiviazione”. E l’avvocato continua: “nessun riferimento vi è, invece, sempre nel capo di incolpazione a una vicenda, pur essa riferita nell’articolo, secondo la quale Mancuso in altre occasioni andò a caccia con un esponente di primo piano di un clan del foggiano, attualmente detenuto con l’accusa di omicidio”. Dal tribunale capitolino, quindi, è stato assegnato il primo round al Roma; per il secondo bisognerà attendere la decisione della Suprema corte. Poi tempi certamente lunghi per il giudizio civile promosso da Mancuso contro il Roma per una lunga serie di articoli chiusa proprio dal servizio dell’ottobre 2006 sulla decisione del Consiglio superiore della magistratura.
La vicenda inizia nel novembre 2004. Dopo gli omicidi di Francesco Tortora e Domenico Riccio, vittime della mattanza di Secondigliano, viene fermato Andrea Spiezia. Prima di essere sottoposto all' esame dello stub per accertare tracce di polvere da sparo l' uomo dichiara: «L' analisi sarà certamente positiva perché il 21 novembre, giorno dei delitti, ero a caccia in Albania». A quella battuta hanno partecipato anche Paolo Mancuso e un funzionario della questura. Non è l' unica. Più volte il magistrato, grande appassionato di attività venatoria, va a caccia con Stefano Marano, imprenditore molto conosciuto a Napoli. Marano ha il telefono sotto controllo perché in passato ha affittato una casa ad uno dei figli di Paolo Di Lauro, il boss di Secondigliano. Ha rapporti con alcuni esponenti della criminalità, viene sollecitato a chiedere notizie al magistrato. Effettivamente lo contatta più volte, ma durante le conversazioni non ottiene informazioni sulle inchieste. Poi, parlando con uno dei suoi interlocutori, Marano afferma: «Allora non hai capito che al telefono non bisogna parlare?». E' questa la frase che viene adesso contestata a Mancuso. Il sospetto dei magistrati romani è che sia stato proprio lui ad avvisare l' amico che l' utenza era intercettata. Una tesi che lascia aperti alcuni interrogativi. Se Mancuso era a conoscenza dell' indagine su Marano, come mai decise di continuare a frequentarlo, sia pur per condividere la passione per la caccia? Ad informare il procuratore aggiunto che il suo nome era comparso in alcune intercettazioni sarebbe stato un funzionario della polizia. E lui ne chiese conto ai colleghi titolari del fascicolo sull' attività del clan Di Lauro che poi hanno trasmesso gli atti a Roma. Se era già informato dei contenuti dell' inchiesta, che bisogno aveva di esporsi?
Questo basta? No!
Mancuso multato per caccia illegale a Foggia attirava quaglie con un registratore vietato, scrive “La Repubblica”. Lui la prende con sportività, tra l'imbarazzato e il divertito: «Lo ammetto, ho avuto la contravvenzione. Ma la contesterò». Il nome di Paolo Mancuso, procuratore aggiunto di Napoli, uno dei magistrati più in vista d'Italia, è in un rapporto inviato alla Procura di Foggia. Nei suoi confronti, infatti, le guardie forestali hanno comminato una sanzione penale per caccia irregolare. Niente di grave: Mancuso, cacciando insieme a due amici napoletani a Carapelle, in provincia di Foggia, nelle vicinanze del parco del Gargano, avrebbe utilizzato un registratore che attira le quaglie riproducendone il verso. La legge italiana ritiene che non è leale far fuori in questo modo i gustosi volatili che abbondano sulle colline pugliesi e ha vietato «l' utilizzo di richiami elettromagnetici ai fini dell'attività venatoria». Passi per le quaglie, ma la legge, hanno ricordato le guardie a Mancuso, vale davvero per tutti.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. GIOVANNI DE LUISE.
Per uno scambio di persona è stato arrestato ed ha trascorso 9 anni in carcere. L’uomo, un napoletano, racconta al TG1 della Rai il suo dramma dopo il clamoroso errore giudiziario.
«Io mi son sempre comportato bene. Sono educato. Sono sistemato. Non ho mai avuto problemi con la legge e poi mi capita una cosa di questa. Sì, abito a Scampia, ma mica può essere una colpa. Uno non può avere un lavoro, anzi io avevo un lavoro. Facevo il corriere, ma adesso non ho niente più». Non ha più niente Giovanni De Luise. La sua storia è quella di un terribile errore giudiziario. 31 anni. Gli ultimi nove li ha trascorsi in carcere: da innocente. E’ l’undici dicembre del 2004, nel pieno della faida di Secondigliano. Giovanni è all’obitorio, a Napoli. Gli hanno ucciso il fratello. Lì incontra una donna. Anche a lei hanno ucciso il fratello, Massimo Marino, cugino di un boss del clan degli scissionisti di Scampia. Quando vede Giovanni non ha dubbi.
«Ha continuato a dire che ero io ad aver sparato al fratello. Si credeva che io fossi il killer, “visto da quello che ho visto adesso gli somiglia molto”». Quella donna confonde Giovanni con Gennaro Puzzella del clan Di Lauro. Una somiglianza incredibile. Un calvario durato nove anni. A nulla sono servite le parole dei pentiti di camorra che lo scagionavano. Gli amici che hanno confermato di aver trascorso con lui quel pomeriggio di dicembre, vengono processati per falsa testimonianza. ERRARE E’ UMANO. PERSEVERARE E’ DIABOLICO. L'ingiustizia nell'ingiustizia e nell'omertà dei media che di questo non parlano. Gli anni passano e per Giovanni sembra non esserci speranze, finchè un giorno il vero assassino confessa. Giovanni è libero. Ora cerca di recuperare il tempo perduto. Solo tra qualche anno partirà il processo di risarcimento che potrà arrivare alla cifra massima di 500.000,00 euro.
«L’importante è che sono uscito a testa alta. Non ci sta una cifra che mi può risarcire quello che mi hanno dato».
14 settembre 2013. Hai voglia di dire che non c’entri, quando c’è un testimone oculare che ti accusa. È la vicenda umana e giudiziaria di Giovanni De Luise (classe 1981), vittima di un clamoroso errore di persona che gli è costato otto anni e otto mesi di cella senza un motivo. In pratica, De Luise ha bruciato gli anni più belli della sua vita nei carceri bunker, in alcuni casi anche in isolamento. Condannato a 22 anni di prigione come assassino, come killer di Massimo Marino l’11 dicembre del 2004, nel pieno della faida di Secondigliano, oggi è stato scarcerato grazie a un procedimento di revisione sostenuto dal suo legale Carlo Fabbozzo, su input della stessa Procura di Napoli. Poi il miracolo: un certo Gennaro Puzzella teme di essere stato scaricato dal suo clan, teme di essere ucciso, si pente, confessa. E racconta: «Sono io il killer di Massimo Marino, ma al mio posto è stato condannato De Luise un innocente, che sta in cella a scontare una condanna per un delitto che non ha commesso». Fine dell’incubo, De Luise è libero.
Faida di Scampia, riaperto caso del 2004: fu Cosimo Di Lauro a ordinare la morte di Massimo Marino, scrive “La Nottata”. Per l'agguato era già stato condannato Giovanni De Luise, ma secondo nuove indagini a sparare fu un killer che obbediva all'ordine di sterminare scissionisti e parenti dato da Cosimino. Ordinanza in carcere per entrambi. Per lo sbaglio di una testimone oculare e per l'errore degli inquirenti ad inquadrare la vicenda in una vendetta privata è stato condannato per omicidio un uomo, Giovanni De Luise, che non ha premuto il grilletto. La verità è venuta alla luce solo oggi, grazie alle rivelazioni di un pentito. I pm della Dda hanno ricostruito come l'agguato dell'11 dicembre 2004 a Massimo Marino, parente dell'esponente di vertice degli scissionisti Gennaro Marino detto Genny McKay (il cui fratello Gaetano è stato ucciso lo scorso 23 agosto a Terracina), sia maturato nell'ambito della strategia omicidiaria del boss Cosimo Di Lauro, raggiunto oggi in carcere da una nuova misura cautelare, e così anche l'esecutore del delitto. Al centro di questa intricata vicenda Giovanni De Luise, condannato con sentenza passata in giudicato per l'omicidio di Massimo Marino che vedrà ora rivalutata la sua posizione. Durante la faida di Scampia tra Di Lauro e Amato-Pagano, De Luise si era visto uccidere il fratello Antonio mentre faceva la vedetta e sorvegliava una delle piazze controllate dai Di Lauro. All'obitorio, quello stesso giorno, due ore dopo il corpo di Antonio De Luise arrivò la salma di un'altra vittima della faida, quella appunto di Massimo Marino. La sorella Cinzia credette di individuare il killer di Massimo proprio in Giovanni De Luise, che era all'obitorio per i suoi stessi motivi. Massimo Marino invece, hanno ricostruito gli investigatori, era stato assassinato da Gennaro Puzella, uno dei killer dei Di Lauro all'epoca, raggiunto anche lui oggi da un provvedimento restrittivo, proprio perché Cosimo di Lauro, successore del padre Paolo alla guida della cosca almeno fino al suo arresto il 21 gennaio 2005, aveva ordinato di sterminare comunque gli scissionisti e qualsiasi loro parente anche se estraneo al contesto criminale, come Massimo Marino, all'indomani del duplice omicidio di Fulvio Montanino e Claudio Salierno il 28 ottobre 2004 nella roccaforte dei Di Lauro, in via vicinale Cupa dell'arco, agguato che segna l'inizio della faida e in cui agì Gennaro Marino. Secondo le nuove indagini sull'omicidio di Massimo Marino, l'autore materiale dell'agguato, Gennaro Pulzella, colpì la vittima sporgendosi da un muro e ferendola mortalmente mentre si trovava nel cortile di casa. Fu un delitto, sottolinea una nota del procuratore aggiunto dei Napoli, Alessandro Pennasilico, "di pura natura ritorsiva, senza altro scopo se non quello di colpire comunque la famiglia Marino". Per quest'omicidio Cosimo Di Lauro non era mai stato indicato come mandante. Il gip di Napoli, invece, ha ribaltato la la causale dell'omicidio, rigettando l'ipotesi della vendetta privata attuata da Giovanni De Luise per l'assassinio del fratello Antonio ucciso mentre faceva il palo per i Di Lauro, per individuare il movente nella strategia del terrore di Cosimo Di Lauro volta all'annientamento degli scissionisti e dei loro parenti, anche se estranei al contesto criminale. Prova cardine del processo a carico di Giovanni De Luise era stata la testimonianza di Cinzia Marino, la quale, in circostanze del tutto casuali, mentre si trovava all'obitorio dove era stata portata la salma del fratello Massimo aveva ritenuto di riconoscere l'assassino proprio in De Luise, che si trovava anch'egli all'obitorio per rendere omaggio alla salma del fratello Antonio ucciso nello stesso giorno. Il gip definisce una "involontaria, erronea individuazione" quella della testimone oculare, che si trovava in una difficile condizione psicologica.
I pm ammettono l'errore: "Non è lui il killer". Ma De Luise resta in cella.
Condannato a ventidue anni, da sei è detenuto Eppure la stessa procura di Napoli ha chiesto la revisione del processo, scrive Giovanni Terzi su “Il Giornale”. Questa è una storia drammatica che parla di vicende legate alla criminalità organizzata, alla camorra, al traffico di stupefacenti e alle guerre tra faide a Napoli. Una storia che ha come sfondo il profilo peggiore di questa nostra Italia incorniciato nell'incantevole paesaggio partenopeo. Questa è anche la storia di un uomo, Giovanni De Luise difeso dall'avvocato Carlo Fabbozzo, prima accusato di essere l'omicida di Massimo Marino e poi scagionato dalla stessa procura della Repubblica di Napoli con i pubblici ministeri Lepore e Castaldi ma ancora oggi dopo otto anni in carcere a Lecce. La faida vedeva coinvolti alcuni clan camorristici facenti riferimento ai gruppi dei Di Lauro di via Cupa dell'Arco a Secondigliano e degli scissionisti capeggiati dal boss Raffaele Amato. Era la faida di Scampia che da ottobre del 2004 a febbraio 2005 vide lo svolgersi di una vera e propria mattanza quotidiana a ogni ora del giorno, tra folle terrorizzate, con l'obiettivo del controllo del traffico di droga. Centinaia di vittime insanguinarono le strade di Scampia; uomini dei clan, familiari in parte vicini alle cosche ma anche vittime innocenti. Colpire gli innocenti faceva parte di una strategia ben precisa già adottata dalla «Nuova camorra organizzata » di Raffaele Cutolo tesa a costringere gli avversari ad uscire allo scoperto. La faida di Scampia ha inizio il 28 ottobre del 2004 e ha come vittime Fulvio Montanino e Claudio Salerno uccisi dagli scissionisti. Poi quotidianamente si spara e si uccide per strada, nelle piazze; cadono tre marescialli dei carabinieri che camminavano in borghese nelle vie di Scampia e che furono scambiati per membri di un gruppo rivale. Clamoroso fu il 7 dicembre del 2004, quando alle quattro del mattino circa mille uomini delle forze dell'ordine circondarono Scampia e Secondigliano catturando con cinquantun ordini di custodia cautelare decine di malavitosi. In quell'occasione le donne del rione «terzo mondo» scesero in piazza aggredendo i poliziotti. Pochi giorni dopo, l'11 dicembre alle 16.44 nella Strada Casavatore, fu ucciso Massimo Marino, innocente cugino di Gennaro Marino, ras degli scissionisti. L'omicidio di Massimo Marino per gli investigatori era la risposta dei Di Lauro all'uccisione, avvenuta tre ore prima di Antonio de Luise finito nel mirino degli scissionisti. La svolta per queste indagini avviene attraverso le intercettazioni telefoniche. Infatti i carabinieri della Dda mettono cimici ovunque per combattere la drammatica faida camorristica. Ed è grazie ad una intercettazione fatta alla sorella di Massimo Marino, Cinzia, che i carabinieri arrestano Giovanni DeLuise incensurato fratello di Antonio anche lui vittima della mattanza quotidiana.
Cinzia Marino, disperata all'obitorio di fronte alla salma del fratello, rivolgendosi a un'amica vede la sagoma di Giovanni De Luise e lo riconosce come il killer del fratello. Giovanni de Luise, fino a quel momento incensurato spedizioniere di ventitré anni fu arrestato; movente e testimonianze non lasciavano spazio ad interpretazioni, era lui l'assassino di Massimo Marino. Giovanni De Luise viene condannato a 22 anni di carcere in via definitiva. Anche durante il processo le dichiarazioni testimoniali di Cinzia Marino, sorella della vittima, sono drammatiche e inconsuete. Infatti durante il dibattimento la donna, nell'aula della Corte d'Assise, guardando negli occhi Giovanni De Luise lo accusa dell'omicidio del fratello. Cinzia Marino diventa una teste protetta e, in un mondo fatto di omertà, le sue dichiarazioni a viso scoperto appaiono coraggiose e di esempio. Da quel dicembre del 2004 De Luise passa sei anni in carcere, dichiarando sempre la propria innocenza, fino a quando, all'inizio del 2010, spuntano altri due collaboratori di giustizia; Antonio Prestieri e Antonio Pica. Questi, durante un interrogatorio coperto da omissis, scagionano Giovanni De Luise dall'omicidio di Massimo Marino. Le dichiarazioni sono così attendibili che è la stessa Procura di Napoli nel nome del procuratore Giandomenico Lepore e Stefania Castoldi, a firmare l'istanza di revisione del processo. Un fatto storico, importante e di grande civiltà il mea culpa della Procura che riconoscendo un errore cerca di porne rimedio. Tutto questo avveniva nell'aprile del 2010. A due anni e mezzo da quell'ammissione di errore Giovanni De Luise è ancora detenuto nel carcere di Lecce in attesa di giudizio. Non mi sento di esprimere alcun giudizio se non quello positivo nei confronti di quei pubblici ministeri che cercano di porre rimedio a un errore giudiziario. Lasciatemi però la possibilità di rimanere perplesso su un andamento giudiziario che vede, a due anni e mezzo dalla richiesta di revisione del processo fatta dalla procura di Napoli, una persona ancora detenuta.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. MAURIZIO BOVA.
2 MILIONI E 150 MILA EURO PER INGIUSTA DETENZIONE: RISARCIMENTO RECORD. Con tutta probabilità, sarà il risarcimento per errore giudiziario più elevato di questo 2015. L’indennizzo dovuto a Maurizio Bova per aver scontato da innocente quasi 20 anni di carcere, ammonta infatti a ben 2 milioni e 149 mila euro: una somma record, specie se si considerano le entità degli altri risarcimenti normalmente accordati alle vittime di malagiustizia, soprattutto a quelle di ingiusta detenzione. Il protagonista di questa vicenda (ricostruita nei dettagli dall’articolo che riportiamo di seguito, scrive Errori Giudiziari) è originario di Somma Vesuviana (in provincia di Napoli). A portarlo in carcere, accuse gravissime: omicidio e tentato omicidio. Ma per una volta, le testimonianze dei pentiti non sono servite a incastrare un innocente, quanto a scagionarlo: un collaboratore di giustizia inizialmente accusato in concorso con Bova, infatti, si autoaccusò dei reati. Non solo: a far emergere l’innocenza dello stesso Bova sono stati anche diversi altri riscontri ed elementi nuovi, spuntati fuori soltanto nel corso del lungo iter processuale. Risultato: dopo un calvario giudiziario lungo quattro processi e quasi vent’anni, la vittima di questo errore giudiziario, totalmente scagionata, avrà il suo risarcimento.
Condannato all’ergastolo per omicidio: assolto dopo 19 anni e risarcito con un indennizzo record di 2 milioni e 150 mila euro. Somma Vesuviana (Napoli), 30 settembre 2015 (Casertasette). Un indennizzo record di 2 milioni e 149 mila euro, a titolo di risarcimento per riparazione dell’errore giudiziario, è stato deciso nei giorni scorsi dalla Corte di Appello di Perugia nei confronti di Maurizio Bova, 64 anni, di Somma Vesuviana, condannato ingiustamente – nel 1997 – dell’omicidio del boss Antonio Ferrara e del tentato omicidio Domenico Ferrara, episodio avvenuto nel 1994. Bova, difeso dall’avvocato Alfonso Baldascino del foro di Santa Maria Capua Vetere, fu condannato all’ergastolo scontando complessivamente 19 anni, 7 mesi e 20 giorni di reclusione, ovvero fino alla sua assoluzione giunta nel gennaio dello scorso anno con verdetto della Corte di Appello di Perugia. A scagionare Bova, accusato di avere ucciso il boss del comune vesuviano Antonio Ferrara, furono dapprima le dichiarazioni del pentito Antonio Marchese (che si autoaccusò attraverso una lettera del delitto risalente a metà degli anni Novanta e che era stato accusato in concorso con Bova) e successivamente altri riscontri e nuovi elementi rinvenuti negli atti processuali che non erano mai emersi nei precedenti procedimenti. Lungo l’iter giudiziario, come riferisce il giornale on line Casertasette.com: dalla condanna all’ergastolo della Corte di Assise di Appello di Napoli (1997), all’inammissibilità della revisione del processo da parte della Corte di Appello di Roma (2011), all’annullamento della decisione della Corte di Appello di Roma da parte della Corte di Cassazione (2012), all’assoluzione della Corte di Appello di Perugia (2014), all’istanza di risarcimento presentata sempre a Perugia alla fine del 2014 fino alla camera di consiglio dei giudici avvenuta nel maggio scorso al deposito della decisione.
Riconosciuto dalla Corte di Appello di Perugia un indennizzo di 2.149.500 euro (duemilioni centoquarantanovemila) in favore di Bova Maurizio nato Maggisano (Cz) il 01.12.1951 e residente a Somma Vesuviana, a titolo di riparazione dell'errore giudiziario. Il Bova fu condannato dalla Corte di Assise di Appello di Napoli con sentenza del 30.05.1997 alla pena dell'ergastolo perchè ritenuto responsabile in concorso con Marchese Antonio dell'omicidio di Ferrara Antonio e del tentato omicidio di Ferrara Domenico, fatti avvenuti in Somma Vesuviana il 24.05.1994, ed ha scontato 19 anni 7 mesi e 20 giorni di reclusione. In data 17.05.2011 l'Avv. Alfonso Baldascino del foro di S. M. Capua Vetere presentava alla Corte di Appello di Roma istanza di revisione sia per sopravvenuti elementi nuovi che per altri elementi rinvenuti negli atti processuali e mai valutati nei precedenti procedimenti. La Corte di Appello di Roma dichiarò inammissibile l’istanza; il difensore propose Ricorso per Cassazione; con sentenza del 21.03.2012 la Corte Suprema annullò la decisione e rimise gli atti alla competente Corte di Appello di Perugia per procedere alla revisione. A seguito di dibattimento durante il quale sono state raccolte le nuove prove testimoniali e documentali, la Corte assolveva il Bova per non aver commesso il fatto con sentenza del 20.01.2014 irrevocabile il 06.06.2014. Alla stessa Corte di Perugia fu presentata istanza documentata di riparazione per la lunghissima carcerazione sofferta in data 20.11.2014 che fu discussa in camera di consiglio il 06.05.2015; la decisone è stata depositata il 25.09.2015, in tempi ragionevolmente brevi.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
BERLUSCONI E GLI ALTRI. I MAGISTRATI FANNO QUEL CHE “CAZZO” VOGLIONO.
In un certo senso Berlusconi se lo merita. Si lamenta, si lamenta, per poi da leader politico più votato in assoluto e capo di una coalizione di maggioranza non fare niente per cambiare le sorti di chi incappa nelle maglie di una giustizia ingiusta. Parla di sé come un perseguitato. Le carceri piene di innocenti, le vittime delle denunce insabbiate, magistrati corrotti ed incapaci non sono per lui fenomeni come un cancro da estirpare. Pensa sempre e solo ai cazzi suoi. Bene. Allora facciamolo anche noi. Pensiamo ai cazzi suoi, se non altro, almeno, per dimostrare che effettivamente se succede a lui, figuriamoci ai poveri cristi cosa capita. Peccato che la legge del contrappasso non colpisca i manettari forcaioli con la stessa moneta. Solo allora si capirebbe l’ignominia e la malvagità di certi magistrati: torturare, spesso fino alla morte loro simili, solo per aver vinto un concorso pubblico truccato. E poi ci ritroviamo ad essere giudicati dai “Caccamo” inquadrati in dinastie, in tutte le corti, su su, fin anche alla Suprema Corte.
"La sentenza contro Silvio? Aberrante, e io sono la prova". "La firma sui bilanci di Mediaset era la mia. E sono stato assolto due volte. Lui era a Palazzo Chigi ed è stato condannato. Ma che giustizia è questa?".
Per gentile concessione di «Magna Carta» “Il Giornale” pubblica ampli stralci dell’intervista a Fedele Confalonieri realizzata per la summer school della Fondazione. Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, nasce a Milano nel 1937. Voleva fare il pianista, dicono peraltro che sia molto bravo, ma alla fine diventa uno dei manager di maggiore successo in Italia.
Come si costruisce da zero una biografia come la sua?
«Tanta fortuna. Intanto cominciamo a dire questo, prima di tutto. Perché io, finita l'università, ho provato a lavorare un po' per conto mio, poi, avendo un amico molto bravo, molto più bravo di me a fare l'imprenditore, sono andato a lavorare con lui. E ho fatto tante cose, ho lavorato per 40 anni in Fininvest, prima ancora in Edilnord quando Berlusconi si occupava di edilizia, poi nelle varie attività, televisione, eccetera occupandomi soprattutto di rapporti istituzionali e così via, e tante altre cose. Quando eravamo nel '73, quindi 40 anni fa, c'erano 100 persone con Berlusconi e si facevano tante cose, sono stato capo del personale, poi le pubbliche relazioni, i consigli, e così via. Infine ci siamo specializzati, diversificati. Segreti, mi creda... è la fortuna. E poi certo l'impegno, lavorare, lavorare, darsi da fare. Io ricordo, le vacanze erano poche, quest'anno ne ho fatte tante per quelli che erano gli standard di allora. Le vacanze erano magari una settimana, dieci giorni. Il piacere di lavorare, poi essere in un settore che ti riempie. Ma formule non credo ce ne siano».
Lei ha collaborato insieme a Silvio Berlusconi alla nascita in Italia della tv commerciale, dunque per l'avvento della concorrenza in una settore prima monopolizzato dal pubblico. In una società moderna quale ritiene sia il giusto equilibrio tra l'iniziativa privata e l'intervento dello Stato?
«L'intervento dello Stato dovrebbe essere quello classico: i servizi, le strutture e poi il resto affidato ai privati. Certo un welfare ci deve essere. Ci sono dei Paesi troppo liberali e per cui se svieni per strada e non hai in tasca la carta di credito non ti ricevono all'ospedale. Questa è un'aberrazione, sotto il profilo liberale. Però non ci deve essere neanche l'aberrazione che tutto ti viene dallo Stato, o quasi tutto. Un giusto equilibrio tra le due cose».
Nel 2012 lei è stato ospite della fondazione Magna Carta in particolare alla lettura annuale con una lectio magistralis dal titolo «La tv commerciale fattore di sviluppo e di democrazia». Con l'avvento della tecnologia di internet oggi si parla tanto invece di democrazia della rete. Qual è la sua interpretazione di questo fenomeno?
«Mutatis mutandis è un po' la stessa cosa. In quel periodo c'è stata la vera rivoluzione liberale nel nostro settore. E questo è uno dei meriti di Berlusconi, un merito politico anche quando non era ancora politico, perché quella è stata veramente una ventata di libertà portata nel nostro Paese. Internet è per definizione libero. Forse va regolamentato un poco laddove si tratta di calpestare i diritti di altri, per esempio il copyright, la produzione culturale e così via. Se uno può scaricare tutto quanto... Certamente è un fattore di maggior democrazia, vediamo gli esempi qui in Italia. Poi ritorniamo ai valori fondamentali di sempre che valgono in una società arcaica, moderna o addirittura futuribile. Però quando la tecnologia aiuta la libertà ben venga».
Lei ha vissuto tante stagioni e tanti momenti difficili della storia d'Italia. Quello che stiamo vivendo sembra un tornate particolarmente critico e insuperabile per il nostro Paese. Come ne uscirà secondo lei l'Italia e il centrodestra?
«Il centrodestra... Tutto dipende da Berlusconi, da come se la cava proprio in queste ore, direi più che ancora in questi giorni. Perché mi sembra che centrodestra voglia dire soprattutto Berlusconi. Il Paese ha le risorse, tutti sappiamo quanto sono intraprendenti gli italiani, quanto sono vivaci, quanto sono anche pazienti, forse certe volte anche troppo pazienti, però non è facile uscirne. O si tagliano, li abbiamo chiamati lacci e lacciuoli in onore del primo che ha parlato di queste cose, se no è veramente difficile. Sappiamo tutti che se vai in certi Paesi i costi del lavoro diminuiscono enormemente. Ci sono dei Paesi in cui un operaio guadagna un dollaro o due dollari l'ora, non è detto che lavorino meglio però uno può delocalizzare. Ma al di là di queste cose, ci sono anche delle restrizioni, delle difficoltà, degli ostacoli che vengono dalla troppa burocrazia. Sappiamo tutti che in certi Paesi ci vogliono addirittura pochi giorni o poche settimane per aprire una fabbrica o una nuova attività. Qui ci sono delle volte che uno impazzisce prima di poter aprire un qualche cosa che non inquina, e dà solo lavoro. E quindi sono tutte bardature che andrebbero veramente rotte».
Restiamo sulla politica. Nella costruzione di una proposta politica che guardi al futuro, quali fattori pesano di più secondo lei e che peso ha la cultura nella costruzione di questa proposta?
«In politica ci sono i valori di sempre: rispetto della democrazia, delle istituzioni, un legislativo che faccia delle leggi. Soprattutto un mondo politico oggi meno astioso. Sono stati 20 anni di guerra sempre. C'è sempre stato un conflitto. Un Paese non può litigare tutti i giorni. Ci vogliono dei principi comuni e poi ci vogliono delle riforme fondamentali, una riforma come quella della giustizia è ineludibile, una riforma del sistema del lavoro, dei costi del lavoro, una riforma anche del welfare è ineludibile. Detti così sono i dieci punti di qualsiasi politico che si presenta sull'agone elettorale, però tutti sanno che cosa vuol dire. Poi il peso della cultura va da sé. Pensare alla scuola, bisogna partire dalla scuola, adesso non voglio fare il trombone all'eccesso e mettermi nei panni del politico che non sono».
Lei conosce molto bene la Seconda Repubblica che ha visto nascere a partire da Mani Pulite e poi dalla discesa in campo nel '94 di Silvio Berlusconi. Quali sono a suo avviso i punti di forza della Seconda Repubblica e quali i punti di debolezza da riformare?
«La Seconda Repubblica ha avuto tanti difetti e lo sappiamo non è riuscita a fare molte cose... Poi, ripeto, Berlusconi dice sempre che non le ha fatte perché non aveva il 51 per cento, c'è stato un momento che aveva una grande maggioranza. La vicenda Berlusconi sembra stia per chiudersi per un intervento della magistratura, cioè di un ordine dello Stato che ha sentito Berlusconi come un intruso, come un usurpatore nel mondo della politica, nella convivenza e l'ha messo nel mirino: 40 processi, procedimenti, è inutile stare a ripetere delle cifre che conoscono tutti quanti, le duemila ispezioni finché sono arrivati a una sentenza che è aberrante. La prova che questa sentenza sia aberrante è che io, che sono quello che firma i bilanci di Mediaset, sono stato assolto due volte. Quello che faceva il presidente del Consiglio nel 2003 è condannato a quattro anni per frode fiscale. Non stiamo parlando di altre cose, la frode fiscale è una cosa ben precisa. E poi questa frode fiscale per un gruppo che ha pagato miliardi: Fininvest 9 miliardi, Mediaset ha dato 6 miliardi all'erario da che c'è, 7 milioni e rotti avremmo frodato. E in un anno dove poi tra l'altro avevamo pagato 560 milioni di tasse, pagarne 567 non era... Però questa è la giustizia, e a un certo punto la giustizia diventa una player nella competizione. Quindi questa è una riforma che andrebbe fatta non soltanto, ripeto, nel penale ma anche nel civile e così via».
Che consiglio dà ai giovani studenti della summer school della fondazione Magna Carta?
«Il consiglio ai giovani è quello di impegnarsi. E poi è bene che si divertano, che facciano tutto quello che i giovani fanno, si innamorino, si disinnamorino, che si divertano, facciano sport. Però impegnarsi. Ecco la cosa che sento. Insomma, io avevo 8 anni quando è finita la guerra, in guerra si mangiava quel che si poteva. E poi c'era una disciplina normale nei confronti del tuo maestro, poi del tuo professore, poi del tuo professore dell'università, questo senso del dovere, che è un dovere nei confronti di te stesso. Adesso non scomodiamo Kant col principio kantiano: fai, agisci in modo che il tuo agire serva da paradigma per tutti quanti. Però un qualche cosa del genere, cioè non prendere le cose alla leggera: se devi studiare studia, e poi impegnati a fare anche qualcos'altro. Cioè datti da fare. Datti da fare anche su cose che possono sembrare umili per un certo periodo, ma che servono. Il vecchio «impara l'arte e mettila da parte» serve per tutte le cose. Siamo partiti dal suonare il piano. Andare a suonare il piano anche nei night club serviva, era un'esperienza che ti facevi in più, a parte che ti prendevi qualche soldino che non guastava. Poi è chiaro, c'è chi è privilegiato perché può fare la scuola migliore, può frequentare all'estero i corsi dei master o di lingue, ma al di là della preparazione che hai avuto conta tanto l'impegno. D'altra parte lo si vede anche nelle cose più futili. Vogliamo parlare di calcio? Il grande talento se non ha anche concentrazione, volontà, disciplina si perde. Vale per il calciatore, per il pianista, per il musicista, per il letterato. Per cui: impegnarsi».
Parole, parole, parole......
Nuove prove, i legali di Agrama chiedono di rifare il processo. L'avvocato del produttore americano condannato a 3 anni a Milano ma assolto in Svizzera: "La documentazione dei magistrati elvetici non era nota ai difensori di Berlusconi". Una dirigente della Rsi: "Da Agrama compravo a prezzi di mercato, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Ancora una testimonianza dalla Svizzera, ancora una conferma che il processo sui Diritti tv ha ignorato fatti e atti giudiziari importanti dell'inchiesta elvetica per riciclaggio contro quattro manager Mediaset, chiusasi con l'archiviazione come abbiamo documentato sulle pagine de Il Giornale. Fatti e atti che riguardavano la stessa questione e hanno portato a conclusioni opposte a quelle italiane. Parla Silvana Carminati, responsabile acquisti fiction dell'Rsi, la tv svizzera di cui fa parte la Srg Ssr, che ha comprato film e programmi Paramount dal produttore americano Frank Agrama, ritenuto «socio occulto» di Silvio Berlusconi nella sentenza della Cassazione che ha portato alla condanna per frode fiscale di tutti gli imputati. «I rapporti con Agrama - spiega a Ticinonline, il portale numero uno della Svizzera italiana - sono cessati, a memoria, tra fine anni Novanta e gli inizi del 2000. Lo avevamo conosciuto in un mercato televisivo e ci era stato indicato come l'intermediario ufficiale della Paramount per il mercato di lingua italiana. Era lui il proprietario dei diritti dei film che ci interessavano e ci siamo rivolti a lui finché la Paramount non ha aperto un proprio ufficio a Roma». Dopo le carte sull'interrogatorio del 18 ottobre 2010, da parte del giudice istruttore di Berna, del responsabile Finanze della Srg Ssr e il rapporto finale del magistrato elvetico Prisca Fischer che il 15 dicembre dello stesso anno ha chiesto l'archiviazione dell'inchiesta, perché mancavano le basi del reato di riciclaggio, ecco un altro tassello che dimostra il ruolo ufficiale e non «fittizio», come definito dalla giustizia italiana, di Agrama nella vendita dei prodotti Paramount da lui acquistati con l'esclusiva per l'Italia e le emittenti di lingua italiana. Ma forse ancora più importante è che la Carminati parla a Ticinonline anche dei prezzi dei film, che per i giudici italiani Agrama avrebbe «gonfiato» in modo fraudolento d'accordo con Berlusconi. «Compravamo da Agrama - dice - al prezzo di mercato a cui avremmo comprato direttamente dalla Paramount. Non abbiamo mai avuto motivo di sospetto». Possibile che tutto questo non sia stato ritenuto rilevante in Italia, prima nell'inchiesta e poi nei processi per i Diritti tv? Possibile che non sapessero nulla i difensori degli imputati, mentre certo la Procura di Milano era informata dell'andamento e della conclusione dell'inchiesta svizzera? La difesa del leader Pdl conferma di non conoscere queste carte, che intende valutare nel complesso per decidere il da farsi. E Roberto Pisano, legale di Agrama dice: «La documentazione ufficiale dei magistrati svizzeri non era nota alle difese del processo Mediaset, né è mai stata acquisita in tale sede. Ed è di straordinaria rilevanza, avendo valore di potenziali "nuove prove" idonee a legittimare la revisione del processo ai sensi dell'articolo 630 del codice di procedura penale». Dunque, alla vigilia del esame della Giunta per le immunità del Senato sulla decadenza di Berlusconi gli avvocati sono al lavoro per far riaprire un processo che sembrava definitivamente chiuso e che grazie alla revisione potrebbe portare anche alla sospensione della pena da parte della competente Corte d'appello di Brescia. Pisano spiega che la documentazione svizzera «conferma le conclusioni di assoluzione per Agrama, Berlusconi ed altri cui era giunto il Gup di Roma Balestrieri, con sentenza del 27 giugno 2012, espressamente basata sugli stessi elementi di prova del processo Mediaset». Una assoluzione confermata dalla Cassazione il 6 marzo 2013. Con questa motivazione: «Il Gup ha evidenziato la sussistenza di un compendio probatorio, sia dichiarato che documentale, ambivalente e contraddittorio, insuscettibile di ulteriore sviluppo in sede dibattimentale». Balestrieri dice di aver valutato le prove del parallelo processo Mediaset, «con conseguente prognosi negativa», riconosce il ruolo «effettivo» di Agrama e nega una «maggiorazione» dei prezzi dei diritti tv.
Berlusconi? C’entra sempre.
Motivazioni sentenza Dell'Utri. "Mediatore con Cosa nostra". I giudici della terza sezione penale della corte d'appello di Palermo: mantenuti sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento, scrive “La Repubblica”. Marcello Dell'Utri è stato il "mediatore contrattuale" di un patto tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi, e in questo contesto tra il 1974 e il 1992 "non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti", e "ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento". Così argomentano i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui l'ex senatore del Pdl è stato condannato il 25 marzo scorso a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. La Corte d'appello (presidente Raimondo Loforti, giudici Daniela Troja e Mario Conte) colloca la stipula di questo patto tra il 16 e il 29 maggio del 1974 quando, si legge nelle 477 pagine della motivazione, "è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e (dal mafioso palermitano Gaetano) Cinà a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi". Quella riunione, secondo la Corte, "ha costituito la genesi del rapporto sinallagmatico che ha legato l'imprenditore Berlusconi e Cosa nostra con la mediazione costante e attiva dell'imputato" Dell'Utri. "In virtù di tale patto - sostengono i magistrati palermitani - i contraenti (Cosa nostra da una parte e Silvio Berlusconi dall'altra) e il mediatore contrattiale (Marcello Dell'Utri), legati tra loro da rapporti personali, hanno conseguito un risultato concreto e tangibile, costituito dalla garanzia della protezione personale dell'imprenditore mediante l'esborso di somme di denaro che quest'ultimo ha versato a Cosa nostra tramite Marcello Dell'Utri che, mediando i termini dell'accordo, ha consentito che l'associazione mafiosa rafforzasse e consolidasse il proprio potere sul territorio mediante l'ingresso nelle proprie casse di ingenti somme di denaro". L'incontro del 1974, secondo la Corte, "segna l'inizio del patto che legherà Berlusconi, Dell'Utri e Cosa nostra fino al 1992. E' da questo incontro - si legge nelle motivazioni - che l'imprenditore milanese, abbandonando qualsiasi proposito (da cui non è parso, invero, mai sfiorato) di farsi proteggere dai rimedi istituzionali, è rientrato sotto l'ombrello della protezione mafiosa assumendo Vittorio Mangano ad Arcore e non sottraendosi mai all'obbligo di versare ingenti somme di denaro alla mafia, quale corrispettivo della protezione". Mangano divenne così lo stalliere di Arcore "non tanto per la nota passione per i cavalli" ma "per garantire un presidio mafioso nella villa dell'imprenditore milanese". Dell'Utri, ricordano i giudici, ha ammesso di aver indicato Mangano a Berlusconi come persona da assumere ma ha sostenuto di non essergli amico, anzi di averne paura. Ma la Corte non lo ritiene credibile. "La continuità della frequentazione, l'avere pranzato in diverse occasioni con lui, sono circostanze - recita la motivazione - che hanno consentito di escludere che i rapporti svoltisi in un arco temporale che ha coperto quasi un ventennio nel corso del quale il Mangano è stato arrestato e prosciolto e poi nuovamente arrestato e poi ancora prosciolto, possano essere stati determinati da paura". La Corte ha ricostruito nelle motivazioni anche i pagamenti sollecitati dai mafiosi a Berlusconi "quale prezzo per la protezione", e che secondo i giudici iniziarono subito dopo l'incontro del 1974, con la richiesta di 100 milioni di lire formulata da Cinà, ed esaudita.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare:
Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro. “Non mi pento della scelta fatta, quella di denunciare i miei estorsori”. È la voce di Valeria Grasso, imprenditrice palermitana, donna coraggiosa. Oggi presidente di Legalità è Libertà, associazione antiracket, antiusura e mobbing. Si è ribellata alla mafia, al sistema mafioso, alla prepotenza di gente senza scrupoli. Ha denunciato, ha fatto arrestare i suoi estorsori. Gli appartenenti al clan mafioso dei Madonia. Cosa Nostra siciliana. “Ci sentiamo lasciati soli, il programma di protezione non funziona”. Un concetto espresso da molti testimoni di giustizia. “Più che un programma di protezione – si sfoga Valeria – sembra una punizione, una distruzione per la denuncia”. Valeria, per aver fatto il proprio dovere, continua a ricevere minacce, intimidazioni, avvertimenti. L’ultima ha coinvolto sua figlia, di 11 anni. Alle minacce degli uomini del disonore (o pezzi di merda, come li definisce il collega siciliano, il direttore di TeleJato Pino Maniaci), si aggiungono le strane e discutibili decisioni dello Stato. “Mi sento presa in giro, mi hanno sospeso il contributo di sopravvivenza, senza nessuna comunicazione. Avevano già tolto quello per mia figlia”.
Il presidente di Azione Civile, Antonio Ingroia ha affermato: “Quanto accaduto all’imprenditrice palermitana Valeria Grasso, testimone di giustizia, inserita nel programma di protezione per aver denunciato e fatto arrestare i suoi estorsori, non è degno di un Paese civile”. Cosa ti è accaduto?
«Sono nel programma di protezione e vivo in località protetta. Mia figlia, la maggiore, ha avuto gravi problemi di salute e si è dovuta staccare dalla località protetta ed è arrivata a Palermo nel mese di gennaio. Questa sua situazione di salute si è aggravata e a maggio, con regolare autorizzazione, sono dovuta tornare a Palermo, provvisoriamente, per assistere mia figlia. E’ stata ricoverata in ospedale dodici giorni, una depressione causata da tutta una serie di situazioni che abbiamo vissuto in località protetta, come la casa avuta dopo un anno e il vivere in alberghi.»
E cosa succede?
«Il 2 agosto mi accorgo che non mi è stato accreditato il contributo mensile. Il testimone di giustizia che vive in località protetta non potendo più lavorare ha un sussidio che serve alla sopravvivenza del nucleo familiare. Mi dicono, al telefono, che mi era stato sospeso.»
Una questione di soldi?
«Il problema è come viene trattata la gente. Questo programma di protezione sembra un programma di punizione. Tutto quello che deve essere garantito lo devi sudare, devi combattere. Come se la tua famiglia fosse un peso, da punire. Non esiste che al tuo nucleo familiare, improvvisamente e senza preavviso, viene sospeso il contributo di mantenimento. Ma se è previsto dalla legge, che la famiglia ha un sussidio per vivere, come fai il due agosto, senza una comunicazione… c’è malafede.»
Perché parli di malafede?
«La legge non prevede la sospensione del contributo, c’è qualcuno all’interno del Servizio che ha preso una decisione che non è legale. Come dice il dott. Ingroia, determinate decisioni vengono prese in Commissione, la revoca del contributo viene fatta se c’è un motivo gravissimo. Per esempio l’abbandono della località, la fuoriuscita dal programma. Ma non è possibile che a una madre, giù in Sicilia, per motivi gravi della famiglia venga sospeso il contributo. Ma di cosa stiamo parlando?»
Secondo te perché si comportano in questo modo con i testimoni di giustizia?
«Perché non c’è un controllo, nessuno controlla il sistema del servizio di protezione. Non c’è all’interno una volontà di incentivare la figura del testimone di giustizia, sempre costretta ad essere vista come una figura poveretta che deve stare lì ad elemosinare, piuttosto che una risorsa della società civile. In questo modo sei continuamente a gridare allo Stato tutto quello che ti spetterebbe di diritto. E’ una battaglia, mi trovo a lottare contro coloro che dovrebbero aiutarmi a ridare equilibrio a casa mia.»
Tu sei una testimone di giustizia perché hai fatto arrestare degli estorsori del clan Madonia…
«Gestivo una palestra, un bene confiscato di proprietà della famiglia Madonia. Per certi personaggi la parola ‘confisca’ non esiste. Alle prime richieste di estorsione mi ero opposta tassativamente, non volevo pagare, ero molto spaventata. Madre di tre figli e separata. Ci sono momenti molto difficili, soprattutto, sapendo chi sono i personaggi.»
Chi sono?
«Madonia è stato colui che ha ucciso Libero Grassi, ha fatto parte dei mandanti della strage di via D’Amelio. La moglie di Madonia, Maria Angela, è definita il boss in gonnella. Si può ben capire di chi stiamo parlando.»
Quindi cosa succede?
«Ho provato anche a vendere l’attività per cercare di tutelare la mia famiglia, ero riuscita a venderla a un ragazzo di vent’anni. Dei personaggi, mandati da loro e arrestati grazie alle mie denunce, pretendevano che io da vittima diventassi estorsore. Pretendevano che io andavo dalla persone che aveva comprato la mia palestra per ritirare 500euro al mese, diventando un loro esattore. A quel punto è stata inevitabile la scelta, sono andata a denunciare. Oggi ho ripreso la palestra, ho restituito i soldi a quel ragazzo che l’aveva presa e ho tentato di riattivarla. Gli atti di intimidazione sono stati talmente tanti che la Procura di Palermo ha predisposto l’inserimento urgente nel programma per un pericolo imminente di vita.»
Le minacce non sono terminate. Tua figlia di 11 anni, poco tempo fa, è stata "avvicinata".
«È stata minacciata al cellulare dalla voce di un tizio che, poi, si è presentato come Pietro e che ha detto in siciliano: "So chi sei e so chi è tua madre". Più che un messaggio a lei è stato un messaggio a me.»
Ritorniamo al programma di protezione…
«Un business, un’invenzione. Non ha assolutamente la funzione che dovrebbe avere. Mi sento presa in giro da questo sistema. Smetterò di sentirmi presa in giro quando chi di dovere, dopo le mie continue denunce, si degni di ricevermi così come ha fatto il presidente Crocetta (Presidente della Regione Sicilia, ndr), che alla vigilia di ferragosto, appena ha letto quello che stava succedendo tramite il dott. Ingroia, che è stato il mio magistrato, ha voluto incontrarmi. Garantendo chiarezza su questa storia. Ho scritto alla presidente Boldrini, telefono continuamente alla segreteria del Ministro, ma di che cosa parlano? Come vogliono che l’Italia, la Sicilia cambi o si combatta la mafia quando quelle persone che dovrebbero essere il megafono della legalità diventano il megafono di uno Stato che non funziona.»
Una situazione difficile…
«Che mi stimola sempre di più ad andare avanti per combattere contro questo sistema. Non ci dobbiamo isolare, dobbiamo continuare a denunciare e a combattere questo sistema che non funziona. Mi aspetto che il Ministro intervenga e che qualcuno cominci a volerci vedere chiaro come funziona il sistema di protezione, chi lo gestisce, chi sono i direttori del Servizio e come mai prendono della decisioni che non vengono autorizzate, per esempio, dalla Commissione. È necessario che qualcuno faccia un immediato intervento, perché altrimenti ci si sta prendendo tutti quanti in giro.»
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche F. Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
LE COLLUSIONI CHE NON TI ASPETTI. AFFINITA' ELETTIVE.
VENDEVA PROCESSI PER UN POKER
Ottavio Ragone, "La Repubblica", 15 giugno 1994. Ai tavoli verdi di Saint Vincent, Nicola Boccassini era un volto conosciuto. Tra un poker e uno chemin de fer, il procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, grosso centro del Salernitano, trascorreva intere notti al casinò. Amava giocare d'azzardo Boccassini, ma era un perdente, sperperava milioni, accumulava debiti su debiti. Per pagarli - sostiene l'accusa - il giudice vendeva i processi, garantiva assoluzioni a archiviazioni al miglior offerente. Oppure chiedeva un posto di lavoro per le figlie. Ieri Boccassini è stato arrestato in casa, a Salerno, in un'operazione che ha portato in carcere altre sei persone. I detective della Dia gli hanno mostrato un ordine di custodia cautelare per corruzione, concussione, abuso d'ufficio, favoreggiamento. Si è scoperto che quel giudice sempre elegante, frequentatore dei salotti buoni di Salerno, era stato per dieci anni il temutissimo ras della procura di Vallo della Lucania. "Boccassini andava al casinò e io dovevo pagargli la stanza d' albergo", ha raccontato l'industriale Elio Graziano, ex presidente dell' Avellino calcio, che dopo l'arresto di tre mesi fa ha scelto di collaborare. "Una sera gli consegnai un milione, lo perse in mezz' ora con puntate sballate". Boccassini apriva inchieste a suo piacimento, le usava come armi di ricatto per rastrellare denaro. E assegnava perizie d'ufficio al suo futuro genero Attilio Roscia pagandogli di persona le consulenze, affinché mettesse qualcosa da parte in vista del matrimonio con la figlia. Mesi fa, dopo le prime accuse dei pentiti tra cui il camorrista Mario Pepe, il Csm aveva sospeso Boccassini dalle funzioni e dallo stipendio, ordinando il trasferimento d'ufficio. Cionostante il giudice frequentava ancora loschi personaggi, come provano le foto scattate dalla Dia. Ma i sospetti investono pure un'altra toga di Vallo della Lucania, il sostituto procuratore Anacleto Dolce, fratello di Romano Dolce, il magistrato di Como arrestato settimane fa nell'inchiesta su un traffico di armi e scorie nucleari. Dolce ha ricevuto un'informazione di garanzia per abuso d'ufficio: anche lui avrebbe affidato perizie a Roscia e liquidato le parcelle. Si parla di un terzo giudice inquisito, ma sul nome c'è riserbo. Oltre a Boccassini, che oggi sarà interrogato dal gip Luigi Esposito, la procura di Napoli ha arrestato l'avvocato Marco Siniscalco, ex consigliere comunale psi a Salerno, amico e "socio" di Boccassini con cui spendeva un patrimonio al casinò; Angelo Criscuolo, presidente della Comunità Montana Lambro e Mingardo e sindaco di Ascea, nel Cilento; i faccendieri Franco Ferolla e Antonio Sabia; le sorelle Laura e Liliana Clarizia, titolari della "First Agency" di cui era socia una figlia di Boccassini e dove si vedeva spesso anche la moglie del giudice. Si è scoperto che la "First Agency" ottenne un lucroso appalto dalla Comunità Montana, la fornitura di 20 mila depliant turistici, un "omaggio" del presidente Criscuolo ai familiari di Boccassini. Ferolla e Sabia chiesero venti milioni ad una coppia per "aggiustare" un processo nel tribunale di Vallo, si sospetta con la regìa del procuratore. L' avvocato Siniscalco faceva parte della commissione comunale per il condono edilizio, di cui era membro pure Boccassini. Si misero d' accordo e dietro compenso fecero in modo che non fosse demolita la villa abusiva di Elio Graziano, imprenditore, anni fa coinvolto nello scandalo delle "lenzuola d' oro" delle Ferrovie. Proprio Graziano ha raccontato i segreti di Boccassini. I due si conobbero quando il giudice era sostituto procuratore generale a Salerno. Graziano, condannato per omicidio colposo per la morte sul lavoro di un suo operaio, fu assolto in appello grazie all' intervento del magistrato. Dopo la sentenza Boccassini avvicinò l'imprenditore: "Mia figlia cerca lavoro", disse. E Graziano, pronto: "Eccellenza, sono a disposizione". La ragazza fu assunta ma secondo l' industriale intascava lo stipendio senza presentarsi in ufficio: "In pratica le pagavo gli studi", ha spiegato l'ex presidente dell'Avellino, aggiungendo che Siniscalco e Boccassini pretesero un mutuo di settanta milioni per l'acquisto di una casa. Il giudice volle un altro prestito di trenta milioni dalla Cassa rurale di Omignano Scalo, presieduta fa Fernando Cioffi: l' istituto era sotto inchiesta, ma il solerte Boccassini chiese l'archiviazione del fascicolo.
ATTACCO AI GIUDICI DI MILANO
Luca Fazzo, "La Repubblica", 14 novembre 1993. Il magistrato Alberto Nobili è uno dei quattro pm sui quali, secondo le dichiarazioni del pentito, i giudici fiorentini starebbero indagando. Sarebbe accusato di non aver arrestato Giovanni Salesi in occasione dell'inchiesta sulla morte di un pregiudicato gelese. Nobili coordinò la recente operazione. "Nord-sud" che coinvolse il generale dei carabinieri Delfino. Tre paginette di verbale, dettate da un mafioso catanese, mettono una contro l'altra due tra le Procure più importanti d'Italia, quella di Milano e quella di Firenze, portando in piazza storie vere o inventate di giudici corrotti, di inchieste nascoste, di contatti inconfessabili tra gli uomini dello Stato e i suoi nemici. Otto giorni fa, il 6 novembre, il "pentito" catanese - sconvolto, quasi in lacrime - si presenta dai giudici lombardi con cui collabora da tempo e dice: mi hanno chiamato i giudici di Firenze Pierluigi Vigna e Giuseppe Nicolosi, quelli che indagano sull'autoparco milanese in mano alla mafia. Loro, e i loro amici della Guardia di finanza, mi hanno detto che sanno che i giudici di Milano sono corrotti. Mi hanno chiesto conferme, altre rivelazioni, particolari. Non hanno messo niente a verbale. Ma mi hanno fatto dei nomi: Antonio Di Pietro, Armando Spataro, Alberto Nobili, Francesco Di Maggio. Scoppia il finimondo Ieri le affermazioni del pentito vengono riportate dal Corriere e dal Giornale. E scoppia il finimondo. Francesco Saverio Borrelli, il capo della Procura, parla a nome di tutti: "Reagiremo - dice - con la massima fermezza. Da sempre, e in particolare da qualche anno, la Procura di Milano è impegnata su più fronti nell' accertamento di fatti gravissimi di criminalità mafiosa, la recente brillante operazione guidata da Alberto Nobili ne è la riprova, e nel campo della pubblica amministrazione. Essendo questo impegno evidente, ed essendo evidente anche l'esistenza di interessi assai cospicui che vengono posti a repentaglio dall'attività dei magistrati di Milano, era prevedibile ma non perciò meno deplorevole che si sarebbero infittiti i tentativi di gettare discredito. Noi contro questo tentativo, che non sappiamo ancora da quale direzione provenga, reagiremo con la massima fermezza ma anche con la massima serenità perché siamo certi, graniticamente certi, della nostra assoluta trasparenza e aggiungo, quale responsabile dell' ufficio, che ben conosco la professionalità altissima dei miei aggiunti e dei miei sostituti. In questa situazione, come sempre, i miei sostituti avranno da me la massima copertura". Del pentito che ha incontrato i giudici di Firenze dice: "E' un collaboratore della Procura e non si discute la sua credibilità verso quello che dice a noi nell' ambito delle nostre indagini. Questa vicenda invece è tutta da accertare". Borrelli conferma di avere partecipato personalmente all' interrogatorio del pentito e di avere chiesto per iscritto chiarimenti al collega Pierluigi Vigna: una lettera rimasta, finora, senza risposta. Passano le ore, senza che si riesca ad afferrare il bandolo della vicenda. I contatti tra i magistrati intanto continuano frenetici. Ma l'impressione è che un tentativo di chiarimento sia in corso. Alle otto di sera, al termine di questa giornata campale, Francesco Saverio Borrelli appare più rilassato che durante il briefing di mezzogiorno. Signor procuratore, molte cose non quadrano. Lei ha spiegato di avere scritto a Vigna per chiedere spiegazioni, il suo collega di Firenze dice invece di avere appreso delle rivelazioni del pentito solo dai giornali. "Ho parlato al telefono con Pierluigi Vigna all'inizio del pomeriggio. Mi ha detto di non avere ancora ricevuto la mia lettera, e questo è comprensibile visti i tempi delle poste italiane. Mi ha confermato che mi risponderà immediatamente. Io attendo per martedì o mercoledì prossimi i chiarimenti che gli abbiamo chiesto nello spirito di correttezza che contraddistingue i nostri rapporti". Le affermazioni del pentito, per la verità, non descrivono un quadro di grande correttezza. "Nel merito di queste dichiarazioni preferirei non entrare. Voi pretendete valutazioni immediate, invece vi sono delle circostanze in cui è necessario approfondire". Però lei stamane ha rivendicato l' attendibilità di questo personaggio. "Attenzione, io ho semplicemente fatto presente che il contributo dato da questo collaboratore alle inchieste della Procura di Milano si è rivelato n contributo serio. Non ho detto, né potevo dire, che questo signore dice la verità qualunque argomento tratti. Voglio dirle anche che io penso da sempre che la comunicazione è qualcosa di complicato, a volte le parole invece che veicolare il pensiero lo confondono. Vi è stato un incontro, e bisogna capire chi ha detto e cosa ha detto, e l' altro come ha recepito questo messaggio. E' difficile, ed anche per questo io non vorrei drammatizzare". Stamane lei sembrava molto preoccupato. "Certo, perché in un passaggio periglioso per le istituzioni, in cui la magistratura, e non solo quella milanese, ha assunto tanta importanza bisogna tenere gli occhi bene aperti per evitare di cadere in trappola. Bisogna però anche evitare ogni precipitazione, perché potrebbe essere segno di debolezza mentre noi siamo molto tranquilli". Vigna le scriverà, spiegherà cosa è accaduto quel giorno durante l' interrogatorio. Ma se alla fine, come è possibile, la situazione fosse del tipo: la parola del pentito contro la parola di Vigna, voi a chi credete? "Mi sembra un paragone improponibile. E' chiaro che non possono esistere dubbi". Il clima creato nel tribunale milanese dall' esplodere della vicenda è molto pesante, anche perché i nomi che compaiono nei verbali sono quattro dei nomi più noti e rispettati del palazzaccio di corso di Porta Vittoria. Uno, Francesco Di Maggio, è diventato quest' anno vicedirettore generale delle carceri. Gli altri tre sono ancora in Procura: Antonio Di Pietro è il simbolo dell' Italia che cambia, Alberto Nobili e Armando Spataro sono due tra i magistrati di punta della Direzione distrettuale antimafia, autori delle più importanti inchieste degli ultimi tempi contro il crimine organizzato in Lombardia. Dall' ufficio del procuratore capo Saverio Borrelli partono telefonate a raffica verso tutti i protagonisti della vicenda. Ma, con il passare delle ore, la situazione invece di chiarirsi si complica sempre di più. Giulio Catelani, procuratore generale a Milano, durante un convegno conferma integralmente le anticipazioni dei due quotidiani. "Mi scappa da ridere", dice (ma senza nemmeno l' ombra di un sorriso) Armando Spataro. "Mi aspettavo il tritolo o le calunnie - commenta Alberto Nobili - e per adesso sono arrivate le calunnie". Antonio Di Pietro e Francesco Di Maggio si chiudono nel silenzio. Ma ormai anche le forme, che di solito racchiudono le polemiche tra giudici, sono saltate. Molto preciso I magistrati di Milano fanno sapere che il racconto del "pentito" sul suo incontro con i giudici fiorentini è preciso in modo impressionante, che la sua attendibilità è considerata altissima, e accusano senza mezzi termini i colleghi fiorentini di indagare su di loro in modo clandestino, fuori da ogni regola del codice e con ipotesi di reato gravissime. Si viene a sapere che uno dei magistrati chiamati in causa ha chiesto al procuratore Borrelli che l' interrogatorio del "pentito" sia trasmesso subito alla procura di Bologna, competente per i reati commessi dai giudici di Firenze: l' ipotesi di reato sarebbe, nel migliore dei casi, quella di abuso d' ufficio, per avere interrogato il catanese senza metterne a verbale le dichiarazioni. I fiorentini ribattono facendo capire che è in corso una manovra per screditarli, per togliere attendibilità alle scoperte compiute in questi mesi dal Pm Nicolosi sulla penetrazione della mafia a Milano e sui suoi contatti - attraverso una loggia massonica - con gli apparati dello Stato. E' l' inchiesta sull' autoparco milanese di via Salomone, la stessa che ha portato poche settimane fa Vigna e Nicolosi a fare arrestare cinque poliziotti milanesi tra cui un vicequestore, Carlo Iacovelli, indagato per associazione mafiosa.
BRESCIA, TORNA L' INCHIESTA 'AUTOPARCO'
Cinzia Sasso, "La Repubblica" del 16 novembre 1996. Ruota intorno al costruttore Antonio D'Adamo, ai rapporti con il suo difensore Giuseppe Lucibello e con il cliente più famoso di quest' ultimo, Francesco Pacini Battaglia, l'ultima trincea dell' inchiesta su Antonio Di Pietro. I magistrati di Brescia avevano già ricevuto dai colleghi di La Spezia i pacchi di intercettazioni telefoniche, i rapporti del Gico e pure i riscontri dei rapporti patrimoniali fra il banchiere e D'Adamo. Rapporti di denaro, molto denaro, transitato estero su estero, da società di Pacini a società di D'Adamo. E D'Adamo è, dai vecchi tempi, un buon amico di Di Pietro. Tanto amico da aver dato in uso a Susanna Mazzoleni, moglie dell'ex pm, un telefono cellulare nell'epoca in cui il portatile era uno status symbol per pochi. Ma a Brescia è stata riaperta nei giorni scorsi anche un'altra vicenda che rischia di provocare un nuovo terremoto: quella sull' Autoparco di via Salamone a Milano, l' autoparco della mafia scoperto dal Gico di Firenze e all' origine del rancore tra la Procura di quella città e quella di Milano. Da Bologna, dov' era finito protocollato a modello 45, è arrivato a Brescia il nuovo rapporto del colonnello Giuseppe Autuori (sollevato dall'incarico di comandante del gruppo Gico di Firenze e trasferito a Bologna), compilato nel '95 e incentrato sui sospetti di coperture da parte degli ambienti investigativi e giudiziari milanesi a quella che è stata ritenuta una base della mafia al nord. Sono passati due anni dalla chiusura di un' altra inchiesta, a Brescia, su alcuni aspetti di quella vicenda. Un pentito aveva accusato - e poi ritrattato le accuse - un pm al di sopra di ogni sospetto, Alberto Nobili, della Dda milanese. L'indagine si era chiusa con un'archiviazione per Nobili e l'apertura di un procedimento per calunnia contro il pentito che l' aveva accusato. Ma nel rapporto di Autuori non si parla solo di Nobili: si parla anche di Di Pietro, ai tempi commissario al quarto distretto di polizia, nella competenza del quale rientrava l'Autoparco, e di altri magistrati e investigatori milanesi. Per Giancarlo Tarquini, da poco arrivato a dirigere la Procura di Brescia, i grattacapi non finiscono qui: i primi giorni di ottobre, dal gip di Roma Maurizio Pacioni, è arrivata una relazione su presunte irregolarità compiute dal pool milanese di Mani pulite quasi al completo più l'ex gip Italo Ghitti a proposito di un' inchiesta - cominciata a Milano e finita a Roma con un'archiviazione - su un appartamento-tangente dato dalla Fiat al senatore democristiano Giorgio Moschetti. A Roma era stato il pm Francesco Misiani a occuparsene e aveva avuto non poche difficoltà a ottenere le carte dai colleghi di Milano. In questo caso i magistrati di Milano sono stati iscritti al registro degli indagati per abuso d' ufficio. La vicenda è molto complessa e riguarda anche Filippo Dinacci, figlio dell'ex capo degli ispettori ministeriali Ugo Dinacci (sotto processo a Brescia per la presunta concussione ai danni di Di Pietro). Quell'appartamento della Fiat - valore 2 miliardi e 400 milioni - sarebbe poi stato messo a disposizione, secondo il dirigente della Fiat Ugo Montevecchi che denunciò il caso, del figlio di Dinacci (che ha sempre smentito). Oggi, a Brescia, si ricomincia. "Il confronto con i colleghi di La Spezia - ha detto alle 20.15 il procuratore Tarquini rientrato in Procura - è stato utile, come lo sono sempre i confronti con i colleghi". E si ricomincia da Antonio D' Adamo, dal suo ruolo che a Brescia era già stato al centro dell' attenzione. Già secondo il pm Fabio Salamone c'era D'Adamo dietro molti misteri del caso Di Pietro. Le carte di La Spezia pare gli stiano dando ragione.
TRATTATIVA E 41 BIS, UN PASSATO CHE NON VUOLE PASSARE.
Scritto da Fabio Repici e Marco Bertelli. Da qualunque parte si prenda, questa storia sembra il prodotto malato della mente di uno sceneggiatore horror. Una storia così inverosimile che risulterebbe irricevibile per qualunque produttore cinematografico che si rispetti. Una storia all’apparenza del tutto inventata, se solo non fosse fondata su fatti e documenti mai smentiti, anzi puntualmente riscontrati ogni volta che sono stati sottoposti a verifica. Allora è doveroso raccontarla, avvertendo i lettori che è una storia che non ha ancora trovato la sua conclusione, se mai la troverà, e che si intreccia con la stagione che cambiò per sempre la nostra vita, il biennio stragista 1992/93. E conviene raccontarla partendo dagli spunti di cronaca.
1993, l'anno delle bombe e delle prime revoche del 41-bis.
Da un paio d’anni – più o meno da quando il braccio destro dei fratelli Graviano, Gaspare Spatuzza, ha iniziato a collaborare con la giustizia – le Direzioni distrettuali antimafia di Caltanissetta e Palermo stanno cercando di capire quali apparati dello Stato abbiano condiviso con Cosa Nostra la strategia eversiva a suon di bombe che ha spalancato le porte alla cosiddetta Seconda Repubblica e quali siano stati i tempi e gli strumenti che hanno permesso l’insana interlocuzione, più correttamente chiamata ‘Trattativa’, fra Stato e antiStato. Con imperdonabile ritardo, sulla scia delle rivelazioni di Spatuzza e del figlio minore di don Vito Ciancimino, numerosi personaggi istituzionali hanno avuto riverberi di memoria su due snodi decisivi della Trattativa. Il primo: lo sciagurato dialogo a partire dal mese di giugno 1992 fra il Ros dei Carabinieri (nelle persone degli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno, con la copertura del generale Antonio Subranni) e Vito Ciancimino, che ha visto dall’estate 2009 la resurrezione della memoria di Luciano Violante, Claudio Martelli e Liliana Ferraro. Il secondo: i provvedimenti di revoca o mancata proroga susseguitisi nel 1993, in favore di uomini di Cosa Nostra, del regime detentivo speciale previsto dall’art 41-bis dell’ordinamento penitenziario, sui quali i ricordi a scoppio ritardato sono stati soprattutto quelli dell’allora ministro di grazia e giustizia Giovanni Conso, che il 12 febbraio 1993 sostituì il dimissionario Claudio Martelli nel primo governo di Giuliano Amato e che fu confermato il 28 aprile 1993 nel successivo governo di Carlo Azeglio Ciampi. Conso ha rivelato l’undici novembre 2010 agli attoniti membri della Commissione parlamentare antimafia di avere assunto il 5 novembre 1993 in completa solitudine la decisione di venire incontro alle esigenze di detenuti mafiosi, per fornire un segnale di pace all’ala provenzaniana di Cosa Nostra, che in quel momento aveva adottato una linea strategica contraria a quella stragista sostenuta da Leoluca Bagarella: “Nel 1993 non rinnovai il 41 bis per 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone ed evitai altre stragi... La decisione non era un’offerta di tregua o per aprire una trattativa, non voleva essere vista in un’ottica di pacificazione, ma per vedere di fermare la minaccia di altre stragi. Dopo le bombe del maggio ’93 a Firenze, quelle del luglio ’93 a Milano e Roma, Cosa nostra taceva. Cosa era cambiato? Toto’ Riina era stato arrestato, il suo successore, Bernardo Provenzano era contrario alla politica delle stragi, pensava piu’ agli affari, a fare impresa; dunque la mafia adottò una nuova strategia, non stragista”. Come l’algido giurista sabaudo avesse avuto contezza dell’esistenza di due tendenze contrapposte all’interno di Cosa Nostra, circostanza che gli investigatori avrebbero scoperto molto tempo dopo l’intuizione di Conso, rimane tuttora un mistero. Gli inquirenti titolari dell’inchiesta palermitana sulla Trattativa tra 'pezzi' dello Stato e 'pezzi' dell'antiStato hanno accertato che in realtà Conso in quell’occasione non rinnovò altri 194 provvedimenti di regime carcerario 41-bis, per un totale di 334 detenuti ai quali non fu prorogato il carcere duro. Testimoniando il 15 febbraio davanti ai giudici della Corte d’assise di Firenze nel processo a carico del boss Francesco Tagliavia, Conso ha perfino peggiorato la sua indifendibile posizione: “A me di intese (tra pezzi dello Stato e pezzi della mafia) non risulta assolutamente nulla, anche perché ero chiuso nel mio bunker. L’idea di una vicinanza mafiosa mi offende nel profondo. Dopo tutta una vita dedicata al diritto, sentirmi sospettato di aver trattato… Ma nemmeno lontanamente, abbiate pazienza!”. Ha poi incredibilmente aggiunto con tono sibillino: “A me non risulta che ci fossero dei mediatori, ma certo non posso escludere che fra due funzionari, magari una sera a cena, si possa aver detto ‘facciamo un ponte’”. Parole dal sen fuggite, quelle sull’intesa “fra due funzionari una sera a cena” o un preciso messaggio? Se di messaggio si è trattato sembrerebbe il riferimento a uomini d’apparato piuttosto che a politici. Ma chi potevano essere i funzionari che si incontravano a cena per “fare un ponte”? Forse le parole di Conso sono più velenose di quanto possa sembrare a prima vista. Velenose come le parole di coda nella deposizione dell’ex ministro: “Al momento non siamo ancora in grado di dire nulla di sicuro, magari col tempo, piano piano, pezzo dopo pezzo arriveremo alla verità”. Come se ci fosse un informale segreto di Stato, per far cadere il quale occorre tempo. Peraltro, le affermazioni di Conso in merito alla mancata proroga dei provvedimenti di carcere duro ai primi di novembre del 1993, oltre a lasciare perplessi pressoché tutti gli osservatori, hanno trovato un’autorevole smentita nell’ex direttore del Dap (Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria) Nicolò Amato. Quest’ultimo era stato sostituito alla guida del Dap il 4 giugno 1993 dal magistrato Adalberto Capriotti, cui fu abbinato come vicedirettore Francesco Di Maggio, magistrato di punta alla Procura di Milano per quasi tutti gli anni Ottanta, poi passato all’Alto commissariato antimafia a coadiuvare Domenico Sica e infine, dietro segnalazione governativa, finito a Vienna a dirigere l’agenzia antidroga delle Nazioni Unite, incarico lasciato per insediarsi al Dap. In un’intervista rilasciata a Rainews24, Nicolò Amato ha rivelato il proprio fermo convincimento che la paternità del mancato rinnovo dei 41-bis del 5 novembre 1993 vada attribuita proprio a Francesco Di Maggio, che era il vero dominus del Dap, alle spalle del ruolo meramente formale assegnato a Capriotti. Amato nulla ha saputo (o voluto o potuto) dire, però, su un documento, da lui redatto nel marzo 1993, nel quale veniva sollecitata la messa in mora della normativa sul carcere duro per i mafiosi. Quella nota dell’ex capo del Dap faceva riferimento ad orientamenti già emersi il 12 febbraio 1993, lo stesso giorno dell’insediamento di Conso al posto di Martelli in via Arenula, nel corso di una seduta del comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica: in quell’occasione – scrive Amato - era stato il capo della Polizia Vincenzo Parisi, storico mentore di Bruno Contrada, a manifestare contrarietà al mantenimento del regime detentivo previsto dall’art. 41-bis. Nei verbali di quel comitato, però, che Parisi abbia manifestato questo atteggiamento non risulta; risulta invece che fu lo stesso Nicolò Amato a sollecitare un alleggerimento del 41-bis. È un fatto che il 15 maggio 1993, il giorno successivo al fallito attentato a Maurizio Costanzo in via Fauro a Roma, il regime carcerario del 41-bis fu revocato per 140 detenuti. Di questi, solo 17 erano divenuti collaboratori di giustizia, e per loro erano stati gli stessi magistrati a sollecitare l'alleggerimento del trattamento in cella. Per tutti gli altri fu una scelta autonoma del governo. I provvedimenti di revoca del 41-bis furono firmati dal vice-direttore del Dap Edoardo Fazioli. Si diceva di Francesco Di Maggio. Si tratta del personaggio più controverso fra gli attori di quello squilibrato frangente istituzionale, nel quale il capo del governo Ciampi arrivò a temere un colpo di Stato di marca tardo-piduista. Personaggio controverso, Di Maggio, soprattutto per la statura indiscussa di molti suoi estimatori, fra i quali esponenti tra i migliori della storia giudiziaria milanese: da Piercamillo Davigo ad Armando Spataro a Ilda Boccassini. Senza dimenticare un dato di fatto da non trascurare: Francesco Di Maggio era stato uno dei magistrati antimafia più intimi con Giovanni Falcone.
Le indagini del pubblico ministero Gabriele Chelazzi sulle stragi del ‘93.
E allora quali sono le ragioni che impongono di riflettere sull’eventuale ruolo di Di Maggio nella Trattativa? La prima è insuperabile: poco prima di morire, fu proprio il compianto pubblico ministero Gabriele Chelazzi – indubbiamente il magistrato che con maggiore sagacia e con indiscussa rettitudine cercò di venire a capo dei misteri di Stato della Trattativa – a mettere nel fuoco della sua attenzione investigativa l’operato di Di Maggio quale vicecapo del DAP nel 1993. Quando Chelazzi virò le indagini su di lui, in realtà Di Maggio era già morto, stroncato il 7 ottobre 1996 a soli 48 anni per una grave forma di epatite degenerata in cirrosi epatica. Ma ad insospettire il Pm fiorentino, oltre al ruolo formale di Di Maggio al Dap, era stata un’inspiegabile annotazione trovata nell’agenda dell’allora colonnello Mario Mori, esattamente nella pagina dedicata al 27 luglio 1993. Si tratta di una data drammatica per l’Italia: nella notte successiva tre auto riempite di esplosivo (una a Milano nei pressi del padiglione di arte contemporanea, una a Roma a San Giovanni in Laterano e un’altra sempre a Roma davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro) avrebbero insanguinato il centro cittadino di Milano e provocato terrore nell’area di due famosi edifici religiosi della capitale, intestati, curiosamente, a santi omonimi dei Presidenti dei due rami del Parlamento, Giovanni Spadolini e Giorgio Napolitano. Ecco, proprio in quella data, sull’agenda di Mario Mori risultò annotato un appuntamento dell’ufficiale del Ros con Francesco Di Maggio, con una causale davvero strana: “per prob. detenuti mafiosi”. Strana, anzi inspiegabile, perché non risulta che fra i campi d’intervento del Ros ci fosse il controllo del trattamento penitenziario dei mafiosi. Chelazzi dovette saltare sulla sedia dalla sorpresa, nel leggere quell’appunto sull’agenda di Mori. Si consideri che le bombe di Milano e Roma scoppiarono all’indomani del rinnovo, deliberato il 16 luglio, di 325 decreti che imponevano il 41-bis ad altrettanti mafiosi, quelli varati subito dopo la strage di via D’Amelio a Palermo. E un altro balzo Chelazzi dovette fare quando scoprì che il 22 ottobre 1993 Di Maggio e Mori si erano nuovamente incontrati, questa volta alla presenza anche dell’allora colonnello Giampaolo Ganzer, l’attuale comandante del Ros, condannato il 12 luglio 2010 dal Tribunale di Milano a quattordici anni di reclusione per gravissime imputazioni, a partire dal traffico di droga. Occhio alla data, 22 ottobre 1993: pochi giorni dopo, il 5 novembre 1993, 334 detenuti non si videro prorogato il regime restrittivo del 41-bis. Tra questi Conso decise di non rinnovare il carcere duro per 140 mafiosi rinchiusi all’Ucciardone nonostante Capriotti avesse chiesto un parere alla Procura di Palermo e quest’ultima avesse risposto che era inopportuno modificare il regime carcerario dei detenuti in questione, esprimendo parere favorevole alla proroga. Il parere della Procura di Palermo recava la firma degli allora procuratori aggiunti Vittorio Aliquò e Luigi Croce. Fu all’esito di queste scoperte che Gabriele Chelazzi si decise a sentire come testimone Mario Mori. L’incontro fra il magistrato fiorentino e colui che il primo ottobre 2001 era diventato, su designazione del secondo governo Berlusconi, direttore del Sisde avvenne nel pomeriggio dell’11 aprile 2003 e Chelazzi non ne rimase per nulla soddisfatto: secondo lui, Mori si era trincerato dietro troppi inescusabili “non ricordo”. E per questo, come ricorda il magistrato Alfonso Sabella, in quel momento collega di Chelazzi alla Procura di Firenze, il P.m. che indagava sulla Trattativa si era determinato a iscrivere l’ex generale del Ros sul registro degli indagati: “L’ipotesi di Gabriele in quel periodo è che ci fosse stato un tentativo da parte degli organi dello Stato di dare un segnale di ‘apertura’ a Cosa Nostra in maniera da impedire che altre stragi si portassero avanti. Questo segnale di ‘apertura’ era collegato all’alleggerimento del 41-bis o quantomeno al ridurre il numero dei detenuti al 41-bis. Perché Gabriele faceva questa ipotesi? Perché – non ricordo in quale agenda o da qualche parte – aveva saputo di un incontro tra il generale Mori e Francesco di Maggio, all’epoca vicecapo del Dap, che sembrava collegato da un appunto alla vicenda del 41-bis. Nello stesso periodo si era registrata anche la revoca di parecchi decreti 41-bis. Questa era l’ipotesi che aveva Gabriele.... Gabriele iscrisse Mori nel registro degli indagati per favoreggiamento in relazione alla vicenda della fase della trattativa che doveva portare alla revoca di alcuni 41-bis alla vigilia delle stragi in contemporanea con il fallito attentato all’Olimpico (stadio Olimpico di Roma – ottobre 1993/gennaio 1994). L'aspetto tecnico (e non solo tecnico) di iscrivere Mario Mori per favoreggiamento verteva su una domanda specifica: l’avrebbe fatto per favorire la mafia o l’avrebbe fatto sostanzialmente per favorire la pacificazione nello Stato? Gabriele giustamente sosteneva di volerlo appurare da Mori e a tal proposito ribadiva: ‘Mi venga a dire perché l’avrebbe fatto oppure invochi il segreto di Stato, e in questo caso che venga un Presidente del Consiglio a porre il segreto di Stato’”. Sabella non si dovette sorprendere dei sospetti di Chelazzi, se sul Ros, da P.m. della D.d.a. di Palermo negli anni del Procuratore Giancarlo Caselli, si era fatta un’idea per nulla positiva proprio sulle ricerche dell’allora latitante Bernardo Provenzano, tema centrale del processo oggi pendente a Palermo a carico di Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu: “A noi sembrava – così si è espresso Sabella a Palermo davanti ai giudici della quarta sezione penale del Tribunale – che il Ros agisse in un’altra direzione, per acquisire informazioni non come forza di polizia ma per altri motivi, a noi sconosciuti”. Se si legge il verbale delle dichiarazioni rese da Mori ai pubblici ministeri Chelazzi e Giuseppe Nicolosi si comprende appieno la sensazione che Sabella ebbe della delusione del collega. Se ne ricavano, fra l’altro, alcune impressioni nette: intanto, la metodicità e lo scrupolo minuzioso con cui Chelazzi – che durante quel verbale, nelle premesse alle domande poste a Mori, spiega in dettaglio l’obiettivo delle sue indagini – aveva ricostruito in punto di fatto il susseguirsi di ogni anche minuscolo evento susseguitosi nel biennio 1992-93; poi il “buon rapporto” che intercorreva fra Mario Mori e Nicolò Amato, il quale, cessata la sua permanenza al Dap e intrapresa l’attività di avvocato, secondo Massimo Ciancimino sarebbe stato nominato quale difensore da Vito Ciancimino su consiglio proprio di Mori; ancora, il sospetto che Mori in quell’incontro del 27 luglio 1993 avesse potuto riportare a Di Maggio le confidenze che il pentito Salvatore Cancemi, consegnatosi ai carabinieri il 22 luglio precedente con l’intenzione di iniziare da subito a collaborare con la giustizia, gli avesse potuto rivolgere circa il forte malumore serpeggiante in Cosa Nostra per le modalità applicative del 41-bis; i tentennamenti manifestati al riguardo da Mori, che ricordava come subito dopo la sua costituzione Cancemi fosse stato alloggiato a Verona sotto il controllo del maggiore Mauro Obinu e, del tutto inspiegabilmente, del maresciallo Giuseppe Scibilia, a quel tempo in servizio al Ros di Messina (e dalla domanda del P.m. Nicolosi, se si trattasse proprio di quel maresciallo Scibilia in servizio a Messina, emerge la sorpresa pure dei magistrati); il rapporto di grande solidarietà fra Mori e Di Maggio, che erano “veramente amici” e che, al di là delle due annotazioni risultanti sull’agenda del generale Mori, si incontravano spesso anche a cena (sic!); i buoni rapporti di frequentazione fra Mori e l’allora direttore del Giornale di Sicilia Giovanni Pepi, che aveva ricevuto pubblico encomio niente di meno che da Totò Riina in un’esternazione dalla gabbia davanti alla Corte di assise di Roma il 29 aprile 1993: “Pepi è una persona seria che sa quello che scrive e quello che dice”; la prima visita che una giornalista, Liana Milella (allora a Panorama), riuscì a fare il 10 agosto 1993 al supercarcere di Pianosa per uno scoop che provocò le ire del Prefetto di Livorno, tenuto all’oscuro della sortita avvenuta con la copertura di Di Maggio, e avvenuta poco dopo un incontro che, il 30 luglio di quell’anno, la Milella aveva avuto con Mario Mori. Di tutti i temi e i nomi emersi da quel lungo verbale, è qui il caso di soffermarsi su quello meno conosciuto, il maresciallo Giuseppe Scibilia. Sì, perché non si riesce a capire a quale titolo a un sottufficiale del Ros di Messina fosse stata assegnata la responsabilità di gestire l’avvio della collaborazione con la giustizia di Salvatore Cancemi nel luglio 1993. Peraltro, ciò avveniva pochissimo tempo dopo un eclatante ed inescusabile passo falso che il Ros di Messina, guidato per l’appunto da Scibilia, aveva fatto con l’omessa cattura nel barcellonese del boss allora latitante Nitto Santapaola: il capomafia catanese frequentava stabilmente dei locali nei quali erano attive intercettazioni ambientali gestite dal Ros di Messina nell’ambito dell’indagine sull’omicidio del giornalista Beppe Alfano; anziché andare con tutta calma ad ammanettare Santapaola, il Ros aveva fatto intervenire la squadra del capitano Ultimo, che anziché acciuffare il latitante si era data ad inseguire un diciannovenne della zona, che per un soffio non fu ucciso dalle pistolettate esplosegli dietro da Sergio De Caprio. Ne venne fuori perfino un procedimento penale a carico di Ultimo, archiviato con una motivazione abbastanza infamante per l’ufficiale. Se Scibilia aveva ricevuto quell’incarico delicato ed estraneo alle funzioni che ricopriva in quel momento, ciò era dovuto agli antichi rapporti di fiducia che legavano il sottufficiale al generale Antonio Subranni, che nella seconda metà degli anni Settanta era stato in servizio a Palermo e aveva avuto ai suoi ordini il giovane maresciallo Giuseppe Scibilia. Proprio in quegli anni Scibilia, insieme ad altri subordinati di Subranni, fu impegnato nelle indagini sull’uccisione di due carabinieri della stazione di Alcamo Marittima, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. In un processo di revisione attualmente in corso presso la Corte di appello di Reggio Calabria, è emerso il forte sospetto che Scibilia ed altri si sarebbero resi responsabili di torture per costringere alcuni giovani del trapanese a confessare di essere i responsabili dell’eccidio. Ne è scaturito un procedimento a carico di Scibilia e altri tre sottufficiali presso la Procura di Trapani, per calunnia e altro, archiviato per prescrizione dei reati. Sullo sfondo delle torture, i depistaggi nelle indagini sul duplice omicidio, dietro il quale si è sospettata la presenza di trame nere e di deviazioni istituzionali. Negli anni Novanta, però, Scibilia era in servizio a Messina. Eppure, veniva usato dai vertici del Ros come un fidato globe-trotter per casi di particolare delicatezza. Cosa che avvenne pure nelle vicende che avvolsero il suicidio del maresciallo (anch’egli del Ros) Antonino Lombardo. La sera del 23 febbraio 1995, nel corso della trasmissione “Tempo reale” condotta da Michele Santoro, Leoluca Orlando e Manlio Mele (allora sindaco di Terrasini) avevano rivolto al maresciallo Lombardo accuse di contiguità mafiosa. Lombardo in quel periodo era da tempo impegnato in trasferte per gli Stati Uniti, ove si recava con il maggiore Obinu per svolgere colloqui investigativi con il boss Gaetano Badalamenti. Si disse che Badalamenti stesse per essere convinto a tornare in Italia per rendere alla magistratura dichiarazioni con le quali avrebbe messo in crisi i processi fondati sulle rivelazioni di Tommaso Buscetta: stravagante progetto di collaborazione con la giustizia a beneficio di imputati eccellenti. La sopravvenuta esposizione mediatica di Lombardo determinò i vertici del Ros a revocargli l’incarico per una partenza già programmata per il 26 febbraio. Vistosi abbandonato e in pericolo, Lombardo si tolse la vita il 4 marzo 1995, lasciando ai suoi familiari una lettera nella quale spiegava che “la chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani”. Il 16 marzo 1995 Mario Mori venne sentito dai pubblici ministeri di Palermo sul suicidio del maresciallo Lombardo e si espresse in questi termini circa la revoca dell’incarico a Lombardo per la nuova trasferta americana: “Il 24 avendo saputo che il sottufficiale avrebbe sporto querela contro le persone che lo avevano accusato, discussi della cosa con il maggiore Obinu. Questi segnalò l’inopportunità di esporre in quel momento il sottufficiale ad eventuali ulteriori polemiche, che potevano derivare dalla diffusione della notizia del suo incarico di portare Badalamenti in Italia e preso atto di tali osservazioni, parlai con il generale Nunzella (allora comandante del Ros, n.d.a.) ed insieme stabilimmo di mandare negli USA il maresciallo Scibilia, al posto di Lombardo”. Insomma, in quegli anni, ed anche in quelli a venire, il maresciallo Giuseppe Scibilia era uno dei più fidati ambasciatori degli uomini di vertice del Ros. Ufficiali del Ros, e Mario Mori per primo, come rappresentanti dello Stato che si muovevano per ragioni apparentemente estranee ai propri compiti d’ufficio: questo, quindi, fu il filone investigativo coltivato dal P.m. Chelazzi negli ultimi giorni di vita. Lo sfortunato magistrato fiorentino, però, nella mattina del 17 aprile 2003 fu colto da un improvviso malore che ne provocò la morte.
L’eredità scomoda di Gabriele Chelazzi.
A proseguire su quell’indirizzo d’indagine furono i suoi colleghi della D.d.a. di Firenze, che a poche settimane dalla morte di Chelazzi raccolsero imprevedibili riscontri sulle anomalie nei contatti fra Francesco Di Maggio e Mario Mori. Ne parlò nel giugno 2008 il battagliero mensile d’inchiesta La Voce delle Voci, in seno all’articolo a firma di Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola dal titolo “L’infiltrato speciale”, dedicato a “Servizi segreti e inquinamento delle istituzioni”. I due autori riportarono stralci di un sofferto verbale di dichiarazioni rese il 13 maggio 2003 ai pubblici ministeri fiorentini Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi dall’ispettore del Dap Nicola Cristella, fedelissimo collaboratore di Di Maggio nei mesi caldi del 1993. Così aveva raccontato Cristella: “Quanto alle frequentazioni che il consigliere Di Maggio aveva in quel periodo anche in relazione al suo ruolo istituzionale, rammento che frequentava il maggiore Bonaventura del Sisde, l’attuale comandante del Ros generale Ganzer, il colonnello Ragosa della Polizia penitenziaria con cui erano molto amici. La abituale frequentazione con Bonaventura era accompagnata anche dalla presenza di un’altra persona con cui si vedevano spesso a cena tutte e tre, quasi tutte le sere; questa persona veniva all’appuntamento in motorino e se non ricordo male si tratta di un civile all’epoca anch’egli nei servizi segreti … Un’altra persona con cui il consigliere aveva una qualche frequentazione era il giornalista di Famiglia Cristiana Sasinini”. Il verbale dell’ispettore Cristella si concludeva con una precisazione: “In sede di rilettura l’ispettore Cristella precisa che la persona indicata precedentemente come commensale abituale del consigliere Di Maggio e del maggiore Bonaventura era il colonnello Mori del Ros. L’ispettore precisa che a questo punto è un po’ più incerto sul fatto di chi dei due, se cioè Bonaventura o Mori, venisse all’appuntamento in motorino”. Dunque i rapporti fra Di Maggio e Mori erano ben più frequenti della singola annotazione dell’agenda del generale del Ros. Ma quel che più appare significativo è l’intero ventaglio delle relazioni personali praticate dal vicecapo del Dap: oltre agli ufficiali del Ros Mori e Ganzer, un altro ufficiale dell’Arma come Umberto Bonaventura che in quel momento era un dirigente del Sismi, il giornalista Guglielmo Sasinini oggi imputato nel processo per gli spionaggi Telecom che ha coinvolto anche Luciano Tavaroli e Marco Mancini (lo scandalo sullo spionaggio Telecom scoppiò nel settembre 2006), e infine l’ufficiale della Polizia penitenziaria e oggi dirigente del Dap Enrico Ragosa. Certo, persone molto diverse fra loro ma tutte a modo loro significative. Per Umberto Bonaventura si potrebbe ripetere quanto detto per Di Maggio: figlio del capocentro del Sifar a Palermo fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, Bonaventura fu sicuramente, a partire dalla fine degli anni Settanta, uno dei giovani ufficiali più fedeli a Carlo Alberto Dalla Chiesa; fu il capo del Nucleo antiterrorismo e poi della Sezione anticrimine a Milano; passò dunque, al seguito di Di Maggio, all’Alto commissariato antimafia per poi, negli anni Novanta, entrare al Sismi, dove rimase fino alla sua morte improvvisa, avvenuta nel 2002. Fra i suoi subordinati a Milano ci furono due giovani sottufficiali destinati a diventare famosi: proprio Luciano Tavaroli e Marco Mancini, coinvolti nello scandalo Telecom insieme al giornalista Guglielmo Sasinini. Il quale Guglielmo Sasinini, oltre ad essere imputato a Milano nel processo per gli spionaggi Telecom, è stato un giornalista che spesso si è interessato di vicende di mafia. Ancora oggi Vincenzo Calcara, il pentito di Castelvetrano che iniziò a collaborare con Paolo Borsellino nel 1991, ricorda un po’ stranito l’intervista che Sasinini, dietro accreditamento dell’Alto commissariato antimafia, gli fece dopo la strage di via D’Amelio e che venne pubblicata da Famiglia Cristiana il 5 agosto 1992. Il pezzo giornalistico più sconvolgente su questioni di mafia, però, l’ex vicedirettore di Famiglia Cristiana lo scrisse quando era più impegnato nelle traversie giudiziarie che non nel mestiere di cronista. Comparve sulle colonne di Libero il 3 aprile 2008 con il titolo “Lo Stato mortifica chi lotta sul serio contro la mafia” ed era un’accorata difesa del Ros di Mori. Ma soprattutto conteneva una rivelazione sconvolgente che non avrebbe mai trovato smentita. Sasinini, infatti, sostenne di aver condiviso con Mori e con l’allora capitano Sergio De Caprio (meglio noto con lo pseudonimo di Ultimo) i giorni che precedettero la cattura di Riina. Tutto scritto nero su bianco e occultato dalla più inspiegabile distrazione generalizzata (tranne i già citati Cinquegrani e Pennarola e lo scrittore Alfio Caruso, nel suo “Milano ordina uccidete Borsellino”, ed. Longanesi): “Dopo mesi di lavoro investigativo puro gli ‘indiani’ scovarono e catturarono il capo dei macellai corleonesi: Totò Riina. Io conoscevo bene quel gruppo di guerrieri e condivisi molte giornate con loro e soprattutto con Mario Mori, in particolare l’estenuante attesa della vigilia quando ‘il pacco’ stava per essere consegnato. Poi tutta l’Italia si emozionò per la più famosa delle catture”. Certo, la cattura di Riina raccontata come un “pacco” che viene consegnato sembra la ricopiatura della tesi, ritenuta infamante dal Ros ma ritenuta molto più che verosimile da molti osservatori e da molti investigatori, secondo cui Riina fu consegnato nelle mani del Ros, per iniziativa di Bernardo Provenzano. Solo che stavolta a sostenere questa teoria fu non un avversatore del Ros ma una persona strettamente legata agli esponenti di vertice dell’organismo d’investigazione d’eccellenza dell’Arma dei carabinieri. Senza trascurare la domanda più banale: ma che ci azzeccava il giornalista Guglielmo Sasinini con Mori e De Caprio in attesa della cattura di Riina? Dalle parole di Cristella emerge un altro nome della cerchia ristretta dei fedelissimi di Di Maggio, il “colonnello Ragosa della Polizia penitenziaria”. Si tratta di Enrico Ragosa (ancora oggi dirigente del Dap), che nel 1986 era stato impegnato al carcere palermitano dell’Ucciardone, per il maxiprocesso celebratosi nell’aula bunker, e che nel 1997 per due anni sarebbe transitato al Sisde. Giusto il 6 luglio 1993 (sotto la gestione Capriotti-Di Maggio) Ragosa era stato nominato responsabile del Servizio di coordinamento operativo (dedito specificamente ai detenuti di mafia) del Dap. E certo non dovette essere un caso se il 4 dicembre 1996 su Famiglia Cristiana comparve un’intervista esclusiva del generale Ragosa al giornalista Guglielmo Sasinini. In premessa alle risposte di Ragosa, l’intervistatore segnalava, con invidiabile arguzia, che “le bombe di Roma, Firenze, Milano avevano lo scopo di indurre il potere politico a eliminare il regime 41-bis’”. Poi però tuonava convinto: “invece così non è stato”. E le 334 revoche del 5 novembre 1993? Distrazioni di un giornalista. Il quale proseguiva notando che “alle spalle della sua scrivania il generale Ragosa tiene in bella evidenza le fotografie di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Giovanni Falcone, di Francesco Di Maggio che diresse (sic!) il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”.
Barcellona Pozzo di Gotto, uno snodo cruciale dei rapporti mafia-potere.
Si torna, dunque, a Di Maggio e a quei sospetti che Chelazzi stava cercando di verificare, di fare diventare ipotesi processuali. Non sappiamo se Chelazzi, in quei giorni, avesse letto (o riletto), una vecchia informativa del Gico della Guardia di Finanza di Firenze, trasmessa il 3 aprile 1996 (Nr. 109/U.G. di prot.) ai pubblici ministeri di La Spezia che in quel periodo stavano indagando su traffici d’armi all’ombra di una possibile nuova P2, in un’inchiesta che avrebbe portato in carcere il 16 settembre 1996, tra gli altri, Pierfrancesco Pacini Battaglia e Lorenzo Necci. Quell’informativa del 3 aprile 1996, però, era dedicata a un altro personaggio, Rosario Pio Cattafi, nato a Barcellona Pozzo di Gotto il 6 gennaio 1952. Si tratta della stessa persona che negli anni Novanta venne indagata (e poi archiviata) sia nella famosa inchiesta “Sistemi criminali” della D.d.a. di Palermo sia nell’inchiesta di Caltanissetta sui mandanti occulti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. La cronaca giudiziaria messinese degli anni Settanta testimonia che Cattafi era stato compagno d’armi, all’università di Messina, niente di meno che di Pietro Rampulla, l’artificiere della strage di Capaci. Cattafi successivamente era stato anche il mentore, oltre che il testimone di nozze, del boss barcellonese Giuseppe Gullotti. Quello stesso Gullotti che, secondo Giovanni Brusca, su richiesta di Rampulla, aveva personalmente recapitato agli stragisti di Capaci il telecomando utilizzato proprio da Brusca il 23 maggio 1992. Beh, se Chelazzi negli ultimi tempi lesse quell’informativa dovette strabuzzare gli occhi. Perché vi era riportata un’intercettazione in cui era proprio Cattafi a parlare dei propri rapporti con Di Maggio. A questo punto, però, è meglio fare un passo indietro. Cattafi, dopo i burrascosi anni di militanza neofascista all’università di Messina, che gli avevano fruttato due condanne definitive (una per una goliardica sventagliata con un mitra Sten all’interno della Casa dello studente; l’altra, insieme a Pietro Rampulla, per l’aggressione ad un gruppo di studenti sospetti di simpatie sinistrorse), si era trasferito dalla fine del 1973 a Milano dove aveva impiantato affari nel campo farmaceutico. Era però finito, anche all’ombra della Madonnina, in guai giudiziari. In un’occasione era stato pure arrestato, in un’indagine per il sequestro dell’industriale Giuseppe Agrati, che nel gennaio 1975 aveva fruttato ai rapitori il riscatto di addirittura due miliardi e mezzo di lire. Le prove sembravano solide, c’era perfino una testimone oculare che aveva visto Cattafi ed un complice, con le borse piene dei soldi del riscatto, partire per la Svizzera. Sennonché, su richiesta proprio del pubblico ministero Francesco Di Maggio, Cattafi era stato prosciolto in istruttoria con una sentenza emessa nel 1986 dal giudice istruttore milanese Paolo Arbasino. Cattafi, però, era rimasto coinvolto anche nelle rivelazioni che il pentito milanese (di origine catanese) Angelo Epaminonda, detto “il Tebano”, aveva reso proprio al dr. Di Maggio, a partire dal novembre 1984. Epaminonda aveva accusato Cattafi di essere l’emissario del boss catanese Nitto Santapaola negli affari dei casinò e di essere uno degli uomini più importanti del sodalizio mafioso insediatosi nell’autoparco di via Salomone a Milano. Una storia da prendere con le pinze, quella dell’indagine sull’autoparco della mafia, perché era rimasta senza esito a Milano fin dal 1984 e quando era stata tirata fuori nel 1992 dalla Procura di Firenze ne era nata una violenta polemica, strumentalizzata da chi aveva tentato di brandirla, in difesa dei tangentisti di regime, come arma contro il pool Mani Pulite di Milano. Di quell’inchiesta, nel 1984 a Milano, era stato titolare per l’appunto Francesco Di Maggio, che da un lato aveva raccolto le dichiarazioni di Epaminonda sui mafiosi dell’autoparco e dall’altro aveva ricevuto le informative dei carabinieri sulla stessa vicenda. Ma nulla ne era sortito. Non solo: nel maxiprocesso derivato dalle confessioni di Epaminonda fra gli imputati non era comparso Rosario Cattafi (per lui le accuse di Epaminonda erano state stralciate e inserite nel fascicolo per il sequestro Agrati). Anzi, nel “processo Epaminonda” il P.m. Di Maggio aveva fatto svolgere a Cattafi il ruolo di testimone dell’accusa. Francesco Di Maggio – non lo avevamo ancora detto – era cresciuto a Barcellona Pozzo di Gotto, figlio di un sottufficiale dell’Arma che prestava servizio lì. Solo dopo la licenza liceale si era trasferito in Brianza, a Desio, dove, prima di entrare in magistratura, aveva fatto in tempo a dedicarsi alla politica come consigliere comunale. Torniamo all’intercettazione di Cattafi riportata nell’informativa del Gico di Firenze. Nella notte del 16 settembre 1992 gli investigatori del Gico, con un’ambientale piazzata negli uffici dell’autoparco di via Salomone, avevano intercettato una lunghissima conversazione fra Rosario Cattafi, Ambrogio Crescente e Vincenzo Caccamo. Il discorso ad un certo punto era andato sul pentito Angelo Epaminonda, che aveva rivelato a Di Maggio un incontro che Cattafi gli aveva chiesto, per conto di Nitto Santapola, per entrare in società al casinò di Saint Vincent.
Eccone il testo: “CATTAFI: ‘Io non lo conoscevo (Angelo Epaminonda) … e maledetto il momento che l’ho conosciuto … perché io ero … sono stato arrestato in Svizzera … sono venuto in Italia, scendo per chiedere e chiarire … mandato di cattura in Italia … eh potevo uscire dopo altri tre mesi … ad un certo punto … neanche il tempo di fare accertamenti e interrogatori … si è pentito sto cazzo in brodo … eh … diciamo il dottor DI MAGGIO … il P.M. non lo sai ci sono andato a scuola…’. CRESCENTE: ‘… inc. … DI MAGGIO era un avvocato fallito a Monza … inc. … DI MAGGIO era un caruso … un … inc. … fallito…’. CATTAFI: ‘Questo era il figlio del maresciallo dei Carabinieri al mio paese (incomp.) … questo dice … ti manda come cassiere della mafia internazionale … questo … inc. … ehh … lui DI MAGGIO … inc. … dice non appartiene a … non è uno … eh dice però … DI MAGGIO si sente dire … ma c’ero pure io con – inc. – a questo punto … quello ci disse sappi che per me è uomo di SANTAPAOLA … eh … avvicinato…’”.
Chiunque può farsi un’idea: la più adesiva al tenore delle parole è che Cattafi ammettesse di aver effettivamente incontrato Epaminonda, il quale poi si era pentito con un P.m., Di Maggio, al quale Cattafi era legato da antichi rapporti risalenti ai tempi della scuola a Barcellona Pozzo di Gotto; e non sembra potersi mettere in dubbio che Cattafi riferisca la reazione di sorpresa che Di Maggio aveva avuto all’indirizzo di Epaminonda quando il pentito aveva legato il nome di Cattafi alla mafia e in particolare al boss Santapaola. Certo è che, fra le rivelazioni di Epaminonda e quell’intercettazione, Cattafi con Di Maggio per forza di cosa aveva avuto contatti, non foss’altro che per il fatto che il pubblico ministero aveva chiamato Cattafi come teste d’accusa per la posizione dell’imputato Salvatore Cuscunà nel processo nato dalla collaborazione di Epaminonda. È, quindi, abbastanza fondato il sospetto che Cattafi in quella conversazione intercettata ripetesse un discorso fattogli personalmente dal suo vecchio conoscente Francesco Di Maggio. Ecco, quindi, come in quell’incredibile gioco di specchi che sembra fare da scenario alla Trattativa si passa da Di Maggio ad un personaggio di alta valenza criminale come Cattafi, il quale nel decreto emesso dal Tribunale di Messina con il quale nel luglio 2000 gli venne irrogata la misure di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno venne sospettato di essere una sorta di trait d’union fra la mafia barcellonese, la mafia catanese e i servizi segreti. E così si entra nel gioco grande del progetto politico-eversivo che fece, almeno in parte, da propulsore alle stragi mafiose. In questo quadro, occorre ricordare, allora, che due collaboratori di giustizia siciliani (uno catanese, Maurizio Avola, e uno messinese, Luigi Sparacio) hanno reiteratamente dichiarato che Rosario Cattafi nei primi anni Novanta avrebbe partecipato ad alcuni summit, tenutisi in provincia di Messina, prodromici alle stragi del 1992, alla presenza, fra emissari della mafia e di apparati deviati, anche di Marcello Dell’Utri. Quelle dichiarazioni non trovarono seguito ma nemmeno smentita. Di quelle riunioni potrebbe tornare a parlarsi nel processo di revisione che si preannuncia per la strage di via D’Amelio. Infatti a breve la D.d.a. di Caltanissetta proporrà alla Procura generale di Caltanissetta le risultanze finali delle indagini avviate con la collaborazione di Gaspare Spatuzza, che hanno spazzato via i depistaggi di Stato che avevano accompagnato il “pentimento” di Vincenzo Scarantino ed una parte dei processi che si erano celebrati fra Caltanissetta, la Corte di cassazione e Catania. Secondo le regole sulla competenza per i processi di revisione, così, ad occuparsi della revisione sulla strage del 19 luglio 1992 sarà la Procura generale di Messina, guidata dal magistrato barcellonese Antonio Franco Cassata. Anche di lui e dei suoi legami con Cattafi si parla in quella informativa del Gico di Firenze. Al momento dell’arresto furono trovati nell’agenda di Cattafi tutti i recapiti telefonici del magistrato, compreso quello di casa. Chissà perché li teneva in agenda. Viene anche ricordata la militanza di Cattafi in un particolarissimo circolo culturale barcellonese il cui nome dice già abbastanza: Corda Fratres (cuori fratelli). Ne era socio, quando organizzava l’omicidio del giornalista Beppe Alfano o quando – secondo il racconto di Brusca – procurava il telecomando per la strage di Capaci, anche il boss Gullotti. Il dominus di quel circolo culturale era ed è proprio il magistrato, Antonio Franco Cassata, cui arriveranno gli atti per la revisione del processo su via D’Amelio. Sulle pareti della sede di Corda Fratres, che si trova nella piazza centrale di Barcellona P.G., campeggiano ancora le vecchie locandine attestanti la partecipazione di Di Maggio a conferenze indette dal circolo cui erano iscritti Rosario Cattafi e Giuseppe Gullotti.
La Trattativa e quel che ne è derivato come una persecuzione del destino: un passato oscuro che non vuole passare.
L'ASSASSINIO DI MORO (1978) - Il "mistero dei misteri", dopo le ultime dichiarazioni fatte da politici autorevoli, presenta risvolti inquietanti. Dietro la morte del dirigente DC uno spietato gioco delle parti, scrive Giuseppe Dell’Acqua. Lo "slogan" che nell'Aprile del 1978 echeggiava in Italia tuona ancora forte nella mente di chi, il 9 Maggio 1978, ha assistito in diretta tv alla prima vera "morte della Repubblica". Simbolo di uno Stato che crolla è il corpo senza vita dell'onorevole Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata in Via Caetani a Roma. Perchè durante i 55 giorni di prigionia dello statista, la frase "nè con lo stato nè con le BR'' era sulla bocca di tutti? Com'è possibile che gli italiani arrivino a mettere in dubbio l'appartenenza ad uno Stato, ad una società; arrivino a mettere in dubbio se stessi. Il 16 marzo scorso è ricorso il 28° anniversario della strage di Via Fani (16 marzo 1978) ed è passato ancora una volta nel silenzio di tutti; quotidiani, riviste, TG, programmi TV, nessuno ha nemmeno accennato alla morte dei cinque agenti di scorta. A distanza di tempo è bene ricordare che il mistero del sequestro Moro non è ancora stato svelato e soprattutto che la dichiarazione rilasciata il 5 luglio 2005 dall'onorevole Galloni (vice segretario vicario della DC nel 1978) inerente la "certa" presenza della CIA e del MOSSAD all'interno delle BR, ha alzato un grosso polverone che nel giro di pochi giorni, come per incanto, si è dissolto in un semplice ricordo. Le dichiarazioni di Galloni, Andreotti e addirittura della Santa Sede, i documenti del "Dossier e dell'Archivio Mitrokhin", devono obbligatoriamente portare la coscienza di "qualcuno" a pensare che forse sia giunto il momento di parlare per far conoscere all'Italia, la verità.
16 marzo 1978, Via Fani ore 9.05: " ...un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della DC. La sua scorta armata, composta da cinque agenti...è stata completamente annientata..."
Con questo comunicato le Brigate Rosse, il 17 marzo, rivendicano il sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro e l'uccisione del maresciallo dei carabinieri Oreste Leopardi, dell'appuntato Domenico Ricci, del brigadiere Francesco Izzi e degli agenti Raffaele Iozzino e Giulio Rivera. Il 16 marzo 1978 la Camera dei Deputati è pronta a votare la fiducia al 4° governo Andreotti che nasce dopo una crisi lunga e difficile, durata quasi 8 settimane. A rendere particolare quest'evento è che, per la prima volta negli ultimi 30 anni, fanno parte del governo anche esponenti del Partito Comunista Italiano, avvicinati alla Maggioranza dal nuovo progetto politico, denominato "compromesso storico"; artefice della cosiddetta "svolta a sinistra" è proprio l'onorevole Aldo Moro. D'origini pugliesi Moro è stato capo del governo in cinque diverse occasioni dal 1963 (I governo) al 1976 (V governo) e ad oggi, è considerato come uno dei più grandi statisti italiani perché è riuscito a comprendere prima di tutti l'ondata di innovazione che stava colpendo la politica italiana. Moro dal 16 marzo al 9 maggio 1979 resterà per tutto il periodo chiuso nella "prigione del popolo" delle Brigate Rosse. Chi erano le BR e soprattutto qual era il loro principale obiettivo? Le BR "nascono" in un convegno dei militanti del Comitato Politico Metropolitano (CPM) a Chiavari, in Liguria nell'autunno del 1970. Il CPM era una "Struttura Articolata di Lavoro in cui i militanti realizzano da una parte le condizioni per una riflessione politica.e dall'altra consentono una crescita politica omogenea della lotta."; erano gruppi di studenti ed operai che si riunivano in "assemblee" per discutere di politica e per cercare di "risolvere" i problemi della società attraverso "lotte e volantini". In questo convegno è sostenuta la necessità di intraprendere una lotta armata, della guerriglia e quindi, della clandestinità: "Non è con le armi della critica e della chiarificazione che s'intaccano la corazza del potere capitalistico e le croste della falsa coscienza delle masse. Che la lotta di classe nel suo procedere incontri la violenza del sistema, è inutile ripetercelo. Il problema della violenza non è separabile dall'illegalità. lo scontro violento è una necessità intrinseca necessaria nello scontro di classe.". La parola d'ordine negli anni '70 è "lotta di classe", ed è proprio questo lo scopo principale delle "neonate" BR che, infatti, si autodefinirono "combattenti del proletariato". I loro punti di riferimento erano "il marxismo-leninismo, la rivoluzione culturale cinese e l'esperienza in atto dei movimenti guerriglieri metropolitani, non accettando gli schemi che hanno guidato i partiti comunisti europei nella fase rivoluzionaria della loro storia." Le BR avevano intenzione di realizzare quello che Lenin riuscì a fare in Russia nel 1917: una "rivoluzione comunista", ma allo stesso tempo rinnegavano il modo con il quale i partiti comunisti europei hanno affrontato la "politica rivoluzionaria" fino a quel momento. L'obiettivo principale quindi era la lotta di classe che doveva portare il "proletariato", il "solo, unico, autentico, comunismo rivoluzionario" al potere. Secondo il parere di molti storici, il vero obiettivo delle Brigate Rosse era quello di essere riconosciute politicamente ed il discorso fino a qui fatto rafforza l'idea di BR come partito politico, pronto a guidare la nazione. Un esponente di spicco del partito armato però, nega questa tesi: Mario Moretti. Capo indiscusso delle BR, ideatore del sequestro Moro e quindi punto massimo delle ideologie brigatiste, nel suo libro "Mario Moretti, Brigate Rosse, Una storia italiana" alla domanda di Carla Mosca e Rossana Rossanda sulla trattativa che le BR stavano avendo con il Governo per la liberazione di Aldo Moro, risponde: ".Dire "trattativa" mi fa rabbrividire. E' diventata sinonimo di "cedimento". Noi non volevamo ne trattavamo nessun riconoscimento istituzionale. Come potevamo chiedere una patente di legittimità allo stato che stavamo combattendo?" Le BR volevano solo l'"ammissione di uno stato di fatto" che valeva a dire " qualcuno dello Stato ammettesse: si, in Italia ci sono dei detenuti politici, dunque c'è un soggetto politico con il quale dobbiamo interloquire". Non gli serviva essere riconosciute politicamente o istituzionalmente, a loro bastava solo essere "riconosciute" come avversario, come nemico da battere. Il linguaggio, leggermente "conflittuale", è appropriato nel descrivere "gli anni di piombo" ed in particolare il sequestro Moro che ha rappresentato, per la società italiana, una vera e propria "guerra civile" dove non ci sono due ideologie politico-sociale a lottare tra loro, ma tre istituzioni: lo "Stato" rappresentato dal Governo, l'"Anti-Stato" rappresentato dalle Brigate Rosse e la "Nazione" rappresentata dal popolo italiano. E' proprio questo terzo elemento che rende l'"Affaire Moro" un macigno, ancora oggi, che grava insopportabile sulla Repubblica Italiana; per la prima volta si è messa in dubbio l'appartenenza ad uno Stato, "né con lo Stato né con le BR" è lo slogan del 1978 e questo significa che non solo, un popolo non riconosce più l'avversario nel "cattivo" ma addirittura, non riesce a capire chi è veramente il "nemico" da battere. Si colloca quindi in una posizione intermedia, al centro dei due "fuochi". Questo comporta la distruzione di un'identità che mai l'Italia Repubblicana proverà ancora.
Il mistero Moro è una delle più grandi "ombre" dello Stato italiano; ha rappresentato il culmine di una "stagione di piombo" che si è protratta dal dicembre del 1969 all'agosto del 1980 in corrispondenza di due avvenimenti che hanno sconvolto la nazione: le stragi rispettivamente di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) e della stazione centrale di Bologna (2 agosto 1980). In quest'intervallo di tempo, denominato "Anni di Piombo", l'Italia intera fu colpita da gravi atti terroristici "neri" e "rossi". I colori purtroppo distinguono il terrorismo di stampo fascista o più semplicemente quello di "estrema Destra" (Nero) da quello di marchio comunista o di "estrema Sinistra"(Rosso). E' solo una coincidenza che i due attentati "spartiacque" si tingono di "nero" non solo per l'alone di mistero che tuttora li circonda, ma anche per le dirette responsabilità dell'azione. E' bene ricordare che dopo la strage alla stazione di Bologna, gli attentati continueranno, anche se, avranno volti nuovi e del tutto diversi quali la mafia, la camorra e la ndrangheta, per non parlare poi del terrorismo moderno; ma questo è un altro discorso. Come ogni "dopoguerra" che si rispetta, anche la "stagione di piombo" ha il suo bilancio, un bilancio che come ricorda un gran maestro del giornalismo Sergio Zavoli "...non potrà mai essere a misura delle vite distrutte, delle ferite ancora aperte; ma occorre farlo, perché quanto detto si possa tradursi, alla fine, anche in qualcosa di assolutamente incontestabile come la fredda oggettività dei numeri.". 429 vittime, 2000 feriti, 199 morti e 782 feriti in 10 stragi, 144 vittime rivendicate dal terrorismo "rosso" 86 delle quali solo da parte delle Brigate Rosse e 36 vittime rivendicate dal terrorismo "nero", sono solo alcuni dei "numeri", tragici, che il terrorismo porta con se. È subito evidente che ben 86 delle 144 vittime rivendicate, appartengono alle BR, sintomo che sia stata la più grande "organizzazione terroristica italiana" della storia repubblicana. La domanda a cui sarà impossibile dare una risposta, è se le BR sono un "frutto" concimato, raccolto e mangiato esclusivamente da "contadini" italiani o se invece "qualcuno", di più grande, le ha "usate" per raggiungere i suoi obiettivi? E' questo il capitolo più difficile della storia del sequestro Moro e delle BR; la possibile influenza, nelle BR d'organizzazioni più grandi e più segrete, non appartenenti allo stato italiano, è da anni un punto cruciale su cui storiografi e critici s'interrogano.
Le ultime dichiarazioni dell'onorevole Galloni, rilasciate martedì 5 luglio 2005 alla rete televisiva "RAINews24", sembrano confermare l'ipotesi di una "collaborazione" tra le BR e i servizi segreti stranieri. Galloni, vice segretario della DC all'epoca del sequestro Moro disse: "Moro mi disse che sapeva per certo che i servizi segreti sia americani sia israeliani avevano degli infiltrati all'interno delle Brigate Rosse. Però non erano stati avvertiti di questo". La possibile presenza della CIA e del MOSSAD all'interno delle BR, apre nuovi ed inquietanti scenari sul caso Moro, chiudendo definitivamente le porte alla "pista russa" che fino ad oggi ha ipotizzato che a "decidere" la sorte dell'onorevole Aldo Moro sia stato il KGB russo. Nel raccontare la "Storia contemporanea" bisogna tener conto che esistono due "binari" che viaggiano nella stessa direzione e velocità e che però "trasportano" due "versioni dei fatti" distinte e separate. Il binario è quello del "conosciuto", della storia scritta sui libri, raccontata dai nonni o semplicemente vista in TV; il secondo invece porta con se una "storia" misteriosa, non conosciuta e che nessun libro di storia, nessun documentario TV e "forse" nessun nonno potrà mai raccontare: è la "Storia" scritta dai Servizi Segreti. I contatti tra le BR e i servizi segreti stranieri non sono molto documentati e quindi sono esclusivamente frutto d'ipotesi o d'invenzioni fantapolitiche che a volte hanno anche un fondamento. Nell'"Archivio Mitrokhin" - la raccolta di documenti segreti che Vasilij Mitrokhin, capoarchivista del KGB, consegnò agli inglesi del MI6 nel 1992 e che nel 1999 fu pubblicata con la partecipazione di Christopher Andrew, massimo esperto storico del KGB - ci sono due dichiarazioni molto importanti per la politica italiana: "nell'estate del 1967, Giorgio Amendola, a nome della Direzione del PCI, chiede formalmente l'assistenza sovietica per preparare il partito alla sopravvivenza come movimento illegale e clandestino nel caso di un colpo di Stato. Fino al 1976 i trasferimenti di fondi al Partito comunista sono stati molto più semplici a Roma che negli Stati Uniti, dal momento che i capi del PCI visitano regolarmente l'ambasciata sovietica, è possibile evitare la trafila di contatti clandestini e nascondigli segreti. Aiuti finanziari aggiuntivi arrivano da Mosca anche attraverso contratti lucrosi con società controllate dal PCI". La prima indiscrezione ci rivela che il PCI è finanziato direttamente dal KGB, mentre la seconda ci ricorda che: "Il PCI si preoccupava in particolar modo del sostegno che le Brigate Rosse ricevono dai servizi segreti cecoslovacchi, quando le BR assaltano nel centro di Roma l'automobile del presidente della DC, l'onorevole Aldo Moro, le preoccupazioni dei leader del PCI raggiungono l'apice, teme una fuoriuscita di notizie sul sostegno dato dai servizi segreti cecoslovacchi (StB) alle BR. Una delegazione del PCI a Praga è stata messa a tacere quando ha cercato di sollevare la questione dell'aiuto alle BR, alcuni esponenti delle quali sono stati invitati in Cecoslovacchia." Riassumendo, ci rendiamo conto che il PCI prelevava soldi dal KGB ed era a conoscenza che i servizi segreti cecoslovacchi "aiutavano" in qualche modo le BR, ma aveva paura che ciò si venisse a sapere. Perché? Forse perché in questo modo anche la collaborazione tra PCI e KGB sarebbe stata scoperta e soprattutto perché il PCI sarebbe stato accusato di aiutare indirettamente, attraverso gli amici cecoslovacchi (StB), le Brigate Rosse. In un momento caldo come quello dell'immediato "dopo-Moro", ciò avrebbe suscitato forti polemiche che avrebbero sancito il definitivo "crollo" del PCI proprio nel momento in cui si stava - per la prima volta nella sua storia - avvicinando al governo. Che il PCI ricevette finanziamenti dai servizi segreti Russi è accertato dall'Archivio Mitrokhin mentre la "collaborazione" tra BR e StB non è mai stata confermata. Nel "Dossier Mitrokhin" - la raccolta di documenti che gli Inglesi tra il 1995 ed il 1999 hanno inviato ai servizi segreti italiani - c'è il "Rapporto Impedian numero 143" che dice: ".Nel dicembre del '75 Yuriy Andropov notificò quanto segue al Comitato Centrale del PCUS. Il Ministro degli Affari Interni Cecoslovacco, OBZINA, aveva informato il rappresentante del KGB sovietico a Praga di un incontro avvenuto il 16 settembre 1975. L'incontro era stato tra Antonin VAVRUS, Capo del Dipartimento Internazionale del Comitato centrale del Partito Comunista Cecoslovacco e Salvatore CACCIAPUOTI, vice presidente della Commissione Centrale di Controllo del Partito Comunista Italiano (PCI). CACCIAPUOTI affermò di essere stato autorizzato dalla dirigenza del PCI a informare il Comitato centrale del Partito Comunista Cecoslovacco che le agenzie ufficiali italiane erano in possesso di alcuni documenti.che confermavano che una delle basi dell'organizzazione terroristica italiana "Brigate Rosse" era ubicata in Cecoslovacchia e che le agenzie di sicurezza cecoslovacche stavano cooperando con essa." Ancora più dirette sono le accuse che nel settembre del '74 il capitano dei carabinieri Gustavo Pignoro del nucleo antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fa ad Alberto Franceschini - uno dei fondatori delle BR - affermando che al momento della sua cattura, era appena arrivato da Praga. Dopo soli 6 mesi (marzo 1975) a conferma di quanto detto, gli appunti dei servizi segreti italiani rivelano che Franceschini soggiornò in Cecoslovacchia dal giugno '73 al giugno '74 frequentando il campo di addestramento di Karlovy Vary. A distanza di 30 anni arriva l'inattesa quanto impensata smentita. Un articolo, scritto sull'"Espresso" del 27 maggio 2005, risolve tutti gli equivoci e spegne l'incendio fin qui alimentato. Nell'ottobre del '99 il SISMI - l'apparato dei servizi segreti italiani - ha chiesto ai servizi segreti dell'ex unione sovietica tutta la documentazione riguardante i possibili appoggi della StB alle BR. Da questi documenti è venuto fuori che Franceschini e Curcio - capo storico delle BR - sono veramente stati a Praga, ma non si trattava dei fondatori delle BR. Uno è l'avvocato Renato Curcio, nato a Catanzaro l'1/3/1931, presente in Cecoslovacchia il 7 ed 8 agosto 1972. L'altro è un commerciante di Foiano (Arezzo), Sergio Franceschini nato nel 1917, presente a Karlovy Vary agli inizi degli anni '70. Grazie a Nicola Biondo, consulente della Commissione Mitrokhin che per primo ha letto e studiato i documenti provenienti dall'Unione Sovietica, un primo gran mistero è stato svelato e soprattutto, ritornando alle dichiarazioni di Galloni sulla presunta collaborazione BR-USA, possiamo analizzare da un diverso punto di vista l'intero "Affaire Moro". Il rapporto USA - Moro è sempre stato in primo piano fin da quel drammatico 16 marzo del 1978. Aldo Moro era stato più volte minacciato di morte nel caso in cui non avrebbe abbandonato immediatamente la carriera politica. Di fronte alla Commissione Parlamentare d'inchiesta, Eleonora Moro - moglie dello statista ucciso - ricordando il viaggio negli USA che il marito fece nel 1974 come ministro degli Esteri insieme al Presidente della Repubblica Leone, dice: "È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza svelarmi il nome della persona... adesso provo a ripeterla come la ricordo: "Onorevole, lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere."." Secondo alcuni collaboratori dell'onorevole Moro "il presidente fu molto scosso dall'incontro avuto con il segretario di Stato, Henry Kissinger, tanto è vero che il giorno dopo nella Chiesa di S. Patrick si sentì male e disse di voler interrompere per molto tempo l'attività politica". Il segretario di Stato USA, Kissinger, era molto ostile a Moro tanto che arrivò ad affermare che non credendo nei dogmi, non potesse credere nella sua impostazione politica e per questo lo riteneva un elemento "fortemente negativo". Sulle minacce che il presidente della DC subì prima del sequestro, è importante ricordare che tanti avvenimenti fecero presagire ad un triste epilogo. In principio fu il caso della macchina blindata che doveva essere pronta per il dicembre del 1977 e che invece non arrivò mai. Andreotti che Cossiga hanno sempre smentito che Moro fece richiesta di un'auto blindata. Il maresciallo Leonardi, responsabile della scorta, fece raddoppiare la dotazione abituale di proiettili della sua pistola e quella degli agenti di scorta. Altri eventi, fecero capire che nell'entourage di Moro c'era uno stato d'animo preoccupato. Solo negli ultimi anni è giunta la notizia che il 15 marzo 1978 - il giorno prima della strage - il capo della Polizia ha visitato Moro nel suo ufficio, tranquillizzandolo sull'eventualità d'attentati nei suoi confronti. A Moro fu assicurato che i servizi segreti avevano la situazione sotto controllo e che non correva nessun pericolo immediato. "Ironia della sorte", il giorno dopo Moro fu rapito. Nella prima metà degli anni '50 la CIA chiese la collaborazione del SIFAR, il Servizio Informazioni Forze Armate. A capo dei servizi segreti italiani nel 1962 era Giovanni De Lorenzo che sottoscrisse un patto con la CIA: "deve [De Lorenzo] impegnarsi a rispettare gli obiettivi di un piano permanente d'offensiva anti-comunista chiamato in codice << Demagnetize >>. Il piano consiste in una serie di operazioni politiche, paramilitari e psicologiche, atte a ridurre la presenza, la forza, le risorse materiali e non ultimo l'influenza nel governo del Partito comunista in Italia.Del piano Demagnetize il governo italiano NON deve essere a conoscenza essendo evidente che esso può interferire con la loro rispettiva sovranità nazionale". Al primo arruolamento di Gladio partecipò un colonnello del SIFAR, Renzo Rocca che "per i primi sei mesi del '63, su preciso mandato del generale della CIA Walters, s'impegnò nella campagna volta a impedire la formazione del primo centro sinistro organico preseduto da Moro". Il 27 giugno 1968, Rocca fu trovato morto in un ufficio al sesto piano di un palazzo di via Barberini 86 a Roma. Rocca aveva il compito di commerciare armi con i paesi Africani e soprattutto, doveva instaurare rapporti con i servizi segreti israeliani e palestinesi. Altro "007" che ebbe il compito di allacciare rapporti con i palestinesi fu il colonnello Stefano Giovannone. Un comunicato Ansa del 10 maggio 2002 dice: "Il colonnello, nel 1984, nell'inchiesta a Venezia su un traffico d'armi BR-Olp, avrebbe parlato di un proprio interessamento presso i palestinesi, e in particolare, presso il leader Arafat, per cercare aiuti per ottenere la liberazione di Aldo Moro, dopo il suo sequestro. I contatti tra i palestinesi e le BR.sarebbero avvenuti, ma non ebbero esito positivo perché Arafat fece una dichiarazione pubblica, proprio contro le BR". Il nome di Giovandone lo fece anche Aldo Moro durante i giorni di prigionia, indicandolo come "personalità in grado di intervenire" per cercare di ottenere la sua liberazione. Lo stesso Mario Moretti, capo delle BR, prese contatti con la guerriglia palestinese che arrivò a fornirgli delle armi. Tutto ciò avvenne un anno prima del sequestro Moro. Da queste testimonianze, ci rendiamo conto che CIA, SISMI, MOSSAD, OLP e BR erano in contatto tra loro e che almeno tre di loro erano legati da un'alleanza forte e ben radicata. Probabilmente sarà proprio quest'alleanza a decidere le sorti del presidente della DC. Nella vicenda Moro sono implicate tutte le più importanti istituzioni militari, a porre l'accento ancora una volta sul fatto che il 9 Maggio 1978 - giorno del ritrovamento del cadavere di Moro - ha rappresentato la fine di una "guerra civile" e l'inizio di un costante declino di un partito che è stato alla guida del paese dal primo giorno della Repubblica. Politici, industriali, operai, studenti, casalinghe; tutto il Paese è stato, per cinquantacinque giorni, coinvolto in un drammatico evento che ha scosso l'immaginario collettivo, facendo venire meno quei punti di riferimento che la società si era data: Stato, Nazione, Chiesa. La certezza che Moro non si sarebbe salvato era molto alta, al punto di giungere ad affermare che Moro non è morto il 9 maggio 1978 ucciso dai colpi della pistola di Mario Moretti; Aldo Moro "è morto" il 22 aprile, quando il Santo Padre Paolo VI, decise di rivolgersi alle BR: "Ed in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l'onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni." La lettera che Paolo VI scrisse agli "uomini delle Brigate Rosse" fu pubblicata sull'Osservatore Romano e, stando alle testimonianze dei brigatisti, segnò fortemente l'animo del Presidente. Anna Laura Braghetti - l'unica donna del gruppo brigatista che ha vissuto nella stessa casa dove lo statista fu tenuto prigioniero - racconta che ".fu il papa a far precipitare ulteriormente la situazione. Moro gli aveva scritto tempo prima, supplicandolo di intervenire. Ma il papa non lo ascoltò.per Moro segnò il momento peggiore di quei 55 giorni, Fra tutte le cattive notizie che Mario [Moretti] gli portò, nessuna lo scosse come il documento del Papa. Capi che il cerchio si era saldato nel punto esatto in cui lui aveva confidato - e calcolato - che si spezzasse." Il messaggio era solo l'ultimo dei tanti appelli umanitari che le BR ricevettero durante i giorni di prigionia. Questa lettera però conteneva qualcosa di diverso; il Papa si era già rivolto ai sequestratori e non aveva mai chiuso la porta del dialogo. Quel giorno però, l'appello di Paolo VI, mise la parola "fine" alle trattative. Fu la presenza di due parole, "Senza Condizioni", che fece cadere nel vuoto le ultime speranze di liberazione. Su queste "quindici lettere" si potrebbero scrivere volumi interi; C'è chi in questa frase indica la presenza dei Servizi Segreti di mezzo mondo, chi invece è certo che fu aggiunta a posteriori sotto suggerimento di Giulio Andreotti, capo di quella DC, che aveva sul piatto della bilancia la legge sull'Aborto tanto cara alla Chiesa. Come giusto che sia è stupido, e poco professionale, cercare di seguire l'una o l'altra tesi. Sono i documenti che "parlano" e in questo caso sono tutti a favore della chiarezza del Pontefice. Da nessuna parte, su nessun foglio, in nessun interrogatorio, ci sono prove che confermano quanto ipotizzato; l'unica cosa certa è che Moro era un fedele credente e praticante assiduo. Ogni domenica, infatti, seguiva la Santa Messa nella chiesa di Santa Chiara tanto che i Brigatisti pensarono di sequestrarlo proprio durane la funzione religiosa, salvo poi rinunciare per le troppe difficoltà "militari". Per Moro la religione veniva subito dopo la famiglia, a cui tanto era legato e di cui tanto andava fiero.
Alla famiglia è rivolta l'ultima drammatica lettera che Moro scrisse prima di morire.
"Mia dolcissima Noretta [Eleonora Moro], dopo un momento di esilissimo ottimismo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della DC.Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi, bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo. Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo." Dopo aver attribuito le responsabilità della sua mancata liberazione alla DC, si rivolge alla famiglia in un tono affettuoso, ma allo stesso tempo autoritario di chi fondamentalmente è ancora "il capo di famiglia". Moro infine - e solo alla fine - si rivolge a quella Chiesa o meglio a quel Papa, che "ha fatto pochino" per salvarlo e per riportarlo tra le braccia dei propri cari. Il mistero è proprio qui. Moro sostenne che "tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta" ma perché? Era forse a conoscenza che la Chiesa ebbe qualche possibilità di salvarlo? Effettivamente la Santa Sede aveva pronto un "piano" per liberare lo statista attraverso il pagamento di un riscatto. Già durante i 55 giorni di prigionia si era a conoscenza dell'intenzione della Chiesa di aprire una trattativa con le BR; Andreotti ricorda: " Il Papa aveva fatto prendere delle iniziative, vi era stata la disponibilità a pagare anche una cifra molto forte, se fosse stato questo il mezzo per poter salvare Moro, avevano cercato in tutti i modi di avere contatti". A distanza di quasi 27 anni lo stesso Andreotti conferma quella voce, in un intervento al Senato del 9 Marzo 2005: ".E però è vero che con pieno consenso, anzi con nostro grato animo, fu fatto a nome del Santo Padre Paolo VI un tentativo di riscatto. Purtroppo il loro tramite si dimostrò inefficace o addirittura millantatore." A confermare ufficialmente le intenzioni della Santa Sede è mons. Fabio Fabbri, stretto collaboratore di mons. Cesare Curioni - ispettore centrale dei cappellani carcerari italiani - all'epoca del sequestro. La dichiarazione fatta a Vladimiro Satta - giornalista del periodico "Nuova Storia Contemporanea" - indica in dieci miliardi di lire la somma che il Vaticano era pronto a pagare per la liberazione d'Aldo Moro; una cifra elevatissima per il tempo e soprattutto per la causa. Liberare Moro sarebbe stato un colpo durissimo per la DC e soprattutto per la Santa Sede: "Moro vivo sarebbe molto più pericoloso di un Moro morto" è il pensiero che circolava, durante i cinquantacinque giorni di prigionia, nelle menti degli uomini politici più importanti per il paese. Moro libero poteva essere una mina vagante nella politica italiana, andando contro quei "compagni di partito" che avevano dimostrato d'essere tutto, tranne che amici. Era chi aveva rivelato alle BR le linee guida della politica democristiana e quindi, forse, aveva "detto" cose che era meglio non sapere. Proprio per questo il SISMI si era preparato un piano denominato "Victor", da mettere in atto nel caso in cui Moro fosse stato liberato. Il progetto era quello di trasferire Moro in un centro clinico, immediatamente e prima d'ogni incontro con familiari e colleghi di partito. L'azione era assegnata al reparto medico degli incursori di Marina, sede principale di Gladio. Sia per la DC sia per la Chiesa quindi, la liberazione di Moro doveva essere evitata assolutamente. Le trattative tra Chiesa e BR fallirono proprio la mattina del ritrovamento del cadavere di Moro. Molti storici indicano nel "contatto", un personaggio noto alla cronaca per un altro tragico evento di quei 55 giorni: il falso comunicato n°7, quello del Lago della Duchessa. L'autore di quel comunicato fu un falsario legato alla "Banda della Magliana" (gruppo criminale romano) ed ai Servizi Segreti Americani: un certo Tony Ciccarelli. Era lui, secondo le testimonianze, il tramite tra la Chiesa e le BR. Ancora una volta entrano in scena i Servizi Segreti e questa volta però lasciano indelebilmente le tracce del loro passaggio.
Il 16 marzo 1978 alle ore 9.00 i Servizi Segreti Italiani erano presenti in Via Fani.
Il colonnello del SISMI Camillo Gugliemi, specializzato in "addestramento a scopo di imboscata" delle unità di combattimento "stay behind" alla base Nato in Sardegna, quella mattina era in Via Stresa a soli 200 metri dall'incrocio con via Fani. Guglielmi la mattina del 16 marzo avrebbe ricevuto una telefonata dal generale Musameci (P2): "Corri a via Fani a vedere cosa sta succedendo. Un informatore mi ha detto che le BR vogliono rapire Moro". Il militare non ha mai smentito la sua presenza in Via Fani, giustificandola però in un modo un po' "particolare". Egli dichiarò che "doveva andare a pranzo da un amico". In tutte le famiglie "normali" di solito, l'ora di pranzo è intorno alle 13.00 - 13.30 e non alle nove di mattina quando invece si è appena finiti di fare colazione. Mettendo da parte l'ironia, è strano che ci si presenti così di buon'ora a casa di un amico solo per pranzare. Questo stesso amico ha confermato che quella mattina Guglielmi aveva bussato alla porta della sua casa, ma ha sempre riferito che non era mai stato programmato un pranzo insieme. Fatto più inquietante è però che a poco più di 200 metri da un colonnello del SISMI furono sparati più di 90 proiettili, ci fu un tamponamento e fu rapito un grande esponente della politica italiana. Come mai un agente dei Servizi Segreti non ha avuto nemmeno l'idea di intervenire per vedere semplicemente quello che stava accadendo? Guglielmi ha sempre nascosto la sua presenza sul luogo della strage fino al 1991, quando un ex agente del SISMI, Pierluigi Ravasio, lo confidò all'Onorevole Cipriani. Ravasio disse anche che nelle BR era infiltrato uno "007". La spia era uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma il cui nome di copertura era "Franco". Egli avvertì con mezz'ora d'anticipo che Aldo Moro quella mattina sarebbe stato rapito. Se mezz'ora non bastò per evitare la strage, il 16 febbraio 1978 - un mese prima dell'attentato - dal carcere di Matera, Salvatore Senatore disse: "è possibile che Moro sia rapito a breve". Altro preavviso giunse quindici giorni prima del sequestro. Renzo Rossellini, animatore di radio Città Futura, informò i dirigenti del PSI che Moro sarebbe stato rapito. Bettino Craxi, però, lo convocò solo a sequestro compiuto. Lo stesso Rossellini alle otto del mattino - un'ora prima del sequestro - in una trasmissione radiofonica, aprì con la notizia dell'avvenuto sequestro d'Aldo Moro. Le notizie, secondo il generale Santovito (P2), giunsero al SISMI centrale solamente dopo il 16 marzo. Purtroppo la registrazione della trasmissione radiofonica, così come le famose foto scattate da Gherardo Nucci pochi minuti dopo l'attentato, è scomparsa nel nulla. Nessuna prova, però, è più schiacciante di quella fornita da Antonino Arconte, nome in codice G.71. Arconte faceva parte di una struttura militare riservatissima: la "Gladio delle centurie" che operava fuori la nazione Italia al fine di evitare possibili colpi di Stato. Gladio fu istituito negli anni '50 con lo scopo di controllare e neutralizzare la capacità offensiva dei comunisti in caso di guerra civile. Naturalmente da quel momento si è evoluta e specializzata diventando un organo militare fondamentale per i Servizi Segreti italiani. "Il gran segreto" intorno al quale ruotavano gli interrogatori delle BR a Moro era proprio Gladio. L'argomento principale era la struttura di guerriglia e controguerriglia usata dal corpo speciale dei servizi segreti. Questa "seconda faccia" di Gladio doveva assolutamente restare segreto perché coinvolgeva i rapporti con gli USA e in particolare perché infrangeva le leggi della legislazione italiana. La legge 801/77, all'articolo 10, sancisce: "Nessuna attività, comunque idonea per l'informazione e la sicurezza, può essere svolta al di fuori degli strumenti, delle modalità, delle competenze e dei fini previsti dalla presente legge". La legge di riforma dei servizi segreti 801 del '77 impone, per quanto riguarda gli agenti dei servizi segreti, di svolgere solo operazioni di "intelligence" e non operazioni armate. Il compito degli 007 italiani era solo quello di raccogliere informazioni e non di attuare operazioni militari. Gladio invece era coinvolta in molte operazioni militari all'estero ed anche in Italia tanto che il Ministro Formica dichiarò che ".nell'Italia Repubblicana si è costituito un esercito assolutamente incompatibile con il nostro ordinamento; uno stato democratico può certamente avere dei piani segreti.ma non può avere assolutamente una milizia clandestina.". Gladio agiva in modo clandestino e quindi andava contro la legge. Ecco perché rappresentò il "gran segreto" con il quale le BR volevano minacciare lo Stato. Ad un certo punto del sequestro, infatti, ci si rese conto che le trattative non erano volte alla liberazione di Moro bensì alla consegna dei documenti raccolti dai terroristi; ma questo è un argomento che tratteremo più avanti. Ritornando ad Arconte, "il gladiatore" attraverso un sito internet prima, ed un libro poi, parlò di una sua missione in Medio Oriente che ebbe sviluppi importanti nel sequestro Moro". Partii dal porto della Spezia il 6 marzo 1978, a bordo del mercantile Jumbo Emme. Sulla carta era una missione molto semplice: avrei dovuto ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria d'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme, nascondendole a bordo della nave. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo infatti consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut. In quella busta c'era l'ordine di contattare i terroristi islamici per aprire un canale con le BR, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro". Il plico che contiene l'ordine di aprire un canale per la liberazione di Moro è autenticato dal notaio Pietro Ingozzi d'Oristano ed è firmato del Capitano di Vascello della Marina della X Divisione "Stay Behind". Il documento è datato 2 marzo 1978 e fu consegnato a Beirut il 13 marzo dello stesso anno. Moro sarà rapito il 16 di marzo, due settimane dopo la data d'emissione e ben diciotto giorni prima della "cartolina di mobilitazione" che giunse ad Arconte il 26 febbraio 1978. Arconte però non è l'unico testimone del viaggio. Un secondo "gladiatore" lo accompagnò in missione: Pierfrancesco Cangedda, nome in codice "Franz". Egli fu inviato tempo prima in Cecoslovacchia per raccogliere informazioni sull'addestramento delle BR; un tema di grande interesse per la Commissione Mitrokhin. "Franz" è a conoscenza dei legami tra il terrorismo tedesco dell'occidente e le BR. Cosa centra il terrorismo tedesco? Forse non tutti sanno che l'operazione di Via Fani è stata la perfetta copia dell'operazione della Baader-Meinhof - organizzazione terroristica nata nella Repubblica Federale Tedesca nel 1971 - del 5 settembre 1977, quando fu rapito l'industriale Hans Schleyer. La Procura di Roma tramite i NOS ha interrogato i due "gladiatori" nel novembre 2000, solo che, ad oggi, non si conoscono gli esiti. In tutta questa vicenda, l'unica certezza è che nei Servizi Segreti si sapeva con largo anticipo che Moro sarebbe stato sequestrato. Falco Accame, è stato presidente della Commissione difesa della Camera dal 1976; egli ha apertamente dichiarato che "nell'agguato di Via Fani Guglielmi incarnava la presenza di Gladio col compito di verificare che tutto andasse bene ". Falsa che sia questa ipotesi, Gladio era presente in Via Fani "sottoforma di proiettile"; è poco nota la vicenda che i bossoli rinvenuti sul luogo della strage - 92 sparati e ben 46 da una sola arma, una "mitraglietta Scorpion" di fabbricazione cecoslovacca - presentavano una particolare vernice che si usa normalmente contro la ruggine. Questa speciale vernice rende quasi certa la provenienza delle armi, poiché è la stessa usata da Gladio per preservare i proiettili nei depositi sotterranei. Perché pur sapendo in anticipo delle intenzioni dei brigatisti, non si è fatto niente di concreto per la liberazione di un uomo, prima che di un politico.
DIECI GIUDICI COLLUSI CON I CLAN.
"Mi risulta che mio figlio avrebbe fatto i nomi di una decina di giudici; siccome io ho in corso otto processi vorrei che voi chiedeste a mio figlio di dire i nomi di questi giudici", scrive “La Repubblica”. La bomba scoppia alle 10,30 nell' aula bunker di Rebibbia dove la Corte di Assise di Caltanissetta si è trasferita per ascoltare i pentiti nel processo per la strage di Capaci. A parlare è Raffaele Ganci, boss della Noce, prima ancora che il figlio pentito, Calogero cominci a rispondere alle domande delle accuse e della difesa. Le parole del boss spiazzano tutti. E subito si scatena la caccia ai "nomi" degli insospettabili giudici che avrebbero favorito la mafia. Il tam-tam da Roma a Palermo è intenso. Circolano nomi di sei o sette giudici, nomi in libertà che nessuno, né i magistrati di Palermo né quelli di Caltanissetta, titolari per competenza, confermano. Il procuratore aggiunto di Caltanissetta Paolo Giordano, che assieme al collega Luca Tescaroli rappresenta l' accusa nel processo di Capaci, viene "accerchiato" dai giornalisti che gli chiedono notizie: "E' vero, è falso? Chi sono questi magistrati chiamati in causa da Calogero Ganci?". E il procuratore aggiunto Giordano, come al solito, dice poco o niente, si limita a dichiarare che "nel momento in cui dovessero emergere nel corso delle indagini i nomi di alcuni giudici l' ufficio del pubblico ministero automaticamente trasmetterà gli atti al Consiglio superiore della magistratura che li esamina e può decidere se aprire o no un' inchiesta. E questo proprio a garanzia degli imputati". Si controlla anche al Csm e alcune fonti affermano che da Caltanissetta non è giunto alcun fascicolo relativo alle presunte accuse del pentito contro giudici palermitani. Il giallo, dunque, resta. Ma il boss Raffaele Ganci, per fare quella richiesta così specifica al figlio pentito, qualcosa deve pur aver saputo. Ma quando Calogero Ganci, in teleconferenza (si scoprirà poi che si trovava all' interno di una stanza dell' aula bunker di Rebibbia e non in una località segreta), viene interrogato da accusa e difesa, l' argomento, non viene neppure sfiorato. Qualcuno si aspettava che alcuni difensori degli imputati ribadissero la richiesta del boss, ma non è stato così. Calogero Ganci dunque ha risposto alle domande attinenti al processo nel quale è anche imputato assieme al padre, al fratello Domenico e ad altri 39 boss e uomini d' onore. E in relazione ai presunti rapporti tra Cosa nostra e uomini delle istituzioni, il pentito ha ribadito che era il fratello Domenico che "si incontrava con persone vicine alle istituzioni e questo su incarico di mio padre Raffaele". Il figlio pentito del boss parla anche di un altro boss della Cupola, adesso pentito, Salvatore Cangemi che nelle sue dichiarazioni avrebbe "dimenticato" di avere partecipato ad alcuni omicidi eccellenti. Omicidi (come quelli del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la partecipazione alla strage di via D' Amelio) che Ganci nelle precedenti dichiarazioni gli ha "ricordato". "E mio padre - ha affermato Ganci - era sollevato dal fatto che Cancemi non aveva ancora parlato della strage di via D' Amelio". Il pentito rispondendo ad altre domande ha detto che il boss Totò Riina poteva essere arrestato prima: "Bastava seguire me, che ero il suo contatto con gli altri boss, per arrivare a lui". E aggiunge anche di ricordare, per averlo saputo dalla moglie, dei lamenti di Antonietta Bagarella, moglie di Totò Riina, durante uno dei suoi parti in una clinica privata di Palermo dove era ricoverata con un falso nome. Sul 41-bis, il regime carcerario duro imposto ai boss, Ganci rivela che nonostante tutto i mafiosi riuscivano a comunicare tra di loro: "Comunicavamo liberamente e ci scambiavamo informazioni attraverso il bagno o le finestre delle nostre celle". L' interrogatorio di Ganci jr si è concluso nel tardo pomeriggio. Ha fatto o non ha fatto i nomi di giudici "avvicinabili"? Il mistero resta.
Si parla di Silvio Berlusconi come un carnefice incallito, per alcuni, o come un perseguitato dalle toghe rosse, per altri.
I giornali e le tv del cavaliere che rimarcano il fenomeno: perseguitato politicamente.
No! Il fatto è che se capita a lui quello che gli è successo, figuriamoci ai poveri cristi. Intanto parliamo dei suoi processi. Per intenderci: Dici Silvio, parli degli italiani vittime di questo “cazzo” di giustizia.
TRIBUNALI SPECIALI. QUELLO CHE SUCCEDE A SILVIO BERLUSCONI, CAPITA A TUTTI GLI ITALIOTI, CHE SUBISCONO E TACCIONO........ED I GIORNALISTI OMERTOSI: "MUTI SONO".
Gli speciali tribunali per Silvio. Viaggio nei 34 processi che dal 1994 hanno coinvolto il Cavaliere: per scoprire come certe archiviazioni siano state peggio di una condanna. E come la sua sola, vera condanna sia stata pronunciata, in tutti e tre i gradi, da giudici che avevano in comune una caratteristica..., scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Negli ultimi vent’anni è stato fatto un uso politico della giustizia? A sinistra, soltanto all’ipotesi, si stracciano le vesti: si risponde che i magistrati hanno risposto esclusivamente all’imperativo categorico, ormai elevato a rango kantiano,dell’obbligatorietà dell’azione penale. E qualunque tentativo di analisi, anche il più sereno, viene stroncato con accuse smodate (è appena toccato a Panorama): brigatismo, liste di proscrizione, nuovi pogrom nazisti...Dall’altra parte si risponde che, da soli, i 34 procedimenti aperti dal 1994 contro Silvio Berlusconi, scomodo leader dei moderati, bastano per descrivere a tinte forti una persecuzione troppo mirata per essere casuale (Totò Riina, per fare un confronto, è stato processato «appena» 19 volte in 25 anni). Anche perché lo spettro delle accuse è così ampio da apparire inverosimile. Eccole tutte e 20, in ordine alfabetico: abuso d’ufficio, aggiotaggio, appropriazione indebita, associazione per delinquere, concorso esterno in associazione mafiosa, concorso in strage, concussione, corruzione semplice e giudiziaria, insider trading, falso in bilancio, favoreggiamento, finanziamento illecito dei partiti, frode fiscale, peculato, prostituzione minorile, ricettazione, riciclaggio, rivelazione di segreto d’ufficio, vilipendio dell’ordine giudiziario. Mancano solo l’abigeato e la rapina per fare l’en plein. Ma anche un’accurata lettura delle singole vicende giudiziarie berlusconiane accende dubbi sull’imparzialità della magistratura. In 13 processi su 34 (il 38 per cento), la posizione dell’ex premier è stata archiviata prima del rinvio a giudizio. I giudici dell’udienza preliminare (gup) che hanno deciso in questo modo sono stati più spesso magistrati senza corrente o dichiaratamente moderati, come a Milano Luca Pistorelli, Maria Vicidomini e Fabio Paparella (in più casi), o Pierfrancesco De Angelis e Pierluigi Balestrieri a Roma. Più raramente di sinistra, come Beatrice Secchi: esponente e candidata elettorale di Magistratura democratica (Md), fu lei nel febbraio 1998 a negare alla Procura di Milano la richiesta di processare Berlusconi per frode fiscale aggravata sul cosiddetto «Progetto Botticelli». Anche i tre gup che hanno prosciolto il Cavaliere dalle accuse più «pesanti» sono esponenti della sinistra giudiziaria, ma con loro la storia è molto diversa: Gioacchino Scaduto, di Md, nel febbraio 1997 chiuse a Palermo l’inchiesta per concorso in associazione mafiosa e riciclaggio che la procura aveva aperto tre anni prima contro Berlusconi e Marcello Dell’Utri; Giuseppe Soresina nel novembre 1998 archiviò a Firenze l’inchiesta avviata due anni prima sulla strage di via de’ Georgofili del 1993, che la procura ipotizzava fosse stata ordinata da Berlusconi e da Dell’Utri; a Caltanissetta Giovanbattista Tona (poi divenuto presidente dell’Associazione nazionale magistrati in quella circoscrizione) nel maggio 2002 chiuse il fascicolo che accusava sempre Berlusconi e Dell’Utri di essere i mandanti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. Certo, tutti e tre applicarono doverosamente il Codice di procedura penale. Ma poi, nelle motivazioni, scrissero parole avvelenate contro gli indagati: parole che ancora oggi, dopo decenni, continuano a sinistra ad alimentare una ricca pubblicistica politica. Esempi? Scaduto disse di essere costretto ad archiviare «pur essendo emersi diversi elementi che sembrano sostenere l’ipotesi accusatoria». Soresina fece anche peggio: chiuse il fascicolo per scadenza dei termini, ma scrisse che «Berlusconi e Dell’Utri hanno intrattenuto rapporti non meramente episodici con i soggetti criminali cui è riferibile il programma stragista realizzato» e che «esiste un’obiettiva convergenza degli interessi politici di Cosa nostra rispetto ad alcune qualificate linee programmatiche di Forza Italia». Aggiunse perfino che «l’ipotesi iniziale di un coinvolgimento dei due indagati nelle stragi ha mantenuto e semmai incrementato la sua plausibilità». Quanto a Tona, in 73 pagine elencò puntigliosamente tutte le accuse rivolte a Berlusconi e Dell’Utri dagli uomini di mafia e sostenne che gli atti avevano «ampiamente dimostrato la sussistenza di varie possibilità di contatto tra uomini appartenenti a Cosa nostra ed esponenti e gruppi societari controllati in vario modo dagli indagati». Aggiunse: «Ciò di per sé legittima l’ipotesi che, in considerazione del prestigio di Berlusconi e Dell’Utri, essi possano essere stati individuati dagli uomini dell’organizzazione (criminale) quali eventuali nuovi interlocutori». Poi però concluse: «La friabilità del quadro indiziario impone l’archiviazione». Insomma, le archiviazioni decise dai tre giudici si risolsero, paradossalmente, in un’impropria condanna aggravata: perché agli indagati prosciolti fu impedito per sempre di difendersi da quelle accuse infamanti. Forse è anche per quelle tre sentenze se Tona, Soresina e Scaduto sono tra i più celebrati eroi dell’antiberlusconismo. Ma in nessun vero stato di diritto un’assoluzione può trasformarsi in una condanna di fatto, capace di legittimare ogni possibile diffamazione. Quando poi dalle indagini preliminari altri 20 procedimenti berlusconiani sono arrivati a un giudizio vero e proprio, in un solo caso siamo giunti a una condanna definitiva. È il processo per frode fiscale intitolato «Diritti tv Mediaset», partito a Milano nel 2001, che all’inizio ipotizzava anche il falso in bilancio e l’appropriazione indebita. La condanna a 4 anni di reclusione (di cui 3 coperti da indulto), decisa in Cassazione lo scorso 1° agosto, e le cui motivazioni i cinque giudici hanno insolitamente firmato tutti insieme il 29 agosto, ha avviato la grande polemica sulla cosiddetta agibilità politica di Berlusconi. Ma ha un’altra caratteristica peculiare: è scaturita da un processo che in tutti e tre i gradi di giudizio ha avuto collegi con esponenti dichiaratamente di sinistra. In tribunale la condanna a 4 anni di reclusione fu stabilita dalla prima sezione penale guidata da Edoardo D’Avossa, di Md: il 26 ottobre 2012, con una scelta di accelerazione più unica che rara nella storia della giustizia italiana, D’Avossa lesse in aula il dispositivo e immediatamente dopo le motivazioni della sentenza. Va detto che nel novembre 2006 la corte era stata modificata: ne era uscita Fabiana Mastrominico (un giudice moderato che aveva già assolto Berlusconi nel processo Ariosto-Sme e passava al ministero della Giustizia) e le era subentrato Ilio Mannucci Pacini, componente stabile del consiglio nazionale di Md. In appello, poi, la condanna fu velocemente confermata l’8 maggio 2013 dalla seconda sezione penale presieduta da Alessandra Galli, esponente di Movimento per la giustizia (Mpg), l’altra corrente della sinistra giudiziaria. In Cassazione, il presidente Antonio Esposito ai primi d’agosto è finito nelle polemiche e nei guai al Csm per un presunto pregiudizio negativo nei confronti dell’imputato e per un’intervista al Mattino, nella quale ha parzialmente e indebitamente anticipato le motivazioni della sentenza. Accanto a lui, nella sezione feriale della Suprema corte, c’era Ercole Aprile, che nel 2007 si era candidato con Movimento per la giustizia all’Associazione nazionale magistrati. E nel settembre 2010 anche C. D’I, terzo dei cinque giudici di quel supremo collegio, aveva manifestato sentimenti non certamente berlusconiani aderendo a una campagna che propugnava il licenziamento di Augusto Minzolini dalla direzione del Tg1. È di certo un caso, ma in nessun altro procedimento berlusconiano si era mai verificata questa particolare continuità «politica» fra giudici. Per contro, soprattutto in Cassazione, hanno spesso deciso per l’assoluzione anche collegi che contenevano esponenti di sinistra: è accaduto per esempio nel processo per il falso in bilancio sul consolidato Fininvest, aperto a Milano nel 1996. Nell’aprile 2004 la quinta sezione penale della Cassazione respinse il ricorso del pm, Francesco Greco, che si opponeva all’archiviazione per prescrizione: il presidente era Giorgio Lattanzi, vicino a Mpg (oggi è giudice costituzionale), e del collegio faceva parte Luciano Panzani, vicino a Md. In altri due casi, infine, l’opposto orientamento dei collegi di primo e secondo grado, passati dalla condanna di Berlusconi all’assoluzione, trova un curioso parallelismo nell’opposto orientamento politico dei giudici. È stato così nel processo milanese per le tangenti alla Guardia di finanza, quello che nel 1994 contribuì alla caduta del primo governo Berlusconi; e nel procedimento All Iberian 1 che, aperto a Milano quattro anni più tardi, ipotizzò un finanziamento illecito del Psi. Nel primo caso Berlusconi fu rinviato a giudizio da Oscar Magi, di Md, e condannato in primo grado a 2 anni e 9 mesi dalla sesta sezione penale. Questa era stata presieduta fino al gennaio 1997 da Carlo Crivelli: in quel processo il giudice passò alle cronache per l’infelice battuta sul «bastone e la carota», rivolta al pm Gherardo Colombo, con cui era parso concordare una comune linea di comportamento nei confronti della difesa. Per quella frase Crivelli fu ricusato da Berlusconi e decise spontaneamente di astenersi (fu poi assolto dal Csm e perfino promosso). Al suo posto subentrò Francesca Manca, che nel maggio 2009 avrebbe firmato un duro appello contro il tentativo di riforma della giustizia del governo Berlusconi. Ma davanti a un collegio di giudici moderati, in Corte d’appello, la condanna nel maggio 2000 si trasformò in assoluzione: in parte per prescrizione e in parte per non avere commesso il fatto. E la Cassazione, nell’ottobre 2001, decise infine di assolvere in pieno l’imputato Berlusconi. La stessa identica trafila subì il processo All Iberian 1: in primo grado, nel luglio 1998, il Cavaliere fu condannato a 2 anni e 4 mesi dalla seconda sezione penale di Milano. Non era una sezione qualsiasi: quattro mesi prima Marco Ghezzi, il suo presidente, aveva sorprendentemente chiesto di passare in procura, alle dirette dipendenze di Francesco Saverio Borrelli, e la stessa Repubblica aveva scritto di lui definendolo «il giudice che sogna di fare il pm». Di quel collegio giudicante faceva parte anche Marilena Chessa: nel 1994 aveva fatto parte della corte che aveva condannato il finanziere Sergio Cusani per il finanziamento illecito del Pds, ma aveva inopinatamente escluso ogni responsabilità del partito, sostenendo che era stato impossibile indicare chi, nella sede di via delle Botteghe Oscure, avesse incassato il miliardo di lire portato da Cusani. Si era scritto, allora, che era il primo caso in cui un reato tipicamente «simmetrico» come il finanziamento illecito era stato spezzato in due. Anche il processo All Iberian 1 contro Berlusconi, in secondo grado, passò a una corte di «senza corrente» e finì nel nulla: prescrizione. E non servirono né il ricorso dell’accusa, che insisteva per la condanna, né quello degli imputati, che chiedevano l’assoluzione piena. La seconda sezione della Cassazione nel novembre 2000 li respinse entrambi. Del collegio, curiosamente, faceva parte Antonio Esposito. Sì, proprio il giudice delle polemiche. Perché nella giustizia, purtroppo, la politica è sempre in agguato.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana, scrive Francesco Specchia su “Libero Quotidiano”.
«...Punto! Due punti!! Ma sì, fai vedere che abbondiamo. Abbondandis in abbondandum». Al di là del merito e della torpida sostanza giuridica, ho letto le motivazioni dell’ormai mitica sentenza Mediaset. E, grammaticalmente, la prim’immagine evocatami (ci perdoni il presidente della sezione feriale di Cassazione, ma essendo appassionato del teatro di Scarpetta, comprenderà) è stata quella della dettatura della lettera di Totò a Peppino, gli altrettanto mitici fratelli Capone. Dunque. M’immaginavo il presidente Antonio Esposito, il quale, accalorato, la toga stropicciata, il succoso accento napoletano, si alza e osservando verso l’alto il punto di un immaginario sestante, detta ai consiglieri De Marzo Giuseppe e Aprile Ercole mollemente assettati roba: «Veniamo noi con questa mia addirvi...». E questo è il prologo immaginato. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183, la parte più dadaista: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio? Possibile che in natura vi siano tante attrazioni del relativo da sembrare un trenino erotico? La prosa della Cassazione è frullo, velocissimo, di anacoluti. E qui m’immagino i consiglieri De Marzo e Aprile che si fermano un attimo, riprendono il fiato; si girano appena ad osservare il presidente Esposito che sembra dire: «Hai aperto la parente? Chiudila...»; e poi si rimettono, in apnea, testa bassa, a vergare: «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, da quel fango ribollente di parole, perle tautologiche tipo «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..»: roba che, letterariamente, in passato poteva comportare anche una rottura degli schemi e dei generi, come insegnavano Italo Calvino, Céline o Ambrose Bierce (privilegiati qui rispetto ai pandettisti Calamandrei, Rocco, o a Pisapia padre...). Per non dire, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, del vorticoso intreccio dei «siffatto contesto normativo», degli «allorquando», degli «in buona sostanza», che rendono -come dire?- un tantino accidentata la lettura. Prendete la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Uno dice: per forza non capisci un tubo, è linguaggio giuridico. Il problema è che io ho fatto giurisprudenza, specializzato nel diritto processuale. Alla serie di termini linguistici accostati in modo più o meno ordinato o anche in modo caotico e senza un percorso strutturale, dovrei esserci abituato. Ripeto: non entro nel merito della sentenza. Eppure qui, per vapore sintattico, mi tornano sempre in mente Totò e Peppino. Il fatto è che, quasi tutti i giudici non sanno -o non vogliono scrivere - in una forma comprensibile. Montesquieu, nel libro diciannovesimo dell’Esprit des lois, ammoniva: «Le leggi non devono essere sottili: sono fatte per individui di mediocre intelligenza; non sono espressione dell’arte della logica, ma del semplice buon senso di un padre di famiglia». Le leggi dovrebbero essere capite anche dalla cuoca di Lenin, o dalla casalinga di Voghera. Eppure con la scusa del «gergo» si compiono le peggiori nefandezze grammaticali. Scrive il docente Stefano Spele nel suo saggio Semplificazione del linguaggio amministrativo: «La scarsa attitudine a scrivere in modo chiaro è stata favorita, anche dai meccanismi di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nelle quali ha largamente dominato il principio non scritto che è meglio non assumersi nessuna responsabilità. Oscurare il linguaggio serve ad oscurare le responsabilità». Vero. Spesso è la responsabilità dei magistrati. Non è questo il caso, naturalmente, caro dottor Esposito. Chiusa la parente.
Vede finalmente la luce un’opera monumentale che colma una lacuna nel mondo della linguistica. È un progetto che ha visto impegnato un team composto dai maggiori esperti del settore e grazie al quale potrà essere tradotto un documento rimasto fino a oggi non decifrato: la sentenza Berlusconi, scrive Giuseppe Pollicelli su “Libero Quotidiano”. La soddisfazione di uno degli studiosi: “È stata durissima ma ce l’abbiamo fatta, ora mi potrò rilassare dedicandomi all’etrusco e al rongorongo”. Di seguito, in esclusiva per i lettori di LiberoVeleno, alcuni dei lemmi resgistrati dal vocabolario Espositese-Italiano.
Ammariuca. Da pronunciarsi ponendo l’accento sulla lettera u, questo sostantivo dall’etimologia sconosciuta non trova riscontri al di fuori dell’espositese: indica infatti un’assoluta idiosincrasia nei confronti della lingua italiana e un’insormontabile difficoltà nel parlarla.
Chiavicazzone. Epiteto ingiurioso che in espositese si rivolge a chi commetta un’ingenuità o una leggerezza. Quando ha trovato sul Mattino le sue considerazioni sulla condanna al Cavaliere, Antonio Esposito ha esclamato a gran voce: “Songo ’nu chiavicazzone!”.
Ditalende. Sostantivo femminile che si usa solo al plurale. Le ditalende sono le preoccupazioni e i grattacapi che possono derivare a un individuo dalle condotte discutibili del parentado. Un figlio magistrato che organizzi cene a lume di candela con un’imputata assai nota alle cronache può essere cagione di ditalende.
Fracuzzella. Indica un particolare stato d’animo, simile alla rabbia e alla stizza, che coglie taluni ogni volta che s’imbattono nella persona o anche solo nel nome di Silvio Berlusconi. Se il giudice Antonio Esposito pronuncia la frase “Tengo ’na fracuzzella tanta”, vuol dire che è meglio girargli al largo.
Manzaccio. Aggettivo che si adopera a proposito di un individuo infido, sleale, subdolo. Quando nomina il cronista del Mattino con cui ha intrattenuto la famosa conversazione telefonica, Antonio Esposito non manca mai di dire che “Chillo là nun è solo malamente, è ’nu vero manzaccio!”
Scianfroglia. Con questo vocabolo ci si riferisce alla speciale capacità, sviluppata e affinata soprattutto dagli abitanti di Sarno e dei paesi limitrofi, di distinguere con sicurezza l’uno dall’altro tutti i numerosissimi membri della famiglia del giudice Esposito, compresi i cugini di quarto grado.
Tangolicchiare. Prodursi in piccoli e ripetuti sorrisini allorché si viene a conoscenza di una notizia che prelude all’esito fausto di una determinata vicenda. Si tangolicchia, per esempio, se si apprende che la Procura generale della Cassazione può impiegare fino a un anno per ascoltare una tua telefonata compromettente della durata di pochi minuti.
Voccallocca. Atteggiamento disinvolto, non di rado sconfinante nell’istrionismo e nella sfacciataggine, che si assume durante una festa o una cena tra amici e che induce a parlar male pubblicamente di Silvio Berlusconi auspicandone la condanna nei processi penali.
Non solo errori grammaticali. La Cassazione boccia le sentenze scritte a mano.
Sono illeggibili, segno di ridotta attenzione nei confronti di chi è condannato. Invito ad usare il computer, scrive Bruno Ventavoli su “La Stampa”. Giudici, buttate la penna. Se scrivete sentenze, fatelo al computer. La tirata d’orecchie arriva dalla Cassazione, che invita i magistrati italiani ad abbandonare nostalgie e vezzi da amanuensi. Non perché il Palazzaccio voglia d’un tratto buttare al macero secoli d’arte calligrafica. Ma semplicemente perché molte sentenze, vergate a mano, risultano incomprensibili. Giubilano, pare di sentirle, le praticanti che negli studi legali devono stendere atti per poche decine d’euro, e inciampano in scarabocchi, s’impuntano su una «f» che somiglia a una «l», rischiando l’isteria. E gioiscono tutti quelli che nella vita quotidiana hanno a che fare o per mestiere o per casualità con fogli rigati d’inchiostro da mani che non sanno maneggiare penne. Le ricette d’un medico, è noto, sembrano scarabocchi psicopatici. I compiti in classe degli studenti con le dita atrofizzate dai telefonini, per i poveri docenti alla Pennac, paiono tsunami di geroglifici. La singolare sentenza (numero 49568/09) parte dalla Corte d’Appello di Napoli, dove due rapinatori hanno cercato di farsi annullare una condanna aggrappandosi a una penna. Ci vogliono condannare - hanno detto - ma è nostro diritto saper perché. E dato che il verdetto è buttato giù peggio che da una gallina, i motivi ci restano ignoti. Il caso è arrivato in Cassazione. I giudici hanno scorso il documento incolpato. E qualcosa di faticoso l’hanno sicuramente trovato. Perché alla fine hanno emesso una nota di biasimo, riconoscendo che il testo era «caratterizzata da un ormai obsoleto ricorso alla scrittura a mano, non vietato ma certamente segno di attenzione ridotta da parte del magistrato amanuense alla manifestazione formale della funzione giurisdizionale». A rincarare la dose: «gli stilemi personalissimi e frettolosi pongono in secondo piano le esigenze del lettore e in particolare di chi, avendo riportato condanna, pretende di conoscerne agilmente le ragioni». Insomma, scrivere sentenze a mano non è vietato. Ma digitarle su un computer è meglio, perché appena eruttate dalla stampante sono immediatamente comprensibili. E’ un segno di civiltà, fin dai primordi del diritto. Chi incise i cuneiformi nella diorite di Hammurabi, si preoccupò di rendere ogni segnetto chiarissimo, meglio d’un bassorilievo divino. Essendoci di mezzo la legge del taglione, ogni tacchetta poco chiara, poteva costare una mano o una testa. Scrivere a mano, codice penale a parte, è da secoli un’arte sopraffina. Che suscita talvolta meraviglia, talaltre pensieri devianti e cocciute ribellioni, perché la mano che scorre lenta sul foglio parla sempre con il cuore, con l’anima, con la mente. Gli orientali, sulla calligrafia, hanno costruito un sistema di potere e di perfezione poetico-artistica. Bartleby, lo scrivano di Melville, a forza di ricopiare, imparò a ribellarsi sussurrando un mite «preferirei di no», come fosse una virgola venuta male nell’ordine americano. I copisti del nostro medioevo, dopo aver sudato quattro tonache a miscelare inchiostri e appuntire piume d’uccelli, si divertivano poi a nascondere nei colofoni dei nobili testi sms pruriginosi, tipo «Dentur pro penna scriptori pulchra puella» - la penna dello scrittore si merita una fanciulla carina - che suonano scaltri e beffardi quanto l’appello dei due rapinatori napoletani. Per la storia della Giurisprudenza, comunque, gli sgorbi legali non bastano a farla franca. La Cassazione ha respinto la richiesta dei due rapinatori: «La lettura del testo non è impedita da grafia ostile al punto da precluderne la comprensione la quale, seppur non propriamente agevole, risulta possibile al di là di ogni ragionevole dubbio». Meglio, però, passare al computer. Meno zen, più ineccepibile.
LE TOGHE IGNORANTI.
Le toghe ignoranti, scritto da Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Appunti nascosti nel reggiseno. O in una cartucciera... Errori di grammatica. Sfondoni di sintassi. Scarsa conoscenza del codice penale. "L'espresso" ha letto i temi dei candidati che domani dovranno governare la giustizia. In pochi si salvano da un disastro generale. La dottoressa F., giovane magistrato di freschissima nomina, ha da poco messo in pratica l'antico insegnamento contadino del non darsi la zappa sui piedi. E anche quello poliziesco del non spararsi nelle parti intime. La dottoressa F. ha infatti partecipato agli scritti del concorso per magistrato ordinario nel novembre 2008. Ha poi chiesto l'annullamento dello stesso concorso al Tar del Lazio per le presunte irregolarità di cui era stata testimone. Ha quindi saputo di aver passato gli scritti. Ha superato gli orali nella primavera 2010. Ha immediatamente dimenticato le irregolarità di cui era stata testimone. E ha dichiarato al Tar la "sopravvenuta carenza di interesse" chiedendo ai giudici, nel maggio 2010, di annullare la richiesta di annullamento. Pochi giorni fa, il 9 agosto, il Tar ha finalmente archiviato la bomba a orologeria del ricorso che l'audace candidata aveva piazzato sulla testa dei commissari d'esame. Niente male come inizio carriera. La sentenza è arrivata in tempo per vedere il nome del nuovo magistrato nell'elenco dei 253 vincitori, pubblicato dal ministero della Giustizia il giorno di Ferragosto. L'eccessiva attenzione a certe parti del corpo è invece costata l'esclusione ad altri laureati. Lo scrive Maurizio Fumo, presidente della commissione d'esame e consigliere della Corte di Cassazione, che in un verbale riservato prende atto "purtroppo, dell'atteggiamento obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima". Si trattava evidentemente di un vicequestore donna. Piuttosto che reggiseni e reggicalze, alcuni maschi hanno trovato ovviamente più consono indossare cartucciere da cacciatore dove nascondere i pizzini. Bernardo Provenzano ha fatto scuola ovunque. La generazione dei furbetti è entrata nelle aule di giustizia. I furbetti della toga: ragazzi e ragazze, più e meno giovani, che si sono formati studiando tra leggi ad personam e discussioni sul processo breve, tra le invenzioni del ministro Angelino Alfano e le comparsate tv dell'avvocato del premier, Niccolò Ghedini. Una generazione al passo con i tempi, tanto da averne già gustato il succo: l'importante è andare avanti. Chissenefrega come. Così hanno rubato il posto ai migliori rimasti esclusi. Almeno questo denunciano le decine di ricorsi presentati al Tar del Lazio. Qualcosa però tutti questi ragazzi, promossi e bocciati, incontrati negli ultimi giorni, hanno già assimilato: hanno paura di parlare. Nemmeno quando si tratta dei loro diritti costituzionali. Niente nome e cognome, per carità. Potrebbe danneggiare il futuro. La legge bavaglio per loro è già una pratica. Anche per molti di quei 253 che dopo un periodo di tirocinio come uditori, diventeranno giudici, pubblici ministeri, gip, gup. E, quando sarà il loro momento, presidenti di Tribunale, procuratori della Repubblica, membri del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale. "L'espresso" ha letto i tre temi scritti da ciascuno dei magistrati appena nominati dal ministero. E ha analizzato i 235 verbali della commissione d'esame (vedi servizio a pag. 35). Non mancano gli errori di ortografia. Pagine bianche e righe nere che assomigliano a singolari segni di riconoscimento (vietatissimi). Fogli pasticciati e scritti sui margini come fossero fumetti. Ma anche i documenti della commissione non scherzano. Voti allegati senza timbri ministeriali. Fogli volanti inseriti in mezzo ai verbali di valutazione. Correzioni e cancellature senza firme di convalida. La legge è stagionata, la 1860 del 15 ottobre 1925. Ma su questi punti è chiara. Articolo 18: "Le cancellature o correzioni, che occorressero, devono essere approvate una per una dal presidente e dal segretario, con annotazione a margine o in fine". Non ci sono prove che i commissari nominati tra magistrati, professori universitari e avvocati siano stati scorretti. Ma un po' troppo pasticcioni sì. Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". La questione che ha spinto quasi tutti i ricorsi è anche la presunta impreparazione della commissione nella compilazione dei verbali. Impreparazione che, secondo i ricorrenti, potrebbe avere viziato l'esame già dagli scritti, organizzati tra il 19 e il 21 novembre 2008 in due padiglioni della Fiera di Milano a Rho. Questo è il resoconto del presidente dei commissari: "Va innanzitutto ricordato che lo scrivente è stato individuato quale presidente della commissione esaminatrice", scrive di se stesso Maurizio Fumo in un verbale riservato inviato al ministro e al Csm, "solo pochi giorni prima dell'inizio dei lavori, a seguito della rinunzia del presidente nominato". Contrariamente a quanto stabilito dalla commissione in carica per il precedente concorso, "si è ritenuto di non ammettere testi contenenti note di dottrina e giurisprudenza anche se le relative pagine fossero state spillate o fatte spillare". Le operazioni di identificazione dei candidati (con tesserini questa volta senza foto) e di controllo dei testi con i codici durano due giorni, il 17 e il 18 novembre: "Sono affluiti circa 5.600 candidati. La media dei testi che ciascuno ha inteso introdurre può individuarsi in 5 o 6 per candidato. Per un totale, quindi, di 28.000-33.600 volumi". E qui cominciano i pasticci. Perché la regola in Italia, anche nel concorso per magistrati, è sempre flessibile: "Il problema della spillatura, nonostante l'annunzio pubblicato sul sito ministeriale, si è riproposto". I candidati che mostrano ai 250 sorveglianti i testi commentati e spillati "vengono invitati a strappare le pagine contenenti note di dottrina o giurisprudenza... oppure a rinunciare al codice stesso". I partecipanti che accettano la soluzione "hanno ottenuto la ammissione dei codici così purgati": che però "continuavano a recare sulla copertina la dicitura "codice commentato"". La mattina del 19 novembre la commissione si riunisce per scegliere le tre tracce di diritto amministrativo: "Subito dopo l'individuazione delle tre tracce, il professor Fabio Santangeli ha rappresentato di doversi allontanare per tornare a Catania... Né d'altronde il Santangeli poteva essere trattenuto d'autorità", ammette Fumo: "A tal punto la commissione ha ritenuto, all'unanimità, necessario eliminare le tre tracce e procedere all'individuazione di tre nuove tracce della medesima materia". Passano le ore. "Non pochi candidati", in attesa fin dalle 8, è sempre scritto nel verbale, "hanno lamentato di essere investiti da flussi violenti di aria fredda". Alle 12,45 la prova scritta non è ancora cominciata. Ormai sono evidenti sui banchi i testi con la dicitura "codice commentato". E i più rispettosi delle regole non la prendono bene. Scoppia la lite. Volano libri, qualche sedia, al grido di vergogna, vergogna: "La commissione, colta in un primo tempo di sorpresa per la violenza, la volgarità e la natura apertamente minacciosa che aveva assunto la protesta, ha comunque mantenuto la calma... solo, dopo più di un'ora e grazie all'atteggiamento fermo ma prudente della polizia penitenziaria, è stato possibile instaurare una qualche forma di dialogo... Altri inoltre chiedevano e ottenevano di verbalizzare dichiarazioni". Quel verbale, controfirmato da otto candidati, secondo i testimoni contiene nomi di persone sorprese con testi irregolari e ora promossi magistrati. Ma è impossibile verificare. Finora il Csm ha impedito l'accesso al documento. E il Tar Lazio non ha ancora depositato una decisione presa nel merito il 28 aprile scorso. "Nei giorni successivi le prove si svolgevano in maniera abbastanza regolare", conclude il presidente Fumo: "Si rendeva necessario tuttavia istituire un apposito banco delle espulsioni... In quanto il numero delle persone trovate in possesso di materiale non consentito (appunti, codici con annotazioni, testi giuridici mascherati con copertine di codici, telefonini e persino un orologio con database) era molto elevato".
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI. DISCUTIAMO DELLA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.
Processo Mediaset: depositate le motivazioni della sentenza di condanna per Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Berlusconi fu "ideatore del meccanismo del giro dei diritti che a distanza di anni continuava a produrre effetti (illeciti) di riduzione fiscale per le aziende a lui facenti capo in vario modo". E' il passaggio cruciale delle 208 pagine di motivazioni della sentenza di condanna a 4 anni per frode fiscale per Silvio Berlusconi nel processo Mediaset confermata dalla Cassazione lo scorso 1 agosto. "Berlusconi - si legge nelle motivazioni depositate oggi -, conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato mantenendo nelle posizione strategiche i soggetti dal lui scelti e che continuavano a occuparsi della gestione in modo da consentire la perdurante lievitazione dei costi di Mediaset a fini di evasione fiscale".
Le motivazioni (cosa che succede raramente) sono firmate da tutti i componenti del collegio giudicante e non solo dal Presidente Antonio Esposito, finito al centro delle polemiche dopo la sua intervista rilasciata al quotidiano Il Mattino Una telefonata in cui, secondo la difesa del Cav, Esposito "anticipava" le motivazioni della sentenza in quanto addentrandosi nell'analisi di questioni molto tecniche. Un'intervista che ha provocato l'apertura di un procedimento disciplinare da parte del Csm nei confronti della toga. Secondo i giudici della Cassazione è dunque verosimile che qualche dirigente di Fininvest Mediaset "abbia subito per vent'anni truffe per milioni di euro senza accorgersene". Inoltre per i giudici della Cassazione, "Berlusconi, pur non risultando che abbia intrattenuto rapporti diretti con i materiali esecutori della gestione finanziaria Mediaset, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti e che continuavano ad occuparsi della gestione in modo da consentire la perdurante lievitazione dei costi di Mediaset a fini di evasione fiscale". "I personaggi chiave - sottolineano i giudici - sono stati mantenuti sostanzialmente nelle posizioni cruciali anche dopo la dismissione delle cariche sociali da parte di Berlusconi e in continuativo contatto diretto con lui, di modo che la mancanza in capo a Berlusconi di poteri gestori e di posizioni di garanzia nella società non è un dato ostativo al riconoscimento della sua responsabilità". I giudici spiegano poi il meccanismo della truffa addebitata al Cavaliere: "La definizione come sovraffatturazione appare quasi un sottodimensionamento del fenomeno descritto e anzi, inadeguata a definirlo". E' "pacifica e diretta riferibilità a Berlusconi della ideazione, creazione e sviluppo del sistema che consentiva la disponibilità del denaro separato da Fininvest e occulto". Un sistema che secondo la Suprema Corte "ha permesso di mantenere e alimentare illecitamente disponibilità patrimoniali estere presso conti correnti intestati ad altre società che erano a loro volta intestate da fiduciarie di Berlusconi". "I giudici di merito - scrivono ancora i supremi giudici - e segnatamente la Corte territoriale, come si è ampiamente visto, hanno ritenuto correttamente e motivatamente provato un gioco di specchio sistematico che rifletteva una serie di passaggi privi di giustificazione commerciale e ad ogni passaggio la lievitazione dei costi era, a dir poco, imponente". Per i giudici della Cassazione è "inverosimile" l’ipotesi alternativa "che vorrebbe tratteggiare una sorta di colossale truffa ordita per anni ai danni di Berlusconi (proprio in quello che è il suo campo d'azione e nel contesto di un complesso meccanismo da lui stesso strutturato e consolidato) da parte di personaggi da lui scelti e mantenuti, nel corso degli anni, in posizioni strategiche e nei cui confronti non risulta essere mai stata presentata alcuna denuncia".
Filippo Facci e le motivazioni: Cassazione a piedi uniti per punire Berlusconi. Un libero, sin troppo libero convincimento del giudice. Anzi dei giudici, visto che tutto il collegio della Cassazione figura come estensore della sentenza. Una sentenza pedissequa, quasi in sudditanza psicologica verso i giudici dei gradi precedenti, oppure ecco, mettiamola così: senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza della Cassazione contro Silvio Berlusconi per frode fiscale appalesano meramente un’opinione, una gigantesca e apparentemente motivata opinione. Dopodiché, spiace dirlo, nelle 208 pagine della sentenza i cosiddetti «teoremi» e le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» abbondano eccome. Si tratta di capire, stringi stringi, in che misura sia inevitabile oppure appaia come una stortura. La tesi confermata e non cassata, dunque, è quella che avrete letto e ascoltato a partire da ieri pomeriggio: fu lui, Berlusconi, a mettere a punto il «giro dei diritti» televisivi che aveva il fine di gonfiare i costi (suoi) attraverso vari passaggi tra diverse società fittizie; l’obiettivo era quello di esportare capitali, costituire fondi neri all’estero (specie nei paradisi fiscali) e naturalmente evadere il fisco; in pratica, gli uomini Fininvest trattavano con le major americane direttamente negli Usa ma poi, in un passaggio successivo, s’inseriva un’intermediazione che serviva solo a gonfiare le fatture (con soldi che in realtà rimanevano a Fininvest) e a inserire le cifre maggiorate nelle dichiarazioni italiane dei redditi. È stato ritenuto provato che una società d’intermediazione di Lugano, la Ims, fosse solo una società fittizia senza funzioni reali, solo la prosecuzione della vecchia «Fininvest service» svizzera. Di questo sistema, conferma la sentenza, Berlusconi fu l’ideatore e il beneficiario anche dopo la dismissione delle cariche sociali, tanto che, «conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti dal lui scelti». Ogni ipotesi alternativa, tipo che Berlusconi non sapesse e sia stato ingannato, denota «assoluta inverosimiglianza». Le domande - Ora: è attendibile che sia andata così? Fininvest adottò davvero questo sistema? Berlusconi ne era consapevole? Molto, sinceramente, porta a crederlo: perché appare estremamente logico, anzitutto, e secondariamente perché centinaia di indizi confortano questa tesi. Ma si tratta, appunto, di un’opinione: il che non significa che sia anche provabile in un tribunale, e soprattutto non significa che sia provabile una diretta responsabilità del proprietario di Fininvest. La differenza tra un’opinione e un fatto provato non è solo rilevante in punto di diritto, ma lo diviene in modo particolare se l’imputato è a capo di una forza politica a cui fa riferimento mezzo Paese. Per capire di che ambiguità stiamo parlando, tuttavia, facciamo parlare la sentenza. Questo passaggio, per esempio: «Ad agire era una ristrettissima cerchia di persone che non erano affatto collocate nella lontana periferia del gruppo Fininvest, ma che erano vicine a Berlusconi, tanto da frequentarlo». Oppure: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento, anche in assenza di poteri gestori formali». Tutto stravero: e ciascuno, noi compresi, può farsi personali convinzioni in merito. Il che non toglie che queste, a esser pignoli, non sono prove: sono attribuzioni di una responsabilità oggettiva. Pagina 182: «Era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti, il principale costo sostenuto dal gruppo, fosse di interesse della proprietà che, appunto, rimaneva interessata e coinvolta nelle scelte gestionali». Forse era ovvio, ma compito di un tribunale non è stabilire che cosa è «ovvio» e che cosa «non è dunque verosimile» (ancora pagina 182). La Cassazione tuttavia si sofferma non poco sulla questione della «consapevolezza» di Berlusconi, benché mai provata: «La sentenza d’Appello», è scritto, «ha rilevato che rispondono del reato solo coloro che avevano consapevolmente partecipato al sistema in atto... Consapevolezza che poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema, e non in chi ne aveva una visione solo parziale, pur prendendo parte ad alcuni degli atti». Traduzione: Berlusconi e non i suoi sottoposti, pur non partecipando attivamente, aveva senz’altro «uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema», dunque sapeva. In questo, c’è da dire, la sentenza ricorda molto le motivazioni che il giudice Antonio Esposito aveva già anticipato nell’ormai nota intervista al Mattino, e sulla quale il Csm sta indagando. Ora prendiamo un altro condannato del processo, Frank Agrama, principale intermediario dei giri di denaro e ritenuto una sorta di dipendente occulto di Mediaset; secondo la Cassazione (pagina 136) si denota la «mancanza di qualsiasi logica negli ingenti importi pervenuti all’imputato», cioè Agrama. Ma, anche qui: la mancanza di logica non è una prova, meglio, è una «prova logica». Una prova che in qualche caso, peraltro, non è proprio suffragatissima: «È del tutto evidente che Agrama ha agito da intermediario di comodo e, seppure non vi sia sicura evidenza bancaria, non resta che ritenere del tutto logico che... ». È evidente. Non resta che ritenere logico che. Ma il capolavoro d’ambiguità è a pagina 184 della sentenza, e si riferisce alla «doglianza a lungo espressa dalla difesa sulla riduzione delle liste testimoniali: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l’assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Rileggere per credere. In altre parole non compaiono compiute risposte, in tutta la sentenza, alle principali opposizioni avanzate dalla difesa: che mai Berlusconi si occupò concretamente di diritti televisivi, che mai si occupò neppure degli organigrammi societari e tantomeno delle denuncie dei redditi e delle scelte finanziarie; che tutti i testimoni hanno confermato questo - ciò che conta in un’aula giudiziaria, al di là di ogni «verosimiglianza» - e soprattutto che i denari derivanti dalle plusvalenze sui diritti televisivi rimanevano in mano a questo Frank Agrama, non a Berlusconi. Erano soci occulti? Pare verosimile anche questo: ma prove (vere) non ne sono spuntate. Una sentenza, dunque, buona per riaprire un vecchio dibattito: su che cosa sia effettivamente una «prova» e su quale sia, oggi, il ruolo di una Cassazione che appare ambiguamente divisa tra legittimità e merito. Tantopiù in questa sentenza nel complesso deludente, che non passerà certo alla storia della giurisprudenza: non solo perché è ricalcata sul giudizio d’Appello che a sua volta ricalcava quello di primo grado, ma perché lo fa anche piuttosto maldestramente. Il procuratore Antonio Esposito e i suoi colleghi, nelle loro 208 pagine, si atteggiano formalmente a controllori ma poi è come se sbracassero, come se cedessero a un tifo sfegatato per la sentenza che hanno confermato e di cui non fanno che riportare stralci. Pagina 136: «... non intacca in alcun modo la ricostruzione effettuata dai giudici di merito, e che questa Corte di legittimità condivide». Ancora: «Lo spazio e l’attenzione che i giudici di merito hanno dedicato alla figura di Frank Agrama, con argomentazioni logiche e convincenti, sono di tale ampiezza ed approfondimento da consentire a questa corte di legittimità di affermare che il complesso probatorio a lui ascritto è di particolare consistenza». Pagina 186: «Si è ritenuto di riportare integralmente le conclusioni formulate dai giudici di merito per poter affermare che sono del tutto conformi alle plurime risultanze probatorie». Insomma, la Suprema Corte dovrebbe limitarsi ad assicurare la corretta osservanza e interpretazione delle norme di diritto, tanto che le sue sentenze, poi, diventano un orientamento della giurisprudenza nazionale. Difficilmente accadrà in questo caso, visto che - con rispetto parlando - è palese un compiaciuto e mero copia & incolla della sentenza d’appello. La difesa, perlomeno, attendeva qualche risposta giuridica circa l’impossibilità, sostenuta dagli avvocati Coppi e Ghedini, di configurare in punto di diritto il reato contestato a Silvio Berlusconi. Non hanno ottenuto neanche questo. Sarà stata la fretta. È una delle sentenze di Cassazione più insignificanti che pare di ricordare.
Nell'agosto 2011, molto prima che gli venisse assegnato il verdetto della Corte dei Cassazione sul Cavaliere, il giudice Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Suprema Corte, durante una cena si è sfogato con i commensali: "Berlusconi mi sta sulle palle. Se lo incrocio gli faccio un mazzo così". A raccontare l'aneddoto è stato il Giornale raccogliendo la testimonianza di un imprenditore calabrese, Massimo Castiello, che aveva invitato nella sua villa a San Nicola Arcella, sul Tirreno, la toga. A tavola c'era anche l'attore Franco Nero che oggi conferma le parole del suo ospite. Chiamato al telefono Libero ha confermato che da parte di Esposito non c'era un atteggiamento sereno nei confronti di Berlusconi.
"Se becco Berlusconi gli faccio un mazzo...". Spunta un'altra imbarazzante cena (con testimoni) in cui il magistrato dichiarava il suo pregiudizio scrive Stefano Zurlo «Berlusconi mi sta proprio sulle palle. Se mi dovesse capitare a tiro gli faccio un mazzo così». Parlava a ruota libera il giudice Antonio Esposito davanti ai commensali stupiti. Sono passati due anni da quella cena, ma il padrone di casa, Massimo Castiello, si ricorda ancora molto bene quelle parole. «Ce l'aveva col Cavaliere, i suoi non erano giudizi affrettati, si capisce che coltivava proprio un'antipatia profonda. Non lo sopportava. E non si faceva problema nel comunicarlo a chi gli stava intorno». È l'agosto del 2011. Castiello, piccolo imprenditore sessantottenne con interessi nel mondo immobiliare, organizza una serata fra amici nella sua villa con vista Tirreno di San Nicola Arcella, in Calabria. «Io e Esposito ci conosciamo da una vita. Esposito faceva il pretore a Scalea, in provincia di Cosenza, non lontano da San Nicola Arcella, il mio paese. Insomma, sia pure a salti, con le intermittenze della vita, ci siamo frequentati. Anche se poi ci siamo persi per un certo periodo. Comunque, per l'occasione allargo gli inviti, anzi nella mia testa quel piccolo evento serve per far incontrare Esposito e un altro mio amico, anzi l'unico mio vero amico, Franco Nero». Sì, il grande attore, l'interprete di tanti film indimenticabili. «Ho scoperto - riprende Castiello - che Esposito è un fan scatenatissimo di Nero, ha visto quasi tutti i suoi film, cita a memoria scene e battute, meglio di uno sceneggiatore, e insomma l'occasione è ghiotta. Nero in quell'agosto di due anni fa è ospite a casa Castiello ed Esposito, come d'abitudine, trascorre il periodo estivo a Sapri che non è molto lontana». Il menu d'ordinanza prevede pasta, patate e provola. «Un piatto delizioso, accompagnato da un buon vino locale». Il tutto nella cornice meravigliosa di una terrazza porticata a strapiombo sulle acque del Tirreno. Una cena da cartolina. «Dunque a tavola siamo in sette: io e mia moglie Sandra, Esposito e la sua signora, altre due persone e lui, il mito. Franco Nero». Si parla e si sorride, ma è chiaro che la star della serata è Nero. Esposito s'informa e a un certo punto il discorso cade su un film che gli spettatori italiani non hanno mai visto: L'escluso, in cui Franco Nero è diretto dal figlio Carlo e recita insieme alla moglie Vanessa Redgrave. «È la storia di un avvocato italoamericano che fa di tutto per far assolvere il proprio cliente. La trama è ambientata negli Stati Uniti e la pellicola è stata girata negli Usa, alle porte di New York. In Italia però non è mai arrivata». Pare che i diritti siano stati acquistati, combinazione, da Mediaset, comunque L'escluso qui da noi è un fantasma. «Ora non ricordo bene - prosegue Castiello - ma forse, proprio a partire dal film il discorso è scivolato su Berlusconi. Sento ancora le parole del magistrato che mi hanno ferito non una ma due volte. La prima perché io ho sempre avuto simpatie berlusconiane, la seconda, molto più importante, perché chi parlava era il presidente della seconda sezione della Cassazione». Un magistrato autorevolissimo, un giudice, che in teoria, avrebbe pure potuto trovarsi un giorno faccia a faccia con l'imputato Silvio Berlusconi». Come poi puntualmente è avvenuto tre settimane fa quando la Suprema corte, presieduta da Esposito, ha condannato il Cavaliere a 4 anni di carcere per frode fiscale, al termine del processo Mediaset. Due anni fa nessuno poteva prevedere che quello sarebbe stato il finale e però Esposito - se sono veritiere le affermazioni di chi lo invitò quella sera - avrebbe dovuto frenare. E invece il giudice, davanti a una tavolata composita, con persone che in parte conosceva e in parte no, e con un personaggio famosissimo seduto vicino a lui, si lascia andare a briglia sciolta: «Berlusconi mi sta proprio sulle palle». Niente male per chi dovrebbe essere un monumento all'imparzialità, alla terzietà, alla riservatezza e via elencando. Ma questo è solo l'antipasto, poi Esposito, almeno a sentire Castiello, ingrana la quinta: «Quello, Berlusconi, si salva sempre, grazie ai suoi avvocati... la prescrizione... ma se mi dovesse capitare a tiro gli faccio un mazzo così». Testuale. Alla faccia della serenità della giustizia. Gli esperti parlerebbero di pregiudizio, insomma se quella frase così ruvida, inammissibile per un magistrato, fosse stata recapitata a Berlusconi prima del verdetto fatale, sarebbe stata probabilmente motivo più che sufficiente di ricusazione. Esposito avrebbe dovuto passare la mano, la corte avrebbe avuto un altro presidente e la sentenza, chissà, forse avrebbe avuto un altro esito. Ma quella notte la frase, anzi le frasi riverniciate di antiberlusconismo militante, restano fra le mura di quel terrazzo porticato, affacciato sul Golfo di Policastro. Esposito parla sempre con Nero, ma già che c'è tira pure un pesantissima stoccata a Wanna Marchi, immancabile come un mantra nei suoi incontri conviviali. I lettori del Giornale avranno già capito: Stefano Lorenzetto ha raccontato su queste pagine una cena, con successiva premiazione, in cui incrociò lo scintillante giudice. Siamo nel marzo 2009 e ci troviamo a Verona, all'hotel Due Torri, a centinaia di chilometri di distanza da San Nicola Arcella, ma a quanto pare le ossessioni di Esposito sono sempre quelle. Il Cavaliere e Wanna Marchi. Esposito si dilunga sul Cavaliere, fa sfoggio delle sue presunte intercettazioni a luci rosse, si diffonde sui testi in cui il Cavaliere avrebbe dato i voti alle prestazioni erotiche di due deputate del Pdl. E la Marchi? Quel giorno manca poco, pochissimo alla sentenza e Esposito anticipa a Lorenzetto il verdetto che leggerà di lì a poche ore: la condanniamo. La teletruffatrice non sta simpatica al presidente di Cassazione e lui fa di tutto per trasmettere questi sentimenti all'ex vicedirettore del Giornale. Come si vede, il copione si ripete un paio d'anni dopo. In Calabria. La sentenza Marchi è ormai in archivio, ma Esposito la condensa, sempre secondo Castiello, in modo efficace: «C'era qualcosa prescritto, ma abbiamo fatto finta di niente». Il plurale rimanda alla corte, composta da cinque membri, e dunque va preso con le pinze perché sarebbe la firma su una scorrettezza gravissima. Forse il presidente ha sintetizzato in modo brutale quel che è avvenuto nel segreto della camera di consiglio e l'ha in qualche modo volgarizzato. Non è chiaro. Per la cronaca Wanna Marchi è stata sepolta sotto una pena di 9 anni e 6 mesi di carcere e sempre per la cronaca l'ex venditrice, dopo aver letto i documentatissimi articoli di Lorenzetto, ha annunciato, attraverso l'avvocato Liborio Cataliotti, che ricorrerà alla Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo. E che, se dovesse vincere devolverà i soldi dell'indennizzo alle sue vittime. Ma quella è un'altra storia. Sono i toni aspri dell'antiberlusconismo in salsa Esposito a rimanere impressi nella mente di Castiello. Il banchetto si chiude lì, anzi Esposito riceve pure un piccolo omaggio che lo riempie di gioia: la videocassetta dell'introvabile film di Nero, L'escluso. Poi, ed è cronaca recente, accade l'impensabile. Esposito, come presidente della sezione feriale, si trova a tiro il Cavaliere. E conferma la sentenza d'appello. Poi s'infila da solo nei guai, concedendo una spericolata intervista al Mattino in cui, fra una battuta in italiano e una in napoletano, anticipa le motivazioni che non sono ancora state depositate. È abituato a chiacchierare, Esposito. E non si tiene nemmeno in quella circostanza. Come aveva fatto a cena, a Verona, e a san Nicola Arcella. Il banchetto del 2009 è stato ricostruito da Stefano Lorenzetto, adesso sappiamo che davanti al Tirreno e alla pasta con la provola Esposito emise la sua sentenza definitiva. Irrevocabile: «Berlusconi mi sta sulle palle».
TUTTO IL POTERE A TOGA ROSSA.
Tutto il potere a Toga Rossa. Magistratura democratica e Movimento per la giustizia da tempo condizionano tribunali e procure grazie a una collaudata organizzazione del consenso. E ora puntano all’unificazione scrive Maurizio Tortorella in collaborazione con Annalisa Chirico su “Panorama”. Non mollano. Non demordono, nemmeno dopo la condanna definitiva dell’Avversario; non si rilassano nemmeno un po’. Era la sera del 1° agosto 2013, Silvio Berlusconi era appena stato giudicato colpevole dalla Cassazione. Avrebbero potuto festeggiare il risultato raggiunto. Invece è bastato che il presidente della Repubblica, appena mezz’ora dopo, dichiarasse: «Auspico che adesso possano aprirsi condizioni più favorevoli per l’esame in Parlamento dei problemi relativi all’amministrazione della giustizia». E subito Magistratura democratica è saltata su, come un tappo: «La sentenza dimostra che i giudici sanno fare il loro mestiere, nonostante tutti i tentativi di condizionarli», mentre «parlare di riforme della giustizia è un segnale negativo». Così, ancora una volta, ha parlato la massima corrente della sinistra giudiziaria, attraverso il presidente di Md Luigi Marini (ex pm torinese, oggi in Cassazione) e il segretario generale Anna Canepa (pm genovese). Durissimi, contro Giorgio Napolitano e contro tutti. La loro dichiarazione è lunga, ma merita la citazione proprio per quanto è minacciosa: «I richiami alla necessità di riforme della giustizia suonano come risposte alla prova d’indipendenza che la magistratura ha saputo dare, a dimostrazione che una parte consistente (quanto consistente vedremo) della politica considera quell’indipendenza un pericolo e intende andare alla resa dei conti». A seguire, un corollario d’accuse: contro chi cerca di «addomesticare» i magistrati; contro i politici «in malafede»; contro i continui «tentativi di condizionamento»…
È l’unione delle toghe rosse. Più forte di un partito politico. Più dura di un sindacato. Più potente di un esercito. Da anni Berlusconi sostiene di esserne perseguitato: a giudicarlo, in effetti, spesso sono stati giudici dichiaratamente di sinistra. Tra i cinque giudici che il 1°agosto lo hanno condannato in Cassazione nel processo Mediaset, per esempio, il presidente Antonio Esposito, finito nei guai per l’intervista in cui ha anticipato le motivazioni del verdetto, passa per simpatizzante di Movimento per la giustizia, l’altra corrente di sinistra. Mentre Ercole Aprile nel 2007 si era candidato all’Anm proprio nelle liste di Mpg (incidentalmente in lista con Caterina Interlandi, il giudice milanese che lo scorso maggio ha condannato Giorgio Mulè, direttore di Panorama, a 8 mesi di reclusione senza condizionale per omesso controllo su un articolo ritenuto diffamatorio). L’unione delle toghe rosse si articola in queste due organizzazioni: Md, forte di 800-900 iscritti, e Mpg, con altri 400. Insieme, raccolgono appena un settimo dei 9 mila magistrati italiani. Però riescono a coagulare un terzo dei consensi di categoria e contano come fossero la maggioranza. Federati nel cartello elettorale Area, alle ultime elezioni del febbraio 2012 per l’Associazione nazionale magistrati, un po’ il sindacato di categoria, Md e Mpg hanno preso 2.271 preferenze su 7.200 voti validi. Rispetto alle precedenti elezioni del novembre 2007, dove si erano presentati divisi, hanno perso 300 consensi e un seggio nel comitato centrale, da 13 a 12 su 36. Ma grazie a un’alleanza con la corrente «mode-rata» di Unicost hanno ottenuto il segretario dell’Anm: Maurizio Carbone (Mpg). Mentre al Consiglio superiore della magistratura, che regola le carriere e giudica sui procedimenti disciplinari della categoria, dal 2010 hanno 6 consiglieri togati su 16. E anche qui fanno il bello e il cattivo tempo.
Bruno Tinti, ex procuratore aggiunto di Torino (e anche lui iscritto a Md negli anni Sessanta), dal suo ritiro in pensione è il grande critico delle correnti giudiziarie: «Sono solo centri di potere» dice «che cercano di ottenere posti rilevanti per gli iscritti. Md e Mpg giurano di essere diversi: sbandierano carte dei valori, pretendono purezza e integrità morale. Ma poi fanno esattamente come gli altri». Se lo dice Tinti, che è azionista e collaboratore del Fatto quotidiano, c’è da credergli. Del resto, alcuni mesi fa è arrivata una conferma dalla vicenda-simbolo svelata da un’email sfuggita a Francesco Vigorito (Md), giudice romano e consigliere del Csm: finita su una mailing list aperta, la lettera manifestava dubbi su una nomina al Tribunale di sorveglianza di Salerno, dove Area aveva sostenuto con forza una magistrata solo perché appartenente alla corrente, e preferendola ad altri colleghi «forse più meritevoli» soltanto per «le pressioni interne».
Il caso ha acceso grandi polemiche, presto tacitate in nome della disciplina di partito. Le rivelazioni via email sono state spesso una spina nel fianco della sinistra giudiziaria, tanto che si è fatto di tutto per renderle inaccessibili. In passato, infatti, alcune incursioni giornalistiche nel circuito degli iscritti hanno scoperchiato clamorose partigianerie e faziosità. Quando per esempio nel dicembre 2009 uno squilibrato ferì al volto Silvio Berlusconi lanciandogli contro una statuetta del Duomo di Milano, in Md si accese il dibattito. E prevalse chi giustificava: «Ma siamo proprio sicuri che quanto accaduto sia un gesto più violento dei respingimenti dei clandestini in mare, del pestaggio nelle carceri di alcuni detenuti o delle terribili parole di chi definisce “eversivi” i magistrati?».
Due anni fa, quando il centrodestra cercò d’impostare l’ennesima riforma della giustizia, le email violate di Mpg segnarono nuove impennate di avversione: «Lo zietto Berlusconi deve togliere al più presto il disturbo» scrisse un pm. Altri suggerirono la chiamata a difesa di tutta la sinistra e del sindacato: «La nostra corporazione da sola non può reggere uno scontro politico, se non gioca politicamente». Certo, Md e Mpg hanno preso posizione su ogni sospiro della politica italiana e, soprattutto, sulle leggi approvate dal Parlamento.
Livio Pepino, uno dei maggiori esponenti di Md, postulò del resto la necessità che «il magistrato si ponesse come contropotere». Più forti di un partito politico, più dure di un sindacato, più potenti di un esercito, le toghe rosse hanno così sparato a zero sul potere legislativo: censurando tante norme, da quelle anticlandestini («Si introduce un reato inutile, profondamente iniquo e discriminatorio: non si può trasformare un fenomeno sociale in fenomeno criminale») fino alla legge Biagi («La celebrata riforma del mercato del lavoro, lungi dal provocare il benefico effetto di un’emersione del “nero”, accresce la precarizzazione dei rapporti e l’arretramento della sicurezza»). La verve censoria in luglio ha riguardato anche il governo Letta, contro la legge svuota-carceri: «Sconfortante il balletto di reati ora sottratti alla carcerazione preventiva, ora inclusi, ora oggetto di ripensamenti».
La capacità di condizionare la politica è elevata. In questo agosto, sul Fatto quotidiano, due alti esponenti di Md hanno massacrato le tesi appena un po’ garantiste del nuovo responsabile giustizia del Pd, Danilo Leva: prima Vittorio Teresi, procuratore aggiunto a Palermo, poi Gian Carlo Caselli, procuratore di Torino, hanno affossato le sue tesi come «inquietanti», «strampalate», «stravaganti»... Una cassazione preventiva: così, tanto per frenare un compagno che sbaglia. Mentre in maggio Beppe Fioroni, deputato del Pd in quel momento candidato alla presidenza della commissione Giustizia, aveva raccontato in un’intervista delle telefonate ricevute dall’Anm per garantire proprio quel posto a Donatella Ferranti, già magistrato di Md ed ex segretario del Csm. Fioroni aveva dichiarato alla Repubblica: «Io ovviamente ho obbedito ai magistrati, mica al Pd».
Poi aveva smentito, ma alla fine il risultato è stato quello: Ferranti for president. Va detto che, là dove Md ha nel Pd la sua evidente sponda partitica, l’altra corrente ha meno legami diretti: quelli di Mpg a tratti sembrano vicini al Movimento 5 stelle, a tratti a Sinistra ecologia e libertà, a volte a nessuno dei due. Questo, malgrado siano in minoranza nel cartello elettorale di Area, non impedisce che spesso prevalgano i loro candidati nelle primarie per il voto al Csm o all’Anm. È stato così, a sorpresa, nel 2010: nella circoscrizione della Cassazione, dove Aniello Nappi (Mpg) ha prevalso su Giovanni Diotallevi (Md). Due anni dopo, Nappi è uscito dal gruppo di Area (che al Csm ha altri due consiglieri: Paolo Carfì, il giudice del processo berlusconiano Imi-Sir oggi in Corte d’appello a Milano; e Roberto Rossi, il pm barese che ha indagato sul ministro del Pdl Raffaele Fitto) rivendicando maggiore indipendenza.
Ma sono screzi da poco, l’unità della sinistra giudiziaria non è mai posta in discussione: «Di recente» dice Nappi «ho chiesto l’iscrizione anche a Md». E uno dei leader storici di Mpg, il procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro, dichiara a Panorama: «Francamente, io proprio non capisco perché siamo ancora separati». Anche Antonella Magaraggia, giudice veneziano e dal gennaio 2011 presidente di Mpg, dice di guardare oltre il cartello elettorale: «Area» dichiara «è un progetto politico-culturale aperto anche ai non iscritti, verso il superamento delle correnti. A unirci con Md è molto, quasi tutto. Sì, forse Md in passato è stata più ideologica, ma noi oggi siamo debitori per tutte le sue conquiste. Noi di Mpg siamo più attenti all’organizzazione, all’efficienza del lavoro. Però l’ambito ideale è lo stesso, dividerci è impossibile».
Betta Cesqui, alta esponente di Md, è d’accordo: «Qui, semmai, dobbiamo allargare la nostra base». Da giugno Area tende dichiaratamente alla fusione, con un comitato di coordinamento fatto da 7 magistrati: 2 a testa sono di Md e di Mpg, e 3 indipendenti eletti in un’assemblea a Roma. Il giudice veneziano Lorenzo Miazzi (ex Md) è uno dei 7: «Vogliamo creare un’associazione liquida» spiega a Panorama «sul modello di Libera, l’organizzazione di don Ciotti contro le mafie. Anche perché vogliamo che idee, tesi e linea escano non più dai vertici, ma dalla base». Queste istanze orizzontali un po’ ricordano la «democrazia del web», tanto cara a Beppe Grillo. Con molta trasparenza in meno, però: sia Magaraggia sia Edmondo Bruti Liberati, procuratore di Milano e uno dei massimi leader di Md, confermano a Panorama che l’elenco dei circa 1.250 iscritti alle due correnti «non è pubblico», anche se entrambi «a titolo personale» si dicono favorevoli a rendere note le liste. Il risultato, comunque, è una grave anomalia: nessun cittadino può sapere se a inquisirlo o giudicarlo sia un magistrato schierato a sinistra, di Md o di Mpg (nel 2002 ci provò per le vie legali Cesare Previti, l’ex ministro della Difesa imputato a Milano, ma ottenne un secco no). Non è un bene. Anche perché non è un mistero che i magistrati aderenti alle due correnti siano spesso importanti, esposti, attivi in ruoli chiave. Negli anni Settanta e Ottanta, Md era presente soprattutto nei «ranghi bassi»: pretori d’assalto, giudici istruttori. Oggi, con i colleghi di Mpg, la sinistra giudiziaria è presente ovunque, soprattutto nelle procure, e arriva fino in Cassazione.
Non bastasse la capacità politica espressa in Italia, la sinistra giudiziaria ha poi una sua casa europea. Da anni Md e Mpg aderiscono a Medel, Magistrats européens pour la démocratie et les libertés: da Strasburgo l’organizzazione propugna il diritto di azione collettiva dei magistrati, la «diffusione della cultura giuridica democratica» e ha tra gli obiettivi «la difesa dei diritti delle minoranze, con particolare riguardo a quelle dei migranti e dei poveri». Medel oggi riunisce 19 correnti delle toghe di sinistra ed estrema sinistra, come l’Unión progresista de fiscales in Spagna e Syndicat de la magistrature in Francia, per oltre 17 mila iscritti. Molto influente presso la Commissione europea e le Nazioni unite, Medel risponde alle parole d’ordine della sinistra più oltranzista: ha appena preso posizione contro i tagli allo Stato sociale dettati dalla crisi finanziaria; critica ogni tentativo di introdurre il minimo principio di responsabilità civile nell’attività giudiziaria; attacca ogni censura (anche istituzionale) che vada a colpire un magistrato «democratico». Insomma, se mai servisse, è una superlobby a difesa degli interessi della categoria. Più forte di un partito politico. Più dura di un sindacato. Più potente di un esercito. E poi ridono quando dicono che un giudice si butta a sinistra…
GIUDICI IMPUNITI.
I giudici impuniti: risarcito un innocente su 100. Quattro detenuti su dieci, nelle 206 carceri italiane, sono «in attesa di giudizio»: sono in cella per un ordine di custodia cautelare, quello che prima della riforma del codice del 1989 si chiamava più onestamente «ordine di carcerazione preventiva». Per l’esattezza, calcola l’associazione Antigone, i reclusi che non sono ancora stati processati sono 26.804 su un totale di 66.685. Nessun Paese europeo ha statistiche così elevate e sconvolgenti: la media generalmente non supera il 10-15 per cento.
Su 400 cause intentate dal 1988 per ingiusta detenzione l’errore è stato riconosciuto soltanto 4 volte. Solo l'1 per cento dei ricorsi contro i magistrati per ingiusta detenzione si risolve con una condanna della toga , scrivono Gian Marco Chiocci e Pier Francesco Borgia su “Il Giornale”. Se si vuole parlare concretamente della responsabilità dei giudici e degli errori giudiziari partiamo dai numeri: solo l’1% dei giudizi ha visto lo Stato «pagare» i danni del lavoro del giudice. Insomma la «montagna» della cosiddetta legge Vassalli, che ha introdotto a partire dal 1988 la responsabilità dei magistrati come richiesto dalla stessa Costituzione (articolo 24), ha partorito un «topolino». A offrire un bilancio dei primi 23 anni della legge è la relazione presentata in Commissione giustizia della Camera da Ignazio Caramazza, Avvocato generale dello Stato. In buona sostanza soltanto l’1% dei ricorsi contro magistrati per ingiusta detenzione si è risolto con una condanna della toga. «Dai dati raccolti dall’Avvocatura dello Stato - si legge nella relazione - risultano proposte poco più di 400 cause. Di queste 253 sono state dichiarate inammissibili, 49 sono in attesa di pronuncia sull’ammissibilità, 70 sono in fase di impugnazione di decisioni di inammissibilità e 34 sono state dichiarate ammissibili». Solo in 4 di queste si è arrivati alla condanna dello Stato. Insomma la percentuale è veramente bassa. Quattro condanne su 406 casi. E con un grande lavoro del filtro dell’ammissibilità che ne ha rigettate subito 253 (62%). Secondo l’Avvocatura dello Stato «emerge una eccessiva operatività» di questo «filtro». Questo «difettoso funzionamento della legge» porta, secondo Caramazza, a una abrogazione sostanziale di parti qualificanti della norma che ne stravolgono il senso. L’audizione dell’Avvocato generale dello Stato in Commissione giustizia porta quindi un nuovo punto di vista sulla legge Vassalli e sulla necessità di riformulare la normativa che dà un senso compiuto all’indirizzo proposto dalla stessa Carta costituzionale nell’articolo 24. Vale forse la pena di ricordare, a questo punto, quanto scritto nel comma 4: «La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari». E non solo per colpa grave o dolo. Quindi anche un errore di interpretazione normativa può recare danni a chi viene sottoposto a giudizio. E il senso dell’emendamento proposto dal leghista Gianluca Pini non solo intende rispondere ai desiderata della Costituzione ma anche ai diktat dell’Unione Europea. L’emendamento chiama i giudici a rispondere per «ogni manifesta violazione del diritto». Lo stesso Caramazza auspica una riforma in tal senso e ricorda che il nodo a una equa applicabilità della legge Vassalli è proprio l’articolo 2 della stessa legge che spiega come «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme». Più prudente il parere espresso dai vertici del Consiglio nazionale forense nel corso di una conferenza stampa. Guido Apa, presidente del Cnf mette le mani avanti: «Dobbiamo ancora capire in che modo il principio dell’emendamento è conforme ai principi costituzionali e se il giudice possa in questo modo applicare serenamente la legge». Situazione per così dire paradossale. Da un lato c’è l’Avvocatura generale dello Stato che, chiamata a esprimersi dalla Commissione giustizia, dà un suo pur prudente assenso. Dall’altro ci sono gli avvocati che, con il loro temporeggiare, sembrano ancora incerti sul valore dell’emendamento. Eppure sarà la prima a difendere i magistrati nelle cause mentre saranno i secondi ad assistere i singoli nelle azioni contro lo Stato.
La vera anomalia italiana: l'impunità di tutti i giudici. Un referendum promosso dai radicali punta a riconoscere la responsabilità civile dei magistrati: in vent'anni sono stati ritenuti colpevoli per danni ai cittadini appena 4 volte, scrive Andrea Cuomo Attualmente i magistrati in Italia sono praticamente irresponsabili da un punto di vista sia civile sia penale per i danni arrecati al cittadino nell'esercizio delle loro funzioni. In realtà un referendum del 1987 aveva abrogato gli «articoli 55, 56 e 74 del codice di procedura civile approvato con regio decreto 28 ottobre 1940, n. 1443» introducendo il principio della responsabilità civile. Ciò in seguito all'onda emotiva sollevata dalla incredibile vicenda di Enzo Tortora, vittima del più clamoroso (ma non dell'unico) errore giudiziario del dopoguerra. La volontà popolare si espresse forte e chiara in quell'occasione: votò il 65,10 per cento del corpo elettorale e i «sì» vinsero con l'80,20 per cento anche grazie all'impegno dello stesso Tortora, che da parlamentare radicale si impegnò in prima persona perché ad altri non toccasse quello che era capitato a lui per un'incredibile somma di equivoci, casualità e leggerezze. Un successo, quello del referendum di 26 anni fa, sbianchettato da una legge confezionata in fretta e furia: la legge Vassalli, varata il 13 aprile 1988 (un mese prima della morte di Tortora) e tuttora in vigore, che formalmente ammette il risarcimento per il cittadino vittima di malagiustizia, ma di fatto lo rende una chimera. La legge Vassalli, infatti, ammette che chiunque abbia «subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia» possa agire per vedersi riconosciuto un risarcimento, ma agendo non contro il magistrato bensì contro lo Stato, che può poi rivalersi a sua volta contro il magistrato colpevole nella misura di un terzo. Non può però dar luogo a responsabilità l'attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove, ciò che di fatto esclude gran parte delle fattispecie. In pratica si può dar luogo a risarcimento solo in casi eccezionali (dolo o colpa grave), ciò che rende di fatto non esercitabile l'azione risarcitoria da parte dei cittadini. Il mancato riconoscimento della responsabilità civile dei giudici è tra l'altro costata all'Italia anche le censure della Corte di Giustizia dell'Ue. La questione è da anni oggetto di un dibattito acceso tra i fautori della responsabilità, che vedono in questo principio un inderogabile segnale di civiltà, e coloro che invece vedono come il fumo negli occhi la possibilità che un magistrato che sbagli possa rimborsare il cittadino vittima della sua negligenza. Il «partito dei giudici» vede infatti il referendum come l'ennesima minaccia all'indipendenza del potere giudiziario e fa notare come in molti Paesi, come la Gran Bretagna, la magistratura goda di totale immunità. In coda alla precedente legislatura un emendamento alla legge del 13 aprile 1988 che intendeva allargare il risarcimento dei danni cagionati nell'esercizio nelle funzioni giudiziarie anche ad alcuni casi di «interpretazione di norme di diritto e di valutazione del fatto e delle prove» (come quando ci si trova di fronte a negligenza inescusabile che porta all'affermazione di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento) non fece in tempo però a terminare felicemente il suo iter parlamentare, lasciando in vita un'anomalia tutta italiana.
Adesso andiamo a “mettere il naso” in casa
dei magistrati: il Csm, Consiglio superiore della magistratura. Il Csm si occupa
anche di sanzionare disciplinarmente i magistrati che violano le regole e la
legge. Una sorta di “organo interno” per i “colleghi che sbagliano”. Vediamo dal
sito del Csm cosa prevede l’azione disciplinare. La legge ha introdotto,
infatti, l’applicazione del criterio tale crimen talis
poena, come conseguenza doverosa della tipizzazione
degli illeciti.
Le varie sanzioni previste dalla legge sono:
a) l’ammonimento, che è un richiamo all’osservanza dei doveri del magistrato;
b) la censura, che è una dichiarazione formale di biasimo;
c) la perdita dell’anzianità, che non può essere inferiore a due mesi e non superiore a due anni;
d) l’incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo, che non può essere inferiore a sei mesi e non superiore a due anni;
e) la sospensione dalle funzioni, che consiste nell’allontanamento dalla funzioni con la sospensione dello stipendio ed il collocamento fuori dal ruolo organico della magistratura;
f) la rimozione, che determina la cessazione del rapporto di servizio.
Vi è poi la sanzione accessoria del trasferimento d’ufficio che il giudice disciplinare può adottare quando infligge una sanzione più grave dell’ammonimento, mentre tale sanzione ulteriore è sempre adottata in taluni casi specificamente individuati dalla legge. Il trasferimento d’ufficio può anche essere adottato come misura cautelare e provvisoria, ove sussistano gravi elementi di fondatezza dell’azione disciplinare e ricorrano motivi di particolare urgenza. Secondo l’Anm, l’Associazione nazionale magistrati, l’Italia sarebbe tra i primi posti a livello europeo in termini quantitativi di provvedimenti disciplinari, con 981 casi in nove anni dal 1999 al 2008. Il dato viene confortato dalla ricerca del CEPEJ che dice che il numero delle sanzioni disciplinari applicate ogni 1000 magistrati in Italia è 7,5. Al secondo posto dopo l’Austria con un fattore 8. A parte che questo significa che i nostri magistrati sono quelli che a questo punto sbagliano più di tutti, il CEPEJ non dice il resto. Così come furbescamente non lo dice l’Anm.
E noi adesso lo diremo. Lo stesso rapporto dell’Anm dice all’interno (badando bene da non riportare il dato nei comunicati stampa) che sì, è vero che il Csm ha vagliato 981 posizioni in nove anni, ma di queste le condanne sono state solo 267 (il solo 27%). Praticamente solo tre magistrati su dieci sono stati “condannati” dal Csm. Già questo dovrebbe far ridere o piangere a secondo il punto di vista. Ma non finisce qui.
Di quei 267 condannati dal Csm:
a) 157, quasi il 59%, sono stati condannati alla sanzione minima dell’ammonimento (vedi capo a dell’elenco dei provvedimenti disciplinari)
b) 53, il 20% circa, alla censura (vedi capo b dell’elenco dei provvedimenti disciplinari)
c) 1 solo, lo 0,4 % circa, alla incapacità
(temporanea) delle funzioni direttive (vedi capo d dell’elenco dei provvedimenti
disciplinari)
d) 9 soltanto, il 3% circa, sono stati rimossi (vedi capi e-f dell’elenco dei
provvedimenti disciplinari)
Il resto sono al capo c o semplicemente trasferiti d’ufficio. Ma l’Anm, anche se i dati sono sconfortanti, non la dice tutta. Dagli studi di Bianconi e Ferrarella sui dati del 2007 e del 2008 esce un dato a dir poco “offensivo” per il comune senso della giustizia. Prima di giungere sul tavolo di Palazzo dei Marescialli, sede del Csm, la “pratica disciplinare” passa per altre vie. L’esposto di chi vi ricorre viene presentato alla Procura generale presso la Corte di Cassazione che vaglia la posizione e se ravvisa fondati motivi nell’esposto passa la pratica al Csm, che poi prende l’eventuale provvedimento. Bene, anzi male: nel 2007 la Cassazione ha ricevuto 1.479 esposti e ne ha passati al Csm solo 103, poco meno del 7%. Stessa musica nel 2008. Dei 1.475 fascicoli presentati in Cassazione, solo 99 passano al Csm, circa il 7%. Quindi prendere ad esempio i dati del CEPEJ sic et simpliciter è improprio, per due motivi: se i dati fossero analizzati (e non lo sono) sulla base del rapporto tra fascicoli aperti e condanne, il risultato sarebbe impietoso per l’Italia; secondo: all’estero non esistono sanzioni disciplinari come l’ammonimento o la censura, bensì si passa dalla sanzione di rimozione in alcuni paesi (inclusa una sanzione pecuniaria rilevante e il pagamento dei danni morali e materiali alle vittime) sino alla condanna in carcere in alcuni altri.
Ma non è ancora finita. Il periodo 1999-2008 è stato un periodo “di comodo” perchè il meno peggiore, e inoltre i numeri non sarebbero veritieri per come riportati dall’Anm. Secondo un’analisi di Zurlo, mai contraddetta, i casi vagliati dal Csm dal 1999 al 2006 sono stati 1.010, di cui 812 sono finiti con l’assoluzione e solo 192 con la condanna (il 19% circa). Di queste “condanne”:
- 126 sono stati condannati con l’ammonimento (circa il 66%!)
- 38 sono stati condannati con la censura (circa il 20%)
- 22 sono stati condannati con la perdita da 2 mesi a due anni di anzianità (circa l’11%)
- 6 sono stati espulsi dall’ordine giudiziario (il 3%)
- 2 sono stati i rimossi (l’1%)
Ora, che cosa si evince? Una cosa semplice. Un magistrato, specie inquirente, può consentirsi quello che vuole e commettere ogni tipo di errore o abuso, tanto cosa rischia? Vediamolo in numeri semplici:
- oltre 9 volte su 10 può contare sul fatto che l’esposto presentato contro di lui presso la Procura generale della Cassazione non venga passato al Csm;
- qualora anche passasse al vaglio del Csm può contare sul fatto che dalle 7 alle 8 volte su 10 verrà assolto dal Csm stesso;
- qualora anche venisse condannato dal Csm rischierebbe 9 volte su 10 solo un “tirata d’orecchie” o “una lavata di capo”.
Insomma ha solo dalle 7 alle 8 possibilità su mille di venire cacciato dalla magistratura, senza contare che per lui le porte del carcere non si apriranno mai. Potremmo dire: ho visto giudici trattati con così tanto riguardo che voi normali cittadini non potreste nemmeno immaginarvi.
Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa) condanna il nostro sistema giudiziario. Da noi occorrono 493 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni e milioni di procedimenti pendenti, scrive “Il Giornale”. La situazione viene ben descritta da Stefano Livadiotti,una delle firme più note di “L’Espresso” nel suo libro “Magistati-l’Ultracasta”, dive svela particolari e retroscena inquietanti su quelle toghe che da sempre detengono il potere in Italia. Vostro Onore lavora 1.560 ore l’anno, che fanno 4,2 ore al giorno. Gli esami per le promozioni? Una farsa per il giornalista. Che racconta come i giudici si spartiscono le poltrone e riescono a dettare l’agenda alla politica. Merita pure di essere sottolineato che l’attuale normativa prevede che dopo 27 anni di servizio, tutti i magistrati – indipendentemente dagli incarichi e dai ruoli – raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Solo sulla base della “anzianità”, quindi. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008, al 31 luglio 2012, sono state fatte, dopo l’ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2409 valutazioni sotto questo aspetto. Quante sono state giudicate negative? Tre. I magistrati del Belpaese guadagnano più di tutti i loro colleghi dell’Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio pari a 7,3 volte quello dei lavoratori “medi”. Gli inquirenti tedeschi si accontentano di un multiplo più ragionevole: 1,7. Ma quanto costa la macchina giudiziaria agli italiani? Per tribunali, avvocati d’ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all’anno (dato pubblicato nel 2010 dal Cepej), contro una media europea di 57,4. Perché così tanto? Eppure i quattrini ci sono. Peccato, però, che come tutto il resto, i “piccioli” vengano gestiti male. Da noi ci sono 2,3 Palazzi di Giustizia ogni 100 mila abitanti; in Francia uno. Ogni togato dispone di 3,7 addetti tra portaborse e presunti factotum dei quali si potrebbe tranquillamente fare a meno. In Germania, 2,7. Uno in meno quindi. Non pagano né civilmente né penalmente, come già detto. Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari? No, spiega Livadiotti, neanche quelle. Cane non mangia cane. Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa prima al filtro preventivo della Procura Generale della Cassazione, che stabilisce se c’è o no il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 sugli 8.909 magistrati in servizio, sono pervenute 5.921 notizie di illecito. Quante ne avrà mai potute archiviare il PG? Ben 5.498, cioè il 92,9%. Numeri imbarazzanti. Ma non basta. Quanti giudici sono stati sanzionati? Nessuno. Tra il 2001 e il 2011, il giornalista spiega che i giudici ordinari destituiti sono stati appena 4. Sì, esattamente, quattro. Lo 0,28%. Quelli rimossi negli ultimi 11 anni dal Csm? 8 in totale. E la legge sulla responsabilità civile che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito? In poche parole, va a farsi benedire. E’ la norma 117 dell’88, scritta dal ministro Vassalli. Nell’arco di 23 anni sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per colpe specifiche dei togati. Di queste, 253, pari al 63%, sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Solo 49, cioè il 12%, sono in attesa di pronuncia. 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione. 34, ovvero l’8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di quest’ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise. Peccato che lo Stato abbia perso solo 4 volte. Ma quanto guadagnano, in definitiva, i giudici? Un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, guadagna 2.700 euro per ogni giorno effettivo di impiego. Su questi dati, Livadiotti non è mai stato smentito. Né con i fatti, né con le parole. Ebbene sì, tutto questo è lo scandalo degli scandali. La macchina della giustizia dovrebbe cambiare in tutto e per tutto, essere rivoltata come un calzino. I veri privilegiati, anche in tempo di crisi, sono loro, i magistrati. La vera grande colpa di Berlusconi è quella di non aver mai introdotto, in 10 anni di governo, una legge che prevedesse almeno in parte la responsabilità dei giudici. Questa, nel 2013, ancora non è prevista. E tutti, politici compresi, in Italia sono costretti a sottostare al potere incontrastabile dei magistrati. Prigionieri di una casta che rifiuta di autoriformarsi per conservare privilegi, poteri e un’immunità che non ha pari al mondo.
C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!
"C'è un giudice a Berlino" è un vecchio modo di dire nato dalla vicenda di un poveraccio, in Germania, rimasto senza mulino ma che alla fine ebbe giustizia, scrive Umberto Eco su “L’Espresso”, alla cui dotta enucleazione si sono stracciate le smancerie antiberlusconiane. "Ci deve pur essere un giudice a Berlino" è espressione che, anche quando se ne ignora l'origine, molti usano per dire che ci deve essere una giustizia da qualche parte. Il detto è così diffuso che l'aveva citato anche Berlusconi (noto estimatore delle magistrature), quando nel gennaio 2011 aveva visitato la signora Merkel con la curiosa idea di interessarla ai suoi guai giudiziari. La signora Merkel (con un tratto di humour che una volta avremmo definito all'inglese - ma anche i popoli si evolvono) gli aveva fatto osservare che i giudici ai quali lui pensava non erano a Berlino ma a Karlsruhe, nella Corte Costituzionale, e a Lipsia nella Corte di Giustizia. Come nasca e come si diffonda la storia del giudice a Berlino è faccenda complessa. Se andate su Internet vedrete che tutti i siti attribuiscono la frase a Brecht, ma nessuno dice da quale opera. Comunque la cosa è irrilevante perché in tal caso Brecht avrebbe semplicemente citato una vecchia vicenda. I bambini tedeschi hanno sempre trovato l'aneddoto nei loro libri di lettura, della faccenda si erano occupati vari scrittori sin dal Settecento e nel 1958 Peter Hacks aveva scritto un dramma ("Der Müller von Sanssouci"), di ispirazione marxista, dicendo che era stato ispirato da Brecht, ma senza precisare in qual modo. Se proprio volete avere un resoconto di quel celebre processo, che non è per nulla leggenda, come molti siti di Internet, mendaci per natura, dicono, dovreste ricuperare un vetusto libro di Emilio Broglio, "Il Regno di Federico di Prussia, detto il Grande", Roma, 1880, con tutti i gradi di giudizio seguiti per filo e per segno. Riassumendo, non lontano dal celebre castello di Sanssouci a Potsdam, il mugnaio Arnold non può più pagare le tasse al conte di Schmettau perché il barone von Gersdof aveva deviato certe acque per interessi suoi e il mulino di Arnold non poteva più funzionare. Schmettau trascina Arnold davanti a un giudice locale, che condanna il mugnaio a perdere il mulino. Ma Arnold non si rassegna e riesce a portare la sua questione sino al tribunale di Berlino. Qui all'inizio alcuni giudici si pronunciano ancora contro di lui ma alla fine Federico il Grande, esaminando gli atti e vedendo che il poveretto era vittima di una palese ingiustizia, non solo lo reintegra nei suoi diritti ma manda in fortezza per un anno i giudici felloni. Non è proprio un apologo sulla separazione dei poteri, diventa una leggenda sul senso di equità di un despota illuminato, ma il "ci sarà pure un giudice a Berlino" è rimasto da allora come espressione di speranza nell'imparzialità della giustizia. Che cosa è successo in Italia? Dei giudici di Cassazione, che nessuno riusciva ad ascrivere a un gruppo politico e di cui si diceva che molti fossero addirittura simpatizzanti per un'area Pdl, sapevano che qualsiasi cosa avessero deciso sarebbero stati crocifissi o come incalliti comunisti o come berlusconiani corrotti, in un momento in cui (si badi) persino la metà del Pd auspicava una soluzione assolutoria per non mettere in crisi il governo. Alla fine questi giudici hanno condannato Silvio Berlusconi, che anela, ancora, un Giudice a Berlino.
IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.
Il Paese del garantismo immaginario. Le vanterie sull'Italia patria di Beccaria? Sono sciocchezze: la cultura manettara è egemone, scrive Alessandro Gnocchi
Il Giornale Viviamo in una società garantista? Il garantismo è pensiero corrente, se non egemone? No, è la risposta secca di Non giudicate, il saggio di Guido Vitiello edito da Liberilibri. Un giro in libreria, scrive Vitiello, a caccia di tomi che propugnino ideali garantisti, si risolverebbe in una ricerca senza frutto. Al contrario, gli scaffali sono ben riforniti di libri firmati da «magistrati-sceriffo impegnati sulla frontiera delle mille emergenze nazionali» o da «reduci gallonati di Mani pulite» o da giudici «scomodi» ma non al punto da non trovare frequente ospitalità nei vari talk show serali. La tivù è la tribuna da cui levano doglianze sui paletti alle indagini posti dai politici in nome del «garantismo» (quasi sempre «peloso», nota Vitiello). Basta dare un'occhiata alle cronache dei quotidiani per rendersi conto che gli avvisi di garanzia sono percepiti come sentenze della Cassazione; e che spesso l'odio (ma anche l'amore) per l'inquisito o il condannato di turno fa velo alla valutazione dei fatti. Il pensiero supposto egemone si rivela «solitario», e paga il conto anche ai «falsi garantisti» che si sono mescolati ai veri, «finché la moneta cattiva ha scacciato la buona e reso sospetti tutti i commerci». Insomma, la reputazione «ben poco commendevole» del garantismo in parte, ma solo in parte, è meritata: c'è stata poca chiarezza nel distinguere casi personali e questioni di principio. La tesi di Vitiello comunque è limpida: «L'imbarbarimento giudiziario italiano è sotto gli occhi di chiunque abbia voglia di vederlo, e non abbia interessi di bottega tali da suggerirgli una cecità deliberata. Basta gettare uno sguardo, anche distratto, sul punto di caduta o di capitolazione - le carceri di un sistema che è in disfacimento fin dalla testa, per arrossire quando sentiamo ripetere quelle insulse vanterie sul Paese di Beccaria». L'originalità del saggio consiste nel farci vedere i principi incarnati in quattro ritratti di garantisti doc: Mauro Mellini, Domenico Marafioti, Corrado Carnevale, Giuseppe Di Federico. Sono pagine nate sulle colonne del Foglio (l'introduzione è di Giuliano Ferrara) ampliate e arricchite da un carteggio fra Mellini ed Enzo Tortora. E proprio la vicenda di Tortora, insieme con Marco Pannella e le battaglie dei Radicali, lega tutti i protagonisti di Non giudicate. Tocca a Mellini, avvocato di conio liberale, leader radicale e deputato per svariate legislature, introdurre il lettore all'abbecedario garantista, cioè alle parole di cui diffidare perché sventolate al fine di giustificare l'indebito allargamento dei poteri della magistratura. Emergenza: «cela il proposito di passar sopra a certe fisime per instaurare una giustizia di guerra»; giustizia d'assalto: «ha dato la stura a innumerevoli interventi di magistrati ritenuti o autodefinitisi provvidenziali, di cosiddette supplenze e vicarianze di altri poteri»; esemplare: è una sentenza «che punisce con esagerata severità in un determinato momento, quindi una sentenza esemplarmente ingiusta». Domenico Marafioti, avvocato e letterato, è l'uomo delle profezie inascoltate: nel 1983 pubblicò La Repubblica dei procuratori. Sottolineava, scrive Vitiello, «i prodromi dell'integralismo giudiziario, dell'esondare della magistratura, specie di certe sue avanguardie, dalle dighe che legge e Costituzione le assegnano»; criticava il modello inquisitorio del processo; segnalava la nascita del giudice pedagogo, che vuole redimere il prossimo. Corrado Carnevale, presidente della Prima sezione penale della Cassazione dal 1985, è noto come l'ammazzasentenze, nomignolo affibbiatogli da una campagna stampa denigratoria iniziata dopo l'annullamento dell'ergastolo ai mandanti dell'omicidio di Rocco Chinnici. La corporazione non si levò certo in sua difesa (lo fece Pannella). Più volte finito sotto processo, sempre assolto, Carnevale illustra cos'è «l'astratto formalismo» che gli veniva imputato: osservanza scrupolosa della legge scritta. «Quando il giudice si considera legibus solutus e piega le leggi al suo fine, foss'anche per intenti nobili, mette lo Stato sullo stesso piano delle organizzazioni criminali». Carnevale rifiuta l'appellativo di garantista: «E nel fare giustizia il garantismo che c'entra? Non esiste per il giudice qualcosa di diverso dall'applicazione corretta, intelligente della legge». Giuseppe Di Federico ha fondato il Centro studi sull'ordinamento giudiziario dell'università di Bologna. È lui a sollevare un altro insieme di questioni: la separazione delle carriere, l'assenza di un valido sistema di valutazione dell'operato dei giudici, il tabù dell'obbligatorietà dell'azione penale. Questi sono i limiti non solo, per così dire, ideologici del sistema ma anche gli ostacoli all'efficienza della macchina. Se vi sembra che queste idee siano moneta corrente nel nostro Paese «garantista»...I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.
Come è possibile che i giovani siano attratti dal pensiero giustizialista? Cronaca della presentazione del libro “Non giudicate” di Guido Vitiello su “Zenit”. L’opera, con la prefazione di Giuliano Ferrara, raccoglie le voci di alcuni “veterani del garantismo” italiano, scrive Antonio D’Angiò. Sabato 27 ottobre 2012 è stato presentato alla Camera dei deputati, in occasione della quarta edizione delle “Giornate del libro politico a Montecitorio”, il “libretto” (così definito dallo stesso autore) di Guido Vitiello intitolato “Non giudicate” edito da liberilibri. Vitiello, nato trentasette anni fa a Napoli, è docente all’Università di Roma La Sapienza e collabora, tra gli altri, con il “Corriere della Sera” e “Il Foglio”. Per una fortuita coincidenza temporale, all’interno dell’opera è raccontato quanto avvenuto precisamente dieci anni fa, cioè il 30 ottobre 2002, quando il Presidente di Cassazione Corrado Carnevale è stato assolto, con formula piena, dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa (accusato di aver “aggiustato” alcuni processi di mafia e da alcuni pentiti di essere un referente dei boss) dopo circa un decennio di vicende processuali. Iniziamo da questa “ricorrenza temporale” per parlare del libro di Guido Vitiello, perché Corrado Carnevale, con Mauro Mellini, Domenico Marafioti e Giuseppe Di Federico è uno dei quattro veterani (tutti ultraottantenni all’epoca dell’intervista e, peraltro, tutti meridionali) che l’autore ha incontrato per discutere del garantismo in Italia e successivamente dare vita a questa pubblicazione. Ma soprattutto perché Carnevale è l’unico dei quattro che oltre a discutere, descrivere, documentare, applicare i temi e i commi della legislazione, è stato sia giudice che imputato e come recita la terza di copertina, è stato “esemplare garante del giusto processo, per questo ha subìto una persecuzione mediatico-giudiziaria, uscendone vittorioso”. Una serata (nell’affollata sala Aldo Moro del Parlamento) dove le riflessioni di giovani come Guido Vitiello e Serena Sileoni (Direttore Editoriale di liberilibri, coordinatrice dell’evento) si sono ben integrate nei toni e nei contenuti con quelle di tre maestri del giornalismo italiano: Pierluigi Battista, Massimo Bordin e Giuliano Ferrara, quest’ultimo autore della introduzione all’opera. Scrivendo e parlando della giustizia, non poteva non essere posta in relazione la giustizia degli uomini con quella di Dio (o amministrata per conto di Dio), in particolare nelle assonanze con alcune ritualità tra inaugurazione degli anni giudiziari e i “riti basilicali”; in alcune forme sceniche dei processi che ricordano in Italia più i tribunali dell’inquisizione in confronto con quelle della legge britannica (dove l’imputato è al centro e in alto rispetto alla corte giudicante); nonché con quel “non giudicate” che fa proprio uno dei passaggi del discorso della Montagna di Gesù Cristo o, infine, nel riferimento a Ponzio Pilato o al bacio di Giuda. Così come è stata più volte ripresa, per i cultori del diritto, la conseguenza che comporta sui processi la combinazione, tipicamente italiana, tra l’obbligatorietà dell’azione penale, la carcerazione preventiva, la limitata responsabilità civile dei magistrati e l’assenza della separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici. Oppure, per gli appassionati di vicende processuali, i racconti su alcuni processi, come quelli nei confronti di Enzo Tortora o di Scattone e Ferraro (questi ultimi accusati dell’omicidio della studentessa Marta Russo) che fanno emergere quanto, questi processi, abbiano rappresentato un’occasione mancata per una più ampia riflessione sul sistema giudiziario, prima che il termine garantismo fosse abbandonato da chi lo aveva nel suo patrimonio culturale e politico e fosse acquisito (l’autore dice “sputtanato”) da neofiti in virtù di un’interpretazione forzatamente privata, “ad personam”, di questioni comunque universali. Infine, i riferimenti letterari a Sciascia, Borges, Kafka, Pasolini, Dostoevskij, Gide, Anatole France, Gadda, Dante Trosi, rappresentano un vero e proprio elenco di consigli per la costruzione di una biblioteca del garantismo nella quale cercare le motivazioni più profonde sull’essenza del giudicare. L’avvocato e politico radicale (e anticlericale) Mellini, lo scrittore e avvocato Marafioti (di formazione repubblicana, deceduto pochi mesi dopo l’intervista), il professore di diritto Di Federico, il cattolico magistrato di Cassazione Carnevale, aiutati dalla prefazione di Giuliano Ferrara, tendono a spiegare quello che Vitiello rende immediatamente percepibile con una domanda. Come è stato possibile che i giovani, gli studenti (che peraltro lui incontra nelle aule universitarie) siano stati attratti dal pensiero giustizialista con quell’incarognimento che li ha portati a parlare di legalità, manette, intercettazioni con sillogismi feroci? E allora, per chiudere, pensiamo che le parole finali della conversazione con Corrado Carnevale in un certo qual modo possano spiegare il senso più profondo del libro e lasciare a credenti e non credenti il cercare di comprendere se e quanto ampio, in tema di giustizia, sia oggi la distanza tra cultura radicale, liberale e cristiana, per provare a indicare una nuova direzione alle giovani generazioni. “Ecco, ho sempre cercato di giudicare il mio simile nel modo più umano possibile, senza eccessi di moralismo. Non mi sono sentito diverso e migliore anche dal peggior delinquente che talvolta mi è capitato di dover giudicare.” Suona come una variante del precetto evangelico che abbiamo scelto come titolo per questo libro, “Non giudicate”, nel quale Sciascia credeva dovesse radicarsi la missione stessa del giudice. Qualcosa di non troppo diverso intende Carnevale: “Benedetto Croce diceva che non possiamo non dirci cristiani, e aveva ragione. Il Cristianesimo ha degli aspetti che non dovrebbero essere trascurati. Io sono credente. Ma grazie al cielo il Cristianesimo non è una corrente associativa.”
MANETTE FACILI, IDEOLOGIA ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.
Ai funerali di Pietrino Vanacore, intorno alla sua bara, assorta nel silenzio con la rabbia ed il dolore, c’era la gente che gli voleva bene. Una donna ha avuto il coraggio di dare voce alla sua comunità: «applaudite, hanno ottenuto quello che volevano!!!» La frase era rivolta a coloro, che, per deformazione professionale e culturale, non hanno una coscienza. Intanto, intorno alle sue spoglie gli sciacalli hanno continuato ad alimentare sospetti. La sua morte non è bastata a zittire una malagiustizia che non è riuscita a trovare un colpevole, ma lo ha scelto come vittima sacrificale. A zittire una informazione corrotta che lo indicava come l’orco, pur senza condanna. Non poteva dirsi vittima di un errore giudiziario, come altri 5 milioni di italiani in 50 anni. Per venti anni è stato perseguitato da innocente acclamato. Voleva l’ultima parola per dire basta. Non l’hanno nemmeno lasciata. Pure da morto hanno continuano ad infangare il suo onore. Accuse che nessuna norma giuridica e morale può sostenere. Accanimento che nessuna società civile può accettare. La sua morte è un omicidio di Stato e di Stampa. Non si può, per venti anni, non essere capaci di trovare un colpevole e continuare a perseguitare un innocente acclamato. Non si può, per venti anni, continuare ad alimentare sospetti, giusto per sbattere un mostro in prima pagina. Ferdinando Imposimato, il “giudice coraggio” delle grandi inchieste contro il terrorismo e la delinquenza organizzata, ha provato sulla propria pelle l’amarissima esperienza di star sul banco degli imputati. Egli conclude, come un ritornello inquietante: “E’ più difficile talvolta difendersi da innocenti che da colpevoli”. Parola di magistrato.
Manette facili e ideologia. Che processi tragicomici.
Oltre quarant'anni fa, le commedie all'italiana avevano colto le degenerazioni del sistema giudiziario. Quasi nulla è cambiato, scrive Claudio Siniscalchi
Il Giornale L'editoria cinematografica italiana è stata dissanguata prima dagli ideologi di sinistra, poi dal dominio della scrittura oscura di semiologi e psicoanalisti, o presunti tali. Ormai trattasi di un corpo tenuto in vita da una macchina artificiale. Ci vorrebbe, per rianimarlo, un miracolo. O, almeno, un po' di sangue fresco. Buona linfa scorre all'interno di una linea di ricerca sul cinema italiano avviata dall'editore calabrese Rubbettino, guidata dal giovane universitario Christian Uva, all'insegna di una complementarità: cinema e storia. L'ultimo tassello è In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano, a cura di Guido Vitiello. Il volume, raccolta di molti saggi, suscita alcune considerazioni. Dagli anni Trenta del secolo passato ad oggi, cioè dal fascismo alla democrazia, la commedia è stata il genere principe del cinema italiano. Nel Ventennio la macchina da presa s'è tenuta alla larga dai tribunali. Nel dopoguerra invece ci si è buttata per cogliere il tratto comico della giustizia. L'immenso Vittorio De Sica con la toga da avvocato (versione aggiornata dell'azzeccagarbugli manzoniano), folti capelli candidi, gesti da mattatore, eloquio da senatore (del Regno non della Repubblica), ridicolizzato dalla perdita della memoria. Totò e Peppino, grandissimi falsi testimoni. L'Albertone nazionale alla sbarra imputato di essersi bagnato nella marana senza vestiti. Il giudice Adolfo Celi che non ammette repliche alla sua autorità e competenza equestre. Insomma, in aula si ride. Pensate ora all'americano Codice d'onore (1992) di Rob Reiner. Il giovane Tom Cruise in doppiopetto blu con bottoni d'oro, avvocato della marina, assistito da Demi Moore, impegnato ad incastrare davanti alla corte marziale un mastino gallonato del corpo dei marine, Jack Nicholson. Non è uno scontro generazionale, di temperamenti, ma di visioni del mondo. Persino di attori. Il processo qui è anche spettacolo. Un grandioso spettacolo. Serissimo. Certo l'impianto giuridico americano rispetto a quello italiano agevola la drammatizzazione cinematografica. Per questo il cinema hollywoodiano ha un genere specifico dedicato ai tribunali, il courtroom drama o legal film. La commedia all'italiana, però, non è stata soltanto un contenitore di risate. Ha saputo anche cogliere e indicare questioni cruciali. Ad esempio la denuncia dell'arbitrarietà della carcerazione preventiva. L'odissea giudiziaria (e carceraria) che tocca ad Alberto Sordi in Detenuto in attesa di giudizio (1971) di Nanni Loy è un capolavoro dal sorriso amaro. Lo stritolamento dello sfortunato e innocente geometra mette a nudo l'arretratezza del sistema giudiziario e carcerario italiano. Siamo all'inizio degli anni Settanta, e sembra la storia di oggi. E come dimenticare l'istantanea sull'ideologizzazione progressista della magistratura scattata da Dino Risi nel suo In nome del popolo italiano (1971)? Il giudice Ugo Tognazzi non riesce a contenere l'odio di classe nei confronti dell'imprenditore di successo Vittorio Gassman. Quest'ultimo incarna il male del capitalismo italiano del boom economico: corrotto e corruttore. Quindi va eliminato, anche bruciando le prove della sua innocenza. La condanna non deve essere giudiziaria ma ideologica e morale. Infatti il procuratore, che mostra con disinvoltura una copia dell'Unità, non ce l'ha solo con i ricchi. Vorrebbe chiudere in cella anche capelloni, maoisti, anarchici, obiettori di coscienza, giovani scansafatiche. Da un figlio dei fiori redarguito si becca un insulto e l'accusa di essere fascista. Del resto nello stesso periodo la magistratura viene raffigurata come il braccio armato del potere (spesso occulto, antidemocratico, fascistoide), sia nel genere popolare «poliziottesco», sia nel filone di «ricerca impegnata», da Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) e Todo Modo (1976) di Elio Petri a Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi. Il cinema italiano si suicida tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta. Nelle macerie dell'ultimo trentennio si salva poco o niente. L'inchiesta Mani pulite poteva diventare un serbatoio infinito di sceneggiature ma la poltrona della sala cinematografica è stata sostituita dal divano di casa. La magistratura saliva al cielo grazie al piccolo schermo. La grande popolarità di Antonio Di Pietro, il più teatrale dei magistrati, comincia con la televisione. E con la televisione si chiude. Non regge all'urto della cannonata sparatagli da Milena Gabanelli. Col tubo catodico era schizzato tra le stelle. Col plasma è tornato sulla terra.Vi ricordate di Antonio Esposito, uno dei giudici della Corte di Cassazione che condannò Silvio Berlusconi per il processo “Mediaset”? «Chist'è na stupotaggine». Ormai la battuta gira irrefrenabile. Il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, ha dato mandato all'ispettorato del ministero per approfondire la vicenda relativa all'intervista del giudice Antonio Esposito, presidente del collegio della Cassazione che ha emesso la sentenza Mediaset, e ha nominato come consulente Felice Caccamo, scrive Aldo Grasso su “Il Corriere della Sera”. Il direttore e fondatore del giornale 'O Vicolo è l'unico in grado di interpretare lo spirito di quella famosa intervista passata alla storia come «Vabbuò, chill' nun poteva nun sapere». Quando si ascolta la registrazione della telefonata del presidente Esposito al giornalista del Mattino viene spontaneo immaginarselo nelle vesti di Felice Caccamo: giacca azzurra, cravatta con nodo esagerato, gli occhiali dalle lenti spesse e il Vesuvio sullo sfondo: «Tengo 'o mare n' fronte, 'o cielo n' ccoppa». Il tormentone su Caccamo (forse il più riuscito personaggio di Teo Teocoli) è partito da un articolo di Annalisa Chirico su Panorama.it e ha fatto in fretta a diffondersi, come succede a quelle battute che diventano subito una spia di consenso. Persino la senatrice Alessandra Mussolini si è esibita in un'imitazione della telefonata. Certo, tra un esimio presidente della Corte di Cassazione e un giornalista, un po' cialtrone, intento più alle sue singolari abitudini alimentari ('o struzzo di mare oppure 'a frittura globale), che a scovare notizie, la differenza è abissale. Ma sono bastati una telefonata in dialetto («Tiziu, Caiu e Semproniu an tit che te l'hanno riferito. E allora è nu pocu divers»), un momento di eccesso di confidenza, uno stato di rilassamento familiare per avvicinarli in maniera incredibile. Caccamo vive con la moglie Innominata (che prende puntualmente a «mazzate in faccia») e i figli Tancredi, Boranga e Ielpo. I suoi inseparabili amici sono Pesaola, Bruscolotti e l'ex presidente del Napoli Ferlaino, suo vicino di casa. Ormai è una maschera napoletana, come Pulcinella, Tartaglia (il vecchio cancelliere balbuziente, astuto e pedante, dai grossi occhiali verdi), 'O Pazzariello («Attenzione... battaglione... è asciuto pazzo 'o padrone...»). Caccamo sa bene che i magistrati parlano attraverso le sentenze, ma sa anche che qualche volta parlano al telefono.
Certo non era una verginella riguardo ai suoi trascorsi. I guai disciplinari di Esposito: già due processi davanti al Csm.Il magistrato è stato imputato a fine anni '90 per "protagonismo", minacce a un cancelliere e per il doppio lavoro all'Ispi. Ma si è salvato, scrive Emanuela Fontana su “Il Giornale”. Non è la prima volta che il Consiglio superiore della magistratura deve occuparsi del caso Esposito. Il giudice della Cassazione che ha presieduto il collegio che ha condannato Silvio Berlusconi, e che in un'intervista bomba al Mattino ha spiegato le ragioni della sentenza prima che ne siano state depositate le motivazioni, era stato interrogato per ben due volte in qualità di «imputato» in altrettanti procedimenti disciplinari a suo carico. Vicende finite con l'assoluzione, ma che hanno visto comunque il magistrato ora nell'occhio del ciclone nella scomoda posizione di difendersi di fronte all'organo di controllo delle toghe. In uno dei due procedimenti, ricorda adesso con Il Giornale uno dei membri della sezione che si era occupata di questo caso, la posizione del giudice fu «in bilico e la sentenza molto combattuta». Le accuse si chiusero comunque, va ribadito, con un nulla di fatto. Furono rivolte tutte a Esposito alla fine degli anni 90, quando era pretore a Sala Consilina, e riguardavano una serie di questioni, da un incarico extra-lavorativo del magistrato, con un presunto utilizzo improprio degli uffici giudiziari, a una presunta minaccia nei confronti di un cancelliere, passando per accuse di «protagonismo». Le tracce di questo percorso che si è incrociato più volte con il giudizio del Csm sono ora decriptabili grazie alla raccolta di file audio e video di Radio Radicale. Il 18 settembre del '98, dunque, Antonio Esposito viene ascoltato in qualità di imputato al Csm per rispondere di tre questioni. Il segretario magistrato lo accusava di aver «gravemente mancato ai propri doveri rendendosi immeritevole della fiducia di cui il magistrato dovrebbe godere». Prima di tutto perché in qualità di consigliere pretore dirigente della pretura circondariale di Sala Consilina aveva celebrato nel '91 un procedimento penale contro Maria Pia Moro per interruzione di pubblico servizio «senza che tale procedimento fosse compreso tra quelli a lui assegnabili». I colleghi lo accusavano del desiderio di «coltivare la propria immagine» attraverso un processo celebre che avrebbe attirato «gli organi di informazione». Nella relazione si parla anche di «spirito di protagonismo» («Non protagonismo, ma assunzione di responsabilità», era stata la replica di Esposito). La seconda accusa riguardava la concessione a «un messo comunale di frequentare gli uffici della sede distaccata di Sapri», e di avere le chiavi di ingresso come «uomo di fiducia» di Esposito, per il quale effettuava «vari servizi», come il «trasporto suo e dei familiari», consegna di spese e recapito della corrispondenza. La terza accusa era la meno facile da controbattere: il Csm chiedeva conto a Esposito della sua attività e del suo ruolo «di estremo rilievo» divenendo il «gestore di fatto», dell'Istituto superiore di studi socio-pedagogici di Sapri. Il «dottor Esposito», proseguiva il segretario magistrato, era stato autorizzato a «svolgere un incarico gratuito» di docente in materie giuridico che invece «veniva retribuito». Non solo: «Utilizzava il personale della sezione distaccata di Sapri per la battitura di tesi attinenti al corso». Il capitano della compagnia dei carabinieri di Sapri, Ferdinando Fedi, testimoniò al Csm che «il dottor Esposito era quasi sempre reperibile presso la sede dell'Ispi». Altro appunto: Esposito era intervenuto varie volte sulle tv locali «per reclamizzare l'istituto di cui fino a poco tempo addietro era presidente sua moglie». Dell'altro procedimento disciplinare il Csm si è occupato nel 99. In questo caso Esposito era stato accusato dai collaboratori di Sala Consilina di aver pronunciato nel 94 «espressioni minacciose». Questa la frase oggetto del processo: «Se mi va bene una certa cosa vi devo spezzare le gambe a tutti quanti» all'indirizzo di un cancelliere. Parlando così, Esposito «violava i doveri professionali di correttezza e di rispetto». Il processo era partito dopo gli accertamenti del presidente del tribunale di Sala Consilina.
La rete di affari di Esposito: ecco perché fu trasferito. Il Csm lo spostò: "Con la sua scuola guadagna centinaia di milioni che gli permettono di avere una Jaguar, una villa a Roma e un motoscafo". Nelle carte i favori ricevuti. E spuntano una Mercedes gratis e le cene a sbafo, scrivono Massimo Malpica
Patricia Tagliaferri Il Giornale Tutta colpa di una scuola e di affari milionari. A far traslocare da Sala Consilina Antonio Esposito, dopo un quarto di secolo nel quale il magistrato era rimasto affezionatissimo a questa piccola perla del Tirreno, è stato il plenum del Csm, il 7 aprile del 1994. In poco meno di cinque ore, l'organo di autogoverno della magistratura votò a maggioranza la proposta di trasferimento per incompatibilità ambientale. Le 32 pagine di verbale di quella seduta raccontano il dibattito serrato dei consiglieri che dovevano decidere del suo futuro. Forse con una certa apprensione, visto che in apertura venne ricordata l'ispezione ministeriale condotta da Vincenzo Maimone, con lo 007 portato in tribunale da Esposito e «prima condannato per calunnia e poi assolto in appello», a maggio del 1992, perché il fatto non costituiva reato. Così il consigliere togato Gianfranco Viglietta rilevò «come il dottor Esposito si rivolga in modo pesantemente critico nei confronti di tutti coloro i quali esprimano riserve sul suo operato», osservando che «ciò è certamente indice di non particolare equilibrio». Una sindrome del complotto, insomma. Che toccava anche uno dei presenti nel plenum, Alfonso Amatucci, il quale infatti mise a verbale di essere «a giudizio di Esposito (...) una sorta di quinta colonna di quel complotto presso il Csm». Ruolo che Amatucci, va da sé, negò con forza. Spiegando di aver appreso frequentando Sapri dei «molti giudizi negativi» sul giudice, ai quali non aveva dato peso. A far cambiare approccio ad Amatucci era stato un primo episodio «significativo», quando «dopo aver cenato in un ristorante», a Sapri, il consigliere «ricevette i complimenti del ristoratore per il fatto che egli, a differenza di altri magistrati del luogo, era intenzionato a pagare il conto». «Da quel momento» Amatucci «prese a considerare con maggior attenzione le voci sul conto di Esposito». Lo stesso consigliere rivelò anche un'altra «vicenda emblematica: sarebbe stata portata, per conto della ditta Palumbo (un costruttore attivo all'epoca nell'area del golfo di Policastro, ndr), una vettura Mercedes di colore beige, gli pare di ricordare a benzina, acquistata» da un direttore romano di banca «con chiavi nel cruscotto, sotto l'abitazione del dottor Esposito». Ancora Amatucci rispolverò la fresca assoluzione dell'avvocato Francesco Vallone (che aveva dato il via con un esposto al procedimento disciplinare contro Esposito) nel processo per calunnia e falsa testimonianza intentato contro di lui proprio dall'ex pretore, e Vallone aveva parlato proprio di presunti favoritismi della pretura di Sapri nei confronti del costruttore che avrebbe «recapitato» la lussuosa berlina tedesca. Il plenum sostenne che Amatucci, che aveva parlato di episodi non presenti negli atti dell'istruttoria, avrebbe dovuto «comunicare per tempo elementi così gravi e rilevanti». Alcuni consiglieri cominciarono a valutare l'ipotesi di un rinvio della pratica in commissione, altri, come Laudi, consideravano invece «paradossale rinviare la decisione in ragione del fatto che sono stati presentati elementi aggravanti». Si decise di votare per il rinvio, ma la proposta venne respinta. Il coinvolgimento di Esposito nella «scuola» di famiglia, l'Ispi, ebbe un forte peso nella decisione, e il relatore spiegò che quell'elemento, insieme alla presenza «ultraventennale», avevano «accresciuto il potere» di Esposito, dando luogo «qualcosa di diverso e incompatibile con la funzione di pretore dirigente». Anche perché il contributo che il pretore dava alla scuola non era solo per passione. Ecco cosa scrivono i consiglieri del Csm quando definiscono il trasferimento. Sulla scuola di formazione si soffermano a lungo, e un po' si stupiscono davanti al tenore di vita del magistrato, «proprietario di un villino a Roma, di una Jaguar e di un motoscafo». Avallano così «l'ipotesi che l'Ispi abbia consentito la realizzazione di guadagni nell'ordine di centinaia di milioni, come sembrerebbe potersi evincere dai costi di iscrizione e dalle rette di frequenza». Insomma, toglierlo da Sapri è un gesto «di buon governo». Al voto, 14 consiglieri sono per il trasferimento, 11 votano contro, 4 si astengono. Non è finita. Esposito a gennaio '97 cita in giudizio davanti al Tribunale di Roma, chiedendo un risarcimento danni per 4 miliardi di lire, due componenti del Csm - Amatucci e il relatore, Franco Coccia - insieme all'avvocato Vallone e a Ermanno Marino, «reo» d'aver raccontato ad Amatucci di aver guidato la famosa Mercedes. Ma il tribunale di Roma respinse la sua richiesta. Far pagare i consiglieri per le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni era davvero troppo.E il giudice querela il Giornale ma non chiarisce il caso Ispi. Esposito si fa scudo dell'associazione Caponnetto e denuncia Il Giornale per lo scoop sul doppio lavoro. Il colloquio col Mattino è lungo 40 minuti: al Csm l'audio integrale, scrivono Massimo Malpica e Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il giudice Antonio Esposito si sente diffamato. Quello che ancora non conosciamo è invece l'umore del dottor Antonio Esposito, il tuttofare della scuola Ispi, quello che mette il suo numero di telefono tra i contatti per chi vuole fare master o esami nella sede locale dell'università telematica. Non si sa, insomma, cosa pensano l'uno dell'altro. L'unica cosa certa è che sono la stessa persona e di fatto il giudice fa un doppio lavoro. La domanda allora è: si può fare? Esposito promette querela. L'annuncio non lo fa di persona, ma si nasconde dietro l'associazione Antonino Caponnetto di cui è presidente onorario (e che sulla pagina Facebook «si stringe intorno al suo presidente e ai suoi familiari vittime di una campagna vergognosa e diffamatoria dopo la sentenza di condanna emessa a carico di Berlusconi»). In pratica tira in ballo una colonna della lotta alla mafia per ribadire quello che il Giornale in realtà non ha mai nascosto, e cioè che la sezione disciplinare del Csm lo ha sempre ritenuto estraneo a tutte le accuse. O meglio, a quasi tutte, visto che il 7 aprile del '94 il plenum del Csm approvava a maggioranza la proposta di trasferimento d'ufficio dell'allora pretore di Sala Consilina, che venne destinato alla Corte d'Appello di Napoli nonostante lui avesse fatto presente che l'adozione del provvedimento gli avrebbe causato danni incalcolabili, ledendo irreversibilmente il suo onore e il suo prestigio professionale e denunciando che la relativa procedura sarebbe stata condotta con spirito persecutorio e diffamatorio nei suoi confronti, in esecuzione di un disegno comune ai convenuti». I suoi colleghi, insomma, conoscevano l'intreccio di interessi tra il pretore e la vita sociale ed economica di Sapri. E per questo lo hanno trasferito. Nell'ultima seduta del Csm i consiglieri ne hanno parlato a lungo, anche scontrandosi sulle diverse interpretazione di certi episodi. Ma alla fine sono stati d'accordo sul fatto che «la presenza ultraventennale di Esposito nella pretura di Sala Consilina e il suo coinvolgimento nella gestione dell'Ispi hanno determinato una situazione particolare che ha accresciuto il suo potere fino a dar luogo a qualcosa di diverso e di incompatibile con la funzione di pretore dirigente». Sulla scuola di formazione i consiglieri si soffermano a lungo, ipotizzando che il particolare tenore di vita del magistrato che risultava «proprietario di un villino a Roma, di una Jaguar e di un motoscafo avallassero l'ipotesi che l'Ispi avesse consentito la realizzazione di guadagni nell'ordine di centinaia di milioni, come sembrerebbe potersi evincere dai costi di iscrizione e dalle rette di frequenza». Alla fine è stata proprio la gestione dell'Ispi a determinare il trasferimento. «Dovrebbe essere provato - si legge nel provvedimento - che Esposito svolga attività ulteriori rispetto a quella dell'insegnamento per il quale è stato autorizzato dal Csm». E come emerge dagli accertamenti del capitano dei carabinieri Ferdinando Fedi. «Esposito - scrivono i consiglieri - poteva essere reperito sistematicamente presso i locali della scuola e i collegamenti con l'Ispi venivano tenuti anche in pretura. Pure i carabinieri a volte dovevano attendere perché nello studio del pretore erano a colloquio delle studentesse della scuola stessa». Ora, invece, Antonio Esposito deve chiarire il pasticciaccio della sua intervista al Mattino di Napoli. Qualche domanda se la sta facendo anche il ministro Cancellieri, che ha messo in campo gli ispettori di via Arenula per indagare sulla vicenda. Qualcosa non torna neppure al Csm, dove il presidente della prima commissione Annibale Marini e il vicepresidente Michele Vietti si sono affrettati ad acquisire l'audio integrale del colloquio. Il Mattino ne ha pubblicato on line solo una manciata di minuti. Il resto, quasi 40 minuti, non è irrilevante. Forse il primo a dover pretendere trasparenza è proprio il giudice Esposito. Chieda al suo amico giornalista di farci ascoltare tutto.
Il buonsenso vorrebbe che le dichiarazioni di Esposito fossero considerate gravi. Invece non è così, anche se danno a Berlusconi un ottimo alibi per fare ricorso alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, scrive Alessandro Tantussi su “Imola Oggi”. Gli “ermellini” sono basiti: ora si aprono nuovi scenari. Ubi maior minor cessat, però mi vanto di averlo detto prima. La gravità della sortita del magistrato non può e non deve sfuggire alla gente di buon senso, anche a chi non mastica tutti i giorni diritto. Esposito ha smentito di aver pronunciato quelle frasi, ma il sonoro dell’intervista registrata lo inchioda alle sue responsabilità. Il direttore del quotidiano napoletano lo ha ribadito: il magistrato voleva proprio dire quello, ha anticipato ad un organo d’informazione le motivazioni della sentenza, non ancora rese note per le vie ufficiali. Alla faccia della terzietà, della sobrietà, dello stile di vita specchiato e della limpidezza operativa che dovrebbe contraddistinguere chi fa la professione di Esposito. Si è verificato l’ennesimo cortocircuito tra settori politicizzati della magistratura e alcuni media che puntano ad esasperare il conflitto tra poteri. In Cassazione tutti sono basiti. Con le sue dichiarazioni, che di fatto anticipano i contenuti di una sentenza impostata sul principio che Berlusconi “sapeva” della frode fiscale, Esposito apre inevitabilmente (e inconsapevolmente) nuovi scenari. Quelle parole, seppure ritrattate dal diretto interessato inchiodato dal sonoro della registrazione che quindi si è beccato del bugiardo a ragione veduta, sono un assist sia per la difesa, che ora avrà ulteriori motivi per tentare la strada del ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo.
E anche Wanna Marchi fa ricorso a Strasburgo.
Il magistrato svelò la condanna prima della sentenza. La difesa: "Diritti violati", scrive Stefano Zurlo
Il Giornale L'intervista show di Antonio Esposito invade ancora giornali e tv come un'onda anomala. E lui, il giudice del Cavaliere, si ritrova sempre più al centro dell'attenzione. Ora, e pare incredibile, anche Wanna Marchi, l'urlatrice di Castel Guelfo, ha deciso di portare Esposito, o meglio la claudicante giustizia italiana, a Strasburgo, davanti alla Corte europea dei diritti dell'uomo. Il motivo è molto semplice: anche la Marchi ha letto sul Giornale il documentatissimo articolo firmato da Stefano Lorenzetto, giornalista e scrittore con un passato nella redazione di via Negri. Ricordate? In quel pezzo Lorenzetto rievocava una cena avvenuta a Verona, in occasione della consegna del premio «Fair play», il 2 marzo 2009. Nel corso della festa Lorenzetto aveva conosciuto proprio lui, Antonio Esposito. E il magistrato, fra una portata e un brindisi, l'aveva deliziato descrivendo le presunte performance a luci rosse del Cavaliere, lo stesso Cavaliere che Esposito ha condannato la scorsa settimana con sentenza definitiva. Non solo: già che c'era, gli aveva preannunciato un altro verdetto importante: quello che di lì a un paio di giorni avrebbe travolto proprio Wanna Marchi, la regina delle teletruffatrici, e la figlia Stefania. Affondate, rispettivamente con 9 anni e 6 mesi e 9 anni e 4 mesi di carcere. Quella sera, a sentire Lorenzetto, Esposito era stato perentorio: la Marchi che gli stava, per usare un eufemismo, antipatica, era colpevole. Senza se e senza ma. E puntualmente di lì a poche ore arrivò la condanna, irrevocabile, come si dice in questi casi, per madre e figlia. Giù il sipario, dunque. Le Marchi erano scomparse dai nostri radar. Peccato che le sentenze non possano però essere anticipate, così come non si dovevano bruciare sul tempo le motivazioni del processo Mediaset che il relatore deve ancora vergare. Ma Esposito corre in avanti. Troppo. Con Silvio Berlusconi e con Wanna Marchi, senza aspettare quel momento burocratico e noioso, ravvivato da chissà quali sbadigli, chiamato camera di consiglio. Così le Marchi, dopo aver digerito la clamorosa sorpresa, hanno deciso di giocare la carta del ricorso a Strasburgo: se le rivelazioni a posteriori sono esatte, il presidente del collegio non era imparziale. «Attenzione - spiega l'avvocato Liborio Cataliotti - Wanna Marchi non intende negare le proprie responsabilità e neppure cerca una qualche scorciatoia rispetto alla pena, in gran parte già scontata, e al successivo percorso di reinserimento nella società insieme alla figlia. Wanna ha avuto prima il lavoro esterno, poi la sospensione della pena; Stefania ha lasciato la cella per motivi di salute ed è detenuta ai domiciliari. Però le Marchi chiedono come tutti che i loro diritti fondamentali siano rispettati». Dunque, a Strasburgo si cercherà di capire se la Suprema corte abbia agito in modo canonico oppure se quelle confidenze spifferate nel bel mezzo di un banchetto conviviale costituiscano una ferita che oggi deve essere sanata. Il viaggio a Strasburgo non sarà una passeggiata: ci vorrà tempo e certo un'eventuale condanna non riabiliterebbe la Marchi, a capo di una vera e propria associazione a delinquere pensata per spolpare migliaia e migliaia di creduloni sparsi su tutto il territorio nazionale, ma sarebbe uno schiaffo per l'alto magistrato e soprattutto per la credibilità della nostra giustizia sulla vetrina internazionale. Cataliotti, l'avvocato di Reggio Emilia che i lettori del Giornale conoscono bene perché a lui è affidata la maxi-causa civile, una sorta di class action, contro Antonio Ingroia, è pronto alla battaglia. E questa volta è lui a suggerire il possibile finale: «Se otterremo un risarcimento i soldi andranno dritti alle parti civili». Sì, alle vittime dei raggiri della teleimbonitrice. Senza trucco e senza inganno.MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.
"Ad alto rischio" di Mario Mori e Giovanni Fasanella (ed. Mondadori). "Mario Mori, generale dei Carabinieri. All'opinione pubblica il mio nome probabilmente dirà qualcosa. Evocherà dei ricordi, vicende per certi aspetti anche spiacevoli di cui si è molto scritto sui giornali e parlato nelle aule giudiziarie. La mia, però, è una storia lunga. Da raccontare. E quella di un militare e dei suoi uomini che hanno combattuto per quarantanni terrorismo e mafia. Nei reparti d'eccellenza dell'Arma. E ai vertici dell'intelligence, quei Servizi segreti in Italia sempre così chiacchierati." Scritta con Giovanni Fasanella, questa è la straordinaria storia "professionale" di un uomo che è stato al centro di tutti i grandi eventi italiani. Ufficiale del controspionaggio al SID, il Servizio segreto militare nei primi anni Settanta, nei nuclei speciali comandati dal generale Dalla Chiesa dopo il delitto Moro, comandante della sezione Anticrimine a Roma durante gli anni di piombo, Mori è stato uno dei protagonisti della lotta al terrorismo. A metà degli anni Ottanta è a Palermo, con Falcone e Borsellino, a combattere la mafia; nel 1998 diventa comandante del ROS, il reparto speciale dei Carabinieri, che aveva contribuito a creare. Uscito dall'Arma, dirigerà infine il sisde, il Servizio segreto italiano, che ritrova un ruolo decisivo per la sicurezza nazionale dopo i fatti dell'll settembre. Nel corso della sua lunga carriera ha combattuto il terrorismo, arrestato Riina, messo a punto nuove tecniche d'investigazione, gestito infiltrati, ascoltato pentiti."
La paradossale condizione di un servitore dello Stato, che è riuscito ad arrestare il capo di Cosa Nostra, Totò Riina, che alla fine della carriera viene accusato da quello stesso Stato di essere sceso a patti con la mafia. È la storia del generale Mario Mori:
«Non mi arrendo di certo e voglio andare fino in fondo, abbiamo anche rinunciato alla prescrizione perchè vogliamo essere giudicati e avere giustizia».
Presentando il libro “Ad alto rischio”, scritto a quattro mani con il giornalista Giovanni Fasanella, su "la vita e le operazioni dell’uomo che ha arrestato Toto’ Riina" (così recita il sottotitolo), il generale Mario Mori affida a poche parole il capitolo non ancora scritto della sua vita, quello che riguarda la vicenda giudiziaria ancora in corso che lo vede coinvolto.
«Ho scritto questo libro perchè io e il mio ex collaboratore Mauro Bino, imputato con me nel processo di Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia, non usciremo mai da questa situazione, in quanto per una parte dell’opinione pubblica rimarremo personaggi ambigui: quindi lo dovevo a lui e a tutte le persone che hanno lavorato e rischiato con me», si limita a dire il generale presentando il volume nella sala del Refettorio di palazzo San Macuto: accanto a lui, oltre al coautore, ci sono giornalisti e politici che ne hanno seguito le gesta: Emanuele Macaluso, Giuliano Ferrara, Marco Minniti, Massimo Bordin, Stefano Folli.
Nel libro si ripercorre la storia del generale dei Carabinieri, tra i fondatori del Ros, dagli inizi al Sid fino ai vertici del Sisde, passando per i nuclei speciali del generale Dalla Chiesa dopo il delitto Moro, la sezione Anticrimine a Roma durante gli anni di piombo, le indagini con Falcone e Borsellino a metà degli anni ’80. Nel libro Mori scrive di non essere amareggiato, perchè «servire lealmente lo Stato colpendo interessi consolidati comporta dei rischi” e “si possono pagare dei prezzi anche molto alti. Ci si deve guardare dal nemico e, a volte, a presentarti il conto per i risultati che hai ottenuto sul campo può essere lo stesso Stato al quale hai dedicato una vita».
Crocevia di molti misteri italiani, il generale dei carabinieri Mario Mori ha scritto un libro autobiografico, che si legge come una spy story ma al quale ha affidato il suo grido d'innocenza contro i magistrati di Palermo che lo processano per favoreggiamento della mafia, accusandolo di non avere volutamente arrestato Bernardo Provenzano dopo avere messo le manette a Totò Riina. Del processo nel libro si tace; ma la tesi che attraversa le 149 pagine equivale a una linea di difesa: contro le grandi organizzazioni criminali è necessario adottare strategie «border line», a partire da spregiudicati contatti sotto copertura per indurre l'avversario a fidarsi, e scoprirsi. Strategie che però, con una magistratura non altrettanto flessibile, possono costar care agli uomini dello Stato che le adottano scrive Stefano Brusadelli su “Il Sole 24ore”. Pioniere in Italia di queste tecniche fondate sull'uso di infiltrati fu Carlo Alberto Dalla Chiesa, del quale Mori (nato a Postumia nel 1939, prima al Sid, poi numero uno del Ros e del Sisde), fu allievo. Narrate in prima persona con efficacia giornalistica, il lettore troverà la cronaca di alcune delle più brillanti operazioni compiute dalle forze dell'ordine italiane negli ultimi decenni. A cominciare da quella – e qui davvero pare di stare al cinema – durante la quale a Napoli un ufficiale del Ros, fingendosi un imprenditore corrotto, convoca in un lussuoso albergo esponenti delle ditte legate alla camorra e ai partiti per discutere – sotto l'occhio di una telecamera nascosta – come spartire la torta dei subappalti per la Tav. O l'operazione nella quale il mafioso Giovanni Bonomo, rifugiato a fare il mercante d'arte in Costa d'Avorio (senza trattato di estradizione con l'Italia), viene attirato con la prospettiva di un affare, e arrestato, nel vicino Senegal. E ci sono, naturalmente, gli episodi più controversi. La ricerca di un contatto con Vito Ciancimino per ottenere «informazioni di prima mano» sui piani della mafia, di cui Mori decide di tacere con la Procura nella grave convinzione che «non tutti i pm di Palermo fossero decisi a combattere Cosa nostra». O il rinvio della perquisizione di casa Riina dopo l'arresto del 1993 (oggetto di un altro processo e di un'assoluzione), deciso, sostiene, «perché se fosse avvenuta immediatamente tutte le persone che la frequentavano si sarebbero sentite bruciate». O la mancata cattura nel 2006 del super boss mafioso Matteo Messina Denaro, che il Sisde era riuscito ad agganciare tramite un doppiogiochista, a causa dell'intervento della Procura di Palermo che mette quest'ultimo sotto inchiesta in quanto «non si è fidata». Nelle ultime pagine, un'altra goccia di veleno indirizzata al comando generale del l'Arma: «Io, e credo anche molti altri carabinieri, avremmo gradito non una difesa delle singole persone, ma del Ros». Perché pure alla militaresca consegna del silenzio, evidentemente, c'è un limite.
Mario Mori: "Mi hanno assolto ma non mi basta".
Il generale, prosciolto dall'accusa di aver favorito la latitanza di Provenzano, racconta a Panorama 20 anni di persecuzione giudiziaria. Appena il tempo per una breve vacanza in montagna, ed eccolo di nuovo a Roma, a prepararsi per la «campagna d’autunno», quando a Palermo inizierà il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Cosa nostra. Ma è sereno, Mario Mori, generale dei carabinieri ed ex direttore del servizio segreto civile. Dopo aver già vinto una battaglia contro la Procura di Palermo nel 2006, alla fine del luglio scorso ha incassato una seconda assoluzione, insieme al colonnello Mauro Obinu. Se arriverà anche la terza, ovviamente nessuno può dirlo. Di sicuro, il fondatore del Ros, il Raggruppamento operativo speciale che è stato strumento d’eccellenza nella lotta alla mafia, da anni costretto a difendersi nelle aule di tribunale, è pronto a combattere. Intanto, eccolo nel suo nuovo ufficio con il cronista di Panorama, il giornale cui rilascia la sua unica intervista.
Generale, è ovvio che se lo augurasse. Ma, sinceramente, avrebbe scommesso su questa sentenza?
«Non avevo dubbi che sarebbe finita così, anche se in un processo di mafia c’è sempre un condizionamento ambientale che può indirizzare persino il giudice più corretto e asettico. Dopo più di cento udienze, è emersa tutta l’inconsistenza delle argomentazioni dell’accusa: sì, prevedevo l’assoluzione, ma non la formula».
È la migliore che lei potesse sperare?
«Attendo il deposito della motivazione per capire come i giudici sono arrivati alla sentenza».
Non è comunque privo di significato il fatto che il tribunale abbia disposto l’invio alla procura delle testimonianze dei suoi accusatori, Massimo Ciancimino e Michele Riccio.
«Certo, significa non solo che non li ha ritenuti attendibili, ma vuole che la procura valuti se ci sono anche gli estremi per un procedimento per calunnia nei loro confronti. Comunque, Mauro Obinu e io abbiamo già denunciato Michele Riccio per calunnia».
Tre lustri vissuti sotto tortura giudiziaria: ora come si sente?
«Sotto tortura, sì, è proprio il caso di dirlo. Il mio calvario giudiziario è iniziato formalmente nel 2006. Ma in realtà ero finito sotto tiro già nel 1994, un anno dopo la cattura di Totò Riina. Da allora, sono diventato mio malgrado un personaggio pubblico, criticato, meglio sarebbe dire bombardato, da una certa area ideologica. Siamo nel 2013, l’anno prossimo sarà il ventennale. Sarebbe una bugia se dicessi che non sono provato da questa esperienza. Ma, per carattere, non la do vinta a nessuno. Per assurdo direi che, se questa storia finisse, non saprei più che fare, talmente mi sono immedesimato nella parte. Una battaglia che Obinu e io abbiamo combattuto a viso aperto. Abbiamo rinunciato alla prescrizione, uno dei pochissimi casi nella storia giudiziaria italiana, probabilmente. Ma era doveroso farlo, per imputati di reati connessi all’esercizio della propria professione. Osservo a riguardo che anche questa correttezza istituzionale non ci è stata riconosciuta dai nostri detrattori».
Come ha cambiato la sua vita, questa battaglia?
«Dal punto di vista professionale non ha inciso granché: ero ormai a fine carriera. Quando cominciò il primo processo, nel 2006, avevo praticamente ultimato il mio incarico alla direzione del Sisde, l’allora servizio segreto civile. Sul piano personale mi ha aiutato invece la solidarietà che ho sentito intorno a me. Certo il limo mediatico, con il mio nome dato continuamente in pasto all’opinione pubblica senza la possibilità di poter replicare, ha pesato molto…»
E sul piano familiare?
«In famiglia ovviamente mi hanno sostenuto, mi sono stati tutti vicini».
E nel suo ambiente professionale, nell’Arma cui lei è molto legato, lei ha pagato qualche prezzo?
«Ho avuto la solidarietà ravvicinata di tanti colleghi e dipendenti che non mi hanno mai fatto mancare anche il loro contributo di idee alla mia difesa».
Colleghi e dipendenti dell’Arma... E i vertici?
«Hanno assunto una posizione di prudente attesa. Che cosa vuole? Le istituzioni in quanto tali sono sempre un po’ «matrigne» nei confronti dei loro figli che incappano in qualche incidente di percorso».
Perché?
«Difesa dell’ufficio, della funzione. Ma lo capisco. Sono stato a capo di un'istituzione e in talune circostanze mi sono comportato in modo analogo».
Dopo la sua assoluzione, è cambiato l’atteggiamento?
«Non saprei… Sono una persona piuttosto spigolosa. Molti probabilmente hanno paura di telefonarmi perché sanno che li manderei a quel paese».
Ma c’è mai stato qualche momento in cui lei si è sentito completamente solo?
«Il rapporto tra la mia posizione e il mondo esterno è sempre stato molto lineare. C’erano i favorevoli e i contrari, come sempre avviene in Italia, il Paese delle tifoserie. Quello che però mi ha offeso profondamente è stato il pregiudizio. Gran parte dell’opinione a me contraria lo era in modo acritico: quanto fango lanciato senza conoscere i fatti!»
Ne è sorpreso?
«È stata una scoperta, sì. Mi ha profondamente offeso in particolare l’atteggiamento della stampa e della politica».
La stampa?
«La stampa, certo. Non ha seguito correttamente il processo, tranne rare eccezioni. I grandi quotidiani non inviavano quasi mai i loro cronisti. Ai dibattimenti c’erano costantemente solo i giornalisti delle agenzie. Poi, però, l’indomani leggevi resoconti molto dettagliati, soprattutto quando l’udienza sembrava più favorevole all’accusa. La gran parte dei giornali ha sposato acriticamente le tesi dell’accusa, senza quasi mai riportare quelle della difesa».
E la politica?
«Mi hanno offeso le posizioni assunte da persone che stimo e da cui non me lo sarei mai aspettato».
Qualche nome… Se la sente di farlo?
«L’onorevole Giuseppe Pisanu, per esempio. E Walter Veltroni. Da loro mi aspettavo giudizi più distaccati e sereni. Pisanu è stato presidente della commissione parlamentare Antimafia».
Si riferisce alla sua relazione finale, licenziata qualche mese prima della sentenza?
«Non posso accettarla, quella relazione! Ha scaricato su un semplice colonnello dei carabinieri, qual ero io all’epoca dei fatti, tutto il peso di una vicenda che, se fosse stata come da lui descritta, aveva aspetti penalmente rilevanti e non poteva non coinvolgere personalità che stavano più in alto, molto più in alto. Sia politiche che istituzionali».
C’è stato invece qualche gesto che l’ha sorpresa positivamente?
«Le telefonate di molti magistrati dopo la sentenza di assoluzione. Ma non le farò i nomi».
Un’indicazione geografica, almeno?
«Telefonate ricevute da ogni parte, dalla Sicilia alla Lombardia».
Piemonte?
«No, Piemonte no».
Torniamo al processo. Diceva dell’inconsistenza delle ipotesi accusatorie…
«L’accusa non è riuscita a prospettare ipotesi plausibili in relazione ai fatti accertati».
Favoreggiamento per il ritardato o il mancato arresto di Bernardo Provenzano. Di questo lei era accusato.
«Mi sono difeso contestando ogni accusa con i documenti. Solo una persona innocente può portare la propria difesa sui fatti, perché i fatti parlano da soli. Durante il dibattimento ho reso una serie di dichiarazioni spontanee che hanno documentato la mia innocenza».
Ha capito perché lei e suoi ufficiali del Ros siete da 20 anni sotto attacco giudiziario?
«Considerazioni più ponderate potranno essere fatte solo tra qualche anno, quando certe situazioni si saranno decantate, e la vicenda sarà meno calda e sensibile».
Un’interpretazione, almeno, di quello che è accaduto?
«Questi processi sono conseguenza di una funzione della magistratura che si è enormemente dilatata, perché non è più limitata al campo specifico della attenta applicazione della norma, ma si inserisce nel contesto politico-sociale, spesso condizionandolo».
Secondo lei questa azione della magistratura avviene in buona fede?
«Bisogna riconoscere la buona fede a tutti. Mi correggo: quasi a tutti. E mi fermo qui, per ora».
La sua famosa inchiesta dei primi anni Novanta su mafia e appalti, quella che le aveva affidato Giovanni Falcone, è per caso all'origine delle sue disavventure giudiziarie?
«Diciamo che è stata una discriminante, per un certo tipo di contesto. Il conflitto che si è creato tra il Ros e una parte della magistratura palermitana e il danno che ne è derivato nell’attività investigativa sono stati certamente ben visti da una parte della società siciliana. Mi riferisco a quella zona grigia al confine tra politica, economia e mafia».
Col senno di poi, avrebbe attenuato certe sue posizioni critiche sulla Procura di Palermo?
«Io ho il carattere che ho. E anche certi magistrati hanno il loro caratteraccio. Se ci fossero state meno spigolosità, certe fratture forse si sarebbero sanate. Tuttavia, su un punto insisto: il metodo investigativo che attaccava il potere mafioso attraverso l’ambito economico, cui Falcone e il Ros si ispiravano, è ancora oggi il più efficace nella lotta a Cosa nostra: non ha alternative altrettanto valide».
Le accuse contro di lei si basavano in gran parte sulle dichiarazioni di Massimo Ciancimino. A che cosa puntava il figlio di don Vito?
«Voleva salvare il salvabile dei beni di famiglia, sfruttando documenti che gli aveva lasciato il padre adattandoli e interpretandoli a suo modo».
Eppure, Ciancimino jr era stato elevato addirittura a «icona dell’antimafia». Perché?
«Il personaggio è stato sfruttato senza valutarne il reale peso specifico, per pure ragioni strumentali o di cassetta. E lui è riuscito a cogliere gli interessi anche di tipo ideologico di settori dell’informazione, e li ha assecondati. Da un lato passava notizie finalizzate a colpire personalità istituzionali; e dall’altro forniva ai giornalisti argomenti che confermavano certi loro teoremi sul rapporto Stato-mafia. La verità è che Ciancimino jr e i suoi sostenitori si sono usati a vicenda».
L’effetto di quelle campagne, a parte le sue disavventure giudiziarie?
«Si è attenuata l’attività investigativa di uno dei reparti di eccellenza impegnati nella lotta alla mafia, il Ros. Questo è stato il risultato. E qualcuno, in Sicilia, ne è stato molto contento. Non mi riferisco alla magistratura, ovviamente. Ma alla zona grigia di cui ho parlato prima».
Lei è già stato assolto in due processi. Ma ora dovrà affrontarne un terzo, quello sulla trattativa Stato-mafia: peseranno le prime due sentenze, a lei favorevoli?
«Lo capiremo solo quando saranno depositate le motivazioni della sentenza. Tuttavia, il terzo processo, almeno per il 70 per cento, è stato costruito sulla documentazione del secondo. Io sono ritenuto l’anello di congiunzione tra mafia e politica nell’ambito della trattativa. E io sono stato assolto per ben due volte dalle accuse rivoltemi».
Restano tuttavia molte ombre su quello che accadde in Italia tra il 1992 e il 1993…
«È ancora troppo presto per dire cose concrete. Di sicuro, nel tempo, c’è stata una lunga correlazione tra la politica siciliana e la criminalità mafiosa, sin dal Risorgimento. Ma non necessariamente erano contatti diretti. C’era, diciamo così, una reciproca conoscenza tra le due parti: una sapeva qual era l’interesse dell’altra, e cercava in qualche modo di assecondarla».
Un rapporto storico, che andò in crisi dopo la fine della Guerra fredda. Ci fu una trattativa per rinegoziarlo?
«Non so se ci fu una trattativa: se ci fu, io non ne sono a conoscenza. Comunque, non credo che, se c’è stata, sia avvenuta intorno al famoso 41 bis (il regime penitenziario per i mafiosi, particolarmente severo): su 324 «ammorbidimenti» del carcere duro, poco più di una ventina riguardavano mafiosi e nessuno era un boss di rango. Se qualcosa è successo, è avvenuto a livelli altissimi».
Generale, mentre si prepara per il terzo processo, lei ora di che cosa si occupa?
«Con alcuni amici abbiamo avviato un’attività di tipo pubblicistico. Abbiamo aperto un portale informatico di geopolitica, economia e sicurezza, Lookout news , rivolto principalmente al campo internazionale. Facciamo analisi di situazioni, prepariamo report su aree di crisi e approfondimenti su temi specifici. Abbiamo già circa 12 mila visitatori che ci seguono costantemente da tutte le parti del mondo. E presto vorremmo realizzare il portale in una o più lingue».
Una volta lei disse: «Non finisce qui». Ha ancora qualche sassolino da togliersi dalle scarpe?
«Ci sto pensando, non è escluso che lo faccia. La vicenda Mori-Obinu è emblematica di un’Italia che non va bene. Per niente!»
ED IL CITTADINO COME SI DIFENDE? CON I REFERENDUM INUTILI ED INAPPLICATI.
Periodicamente si presentano i referendum sulla Giustizia. Riforme che, per viltà, nessun rappresentante del popolo vuol attuare. Escamotage pilatesche dei radicali appoggiati da chi ha l'interesse temporaneo a strumentalizzare un interesse comune. Ancora non si sa neanche se i Radicali riusciranno a raccogliere le 500mila firme necessarie per poter presentare i loro referendum sulla "Giustizia Giusta", ma nel 2013 già attorno a questi quesiti si sono create polemiche, tutte politiche. E come sempre, quando si parla di giustizia, in mezzo c'è Silvio Berlusconi. I referendum del partito di Marco Pannella ed Emma Bonino hanno iniziato e entrare nel dibattito politico solo dopo che il Cavaliere ha annunciato che il Pdl avrebbe aiutato i Radicali a raccogliere le firme, e dopo che Beppe Grillo ha prima fatto sapere che anche lui li avrebbe appoggiato e poi, dopo una lettera aperta di Di Pietro, ha cambiato idea: il Movimento 5 Stelle non avrebbe aiutato i Radicali.
Ma quali sono i cinque quesiti sulla giustizia?
Partiamo dal più controverso: la separazione delle carriere di pm e magistrati, norma da sempre sognata dal Cavaliere. Il punto è che in Italia esiste la possibilità per il singolo magistrato di passare dalla funzione giudicante a quella requirente. Di passare quindi dal ruolo di "magistrato che combatte il crimine" al ruolo di "giudice imparziale". Per i sostenitori della separazione delle carriere questa situazione ha due difetti: da una parte si critica la possibilità di trasformarsi di colpo da pubblico ministero in giudice, dall'altro si pensa che non ci sia un processo equo in un Tribunale in cui pm e giudici si conoscono da lungo tempo e sono in confidenza. Il problema è che, nel momento in cui ci fosse la separazione delle carriere, il pubblico ministero diventerebbe un avvocato dell'accusa. E quindi, secondo i detrattori, alle dipendenze della polizia e di conseguenza del ministero dell'Interno. Dicendo così addio all'indipendenza della magistratura. È la posizione, per esempio, di Antonio Di Pietro.
Un secondo quesito controverso è quella della responsabilità civile dei magistrati. I Radicali utilizzano come bandiera di questa parte del referendum Enzo Tortora, il presentatore tv vittima di un gravissimo caso di malagiustizia a causa del quale, innocente, passò anni in carcere e morì poco dopo la sentenza che lo assolveva definitivamente. Il quesito quindi ha lo scopo di "rendere più agevole per il cittadino l’esercizio dell’azione civile risarcitoria (indiretta) nei confronti dei magistrati". La responsabilità civile del magistrato non è assolutamente sanzionata dal nostro ordinamento, nonostante il referendum del 1987 (dove votò per il Si oltre l’80% degli elettori) e la legge che ne scaturì (l.13 aprile 1988 n. 117) fu semplicemente una legge truffa, che non ha affatto risolto il problema. Anche lo scandalo dei magistrati “fuori ruolo” deve cessare senza starci troppo a pensare: in un paese dove c’è un arretrato mostruoso di processi e dove una sentenza civile ci mette mediamente 8 anni per arrivare in porto, ci permettiamo il lusso di centinaia di magistrati collocati fuori ruolo, perché applicati presso i ministeri o perché eletti in Parlamento o per cento altre strane ragioni. Bisogna stabilire una volta per tutte che i magistrati possono candidarsi solo dopo essersi dimessi dalla magistratura (ed ovviamente non rientrarci dopo). Quanto a quelli applicati presso i ministeri, appare evidente quanto sia inopportuno questo intreccio fra esecutivo e giudiziario, anche sul piano della separazione dei poteri, così spesso invocata a proposito ed a sproposito. Chi è contrario a questa norma sottolinea come in questo modo i magistrati non si sentirebbero più liberi di svolgere la loro azione penale, temendo di dover pagare (in senso lato e in senso letterale) per ogni loro errore.
I restanti tre quesiti hanno meno risvolti problematici. Quello sul "rientro nelle funzioni proprie dei magistrati fuori ruolo" ha l'obiettivo di far tornare al lavoro di magistrato tutti quelli che sono invece dislocati nei vertici della Pubblica Amministrazione. In modo da aiutare a smaltire l'enorme quantità di processi che spesso finisce in prescrizione.
Il quarto riguarda invece l'abuso della custodia cautelare: "Attualmente migliaia di cittadini vengono arrestati, e restano in carcere in attesa di processo per mesi, in condizioni incivili". Si vuole quindi che il carcere preventivo, cioè prima della sentenza di condanna, si applichi solo per reati gravi.
L'ultimo quesito riguarda l'abolizione dell'ergastolo, e va a toccare punti morali e costituzionali. Nella Costituzione Italiana c'è infatti scritto che "la pena deve tendere alla rieducazione del condannato". Cosa impossibile nel momento in cui si condanna qualcuno al "fine pena mai". Di fatto, però, in Italia quasi nessuno è condannato all'ergastolo, perché la legge Gozzini del 1986 permette alla gran parte degli ergastolani di uscire dopo meno di 30 anni. Fa eccezione l'ergastolo "ostativo", che non ammette sconti e viene comminato principalmente a boss mafiosi e criminali efferati. La Corte Costituzionale ha ammesso la costituzionalità anche di questa forma di ergastolo perché la pena viene ridotta a chi collabora con la giustizia.
LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO, INUTILE E COSTOSA, E LA DINASTIA DEGLI ESPOSITO.
La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo su mia istanza ha aperto un procedimento (n. 11850/07) contro l'Italia, per l'insabbiamento di 15.520 (quindicimilacinquecentoventi) denunce penali e ricorsi amministrativi, alcune a carico di magistrati e avvocati per associazione mafiosa e voto di scambio mafioso. Si rileva non solo l'immenso numero di procedimenti, a cui nulla è conseguito, pur con obbligo di legge, ma, addirittura, spesso e volentieri, colui il quale si era investito della competenza a decidere sulla denuncia penale, era lo stesso soggetto ivi denunciato. Da qui scaturiva naturale richiesta di archiviazione, poi prontamente accolta. Ogni tentativo di coinvolgere le istituzioni italiane preposte ha conseguito ulteriore insabbiamento.
E' stato presentato il ricorso contro lo Stato italiano presso la Corte Europea dei Diritti Umani per la violazione alle norme della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà fondamentali ed è stata inoltrata la denuncia presso la Commissione dell’Unione Europea e la petizione presso il Parlamento Europeo per infrazione al Trattato e attivazione presso la Corte di giustizia dell’Unione Europea di condanna dell’Italia per inadempimento.
In Italia si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. La Corte di Cassazione – Supremo Organo di Giustizia Italiana – rigetta sistematicamente ogni istanza di rimessione dei processi per legittimo sospetto e ogni richiesta di ricusazione presentata dall’imputato per grave inimicizia con il magistrato che lo giudica. La Corte di Cassazione non applica mai le norme per il giusto processo e, sistematicamente, non solleva mai dalla sua funzione il giudice naturale, anche quando questo non è sereno nel dare i suoi giudizi.
Bene, signori. La Corte non ha proceduto. D'altronde non si può procedere contro colleghi e parenti.
Silvio Berlusconi annuncia il ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo contro l'applicazione della legge Monti-Severino. Ma, come scrive Franco Bechis, su Libero in edicola 28 agosto 2013, con questo ricorso i legali si troveranno di fronte ancora una volta un giudice Esposito.
Andreana Esposito, napoletana, classe 1966, professore aggregato di diritto europeo e sistema penale alla facoltà di giurisprudenza alla seconda università di Napoli, componente dell’ufficio studi della Corte Costituzionale, e nipote di Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato Berlusconi, è nell’elenco dei giudici ad hoc italiani applicati per il 2013 proprio alla Corte europea dei diritti umani. Lo è interrottamente dal 2010, quando Gianni Letta (all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio) si battè come un leone per farle avere questo incarico di consolazione. Lo stesso Letta, che aveva ottimi rapporti con il padre di Andreana, l’ex procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito, aveva fatto inserire la giovane giurista (che dal 2004 al 2006 aveva già collaborato con il governo Berlusconi) nella terna di candidati italiani a sostituire a Strasburgo Vladimiro Zagrebelski. La sua nomina sembrava cosa quasi fatta, quando dal Vaticano partì una lettera indirizzata a Letta, al governo e ai membri italiani dell’assemblea del consiglio di Europa, in cui si manifestava forte disappunto per la scelta della Esposito, accusata di avere espresso in alcuni scritti posizioni assai radicali su valori sensibili per la Chiesa (come la bioetica e il diritto di famiglia)". Finì che alla prova del voto dell’assemblea del Consiglio di Europa la professoressa Andreana fu terza su tre, e il giudice italiano eletto (ed attuale vicepresidente della Corte) fu Guido Raimondi. La giovane Esposito fu però subito inserita nella lista dei giudici ad hoc che di tanto in tanto venivano applicati alle cause della Corte, e l’anno successivo divenne pure membro del comitato europeo per la prevenzione della tortura presso il Consiglio di Europa (vi resterà fino al 2015). Andreana dunque a Strasburgo è ormai di casa, e non è fatto improbabile che ancora una volta la vicenda giudiziaria di Berlusconi possa incocciare in un membro della famiglia Esposito. Non cambierà poi tanto, perché anche se dall’Italia ogni anno piovono ricorsi sulla Corte di Strasburgo, la regola costante e che quasi nessuno trovi soddisfazione. E anche nei rarissimi casi in cui questa arrivi, non è che cambi radicalmente la vita dei ricorrenti: basti pensare che il povero Bettino Craxi riuscì ad avere riconosciute le sue ragioni, e la Corte bacchettò l’Italia per non avergli assicurato un giusto processo. In quel caso furono per altro respinti due dei tre motivi di ricorso, e pure la richiesta di un risarcimento danni, perché la Corte stabilì che bastava ed avanzava la soddisfazione morale per l’unica decisione favorevole. Ecco, questo è un punto chiave: la Corte europea dei diritti dell’uomo non ribalta sentenze nazionali, in rarissimi casi stabilisce condanne politiche e morali dello Stato portato in giudizio e qualche risarcimento assai contenuto al ricorrente (nella maggiore parte dei casi inferiore ai 10 mila euro). Ma non accade quasi mai: nel 2012 su 128.100 ricorsi che arrivavano da tutta Europa, hanno trovato parziale soddisfazione solo 1.093 casi. Per l’Italia non sono stati bocciati solo 63 ricorsi, e solo in 36 di questi è stata ravvisata una violazione della convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ma anche in questi casi si tratta di accoglimenti parziali dei ricorsi, con risarcimenti concessi poco più che simbolici. L’unico sostanzioso (10 milioni di euro più centomila di risarcimento spese) è stato ottenuto dalla società Europa 7 e dall’imprenditore Francescantonio Di Stefano il 7 giugno 2012. Sostanzialmente si trattava di un doppio ricorso proprio contro Berlusconi, nella sua qualità di imprenditore (Europa 7 lamentava di non avere avuto la frequenza tv per colpa di Rete 4) e di presidente del Consiglio. Ma anche quei 10 milioni Di Stefano li ha ottenuti per il rotto della cuffia: la Corte ha respinto quasi tutti i motivi del suo ricorso, dichiarandoli irricevibili, e sull’unico accolto che ha dato origine al risarcimento, i giudici si sono spaccati: 8 favorevoli e 7 contrari, con tanto di pubblicazione in allegato dei motivi di dissenso. Vale la pena di addentrarsi nelle clamorose bocciature della Corte: negli ultimi due anni a parte avere riconosciuto a qualche cittadino risarcimenti di mille o duemila euro a integrazione della legge Pinto per la durata eccessiva dei loro processi, da Strasburgo sono arrivati solo schiaffi in faccia ai poveri ricorrenti italiani. L’unico ad avere messo parzialmente in crisi quei giudici è stato il boss dei boss della mafia, Totò Riina. I giudici europei hanno bocciato infatti quasi integralmente il suo ricorso contro il 41 bis. Però hanno sospeso il giudizio e si sono presi tempo per riflettere se avere messo una telecamera nel wc della cella di Riina per riprendere anche i suoi bisogni, sia compatibile o meno con i diritti umani…
Sicuramente avrebbe preferito l’anonimato, nel quale ha tentato di rifugiarsi, continua “Libero”. Andreana Esposito, figlia di Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione e nipote di Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato Silvio Berlusconi, non ha gradito la rivelazione di Libero sulla sua applicazione nel 2013 come giudice ad hoc alla Corte europea dei diritti dell’uomo a cui il leader Pdl vorrebbe ricorrere. Così da ieri mattina la giurista ha oscurato tutte le sue foto da lei stessa postate sul social network Google + (anche quella dove indossa una maglietta con la scritta «Beato chi crede nella giustizia, perché verrà giustiziato») e allo stesso tempo ha oscurato e protetto anche tutti i tweet visibili a chiunque fino alla sera precedente. Non che ci fosse molto da nascondere: la professoressa Andreana (è professore aggregato di diritto europeo e sistema penale alla facoltà di giurisprudenza alla seconda università di Napoli) aveva cinguettato in tutto 150 volte, in gran parte per rilanciare video musicali o articoli del Fatto quotidiano. Da quelli si capisce che ama in particolare modo la cantante Malika Ayane (e le è piaciuta molto la canzone presentata all’ultimo festival di Sanremo , «E se poi»). La Esposito ha 18 seguaci e a sua volta segue 78 altri profili su Twitter. L’unico personaggio noto con cui ha vicendevole corrispondenza (si seguono a vicenda e quindi possono cinguettare in privato) è il leader di Sel, Nichi Vendola. Non risultano però loro discussioni nella bacheca pubblica, dove nelle ultime settimane ha naturalmente tenuto banco la vicenda del giudice Esposito. I commenti - tutti a difesa del magistrato - erano però quasi tutti di amici che frequentavano la bacheca. Lei si è limitata a diffondere un comunicato stampa dello zio sull’intervista al Mattino e una striscia satirica sulla famiglia Esposito pubblicata dal Fatto quotidiano.
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Qualcun altro, un po' più cattivello, una famiglia 'barzelletta'. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoldì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, da poco ex (è appena andato in pensione) procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche F. Esposito, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio fede. Una famiglia, gli Esposito, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
E se fosse un magistrato a «non poter non sapere»? Si chiede ancora “Libero Quotidiano”. Sembra facile, ma il tema è insidioso. La storia del «non poteva non sapere» a volte va oltre il classico boomerang che ti colpisce in fronte. La civiltà giuridica è uscita con le ossa rotte da quando in decreti, ordinanze e sentenze ha iniziato a far capolino il contrario dei principi universali, come la personalità della responsabilità penale, la condanna assistita da prove certe al di là di ogni ragionevole dubbio, l’habeas corpus, etc. In realtà, sappiamo com’è andata e ad opera di chi. Ora, se un procuratore generale della Corte di cassazione, cioè il massimo rappresentante della magistratura requirente, frequenta una struttura turistica illegale, come la mettiamo? Se questo stesso alto magistrato, per il sol fatto di esserci sul luogo «incriminato», mette i piedi nella tipica pozzanghera all’italiana, fatta di politica locale, assessori, sindaci, imprenditori amici e nemici, Tar, procure amiche e nemiche, uffici tecnici e geometri comunali, cosa si fa? Nell’Italia del sospetto come anticamera della verità, delle persone sbattute in carcere o alla gogna per molto meno, una cosa così avrebbe un peso enorme: a seconda di quale lato della scrivania si occupi, ovviamente. Nel caso nostro sarà senz’altro la «macchina del fango» a regime. Nelle foto si vede l’ex (da poco) procuratore generale della Cassazione Vitaliano Esposito. È al mare, in un lido che frequenta abitualmente ad Agropoli, porta del Cilento. Stiamo parlando di un magistrato di lungo corso, autore, tra altro, di un’interessante requisitoria nel procedimento di incolpazione al Csm di De Magistris, che aiutò a capire meglio gli epici bluff calabresi dell’ex pm. Esposito, però, non è (anche) solo il magistrato delegato dal governo Monti alla verifica del rispetto delle prescrizioni contenute nella famosa Via (Valutazione di impatto ambientale) per l’Ilva di Taranto e che, poco tempo fa, è stato fatto fuori con una manovra politica (legittima, almeno finora) che gli ha tolto di botto incarico e 220mila euro di parcella. È anche fratello di Antonio Esposito e padre di Andreana, giudice alla Corte europea di Strasburgo (e zio del pm con Porsche amico di Nicole Minetti). Se applicassimo al germano maggiore dell’ultimo - in ordine di tempo - carnefice del Cav, la stessa logica che pare abbia presieduto la sentenza Mediaset, secondo quanto letto nell’intervista al Mattino, scatterebbero analoghe censure: non è che uno non possa non sapere, può anche non sapere nonostante sia il capo. Ma se Tizio, Caio e Sempronio lo informano allora il discorso cambia: cioè sa e, dunque, partecipa o avalla. Ora, se da anni non si parla d’altro in città e provincia, oltre che su stampa, tv, rete e social network, cioè che per il «Lido Oasi» (non l’unico) ci sono ordinanze di abbattimento, tra l’altro mai eseguite, indagini e/o processi su amministratori e tecnici per irrituali delibere di sdemanializzazione dell’area (al posto del lido avrebbe dovuto esserci una piazza pubblica e l’albergo annesso non doveva nascere e men che meno lo si poteva trasformare in una scuola) pronunce del Tar in un senso e nell’altro, perizie e controperizie che obbligherebbero a buttar giù le strutture abusive, che cosa significa? Che uno degli uomini che incarnano ai massimi livelli i famosi «presidi di legalità» va a braccetto con l’illegalità? Ovviamente no. Anche se sembra.
MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!
CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.
L'importanza della pronuncia della Suprema Corte è sotto gli occhi di tutti. Ma chi sono i cinque giudici chiamati a decidere? Ecco chi compone il collegio dei magistrati della Corte di Cassazione chiamata a dire l'ultima parola sul processo Mediaset che vede tra gli imputati l'ex premier Silvio Berlusconi. Iniziamo dal 'sesto', dal primo presidente della Corte di Cassazione che ha scelto il collegio giudicante. Si chiama Giorgio Santacroce e la sua nomina a primo presidente ha 'spaccato' il voto del Csm tra i suoi sostenitori (le correnti di centrodestra) e i contrari. A pesare, meglio chiarirlo, nessun genere di ombra particolare, ma una conoscenza con Cesare Previti, l'ex avvocato di Silvio Berlusconi (già parlamentare di Forza Italia), pregiudicato per corruzione in atti giudiziari. Santacroce viene ascoltato come teste nei processi Sme e Imi-Sir che vedevano Previti imputato: "L'ho visto tre o quattro volte. Ho preso parte a una cena nello studio di via Cicerone" risponderà Santacroce alle domande del magistrato sui suoi rapporti con Previti.
ANTONIO ESPOSITO - È Nato a Sarno il 18 dicembre 1940. In magistratura dal 1965, in Cassazione dal 1985. Presidente della Seconda sezione penale. Nel suo curriculum figurano la conferma di condanne a personaggi eccellenti: l'ex governatore Siciliano Totò Cuffaro, l'ex parlamentare Pdl Massimo Maria Berruti, l'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio. E' stato sempre lui a firmare le ordinanze di custodia cautelare in carcere per i parlamentari Pdl Nicola Cosentino e Sergio De Gregorio. Nel 2011 ha condannato Totò Cuffaro e poi gli ha riconosciuto di «aver accettato il verdetto con rispetto» dando «una lezione per tutti, in tempi così burrascosi intorno alla giustizia». Il presidente della sezione feriale che giudicherà Berlusconi è Antonio Esposito. Una famiglia di magistrati la sua: il figlio Ferdinado è il procuratore aggiunto di Milano, il fratello Vitaliano fino all'aprile 2012 è stato Procuratore Generale della Corte di Cassazione. Ferdinando ha frequentato in passato Nicole Minetti, imputata nel processo Ruby-bis. Frequentazione che gli ha creato qualche imbarazzo perchè è proprio la Procura di Milano ad accusare l'ex consigliera regionale del Pdl di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Vitaliano è il Pg finito nelle intercettazioni della Procura di Palermo dell'inchiesta sulla trattativa stato-mafia. Al telefono con Nicola Mancino, oggi imputato per falsa testimonianza /che lo chiama "guagliò"), si dice "a disposizione" dell'ex ministro che coinvolgerà il Quirinale (Napolitano e il consigliere D'Ambrosio) e il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso in una serie di telefonate allo scopo di ottenere (senza riuscirci) l'avocazione o il 'coordinamento' delle indagini di Palermo. Gli altri quattro componenti del collegio sono Amedeo Franco (relatore), Ercole Aprile e Giuseppe De Marzo. Franco è consigliere della terza sezione penale della Cassazione, che ha prosciolto Berlusconi da un'altra accusa di frode fiscale relativo al processo Mediatrade. Tutti i componenti vengono descritti come conservatori, quindi nessun problema di uso politico della giustizia per il quattro volte Presidente del Consiglio. Persino chi sostiene l'accusa (Antonio Mura) è iscritto a Magistratura Indipendente (corrente di destra di cui è stato anche presidente), collaboratore del Pg Gianfranco Ciani (subentrato a Esposito), finito anch'esso coinvolto nelle manovre di Mancino per sfilare l'inchiesta sulla trattativa alla Procura di Palermo.
AMEDEO FRANCO - Beneventano di Cerreto Sannita, è nato il nove agosto 1943. Magistrato dal 1974. In Cassazione dal 1994. In servizio alla Terza sezione penale competente per i reati tributari, è affidata a lui, per la sua specializzazione, la relazione dell'udienza Mediaset, e sarà lui a scriverne le motivazioni. Ha già fatto parte del collegio che ha confermato l'assoluzione di Berlusconi per il filone Mediatrade.
ERCOLE APRILE - Leccese nato il primo ottobre 1961, è in magistratura dal 1989. Giudice nella sua città e poi è approdato alla Suprema Corte.
GIUSEPPE DE MARZO - Classe 1964, il più giovane del collegio. Nato a Bari, in servizio dal 1991. Ha iniziato a Taranto.
ANTONIO MURA - Sassarese, nato il 14 novembre del 1954. Togato dal 1984, è in Cassazione dal 1994. Uomo di spicco della Procura, è stato presidente di Magistratura Indipendente.
LA DINASTIA DEGLI ESPOSITO.
Confesso che ho paura a scrivere di Antonio Esposito, il presidente della seconda sezione penale della Corte di Cassazione che ha condannato Berlusconi e cambiato la storia d’Italia in un senso che ci sarà chiaro soltanto nei prossimi mesi (o anni), scrive Marco Ventura su “Panorama”. Ho paura, devo pensarci molto prima di mettere in fila le parole, di dar corpo a quello che penso. È una censura preventiva della quale mi vergogno, perché il pensiero va alle possibili conseguenze legali e all’intimidazione oggettiva di quanti continuano a dirci che dobbiamo “rispetto” verso le istituzioni. Eppure, c’è una bella differenza tra le istituzioni e gli uomini che le incarnano. C’è una bella differenza, e a vergognarsi dovrebbero essere gli uomini che incarnano male le istituzioni. A cominciare da quella che è tale per antonomasia. La magistratura. Rispetto sì, divieto di critica no. Ecco, ho paura a scrivere che quanto ho letto su Antonio Esposito e sui giudizi che avrebbe espresso su Berlusconi prima della sentenza, sulle anticipazioni di altri verdetti di altri casi, sul suo modo di presentarsi e, soprattutto, sulla decisione di concedere un’intervista a commento della sentenza Berlusconi prima di depositare le motivazioni, fanno vacillare pesantemente la mia stima, la mia fiducia non nell’istituzione magistratura, ma nelle persone che la amministrano. Il dottor Esposito è un fior di magistrato integerrimo, imparziale, corretto? O anche lui può sbagliare, non è perfetto, come il Papa e chiunque altro? La magistratura in Italia è davvero quell’ordine, quel potere, quella élite nella quale dobbiamo avere una fede assoluta sennò siamo cattivi cittadini e berlusconiani (per qualcuno, le due cose coincidono)? Oppure no? Ecco, vorrei dire che c’è un decoro della politica che è sostanza, è vero, ma a maggior ragione c’è, dovrebbe esserci, un decoro della magistratura. Ci sono – ne ho conosciuti – magistrati che fanno il loro lavoro in silenzio, non concedono interviste, non appaiono, non commentano. Magistrati consapevoli del ruolo importantissimo che svolgono, dotati di un’opinione alta di se stessi e della propria funzione, ma non arroganti, e che proprio perché non eletti ma di carriera, hanno un sacro rispetto del proprio essere (e apparire) imparziali. Oggi sembra quasi normale che i magistrati partecipino a comizi e riunioni di partito, si esprimano su leggi prerogativa di Parlamento e Governo con proclami, veti, diktat e più o meno velati avvertimenti. Non è così. Se sono veri i giudizi e i comportamenti di Esposito riferiti con precisione da un giornalista fra i più bravi, corretti, scrupolosi che io conosca, Stefano Lorenzetto, e se la difesa di Esposito è davvero quella che abbiamo letto su quotidiani come Il Fatto, c’è da chiedersi se non sia arrivato il momento di riconoscere, da parte di tutti, l’esistenza di un problema Giustizia in Italia. Un problema di decoro che non si esaurisce nelle scarpe da jogging o da ginnastica che Lorenzetto ha visto ai piedi di Esposito una certa sera di anni fa a Verona, ma riguarda le regole (scritte e non scritte) di un corpo dello Stato nel quale, molto più che nei politici, dobbiamo avere fiducia (e in molti non l’abbiamo). L’Associazione nazionale magistrati si è limitata a definire “inopportuna” l’intervista di Esposito al “Mattino” dopo la sentenza su Berlusconi (prima del deposito delle motivazioni). No, basta. Non basta. Domanda: posso scrivere che l’Italia non dev’essere ostaggio di una magistratura spesso inefficiente, faziosa e scorretta, e che la libertà di scegliere chi debba guidarci non può esser soggetta alla discrezionalità di uomini che non sono migliori di noi (e noi siamo tutt’altro che perfetti), ma che a differenza di tutti noi non devono rispondere mai a nessuno dei propri errori e finisce sempre che si difendono a vicenda? Altro che rispetto della magistratura, categoria incapace di fare pulizia al suo interno. Il rispetto non è un atto dovuto per legge, è un valore che va conquistato con fatti e comportamenti, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. E questi magistrati non meritano la nostra stima e neppure il nostro silenzio. Si sono autoproclamati divinità intoccabili ma di sacro non hanno neppure l'osso. Sono uomini come noi, spesso peggio di noi. Alcuni sono persone per bene, altri veri mascalzoni, altri corrotti, altri ancora depressi, incapaci, megalomani in una percentuale identica a quella di tutte le categorie umane e professionali. Basterebbe ricordare il caso Ingroia, degno successore di Di Pietro, D'Ambrosio, Emiliano e tanti magistrati che sono passati con sospetta disinvoltura dalla magistratura alla politica. E che dire di Antonio Esposito, il presidente del collegio della Cassazione che ha confermato la condanna a Silvio Berlusconi? Come raccontiamo e documentiamo, tempo fa questo signore intrattenne gli ospiti di una serata del Lions club pronunciando sfottò contro Berlusconi, svelando presunti segreti d'ufficio di una inchiesta sul Cavaliere e anticipando una sentenza (quella su Vanna Marchi) che avrebbe emesso giorni dopo. Capito in che mani siamo? Uno così merita il nostro rispetto? Io dico di no. Altro che Cassazione tempio della giustizia. Qui siamo al mercato, al postribolo. Il guaio è che con le loro follie, oltre che rovinare vite, stanno per far cadere il terzo governo in 18 anni senza ovviamente pagare pegno. Peggio, con l'arresto di Berlusconi stanno minando in modo irreparabile la democrazia. Solo una boriosa e inadatta presidente della Camera, Laura Boldrini (SEL), poteva sostenere che la conferma della condanna sarebbe stato un fatto privato.
IL PDL LICENZIO' SUO FRATELLO.
Il Pdl licenziò il fratello del giudice ammazza-Cav. Harakiri azzurro a poche ore della sentenza in Cassazione: tolto ad Esposito, parente del presidente della Corte, un posto da 200mila l'euro anno come garante Ilva, scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Mezz’ora prima che Antonio Esposito riunisse in Camera di Consiglio la sezione feriale della Corte di Cassazione che avrebbe reso definitiva la condanna di Silvio Berlusconi, il Pdl al Senato votava il licenziamento in tronco di Vitaliano Esposito, fratello del magistrato che aveva nelle sue mani il destino del Cavaliere. L’incredibile scelta è stata svelata sul numero di Panorama in edicola oggi dal collaboratore Keyser Soze (uno pseudonimo) per commentare l’incredibile vocazione all’hara-kiri che contrassegna il centrodestra italiano, sempre pronto a fare la cosa sbagliata al momento sbagliato. Vitaliano Esposito, fratello di Antonio ed ex procuratore generale della Corte di Cassazione, è stato nominato il 15 gennaio scorso dal premier Mario Monti e dal ministro dell’Ambiente Corrado Clini, «garante dell’esecuzione delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione integrata ambientale per l’Ilva di Taranto». Un incarico prestigioso (fondamentale per tranquillizzare la popolazione dell’area) e anche discretamente retribuito, visto che la legge stanziava per lui fino a un massimo di 200 mila euro l’anno. Sarebbe dovuto restare in carica per un triennio, ma all’improvviso il 2 luglio scorso sulla nuova professione di Vitaliano Esposito si sono addensate nubi minacciose. Quel giorno davanti alle commissioni congiunte della Camera che stavano esaminando il decreto sul commissariamento dell’Ilva (attività produttive e Ambiente) un deputato di Matera del Pdl, Cosimo Latronico, depositava l’emendamento 1.83 che stabiliva: «È soppressa la figura del Garante e le relative funzioni sono trasferite al commissario (Enrico Bondi)». Era il preavviso di licenziamento per il povero Esposito. Ed è diventato qualcosa di più serio quando quel testo è stato assorbito in un emendamento più ampio sottoscritto dai relatori delle due commissioni, Enrigo Borghi del Pd e Raffaele Fitto del Pdl, con voto positivo della maggioranza. Il licenziamento del fratello del presidente di sezione della Cassazione a quel punto da semplice ipotesi era divenuto il nuovo articolo 2 quater del decreto legge sull’Ilva. Approvato in commissione e poi dall’aula l’11 luglio scorso. Se in commissione però il licenziamento dell’altro Esposito poteva ancora essere inconsapevole, per il Pdl come per tutti gli italiani era invece chiaro dal 9 luglio che Antonio Esposito avrebbe avuto nelle sue mani poche settimane dopo (il 30 luglio) il destino giudiziario e forse anche politico di Berlusconi. Nessuno però nel partito del Cavaliere si è accorto di quanto stava avvenendo, e nemmeno nelle fila dell’esecutivo c’è stato qualcuno a cui è venuto il dubbio sull’opportunità di fare uno sgarbo di questo tipo alla famiglia Esposito. Così non solo l’hanno fatto, ma hanno difeso la bontà di quel licenziamento con i denti e con le unghie fino alle ore 11 e 55 del primo agosto, quando con il voto finale al decreto Pd , Pdl e governo Letta l’hanno reso immediatamente esecutivo. Eppure proprio nelle ultime ore c’è stata l’occasione per evitare il clamoroso sgarbo familiare al magistrato che stava decidendo il destino di Berlusconi. La ciambella di salvataggio è stata lanciata da Loredana De Petris (Sel) e da Paola Nugnes (M5s): entrambe hanno presentato un emendamento (quello di Sel firmato anche da Dario Stefano, presidente della giunta immunità del Senato) per fare rivivere il garante e conservate lavoro e 200 mila euro l’anno a Vitaliano Esposito. Niente da fare: i due relatori, Salvatore Tomaselli (Pd) e Francesco Bruni (Pdl) hanno bocciato l’idea: il fratello del giudice andava licenziato senza se e senza ma. Ultimo tentativo per non mettere ulteriormente nei guai Berlusconi in Cassazione l’hanno fatto in extremis ancora i senatori di Nichi Vendola: un ordine del giorno per impegnare il governo a riassumere subito dopo averlo licenziato il povero Vitaliano Esposito, di cui si apprezzava il gran lavoro fatto. Ma a dire no a questo impegno teorico che avrebbe potuto distendere gli animi è stato questa volta il governo Letta. Lavoro da kamikaze compiuto.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali, che cominceranno fra un mese, vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
IL CASO DI MARCELLO LONZI.
11.07.2003 - Marcello Lonzi, 29 anni, muore nel carcere di Livorno. Il corpo di Marcello è riverso sul pavimento tra la cella numero 21, sezione sesta, padiglione "D" delle Sughere e il corridoio. La sua testa ostruisce la chiusura della porta. Tutto intorno sangue, sotto il cadavere e anche fuori dalla porta. In gocce o in strisciate circolari dai contorni netti. La procura archivia il caso un anno dopo il fatto: Lonzi è stato stroncato da un infarto, morto «per cause naturali. Aritmia cardiaca».
Morto in carcere, la madre: "Mio figlio ucciso a botte, ma lo Stato insabbia tutto da 10 anni", dice Maria Ciuffi intervistata da Cecilia Pierami su TGCOM 24.
Marcello Lonzi muore nel carcere di Livorno la sera dell'11 luglio 2003. Per la Procura si sarebbe trattato di "morte naturale", ma la madre, Maria Ciuffi, da 10 anni chiede "la verità" e ora ha deciso di ricorrere alla Corte di Strasburgo per avere giustizia.
"Al cimitero ho visto dove era mio figlio, ho fatto uscire dalla stanza tutti quelli che c'erano. Ho abbracciato la bara e ho detto: "Marcellino te lo giuro, qualcuno pagherà per quello che ti hanno fatto". E io quella promessa la rispetterò, costi quel che costi". Così Maria Ciuffi racconta a Tgcom24 la battaglia che combatte dal 2003 per far luce sulla morte del figlio Marcello Lonzi, 29 anni, deceduto mentre era detenuto nel carcere di Livorno.
Marcello Lonzi si trovava nel carcere "Le Sughere" di Livorno, per un una condanna per tentato furto. Muore l'11 luglio del 2003. Per la Procura si è trattata di un infarto, "cause naturali", ma la madre non ci ha mai creduto e ora porta il caso di fronte alla Corte dei Diritti dell'uomo di Strasburgo e, per sostenere la sua azione, ha lanciato una petizione online che, in meno di quattro giorni, ha già superato le 10mila adesioni.
"Marcello stava bene, non ha mai sofferto di cuore. Questo sarebbe già bastato per insospettire chiunque. Poi ho visto il corpo di mio figlio, i lividi, i segni e ho capito: nessuna morte naturale, qualcuno quell'infarto glielo ha fatto venire a suon di calci e pugni".
La Procura di Livorno ha però archiviato due volte le indagini sulla morte di suo figlio...
"Ho passato gli ultimi dieci anni a combattere, ho letto gli atti, ho parlato con chi era in carcere con mio figlio. Troppe lacune, troppe stranezze: sì il caso è stato archiviato due volte, ma sempre dallo stesso Gip. Per avere la riesumazione del corpo di Marcello e far eseguire un'autopsia da un medico di parte ho dovuto denunciare il pm di Livorno alla Procura di Genova, che ha disposto un supplemento di indagine. Ma più che un supplemento di indagine era un inizio: è venuto fuori che non era stato mai interrogato nessuno".
Cosa ha scoperto con i nuovi esami che ha fatto eseguire?
"Mio figlio aveva le costole rotte e non quelle che si rompono quando si fa il massaggio cardiaco per la rianimazione. Altre. Aveva un'impronta di uno scarpone sulla trachea. Aveva il polso rotto. Le foto mostrano chiaramente i segni di un pestaggio".
Perché pensa che le indagini siano state insabbiate?
"Ci sono troppe cose che non tornano e testimonianze contrastanti. Innanzitutto l'orario della morte. Stando agli atti, Marcello è morto alle 20.14. A parte che non torna con l'orario delle chiamate al 118, ho parlato con il ragazzo che era volontario sull'ambulanza. Ed è stato anche interrogato: lui è intervenuto di giorno non di sera. Lo dice e lo ripete. Ma i carabinieri, presenti durante la deposizione, volevano chiaramente che rispondesse altro. "Non è che era stanco per il lungo turno in ambulanza e non ricorda bene?" gli chiedevano".
A che ora sarebbe morto suo figlio secondo lei? Non ci sono stati testimoni del malore?
"Mio figlio credo sia morto nel primo pomeriggio. Tornerebbe con quelli che sono i risultati dell'autopsia e torna con molte testimonianze che ho raccolto. Ma spesso queste dichiarazioni sono completamente cambiate di fronte ai pm. Come quella del suo compagno di cella..."
Cosa ha sostenuto il compagno di cella di Marcello?
"Agli atti c'è questa dichiarazione: "Ho sentito un colpo, mi sono svegliato e Marcello era morto". Ma a me ha detto altro, ha raccontato che non era in cella, perché stava facendo la doccia, dopo aver lavorato tutto il giorno nella falegnameria del carcere. Però davanti ai pm ha cambiato versione perché aveva paura. Questo me lo ha ripetuto più volte: lui era dentro accusato di violenza sessuale, una di quelle accuse che in carcere gli altri detenuti ti fanno "pagare". Non lo aveva detto a nessuno e raccontava di essere dentro per un furto. Per quello ha cambiato versione, perché aveva paura, o è stato minacciato, che fosse svelata la verità".
E gli altri detenuti, non hanno visto o sentito niente?
"Mi è stato raccontato da un detenuto che il giorno in cui è morto, Marcello si era preso con un secondino la mattina, ma sembrava finita lì. Poi aveva mangiato. Subito dopo pranzo lo ha visto che lo portavano via. A volte capita che qualcuno sia chiamato in qualche sezione o reparto. Ma non è più tornato in cella. Alle 15.30, cosa molto insolita, hanno chiuso tutti i detenuti nelle celle e non le hanno più riaperte. Quando le celle erano chiuse, questa persona mi ha raccontato di aver sentito correre e urlare".
Cosa sarebbe successo secondo lei?
"Mio figlio è stato portato in isolamento. E lì è stato barbaramente picchiato. Tanto da fargli venire un infarto. Poi quando si sono resi conto di aver esagerato, hanno cercato di coprire tutto. Per quello hanno chiuso tutti in cella, per poterlo riportare nella sua, probabilmente già morto, senza che gli altri lo vedessero".
Ha avuto altre conferme in questo senso, altre testimonianze?
"Una donna, una ex detenuta in carcere a Livorno quando c'era anche Marcello, mi ha raccontato di essere stata avvertita nel pomeriggio, e non la sera, che era morto. Pensavano che fosse la sua compagna... E poi un altro fatto inquietante: una guardia sarebbe arrivato di corsa da un'infermiera che lavora a "Le sughere" e le avrebbe detto: "Corri corri mi è morto fra le mani". Naturalmente di questa testimonianza non c'è traccia negli atti. L'infermiera ha deposto in Procura, poi il giorno dopo è tornata al carcere e ha tentato il suicidio. Successivamente ha cambiato la sua deposizione".
E gli amici che Marcello aveva in carcere, si sono fatti un'idea di cosa sia successo?
"C'è poco da dire, mi hanno detto: "Maria è così, va così da sempre. A turno tocca a tutti, anch'io ho preso le botte. A me è andata bene. A lui no". Non hanno dubbi insomma che sia stato picchiato a morte".
Cosa farà adesso?
"Avevo fiducia nello Stato, credevo che ci proteggesse. Dopo tutto questo non crederò più nella giustizia. E' troppo evidente che qualcuno ha voluto insabbiare tutto questo caso. Mi scrivono spesso tanti ragazzi che mi dicono che hanno paura. Paura della polizia, paura di poter entrare in un carcere e non uscirne più. Ma mi scrivono anche dei secondini e degli agenti per chiedermi scusa, perché non tutti sono come quelli che io e mio figlio abbiamo incontrato sulla nostra strada".
"Adesso spero che l'appello alla Corte di Strasburgo porti a qualcosa. Io voglio solo giustizia, voglio andare a processo. La mia vita da dopo la morte di Marcello, non è stata più la stessa. Prima era la vita, dopo è stato solo il buio. L'ho promesso a mio figlio, chi gli ha fatto questo la pagherà. Costi quel che costi. Sono disposta anche ad andare in galera, ma qualcuno la pagherà".
L'appello: riapriamo il caso Lonzi, scrive Ilaria Lonigro su “L’Espresso”. Marcello Lonzi, 29 anni, morì in prigione nel 2003. Ufficialmente per 'infarto'. Ma aveva la mandibola fratturata, due buchi in testa, otto costole rotte. La madre non ha mai smesso di lottare per far riesaminare il caso. E ora chiede di firmare online per farlo arrivare alla Corte dei diritti dell'uomo. Così, forse, anche da noi la giustizia si muoverà. Non convince molti la verità giudiziaria secondo cui Marcello Lonzi, 29 anni, il volto gonfio e il corpo martoriato, sarebbe morto per un infarto, l'11 luglio del 2003 nel carcere delle Sughere di Livorno. Le foto del ragazzo nudo in una pozza di sangue hanno spinto in meno di 5 giorni 15.000 persone a firmare la petizione online con cui la madre Maria Ciuffi chiede ora alla Corte europea dei diritti dell'uomo di riesaminare il caso. La Ciuffi era già ricorsa a Strasburgo, insoddisfatta delle due archiviazioni italiane, ben sintetizzate dalle parole del Gip della Procura di Livorno Rinaldo Merani: "Non ci sono responsabilità di pestaggio del detenuto Marcello Lonzi, né da parte della polizia penitenziaria, né di terzi. Marcello Lonzi è morto per un forte infarto". Dopo che pure la Cassazione, il 29 marzo 2011, aveva negato la riapertura del processo, la donna si appellò alla Corte europea. Inutilmente: nel 2012 il ricorso fu dichiarato irricevibile. "Non incontrava gli articoli 34 e 35 della Convenzione europea sui diritti umani" fanno sapere all'Espresso da Strasburgo. Non si sa se il vizio fosse di procedura, merito o competenza. La decisione è comunque definitiva. Non la pensa così Erminia Donnarumma, legale di Maria Ciuffi, che vuole far riaprire il processo anche in Italia. "Con nuove prove c'è sempre la possibilità di riaprire le indagini. A marzo abbiamo denunciato il medico legale che ha fatto l'autopsia prima che la madre fosse avvertita del decesso, quindi senza che assistesse un perito nominato da lei. E abbiamo denunciato i due medici intervenuti la sera, per omissione di soccorso. Bisogna riconsiderare anche le fratture non prese in esame in sede di riesumazione. Ora dipende tutto dalla Procura di Livorno: se iscrivono il reato possono riaprire le indagini". Alle Sughere dal 1 marzo 2003, Marcello doveva scontare 9 mesi per tentato furto. Invece l'11 luglio il suo corpo resta a terra nella cella. Fuori, strisciate e gocce di sangue. Saranno tante le dichiarazioni contrastanti e i punti oscuri. Pochi giorni dopo aver parlato con la magistratura, nel 2008, tenta il suicidio in orario di lavoro l'infermiera delle Sughere in servizio quando fu ritrovato il corpo di Marcello. Si può escludere o no che c'entri con i fatti di Lonzi? C'è poi un referto medico falso e anonimo. Poco dopo l'ingresso in carcere, Marcello accusa dolori al torace: lo hanno picchiato le guardie, lamenta. Le radiografie che gli fanno mostrano una costola fratturata. Ma nel referto del 20 marzo 2003 il medico scrive il falso: "non fratture". E non si firma. Marcello non viene curato e i responsabili restano impuniti. Alle Sughere, 17 decessi tra il 2003 e il 2011, "la violenza è normale" secondo Mario, ex detenuto intervistato da Riccardo Arena nella rubrica RadioCarcere di Radio Radicale. Mario racconta di detenuti tornati dall'isolamento "spaccati in faccia". Lui stesso sarebbe stato pestato da "6 o 7 guardie". Che la morte di Lonzi abbia a che fare con i maltrattamenti lo hanno pensato anche alle Nazioni Unite. Nel 2011 l'argentino Juan Méndez, relatore speciale sulla tortura dell'Onu, segnalò all'Alto commissariato per i diritti umani il caso Lonzi. All'interno del suo "rapporto sulla tortura e altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti", metteva in evidenza il "volto gravemente contuso" e il "corpo coperto di sangue" del ventinovenne. Non solo: la storia di Marcello Lonzi, insieme ad altre, "ritrae un'immagine disturbante della violazione dei diritti umani da parte di pubblici ufficiali che non sono soggetti a indagini rigorose". Così recita una relazione diretta al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite scritta nel 2010 dall'ong Franciscans International, consulente ufficiale dell'Onu in tema di diritti. Che denuncia "un'apparente non volontà di investigare accuratamente e di consegnare alla giustizia i responsabili. Questo equivale a una violazione del diritto alla vita e del diritto a un rimedio efficace".
L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.
Un Paese in preda al marasma senile, scrive Massimo Fini su "IlFattoQuotidiano".
Ho passato una ventina di giorni di vacanza all’estero. Un estero molto vicino: la Corsica (il luogo più vicino più lontano dall’Occidente, perché, soprattutto nell'interno, la vita si svolge secondo i ritmi rallentati delle società tradizionali). Comunque a sole quattro ore di traghetto, con il necessario “recul” (la distanza giusta per osservare un quadro), l’Italia offre di sé uno spettacolo impressionante. Non per i problemi economici. Quelli ce li hanno quasi tutti in Europa. L’Italia sembra in preda a una sorta di marasma senile. Gli ingranaggi si sono inceppati. È saltata la filiera di un ministero chiave come quello degli Interni: il capo non sa cosa fanno i suoi subalterni i quali, a loro volta, agiscono ognuno per conto proprio più o meno all’insaputa l'uno dell’altro (sempre che costoro abbiano dichiarato il vero, come temo, perché sarebbe preferibile che avessero detto delle menzogne che sono almeno un segno di vitalità). Subiamo le imposizioni dei kazaki, che si permettono di portar via, con un aereo privato due persone che stanno nel nostro Paese, che sono sotto la nostra giurisdizione e la nostra tutela. Emma Bonino, il clone ottuso di Pannella, eletta improvvidamente ministro degli Esteri, non è riuscita che a balbettare che l’intervento kazako è stato “intrusivo”. Abbiamo perso ogni credibilità internazionale. Dopo che una mezza dozzina di presidenti del Consiglio e di ministri della Giustizia avevano fatto i pesci in barile per non dispiacere gli americani, la Cancellieri, da Guardasigilli, si era decisa a spiccare mandato di arresto, via Interpol, contro Robert Lady il capetto della Cia a Milano, responsabile del rapimento di Abu Omar, condannato a nove anni di galera. E in effetti Lady è stato arrestato a Panama, ma il Paese centroamericano non ha nemmeno aspettato che ne chiedessimo l’estradizione, l’ha consegnato subito agli Stati Uniti, al sicuro. Un delinquente comune anzi "naturale” come lo ha definito il Tribunale di Milano (che è qualcosa di più di “delinquente abituale”, vuol dire che ce l’ha proprio nel dna) tiene in scacco il Paese e il governo. Basta un soffio perché crolli tutto il castello di carte. Nel frattempo il governo si tiene insieme solo perché, direi fisicamente, non può cadere. Una potente ‘family’, palazzinara e finanziaria, viene mandata al gabbio e il suo patriarca, Salvatore Ligresti, ai domiciliari nella sua bella villa nel quartiere di San Siro che, a suo tempo, aveva provveduto a sconciare in combutta con i sindaci socialisti. Ma Ligresti non era già stato condannato ai tempi di Tangentopoli? E che c’entra? Questi ritornano sempre. E se mai, una volta, si riesce a “innocuizzarli” in modo definitivo, è solo quando hanno potuto compiere ogni sorta di rapine ai danni della cittadinanza. Non c’è settore in cui la magistratura vada a mettere il dito dove non salti fuori il marcio purulento, un pus che corrode tutto e tutti: funzionari, impiegati pubblici, poliziotti, vigili urbani, preti e naturalmente politici di ogni risma e di ogni livello. Ma non c’è più nessuno, in Italia, che rispetti le sentenze dei Tribunali. E perché mai si dovrebbe? A meno che non si tratti proprio di stracci, di riffa o di raffa le sentenze non vengono mai applicate. Nel Paese dei Balocchi non c'è la certezza della pena, c'è quella dell'impunità. Tutti i valori su cui si sostiene una comunità, onestà, dignità, lealtà, assunzione delle proprie responsabilità, sono saltati, in una confusione generale cui contribuiscono gli Azzeccagarbugli dei giornali. Il Capo di questo Stato ha 88 anni. Nel marasma senile del Paese, si trova nel suo.
COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.
Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.
Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.
Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.
1. Premessa. La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.
2. La prima falla. Gli organi costituzionali. Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.
3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.
4. La terza falla: la Corte costituzionale. Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:
1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);
2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!
A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.
5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione. Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.
6. Il cosiddetto diritto al lavoro. Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto.
Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità.
Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere.
Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto.
Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali ; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.
7. L’effettivo stato di cose.
Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione
possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro
sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul
lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi
chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi
diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti?
Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello Stato?
Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad
entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha.
Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata
che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un
poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un
giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il
lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti
l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior
parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche,
cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli
ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre
parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo
strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare
i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col
sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda
sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto
in questo modo:
L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo.
8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:
- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;
- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;
- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;
- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”; brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille.
- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.
- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.
- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.
9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato. In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.
APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.
«Una volta mi ha fatto impressione Galan che mi ha detto che, nelle sue tre legislature alla Regione Veneto, nessuno gli aveva chiesto una raccomandazione, e io mi sono impressionato perchè da noi te lo chiedono ogni secondo. - Lo dice Gianfranco Miccichè, sottosegretario alla Funzione Pubblica, ai microfoni de "La Zanzara" su Radio 24. - Nella mia vita ho fatto un sacco di raccomandazioni, assolutamente sì. Anche alla Regione, in una terra come la Sicilia dove vive una quantità infinita di gente che non campa e ti chiede aiuti di tutti i tipi. Non c’è nulla di male. Quando ho potuto farle – dice Miccichè – l’ho fatto. E poi la raccomandazione – spiega Miccichè – non significa assumere un amico senza merito. Spesso vuol dire aiutare una persona in difficoltà che ritiene di aver subito un torto. Io ho raccomandato quando era possibile solo gente disperata. Non è una questione culturale, chi lo dice è un razzista». Miccichè elogia la raccomandazione: semplifica tutto. Il quasi-ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione, Gianfranco Miccichè, ha riferito ai giornalisti che l’assediavano – essendo uscito dai “titoli” dei giornali per più di due settimane, era nata qualche preoccupazione – di avere raccomandato molte persone e non c’è alcun motivo per dolersi di questa attività. “Segnalare” calorosamente un amico alla persona giusta non è un peccato mortale né un anacronismo. Anzi. Non ha tessuto l’elogio della raccomandazione, ma è come se l’avesse fatto, scrive “Sicilia Informazioni”. Appena tornato a vele spiegate nel grande giro, grazie alla nomina a sottosegretario voluta da Silvio Berlusconi, Miccichè confessò di avere utilizzato “incentivi” diciamo così non proprio ortodossi per sopravvivere, facendo uso di stupefacenti, lasciando di stucco coloro che non sono abituati agli outing così audaci. La sua franchezza, dunque, è diventata proverbiale. Avendo scelto di dedicarsi alla semplificazione per mestiere, Miccichè ha indicato la strada maestra per sburocratizzare la pubblica amministrazione, magari senza averne piena consapevolezza. È questa la sensazione. La raccomandazione consente di cancellare il farraginoso iter dei concorsi pubblici, le defatiganti gare, aste, bandi, laboriose selezioni di candidati e così via. In un colpo solo, insomma, la metà del lavoro della pubblica amministrazione verrebbe cancellato, facendo guadagnare tempo prezioso a migliaia di burocrati. Da che mondo è mondo, le scoperte che fanno la storia dell’umanità, sono casuali. Anche la Penicillina, per esempio, è stata scoperta per caso, tanto per dire. Si può avere sotto gli occhi o nei pensieri qualcosa o un’idea, e non accorgersi di possedere un inestimabile tesoro da regalare all’umanità. E’ il caso della raccomandazione e di Gianfranco Miccichè? Sinceramente non lo sappiamo. Ma qualche considerazione possiamo spenderla a favore della sua esternazione. Il quasi ministro ha raccomandato più volte ed a più riprese nel corso della sua lunga carriera politica, magari sentendosi in colpa o credendo di trasgredire la stantia morale prevalente, mentre in effetti dava un contributo essenziale alla semplificazione. Ora si tratta di compiere il passo più importante, sdoganare la raccomandazione, cancellare la morale bavosa che la vieta e introdurre la consuetudine nella pubblica amministrazione. In una prima fase ci si può accontentare di raccomandare senza doversene vergognare, in una fase successiva, si può introdurre qualche comma nella normativa vigente. Step by step, insomma. L’elogio della raccomandazione abbatte un autentico tabù della società politica, è un autentico atto rivoluzionario. A differenza dell’uso di droghe, confessato da Miccichè, infatti, il quasi ministro non “si giudica” severamente, confidando nell’etica della responsabilità. Egli sostiene, infatti, che assumersi l’onere di una scelta regala vantaggi maggiori di concorsi e selezioni, evitando che alcuno trucchi le carte o utilizzi procedure che non premiano il merito. Se qualcuno è bravo, lo si capisce abbastanza presto, insomma. Quando si raccomanda qualcuno si risponde della bontà della scelta. Se hai raccomandato un cretino o un disonesto, un incompetente, paghi il fio, se hai sostenuto la candidatura di una persona per bene dotata delle conoscenze idonee per fare quel che deve, ne trai lustro. Tutto alla luce del sole. Se la realtà non fosse dura e arcigna, si sarebbe portati a dargli ragione su tutta la linea. Gianfranco Miccichè è il raccomandato più influente, dopo Angelino Alfano, di Silvio Berlusconi. Avendone combinato di tutti i colori – scissione compresa – possiamo in tutta onestà affermare che l’ex premier ne abbia tratto lustro? Di più: le raccomandazioni di Gianfranco Miccichè non sono state per niente fortunate: dalla Fondazione Federico II di Palermo alle assemblee legislative, ed alla direzione di enti pubblici i “raccomandati” del quasi ministro, non hanno brillato per nulla. Anzi, in qualche caso, sono stati una frana, e sono finiti dritti in galera. Questo dettaglio non inficia la validità della raccomandazione come strumento della semplificazione, ma qualche perplessità la fa sorgere.
ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.
Liberali? Solo a parole, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. C’è chi confonde l’idea liberale con un’ideologia: un set di regole precise e immutabili. Un dogma. Il fascino liberale è che esso, piuttosto, è un metodo. Prendiamo il caso delle sigarette e del maldestro tentativo governativo (poi annacquato) di vietarne l’uso in auto in presenza di minori. È l’apoteosi dello statalismo. Cioè l’esatto contrario del metodo liberale. La religione di Stato (in alcuni paesi basta togliere il predicato) decide cosa sia buono e giusto per il singolo, usurpando il libero arbitrio. La «violenza» dell’imposizione statuale detta un comportamento o uno stile di vita, che, se non rispettato, procura sanzioni. Molti considereranno la questione delle sigarette una bazzecola. Ma dietro questa pensata c’è un’ideologia pericolosa e che pervade le nostre istituzioni. Che banalmente si può riassumere così: c’è un gruppo di persone (politici e burocrati) da noi retribuite che pretendono di sapere cosa sia meglio per noi. Una roba da far accapponare la pelle. La libertà è pericolosa. È pericoloso aprire un’azienda, è pericoloso concepire un figlio, è pericoloso pensare diversamente, è pericoloso mangiare, bere e fumare. Ma è molto più pericoloso che qualcuno decida per noi riguardo questi affari. Un effetto collaterale di questo diffuso cancro ideologico è la deresponsabilizzazione che provoca dell’individuo. Ci conformiamo alla legge non perché ne siamo convinti, ma perché la trasgressione è punita. In un recente libro dell’istituto Bruno Leoni (Breve storia della libertà) si ricorda l’esperimento psicologico di Milgram. La facciamo breve: i cittadini possono diventare carnefici del prossimo, pur non volendolo, solo perché l’Autorità lo richiede e solo grazie alla pulizia della coscienza che ci fornisce un meccanismo di deresponsabilizzazione. In quanti casi un funzionario pubblico può devastare una vita, una storia, un’impresa solo imponendo il rispetto di una norma? Un ultimo suggerimento non richiesto alla componente governativa che si rifà al centrodestra. E che per di più si dice voglia ritornare allo spirito originale di Forza Italia. Libertà civili e libertà economiche sono strettamente connesse, come insegnava Einaudi, e fare i furbetti sulle prime, rende meno credibili le battaglie sulle seconde.
POPULISTA A CHI?!?
Tutti contro il «populismo» Chi ha detto che è un insulto? Da un trentennio è il nuovo "spettro" che ossessiona il mondo. Ma far coincidere questo fenomeno con l'antipolitica è un errore...scrive Stenio Solinas su “Il Giornale”. Se il populismo sia un'ideologia, uno stile politico, una mentalità, o le tre cose insieme, è difficile dire. Negli anni Sessanta, Isahia Berlin parlò in proposito di «complesso di Cenerentola», ovvero la difficoltà/frustrazione degli addetti ai lavori nel non riuscire a trovare nella pratica politica ciò che nella teoria politologica veniva di volta in volta configurato. Certo è che, da un trentennio a questa parte, esso ha preso il posto del comunismo quale «spettro» destinato a ossessionare il mondo. È uno degli effetti, il più vistoso, del disincanto verso le democrazie occidentali, e insieme il più virtuoso. La fine del Novecento ha portato con sé la fine delle passioni ideologiche proprie dei totalitarismi e ogni nostalgia paternalistico-autoritaria, facendo emergere una linea critica interna alla democrazia stessa nella quale è il popolo, appunto, la radice, il soggetto e il fine ultimo del modello democratico, la ragion d'essere che ne legittima la superiorità rispetto agli altri modelli politici. Ce lo siamo forse dimenticati, ma si governa, meglio, si dovrebbe governare, in nome del popolo, per il popolo, da parte del popolo. Al populismo ha ultimamente dedicato un interessante dossier monografico, Cos'è il populismo, la rivista Diorama (n° 313, 3 euro; casella postale 1.292, 50122 Firenze), ed è curioso come un fenomeno di per sé trasversale, presente cioè a destra come a sinistra e ormai oggetto di una robusta produzione scientifica, faccia fatica a imporsi nel dibattito corrente delle idee, se non come insulto banale, metafora di pura e semplice demagogia, ennesima variante di quelle parole-talismano atte a dequalificare l'avversario. È come se, una volta legata strettamente la democrazia ai suoi meccanismi di delega e di rappresentanza, si preferisca vederla strangolata loro tramite, invece di valutare quanto e come le istanze di partecipazione diretta alla gestione del potere potrebbero farla meglio respirare. Alla base di questa contraddizione c'è un combinato disposto che ha a che fare, da un lato, con il discredito della classe politica nella sua totalità, dall'altro con la sua distanza dalla propria fonte legittimante, l'elettorato, ovvero il popolo. È un problema che riguarda tutti gli attori politici presenti, ma che, nel campo delle idee, della formazione del consenso e delle mentalità, incide più profondamente a sinistra di quanto non faccia a destra, e vale la pena approfondire il perché. Abbandonate le speranze messianiche riposte nella classe operaia, i suoi intellettuali e le sue élites politiche si sono convertite all'economia di mercato e alla «marginalità» degli interessi da difendere. I «people» hanno insomma preso il posto del popolo, con tutto il loro corteo di «politicamente corretto», «diritti delle minoranze», «omoparentalità», arte d'avanguardia, «discorso sui generi», fobie corporali, sorveglianza/penalizzazione del comportamento altrui... Stabilito che il popolo «pensava male» lo si è per certi versi ripudiato, infliggendo a chi si sentiva minacciato dalla disoccupazione, l'insicurezza economica e sociale, la perdita di status e di identità, il moralismo proprio di una nuova classe globalizzata che essendo parte integrante del sistema agisce sulla base dei propri privilegi e non dei bisogni altrui. Il corollario finale di questo modo d'essere e di pensare è che, se non ci fosse il popolo, non ci sarebbe il populismo...Il fatto è, come ben spiega il fascicolo di Diorama citando L'eloge du populisme di Vincent Coussédiere, «non vi è politica senza popolo, né popolo senza politica. Lo stare insieme populista è il reagire al posto vuoto della direzione politica. Corrisponde a quel momento della vita delle democrazie in cui il popolo si mette a malincuore a fare politica, perché dispera dell'atteggiamento dei governanti che non ne fanno più». È anche per questo che associare il populismo all'antipolitica è fuorviante. Come nota Marco Tarchi, che di Diorama è il direttore, «per quanto i populisti siano spinti dall'impazienza e dal culto della semplificazione a diffidare della politica e a dipingerla come un luogo dove regnano pigrizia, corruzione e parassitismo, essi non rifuggono dal misurarsi con i concorrenti sul piano della conquista del consenso e delle leve del potere. Ogni volta che si cimenta sul piano della competizione istituzionalizzata con altri soggetti, a partire dalla partecipazione alle elezioni, la loro è un'azione squisitamente politica». Certo, il populismo può anche incarnare una «corruzione ideologica della democrazia» - come nota ancora su Diorama Pierre-André Taguieff - ma «nel contempo esprime un'esigenza di democrazia partecipativa e di cittadinanza attiva che il sistema funzionale ben temperato della democrazia rappresentativa non è capace di soddisfare». Così, il populismo è l'ombra della democrazia, nel senso di proiezione e riaffermazione legittimante della volontà dei cittadini, ma è anche il fantasma che la accompagna e la ossessiona, stimolo e insieme minaccia... È molte cose, dunque, tranne che un insulto o un anatema.
E poi c’è quello che non ti aspetti.
LA LEGA MASSONICA.
Affari dei Templari leghisti Appalti dei Gran Maestri. Contratti con Asl, Pirellone, Comune di Brescia oltre ai ruoli nel partito: così la Suprema Militia piazza parenti e amici, scrive Leonardo Piccini su “Libero Quotidiano”. Chi sono e, soprattutto, quali sono gli scopi che si sono prefissati gli adepti alla organizzazione templare attiva in Lombardia e in tutta Italia, detta la “Suprema Militia”, composta come abbiamo visto nella prima puntata da uomini politici, prefetti, imprenditori? Persone decise ad assumere le vesti di epigoni del gran maestro Jacques de Molay, seguaci di quei cavalieri dispersi nel quattordicesimo secolo dalle persecuzioni dal Papa e dal re di Francia. A colpire sono soprattutto le implicazioni di rapporti cementati dall’appartenenza a un ambiente iniziatico ed esclusivo tra esponenti della pubblica amministrazione, della politica, dell’economia. In teoria questa “Suprema Militia Equitum Christi” dovrebbe promuovere un percorso, per i suoi adepti che assomiglia molto a un lavoro iniziatico di conoscenza e di approfondimento dei temi principali dell’esistenza, da perseguire mediante la carità, la beneficenza, il servizio ai diseredati. Ma al suo interno si trovano affiliati che si occupano di questioni molto mondane e pratiche: consulenze professionali, incarichi pubblici, politica, imprese, strategie delle multiutility lombarde. Senza contare poi la presenza di chi, per dovere istituzionale, è chiamato a rappresentare lo Stato, non ultimo, il prefetto di Pesaro e Urbino, Attilio Visconti, pronto a vestire i panni di cerimoniere e a occuparsi della formazione degli adepti e dei novizi di una cupola riservata. Ieri Visconti ha spiegato: «Ma quale loggia massonica o associazione segreta: la Suprema Militia Equitum Christi è una onlus che fa beneficenza, non politica. Non ha legami con la Lega, ed elenco degli iscritti e bilanci sono pubblici». Visconti s’è detto «onorato di far parte di questa associazione». Fatto sta che insieme a lui ci sono altri esponenti delle istituzioni, come il vicesindaco di Brescia Fabio Rolfi, l’assessore regionale Monica Rizzi, e il dirigente comunale Marco Antonio Colosio, l’ex consigliere regionale e, ora, vicepresidente dell’Aler bresciana, Corrado Della Torre. E che dire poi della presenza, in un gruppo di duri e puri del cattolicesimo più intransigente, di un massone, come Marco Belardi, il presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Brescia, in forza alla Glri, la Gran Loggia Regolare d’Italia? A suscitare interrogativi è questo mix di rapporti e interessi profani e spirituali, trattati all’ombra di un gruppo coperto e lontano da occhi e orecchie indiscrete. È forse in virtù della comune militanza templare con il vicesindaco leghista, che l’ingegnere Belardi ottiene consulenze ben retribuite dal Comune di Brescia? Nel marzo del 2010, la sua società, la “Intertecnica Group” si vede assegnare un incarico per la ristrutturazione di impianti idrotermo-sanitari di una proprietà comunale; mentre nell’aprile del 2011, sempre la sua “Intertecnica” si aggiudica un incarico di progettazione e direzione lavori nell’area archeologica cittadina del Capitolium. Il vicesindaco Rolfi, da qualche mese anche segretario provinciale della Lega Nord, è censito come cavaliere dell’ordine templare già nel 2009 nella “Commanderia San Gottardo” di Brescia; almeno dallo stesso periodo risulta aver incrociato, a San Gottardo, proprio il “novizio” Marco Belardi, che proprio dall’ottobre del 2009 si insedia nella posizione delicata e prestigiosa di presidente dell’Ordine degli Ingegneri. È forse grazie a questa consorteria così profondamente annidata nel cuore della Lega Nord che Fabio Rolfi, fallito il primo tentativo di sistemare la moglie Silvia Raineri attraverso un concorso pubblico indetto dalla provincia di Brescia, la piazza all’Asl di Milano? Il concorso della provincia di Brescia aveva suscitato un clamore nazionale, perché delle sei vincitrici ben cinque erano leghiste e parenti di esponenti politici leghisti di primo piano del bresciano. Un tale clamore da rendere necessaria una commissione d’inchiesta e da indurre il presidente della provincia Molgora, pure leghista ma estraneo all’ambiente di Rolfi e dei cavalieri, a congelare le assunzioni. Così Rolfi si rivolge prima al gruppo leghista in regione Lombardia, che conferisce a Silvia Raineri un incarico, poi al leghista Giacomo Walter Locatelli, potente direttore generale dell’Asl di Milano: la Rainieri si piazza diciottesima in un concorso per l’assunzione di un solo impiegato, ma viene ugualmente assunta; si dimette dall’incarico in Regione, prende possesso dell’impiego all’Asl, ottiene immediatamente dal direttore generale un’aspettativa e riassume il suo incarico in Regione. C’è poi chi fa notare certe coincidenze: recentemente eletto alla carica di segretario provinciale della Lega Nord, Rolfi affronta il nodo di Montichiari, importante comune della provincia in cui la Lega governa dagli anni 90 e dove ha sofferto, in occasione delle ultime elezioni, una secessione che ha portato fuori dal partito tutto il gruppo dirigente locale, compreso sindaco e vicesindaco. Dopo anni la spaccatura viene ricucita e l’incarico di commissario della sezione leghista di Montichiari, tutt’ora percorsa da forti tensioni, va a Corrado Della Torre, il Grand Commandeur dei cavalieri di San Gottardo dei quali fa parte lo stesso Rolfi. Quel Della Torre che, intervistato da Marta Calcagno, su il Giornale del 09/10/2010, dichiarava che «nell’Ordine dei Templari ci sono vari gradi di cavalleria, che sono immutabili dal 1100. C’è una composizione sociale varia: dal generale dei carabinieri, a professionisti di diversi livelli, sino ad imprenditori e industriali». A San Gottardo non mancava mai un altro abitué del Tempio, il prefetto Attilio Visconti: nato a Benevento il 21 ottobre del 1961, per due anni, dal 1990 al 1992, presta servizio nel Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (Cesis). Nel 2006 è trasferito alla Prefettura di Brescia, dove gli viene conferito l’incarico di Capo di Gabinetto. Nel 2007 è chiamato a svolgere il ruolo di commissario straordinario per i Comuni di Offlaga, Travagliato e Borno. Il 12 dicembre del 2007 è nominato viceprefetto Vicario di Brescia. Nel giugno del 2008 è nominato commissario prefettizio del comune di Edolo (il paese di Bruno Caparini, il Gran Baylo dell’ordine templare in cui milita lo stesso Visconti). Poi l’incarico di viceprefetto vicario a Torino, l’arrivo a Caserta e la tanto agognata nomina a Prefetto di Urbino. In molti di questi incarichi, soprattutto in quelli di commissario prefettizio in comuni bresciani, Visconti è sempre accompagnato da due giovani leghisti: il fido Marco Antonio Colosio, presente nell’elenco dei templari bresciani, e l’architetto Franco Claretti, oggi sindaco leghista di Coccaglio, un paesone del bresciano. E l’amministrazione comunale di Brescia, in cui Fabio Rolfi è vicesindaco e dominatore assoluto, nomina entrambi dirigenti fin dal debutto della giunta di centrodestra. Il capo del gruppo lombardo è Bruno Caparini, cofondatore assieme a Bossi della Lega e attuale membro del consiglio di sorveglianza di A2A. Di lui, fino a poco tempo fa, Monica Rizzi, assessore regionale allo Sport (una adepta della loggia templare fino all’anno scorso, espulsa, forse, per la vicenda della finta laurea in psicologia, più credibilmente per incompatibilità con l’ambiente e gli altri cavalieri leghisti, ormai di stretta osservanza maroniana), conservava una foto in assessorato: abito nero con mantello bianco e croce templare rossa sul cuore, spada Carlo V e decorazione dell’ordine appesa al collo. Questa è la divisa del cavaliere della Suprema Militia.
LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.
Il misterioso uomo della tensione, scrive Monica Zornetta su “L’Espresso”. Sconosciuto all'opinione pubblica grazie alla copertura dei servizi segreti, Berardino Andreola compare in tutti gli episodi misteriosi degli anni di piombo: dai delitti Calabresi e Feltrinelli fino a Piazza Fontana e alla morte di Pinelli. Un libro inchiesta rivela la sua storia. Ci sarebbe un unico uomo dietro a tanti dei misteri che hanno messo in ginocchio l'Italia negli anni Sessanta e Settanta. Dietro la strategia della tensione, i delitti Calabresi e Feltrinelli, la morte di Pinelli, il tentato sequestro dell'ex senatore democristiano Graziano Verzotto. Una abile spia dal passato troppo nero che a un certo punto, protetta dai Servizi segreti tedeschi, difesa da alcuni potenti rappresentanti delle istituzioni italiane e tutelata dal ricorso quasi schizofrenico a travestimenti e ad alias differenti, si sarebbe abilmente mescolata con il rosso al fine di depistare, insabbiare. E uccidere. Il suo nome è Berardino Andreola, nato a Roma nel 1928 e morto a Pesaro nel 1983, indagato varie volte - con le fittizie generalità, a seconda dei casi, di Giuseppe Chittaro, Umberto Rai, Günter, Giuliano De Fonseca - per le morti di Feltrinelli e di Calabresi e per la bomba alla questura di Milano; e infine condannato - con il nome autentico - per il solo tentativo di sequestro a scopo di estorsione dell'ex presidente dell'Ente minerario siciliano, il veneto Graziano Verzotto, compare d'anello del boss catanese Giuseppe Di Cristina. A collocare Andreola sotto una luce nuova e più articolata, svelandone l'incredibile storia, alcuni movimenti, collaborazioni, appartenenze e vicinanze inaspettate (l'Ufficio affari riservati,il vertice dell'Ufficio politico della questura di Milano, l'Aginter Press, il segretissimo gruppo Alpha, probabile mandante del delitto Calabresi), illustrandone i numerosi depistaggi e i raggiri e ipotizzando nuovi contatti, è lo studioso padovano Egidio Ceccato nella documentatissima inchiesta da poco pubblicata per Ponte alle Grazie, "L'infiltrato". Ceccato, tanto per cominciare: chi è Berardino Andreola. "E' un personaggio che ha più volte fatto capolino, con vari alias - penso a Giuseppe Chittaro Job, Giuliano De Fonseca, Umberto Rai, Günter, Francesco Miranda Sanchez, tanto per ricordarne qualcuno - in diverse inchieste di quegli anni, ma che alla fine è stato processato e condannato solo per aver diretto il tentato sequestro ai danni di Verzotto nel gennaio 1975. Proprio a seguito di questo fallito rapimento di natura politica - non estorsiva, come hanno invece stabilito le sentenze -, eseguito da tre soggetti probabilmente arrivati da Berlino, erano emersi per la prima volta il suo vero nome e la sua qualifica: "Agente segreto appartenente ad una organizzazione ideologica d'estrema sinistra (Gruppo Feltrinelli)". Agli sbigottiti inquirenti siciliani Andreola aveva spiegato, mentendo, di essere arrivato sull'isola per "infiltrarsi negli ambienti mafiosi" e per "studiare i sistemi operativi della mafia allo scopo di utilizzarli nell'ambito dell'organizzazione di cui faceva parte". In verità la spia era sbarcata in Sicilia un mese dopo i fatti accaduti alla questura di Milano: con ogni probabilità ci era arrivato per seguire il caso Verzotto, per impedire all'ex senatore padovano di rivelare segreti collegati all'assassinio di Mattei. A ogni modo Andreola (noto in questo caso come Chittaro, anarco-maoista friulano) viene indagato per l'attentato alla questura". Erede di una famiglia fascista con un padre maresciallo in servizio presso l'Ovra, l'ex brigata nera Berardino Andreola era stata addestrata nei campi delle Ss in Germania, dove aveva imparato un fluente tedesco. Finito per qualche tempo in carcere per reati legati alla criminalità comune, negli anni Sessanta l'uomo si era messo a professare idee "anarco-maoiste" e antiviolente, diventando il braccio destro di Feltrinelli nei Gap (con il nome fasullo di Günter); un informatore importante di Calabresi (con quello di Chittaro); avvicinandosi a Pinelli, a Valpreda e agli anarchici milanesi prima della strage di Piazza Fontana e facendo al contempo da tramite con la mafia nella fornitura e nel traffico di armi. Come si lega Andreola con le vicende milanesi, in particolare con la "madre" delle stragi: Piazza Fontana?"Alla fine di novembre 1969 Chittaro/Andreola aveva contattato dalla Francia per via epistolare il capo dell'ufficio politico della Questura di Milano, Antonino Allegra, presentandosi come un anarchico-maoista che prendeva le distanze dalle idee violente dei propri compagni. Ad Allegra aveva preannunciato nuovi fatti di violenza politica dopo la morte dell'agente Antonio Annarumma. La sera del 12 dicembre, dopo la scoppio della bomba alla Banca dell'Agricoltura, il capo dell'Ufficio politico lo contatta immediatamente e gli organizza per l'indomani un incontro con Calabresi nella vicina Svizzera. Il 13, perciò, il commissario lo incontra per tre ore a Basilea. Nessuna delle sue dichiarazioni viene tuttavia messa a verbale".
Andreola sembra essere l'anello che congiunge molti fatti terribili accaduti nel nostro Paese. E diversi documenti citati nel libro lo confermano. Eppure il suo nome è praticamente sconosciuto all'opinione pubblica. Perché?
"Per le fortissime coperture di cui ha goduto, innanzitutto. Penso alle indagini per la morte di Feltrinelli, coordinate dal giovane e inesperto magistrato Guido Viola, che non verbalizza le dichiarazioni rilasciate in proposito da Chittaro/Andreola ritenendole pure e semplici fantasie di un mitomane. Molto più probabilmente, però, la mancata verbalizzazione avviene perché dall'alto qualcuno gli consiglia di lasciarlo fuori dalle indagini. Questo non è l'unico episodio a presentare tali caratteristiche. Mi sono convinto, anche grazie a documenti che ho acquisito dopo l'uscita del libro, che Andreola fosse uno dei burattinai che muovevano i fili della strategia della tensione. Per comprendere questa torbida figura non si può infatti prescindere dal Piano Chaos della Cia e dai punti della guerra non ortodossa stabiliti nel maggio 1965 all'hotel Parco dei Principi a Roma. Di Andreola, legato a quella che io chiamo Internazionale nerazzurra - per i contatti con gli apparati americani della Nato - si è parlato in passato, senza che però fosse collocato in un contesto preciso e senza che venissero forniti alla sua figura quei collegamenti che io ritengo essenziali. Le indagini del tempo si erano concentrate sui singoli personaggi, sui suoi tanti alias. Uno separato dall'altro. Con "L'infiltrato", nato durante le mie ricerche per un saggio sulla morte di Mattei che dovrebbe uscire l'anno prossimo, ho cercato di dare un filo logico, di riunire tutto sotto la stessa persona: gli alias e gli episodi delittuosi. Gli importanti collegamenti con Milano, poi, sono potuti emergere grazie ad alcuni documenti forniti da un giornalista dell'Ansa, Paolo Cucchiarelli. Certo, non c'è la pistola fumante, che invece giace forse assieme ad Andreola, ma su chi è stato e su quanto ha fatto esistono riscontri ben precisi, capaci di riscrivere una nuova verità storica con cui la società, non solo italiana, dovrà per forza fare i conti".
GIUSTIZIA. LA RIFORMA IMPOSSIBILE.
Così come non c'è mai stata nessuna Seconda Repubblica, la condanna di Berlusconi non farà nascere la Terza, scrive Angelo Panebianco su “La Repubblica”. La Repubblica è una soltanto, sempre la stessa. Che cambino o meno uomini, partiti o leggi elettorali. Ed essendo la stessa, le sue tare e i suoi conflitti di fondo si perpetuano. Così è per lo squilibrio di potenza fra magistratura e politica, uno squilibrio che secondo molti, compreso lo scomparso presidente della Repubblica Francesco Cossiga, risale a molto tempo prima delle inchieste di Mani Pulite di venti anni fa. Al momento, apparentemente, tutto è come al solito: con Berlusconi e la destra contrapposti alla magistratura e la sinistra abbracciata ai magistrati. Gli uni reagiscono a quella che ritengono una orchestrata persecuzione. Gli altri si aggrappano alla magistratura, un po' per antiberlusconismo, un po' perché una parte dei loro elettori considera i magistrati (i pubblici ministeri soprattutto) delle semi-divinità o giù di lì, e un po' perché sperano in trattamenti «più comprensivi» di quelli riservati alla destra. Ma lo squilibrio di potenza c'è (anche i magistrati più seri lo riconoscono) e, insieme alla grande inefficienza del nostro sistema di giustizia, richiederebbe correttivi. Una seria riforma della giustizia, del resto, l'ha chiesta anche il presidente della Repubblica, di sicuro non sospettabile di interessi partigiani. Ma la domanda è: può un potere debole e diviso imporre una «riforma» a un potere molto più forte (e molto più unito) contro la volontà di quest'ultimo? Frugando in tutta la storia umana non se ne troverà un solo esempio. La magistratura è l'unico «potere forte» oggi esistente in questo Paese e lo è perché tutti gli altri poteri, a cominciare da quello politico, sono deboli. Non permetterà mai al potere debole, al potere politico, di riformarla. Certo, si potranno forse fare - ma solo se i magistrati acconsentiranno - interventi volti ad introdurre un po' più di efficienza: sarebbe già tanto, per esempio, ridurre i tempi delle cause civili. Ma non ci sarà nessuna «riforma della giustizia» se per tale si intende una azione che tocchi i nodi di fondo: separazione delle carriere, trasformazione del pubblico ministero da superpoliziotto in semplice avvocato dell'accusa, revisione delle prerogative e dei meccanismi di funzionamento del Csm, cambiamento dei criteri di reclutamento e promozione dei magistrati, riforma dell'istituto dell'obbligatorietà dell'azione penale, eccetera. La classe politica, in tanti anni, non è riuscita nemmeno a varare una decente legge per impedire la diffusione pilotata delle intercettazioni. Altro che «riforma della giustizia». Il problema va aggredito da un'altra prospettiva. C'è un solo modo per porre rimedio allo squilibrio di potenza: rafforzare la politica. Ci si concentri su provvedimenti che possano ridare, col tempo, forza e legittimità al potere politico: una seria riforma costituzionale che renda più efficace l'azione dei governi, un radicale cambiamento delle modalità di finanziamento dei partiti, una drastica contrazione dell'area delle rendite politiche, delle rendite controllate e distribuite dai politici nazionali e locali (vera causa, al di là della demagogia, degli altissimi costi della politica). Ci si concentri, insomma, su alcune cause certe della debolezza, e della mancanza di credibilità, che affliggono il potere politico. Solo così sarà possibile avviare un processo che porti ad annullare lo squilibrio di potenza. Anche se ci vorranno anni per riuscirci. Al momento, dunque, non si può fare nulla in materia di giustizia? Qualcosa forse sì, ma richiede lungimiranza (perché i frutti si vedrebbero solo dopo molto tempo). Si affronti il problema là dove tutto è cominciato: si rivoluzionino i corsi di studio in giurisprudenza (e pazienza se i professori di diritto strilleranno). Si incida sulle competenze, e sulle connesse «mentalità», di coloro che andranno a fare i magistrati (ma anche gli amministratori pubblici). Si iniettino dosi massicce di «sapere empirico» in quei corsi. Si riequilibri il formalismo giuridico con competenze economiche e statistiche, e con solide conoscenze (non solo giuridiche) delle macchine amministrative e giudiziarie degli altri Paesi occidentali. Si addestrino i futuri funzionari, magistrati e amministratori, a fare i conti con la complessità della realtà. È ormai inaccettabile, ad esempio, che un magistrato, o un amministratore, possano intervenire su delicate questioni finanziarie o industriali senza conoscenze approfondite di finanza o di economia industriale. È inaccettabile che gli interventi amministrativi o giudiziari siano fatti da persone non addestrate a valutare l'impatto sociale ed economico delle norme e delle loro applicazioni. Il diritto è uno strumento di regolazione sociale troppo importante per lasciarlo nelle mani di giuristi puri. Lo squilibrio di potenza permarrà a lungo. La politica, per venirne a capo, deve ispirarsi a una antica tradizione militare cinese. Le serve una «strategia indiretta». Sono sconsigliati gli attacchi frontali.
MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!
Confesso che ho paura a scrivere di Antonio Esposito, il presidente della seconda sezione penale della Corte di Cassazione che ha condannato Berlusconi e cambiato la storia d’Italia in un senso che ci sarà chiaro soltanto nei prossimi mesi (o anni), scrive Marco Ventura su “Panorama”. Ho paura, devo pensarci molto prima di mettere in fila le parole, di dar corpo a quello che penso. È una censura preventiva della quale mi vergogno, perché il pensiero va alle possibili conseguenze legali e all’intimidazione oggettiva di quanti continuano a dirci che dobbiamo “rispetto” verso le istituzioni. Eppure, c’è una bella differenza tra le istituzioni e gli uomini che le incarnano. C’è una bella differenza, e a vergognarsi dovrebbero essere gli uomini che incarnano male le istituzioni. A cominciare da quella che è tale per antonomasia. La magistratura. Rispetto sì, divieto di critica no. Ecco, ho paura a scrivere che quanto ho letto su Antonio Esposito e sui giudizi che avrebbe espresso su Berlusconi prima della sentenza, sulle anticipazioni di altri verdetti di altri casi, sul suo modo di presentarsi e, soprattutto, sulla decisione di concedere un’intervista a commento della sentenza Berlusconi prima di depositare le motivazioni, fanno vacillare pesantemente la mia stima, la mia fiducia non nell’istituzione magistratura, ma nelle persone che la amministrano. Il dottor Esposito è un fior di magistrato integerrimo, imparziale, corretto? O anche lui può sbagliare, non è perfetto, come il Papa e chiunque altro? La magistratura in Italia è davvero quell’ordine, quel potere, quella élite nella quale dobbiamo avere una fede assoluta sennò siamo cattivi cittadini e berlusconiani (per qualcuno, le due cose coincidono)? Oppure no? Ecco, vorrei dire che c’è un decoro della politica che è sostanza, è vero, ma a maggior ragione c’è, dovrebbe esserci, un decoro della magistratura. Ci sono – ne ho conosciuti – magistrati che fanno il loro lavoro in silenzio, non concedono interviste, non appaiono, non commentano. Magistrati consapevoli del ruolo importantissimo che svolgono, dotati di un’opinione alta di se stessi e della propria funzione, ma non arroganti, e che proprio perché non eletti ma di carriera, hanno un sacro rispetto del proprio essere (e apparire) imparziali. Oggi sembra quasi normale che i magistrati partecipino a comizi e riunioni di partito, si esprimano su leggi prerogativa di Parlamento e Governo con proclami, veti, diktat e più o meno velati avvertimenti. Non è così. Se sono veri i giudizi e i comportamenti di Esposito riferiti con precisione da un giornalista fra i più bravi, corretti, scrupolosi che io conosca, Stefano Lorenzetto, e se la difesa di Esposito è davvero quella che abbiamo letto su quotidiani come Il Fatto, c’è da chiedersi se non sia arrivato il momento di riconoscere, da parte di tutti, l’esistenza di un problema Giustizia in Italia. Un problema di decoro che non si esaurisce nelle scarpe da jogging o da ginnastica che Lorenzetto ha visto ai piedi di Esposito una certa sera di anni fa a Verona, ma riguarda le regole (scritte e non scritte) di un corpo dello Stato nel quale, molto più che nei politici, dobbiamo avere fiducia (e in molti non l’abbiamo). L’Associazione nazionale magistrati si è limitata a definire “inopportuna” l’intervista di Esposito al “Mattino” dopo la sentenza su Berlusconi (prima del deposito delle motivazioni). No, basta. Non basta. Domanda: posso scrivere che l’Italia non dev’essere ostaggio di una magistratura spesso inefficiente, faziosa e scorretta, e che la libertà di scegliere chi debba guidarci non può esser soggetta alla discrezionalità di uomini che non sono migliori di noi (e noi siamo tutt’altro che perfetti), ma che a differenza di tutti noi non devono rispondere mai a nessuno dei propri errori e finisce sempre che si difendono a vicenda? Altro che rispetto della magistratura, categoria incapace di fare pulizia al suo interno. Il rispetto non è un atto dovuto per legge, è un valore che va conquistato con fatti e comportamenti, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. E questi magistrati non meritano la nostra stima e neppure il nostro silenzio. Si sono autoproclamati divinità intoccabili ma di sacro non hanno neppure l'osso. Sono uomini come noi, spesso peggio di noi. Alcuni sono persone per bene, altri veri mascalzoni, altri corrotti, altri ancora depressi, incapaci, megalomani in una percentuale identica a quella di tutte le categorie umane e professionali. Basterebbe ricordare il caso Ingroia, degno successore di Di Pietro, D'Ambrosio, Emiliano e tanti magistrati che sono passati con sospetta disinvoltura dalla magistratura alla politica. E che dire di Antonio Esposito, il presidente del collegio della Cassazione che ha confermato la condanna a Silvio Berlusconi? Come raccontiamo e documentiamo, tempo fa questo signore intrattenne gli ospiti di una serata del Lions club pronunciando sfottò contro Berlusconi, svelando presunti segreti d'ufficio di una inchiesta sul Cavaliere e anticipando una sentenza (quella su Vanna Marchi) che avrebbe emesso giorni dopo. Capito in che mani siamo? Uno così merita il nostro rispetto? Io dico di no. Altro che Cassazione tempio della giustizia. Qui siamo al mercato, al postribolo. Il guaio è che con le loro follie, oltre che rovinare vite, stanno per far cadere il terzo governo in 18 anni senza ovviamente pagare pegno. Peggio, con l'arresto di Berlusconi stanno minando in modo irreparabile la democrazia. Solo una boriosa e inadatta presidente della Camera, Laura Boldrini (SEL), poteva sostenere che la conferma della condanna sarebbe stato un fatto privato.
SILVIO BERLUSCONI: UN SIMBOLO PER TUTTE LE INGIUSTIZIE.
Un simbolo per tutte le ingiustizie. Con Berlusconi in carcere l'ingiustizia patita da ciascuno trova un testimonial vistoso e una causa comune, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Gli italiani non avevano un simbolo comune su cui convogliare la rabbia per le ingiustizie patite da ciascuno: i reati subiti e non puniti, i reati puniti e non commessi, le sfacciate disparità di trattamento, i ritardi e le disfunzioni dei processi, le persecuzioni nel nome della Legge e del Fisco, più il vittimismo. Ora la magistratura, dopo un lungo e assurdo percorso, li ha accontentati: con Berlusconi in carcere l'ingiustizia patita da ciascuno trova un testimonial vistoso e una causa comune. Un paese in ginocchio, con una maggioranza cagionevole, riceve il colpo di grazia. Nessun senso dello Stato e del Bene Comune, nessuno sforzo di chiudere con equilibrio una feroce partita che ha sfasciato l'Italia. Intanto i corvi, le jene e le carogne maramaldeggiano a mezzo stampa. E invece è un dramma per tutti, a cominciare dalla sinistra, surrogata dai giudici nel liquidare con la forza l'era berlusconiana (col rischio di resuscitarla più cazzuta che pria). Ora il Pd si vede costretto a governare con un condannato in via definitiva o a sfasciare il governo e dunque il Paese con una chiamata folle alle urne. E la destra si vede obbligata a stringersi intorno al Capo. Di lui, il condannato, non dirò niente, anzi la butterò sul comico che è l'unica via d'uscita dal tragico kafkiano. Se andrà in carcere, in pochi mesi lo acclameranno direttore del carcere. Se sarà costretto ai domiciliari rifonderà la Casa delle Illibertà. Se sarà affidato ai servizi sociali dovrà aiutare le coetanee ad attraversare la strada. Che pena.
GLI ITALIANI NON HANNO FIDUCIA IN QUESTA GIUSTIZIA.
Gli italiani non hanno fiducia nella giustizia. La sentenza della Cassazione su Berlusconi non c'entra. Lo dice anche il presidente Napolitano: "Serve una riforma", scrive Arnaldo Ferrari Nasi su “Panorama”. Lo ha detto il Presidente della Repubblica nella dichiarazione immediatamente seguita alla sentenza: "ritengo ed auspico che possano ora aprirsi condizioni più favorevoli per l'esame, in Parlamento, di quei problemi relativi all'amministrazione della giustizia, già efficacemente prospettati nella relazione del gruppo di lavoro da me istituito il 30 marzo scorso". Napolitano rappresenta l'Italia. Come il Re fu l'incarnazione dello Stato monarchico il Presidente della repubblica lo è di quello Repubblicano. Infatti non sbaglia. Il 96% degli italiani, cioè tutti, ritengono che “bisogna che il sistema della giustizia funzioni meglio di ora". Questo non significa che non vi sia fiducia nel sistema legale italiano. Anche se il Paese su questo aspetto è dubbioso. La maggioranza dei cittadini (52%) è sfiduciato dall’operato dei giudici, mentre solo il 47% da loro credito. Valori che ci avvicinano di più a paesi europei come la Polonia e Slovacchia che non Germania, Inghilterra o Danimarca e Svezia. Ma si tratta pur sempre di quasi la metà della popolazione. Allora diventa interessante comprendere chi, pur dimostrando fiducia nella giustizia, ne richiede con forza la riforma: si tratta del 30% degli italiani. Sono tendenzialmente in maggior numero fra i maschi, in età tra i 35 ed i 55 anni e con livelli d’istruzione medio-alti. Vengono principalmente dalle “regioni rosse” ed infatti, avere fiducia nella giustizia ma richiederne con forza una riforma, sembra un tema molto più caro a chi si definisce di centrosinistra che non di centrodestra, ambito in cui il favore alla magistratura riscuote molto meno consensi. Tra i partiti, persino la maggioranza, seppur relativa, degli elettori di Sel (46%) o del Pd (45%) è di questa opinione, gli altri o semplicemente non hanno fiducia o hanno in merito opinioni contrastanti. Se più della metà della popolazione non ha fiducia nei magistrati e i due terzi degli altri ne chiedono una riforma, allora la questione sembra andare al di là delle questioni politiche legate ai problemi di Berlusconi. Si va oltre al centrodestra. Con questi numeri, il tema di una riforma dell’ordine giurisdizionale sembra molto più essere legato alla singola esperienza dei singoli cittadini.
UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.
Tutto deve apparire marcio per mostrare che l’unico baluardo a difesa della democrazia indossa la toga, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. Ma può un Paese vivere continuativamente sull’onda di indagini, sentenze e polemiche legate all’attività della magistratura? Basta leggere i giornali e guardare i canali delle tv straniere per avere la certezza che l’Italia è l’unica nazione tra quelle del G8 a essere condizionata, se non prigioniera, dalla perenne, tambureggiante iniziativa delle toghe. Che non è fatta solo di attività requirente e giudicante ma spesso anche di attività petulante, quella per capirci legata a dichiarazioni di magistrati su procedimenti, imputati o – e sono le esternazioni più scivolose – sul «contesto» che accompagna le loro inchieste. Alla favoletta che i magistrati parlano solo attraverso le sentenze non crede più nessuno: molti pubblici ministeri chiacchierano quotidianamente, si indignano quando i colleghi non gli danno ragione, strepitano se qualcuno osa criticarli (quando non reagiscono con la solita pistolettata di querele). Anticipo immediatamente l’obiezione: nessuno vuol negare il sacrosanto controllo di legalità o, peggio, sostenere una qualunque pretesa di impunità. Né io, colpito dalle pistolettate di cui sopra con 16 mesi di carcere per articoli critici su magistrati (senza neppure la soddisfazione di averli firmati), mi sognerei di limitare il diritto di parola. Epperò rifletteteci: ripassate l’ultima settimana, guardate alla prossima e ditemi se il nostro non è un Paese in perenne attesa di giudizio. Mentre attendiamo l’esito del dibattimento su Silvio Berlusconi fissato per il 30 luglio in Cassazione, esito che comunque è destinato a incidere sull’attuale legislatura, ci lasciamo alle spalle giorni segnati solo e soltanto da verdetti e polemiche. L’elenco è lunghissimo, ecco qui un sunto: la condanna di Ottaviano Del Turco, l’assoluzione del generale Mario Mori, il pirata assassino mandato ai domiciliari, i patteggiamenti per il disastro della Concordia, le condanne di Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti. Poi ci sono gli arresti della famiglia Ligresti, la polemica assurda innescata da un assessore robesperriano di Milano contro Dolce & Gabbana (fossero in Gran Bretagna, la regina li avrebbe battezzati baronetti, altro che chiacchiere), la mancata estradizione dell’agente della Cia per il caso Abu Omar, le ispezioni ministeriali per i magistrati che hanno consentito la deportazione di Alma Shalabayeva. Poi arriva pure un Di Pietro, senza pudore e senza rossore, che rievocando il suicidio di Raul Gardini, vent’anni fa in piazza Belgioioso a Milano, ha pure il coraggio di bestemmiare su come il suicidio del manager abbia rappresentato per lui un «coitus interruptus» visto che non lo poté arrestare. È così ogni settimana. E continuerà chissà per quanto perché la magistratura è rimasto l’unico, vero, inossidabile potere in Italia. Dovrebbe esserci la politica a contenerlo, l’alta azione del Parlamento. Ma la politica langue, quando non latita. L’ultimo esempio della politica inconcludente? Siamo alle porte di agosto e anche quest’anno ci tocca sentire lo strazio del presidente della Camera di turno che va in visita a Regina Coeli e, ma guarda un po’, si accorge che solo a pronunciare la parola carcere parte un conato di indignazione. Mo basta, dicono a Roma. Appunto: documentatevi e andate a firmare il sostegno ai referendum radicali sulla giustizia (trovate le informazioni su www.referendumgiustiziagiusta.it). Magari la politica si dà una svegliata. Magari. Ps: a riprova che tira più un imputato vip che un ladro di polli, ho appena letto che un giudice ha rinviato a giudizio un malvivente preso in Umbria mentre rubava. Qual è il problema? Lo avevano beccato nel 2007. E il processo si aprirà (e chiuderà per prescrizione) nel 2015. Date retta, andate a firmare.
Giustizia: non si può più tacere. Nell'editoriale di Panorama in edicola dall'8 agosto il direttore, Giorgio Mulè, racconta come e perché lui, ed altri giornalisti del settimanale sono stati intercettati dalla Procura di Napoli. Ora tenterò di spiegarvi perché la riforma della giustizia non è un pericoloso argomento usato dall’insurrezionalista Silvio Berlusconi per sistemare i suoi processi (è così bravo a farlo che il risultato s’è visto…), ma una necessità ineludibile per questo Paese. Dovrò raccontarvi una storia che riguarda Panorama. Nell’agosto di due anni fa, notate bene due anni fa, Panorama pubblicò uno scoop: rivelò che la Procura di Napoli aveva concluso un’inchiesta nei confronti di Valter Lavitola e Gianpaolo Tarantini per una presunta estorsione ai danni dell’allora premier Berlusconi. Si trattava di una notizia riservata, esattamente come altre centinaia che vengono pubblicate da qualsiasi organo di informazione. La capacità di rivelare notizie riservate spesso scomode, per intenderci, è la cifra che distingue un bravo cronista da un passacarte delle procure. Si dice, non a caso, che il mestiere del giornalista è quello di penetrare (e violare) i segreti. Più ne infrangi, più sei bravo. Molto spesso accade che siano i pubblici ministeri a violare il segreto, lo sanno anche le pietre ma non si può dire. Diremo allora che ai cronisti del Fatto, per esempio, nessun pm da Palermo ad Aosta si è mai sognato né si sognerebbe di soffiare una notizia non ufficiale. E lo stesso discorso vale per i cronisti del Corriere della sera (a cominciare dalla notizia dell’invito a comparire a Berlusconi del ’94) o meno che mai della Repubblica. Torniamo a noi: in quell’agosto di due anni fa il cronista di Panorama fu così bravo da riferire nel suo articolo anche numerosi dettagli dell’inchiesta. In breve fece (e assai bene) il suo lavoro. Alcuni giorni dopo, il giudice ordinò l’arresto di Lavitola e Tarantini. Il primo, però, si rese latitante. Un latitante sui generis tanto da essere intervistato via satellite in diretta televisiva da Enrico Mentana con il contributo speciale del «procuratore aggiunto» Marco Travaglio: nessun pm napoletano osò contestare (e meno male) ad alcuno degli intervistatori il reato di favoreggiamento né (e questa circostanza invece lascia molto perplessi) disturbò Mentana o alcuno dei suoi ospiti per chiedergli da dove il latitante Lavitola fosse collegato. Il faccendiere, infatti, rimase tranquillamente uccel di bosco per altri 8 mesi, finché decise autonomamente di costituirsi. In quegli stessi giorni di agosto 2011, invece, prendeva il via un’inchiesta a carico del giornalista di Panorama autore dello scoop. Alla luce di quello che oggi sappiamo è il caso di parlare di una maxi inchiesta, un’indagine monstre condotta da ben quattro magistrati in servizio a Napoli (Francesco Greco, Henry John Woodcock, Francesco Curcio, Vincenzo Piscitelli) con il dispiegamento di decine di poliziotti. L’inchiesta coinvolge anche il sottoscritto, da almeno un anno. Avevo avuto modo di parlarvene nell’editoriale pubblicato il 4 luglio scorso (il titolo era «Corruzione, mi mancava solo questa») subito dopo aver ricevuto un invito a comparire dalla Procura di Napoli in cui si vaneggiava nei miei confronti il reato di concorso in corruzione: avrei in sostanza pagato qualcuno per avere lo scoop. Un’ipotesi fuori dal mondo, giunta a due anni dai fatti. E parliamo di due anni in cui eravamo già al corrente di una frenetica, dispendiosa e mai interrotta attività istruttoria costellata da varie perquisizioni (al cronista raggiunto di buon mattino a casa da quattro agenti di polizia napoletani venne risparmiata l’ispezione corporale «in quanto - recita letteralmente il verbale - lo stesso si presentava in pantaloncini pigiama»), diverse consulenze e numerosi interrogatori.
Ora arriva la ciliegina.
Quell’invito a comparire nei miei confronti che contempla un’ipotesi di reato folle somiglia a un’esca, non so come altro definirla. Che la corruzione fosse un’ipotesi campata in aria lo scrive lo stesso giudice per le indagini preliminari alla procura in un provvedimento del 22 giugno di cui adesso sono venuto a conoscenza laddove in neretto afferma: «Non ricorrono allo stato seri elementi indiziari in ordine all’ipotesi di corruzione». Eppure, nonostante queste parole non lascino spazio a interpretazioni, cinque giorni dopo (il 27 giugno) la procura emette l’invito a comparire, che mi viene preannunciato l’1 luglio e notificato il giorno successivo, con l’ipotesi non «seria» di corruzione. Un atto urgente e non differibile, avevano specificato i poliziotti incaricati della notifica. E sapete il perché di tanta urgenza? Perché i miei telefoni erano sotto controllo dal 20 giugno. Così come quello del vicedirettore esecutivo, del capo della redazione di Roma, del cronista autore dello scoop, di un collaboratore di Panorama, di un impiegato di banca, di un avvocato e di un cancelliere di Napoli. Sono in tutto la bellezza di 24 utenze telefoniche. Si è trattato di una gigantesca operazione di spionaggio nei confronti del vertice di Panorama, che è stato intercettato per almeno 15 giorni. Numerosi agenti di polizia hanno trascorso il loro tempo ad ascoltare e trascrivere migliaia di conversazioni (anche sul numero di casa del vicedirettore esecutivo) fatte o ricevute da giornalisti non indagati come il mio vice e il capo della redazione di Roma. Anche loro raggiunti da un provvedimento-esca mentre già i loro telefoni erano sotto controllo: esche costituite da convocazioni della Procura di Napoli nella veste di testimoni tra il 25 e il 28 giugno. E che cosa pensavano le brillanti menti investigative partenopee con l’avallo del gip che ha autorizzato questa enorme e inaudita attività di spionaggio? Scrive il giudice: «La ragionevole probabilità che, a oltre un anno dai fatti (in realtà sono due, ndr), le utenze in oggetto possano essere impiegate per comunicazioni utili allo sviluppo delle indagini discende dalla contestuale predisposizione di attività perquirenti che possono stimolare confidenze tra i soggetti coinvolti. Da queste considerazioni discende anche l’urgenza dell’attività intercettiva». Traduco: dopo due anni dai fatti convochiamo i giornalisti per essere interrogati (è l’«attività perquirente», vocabolo sconosciuto al Devoto-Oli) e origliamo al telefono se dicono qualcosa di utile alla nostra indagine. Non fa niente che alcuni di loro non siano sospettati di alcunché, non interessa che siano persone perbene: si intercetti alla ricerca del reato. E si intercettano anche conversazioni personalissime e delicatissime (che magari finiranno nelle mani di giornalisti guardoni), come molte di quelle che transitano sui telefoni di chi dirige un giornale. Cari lettori, questo non è più uno stato di diritto: è, da tempo, uno stato di polizia, come invano ripete il prigioniero politico Silvio Berlusconi. E badate bene: di questa inchiesta partenopea ci sono ancora molte cose da raccontare ed è quello che ovviamente faremo nei prossimi numeri. A cominciare da un dubbio che non ha ancora risposta. Perché si sa, per esempio, che i quattro pm avevano già chiesto di intercettare me, la mia segretaria e il cronista già nel maggio di un anno fa. Con che esito al momento non so. E soprattutto non so per quanto tempo in questi due anni i giornalisti di Panorama siano stati ascoltati nelle loro conversazioni private. Secondo voi, questo spiegamento di forze e di spese avviene per ogni fuga di notizie sui giornali? Non prendiamoci in giro. Se c’è da colpire Berlusconi o chi lo appoggia, la giustizia lenta si fa veloce e non bada a spese. Ora mio rivolgo a Lei, signor presidente della Repubblica, al quale la Costituzione assegna anche la guida del Consiglio superiore della magistratura. Mi rivolgo a Lei perché «ora», dopo la condanna del Cavaliere, ritiene maturi i tempi per una riforma della giustizia. Mi rivolgo a Lei perché anche Lei ha patito la violenza di una indebita e arbitraria intercettazione telefonica. Faccia sentire alta la Sua voce, pronunci parole nette per ristabilire le garanzie elementari nei confronti dei cittadini scolpite nella nostra Carta. Lo faccia prima che sia troppo tardi, prima che questo Paese sprofondi definitivamente nelle tenebre dell’arbitrio giudiziario e della tirannia della magistratura. Non c’è più tempo. Perché un bel tacer non fu mai scritto.
RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?
Scrive Marcello Adriano Mazzola su “Il Fatto Quotidiano”. Si invoca la riforma della giustizia come priorità assoluta. Silvietto strepita e i giornali riprendono l’accorato appello. Sono assolutamente d’accordo, non con lui, ma con la tesi della priorità assoluta. Lo scrivo da tempo e lo ribadisco. Occorre intendersi con chiarezza, senza il consueto velo di ipocrisia che connota questo Paese. Di “larghe intese” mica per niente. Chi oggi la invoca è volutamente in mala fede poiché postula una riforma tesa a condizionare l’autonomia della magistratura, per consentire alla politica di continuare a gestire impunemente interessi massonici, economici, illeciti, di enorme valore, la cui gestione in questi decenni ha demolito pezzo dopo pezzo la democrazia ed il sistema di tutela dei diritti, relegandoci agli ultimi posti nel mondo quanto a livello di libertà di stampa, efficienza della giustizia, pressione fiscale, corruzione, modernità etc. La finta-destra che invoca tale riforma vuole una magistratura che non intacchi la libertà del “potere politico” (esecutivo, legislativo, amministrativo), libertà che si pretende nel senso più libertario del termine, come libertà della condotta accompagnata da una impunità assoluta. Un tale progetto, riproposto, è eversivo e grave, contrastante il principio della divisione dei poteri che sorregge la nostra democrazia. All’opposto, occorre riflettere attentamente sulle posizioni della finta-sinistra che oppone le barricate ad un tale disegno (riforma in generale), ritenendo intoccabile la giustizia. Come se in Italia avessimo una giustizia degna di cotale nome. Invece abbiamo una melassa mal mostosa che chiunque abbia vissuto in prima persona, può raccontare come sia essa stessa fonte di nocumento e di danni alle parti processuali, soprattutto alla parte che ha subito l’ingiustizia. Sicchè la “giustizia ingiusta” si amplifica fino a stordire ed annichilire i diritti, mostrando una sordità ed una kafkiana presenza tale da scoraggiare di suo un secondo tentativo di accesso. Intendiamoci, la “giustizia ingiusta” è quella lenta (perché il tempo ha un ruolo fondamentale nella soppressione dei diritti), quella immotivata (con motivazioni errate in diritto e in fatto, frutto di errori), quella resa in mala fede o in conflitto di interessi (c’è anche quella, soprattutto per la giustizia amministrativa), quella arrogante (con giudici che non ascoltano, non studiano, non leggono, pieni di pregiudizi, schierata). C’è un sistema giustizia, stratificato ad arte nel tempo, che ostacola l’accertamento dei diritti invece che assumersi il ruolo e la responsabilità di rispondere ad esigenze di giustizia. Dalla complicatissima notifica degli atti (dopo vari anni, ancora oggi non è chiaro se si possa notificare via Pec, come, da chi e a chi!) allo pseudo processo telematico a macchia di leopardo (a pezzi, nel processo e geograficamente); dalla impunità assoluta del personale amministrativo inetto (cancellieri, ausiliari, ufficiali giudiziari) verso il quale avvocati e magistrati neppure presentano esposti, alla impunità assoluta dei magistrati (la c.d. responsabilità indiretta è merce rarissima, contandosi pochi casi a fronte di circa 16.000 giudici tra togati e non togati), sino agli Ordini degli avvocati che invece di sanzionare i propri iscritti per gravi illeciti impediscono pure l’accesso agli atti pur di proteggere l’iscritto (avrei voglia di raccontarvi della condotta di un ordine del Nord-ovest); dalle riformicchie mediocri introdotte in questi anni nel processo civile che invece di adottare un rito snello e celere (ricalcando il rito del lavoro), hanno inserito decine di incomprensibili novità (perché ancora dibattute dagli operatori del diritto), intimidatorie e sanzionatorie (descritte come deflattive, o yes) accostate ad una raffica di aumenti delle spese vive (contributi unificati moltiplicati n volte, marche aumentate per ogni battito di ciglia) finalizzate solo a impedire che si acceda al processo, privilegiando solo i benestanti. Il suggello di tale percorso lo si è veduto nuovamente con la reintroduzione della mediazione obbligatoria (in veste ammiccante, una sorta di squillo con abito bianco), ossia un ossimoro secondo cui i litiganti sono “obbligati a mediare”. Percorso che difatti l’Europa non ha indicato, pur sollecitando le Adr, quali misure alternative alla giurisdizione. La riforma dunque è necessaria e prioritaria ma la finta-sinistra vi si oppone. Ecco perché non si sa più nulla del processo Montepaschi di Siena e di tanti altri processi vitali. Meglio che la giustizia non sia poi così efficiente. Meglio un Paese storto che un Paese “diritto”. Un Paese bipartisan, appunto.
DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?
Da quanto tempo stiamo aspettando giustizia? «Da tempo immemorabile», dice Massimo Bordin intervistato da Ubaldo Casotto su “Il Foglio”. Carcerazione preventiva, uso politico delle indagini, gogna mediatica. Massimo Bordin, voce dei radicali e veterano della battaglia per la riforma del sistema, squaderna il suo archivio delle bestialità italiane. Parlare di giustizia con Massimo Bordin, storica voce di Radio Radicale, è come consultare un archivio, ma senza la fatica della ricerca. Gli diciamo dell’iniziativa di Tempi, “Aspettando giustizia”, e delle persone che vi partecipano: il generale Mario Mori, Ottaviano Del Turco… «Certo. Del Turco, sto seguendo il suo processo». Il caso dell’ex sindacalista, poi dirigente del Pd, arrestato nel 2008 per uno scandalo della sanità abruzzese e dimessosi dalla presidenza della Regione è per i più – anche tra i giornalisti – un fatto di cronaca del passato, finito prima di sapere come è andata realmente a finire. Bordin sta seguendo il processo.
Bordin, da quanto tempo l’Italia è un paese che “aspetta giustizia”?
Da tempo immemorabile. Il problema dell’amministrazione della giustizia e della carcerazione preventiva si trascina almeno dalla famosa legge Valpreda (1972, Pietro Valpreda, l’anarchico accusato della strage di Piazza Fontana, era in carcere da più di tre anni, fu poi assolto, ndr) che per la prima volta dovette affrontare il tema di una carcerazione preventiva che si andava protraendo oltre ogni logica. Da allora la legislazione sulla custodia cautelare è stata praticamente un elastico, secondo lo spirito del tempo l’hanno ridotta in alcuni momenti o allungata in altri. Ci sono stati casi, come quello del processo “7 aprile” (1979, contro le presunte “menti” delle Br), dove alcuni imputati hanno sopportato una carcerazione preventiva di quasi sei anni, a quel punto una condanna a cinque anni fa sorgere inevitabilmente il dubbio che se ci fosse stata una carcerazione preventiva più breve non si sarebbe giunti a quella condanna. Dopo che hai tenuto in galera uno quasi sei anni senza processo non è che gli puoi dire: mi sono sbagliato, arrivederci e grazie.
I pm d’assalto hanno radici profonde…
Non si è mai trovato un vero equilibrio fra i vari ruoli della magistratura. Gli anni Settanta sono stati anni di riforme in questo senso, ma se prima c’era un eccesso di rigore gerarchico che più che l’attenzione dei magistrati al diritto e al suo rispetto favoriva un ossequio all’ordine, ora quella tendenza è stata invertita dando un colpo di timone dalla parte opposta.
Perché in Italia è difficile definirsi garantisti, e si passa per i difensori dei corrotti, quando non dei mafiosi?
In questi anni è successa una cosa molto singolare, che riguarda i media. Mentre prima il processo, nel senso del dibattimento, era il momento nel quale l’opinione pubblica più direttamente entrava nel vivo e veniva informata delle questioni processuali, oggi l’attenzione al dibattimento è quasi scemata: ci sono grandi vicende giudiziarie che ci hanno appassionato e poi non ci ricordiamo più nemmeno come sono finite. Il massimo dell’attenzione si concentra sulla fase istruttoria durante la quale l’informazione viene quasi drogata. Alla fine, per il concorso di una serie di fenomeni che vanno quasi per conto loro, resta, comunque vada, uno stato di disagio, una certa insoddisfazione per come la giustizia ha funzionato. Già il fatto che si parli di garantismo e giustizialismo è la prova che qualcosa non funziona. Il vero garantista è quello che chiede il rispetto delle garanzie per l’imputato e però anche l’applicazione della legge, non la non applicazione. La distorsione è tale per cui lo scontro è tra due scuole di pensiero che chiedono entrambe l’applicazione della legge e hanno entrambe buone ragioni per mostrare che in alcuni aspetti della faccenda la legge non è applicata. C’è qualcosa che non va nel manico, e la situazione non tende minimamente a migliorare.
Va detto che molti politici quando parlano di legalità non sembrano molto credibili.
Facciamo i nomi: su alcuni punti Berlusconi ha ragione, in altri casi le sue difese sono evidentemente strumentali. D’altro canto sul lato opposto della barricata si ritrovano gli stessi difetti rovesciati. Se quando qualcuno parla di garanzie fa sorridere, quando altri parlano di applicazione della legge mettono paura.
Una tua denuncia costante è che la giustizia opera ormai prima del processo, sui media e nel dibattito pubblico, con la conseguente pena anticipata: carcerazione preventiva e gogna mediatica.
La giustizia opera addirittura fuori del processo, ormai si può, quasi in senso tecnico, parlare di amnistia occulta. La prescrizione è un modo di fatto per depenalizzare e non arrivare nemmeno al dibattimento a causa dell’elefantiasi dei tempi istruttori, per una serie di motivi che non possono sempre essere addebitati a una carenza di risorse. Chi segue queste faccende da una trentina d’anni sa che alla magistratura sistematicamente sono state date risorse in più, molto più che ad altri settori. È innegabile, non si può parlare di un settore trascurato dall’amministrazione, tutt’altro.
Come interrompere il cosiddetto circuito mediatico-giudiziario per cui finiscono puntualmente sui giornali carte coperte dal segreto istruttorio? Il giudice Marcello Maddalena propone pene amministrative significative per i giornalisti che pubblicano, sei d’accordo?
Perché ci deve andare sempre di mezzo il povero giornalista, che poi alla fine una firma la deve mettere, mentre chi gli passa le carte resta anonimo? È anche poco sportivo. La prima separazione delle carriere da fare nel mondo della giustizia è quella tra certi giornalisti e certi pubblici ministeri, perché sono quelle le carriere intrecciate. Il mio eroe Antonio Ingroia è riuscito addirittura a sommare le due parti nella stessa persona, gli hanno dato pure il tesserino da pubblicista e ha fatto un discorso in cui si definiva magistrato-giornalista. Perfetto, la sintesi ideale. Balza agli occhi pure di un bambino il collegamento tra un network di pubblici ministeri, gruppi inter-procure, e un network di giornalisti giudiziari, basta vedere chi aveva le anticipazioni delle carte e chi no delle indagini sulla “cricca”, sulla P3, sulla P4… quella roba lì… Si fa presto a vedere come funzionano certe filiere, e come si possono interrompere. Ci vorrebbe una parola forte da parte della magistratura nei confronti dei pm, ma anche, se avesse un senso la sua esistenza, dell’Ordine dei giornalisti nei confronti dei giornalisti. Perché non credo che il lavoro del giornalista sia semplicemente quello di fare il passacarte delle procure.
In nome del “se ho un documento lo pubblico” si rischia di diventare una buca delle lettere.
Questo senz’altro, fermo restando che se a me viene data una carta che viola il segreto istruttorio, se è una notizia io la pubblico. Però sta alla mia deontologia – la parola è inutilmente grossa – fare in modo che io non diventi una buca delle lettere, e non lo divento se non mi lego in un sodalizio perverso con chi mi passa le carte. Perché è evidente che chi me le passa ha interesse a vedere pubblicizzato il proprio lavoro, e poi non apprezzerebbe un atteggiamento eventualmente critico, a quel punto potrebbe chiudere i rubinetti delle indiscrezioni. Così il giornalista diventa non solo una buca delle lettere ma un pierre, perché deve in qualche modo anche valorizzare le carte che il pm gli dà apposta. Il circuito è assolutamente perverso.
Dici che è tutto così evidente, eppure sembra difficile denunciarlo. Ci ha provato il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, e mal gliene incolse.
Ci voleva l’ennesima uscita di Ingroia per far parlare l’Anm, che in questi anni, diciamo la verità, ha visto di tutto e di più ed è sempre stata zitta. Anche questo è un segnale che non fa ben sperare e rende evidente che ci sono dei comportamenti da cui persino l’Anm deve in qualche modo cercare di dissociarsi.
Tu auspichi un intervento della magistratura, ma chi potrebbe intervenire sembra intimidito. Ci è voluto il ricorso del capo dello Stato alla Corte costituzionale per scuotere in modo deciso le acque.
I poteri del presidente del Csm ci sono, ma sono molto relativi, se uno deve sbattere il pugno sul tavolo, deve alzare i toni. Tutti ricordiamo quando Francesco Cossiga, da presidente del Csm oltre che della Repubblica, arrivò ai ferri corti con quel consiglio, che fra l’altro era un dei più tosti e corporativi, minacciò addirittura di mandare i carabinieri a interrompere la seduta. Se il presidente deve farsi valere, inevitabilmente si arriva a una drammatizzazione dello scontro.
Giorgio Napolitano è stato coinvolto nelle intercettazioni per le indagini sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Voi radicali storicamente non siete certo stati teneri nei confronti delle devianze degli apparati della Repubblica, perché quest’indagine non ti convince?
Perché non sta in piedi. Io non ho alcuna difficoltà a credere che possano esserci state personalità politiche non solo colluse ma addirittura in alcuni casi quasi interne al fenomeno mafioso. Io questo non ho la minima remora a crederlo. Così come penso che possano esserci stati abboccamenti, magari attraverso intermediari, fra politici e mafiosi anche nell’epoca delle stragi. È molto probabile, da cronista dico solo che l’impianto accusatorio della “trattativa” così come finora si è mostrato, nelle carte consegnate al Gip, non regge. La stessa elevazione dei capi di imputazione è discutibile, non c’è bisogno di essere docente di procedura penale per capire la debolezza della contestazione del reato di minaccia al corpo dello Stato a Totò Riina; voglio vedere come ottengono una condanna per un signore che ha concretato quella minaccia in alcune stragi per le quali è già stato mandato all’ergastolo. Poi è assolutamente evidente, secondo il loro impianto accusatorio, il ruolo fondamentale dell’allora ministro della Giustizia Giovanni Conso; se è vero quello che dicono, il passaggio decisivo è stato quello delle sue scelte sull’attenuazione del 41 bis a molti mafiosi. Se è così, primo quei magistrati non hanno alcuna competenza, perché se non è un reato ministeriale quello non si vede quale lo sia, e quindi la competenza è del tribunale dei ministri; secondo, appare solo una furbizia quella di stralciare Conso e mantenere aperta l’indagine su di lui mentre la si chiude per gli altri. C’è poi il paradosso denunciato da Enrico Deaglio nel suo libro Il vile agguato: ma come, avete detto che il delitto Borsellino è un passaggio fondamentale della trattativa Stato-mafia e poi nella vostra indagine del delitto Borsellino manco ne parlate? Come è possibile? Ci sono incongruenze talmente palesi che mi fanno pensare che, come al solito, questa sia la tipica inchiesta mediatica.
Il sottinteso politico è che il tutto avrebbe spianato la strada alla discesa in campo di Silvio Berlusconi. Riesce difficile vedere l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro nelle vesti di promoter dell’uomo che ha poi strenuamente combattuto.
Non ha alcun senso, come molte cose in questa indagine. C’è un altro paradosso: si protrae il periodo delle stragi sino alla fine del 1993, e quindi arrivando in limine alla famosa discesa in campo di Berlusconi, prospettando l’ipotesi di un attentato che praticamente non ha lasciato nessuna traccia: allo Stadio Olimpico di Roma doveva esplodere una macchina uccidendo centinaia di carabinieri e non solo. La macchina non l’hanno mai trovata, ci fidiamo, tra gli altri, della parola di un signore, Gaspare Spatuzza, che dice: la macchina c’era io ho premuto il telecomando, però non ha funzionato. E allora ce ne siamo andati a casa, poi la macchina l’hanno rimossa. L’ultimo attentato che si situa in un momento cronologico fondamentale per il discorso sulla preparazione della discesa in campo di Berlusconi, è un attentato del quale non c’è traccia.
Il circuito mediatico-giudiziario ha dimostrato sin qui di saper funzionare bene. Pensi che la divulgazione della notizia dell’esistenza delle intercettazioni del capo dello Stato sia stato un passo falso?
Hanno esagerato, ma viene il dubbio che non tutto il male vien per nuocere. Non dico che l’abbiano fatto apposta, ma dall’incidente hanno saputo trarre profitto, è stata quella la principale cassa mediatica su un’inchiesta che piano piano si stava sfarinando. Hanno consegnato gli incartamenti al Gip, se non ci fosse stata la notizia delle telefonate, la polemica che ne è nata, la raccolta delle firme… oggi la posizione di chi deve giudicare le carte di Ingroia sarebbe molto più semplice, potrebbe decidere con maggiore serenità.
Che effetto ti ha fatto questa operazione extragiudiziale di raccolta firme a sostegno di un’indagine?
La consegna delle firme è una buffonata senza pari, supera quella della passeggiata in Galleria Vittorio Emanuele a Milano del pool di Mani pulite all’epoca di Tangentopoli. C’è una foto che immortala quella consacrazione popolare, qui siamo oltre. È una evidente pressione sul Gip. Ingroia da questo punto di vista ha un suo palmares, le due inchieste che lui avviò su Berlusconi e Dell’Utri come committenti delle stragi sono state per due volte bocciate dal Gip, non sarebbe clamoroso se succedesse anche questa volta. Certo con questo bailamme sulle telefonate quirinalesche il Gip ha un compito meno facile.
Il palazzo del potere deve essere di vetro per poterci guardare dentro. Come rispondi all’argomento della trasparenza?
È la classica argomentazione che ti costringe alla difensiva, a evocare la necessità di una zona grigia del potere che comunque c’è sempre stata, e fai inevitabilmente la figura di quello che in qualche modo copre l’omertà di Stato o chissà che. E questa è un’altra questione che non si riesce a dirimere. In America è un fatto normale, dopo un certo numero di anni, pubblicare libri con documenti desecretati. C’è una cultura per cui la trasparenza ha delle eccezioni, la riservatezza va difesa, ma non è mai assoluta, o per motivi di tempo o per motivi che la rendono alla fine inutile. Il problema non è trasparenza od oscurità, ma regola. In Inghilterra il sistema dei media funziona anche sulla fiducia, se circolano alcune notizie ritenute relative alla sicurezza nazionale, un funzionario convoca i direttori dei giornali e dice loro: queste notizie non devono uscire. E non escono. Forse che la stampa inglese non è libera?
GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.
Giudici, non diventate 'casta', scrive Massimo Cacciari su “L’Espresso”. Non può essere un potere politico sempre meno autorevole a riformare la giustizia. Devono essere i magistrati a farsi promotori dei cambiamenti necessari. Pena il rischio di perdere credibilità. Facendo così il gioco di chi per anni ha cercato di delegittimarne autonomia e azione. Un regime politico qualsiasi che possa essere sconvolto da indagini e decisioni della magistratura denuncia per ciò stesso il suo profondo stato di crisi. E ancora di più un partito che si dichiara a priori acefalo (cioè decapitato, cioè crepato), nel caso un suo leader, magari anche maximo, venga, a ragione o a torto, condannato. Fosse però possibile, per una volta, porre tra parentesi tali evidenti, drammatiche anomalie, dovremmo interrogarci sul nodo dei rapporti oggi tra politica e magistratura con uno sguardo alquanto più "globale". Il concetto di "divisione dei poteri" su cui si regge lo Stato di diritto non ha nulla di statico o pre-determinabile. Esso vale in astratto come garanzia di ciascun potere nei confronti degli altri. Ma non garantisce affatto che ciascuno abbia uguale potere. Possono determinarsi situazioni storiche in cui il potere giudiziario è oggettivamente (e non per ignoranza o malafede o perché il regime è in sé autoritario) "egemonizzato" dall'autorità politica. L'élite dirigente che si forma è, allora, mista. Così fu in Italia sostanzialmente fino agli anni '70. Ragioni altrettanto storiche hanno condotto alla sua rottura. Fino a determinare la fine di ogni "immunità". A un tempo, è la necessità di perseguire reati di tipo economico e finanziario, o attività criminali per loro natura "globali", a rendere, almeno potenzialmente, l'ambito di intervento della magistratura "superiore" a quello in cui si esercitano gli altri poteri, ancora ridotti, in sostanza, nei confini di sovranità territorialmente determinate. Questi ed altri fattori non di carattere occasionale o contingente, né riferibili ad personam alcuna, hanno prodotto una dissimmetria nella divisione dei poteri, non solo in Italia. Richiamarsi agli antichi principi serve a poco. La stessa confusione legislativa, che è caratteristica di regimi in crisi, favorisce prepotentemente la tendenza che il realismo giuridico ha sempre riconosciuto: parte integrante della legge è la sua stessa interpretazione. Né l'interpretazione è isolabile alla sola decisione-sentenza, poiché essa pervade la stessa procedura che nei diversi casi viene seguita, lasciando larghi, inevitabili margini al "libero arbitrio". La decisione-sentenza inizia con l'impostazione della stessa indagine. Che in tale situazione possano emergere dèmoni inquisitori o, se non ideologie di giustizia redentrice, tentazioni di "supplenza" al Politico, lo diceva un Bruti Liberati 15 anni fa ( lo dicevano tutti i garantisti "di sinistra" all'epoca della legislazione di emergenza anti-terroristica, restando affatto inascoltati). Il rilievo estremo che ha perciò assunto il problema della giustizia e del potere della magistratura non potrà essere esorcizzato con leggi o grida provenienti da un potere politico sempre meno autorevole. Ma è questione che dovrebbe essere assunta in primis dagli organi stessi della magistratura con spirito innovativo. Questo è ciò che è mancato da Tangentopoli in poi. Qui sta il problema: nelle capacità o incapacità di intendere la necessità di una propria riforma da parte di questo settore fondamentale della classe dirigente del Paese. Il conflitto si è svolto finora, a me pare, tra due conservatorismi: quello (più reazionario che conservatore, invero) nostalgico di "immunità" defunte per sempre, e quello che si ostina a trincerarsi dietro il sacrosanto principio dell'indipendenza della magistratura, senza riconoscere i pericoli connessi alla situazione che ho indicato. I temi della maggiore collegialità, della responsabilità dei magistrati in accordo con l'art. 28 della Costituzione, della parità effettiva tra difesa e accusa in ogni fase del procedimento, una volta formalmente aperto, e molti altri altrettanto gravi, non appaiono più rinviabili. E' la magistratura "custode del diritto" che è chiamata oggi a contribuire a definire le nuove norme capaci di "custodirla". Nulla sarebbe oggi più letale per la democrazia italiana di una magistratura che finisse con l'apparire una "casta" tra le altre, facendo così perfettamente il gioco di chi per anni ha cercato di delegittimarne autonomia e azione.
Da un paradosso ad un altro.
DA UN SISTEMA DI GIUSTIZIA INGIUSTA AD UN ALTRO.
Le 10 condanne record nella storia degli Usa. Bradley Manning rischia di essere condannato a 140 anni di carcere. Ma quali sono state le condanne più severe in passato? Scrive Michele Zurleni su “Panorama”. Si è salvato dall'accusa più pesante, "complicità con il nemico", il reato che prevedeva l'ergastolo, ma Bradley Manning rischia di dover subire una durissima condanna. Sulla base delle imputazioni, la talpa che ha passato i documenti riservati del Pentagono e del Dipartimento di Stato a Wikileaks, potrebbe non uscire mai più di prigione: la pena potrebbe arrivare fino a quasi 140 anni di carcere. Non un fatto inusuale per la giustizia americana. In passato sono state diverse le condanne record. Questo è l'elenco delle dieci più severe.
1) Charles Scott Robinson, 30.000 anni di carcere
I giurati del suo processo dissero che volevano essere sicuri che non uscisse mai più di prigione. Era il 1994, eravamo in Oklahoma e questa sentenza ha stabilito un record che non è stato ancora eguagliato. La più alta pena mai inflitta in un tribunale statunitense. Robinson era stato arrestato per aver stuprato dei bambini. Per ogni atto di violenza, 5.000 anni di carcere. Il giudice non voleva che l'allora trentenne potesse ottenere la grazia e uscire dal carcere dopo qualche anno, circa 15 anni, come accade in media. Per cui stabilì una pena che, di fatto, lo condannava a vita. Secondo i suoi calcoli, infatti, l'uomo avrebbe potuto fare domanda di perdono solo all'età di 108 anni.
2) Dudley Wayne Kyzer, 10.000 anni di carcere
Nel 1981, per aver ucciso la moglie, l'uomo ebbe questa condanna del tribunale dell'Alabama che lo giudicò. E per aver assassinato la suocera e un ragazzo, la corte decise che Kyzer doveva essere anche condannato all'ergastolo per ognuno dei due omicidi. Due vite intere in carcere più diecimila anni. Un altro record della giustizia americana. Ma il giudice disse che quello che aveva commesso Kyzer era stato troppo crudele per essere più clemente con lui..
3) Darron Bennalford Anderson, 2.200 anni di carcere
Per i reati di sodomia, stupro e rapimento di minore, venne condannato in Oklahoma nel 1994 a più di venti secoli di carcere. Fece appello e stabilì un nuovo record. La sua pena venne aumentata invece che diminuita. Di alcuni secoli. Poi, in un altro appello, venne ridotta di 500 anni. Alla fine, rimase la pena originaria. Anche in questo caso, il giudice voleva essere sicuro che l'uomo non potesse chiedere perdono dopo pochi anni. Ma solo dopo qualche secolo.
4) Peter Malloy, 1000 anni di carcere
L'ex proprietario del canale televisivo TV33 di Lagrange, in Georgia, è stato condannato nel 2013 per sfruttamento e abusi sessuale di minori. Cinquanta i casi accertati, per ognuno dei quali, Malloy ha preso 20 anni di prigione, in totale, dieci secoli di prigione. Era stato arrestato nel 2011 dopo una denuncia. Durante le perquisizioni, gli inquirenti ritrovarono migliaia e migliaia di file di materiale pedopornografico. Poi, il processo e la condanna.
5) Bobbie Joe Long, 28 ergastoli e una condanna a morte
Un serial killer della Florida, che ha avuto una sorta di record di condanne. Per i suoi reati, dieci omicidi, più rapimenti e violenza carnale, Long ha collezionato una condanna a cinque anni di carcere, quattro a novantanove anni di carcere, 25 ergastoli senza possibilità di perdono, 3 con possibilità di grazia e una condanna a morte sulla sedia elettrica, che deve essere ancora eseguita.
6) Ryan Brandt e Jeffrey Kollie, sette ergastoli a testa e 265 anni di carcere per ogni rapina
Non avevano commesso delitti, non avevano stuprato, ma erano dediti alle rapine a mano armata. La giustizia della Georgia non è stata leggera con loro. Nel 1996, dopo la loro cattura, il giudice decise di dar loro una condanna esemplare, che fosse da monito anche agli altri rapinatori. I loro legali, ma non solo, protestarono con forza per quella dura condanna. Voleva dire buttare via la chiave della prigione in cui venivano rinchiusi due persone che altrimenti, sosteneva l'avvocato, avrebbero potuto redimersi. La condanna è arrivata dopo che i due avevano rifiutato un patteggiamento che li avrebbe tenuti 40 anni in carcere.
7) Sholam Weiss, 845 anni di carcere
La sua data di rilascio, in questo momento, è il 23 novembre 2754. Processato nel 2000 per la bancarotta del National Heritage Life Insurance, accusato di frode e di riciclaggio, di aver truffato e sottratto milioni i dollari ai pensionati che avevano investito i loro fondi, Sholam Weiss ha un poco invidiabile record sulle sue spalle: è il “colletto bianco” a cui è stata inflitta la pena più severa.
8) Mark Anthony Beecham, 645 anni di carcere
Rapimento e violenza sessuale su minori Il 25enne dell'Alabama è stato condannato nel 2012 a 99 anni per ogni reato per il quale è stato ritenuto colpevole. Dopo la sentenza, ha protestato, dicendo di non avere avuto un processo equo. Quella do Beecham è stata la seconda condanna più pesante nella storia dell'Alabama dopo quella inflitta a Dudley Wayne Kyzer.
9) Norman Schimdt, 330 anni di carcere
La sua data di rilascio è il 12 settembre 2291. Norman Schimdt è al secondo posto della speciale graduatoria dei “colletti bianchi” condannati con le pene più alte. E'rinchiuso in un carcere in Texas e al processo è stata ritenuto colpevole di aver architettato una truffa milionaria.
10) Bernard Madoff, 150 anni di carcere
Un nome famoso, una truffa clamorosa, una condanna esemplare. L'uomo d'affari newyorchese, protagonista della più grande truffa finanziaria nella storia degli Usa, 65 miliardi di dollari, una vera e propria montagna di denaro, è rinchiuso nel penitenziario di stato di Butner e la sua data di rilascio è il 14 novembre 2139.
E, infine, un altro caso esemplare, quasi da record, non per la lunghezza della pena, ma per le condizioni in cui scontata
10 (ex equo) William Blake, 77 anni di carcere, 26 passati in assoluto isolamento
In una lettera spedita ad un'associazione di carcerati, occasione unica nell'ultimo quarto di secolo, quest'uomo, arrestato per l'uccisione di un poliziotto nello stato di New York, ha raccontato il suo calvario: ventisei anni passati in totale isolamento, per decisione del giudice che l'aveva condannato per l'omicidio a 77 anni di carcere. “Non vedo la televisione dagli anni'80 e non ho mai utilizzato un telefono cellulare” - ha raccontato William Blake. “Tu devi passare il resto dei tuoi giorni all'inferno” gli avrebbe detto il giudice del suo processo nel 1987. Da allora ha vissuto nella sezione d'isolamento della prigione di Elmira: 23 ore in cella, niente televisione, possibilità di telefonare o di fare attività ricreative o sportive. Sepolto vivo.
IN ITALIA, VINCENZO MACCARONE E' INNOCENTE.
Il magistrato Vincenzo Maccarone è innocente. Il Gup di Roma, Roberta Palmisano, ha prosciolto l’alto magistrato dall’accusa di corruzione in atti giudiziari con la formula pi ampia: il fatto non sussiste. Finisce così il calvario dell’ex sostituto procuratore generale della Cassazione, un calvario iniziato l’8 maggio del 2007. Quella sera un gruppo di agenti della Guardia di Finanza avevano bussato alla porta di casa del giudice Maccarone. Scattarono le manette e l’alto magistrato venne condotto nel carcere di Regina Coeli, rinchiuso in una cella di isolamento. L’arresto era nato da un’indagine condotta dai Pm della Procura di Perugia, Sergio Sottani e Claudio Cicchella. Secondo i Pm, Maccarone avrebbe ricevuto in regalo una giacca e un fucile da caccia dal costruttore L. G.. Lo scopo: aiutare G. a risolvere un procedimento giudiziario. Una giacca e un fucile da caccia, una carriera distrutta. Maccarone trascorrerà un mese in carcere. Poi due mesi all’obbligo di dimora nel comune di Osimo. Il Csm lo sospende, in via cautelare, dalle funzioni e dallo stipendio. Una volta scarcerato, il Csm dispone il trasferimento di Maccarone dalla Procura generale di Roma alla Corte d’appello de L’Aquila. Da allora sono passati due anni e il gup Palmisano, il 16 luglio scorso, ha accertato che Maccarone e gli altri imputati sono innocenti. 16 luglio 2009. Il magistrato Vincenzo Maccarone è stato assolto, scrive Riccardo Arena su “Il Detenuto Ignoto”. Il Gup di Roma, Roberta Palmisano, ha prosciolto l’alto magistrato dall’accusa di corruzione in atti giudiziari con la formula più ampia. Il fatto non sussiste. Vincenzo Maccarone è innocente.
8 maggio del 2007. È sera. Un gruppo di agenti della Guardia di Finanza bussano alla porta di casa del giudice Maccarone. Scattano le manette. Il magistrato viene condotto nel carcere di Regina Coeli. È rinchiuso in una cella di isolamento. È la notte più difficile nella vita dell’alto magistrato. Un magistrato stimato da tutti. L’arresto nasce da un’indagine condotta dai Pm della Procura di Perugia, Sergio Sottani e Claudio Cicchella. Secondo i Pm, Maccarone avrebbe ricevuto in regalo una giacca e un fucile da caccia dal costruttore G. Lo scopo: aiutare G. a risolvere un procedimento giudiziario. Una giacca e un fucile da caccia. Una carriera distrutta. Maccarone trascorrerà un mese in carcere. Poi due mesi agli arresti domiciliari. Il Csm lo sospende, in via cautelare, dalle funzioni e dallo stipendio. Una volta scarcerato, il Csm dispone il trasferimento di Macccarone dalla Procura generale di Roma, alla Corte d’appello de L’Aquila. Passano 2 anni e un Giudice accerta che Maccarone, e gli altri imputati, sono innocenti. Sulle agenzie stampa di questo errore giudiziario ovviamente non c’è traccia. Ma è questa una vicenda che comunque deve far riflettere. Una riflessione che deve riguardare la Giustizia di oggi. Una riflessione che deve essere però condotta con un approccio concreto, e non accademico. Riflettere sulla concreta efficacia di una regola. Riflettere sul modo in cui concretamente la regola viene applicata. Un approccio concreto che deve suggerire riforme concrete. Riforme che devono riguardare sia norme che magistrati. Inutile girarci intorno. Maccarone, come tanti altri imputati ignoti, non doveva essere arrestato. La regola di diritto è stata violata. Senza una riflessione concreta su casi come questo, non si andrà lontani. La giustizia, sarà sempre più inefficiente e, con essa, la magistratura sarà facile bersaglio di riforme insensate fatte da un legislatore incapace. Occorre fermarsi e riflettere.
TOGHE SCATENATE.
Tempi ad personam per Berlusconi: già emesso e notificato il decreto di carcerazione. Revocato il passaporto, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Altro che procedura ordinaria. Neanche il tempo che si asciughi l'inchiostro sulla sentenza, e la Cassazione mette il turbo alla macchina destinata a eseguirla e a privare Silvio Berlusconi del seggio di senatore, della possibilità di espatriare e - alla fine, non si sa come né quando - della libertà. Le sentenze sotto i cinque anni di solito viaggiano da Roma a Milano per posta ordinaria, e anche in questo caso tutti si attendevano che la prassi venisse rispettata. Invece alle 20 e 31 di giovedì dalla cancelleria della sezione feriale della Cassazione il fax con la condanna parte per l'ufficio di Manlio Minale, procuratore generale a Milano: dove però a quell'ora non c'è nessuno, proprio perché nessuno si aspettava tanta fretta. Ieri mattina, alle 7 e 59, un cancelliere insolitamente mattiniero della Cassazione rimanda il fax: stavolta al numero dell'ufficio esecuzione della Procura generale. Gli impiegati lo trovano poco dopo, arrivando in sede. È il segnale del via. La macchina dell'esecuzione è partita. Perché tanta fretta? Cinque o sei giorni non avrebbero cambiato niente. L'unica spiegazione possibile è che a Roma o a Milano qualcuno fosse convinto che Berlusconi si preparasse a scappare, e che per questo fosse urgente ritirargli il passaporto. Per questo si è voluto tagliargli le vie di fuga verso una sua personale Hammamet. La Procura di Milano, vista la rapidità d'azione della Cassazione, si mette al passo. Il sostituto procuratore generale Antonio Lamanna legge il fax e lo trasmette al piano di sopra, nelle mani di Ferdinando Pomarici: 71 anni, uno dei grandi vecchi della Procura milanese, il pm dei processi a Prima Linea e del caso Calabresi. Duro era e duro è rimasto. Vicino alla pensione, Pomarici si occupa di un ufficio usualmente defilato, l'ufficio esecuzione. Che però in questo caso diventa un ufficio delicato. Pomarici non perde tempo. Apre un fascicolo intestato a «Berlusconi Silvio». Emette il decreto di carcerazione, e subito dopo il decreto che sospende l'esecuzione della pena per dare il tempo al condannato di chiedere misure alternative. Poi fa partire tre copie del provvedimento. Una è per i carabinieri, che devono mettersi alla ricerca di Berlusconi. Uno è per la questura di Milano, che ha rilasciato il passaporto al Cavaliere e che deve revocarlo. Il terzo, ed è quello che arriva per primo a destinazione, è per il Senato, perché provveda - in applicazione del decreto legge anticorruzione del governo Monti, che porta la firma di Angelo Alfano e che molti avevano accusato di essere troppo morbido - a dichiarare decaduto l'ex presidente del consiglio dallo scranno di Palazzo Madama. Subito dopo è la questura di Milano a dare immediata esecuzione all'ordine della Procura. Il passaporto rilasciato al cittadino Berlusconi viene revocato «su ordine dell'autorità giudiziaria». A farsi riconsegnare materialmente il documento provvederà la questura di Roma, dove - secondo quanto ha verificato in tempo reale la Procura - il Cavaliere ha trasferito da poco la sua residenza. Ma la revoca del passaporto è già stata inserita nel database delle forze di polizia. Se oggi Berlusconi cercasse di espatriare - anche per una vacanza o un impegno politico - si vedrebbe respinto alla frontiera. Anche il passaporto diplomatico di cui gode, rilasciato dal ministero degli Esteri, verrà revocato in queste ore. Sono misure a loro modo burocratiche, ovvie. Ma che segnano una svolta epocale nel percorso giudiziario, umano e politico di Berlusconi. Di visite dei carabinieri il Cavaliere ne ha già ricevute tante, a partire dal giovane ufficiale che il 22 novembre 1994 gli portò a Napoli il primo avviso di garanzia. Ma la visita di ieri del generale Maurizio Mezzavilla a Palazzo Grazioli racconta tutta un'altra storia. Nel foglio che gli consegna il generale gli viene comunicata la sua prima sconfitta. Certo, c'è la sospensione della pena, ci sono trenta giorni di tempo - che poi diventeranno più di settanta per via delle vacanze - per decidere le prossime mosse. Ma il foglio era intestato: «Ordine di esecuzione». Non deve essere stato un bel momento.
Il pm Fabio De Pasquale aggiunge un nuovo "primato" al suo lungo curriculum: fu il primo a ottenere una condanna definitiva per Bettino Craxi, oggi invece è il primo ad ottenere una condanna definitiva per Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. Il Cavaliere dopo un assedio durato vent'anni perde il suo status di incensurato, e le brutta nuova arriva al termine di un'inchiesta firmata proprio dalla toga De Pasquale, che anni fa fece incriminare il leader socialista nell'affare Eni-Sai. Erano i tempi di Tangentopoli, De Pasquale agiva all'ombra di Antonio Di Pietro, era il volto semisconosciuto della Procura milanese. Anche oggi non è una delle toghe più celebri, nonostante la lunga indagine su Mediaset, iniziata nel 2001. Di sicuro, a Milano, ben più riconoscibile di lui c'è Ilda Boccassini, la grande accusatrice nel caso Ruby, la toga che ha fatto sfilare le Olgettine in aula e che, per ora, si è dovuta accontentare di una condanna soltanto in primo grado, seppur molto più pesante (sette anni e interdizione a vita per Berlusconi). Che beffa, per Ilda la rossa, bruciata sul traguardo dal collega De Pasquale (che, per altro, può fregiarsi delle migliori stellette anti-Cav: in quattro anni ha istruito tre processi contro l'ex premier).
CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI
L'importanza della pronuncia della Suprema Corte è sotto gli occhi di tutti. Ma chi sono i cinque giudici chiamati a decidere? Ecco chi compone il collegio dei magistrati della Corte di Cassazione chiamata a dire l'ultima parola sul processo Mediaset che vede tra gli imputati l'ex premier Silvio Berlusconi. Iniziamo dal 'sesto', dal primo presidente della Corte di Cassazione che ha scelto il collegio giudicante. Si chiama Giorgio Santacroce e la sua nomina a primo presidente ha 'spaccato' il voto del Csm tra i suoi sostenitori (le correnti di centrodestra) e i contrari. A pesare, meglio chiarirlo, nessun genere di ombra particolare, ma una conoscenza con Cesare Previti, l'ex avvocato di Silvio Berlusconi (già parlamentare di Forza Italia), pregiudicato per corruzione in atti giudiziari. Santacroce viene ascoltato come teste nei processi Sme e Imi-Sir che vedevano Previti imputato: "L'ho visto tre o quattro volte. Ho preso parte a una cena nello studio di via Cicerone" risponderà Santacroce alle domande del magistrato sui suoi rapporti con Previti.
ANTONIO ESPOSITO - È Nato a Sarno il 18 dicembre 1940. In magistratura dal 1965, in Cassazione dal 1985. Presidente della Seconda sezione penale. Nel suo curriculum figurano la conferma di condanne a personaggi eccellenti: l'ex governatore Siciliano Totò Cuffaro, l'ex parlamentare Pdl Massimo Maria Berruti, l'ex governatore di Bankitalia Antonio Fazio. E' stato sempre lui a firmare le ordinanze di custodia cautelare in carcere per i parlamentari Pdl Nicola Cosentino e Sergio De Gregorio. Nel 2011 ha condannato Totò Cuffaro e poi gli ha riconosciuto di «aver accettato il verdetto con rispetto» dando «una lezione per tutti, in tempi così burrascosi intorno alla giustizia». Il presidente della sezione feriale che giudicherà Berlusconi è Antonio Esposito. Una famiglia di magistrati la sua: il figlio Ferdinado è il procuratore aggiunto di Milano, il fratello Vitaliano fino all'aprile 2012 è stato Procuratore Generale della Corte di Cassazione. Ferdinando ha frequentato in passato Nicole Minetti, imputata nel processo Ruby-bis. Frequentazione che gli ha creato qualche imbarazzo perchè è proprio la Procura di Milano ad accusare l'ex consigliera regionale del Pdl di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Vitaliano è il Pg finito nelle intercettazioni della Procura di Palermo dell'inchiesta sulla trattativa stato-mafia. Al telefono con Nicola Mancino, oggi imputato per falsa testimonianza /che lo chiama "guagliò"), si dice "a disposizione" dell'ex ministro che coinvolgerà il Quirinale (Napolitano e il consigliere D'Ambrosio) e il Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso in una serie di telefonate allo scopo di ottenere (senza riuscirci) l'avocazione o il 'coordinamento' delle indagini di Palermo. Gli altri quattro componenti del collegio sono Amedeo Franco (relatore), Claudio D'Isa, Ercole Aprile e Giuseppe De Marzo. Franco è consigliere della terza sezione penale della Cassazione, che ha prosciolto Berlusconi da un'altra accusa di frode fiscale relativo al processo Mediatrade. Tutti i componenti vengono descritti come conservatori, quindi nessun problema di uso politico della giustizia per il quattro volte Presidente del Consiglio. Persino chi sostiene l'accusa (Antonio Mura) è iscritto a Magistratura Indipendente (corrente di destra di cui è stato anche presidente), collaboratore del Pg Gianfranco Ciani (subentrato a Esposito), finito anch'esso coinvolto nelle manovre di Mancino per sfilare l'inchiesta sulla trattativa alla Procura di Palermo.
AMEDEO FRANCO - Beneventano di Cerreto Sannita, è nato il nove agosto 1943. Magistrato dal 1974. In Cassazione dal 1994. In servizio alla Terza sezione penale competente per i reati tributari, è affidata a lui, per la sua specializzazione, la relazione dell'udienza Mediaset, e sarà lui a scriverne le motivazioni. Ha già fatto parte del collegio che ha confermato l'assoluzione di Berlusconi per il filone Mediatrade.
CLAUDIO D'ISA - Nato a Napoli il 28 aprile del 1949, vive a Piano di Sorrento, dove è un animatore del Rotary Club per quanto riguarda convegni sulla legalità e contro il crimine organizzato. Veste la toga dal 1975. Presta servizio alla Quarta sezione penale della Cassazione ed è anche componente della Commissione tributaria regionale della Campania.
ERCOLE APRILE - Leccese nato il primo ottobre 1961, è in magistratura dal 1989. Giudice nella sua città e poi è approdato alla Suprema Corte.
GIUSEPPE DE MARZO - Classe 1964, il più giovane del collegio. Nato a Bari, in servizio dal 1991. Ha iniziato a Taranto.
ANTONIO MURA - Sassarese, nato il 14 novembre del 1954. Togato dal 1984, è in Cassazione dal 1994. Uomo di spicco della Procura, è stato presidente di Magistratura Indipendente.
CHI E' ANTONIO ESPOSITO.
Chi è Antonio Esposito?
Antonio Esposito è il presidente della sezione feriale. La sua è una famiglia di magistrati. Il figlio Ferdinando, procuratore aggiunto di Milano, ha conosciuto in passato Nicole Minetti, condannata in primo grado nel processo Ruby bis. Una conoscenza che gli ha creato qualche problemino in Procura, visto che è proprio la Procura ad accusare la Minetti di induzione e favoreggiamento della prostituzione. Un articolo di Esposito conferma l'antipatia verso Berlusconi e il suo governo: "C'è un disegno per intaccare il principio di legalità", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Un «disegno volto a intaccare profondamente il principio di legalità». Un'opera «devastante: delegittimazione della magistratura e disarticolazione del sistema giudiziario». Si è tentato di «offuscare il periodo luminoso di Tangentopoli». Non esiste «una magistratura giustizialista e politicizzata» che abbia «eliminato, per via giudiziaria, interi partiti e uomini politici democraticamente eletti». È «sistematico e costante l'attacco lanciato ai magistrati» quando «le decisioni emanate non corrispondevano alle attese e ai desiderata degli imputati eccellenti». La legge Cirielli è stata adottata «imprudentemente». E la riforma della giustizia ipotizzata dal centrodestra è semplicemente da incenerire. Sono frasi scritte dal giudice Antonio Esposito, il presidente della sezione di Cassazione che ha definitivamente condannato Silvio Berlusconi. Risalgono all'aprile 2011: evidentemente l'antipatia verso l'ex presidente del Consiglio e le riforme giudiziarie attuate o prospettate dai suoi governi è di antica data. L'articolo è stato pubblicato sulla Voce delle voci, il mensile erede della Voce della Campania («fino al 1980 quindicinale del Pci», si legge sulla presentazione online) diretto, tra gli altri, da Michele Santoro. Esposito, che il periodico esalta per aver «recentemente condannato Totò Cuffaro», sotto il titolo «La toga è nobile» attacca Berlusconi benché si guardi bene dal nominarlo esplicitamente. Egli ritiene che «in questi ultimi anni» sia stato avviato un meccanismo per scardinare il rispetto delle leggi, tentando «di ridurre gli spazi di quel controllo di legalità che spetta alla magistratura». E ciò è avvenuto con la «delegittimazione della magistratura» e la «disarticolazione» del nostro ordinamento giudiziario, con «parole d'ordine costruite in modo interessato, attraverso continue interviste, dibattiti politici e mediatici». Annullamenti e prescrizioni non dipendono dalla lentezza della giustizia o da errori giudiziari, ma «dall'aver cambiato le regole in corso di partita, modificando le norme che regolavano i criteri dell'acquisizione e della valutazione della prova». Esposito critica la stessa Cassazione, in particolare «due mai troppo vituperate decisioni delle Sezioni Unite» che applicavano una legge del centrosinistra. E aggiunge: «Non meno sistematico e costante, in questi ultimi anni (cioè con i governi Berlusconi, ndr), l'attacco lanciato ai magistrati ogni qualvolta le decisioni emanate non corrispondevano alle attese e ai desiderata degli imputati eccellenti. Fino al punto di ipotizzare che i magistrati dovevano essere antropologicamente diversi e, quindi, mentalmente disturbati, costituendo essi anche una metastasi per il Paese». Ma i colpi più pesanti riguardano il tentativo di riforma, che «suscita enorme preoccupazione». La separazione delle carriere è tesa a «creare le premesse per un futuro controllo del governo sull'operato della magistratura». La modifica della composizione del Csm «porterebbe inevitabilmente a una sottomissione dell'organo di autogoverno e, quindi, della magistratura, al potere politico e, in particolare, a quello dell'esecutivo in carica». E la famigerata «legge bavaglio» sulle intercettazioni «mette in serio pericolo i principi fondamentali della libertà di pensiero e del diritto dei cittadini all'informazione». Quanto a Berlusconi, per farlo fuori Esposito riesuma il «principio di distinzione tra responsabilità politica e responsabilità penale approvato dalla Commissione parlamentare antimafia nel 1993 con una larghissima e inedita maggioranza (Dc, Pds, Lega, Rc, Pri, Psi, Psdi, Verdi, Rete)». Quell'accordo di larghissime intese «stabiliva che il Parlamento ed i partiti, sulla base di fatti accertati che non necessariamente costituiscono reato, potessero comminare delle precise sanzioni politiche, consistenti nella stigmatizzazione dell'operato e, nei casi più gravi, nell'allontanamento del responsabile dalle funzioni esercitate». Bandire i politici senza nemmeno giudicarli: un bel sollievo per il giudice Esposito e i suoi colleghi.
Intervista esclusiva al giudice Esposito rilasciata ad Antonio Manzo su “Il Mattino”: «Berlusconi condannato perché sapeva». Il presidente della sezione feriale della Corte di Cassazione spiega la sentenza: l'ex premier era a conoscenza del reato. Silvio Berlusconi non è stato condannato «perché non poteva non sapere», ma «perché sapeva»: era stato informato del reato. Così il giudice Antonio Esposito, presidente della sezione feriale della Cassazione, spiega la sentenza di condanna per il Cavaliere in una intervista esclusiva al Mattino. «Nessuna fretta nel processo. Abbiamo solo attuato un doveroso principio della Cassazione, quello di salvare i processi che rischiano di finire in prescrizione». E quello Mediaset sarebbe andato prescritto il primo agosto scorso. «Abbiamo deciso con grande serenità» aggiunge il magistrato. Sulle polemiche che negli ultimi giorni lo hanno colpito dal fronte berlusconiano, il presidente preferisce non replicare: «La mia tutela avverrà nelle sedi competenti». Aggiunge: «Ero per la diretta tv, ma avremmo turbato il processo».
Giudice Esposito, può esistere, chiamiamolo così, un principio giuridico secondo il quale si può essere condannati in base al presupposto che l’imputato «non poteva non sapere»?
«Assolutamente no, perché la condanna o l’assoluzione di un imputato avviene strettamente sulla valutazione del fatto-reato, oltre che dall’esame della posizione che l’imputato occupa al momento della commissione del reato o al contributo che offre a determinare il reato. Non poteva non sapere? Potrebbe essere una argomentazione logica, ma non può mai diventare principio alla base di una sentenza».
Non è questo il motivo per cui si è giunti alla condanna? E qual è allora?
«Noi potremmo dire: tu venivi portato a conoscenza di quel che succedeva. Non è che tu non potevi non sapere perché eri il capo. Teoricamente, il capo potrebbe non sapere. No, tu venivi portato a conoscenza di quello che succedeva. Tu non potevi non sapere, perché Tizio, Caio o Sempronio hanno detto che te lo hanno riferito. È un po’ diverso dal non poteva non sapere». Tempesta sul giudice Antonio Esposito dopo l'intervista esclusiva rilasciata al Mattino. All'attacco Sandro Bondi, coordinatore del Pdl, il segretario della commissione Giustizia della Camera, Luca d'Alessandro, Mara Carfagna, portavoce del gruppo Pdl alla Camera, l'ex ministro Maria Stella Gelmini, Daniela Santanchè e il deputato Elvira Savino. Sulla vicenda intervengono anche gli avvocati di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Franco Coppi, scrive “Il Mattino”.
Bondi. «È normale che il giudice Esposito entri nel merito della sentenza della Cassazione con un'intervista rilasciata ad un quotidiano nazionale? È questo il nuovo stile dei giudici della Cassazione? Io credevo che i giudici parlassero attraverso le sentenze, anche se controverse, e che i magistrati fossero "la bocca della legge". Ma vuol dire che mi sbaglio». Così Sandro Bondi, coordinatore del Pdl, in merito all'intervista rilasciata dal magistrato a "Il Mattino".
Gelmini. L'intervista del giudice Esposito sul Mattino di Napoli presenta «modalità incomprensibili». A dirlo è Maria Stella Gelmini (Pdl), intervenuta a "Radio Anch'io" su Radio1 Rai. «Questo processo nel quale è stato condannato in terzo grado Silvio Berlusconi - sostiene - ha veramente delle profonde anomalie dal fatto che il presidente di Mediaset Confalonieri sia stato ritenuto del tutto estraneo alla vicenda, com'è giusto che sia, ma che allo stesso tempo chi in quel periodo faceva ed era impegnato ad essere presidente del Consiglio sia stato più responsabile di chi lavorava in Mediaset e quindi debba essere condannato: è un qualcosa che non si comprende, una modalità incomprensibile perché Berlusconi non era in Mediaset e in quel momento non era impegnato tanto meno ad occuparsi di diritti televisivi; aveva un ruolo ben preciso, quello di presidente del Consiglio».
D'Alessandro. «L'ineffabile dottor Esposito ha oggi inventato la smentita che non smentisce, anzi che conferma l'intervista rilasciata al Mattino. Al di là dei commenti più espliciti sulla sentenza, che egli dichiara di non aver proferito e sui quali attendiamo curiosi la replica del Mattino, il presidente della sezione feriale della Cassazione conferma non solo di aver ricevuto il giornalista, ma anche di averci parlato e di aver rilasciato l'intervista, il cui testo (leggiamo dalla sua stessa smentita) è stato "debitamente documentato e trascritto dallo stesso cronista e da me approvato"». È quanto afferma Luca d'Alessandro (Pdl), segretario della commissione Giustizia della Camera. «Poichè tutta la conversazione attiene al processo a Silvio Berlusconi e alla sentenza emessa proprio da Esposito, è davvero paradossale e grave che egli sostenga di aver parlato solo in termini generali. Ribadiamo che non è importante ciò che il giudice dice (ancorchè grave), ma è inquietante che egli intervenga pubblicamente e lo faccia anche prima delle motivazioni. Quanto poi al testo che egli avrebbe controllato e approvato, il fatto che non sia reso conto che tutta l'intervista - da lui letta prima della pubblicazione - abbia riguardato il processo a Berlusconi ci fa sorgere più di un dubbio sulle sue capacità di discernimento. E se ha così mal compreso quanto ha scritto il giornalista, da lui sottoscritto, ci chiediamo con terrore se sia stato in grado di comprendere fino in fondo le carte di un processo così delicato per la sorte di un leader politico, che ha un seguito di dieci milioni di elettori, e di un intero Paese», conclude.
Carfagna. «Nessuno vuole mettere in discussione il sacrosanto principio costituzionale del "manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione", tuttavia esistono dei limiti morali e di opportunità che il buon senso, le circostanze e i ruoli impongono». Così la portavoce del gruppo Pdl alla Camera dei deputati Mara Carfagna, nell'ultimo post del suo blog, ha commentando l'intervista al Mattino. «Un togato - è quanto sottolineato l'esponente del Popolo della libertà - dovrebbe esprimere i propri "giudizi" con le sentenze, che si compongono di un dispositivo e di motivazioni, da depositare nei tempi e nei modi prestabiliti dalla legge. Anticipare queste ultime in forma pubblica, attraverso un'intervista ad un organo di informazione nazionale, appare più come un modo per ottenere visibilità per chissà quale scopo futuro. Gli esempi di Di Pietro e Ingroia sono assolutamente vividi nella mente di tutti, così come la loro parabola politica». «Un togato, ancora di più se della Cassazione, dovrebbe fare della discrezione e del rispetto - formale e sostanziale - nei confronti di chi ha giudicato, degli imperativi categorici. Se ciò non avviene, allora, tutti sono legittimati a "fraintendere", ponendoci delle domande sulla reale terzietà di certi giudici» aggiunge Carfagna.
Savino. «Se il presidente della sezione feriale della Cassazione, Antonio Esposito, ha ritenuto di dover concedere una intervista (confermata dal Mattino) per spiegare le motivazioni della sentenza addirittura prima del deposito della sentenza stessa, allora è la conferma che c'è più di qualcosa che non va. Ha voluto mettere le mani avanti, ma, excusatio non petita, accusatio manifesta». Lo afferma Elvira Savino, deputata pugliese del Pdl. «E c'è che ancora qualcuno che ci vorrebbe imporre di non commentare le sentenze, se poi sono gli stessi giudici che le hanno emesse a farlo? C'è ancora qualcuno che sostiene che una riforma della giustizia non è necessaria e urgente? Noi non possiamo accettare, e mai lo faremo, che un leader politico venga estromesso dalla vita pubblica non dalle urne ma da certi tribunali. Per questo - conclude Savino - non smetteremo mai difendere Silvio Berlusconi dagli ingiusti attacchi che subisce da vent'anni».
Santanchè. «Come valuterebbe il giudice Esposito il caso di un imputato che si comportasse come ha fatto lui, ovverossia, dichiarasse palesemente il falso? Complimenti,signor giudice!» afferma Daniela Santanchè, Pdl.
Ghedini. «Solo nei processi nei confronti del presidente Berlusconi possono verificarsi fatti simili», afferma Niccolò Ghedini in una nota. «Prima del deposito della motivazione nel processo cosiddetto "Diritti" - spiega il legale dell'ex premier - il presidente del collegio della sezione feriale della Corte di Cassazione dott. Esposito avrebbe anticipato le motivazioni della sentenza ad un giornalista del Mattino di Napoli che lo ha riportato con grandissimo risalto. Il fatto in sè è ovviamente gravissimo e senza precedenti». Prosegue Ghedini: «Fra l'altro il dott. Esposito avrebbe affermato che il presidente Berlusconi sarebbe stato avvertito delle asserite illecite fatturazioni da "Tizio, Caio e Sempronio" e per ciò meritava la condanna. La tesi in punto di diritto è del tutto errata, ma come qualsiasi controllo degli atti può dimostrare, così non è. Mai nessun testimone ha dichiarato che Silvio Berlusconi conoscesse o si occupasse dell'acquisto dei diritti cinematografici nè in particolare che si occupasse degli ammortamenti o delle dichiarazioni fiscali. Dunque, il presidente Berlusconi doveva essere assolto. Ma sempre il dott. Esposito quest'oggi ha smentito l'intervista affermando di aver parlato in generale. La tesi già di per sè sarebbe assai peculiare poichè è facile cogliere l'inopportunità di tale intervento senonchè il direttore del giornale in questione ha dichiarato che l'intervista al dott. Esposito è stata trascritta letteralmente e vi è la registrazione. Se così fosse tale accadimento è, come è facile comprendere, ancor più grave e dimostrerebbe un atteggiamento a dir poco straordinario. È evidente che gli organi competenti dovranno urgentemente verificare l'accaduto che non potrà non avere dei concreti riflessi sulla valutazione della sentenza emessa».
L'avvocato Coppi. «Ormai di quello che sta accadendo non mi meraviglio più. Se Berlusconi riterrà di dover far qualcosa se la vedrà lui. Certo, normalmente le motivazioni di una sentenza si conoscono con il deposito della sentenza stessa. In genere dichiarazioni in anteprima non si rilasciano». Lo afferma ad Affaritaliani.it l'avvocato Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, a proposito dell'intervista al presidente della sezione feriale della Cassazione Antonio Esposito. Riguardo al modo in cui sconterà la pena, Coppi ha detto che quando Berlusconi «avrà deciso che cosa fare, noi tecnici ci metteremo a disposizione per realizzare quello che è il programma che lui stesso ha delineato. In questo momento non voglio entrare in questo tipo di discorso». La questione della richiesta di grazia per l'ex premier è ancora una strada percorribile? «È una questione di competenza del presidente della Repubblica - risponde Coppi - e vedremo che cosa deciderà di fare. Per il momento noi come legali stiamo soltanto alla finestra. Vedremo quello che succederà». Anche su un eventuale ricorso in Europa, «non abbiamo preso una decisione: comunque bisognerà aspettare le motivazioni della sentenza. Non possiamo mica fare il ricorso sulla base di quello che ha detto il presidente Esposito».
Antonio Esposito, la toga che ha trasformato Berlusconi un pregiudicato e che, in dialetto campano, anticipava a un giornalista de Il Mattino le motivazioni della sentenza. Esposito, al telefono, alzava l'asticella: "Altro che non poteva non sapere. Berlusconi sapeva". Questo il succo del suo pensiero. Basta questo a renderlo "di sinistra"? No, affatto, anche se un sospetto è legittimo: come è possibile che non abbia neanche un dubbio? Questo non è dato saperlo, attendiamo le motivazioni (quelle vere) della sentenza. A renderlo "di sinistra" - con buona pace dei "ritratti, indiscrezioni e ricostruzioni" sul collegio destrorso - è una nuova indiscrezione, rilanciata da Il Giornale, che ha spedito un inviato a Sapri, provincia di Salerno, il regno del giudice Esposito. La parola all'edicolante della toga che ha crocifisso il Cavaliere: "Compre sempre e soltanto Repubblica e Fatto Quotidiano. Non è un mistero che Berlusconi non gli vada a genio". Avete ancora qualche dubbio al riguardo? La rivelazione via telefono di particolari riguardanti, non solo le sentenze ancora da motivare, ma addirittura i contenuti delle inchieste giudiziarie in pieno svolgimento, sembra un vizio collaudato fra le toghe, scrive Cristina Lodi su “Libero Quotidiano”. Le quali, a differenza di Silvio Berlusconi, alla fine la fanno sempre franca. Sembrano lontani i tempi in cui l’ex Presidente del consiglio veniva messo sotto inchiesta, processato e condannato per rivelazione del segreto d’ufficio, per avere favorito la pubblicazione su il Giornale della famosa intercettazione («Abbiamo una banca!») tra l’ex capo dei Ds Piero Fassino e Giovanni Consorte. Erano i tempi della scalata del gruppo assicurativo bolognese Unipol a Bnl. Silvio, con questa storia, ha collezionato una condanna che il prossimo settembre 2013 cadrà nell’oblio della prescrizione. Il giudice Antonio Esposito, che invece ha anticipato in un’intervista le motivazioni della sentenza di condanna da lui stesso pronunciata a carico del Cavaliere, rischia (forse) un procedimento disciplinare. E poco importa se nel rivelare che Silvio Berlusconi fosse (secondo la Cassazione) al corrente della frode fiscale a lui contestata, rischi inevitabilmente di condizionare il relatore Amedeo Franco che ora dovrà scrivere quelle stesse motivazioni. Ai giudici sembra tutto concesso. Basta guardare quanto accaduto a Viterbo, dove Aldo Natalini, pm nella famosa inchiesta senese sul Monte dei Paschi di Siena, si sente in diritto di rivelare al telefono a un amico dettagli dell’indagine. Questo amico del pm inquirente si chiama Samuele De Santis, soggetto finito sotto accusa per una storia di estorsione a imprenditori invischiati in una vicenda di appalti e tangenti. Samuele De Santis viene addirittura arrestato per falso ed estorsione. Ma tra febbraio e marzo 2013 raccoglie al telefono le rivelazioni dell’amico e compagno di studi Aldo Natalini, pm dell’inchiesta sulla banca. Il magistrato di Viterbo, Massimiliano Siddi, che indaga sull’avvocato per l’estorsione, intercetta le conversazioni e iscrive nel registro degli indagati il collega togato. Rivelazione del segreto istruttorio, l’accusa. Stando al Giornale d’Italia che ha dato notizia dell’inchiesta, il pm Natalini si sarebbe consultato apertamente con l’amico avvocato sulle strategie legali che si potrebbero intraprendere nel caso nell’inchiesta su Mps venissero coinvolti «anche i vertici del Partito Democratico». Spiegando, da un punto di vista giuridico, «quali sarebbero le eventuali eccezioni cui fare ricorso laddove le indagini andassero a colpire l’alta dirigenza del Pd». Quindi Natalini (stando al Giornale d’Italia) «non solo avrebbe spiegato come si possa difendere Giuseppe Mussari e Fabrizio Viola, ma anche chi direttamente o indirettamente influenza le sorti della Banca “rossa”». David Brunelli, avvocato di Natalini, ha confermato l’iscrizione nel registro degli indagati del suo assistito, ma ha voluto sottolineare che il magistrato «ha già chiarito tutto». E che «quella per cui il pm è stato indagato è una telefonata dai contenuti irrilevanti». Anche la Procura di Siena è scesa in campo in difesa del pm inquisito: «Aldo Natalini non è mai venuto meno ai suoi doveri di riservatezza in ordine alle indagini da lui condotte e, in particolare, alle indagini aventi per oggetto Banca Mps», dice il procuratore capo Tito Salerno, che al magistrato riconosce «la massima serietà e professionalità». Tutto questo nonostante il pm resti indagato e sotto inchiesta per avere violato i segreti dell’inchiesta del più «rosso» degli istituti di credito.
Il giudice Esposito e Felice Caccamo. L'audio dell'intervista al Mattino riporta alla memoria il personaggio cult di "Mai dire gol" piuttosto che un giudice della Cassazione, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. No, non è come pensate. Prestate attenzione: non è la voce di un Felice Caccamo qualunque. Concentratevi sulle singole parole: “Chille nun poteva non sapere”, “Tiziu, Caiu e Semproniu an tit (hanno detto) che te l’hanno riferito. E allora è nu pocu divers’”. Che cosa avranno mai riferito Tizio, Caio e Sempronio? E chi sono costoro? A spiegarcelo non può essere Teo Teocoli nei panni del giornalista ittico-sportivo consacrato alla storia televisiva da “Mai dire gol”, l’allievo prediletto del professore Catrame, esegeta celeberrimo della cultura partenopea. “Gira la palla, gira la palla”, chi se lo scorda più. L’audio della discordia non riguarda i palloni, la voce non è quella di Teocoli in una improbabile giacca azzurra, ma quella dell’ermellino più famoso d’Italia, il presidente della sezione feriale della Cassazione che ha condannato in via definitiva Silvio Berlusconi. Ecco a voi Antonio Esposito con la sua inconfondibile cadenza napoletana – non sappiamo se anche sua moglie si chiami Innominata -, una cadenza che va ben oltre l’elegante e sanguigna inflessione del fior fiore dell’intellighenzia campana. “Chille nun poteva non sapere”, scandisce il magistrato al giornalista de Il Mattino, che lo ascolta e prende nota. In quel goffo e involuto eloquio non vi è traccia dell’accento di un non meno partenopeo Gaetano Filangieri o Giambattista Vico. Si tratta proprio di un napoletano strascicato, più spagnolo che “vomeresco”. Un linguaggio che stride con l’ermellino, stride con l’autorevolezza e il decoro di una carica suprema ingolfata in una raffazzonata dizione che se ne infischia del soutenu, della buona immagine, lasciandosi andare a confidenze scomposte in un italiano scomposto. A parlare non è Caccamo, cui tutto è concesso, ma un giudice della Suprema Corte di Cassazione, legato da quarant’anni di amicizia a quel giornalista, dal quale confessa di sentirsi tradito. “Se fa il giornalista lo deve soltanto a me”, dichiara in modo non meno oscuro stamattina su La Repubblica. Ma non chiediamoci che cosa voglia dire, teniamoci sulla forma. E la forma è imbarazzante. Il giudice, che ha pubblicato anticipatamente in edicola le motivazioni di una sentenza, si rende protagonista di una sceneggiata grottesca. Non si tratta di una commedia di Guareschi, ma di una “caccamiata” senza Teocoli, ma con una fulgida maschera napoletana che restituisce un quadro fedele della Napoli di oggi, ai tempi del sindaco ex pm, del lungomare bloccato e delle esequie dei fasti che furono. La maschera napoletana si adombra di tristezza se consideriamo che un attimo dopo la pubblicazione dell’intervista Esposito fa un’altra brutta figura: egli si affretta a smentire, salvo poi essere irrefutabilmente sbugiardato dall’audio diffuso urbi et orbi. Dopo averlo sentito esprimere in libertà nella sua popolaresca napoletanità, possiamo soltanto immaginare che cosa avrà detto al figlio Ferdinando, giovane e aitante magistrato beccato a cena in un ristorante meneghino con l’ex consigliera regionale Nicole Minetti, allora imputata nel processo Ruby-bis. Ma “ogni scarrafone è bello a mamma soia”. E a papà soia. Infatti le accuse nate dalla segnalazione del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati nel maggio del 2012 sono state archiviate, Ferdinando è salvo. C’è da giurarci che anche Antonio ce la farà. In fondo, Partenope perdona sempre. Gira la palla, gira la palla. Ma c’è un precedente. Impietoso come sa essere, il web sta costruendo un nuovo mito. Si tratta di Mariano Maffei, procuratore capo a Santa Maria Capua Vetere. Il giudice con il quale da qualche giorno l'ex ministro della Giustizia Clemente Mastella ha incrociato la spada.
ANTONIO ESPOSITO COME MARIANO MAFFEI.
Chi è Maffei?, scrive Panorama. "Un servitore dello Stato che per ben 44 anni ha amministrato la giustizia con altissima professionalità, con spiccato senso del dovere, con il massimo impegno, con autonomia e indipendenza assoluta". E così si descrive lui stesso, nel corso dell'affollata conferenza stampa in cui, oltre a spiegare i motivi dell'azione giudiziaria ai danni dei Mastella (e di metà Udeur campano), il procuratore ha anche risposto all'ex Guardasigilli: "La polemica sollevata in Parlamento dal ministro è disgustosa". Se non fosse, che accerchiato dai giornalisti e probabilmente poco abituato alle telecamere, l'anziano magistrato ha dato in escandescenze e dopo che il video integrale di quella malgestita comunicazione alla stampa è andato in onda a Matrix, è arrivato YouTube a rilanciarlo come clip più cliccata del momento. Complice quel marcato accento campano e quell’aspetto un po' rigido da personaggio d'altri tempi. Mastella non si è lasciato sfuggire l'occasione di attaccare : "Essere giudicati da uno come lui è malagiustizia. Per carità, massimo rispetto per tantissimi magistrati ma essere giudicati da gente così fa paura ad un cittadini. È sconvolgente" ha aggiunto Mastella "che un giudice incompetente arresti le persone ammazzando così famiglie. Io posso difendermi pubblicamente attraverso voi giornalisti, però gente come questa comporta drammi umani nelle famiglie. Un giudice che è diventato una macchietta su Youtube...".
Ve lo ricordate Mariano Maffei, il procuratore di Santa Maria Capua Vetere che ottenne l’arresto di Sandra Lonardo, con conseguenti dimissioni del marito e allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella e caduta del governo Prodi? Scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Sì, quello dell’intervista alla napoletana, diventata un cult su YouTube, che l’ex Guardasigilli definì «una macchietta». Ecco, il 10 dicembre scorso il pm di Roma Giancarlo Amato ha chiesto il suo rinvio a giudizio, per abuso d’ufficio e calunnia. E nell’udienza del 19 febbraio 2008, di fronte al giudice per le indagini preliminari Maurizio Silvestri, Maffei dovrà difendersi da accuse pesanti. Di aver, cioè, denunciato per falso e abuso d’ufficio il suo aggiunto Paolo Albano e il sostituto Filomena Capasso, per una storia di indagini inadeguate da parte della polizia giudiziaria legate a un'inchiesta su un medico ospedaliero. Questo Maffei l’avrebbe fatto «in totale assenza di qualsiasi elemento accusatorio» e, scrive il pm, «pur conoscendo l’innocenza dei predetti magistrati» e «cagionando intenzionalmente ingiusto danno». Un comportamento, sempre secondo il magistrato inquirente, che trova «semmai giustificazione in precedenti dissidi personali e professionali» con i suoi colleghi. Della faida interna alle toghe sammaritane si è già molto parlato sia ai tempi dell’esplosiva inchiesta che travolse i coniugi Mastella e mezza Udeur campana sia dopo, quando fioccarono gli esposti contro Maffei e tre suoi «fidati» sostituti, da parte di altri procuratori che denunciavano indagini illecite su di loro, metodi scorretti di gestione dell’ufficio, «un clima insostenibile di sospetti e di comportamenti vessatori». Insomma, una forma di accanimento verso quelle toghe che non erano per così dire in linea con la direzione Maffei. Della guerra fra toghe, con accuse di mobbing, inchieste e denunce, si sono già occupati l’ispettorato del ministero della Giustizia, la Procura generale di Napoli e il Consiglio superiore della magistratura, ma Maffei nel mezzo della bufera se n’è andato in pensione e almeno le ripercussioni disciplinari le ha evitate. Le indagini giudiziarie, però, sono andate avanti e per competenza le ha fatte la procura di Roma. Ora il pm Amato firma una richiesta di rinvio a giudizio di cinque pagine, dalle quali emerge un quadro inquietante di quanto è successo per lungo tempo nella Procura di Santa Maria Capua Vetere. In sostanza, è convinto che Maffei avesse «punito» per altri motivi i due pm Albano e Capasso, evidentemente non in sintonia con lui, facendoli finire sotto indagine senza motivo e ben sapendo che le sue accuse non poggiavano su nulla di concreto. Una mossa del tutto strumentale, dunque. E un metodo del genere fa pensar male sul modo di Maffei di scegliere gli obiettivi da perseguire e i soggetti da indagare, quindi sul suo modo di gestire l’ufficio. Certi nodi vengono al pettine solo ora che Maffei ha lasciato la magistratura, sbattendo la porta con aspri battibecchi con Mastella, che lo accusava di non essere imparziale e di agire con un mandante politico, sottolineando la sua parentela con il presidente della Provincia Alessandro De Franciscis, che dall’Udeur era passato al Pd. D’altronde, anche nei giorni della tempesta giudiziaria sui Mastella, l’allora procuratore non era stato affatto cauto, facendo dichiarazioni che tradivano il dente avvelenato contro il governo, parlando di «regime dittatoriale» e lamentandosi del fatto che «grazie» alla riforma Mastella, che imponeva una rotazione con il limite massimo di 8 anni per gli incarichi di vertice, doveva lasciare il suo posto e subire un capo sopra di lui oppure andarsene. Sarà interessante seguire gli sviluppi giudiziari della vicenda Mastella, perché già si parla di un testimone secondo il quale a novembre 2007 Maffei l’avrebbe giurata all’ex-Guardasigilli.
BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.
I due condannati, senza passaporto. Analogie e differenze delle storie di Berlusconi e Craxi dopo la sentenza della Cassazione, scrive Paolo Sacchi su “Panorama”. «La vede, signora, la fine che avrebbero voluto farmi fare…». 21 gennaio 2000, giorno dei funerali di Bettino Craxi. Cinque della sera, Hammamet, cimitero cristiano, lapidi bianche, tra la Medina e il mare, che guarda l’Italia. La famiglia Craxi volle che «Bettino» fosse sepolto così: con la bara rivolta verso l’Italia negata. Per alcuni minuti il Cavaliere, allora spodestato da Palazzo Chigi, ma già in rimonta dopo una lunga traversata nel deserto, e senza il thè del fim di Bernardo Bertolucci, girato proprio in Tunisia, si apparta. Si nasconde e piange a dirotto dietro a una tomba del cimitero cristiano di Hammamet. Chi scrive lo raggiunge. Ha gli occhi ancora umidi. Lui si riprende e scolpisce in via riservata con la cronista la frase ( «Lo vede che fine avrebbero voluto farmi fare») che probabilmente avrà accompagnato, come una sfida ma al tempo stesso una minaccia, le sue tre volte tre di presidente del Consiglio, negli ultimi vent’anni di politica italiana. Era sinceramente commosso e profondamente addolorato quel giorno il Cavaliere per la morte dell’amico Bettino, e già presagiva che per lui sarebbe stata dura. Anzi, durissima. Invitò a pranzo all’Abou Nawas di Tunisi i socialisti superstiti, allora guidati da Enrico Boselli. Li chiamò a una battaglia di libertà, ma loro, che avevano all’epoca ministri nel governo di Massimo D’Alema , nicchiarono. Fino a scomparire. In molti in questi vent’anni hanno tirato per la giacca, e da morto, Bettino Craxi. Sarebbe stato con la destra o la sinistra? Di certo lui non sarebbe stato con quelli che nei momenti più drammatici degli ultimi giorni all’ Hopital Militaire di Tunisi, definì «i miei assassini», ovvero gli eredi del Pci. Non sarebbe stato neppure con Forza Italia. Ma forse un po’ più vicino a Forza Italia sì, se proprio avesse dovuto scegliere. La sua ultima idea era quella di fare un federazione liberalsocialista con un ritorno al sistema proporzionale. Di certo, Berlusconi per lui era un vero e sincero amico. Tant’è che Craxi confidò a chi scrive: «Vedrai proveranno a farlo fuori con l’arma giudiziaria». E ancora: «Non è vero che fui io a consigliargli di entrare in politica, gli dissi semplicemente: se te la senti, fallo. Mi sono sempre chiesto come ha fatto a prendere tutti quei voti, io mi sono fermato alla soglia del 12 o 13 per cento….». Craxi-Berlusconi: ora c’è anche il ritiro di un passaporto che li accomuna. Ma Craxi, come ha ricordato Berlusconi a «Libero», fu costretto all’esilio (aveva una richiesta di condanne di oltre 20 anni e il suo partito lo abbandonò). Berlusconi consegnerà il suo passaporto, ma gli resterà quello datogli da quasi dieci milioni di elettori. Anche questo l’ex premier e leader socialista, politico a tutto tondo, sulla cui tomba continuano ad andare scolaresche e turisti italiani in pellegrinaggio, all'epoca divisi tra craxiani e anticraxiani, a suo modo, da statista e leader visionario, aveva previsto.
DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.
Da Almirante a Craxi chi tocca la sinistra muore, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Vorrei conoscere la segreta legge in base alla quale chi si oppone alla sinistra è sempre un delinquente. Cito tre esempi principali, diversi per stile ed epoca, più altri casi paralleli. Quarant'anni fa il delinquente si chiamava Giorgio Almirante. Aveva ottenuto un gran successo elettorale, riempiva le piazze, spopolava in tv. Perciò si decise che era un criminale, e dunque andava messo fuori legge col suo partito. Badate bene, il Msi in quella fase era meno fascista di prima, era in doppiopetto, era diventato destra nazionale, apriva a liberali e monarchici, aveva perfino (...) (...) partigiani. Ma allora risorse il fronte antifascista. La stessa criminalizzazione era avvenuta nel '60 quando l'Msi aveva svoltato in senso moderato, appoggiando un governo centrista, presto rovesciato da un'insurrezione violenta di piazza. L'antifascismo veniva sfoderato non quando si sentiva odore di fasci ma quando si sentiva odore di voti e di governo. Su Almirante piovvero stragi e accuse tremende, si creò un cordone sanitario per isolare la destra, la sua stampa e le sue idee, si favorì una scissione. La persecuzione finì quando il Msi tornò piccolo e innocuo. Le accuse di fascismo non risparmiarono neanche due combattenti antifascisti come Sogno e Pacciardi che erano però militanti anticomunisti. La campagna infame si accanì col Quirinale: Leone, eletto con i voti del Msi e senza quelli del Pci, fu massacrato e costretto a dimettersi, con accuse poi rivelatesi infondate. Vent'anni fa il delinquente si chiamava Bettino Craxi, e la sua associazione a delinquere era non solo il Psi, ma il Caf, che comprendeva Andreotti e Fanfani vituperato anticomunista (poi sostituito da Forlani). Craxi aveva inchiodato il Pci all'opposizione, aveva conquistato la centralità del sistema politico, voleva modernizzare lo Stato. Eliminato. Parallelamente Cossiga, da quando si emancipò dall'intesa consociativa che lo aveva eletto al Quirinale e cominciò a esternare contro i partiti, fu linciato, minacciato di impeachment, accusato di stragi e delitti. Fino a che Cossiga depose ogni progetto gollista e si limitò a esercitare l'arte del paradosso. Andreotti è un caso contorto ma anche lui diventò un delinquente solo quando smise di presiedere i governi consociativi. Ora il delinquente si chiama Berlusconi, dopo un ventennio di caccia all'uomo. Vi risparmio di farvi la storia del berluschicidio, vi esce ormai dalle orecchie. Dirò solo che rispetto agli altri lui ha l'aggravante tripla di essere ricco, di non essere un politico e di avere un grande elettorato. Con lui ci sono altri casi annessi (anche extrapolitici, come Bertolaso e don Verzè). Esempio? Il modello Lombardia di Formigoni&Cl, un sistema di potere analogo a quello delle coop rosse in Emilia, con le stesse ombre, ma con risultati di eccellenza in termini di amministrazione. Massacrato mentre le coop rosse furono risparmiate. Per la sanità la Lombardia fu indagata di pari passo con la Puglia di Vendola, ma con una differenza: la prima funzionava bene, la seconda no. Risultato: la prima fu sfasciata a norma di legge, la seconda no. Anche lì l'aggravante era il largo consenso recidivo a Formigoni. Cos'hanno in comune i casi citati? Erano antagonisti della sinistra. E poi un'altra peculiarità: da Almirante a Pacciardi e Sogno, da Fanfani a Cossiga, a Craxi e a Berlusconi, volevano una repubblica presidenziale, bestia nera del Partito-Principe. Il mistero resta: come mai tutti coloro che si oppongono alla sinistra sono delinquenti, chi per eversione, chi per golpismo, chi per malaffare? C'è una spiegazione logica, scientifica a questa curiosa coincidenza? Cosa c'era di vero nelle accuse? Almirante era fascista, è vero, ed è pure vero che alcuni neofascisti erano violenti; ma Almirante e il suo partito non c'entravano nulla con stragi, assassini e violenze, di cui furono più vittime che artefici. Craxi navigò alla grande nel sistema delle tangenti, è vero, usò modi illeciti per finanziare la politica, ma la tangente fu inventata storicamente dalla sinistra dc parastatale e i finanziamenti illeciti, prima di Craxi riguardò la Dc, il Psi antecraxi, gli alleati, più i soldi che arrivavano da Mosca al Pci e le tangenti sull'import-export con l'est. Anche Berlusconi non è uno stinco di santo, ma se qualunque grande azienda italiana o qualunque grande partito italiano fosse setacciato, intercettato e perquisito con la stessa meticolosità, avrebbero trovato reati analoghi, anzi delitti peggiori e pure arricchimenti illeciti a spese del denaro pubblico. Appena si è scoperchiato l'affare Monte dei Paschi vedete cosa ne è venuto fuori, suicidi inclusi. Se avessero poi applicato il criterio usato per Berlusconi - il capo è colpevole degli illeciti compiuti nel suo regno - avremmo avuto in galera i due terzi del capitalismo nostrano e della partitocrazia. A questo punto la conclusione è netta: o avete il coraggio di teorizzare l'iniquità razziale di chiunque si opponga alla sinistra, e dunque il nesso etico e genetico tra antisinistra e criminalità, o c'è qualcosa di turpe nella sistematica criminalizzazione del nemico. Certo, non tutti i giudici che si sono occupati di Berlusconi e dei casi precedenti erano di parte. Alcuni decisamente sì, erano di parte; altri invece erano solo nella parte, ovvero accettate quelle premesse non puoi che avere quelle conseguenze; si crea un meccanismo a cascata, una coazione a ripetere e a non contraddire le sentenze dei colleghi di casta. Il punto era ridiscutere i presupposti dell'indagine, a partire dall'accanimento selettivo; e poi, a valle, porsi il problema della responsabilità, cioè considerare le conseguenze per l'Italia. I giudici non sono una vil razza dannata, sono nella media degli italiani: l'unica differenza è che solo loro dispongono di un potere assoluto, inconfutabile, irresponsabile. Che non risponde di sé né dei danni pubblici che arreca. La serra in cui fioriscono le sentenze è una Cupola editoriale-giudiziaria-finanziaria, benedetta da alcuni poteri transnazionali. Un allineamento di fatto, non un complotto premeditato; non è una congiura ma una congiuntura. La sinistra politica ne è solo il terminale periferico. Non sono affatto innocentista, ma l'esperienza mi conduce a una conclusione: ogni potere ha la sua fogna, in forme e misure diverse; ma alcune vengono portate alla luce e altre no. Usciamo in fretta dalla seconda repubblica: non quella nata nel '94, ma quella abortita dal '68.
BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.
Berlusconiani Vs Antiberlusconiani: solito spettacolo penoso, scrive Diego Fusaro su “Lo Spiffero”. Si è per l’ennesima volta riproposto l’osceno spettacolo che tiene da vent’anni prigioniera la politica italiana: quel penoso conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani che continua a ottundere le menti, illudendole che il solo vero problema del nostro Paese sia l’incarcerazione del Cavaliere o, alternativamente, la sua santificazione in terra. Uno spettacolo patetico e, insieme, disgustoso. Se mai è possibile, per i motivi che subito dirò, l’antiberlusconismo è più spregevole dello stesso berlusconismo. Il berlusconismo non è un fenomeno politico. È, semplicemente, l’economia che aspira a neutralizzare la politica, riconfigurandola – avrebbe detto von Clausewitz– come la continuazione stessa dell’economia con altri mezzi. Non ha nulla a che vedere con il fascismo, con buona pace della sinistra perennemente antifascista in assenza integrale di fascismo. Il berlusconismo è osceno, perché è di per sé oscena la dinamica, oggi dilagante, della reductio ad unum operata dalla teologia economica, ossia di quell’integralismo economico che aspira a ridurre tutto all’economia, alla produzione e allo scambio delle merci. Il berlusconismo ne rappresenta l’apice, aggiungendo a questa oscenità pittoreschi elementi da commedia all’italiana su cui è pleonastico insistere in questa sede. Ma l’antiberlusconismo è ancora più osceno. Nella sua intima logica, l’antiberlusconismo si regge su un’esasperazione patologica della personalizzazione dei problemi. Quest’ultima si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni: ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso per vent’anni l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. Questi ultimi sono stati moralizzati o, alternativamente, estetizzati, e dunque privati della loro socialità, inducendo l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti. Grazie all’antiberlusconismo, la sinistra ha potuto indecorosamente mutare la propria identità, passando dall’anticapitalismo alla legalità, dalla lotta per l’emancipazione di tutti al potere dei magistrati e dei giudici, dalla questione sociale a quella morale, da Carlo Marx a Serena Dandini, da Antonio Gramsci alla Gabbanelli. La sinistra, muta e cieca al cospetto della contraddizione capitalistica, ha fatto convergere le sue attenzioni critiche su una persona concreta (il Cavaliere), presentandola come la contraddizione vivente. In tal maniera, ha potuto cessare di farsi carico dei problemi sociali e della miseria prodotta dal sistema della produzione, illudendo l’elettorato e inducendolo a pensare che il sistema, di per sé buono, fosse inficiato dall’agire immorale e irresponsabile di un’unica persona. Quest’ultima, lungi dall’essere – nonostante i deliri di onnipotenza del caso – la causa della reificazione globale, ne è un effetto: più precisamente, si presenta come l’esempio vivente dell’illimitatezza del godimento gravido di capitale, che travolge apertamente ogni limite e ogni barriera, ogni legge e ogni istituzione che non riconosca il plus ultra desiderativo come unica autorità e come sola legge. L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di occultare la propria adesione supina al capitale dietro l’opposizione alla contraddizione falsamente identificata nella figura di un’unica persona, secondo il tragicomico transito dal socialismo in un solo paese alla contraddizione in un solo uomo. Come l’antifascismo in assenza integrale di fascismo, così l’antiberlusconismo ha svolto il ruolo di fondazione e di mantenimento dell’identità di una sinistra ormai conciliata con l’ordine neoliberale (si pensi alle penose rassicurazioni di Bersani circa l’alleanza del PD con i mercati e con il folle sogno dell’eurocrazia indecorosamente chiamata Europa). Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti dell’ordo capitalistico, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per la sinistra oggi essere antiberlusconiani è l’alibi per non essere anticapitalisti. Permettendo di riconvertire la passione anticapitalistica in indignazione morale, l’avversione per le regole sistemiche ingiuste in loro difesa a oltranza, l’antiberlusconismo ha, pertanto, svolto una funzione di primo piano nella celere e performativa sostituzione dell’identità precedente della sinistra con una nuova e indecorosa fisionomia, quella dell’adesione cadaverica alle leggi del mercato e del capitale. Se la sinistra smette di interessarsi alla questione sociale e, più in generale, alla galassia di problemi che, con diritto, potrebbero compendiarsi nell’espressione programmatica “ripartire da Marx”, con il ricco arsenale di passioni politiche che in tale figura si cristallizzano, è opportuno smettere di interessarsi alla sinistra. I recenti fenomeni di piazza ne sono l’esempio più tragico: mentre il popolo dei berlusconiani si scontrava con quello degli antiberlusconiani, le sacre leggi del mercato facevano il loro corso, sconvolgendo, ancora una volta, le nostre vite, erodendo i diritti sociali. La situazione è, una volta di più, tragica ma non seria. La prima mossa da compiere per tornare a pensare e a praticare la politica è uscire dal vicolo cieco del conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani.
I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.
La stampa rossa cavalca l'odio e brinda alla nuova Liberazione. Piovono insulti e sberleffi dai giornali di sinistra: 1º agosto come il 25 aprile. Le offese di Repubblica: "Vecchio attore che fa pena", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Gran fermento nelle redazioni di tanti giornali, da Repubblica al Fatto, dal Manifesto all'Unità. È scattata l'operazione sbianchettamento sui calendari: la festa della Liberazione non è più il 25 aprile, ma il 1° agosto, giorno fausto della condanna di Silvio Berlusconi. Basta con le anticaglie del secolo scorso, c'è un nuovo piazzale Loreto: è la piazza Cavour di Roma dove s'affaccia il Palazzaccio della Cassazione, il luogo dell'esecuzione, del ludibrio, dello sbeffeggio di «Al Tappone», come ha scritto con la consueta eleganza Marco Travaglio sul Fatto quotidiano, al quale non è bastato scrivere che «Al Capone è il suo spirito guida». Suo, di Berlusconi. La gioia è esplosa incontenibile come i tappi di champagne nelle ricorrenze più importanti. «Condannato». «Condannato il delinquente». «Cassato». «Il pregiudicato costituente». Un «proclama eversivo». Un irrefrenabile sentimento di «Vittoria alata», come ha titolato il Manifesto. Sì, vittoria, come in una gara tra buoni e cattivi, anzi tra i buoni e il Cattivo. «Certo in un Paese normale sarebbe stata auspicabile una sconfitta politica», ammette Giuseppe Di Lello. Ma che vuoi farci, bisogna accontentarsi: non si va troppo per il sottile pur di fare fuori il Cavaliere (e naturalmente tutti chiedono che gli venga tolta l'onorificenza assieme alla libertà). Dove non arriva la politica soccorre la magistratura: «In uno stato di diritto anche le sentenze svolgono il loro ruolo di controllo della legalità e da esse non si può prescindere», si legge sul quotidiano che ha Toni Negri tra i collaboratori. A Repubblica è tutto un fuoco d'artificio. Altro che la Resistenza partigiana: le truppe di Carlo De Benedetti si sentono il Cln del ventunesimo secolo, le nuove Brigate Garibaldi, i veri liberatori dal Nemico. Ebbro di esultanza, Francesco Merlo abbandona i toni raffinati del passato e scende nel volgare. Per lui Berlusconi è «un vecchio attore che per non subire la pena faceva pena». Il suo videomessaggio «una sceneggiata con la lacrima, come il gorgonzola e i fichi». Nel Pantheon del Cav, un «delinquente comune» e «mattatore nel baraccone della finta pietà», si trovano «solo gli evasori truffatori». E quando la dose di volgarità è finita subentra la violenza: «Davvero Berlusconi - arriva a scrivere Merlo - preferirebbe che dei forsennati lo trascinassero per strada e gli infliggessero qualche atroce supplizio». L'ex premier si è già preso nei denti una non metaforica statuetta del duomo di Milano: poca roba, per gli intellettuali chic di Repubblica. Anche Filippo Ceccarelli tira un sospiro di sollievo: «Si può dire che se l'è voluta, cercata e trovata - e adesso si spera che un po' si metta tranquillo». Ma, riconosce, «non sarà facile» liberarsi di questo «imputato permanente e privilegiatissimo»: «Troppe visioni, troppi processi, troppo di Berlusconi è stato sparso nella società perché lo si possa bruciare, liquidare, o sradicare nel tempo breve di un'estate», come sarebbe augurabile. Mai contenti, a Repubblica. Dove si definisce il videomessaggio «un proclama eversivo». E dove il direttore Ezio Mauro trasforma l'intera parabola del Cavaliere in un vortice di malaffare: «Il falso miracolo imprenditoriale che nella leggenda di comodo aveva generato e continuamente rigenerava l'avventura politica di Silvio Berlusconi ieri ha rivelato la sua natura fraudolenta». Berlusconi è stato condannato per aver evaso, nel 2002 e 2003, 7,3 milioni di euro a fronte di 709 milioni dichiarati: l'1 per cento in soli due anni. Che per Repubblica è sufficiente per gettare nel fango una vita intera. Nel calendario del Fatto - dove Travaglio si crogiola tra «fuorilegge», «delinquente matricolato», «pregiudicato costituente» - oltre alla nuova data della Liberazione appare anche un nuovo santo: è Fabio De Pasquale, il pubblico ministero che ha ottenuto la prima condanna definitiva per Berlusconi e, prima di lui, fu il primo a incastrare Bettino Craxi. Santo subito, più della beata Ilda Boccassini. Curiosità: il Fatto e il Manifesto hanno messo in prima pagina la stessa foto di Berlusconi corrucciato. Come insegnava la buonanima rossa di Mao, marciare divisi per colpire uniti.
QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.
Quando il Pci ricattò il Colle: grazia all'ergastolano. Moranino era fuggito a Praga e rientrò in Italia dopo l'atto di clemenza di Saragat, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La storia non si ripete, però ci sorprende e ci spiazza. La storia, se si rileggono certi passaggi, può scombussolare le fondamenta dei ragionamenti che si ripetono in questi giorni surriscaldati di mezza estate. Si dice che la grazia non può essere un quarto grado di giudizio e che il condannato non può riceverla se non ha cominciato ad espiare la pena. Si ammucchiano tanti concetti, tutti politically correct, poi t'imbatti nella vicenda tragica e drammatica di Francesco Moranino, il comandante «Gemisto», comunista doc, partigiano, deputato e tante altre cose ancora e sei costretto a rivedere quei giudizi affrettati. Il caso Moranino è per certi aspetti ancora aperto come tante pagine controverse del nostro passato, ma alcuni elementi sono chiari. Il primo: nel 1955 il Parlamento concesse l'autorizzazione a procedere, la prima nel Dopoguerra, e Moranino fu condannato all'ergastolo per l'uccisione di cinque partigiani bianchi e di due delle loro mogli; il secondo: non rimase in Italia a scontare mestamente la condanna. No, fu aiutato dal Pci a scappare. Riparò a Praga e là attese gli eventi. Attenzione: Praga era la capitale di un paese nemico nell'Europa sull'orlo del conflitto degli anni Cinquanta e Sessanta. Da Praga Moranino portò a casa due risultati clamorosi; prima, nel '58, il presidente Giovanni Gronchi commutò la sua pena: dal carcere a vita a 10 anni. Poi nel '65 il suo successore Giuseppe Saragat gli concesse la grazia. Sì, avete letto bene. Il presidente della Repubblica cancellò con un colpo di spugna la pena. Saragat non si preoccupò del fatto che la grazia potesse sconfessare l'opera della magistratura e suonare appunto come un quarto grado di giudizio. Anzi, il presidente non si fermò neppure quando il procuratore generale di Firenze, chiamato ad esprimersi, diede un parere negativo. La grazia fu firmata lo stesso, anche se Moranino era latitante, in fuga oltre la Cortina di ferro. E, insomma, la sorprendente conclusione poteva essere interpretata come una resa dello Stato ad una parte. Per piantare la bandierina della grazia, Saragat scalò una parete di sesto grado, altro che la frode e l'evasione fiscale di cui si parla in questi giorni. Moranino naturalmente si proclamava innocente e poi tutto quel periodo storico convulso, la stagione della Resistenza e la sua coda nelle settimane successive al 25 aprile, era ed è oggetto di una grande disputa: le esecuzioni senza pietà dovevano essere coperte dallo scudo della Resistenza che tutto giustificava e assorbiva. La querelle, come è noto, si è trascinata nel tempo: il sangue dei vinti, come l'ha chiamato Giampaolo Pansa, non ha ancora trovato pace. Ma Saragat non si soffermò sulle conseguenze giuridiche di quell'atto e puntò dritto all'obiettivo della pacificazione. La politica, con i suoi accordi sotterranei, vinse su tutto il resto, anche sull'indecenza di un atto che, pur se bilanciato da misure di clemenza verso i neri della Repubblica sociale, sconcertò molti italiani. L'ha spiegato molto bene Sergio Romano rispondendo ad un lettore dalla colonne del Corriere della sera: «Credo che Giuseppe Saragat abbia pagato un debito di riconoscenza al partito che aveva contribuito ad eleggerlo». Saragat era diventato capo dello Stato il 28 dicembre 1964, con il contributo determinante del Pci. La grazia arrivò a tamburo battente il 27 aprile 1965. Ci fu probabilmente un baratto: l'elezione in cambio della chiusura di quel capitolo orrendo. Moranino rientrò con comodo, nel '68, e il Pci non ebbe alcun imbarazzo a ricandidarlo e a farlo rieleggere. A Palazzo Madama. L'Italia usciva così definitivamente dal clima avvelenato della guerra, ma il prezzo pagato allo stato di diritto fu altissimo. Era il ”Re del Grano”, l´inventore di Zemanlandia, il fautore del miracolo del Foggia in serie A e dell´Avellino in serie B, ma per tredici anni Pasquale Casillo, noto a tutti come “Don Pasquale” da San Giuseppe Vesuviano, pesava l´accusa del famigerato articolo 110 - 416bis, concorso esterno in associazione di stampo mafioso: un reato grave da cui Casillo, soltanto in tarda mattina del 16 febbraio 2007, è stato assolto dai giudici del tribunale di Nola, in provincia di Napoli, che hanno accolto le richieste del pubblico ministero Vincenzo D´Onofrio. Per Don Pasquale, dunque, assistito dall´avvocato Ettore Stravino e da Bruno Von Arx, è giunta l´assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto. Casillo fu arrestato il 21 aprile del 1994 non solo per associazione mafiosa, ma anche per truffa e peculato. Era stato accusato, insieme ad altri, infatti, di aver frodato l’Aima, l´Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo. Per questi ultimi reati è scattata la prescrizione, ma per Pasquale Casillo restava in piedi la ben più grave macchia, il 416bis, che da ieri non ha più nulla a che fare con l´ex Re del Grano. Un “impero”, quello di Casillo, che valeva milioni e milioni di euro e che gli deve essere restituito poiché sono stati revocati i provvedimenti di sequestro cautelare sulle aziende e sui beni personali. «In questa brutta storia, potevo perdere tutto ma non la dignità» ha dichiarato l´imprenditore. Nei primi anni ´90 l’industriale campano, presidente dell´Assindustria di Foggia, era il gotha dell´imprenditoria nazionale: il suo “impero” era impegnato in tutti i campi, dal commercio allo stoccaggio del grano, dai trasporti navali al mondo del calcio. E che calcio. Ma Casillo aveva anche partecipazioni importanti in istituti di credito (Banca Mediterranea e Caripuglia) e società immobiliari e turistiche. E poi, oltre al Foggia di Zeman, era proprietario anche di Salernitana e Bologna e voleva “mettere le mani” sulla Roma di Ciarrapico. Poi, quel 21 aprile, l´arresto a Foggia: a far emettere le ordinanze dai giudici di Napoli le deposizioni di un pentito della camorra, il boss Pasquale Galasso. Nonostante un pool di primarie banche, coordinate dall´ABI, avesse offerto un cospicuo finanziamento ponte di 100 miliardi di vecchie lire, rifiutato dal neoamministratore giudiziario del gruppo, scatta la molla dell´istanza di fallimento, richiesta dai creditori del gruppo Casillo. Nel maggio del 1994, su istanza del Banco di Napoli, finiscono in tribunale i libri della capogruppo, la “Casillo Grani Snc”, società in nome collettivo. E incomincia il pellegrinaggio dell´inchiesta principale. Casillo si è sempre dichiarato innocente, anzi «perseguitato dai giudici», e ha sempre richiesto di essere processato subito. Con gli anni vengono prescritti tutti gli eventuali reati fiscali. Restava, fino a ieri, solo il 416bis. E per Casillo il fantasma della mafia, anzi della camorra campana, svanisce, così come era svanito, qualche anno prima, per l´ex ministro dell´Interno Antonio Gava, che è stato assolto - come molti altri imputati eccellenti - in tutti i gradi nel processo per camorra basato in massima parte sulle dichiarazioni del medesimo pentito Pasquale Galasso, lo stesso accusatore di Casillo.
PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.
Casillo: il candidato ideale contro certe toghe rosse, scrive Ruggiero Capone su “L’Opinione”. «Presidente Berlusconi, dica a Pier Ferdinando Casini, dato che si dice cattolico: memento homo! Visto l’atteggiamento ostile che l’onorevole Casini ha assunto nei Suoi personali confronti, gli ricordi ciò che accadde la mattina dell’8 febbraio 1994, ultimo giorno utile per l’apparentamento delle liste delle famose elezioni che La videro entrare nell’orbita politica. Lei accettò che Mastella, Casini e D’Onofrio rientrassero in gioco (precedentemente rifiutati per la pretesa di avere ministero del Lavoro e Istruzione) solo per le pressioni che Le feci prima mediante Domenico Mennitti, mio ex direttore del “Roma”, poi attraverso Adriano Galliani e, infine, per l’intervento risolutivo di Marcello Dell’Utri alle 7:30, mentre la pietosa delegazione dei mendicanti avevano preso comunque l’aereo verso Milano, speranzosi in un miracoloso ultimo mio intervento presso di Lei. Ricordi a Casini che li fece prelevare in extremis all’aeroporto di Linate con una vostra macchina. Rammenti anche a Casini che intervenni dopo le ossessive e continue telefonate del giorno precedente continuate al mattino dell’onorevole Mastella, il quale mi riferì che in macchina (in taxi verso Fiumicino) con lui c’era anche Casini e D’Onofrio. Peccato, che non esistano tracce registrate! Eppure, essendo il sottoscritto, già dall’anno precedente, nel mirino dell’Antimafia di Napoli e, di lì a poco arrestato, mercoledì 21 aprile ’94, mi fa meraviglia che un “camorrista” della mio livello, e, a dire degli inquirenti, socio in malaffari di Alfieri e Galasso, non avesse il telefono sotto controllo! Di tutto questo, me ne se sono lamentato anche in un pubblico processo. Le pare verosimile? O non, piuttosto, che sia stato tutto messo a tacere? Poiché, delle due una: o il mio telefono non era sotto controllo, e sarebbe roba da inetti oppure è stato tutto dolosamente insabbiato. Le scrivo questo solo per ricordare a Lei chi ero, a Casini la sua ingratitudine (senza di Lei, politicamente, sarebbe già defunto) e allo Stato... qualche ridicola inadempienza! Saluti. Roma, 17 gennaio 2013, Pasquale Casillo». Questo il contenuto della missiva che Pasquale Casillo (all’epoca imprenditore agroalimentare di rilievo mondiale, editore del quotidiano Roma e proprietario di club calcistici) ha inviato a Silvio Berlusconi. «Attualmente ho la fedina penale integra! - precisa Casillo - Sono stato assolto, dopo ben 13 anni, su richiesta della stessa Procura che mi aveva arrestato, sequestrato l’intero patrimonio e conseguentemente fatto fallire tutte le aziende del mio Gruppo (56 aziende in tutto il mondo) che all’epoca fatturavano ben 2.000 miliardi, a causa di un amministratore giudiziario (il mio Bondi) la cui segretaria era una “segreteria telefonica”. Questo signore da me denunciato, e da ben quattro anni attendo un Ctu dalla procura di Napoli». Le persecuzioni giudiziarie nei riguardi di Pasquale Casillo sono durate 29 anni (iniziavano nel 1984). Ma l’imprenditore è poi risultato assolto in tutti i processi. Dopo decine di assoluzioni nessun giornale ha mai provveduto a riabilitare l’uomo dinnanzi all’opinione pubblica. Casillo ci rammenta i due casi più recenti in ordine di tempo. «Il fallimento della società capogruppo - spiega Casillo - la Casillo Grani snc, per una presunta accusa di bancarotta fraudolenta aggravata (un caso simile a Cirio e Parmalat che si consumava 10 anni prima) che si sarebbe prescritta dopo 18 anni e 6 mesi, ma che a 17 anni, guardo un po’! - rimarca l’imprenditore - essendo ancora allo stato indiziario (solo iscritta al modello 21) quindi senza neppure aver fatto un’udienza o un interrogatorio, è stata archiviata (12 marzo 2012) con motivazione “il fatto non sussiste”. È più grave assolvere col fatto non sussiste o che oggi comunque si sarebbe prescritta senza iniziare. Si sarebbe prescritta a febbraio 2013, non penso esista caso simile in Europa». L’episodio che ancora turba Pasquale Casillo è come sia stato costruito in suo danno il processo per “concorso in associazione camorristica”. «Processo per concorso in associazione camorristica - ci ripete Casillo con tono indignato - dopo quasi 13 anni unico imputato… in quaranta minuti (di cui 10 di camera di consiglio), senza contraddittorio dei pentiti, senza i testi di accusa e di difesa (ho rinunciato ai mie 70 testi): sono stato assolto con formula piena su richiesta della Procura. Non ho avuto il piacere di avere come testi d’accusa né il capo dei Ros di allora né quello della Dia, eppure avevano firmato i verbali. E pensare che i signori dell’antimafia avevano confuso l’ambasciatore Usa Peter Secchia con un camorrista...». Pasquale Casillo è ancora una persona solare, sorridente, alla mano. La persecuzione non ha nemmeno scalfito il suo carattere mite, pacioso. «Era un vero amico del calcio!», ci rammentava un signore incontrato in un bar di Foggia. Fu Casillo ad ingaggiare Zdenek Zeman per il Foggia calcio scivolato in C1: Casillo contribuiva di fatto alla costruzione d’una città per allenare i giovani, i giornali l’appellarono subito “Zemanlandia”, intanto svettava il “Foggia dei miracoli”. Così Zeman, dopo una stagione alla guida del Messina, non resisteva al nuovo ingaggio di Casillo, sempre nel Foggia, neopromosso in Serie B. Nel 1989 al “Foggia dei miracoli” fa solo ombra la Foggia che scende di tre punti nelle statistiche della disoccupazione, grazie alle assunzioni nella Casillo grani. 1993-1994, ultima stagione prima dell’addio di Zeman, il Foggia sfiora l’ingresso in Coppa Uefa, sconfitto (0-1) da un Napoli all’ultima giornata di campionato. Nonostante la persecuzione giudiziaria, Casillo non abbandona il campo. Nella stagione 2003-2004 all’Avellino calcio, Zeman ritrova il presidente Pasquale Casillo. Ed arriviamo al 20 luglio 2010, quando la famiglia dell’ormai storico presidente degli anni della ribalta (Pasquale Casillo) riacquista ufficialmente il Foggia, e naturalmente richiama come allenatore Zeman. «Il Foggia dei miracoli è tornato», urlano i tifosi per strada. Ma dopo aver continuato a pensare in grande, con l’approvazione di un accordo di programma per realizzare un nuovo stadio comunale e 1000 appartamenti a Foggia, la lobby dei costruttori mette in piedi mille paletti per far abortire il sogno. Oggi chi restituirà i posti di lavoro nella Casillo grani? Soprattutto chi risarcirà la famiglia Casillo di quasi 30 anni di malagiustizia? Oggi Foggia è l’ultima città d’Italia per Pil, ai tempi della Casillo grani se la batteva con le ridenti cittadine del centro-nord.
La provocazione di Casillo: "Io, sempre assolto, voglio Libera al mio fianco". Alla presentazione del libro di cui chiede il sequestro, scrive “Foggia città aperta”. E’ arrivato alla fine della presentazione. Si è seduto tra il pubblico. Tra i tanti accorsi per sentir parlare di ‘Criminali di Puglia. 1973-1994: dalla criminalità negata a quella organizzata’, il libro scritto da Nisio Palmieri ed edito dalle edizioni la meridiana. Completo scuro e aria di chi sta per sbottare. Per gridare tutto il suo disappunto nei confronti dell’autore che parla. Perché quello scritto da Nisio Palmieri è un libro che l’ha fatto arrabbiare, che ha risvegliato un passato che voleva dimenticare. Pasquale Casillo ieri sera non ha resistito. Del resto, la sua presenza nella Sala Marcone della Biblioteca Provinciale ‘La Magna Capitana’ di Foggia, era nell’aria. E alla fine si è materializzato. E’ apparso a tutti. Ed ha parlato. “Penso che mi abbiate riconosciuto" ha esordito l’ex re del grano. E dopo essersi alzato in piedi, ha preso la parola e davanti a tutti ha esposto il suo pensiero. “Ho chiesto alla procura di Trani il sequestro del libro perché Criminali di Puglia è un libro diffamatore, in cui mi vengono attribuiti delitti gravissimi che non ho mai commesso”. Poi, l’affondo verso l’autore, che nel suo libro ripercorre l’evolversi, l’insediarsi e l'espandersi della criminalità organizzata pugliese. “Non stimo affatto Nisio Palmieri, ma il suo libro mi ha dato l’occasione per raccontare nuovamente la mia vicenda personale, la vicenda giudiziaria di cui sono vittima e da cui sono sempre stato assolto”. Difficile togliergli la parola. Più facile, come farà Elvira Zaccagnino qualche ora dopo, affidare allo scritto il proprio commento. La presidente delle edizioni La meridiana racconta: “Non sono di Foggia. Non conosco Casillo - scrive la Zaccagnino - se non dai giornali di oltre 30 anni di cronaca pugliese e nazionale. Sempre assolto. E' vero. Ma ieri il suo fare, il suo dire, il suo ammiccare erano tipici di un modus inquietante. Il suo minacciare e dichiarare amicizia, il suo chiedere a Libera di essere al suo fianco a testimoniare la sua innocenza toglievano il respiro. La cappa sulla città l'ho respirata in quella sala“. Non manca un riferimento a Daniela Marcone. “A Daniela – evidenzia la Zaccagnino – Casillo dice anche di una lettera inviata da un sacerdote a don Luigi Ciotti che ha firmato la prefazione del libro. Noi lo sapevamo già. Daniela no. Quel prete in quella lettera scagiona Casillo da tutto, anche da ciò a cui non si fa riferimento nel libro e rimprovera Ciotti di essersi prestato a scrivere la Prefazione di un libro simile". E poi: “Casillo conclude dicendo che farà una conferenza stampa dove vuole accanto Daniela Marcone, che è referente di Libera ed è la figlia di Francesco Marcone, funzionario dello Stato ammazzato a Foggia, a testimoniare la sola verità: la sua".
"Mi chiedo da ieri sera - conclude la Zaccagnino - la ragione per cui 2 pagine di un libro fanno paura di fronte ai 56 e oltre processi da cui si è stati assolti. E mi chiedo come si faccia a fare di una città condominio una città comunità. La sfida è questa per aggrapparsi alla speranza. Condividere la cronaca di un momento forse è un modo per cominciare".
CORRUZIONE: MANETTE A GIUDICI ED AVVOCATI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.
Corruzione, in manette giudice e avvocato. Indagati due ammiragli della Marina Militare. Sette in tutto gli arresti. La richiesta è partita dalla procura di Roma. Tra le persone finite il manette il magistrato del Tar del Lazio e l'ex presidente della Banca popolare di Spoleto, scrive “La Repubblica”. Sette arresti per corruzione in atti giudiziari: 3 in carcere, 4 a domiciliari. Ad eseguirli, su richiesta della Procura di Roma, sono stati i carabinieri del Noe. In manette sono finiti il giudice del Tar del Lazio, Franco Angelo Maria De Bernardi, l'avvocato amministrativista Matilde De Paola e l'uomo d'affari Giorgio Cerruti. Ai domiciliari invece l'ex presidente della Banca Popolare di Spoleto, Giovannino Antonini, Francesco Clemente, Francesco Felice Lucio De Sanctis e Marco Pinti. Nell'inchiesta risultano indagati anche due ammiragli della Marina Militare e il costruttore Claudio Salini, dell'omonima impresa edile. Ma sono oltre 17 le persone indagate per fatti avvenuti negli ultimi mesi del 2012 ad oggi. L'inchiesta, si legge nel provvedimento del gip, ''trae origine dall'attività di intercettazione disposta nell'ambito di altro e diverso procedimento pendente dinanzi alla Procura di Napoli''. De Bernardi era già finito in manette a maggio 2013 con l'accusa di riciclaggio su richiesta della procura di Palermo: secondo gli inquirenti siciliani sarebbe stato a capo di un'associazione a delinquere sgominata dai finanzieri. Ora il pm della procura capitolina gli contesta il reato di corruzione in atti giudiziari. In particolare, come scrive il gip nell'ordinanza di custodia cautelare, De Bernardi avrebbe siglato un accordo con l'avvocato Matilde De Paola ''in base al quale quest'ultima si impegnava a corrispondere al giudice del Tar somme di denaro quale compenso per il compimento di una serie di atti contrari ai doveri d'ufficio consistenti di volta in volta, nell'accordarsi con parti processuali in ordine alla nomina della stessa De Paola quale difensore in procedimenti davanti al Tar del Lazio''. Episodi di corruzione non sporadici ma che, secondo il giudice, dimostrano, come scritto in un passaggio delle 101 pagine del provvedimento di custodia cautelare, "in maniera chiara ed univoca la sussistenza di un articolato ed organizzato sistema di corruzione che fa capo al De Bernardi". "Sussistono seri elementi, ben al di là di quanto esige il parametro dei gravi indizi di colpevolezza, in ordine al fatto - si legge nel provvedimento - che, egli si sia ripetutamente accordato con diversi privati ed in relazione a diversi procedimenti per alterare, dietro la corresponsione di somme di denaro, il corretto e imparziale esercizio dell'attività giurisdizionale. In particolare risulta che egli abbia svolto tale illecita attività di interferenza avvalendosi, nella maggior parte dei casi, dell'ausilio dell'avvocato De Paola, avvocato amministrativista del foro di Roma. Al riguardo le emergenze processuali hanno dimostrato che il giudice aveva stretto con la citata professionista un accordo corruttivo 'aperto' in virtù del quale egli, in cambio di una parte degli onorari, non solo avrebbe indirizzato alla medesima persone che a lui si rivolgevano per ottenere il suo interessamento ai procedimenti che li riguardavano , ma avrebbe altresì supportato il ricorrente mediante una fattiva collaborazione nell'attività di assistenza legale". Quanto ai due ammiragli della Marina Militare, Marcantonio Trevisani e Luciano Callini, entrambi 65enni, sono indagati per corruzione sui ricorsi pilotati al Tar del Lazio dal giudice De Bernardi. Stando al gip Maria Paola Tomaselli, De Bernardi avrebbe ''indirizzato allo studio dell'avvocato Matilde De Paola i due ammiragli, curando per loro la stesura dei ricorsi amministrativi dagli stessi proposti ed influendo in modo determinante nella stessa stesura della sentenza, ricevendo quale corrispettivo dall'avvocato De Paola, per il tramite della propria convivente Evis Mandija (che emetteva in relazione a tale pagamento fattura per operazioni inesistenti) la somma di 10mila euro''. ''Il giudice - dunque - ha svolto un'attività di interferenza nella fase di studio e di predisposizione del ricorso''. In una conversazione con l'avvocato De Paola, intercettata dagli investigatori, il magistrato amministrativo si sarebbe spinto ad affermare ''di aver fatto al Trevisani 'una sentenza ad hoc'''. Salini, invece, è tirato in ballo perché secondo l'accusa, il giudice amministrativo De Bernardi e l'avvocato De Paola, a partire dallo scorso marzo, ''accettavano, per il tramite di Francesco Clemente da ICS Grandi Lavori spa (riconducibile al gruppo facente capo proprio a Salini) la promessa del pagamento di imprecisate somme di denaro'', ''in cambio della sua attività di indebito interessamento ed illecita interferenza volti ad alterare le corrette procedure di assegnazione e decisione del ricorso proposto da ICS per l'annullamento del provvedimento di assegnazione dell'appalto per la costruzione del Ponte della Scafa''. ''Condotta illecita - scrive il gip Maria Paola Tomaselli - in effetti concretamente posta in essere da De Bernardi mediante la predisposizione di memorie difensive ed altre condotte orientate a conseguire un esito favorevole al ricorrente, come in effetti avvenuto, con corresponsione a De Bernardi di una prima parte (euro 5.000) del compenso concordato''. Nella vicenda del ricorso di ICS Grandi Lavori spa, il gip Maria Paola Tomaselli spiega che ''lo schema si ripete, con l'unica peculiarità che, in questo frangente, il privato non contatta il giudice De Bernardi, ma è, al contrario, un cliente dell'avvocato De Paola, alla quale era stato indirizzato dal di lei marito Patrizio Giuliani, amico dell'amministratore delegato della società Francesco Clemente''. Secondo il gip, la De Paola ''ricorre al sostegno del giudice De Bernardi al fine evidente di acquisire il gruppo Salini come cliente, avendo peraltro ben compreso che Clemente l'aveva incaricata della causa, affiancandola all'avvocato Musenga, proprio per giovarsi dell'intervento illecito di De Bernardi''. Per quanto riguarda l'arresto di Antonini, al centro dell'inchiesta ci sarebbe invece il ricorso al Tar del Lazio nei confronti di Bankitalia contro il commissariamento della Spoleto credito e servizi. L'ipotesi accusatoria sembra essere quella di un interessamento del giudice Maria De Bernardi al procedimento in cambio di 50mila euro ricevuti tramite Cerruti che entra in gioco, sottolinea il gip, ''sin dal 27 febbraio 2013 allorquando invita a pranzo (al ristorante "Il Caminetto" a Roma, ndr) De Bernardi, unitamente a un monsignore Manlio Sodi (di cui non sono ancora chiari il ruolo nella vicenda e il concreto interesse nutrito anche se il prelato risulta inserito in una Onlus, ndr), e ad Antonini, anticipandogli che si dovrà parlare di un ricorso amministrativo proposto da quest'ultimo. Il giudice - si legge nell'ordinanza - si mostrava molto disponibile ad adoperarsi per l'amico di Cerruti, esprimendosi testualmente nei seguenti termini: e glielo facciamo fare... lo serviamo come merita...è amico tuo''. L'accordo corruttivo poi prenderà forma l'8 aprile quando nello studio dell'avvocato Matilde De Paola si incontrano, oltre allo stesso legale, De Bernardi, Cerruti, Antonini al fine di discutere del ricorso. L'interessamento di De Bernardi è tale che la sua richiesta di essere assegnato all'udienza della terza Sezione (che non è quella di sua appartenenza) viene accolta. E ne informa subito la De Paola. Il difensore di Antonini, l'avvocato Manlio Morcella, si riserva una più approfondita valutazione una volta esaminati tutti gli atti d'indagine, ma sottolinea finora che ''non ci sono intercettazioni dirette tra Antonini e il giudice''. Il legale ha anche già annunciato ricorso al tribunale del riesame contro l'arresto. «Un cappuccino anche per il giudice». Sono state intercettazioni come questa a incastrare il gruppo che al Tar del Lazio decideva chi dovesse vincere i ricorsi a suon di tangenti, scrive Lavinia Di Gianvito su “Il Corriere della Sera” . In carcere sono finiti Franco De Bernardi, magistrato della seconda sezione quater, l'avvocato Matilde De Paola e Giorgio Cerruti, considerato uno degli intermediari delle mazzette. Gli altri due, Marco Pinti e Francesco De Sanctis, sono ai domiciliari insieme all'ex presidente della Popolare di Spoleto, Giovannino Antonini, e all'amministratore delegato dell'impresa di costruzioni ICS Grandi Lavori, Franco Clementi. Fra gli indagati, il fondatore della ICS Claudio Salini e due ufficiali, l'ammiraglio di squadra Marcantonio Trevisani, da cinque anni presidente del Centro alti studi per la difesa (la principale scuola di formazione degli ufficiali italiani), e il suo collega Luciano Callini, ai vertici dello stato maggiore della Difesa, nei mesi scorsi consulente del caso dei due marò indagati in India per omicidio. Sarebbero decine le cause pilotate contestate dal procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi e dai pm Stefano Pesci e Alberto Pioletti. E ammonterebbero a decine di migliaia di euro le tangenti ricostruite grazie alle conversazioni intercettate per un anno dai carabinieri del Noe, al comando del capitano Pietro Rajola Pescarini. La promessa di 50 mila euro avrebbe permesso all'ex presidente della Popolare di Spoleto di vincere il ricorso contro il ministero dell'Economia, che aveva commissariato la banca per un buco di diversi milioni di euro. La vittoria sarebbe stata propiziata da una cena al ristorante «Il Caminetto», ai Parioli, dove il 27 febbraio scorso Cerruti avrebbe invitato il giudice, Antonini e un non ancora identificato monsignore. «Cerruti, soggetto pregiudicato per reati gravi di criminalità economica», scrive il gip Maria Paola Tomaselli nelle 101 pagine dell'ordinanza, aveva «un proprio personale interesse all’esito favorevole del ricorso avendo egli goduto di un trattamento assolutamente privilegiato durante la gestione della banca da parte di Antonini». Anche la ICS Grandi Lavori avrebbe vinto un ricorso truccato, sconfiggendo quindi il Campidoglio che aveva assegnato a un'altra impresa l'appalto da 25 milioni di euro per la costruzione del ponte della Scafa. Secondo chi indaga, gli intermediari (Cerruti, Pinti e De Sanctis) conducevano dal magistrato i ricorrenti pronti a ottenere una sentenza favorevole a ogni costo e questi li invitata a rivolgersi all'avvocato, che «sapeva come fare». Ma il ruolo di De Bernardi non si sarebbe limitato all'invio dei clienti allo studio legale: smessa la toga indossata al mattino al Tar, il magistrato si trasformava in avvocato e scriveva le memorie che occorrevano per sostenere le tesi dei ricorrenti. Scrive infatti il gip: «Il giudice aveva stretto con la De Paola un accordo corruttivo "aperto" in virtù del quale egli, in cambio di una parte degli onorari, non solo avrebbe indirizzato alla medesima persone che a lui si rivolgevano, ma avrebbe altresì supportato il ricorrente mediante una fattiva collaborazione nell’attività di assistenza legale». Ancora: De Bernardi si sarebbe «adoperato per utilizzare la sua collocazione presso il tribunale del Lazio al fine di influenzare a vantaggio del cliente l'esito dei procedimenti sia cercando di indirizzare le cause in udienze nelle quali era prevista la sua presenza, sia svolgendo un'attività di sensibilizzazione nei confronti di giudici amici». Stando all'ordinanza, De Bernardi avrebbe curato i ricorsi degli ammiragli «per mezzo dello studio De Paola» e avrebbe «percepito dall'avvocato un compenso di circa 10 mila euro». Secondo la procura si tratterebbe di una tangente, però mascherata da fattura per una consulenza pagata a Mandija Evis, compagna albanese del magistrato del Tar. Su Callini, poi, c'è un'intercettazione che lascia pochi dubbi, visto che proprio De Bernardi confida all’avvocato De Paola: «Gli ho fatto una sentenza ad hoc». L'inchiesta, durata un anno, è partita dagli atti trasmessi dalla procura di Napoli, che ha raccolto i primi indizi indagando su una storia di camorra. Il giudice e l'avvocato sono stati arrestati per corruzione in atti giudiziari, gli altri per corruzione. De Bernardi era già finito in carcere a maggio scorso a Palermo nell'ambito di un'inchiesta su un traffico di lingotti d'oro (ma dopo tre giorni l'ordinanza era stata annullata), mentre Cerruti è noto alle cronache per il fallimento da cento miliardi di lire della sua Compagnia generale finanziaria nel '93. Legato alla massoneria e a Flavio Carboni, gli inquirenti dell'epoca erano arrivati a Cerruti seguendo i soldi di Licio Gelli.
Corruzione Roma: “Fogna in cui sguazzavano giudici, imprenditori, banchieri, faccendieri”, scrive Donatella Stasio su “Il Sole 24Ore”. A leggerla bene, la cronaca giudiziaria recente descrive un paradosso: il processo, luogo di accertamento della verità, viene stravolto e piegato a interessi criminali. Nello Rossi, Procuratore aggiunto di Roma e capo del pool sui reati economici, lo conferma: «Il processo si trasforma in un inedito ambiente criminogeno, nel quale si corrompe, si falsifica, si ruba. Siamo di fronte a un segmento altamente specializzato della criminalità dei colletti bianchi: la criminalità del giudiziario». I protagonisti principali sono giudici e avvocati, che «sfruttano a proprio vantaggio, spesso con straordinaria astuzia, tutti i fattori di crisi della giustizia in Italia: l’enorme numero di processi, la complessità e farraginosità delle procedure, le difficoltà degli enti (soprattutto previdenziali) di controllare i dati di un contenzioso spesso sterminato». L’ultimo caso eclatante è di ieri, con i sette arresti per corruzione in atti giudiziari chiesti dalla Procura di Roma e ordinati dal Gip. Una fogna in cui sguazzavano giudici, imprenditori, banchieri, faccendieri, aspiranti notai bocciati al concorso. Uno scandalo di dimensioni enormi. L’ennesimo emblema di un «fenomeno» più generale e allarmante, su cui Rossi accetta di riflettere con Il Sole 24 ore. Premettendo: «Forse dobbiamo avere il coraggio di guardare di più al nostro interno, ai meccanismi che vengono alterati e alle cadute di moralità dei protagonisti della giustizia». La corruzione dei giudici, anzitutto. «È certamente il fenomeno più inquietante: qui il patto tra corruttore e corrotto è il più iniquo perché getta sulla “bilancia” un peso truccato con effetti devastanti sia sulla singola vicenda processuale sia sulla credibilità del sistema giudiziario, tant’è che neanche un anno fa il legislatore ha aumentato le pene per questo reato». Eppure, l’effetto deterrente di questo intervento sembra smentito dalla cronaca. Come mai? «Spesso, negli episodi più recenti non siamo di fronte a un singolo accordo corruttivo; il giudice infedele mette in moto un vero e proprio ciclo corruttivo, un ingranaggio ben oliato che investe più processi». Il vero deterrente sono «indagini accurate, che reggano alla prova del processo, eliminando il senso di impunità del giudice corrotto». Ma «molto resta da fare sul piano della deontologia di tutte le categorie, compresi gli avvocati». La corruzione giudiziaria è infatti solo uno dei tasselli del mosaico della «criminalità del giudiziario». C’è anche «l’utilizzazione truffaldina del processo», come quella emersa nel caso altrettanto clamoroso – e recente – dei processi previdenziali “finti”. «Avvocati che falsificano le firme di incarico di clienti inesistenti (persone ignare, per lo più residenti all’estero, o morte), che ottengono in giudizio moltissime condanne dell’Inps a pagare interessi e rivalutazione su prestazioni previdenziali e che infine incassano personalmente le somme liquidate, grazie alla complicità di funzionari di banca. Non solo: su questa frode ne hanno subito innestata un’altra, altrettanto redditizia, imbastendo ulteriori processi, anch’essi fittizi, e incassando, in base alla legge Pinto, anche il risarcimento per l’eccessiva durata dei processi previdenziali fasulli». Un’integrale strumentalizzazione del processo, insomma. «Sì, come luogo in cui vengono fatti agire dei fantasmi, vere e proprie “anime morte” della giurisdizione». Va bene Gogol, ma ci sono anche processi veri con anime vive e avide. «È la terza tessera del mosaico», occasione di torsione della giustizia e di clamorose ruberie. Sono «i furti perpetrati sui beni che restano dopo il fallimento dell’impresa, da ripartire ugualmente tra tutti i creditori e spesso sviati su altre strade. Soldi dirottati da curatori infedeli, ingannando il giudice o talvolta con la sua complicità, verso creditori inesistenti o per prestazioni artificiose in favore dell’impresa fallita, e subito smistati verso banche di paradisi fiscali». L’elenco potrebbe continuare. Le indagini rivelano trucchi e stratagemmi sofisticati. «Certo, la stragrande maggioranza di chi opera nel mondo della giustizia è fatta di onesti. Anche loro sono vittime della criminalità del giudiziario. La repressione dei corrotti e dei falsari, oltre a tutelare i cittadini, serve anche a salvaguardare questi onesti».
«Il capitalismo malato non si cura in Tribunale» era il titolo dell'analisi firmata sul nostro quotidiano dall'avvocato Guido Rossi lo scorso 21 luglio, scrive Lionello Mancini su “Il Sole 24 Ore”. «Nella totale e prolungata inettitudine degli altri poteri dello Stato, cioè di inconcludenti poteri esecutivi e nella avvilente condotta di quelli legislativi, i magistrati, giudici o procuratori, vanno sempre più assumendo un ruolo ingiustamente centrale, come sostituti effettivi di una politica assente». Ma il diritto penale, ragionava Guido Rossi, finisce per mostrare solo il volto severo dello Stato, accompagnato da una totale «inefficienza nel contenere la devianza economica». In più, «la cultura della vergogna non si è radicata in Italia, a causa di costumi storicamente rilassati, mentre una inutile e continua alluvione di norme contraddittorie aggrava la situazione del Paese conducendo spesso le imprese a uno stato di paralisi e di forzata rinuncia alla loro funzione di strumento dello sviluppo economico». Per uno strano gioco di coincidenze, solo due giorni dopo, il 23 luglio, sempre sul Sole 24 Ore, il Procuratore aggiunto di Roma, Nello Rossi, proponeva una severa riflessione originata dall'arresto di sette persone per corruzione in atti giudiziari. «I protagonisti di queste inchieste sfruttano a proprio vantaggio, spesso con straordinaria astuzia, tutti i fattori di crisi della giustizia italiana: l'enorme numero dei processi, la complessità delle procedure, le difficoltà degli enti nel controllare i dati di un contenzioso spesso sterminato». E lanciava un invito: «Forse dobbiamo avere il coraggio di guardare di più al nostro interno, ai meccanismi che vengono alterati e alle cadute di moralità dei protagonisti della giustizia». Due angolazioni complementari, che rinviano a un'unica visuale dei problemi in cui rischia di affondare il nostro Paese. In questa visuale, le complessità procedurali e i labirinti normativi creati in decenni di fuga dalla legalità - uno dei frutti più velenosi della non-politica - sono ormai terreno di coltura di una delinquenza di altissimo livello. Sotto questo aspetto, fa bene il Rossi magistrato a cercare cause e rimedi del degrado nelle file dell'apparato giudiziario-amministrativo: un'indicazione che, se applicata a ogni latitudine professionale, contribuirebbe a ripulire la società prima dell'intervento delle toghe supplenti, ovvero prima che i comportamenti e le devianze si concretizzino in fatti-reato. I filtri reputazionali vengono a monte di quelli giudiziari e solo riattivandoli si potrà ricostruire la capacità del Paese di provare "vergogna" per le cattive pratiche ritualmente esecrate in pubblico, ma diffuse, tollerate e coltivate nell'ombra. E solo per questa via è possibile togliere alle toghe la loro anomala centralità oltre che ricollocare imprese e professioni al loro posto nel rifondare l'Italia. Alternative vere, a ben guardare, non ce ne sono. Oltretutto, per attenuare e poi azzerare gli effetti depressivi del sistema relazionale sulle energie che sprigiona il merito, non servono nuove leggi: basterebbe riattivare gli strumenti di controllo indipendente e di autogoverno già minuziosamente codificati per la finanza, l'economia, le professioni, i mestieri, gli ordini, la politica.
Nello Rossi. Ma non è quel magistrato attenzionato dal CSM?
Il magistrato era stato intercettato al telefono con Mancino. La pratica è stata assegnata alla Prima Commissione, quella competente sui trasferimenti d’ufficio dei magistrati ed è stata avviata su sollecitazione dei consiglieri di Magistratura Indipendente. Il Csm ha aperto un fascicolo sul procuratore aggiunto di Roma Nello Rossi, per la telefonata intercettata nell’ambito dell’inchiesta della procura di Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia, con l’ex vice presidente del Csm Nicola Mancino, scrive “Il Fatto Quotidiano”. La pratica è stata assegnata alla Prima Commissione, quella competente sui trasferimenti d’ufficio dei magistrati ed è stata avviata su sollecitazione dei consiglieri di Magistratura Indipendente, dopo che il testo della conversazione era stato pubblicato da alcuni quotidiani. La conversazione, in cui il magistrato, esponente storico di Magistratura democratica, tranquillizza Mancino, è stata intercettata nell’ambito dell’inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia della Procura di Palermo. Nei giorni scorsi il procuratore aggiunto Antonio Ingroia ha più volte sottolineato le difficoltà incontrate a indagare su un tema così delicato che sfiora e in alcuni casi coinvolge pezzi importanti dello Stato se non istituzioni. Nel giugno scorso la Procura di Palermo ha chiuso le indagini per dodici persone: Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonino Cinà, Salvatore Riina e Bernardo Provenzano, gli ufficiali del Ros Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, gli esponenti politici Calogero Mannino e Marcello Dell’Utri. Devono rispondere dell’art. 338 del codice penale: violenza o minaccia a corpi politici dello Stato, aggravata dall’art. 7 per avere avvantaggiato l’associazione mafiosa armata Cosa nostra e “consistita nel prospettare l’organizzazione e l’esecuzione di stragi, omicidi e altri gravi delitti (alcuni dei quali commessi e realizzati) ai danni di esponenti politici e delle istituzioni a rappresentanti di detto corpo politico per impedirne o comunque turbarne l’attività”. Insieme a loro presto anche l’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino per falsa testimonianza e il figlio di don Vito, Massimo Ciancimino per concorso esterno alla mafia e per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro. Ed ancora. «Il pm che mi ha indagato in 60 giorni non fatto nulla per mio padre in tre anni».
SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.
L'autore del libro «Il caso Genchi» a processo con l'accusa di aver diffamato un magistrato dell'Anm: «Ma le indagini preliminari sulle valvole cardiache impiantate a mio padre che fece poi un ictus le ha tenute aperte tre anni e sei mesi. Poi la Procura ha chiesto nientemeno che l'archiviazione», scrive Felice Manti su “Il Giornale”. C'è un filo rosso che lega le grandi inchieste che coinvolgono parlamentari e magistrati e l'eterna lotta tra politici e toghe. Sullo sfondo c'è la riforma della giustizia che ad alcuni ambienti della magistratura proprio non va giù. Il libro «Il caso Genchi» sulla storia e i segreti del consulente dell'ex pm di Catanzaro Luigi De Magistris sul caso "Why Not", che ha fatto irritare molti magistrati, ne è la summa. A Milano nei prossimi mesi inizierà il processo contro l'autore del libro, Edoardo Montolli, che avrebbe diffamato il magistrato romano Nello Rossi e che oggi è alle prese con l'ultimo romanzo («L'Illusionista», Alberti editore), dove la fanno da padroni giudici e poliziotti corrotti. L'accusa contro di lui è rappresentata da Maurizio Romanelli, il pm che ha appena chiesto il rinvio a giudizio di Paolo Berlusconi, editore del «Giornale», per la famosa intercettazione Fassino-Consorte, quella dell'«abbiamo una banca». Del famoso brogliaccio si parla anche nel tuo libro, vero? Ma il pm non ti ha chiesto nulla? «Romanelli? Investigava sull'intercettazione Fassino-Consorte e non mi ha mai nemmeno convocato per farmi qualche domanda, dato che ne "Il caso Genchi" dedicavo a quella telefonata oltre cento pagine dense di dati, e non opinioni, che emergevano dall'archivio del consulente e dalla sua memoria difensiva. Ma si vede che non erano dati interessanti». Riguardavano Paolo Berlusconi? «No. Tutt'altro. Ma rimando alla lettura del libro, che comunque il pm Romanelli ha letto». Perché? «Sono stato querelato per il libro dall'ex segretario dell'Anm Nello Rossi, attuale procuratore aggiunto di Roma che, insieme all'ex magistrato Achille Toro, aprì l'indagine su Genchi. La querela è del 2 marzo. E il 3 maggio Romanelli ha chiuso le indagini. Evidentemente, nonostante le numerose indagini di cui si occupa, è riuscito a leggere molte pagine del libro e a tirare le conclusioni in due soli mesi, senza fare alcuna indagine. È stato strepitosamente veloce. Specie rispetto all'esperienza che ho vissuto con lui da privato cittadino». Cioè? «Mah, siccome ero strabiliato da una tale velocità, a luglio sono andato a controllare in tribunale a che punto fosse un esposto, che avevo fatto per quanto accaduto a mio padre nel novembre 2006, assegnato proprio a Romanelli. Per me una cosa un pochino più grave». Spiega. «Dopo un'operazione di sostituzione di valvola aortica nel 2000, mio padre ha avuto un ictus ed un'emiparesi sinistra, restando invalido al 100% a soli 55 anni. Pensavo fosse colpa del destino. Ma nel novembre 2006 la valvola, praticamente ancora nuova, risultava piena di trombi, nonostante tutte le settimane, invece che tutti i mesi, un primario ne controllasse i valori sanguigni, risultati sempre nella norma. Andava sostituita nuovamente. E siccome la valvola era stata messa da un medico, poi arrestato e condannato, ho chiesto il sequestro della vecchia valvola, avvenuto all'indomani dell'operazione e spiegato tutto in un esposto». Risultato? «L'indagine è stata presa in carico da Romanelli. Non ha mai chiamato né me né i medici che dovevano testimoniare. Ho pensato che avesse svolto indagini, che non fosse emerso nulla e che l'inchiesta fosse stata archiviata. Invece a luglio ho scoperto che, dopo 3 anni e sei mesi, l'indagine era ancora in fase preliminare». Tre anni e sei mesi? «Già. Ho chiesto l'avocazione del procedimento, ma la cosa più straordinaria è che stato respinto perché la Procura, addirittura in agosto, ha chiesto l'archiviazione. Cioè, ha tenuto aperto un fascicolo per tre anni e sei mesi per poi chiedere l'archiviazione, senza nemmeno sentire un teste. Ma ci volevano tre anni e sei mesi per accorgersi che non era accaduto nulla di penalmente rilevante? Da chi dovevano far analizzare la valvola, dalla Nasa? Ecco, il problema è proprio questo». Quale? «Che se è l'ex segretario dell'Anm a presentare una querela per diffamazione, i tempi del dottor Romanelli sono incredibilmente veloci, se invece da Romanelli va un cittadino qualsiasi, si prende un sacco di tempo. Certo, Nello Rossi si sentiva diffamato e si doveva fare in fretta, mentre mio padre ha "solo" rischiato di morire». Non sembri avere molta fiducia nella magistratura. «È che mi fanno sorridere i magistrati che attaccano Berlusconi, dicendo che la legge deve essere uguale per tutti. Come no. Per esperienza personale e professionale, aggiungerei tutti quelli che vogliono loro. Dipende da chi querela e da chi è l'imputato. D'altra parte scrivo sempre di vicende di ingiusta detenzione, e non a caso l'Italia è il Paese più condannato dall'Ue in materia, senza che nessun magistrato sia mai stato condannato per questo. Finché la situazione è questa, se io fossi il premier, farei una legge "ad personam" al giorno per difendermi. D'altra parte nella conclusione del libro sul caso Genchi evidenziavo una volta di più il vero problema dell'Italia, che non è la destra o la sinistra, ma l'anomalia della magistratura». Cioè? «Proponevo una separazione delle carriere un po' diversa da quella richiesta dai politici: i magistrati che vanno al ministero non tornino in tribunale. Perché non è possibile che a giudicare i politici siano gli stessi magistrati che alla legislatura successiva ottengono incarichi di governo. O fai una cosa o fai l'altra». Genchi però attacca sempre di più Berlusconi...«Ognuno ha le sue idee. Di certo in "Why Not" di Berlusconi non c'era alcuna traccia. Ma basta leggersi il libro per trovare gli stessi nomi e gli intrecci emersi con il successivo scandalo Protezione Civile o alcuni sprazzi sulle stragi del '92-'93. Ma, a dirla tutta, ho scritto che nemmeno m'importava se "Why Not" fosse giusta o sbagliata. Quello che mi sembrava paradossale era che a prendere in mano le carte di De Magistris fossero magistrati sicuramente in contatto con alcuni imputati. Ecco, questo non è eticamente accettabile. Così come non è eticamente accettabile che chi ha sequestrato l'archivio Genchi avesse fatto alcune telefonate presenti all'interno del medesimo archivio, come quella tra l'allora segretario dell'Anm Nello Rossi e l'ex ministro della giustizia Mastella che doveva mandare in soffitta entro la fine di luglio del 2007 la riforma Castelli sulla separazione delle carriere: il tutto mentre Prodi era stato appena indagato e a giorni lo sarebbe stato proprio Mastella. È su questo, su ciò che accadde a luglio 2007, che si discuterà nel corso del mio processo. E invito tutti a venirlo a vedere per capire in che Paese viviamo. Che non ci sono eroi, tantomeno bianchi e neri. Ma che tutto è un intreccio grigio».
GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.
Invito a cena con carabiniere, scrive Martino Villosio su “L’Espresso”. Il 'vizietto' del generale dell'Arma Baldassarre Favara, dal 2006 al 2008 comandante della Regione Lazio. Organizzare cene di rappresentanza utilizzando mezzi e personale dell'Arma per trasportare i tavoli e servire i commensali. Come documentano le foto che siamo in grado di mostrarvi. La cena del 23 settembre 2008 cui partecipò anche Francesco Cossiga. Prima in divisa, con i gradi da brigadiere cuciti addosso. Poi, nelle foto successive, in giacca bianca e cravatta nera, intenti trasportare piatti, a stappare bottiglie, a mescere vino nei calici e a chinarsi per porgere con deferenza il vassoio dei salatini agli ospiti attovagliati al desco del loro Generale. Ospiti illustri, se è vero che tra di essi è possibile riconoscere il defunto Presidente Francesco Cossiga, il segretario generale della UIL Luigi Angeletti, Giancarlo Elia Valori, ex presidente della holding regionale Sviluppo Lazio e di Confindustria Lazio, famoso anche per essere stato l'unico iscritto alla P2 a subire l'espulsione dalla loggia massonica. Intorno a loro si muovono carabinieri tramutati in camerieri, ufficiali di polizia giudiziaria immortalati mentre servono ai tavoli di una cena organizzata nei locali della caserma "Giacomo Acqua" di Piazza del Popolo a Roma, sede del Comando Regionale del Lazio. Risalgono al 2008, ma conservano intatto l'effetto del classico pugno nello stomaco le istantanee che sgusciano fuori dal seno dell'Arma. La documentazione in fotogrammi di una pratica, quella di utilizzare militari professionali per scopi di rappresentanza e in mansioni estranee e "degradanti" rispetto alle loro reali funzioni, più volte aspramente stigmatizzata dalle rappresentanze di base delle Forze Armate e dai sindacati di polizia. Critiche e proteste che evidentemente non hanno fatto breccia nell'animo del Generale di Corpo d'Armata Baldassarre Favara, dal 2006 al 2008 il comandante della Regione Carabinieri Lazio. E' lui l'organizzatore della cena documentata nelle foto ottenute dal sito de "l'Espresso", risalente al 23 settembre 2008, con i due carabinieri (di stanza nella caserma di Piazza del Popolo) impegnati a servire ai tavoli negli ambienti dell'ex Circolo Ufficiali interno alla struttura, pallide comparse tra un brindisi e l'altro dei partecipanti alla cena. Tra cui si riconoscono anche i due figli dell'allora comandante regionale, il "padrone di casa". Oggi Favara, in pensione, fa il consigliere regionale del Lazio, eletto alle ultime elezioni nel listino del Presidente Nicola Zingaretti. Durante il suo comando il generale con il pallino della politica ha usufruito appieno dei locali della caserma "Giacomo Acqua", anche di quelli non destinati al suo alloggio di servizio: per esempio la terrazza panoramica con splendido affaccio su Piazza del Popolo, utilizzata la sera del 21 e quella del 25 luglio 2008 per ospitare cene con invitati di rispetto. Tavoli trasportati per l'occasione, bottiglie in ghiaccio e raffinate decorazioni floreali, sullo sfondo la magia di Roma: scampoli di una vita un po' meno spartana di quanto si è soliti immaginare in una caserma. Niente di particolarmente eclatante né di illecito. Tra le fila dell'Arma però, dove una parte dei militari semplici ha i nervi a fior di pelle per il blocco degli stipendi in vigore dal 2010 e i sacrifici quotidiani imposti dai tagli della spendig review, fa male constatare come in entrambe le occasioni, nuovamente, siano stati utilizzati due brigadieri nelle vesti di camerieri. Chi nei giorni scorsi ha ascoltato l'allarme preoccupato lanciato dal Comandante Generale dell'Arma Leonardo Gallitelli sui mezzi che rischiano di rimanere senza benzina, osserva con perplessità anche un altro particolare che emerge dalle foto fornite al sito de "l'Espresso": un Ducato militare utilizzato apposta per trasportare tavoli, poltrone e sedie in almeno tre occasioni, dalla cena con i comandanti provinciali del 7 luglio 2008 a quella del 13 settembre 2008 con autorità varie, passando per il pranzo del 26 aprile 2008 in occasione del battesimo del nipote di Favara. Tra i fondi previsti in base alla legge nel bilancio del ministero della Difesa, accanto a quelli per l'acquisto di riviste, per conferenze, cerimonie, convegni, raduni, congressi, mostre, figurano anche quelli destinati a finanziare le spese per scopi di rappresentanza, da intaccare in occasione di cerimonie ed eventi istituzionali. Nulla, peraltro, autorizza ad escludere che il generale Favara - nell'invitare a cena i suoi ospiti in caserma - abbia utilizzato soldi propri. In entrambe le ipotesi - si chiede però con amarezza una fonte dall'interno dell'Arma - non si capisce a quale titolo il servizio ai tavoli, come anche il ricevimento e l'accompagnamento degli ospiti all'ascensore e il compito di addetti al guardaroba, siano stati svolti da appuntati, marescialli e brigadieri interni alla "Giacomo Acqua", impiegati in attività non affini a quelle istituzionalmente esercitate. Da anni ormai, e certamente già all'epoca delle cene in questione, i servizi di mensa all'interno delle caserme sono svolti da ditte civili che li ricevono in appalto. Mentre tra i compiti dei carabinieri addetti al "minuto mantenimento" nelle sole strutture appartenenti al Ramo Difesa possono rientrare - in base ai regolamenti - esclusivamente piccoli lavori di ordinaria manutenzione, come quelli di falegnameria. Nel luglio del 2012 persino la domanda del consiglio di rappresentanza di base della legione Friuli Venezia Giulia per la costituzione anche a livello provinciale di un'aliquota di personale "a doppio incarico" da impiegare - dopo corsi di formazione - nella manutenzione delle caserme è stata respinta dall'ufficio personale: "l'attribuzione di un secondo incarico distrarrebbe indubbiamente il personale", è stata la motivazione. Anche se nel 2008 la spending review non aveva ancora infierito su stipendi e organici, c'è da immaginare che la stessa intransigenza sarebbe stata usata dall'Arma di fronte alla richiesta di usare degli ufficiali di polizia giudiziaria (come quelli immortalati nelle foto) per il servizio ai tavoli. Eppure non è la prima volta che il tema dell'impiego di personale per compiti non attinenti al servizio nell'ambito delle Forze Armate balza all'onore delle cronache. Nell'ottobre dello scorso anno ha suscitato scalpore - non solo tra i militari - la pubblicazione di una "comunicazione di servizio permanente" del comandante in seconda della nave da guerra "Francesco Mimbelli". Un elenco dettagliato delle disposizioni per l'accoglienza del Comandante in Capo della Squadra Navale, l'ammiraglio Giuseppe De Giorgi, in occasione della sua visita a bordo avvenuta l'8 settembre 2012. A colpire l'attenzione, in quell'occasione, fu soprattutto l'ordine impartito all'Ufficiale in Comando d'Ispezione: accertarsi ogni mattina della "effettiva presenza in quadrato Ufficiali di una idonea bottiglia di spumante/champagne tenuta in fresco in riposto Ufficiali, nonchè biscotti al burro e mandorle da tostare al momento a cura del cuoco di servizio". "Il Capo Reparto Logistico, avvalendosi del Capo Gamella dovrà accertarsi che sia prontamente reperibile dal personale addetto al quadrato Ufficiali il materiale di consumo sopra indicato", continuava la circolare. Suggellata da un'ultima perentoria intimazione, che ha fatto infuriare più di ogni altra cosa le rappresentanze di base. "Alla chiamata 'Il Comandante in Capo della Squadra Navale a Bordo-Alza Insegna' il personale addetto al Quadrato Ufficiali o l'addetto ai Quadrati Unificati (durante il fine settimana/giornate festive) dovrà essere in tenuta di rappresentanza pronto a servire mandorle tostate e spumante/champagne". Parole che sono la radiografia dall'interno di un mondo ancora in parte legato a privilegi e rituali scavalcati dal presente, trattato con guanti di velluto dagli ultimi governi. Nessuna norma di riduzione della spesa è intervenuta finora per eliminare - per esempio - la SIP, speciale indennità pensionabile che spetta ai Vice Comandanti Generali dei carabinieri e della guardia di finanza. Negli ultimi 15 anni ben 22 generali di corpo d'armata dei carabinieri (tra loro anche Clemente Gasparri, fratello di Maurizio) si sono avvicendati nel ruolo di Vice Comandanti, restando in carica per periodi brevissimi (anche meno di un mese) sufficienti a maturare il diritto a una pensione da 14.000 euro, somma dei 6.000 euro di stipendio (oltre a varie indennità) più un maxi incremento di 8.000 euro che non trova riscontro nei contributi versati. Ai piedi della piramide, invece, le cose sono andate diversamente. Con le retribuzioni e gli aumenti legati alle promozioni congelati dal 2010 e fino al 2014 - come in tutto il comparto pubblico - i carabinieri semplici (stipendio da 1.300 euro al mese, spesso prosciugato da un affitto da pagare nel luogo di servizio) ingoiano rabbia e frustrazione ormai da troppo tempo. E iniziano a valutare con insofferenza crescente la forbice che separa il vertice dalla base.
E che dire di un altro Generale. Mogli e amici a bordo di un aereo del corpo, e poi di un elicottero per una gara di sci sulle Dolomiti. Gite in montagna e pesce fresco in baita così Speciale usava l'Atr della Finanza, scrive Carlo Bonini su “La Repubblica”. Roberto Speciale con coppola e montone. Le signore in pelliccia. Tutti a Passo Rolle. Per la festa sulla neve. A bordo dell'Atr 42 della Guardia di Finanza. E a cena pesce freschissimo. In casse caricate all'aeroporto di Pratica di Mare e spedite con volo militare. L'ex comandante della Guardia di Finanza ha chiesto al Paese cinque milioni di euro perché il suo onore di "uomo delle Istituzioni" e di "ufficiale" con la schiena dritta trovi giusto ristoro al "massacro" che ne avrebbero fatto in Parlamento il ministro dell'Economia Padoa-Schioppa e il suo vice Vincenzo Visco. Un giudice amministrativo deciderà di qui a tre settimane del risarcimento. E' un fatto che, liberi dalla sua ombra, gli archivi della Guardia di Finanza cominciano a restituire qualche documento che racconta chi è Roberto Speciale. Come ha interpretato il suo comando. Quale uso abbia fatto delle risorse destinate al lavoro di un Corpo che, spesso, a fine anno, non ha risorse per mettere la benzina nelle sue macchine. Parliamo di un filmato ufficiale girato in una fredda mattina del febbraio 2005. A passo Rolle (Trentino Alto Adige) si apre la 55esima edizione delle "gare invernali di sci" del Corpo. Un operatore delle Fiamme Gialle rivolge l'obiettivo della telecamera sull'orizzonte cobalto della pista di atterraggio dell'aeroporto di Bolzano. Nell'assolo trionfale e lancinante di una chitarra elettrica che fa da colonna sonora alle immagini, un Atr 42 turboelica del Corpo (aereo destinato, secondo le informazioni diffuse dal sito istituzionale della Finanza, al "contrasto del contrabbando", alla "sorveglianza delle coste", alle "missioni umanitarie", giocattolo da 3.500 euro l'ora, escluso il costo dell'equipaggio) si posa a terra. Il bestione rulla, avvicinandosi lentamente all'aerostazione e la musica cresce. Cresce nell'enfasi compiaciuta della regia. Un drappello di infreddoliti ufficiali si avvicina al portellone posteriore, guidato dal generale Giulio Abati (allora comandante regionale del Trentino Alto Adige). Attesa. Poi, ecco il primo passeggero. Una signora avvolta in una pelliccia di volpe. La moglie di Roberto Speciale. Ecco il secondo. Un'altra pelliccia di volpe. La signora D'Amato, moglie del generale Salvatore D'Amato (all'epoca comandante interregionale di Napoli). Ora, la terza pelliccia. Volpe come sopra, ma rovesciata. Una giovane donna che nessuno dei presenti sembra conoscere o riconoscere, salvo l'autista del comandante generale che aspetta sottobordo e con cui scambia un affettuoso bacio. Quindi tocca agli uomini. Un ragazzone dall'abito sportivo con una sporta di carta; un uomo di mezza età che sembra accompagni la più giovane delle signore; il generale D'Amato, in giacca a vento e quindi lui, il Comandante. Immagini di vederlo fare capolino in alta uniforme. E invece il generale si è "messo" da montagna. Coppola, giacca di montone con bottoni in osso, morbidi pantaloni in velluto verde petrolio. Lo salutano militarmente. Lui risponde allungando morbidamente la mano nel gesto dell'omaggio. Da Bolzano a Passo Rolle sono 50 minuti di auto. La giornata è serena. In fondovalle non c'è neve. Ma la comitiva, visibilmente compiaciuta, non si nega lo spettacolo delle cime. Si accomoda su un elicottero Ab 412 del Corpo che attende a bordo pista. La chitarra elettrica della colonna sonora pesta in un ennesimo assolo, mentre l'obiettivo stringe sulle signore in pelliccia issate a bordo, su un comandante chino ad allacciare le cinture di sicurezza a chi non sa neppure da dove si cominci. Su Speciale, che ora ha tolto la coppola e inforcato dei "Rayban" a goccia con cui osserva compiaciuto il lavoro agiografico del cine-operatore. Di nuovo in aria. Il Cimon della Pala è magnifico. I tre generali che attendono a Malga Fossa (Nino Di Paolo, generale di corpo d'armata, comandante a Firenze; Luciano Pezzi, generale di divisione, Lucio Macchia, generale di corpo d'armata) sono tre deferenti statue di ghiaccio. Alla malga, ai piedi dell'elicottero appena atterrato in una nuvola di neve farinosa, il cerimoniale si ripete nella sua sequenza grottesca. Nessuno sa bene chi salutare. Anche perché alcuni di quelle signore e signori non li conosce nessuno. Finche una Land Rover blu notte tirata a lucido se ne va con gli ospiti. Non sembra questa la sola pagina umiliante scritta a Passo Rolle. Di storie, nel Corpo, se ne raccontano di tutti i colori. E almeno una ha lasciato tracce documentali e testimoniali. Speciale ama il pesce fresco. E, si sa, le malghe non ne offrono. In un'occasione, dunque, dall'aeroporto di Pratica di Mare viene fatto sollevare un Atr 42 con a bordo un metro cubo di pesce. Il piano di volo prevede l'atterraggio a Bolzano, quindi il disimbarco e la consegna del prezioso carico in montagna. Il pilota è il maggiore Aldo Venditti. Ma il poveretto non ha fortuna. Le condizioni meteo su Bolzano lo obbligano ad atterrare a Verona, dove nessuno aspetta pesce. Tantomeno un drappello di sconcertati "baschi verdi" che rifiutano di farsi facchini. Tocca al pilota. E la storia smette di essere un segreto.
Spigole con l'aereo di Stato Conto da 200mila euro per l'ex generale Speciale. Nel 2005 l'ex ufficiale si era fatto spedire il pesce in Trentino con un Atr-42 dalla base di Pratica di mare. Oggi la Corte dei conti lo ha condannato a pagare, scrive “Libero Quotidiano”. Costerà bello caro, il banchetto a base di pesce che il generale della Guardia di Finanza Roberto Speciale si fece spedire in Trentino con un Atr-42 militare. Il caso passò alle cronache come quello delle "spigole col volo di Stato" e risale all'estate 2005. Nell'agosto di quell'anno, il generale si trovava a Predazzo in vacanza coi famigliari. E per allietare i suoi ospiti fece decollare appositamente dalla base di Pratica di Mare un aereo carico di spigole e altro pesce. Aereo adibito, normalmente alla sorveglianza delle coste per contrastare reati come il contrabbando o l'immigrazione clandestina. La vicenda venne denunciata due anni più tardi da Repubblica e sul piano penale (reati di abuso d'ufficio e peculato) si è conclusa con la prescrizione. Ma il danno patrimoniale, quello non si è prescritto e così a otto anni da quella storia la Corte dei Conti ha imposto all'ex ufficiale delle Fiamme Gialle il pagamento di un "conto" da 200mila euro in favore del Ministero dell’Economia e delle Finanze: circa 30mila euro per il consumo del carburante dell’aereo, altri 7mila euro per le spese del personale impegnato nell’organizzazione di quel viaggio; ben 170mila euro a titolo di risarcimento del danno di immagine. Gabriella Bottone, 67 anni, un passato alla Gucci e moglie di un militare Ha fatto causa all'ex comandante generale della Guardia di Finanza.
"Speciale pretendeva orologi e argenteria per anni ho pagato, ora rivoglio tutto", scrive Carlo Bonini su “La Repubblica”. Sostiene la signora Gabriella che le spigole di Passo Rolle non sono state un inciampo. Perché "Roberto Speciale è sempre stato ossessionato dalla roba. Dall'idea del potere come privilegio". Gabriella Bottone è una donna di 67 anni dai modi e il portamento eleganti. Nipote di una medaglia d'oro, moglie del generale della riserva Gualberto Peri. Per oltre dieci anni, Gabriella e Gualberto sono stati amici di Roberto Speciale e della moglie Maria Antonietta. Ne hanno frequentato la casa, le feste, le cene. Fino a quando non si sono sentiti "traditi". Gabriella, a metà anni '90, era stata testimone chiave di importanti inchieste condotte dalla Procura militare di Roma su episodi di malversazione nell'Esercito. Una scelta - racconta - che avrebbe pagato con "minacce", "aggressioni" e quasi due anni di vita sotto scorta. Con "l'umiliazione" inflitta al marito di un congedo "senza avanzamento di grado, come pure avrebbe avuto diritto". Roberto Speciale, allora, era sottocapo di Stato Maggiore. "Dopo averci usato per una vita, ci abbandonò. Ora, non mi voglio vendicare, ma far sapere a chi è stato affidato per anni prima il grado di sotto capo di stato maggiore e poi di comandante generale della Guardia di Finanza".
Come ha conosciuto Speciale?
"A metà anni '80 lavoravo alle pubbliche relazioni della 'Gucci'. Avevo rapporti istituzionali con lo Stato Maggiore dell'Esercito cui facevo applicare sconti del 50 per cento sulla merce acquistata per occasioni di rappresentanza. Speciale era tenente colonnello. Mi avvicinò e mi disse che aveva bisogno di foulard. Cominciammo a frequentarci. E dai foulard si è passato ad altro".
Cosa vuole dire?
La signora Gabriella estrae da una ventiquattro ore una lista dattiloscritta con tanto di protocollo e bolli di deposito giudiziari. Si legge: "Bicchieri da acqua e da vino in argento marca "Brandimarte"; bicchieri da liquore in argento (6) "Brandimarte"; vassoio grande in argento martellato con frutta ai lati "Brandimarte"; vassoio rotondo in argento con bordo di rose e nomi incisi "Brandimarte"; cornice in argento con specchio "Brandimarte"; oliera in argento e cristallo "Brandimarte"; caraffa da un litro in argento "Brandimarte"; cestino da pane tipo paglia in argento "Brandimarte"; litro in argento "Brandimarte"; orologi di varie marche, di cui due in oro, uno per Roberto Speciale, uno per il figlio; collana in oro con croce; collana di perle per la moglie; anello in oro con tre pietre per la figlia; antico porta vaso cinese; vestiti, scarpe, slips; piatti da parete 'Versace'".
E questa lista cosa sarebbe?
"E' l'inventario di merce che, nel tempo, il generale Speciale ha ricevuto dalla sottoscritta e per la quale la sottoscritta ha pagato dal primo all'ultimo soldo. Lui chiedeva e noi, per evitare ripercussioni negative, lo accontentavamo. Sono arrivata al punto di acquistare un paio di mocassini che aveva chiesto e di doverli cambiare perché, dopo averli provati in ufficio, li sentiva un po' stretti. Voleva gli si comprassero persino le mutande. Non le dico poi mio marito, un ufficiale che ha servito in Albania e Somalia. All'epoca, lavorava al comando "Ftase" (Forze Alleate terrestri Sud-Europa) di Verona. Lo spaccio era duty-free. E allora giù a chiedere scatole di antichi toscani e stecche di sigarette. E bottiglie di whisky. Ordinava direttamente lui e poi si occupavano del resto la sua segretaria di allora, Concetta Giuliano, o il suo segretario, il maresciallo Romani. Entrambi, a quel che mi risulta, sistemati al Sismi una volta assunto il comando della Finanza. Si occupavano anche dei biglietti per la tribuna di onore della Juve dove spesso andava il figlio del generale, Massimo. All'epoca sottotenente a Torino e poi finito al Sismi".
Lei dice che non erano regali. Ma forse il generale li riteneva tali.
"Questo lo deciderà il tribunale civile di Roma dove pende una mia causa contro Speciale per ottenere indietro parte di questa merce. Vedremo. Ma il motivo per cui le mostro la lista è per dimostrarle che Roberto è ossessionato dalla roba. E dal cibo. Il pesce a passo Rolle mi ha fatto ripensare a cosa arrivava dalla Sicilia nella sua villa alle porte di Roma".
Cosa?
"Pesce, aragoste, frutti di mare. Spiedini di carne siciliani. Montagne di marzapane. Era cibo buonissimo. E quando andavo via, spesso, mi dava anche la "mappatella", come direbbero a Napoli, con i fruttini di marzapane, che mi piacevano moltissimo".
Magari erano regali anche quelli. Oppure merce regolarmente spedita da altrettanto regolari fornitori.
"Io non ho controllato se avessero una bolla di accompagno. Ma, per dire il tipo, so per certo, ad esempio, cosa accadde un giorno in cui mio marito fu convocato in gran fretta alla Difesa. Speciale gli mise in mano un bustone in cui c'erano due leoni d'argento alti una settantina di centimetri, simbolo della brigata "Aosta" di Messina, che lui aveva comandato per un anno. Speciale disse: "Fateci qualcosa. Se potete "scioglierli" da Brandimarte per farne dei sottopiatti...". Ero fuori di me. Presi quei due leoni e li feci depositare al monte dei Pegni. Forse sono ancora lì".
MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?
Punita la pm anti Vendola. E ora vuole candidarsi. La Digeronimo denunciò i rapporti tra Nichi e il gip che l'aveva assolto dall'abuso di ufficio, scrive Tiziana Paolocci su “Il Giornale”. Il processo a Nichi Vendola ha fatto strike di magistrati all'interno del Tribunale di Bari. Il pm Desirè Digeronimo, che all'indomani dell'assoluzione del governatore della Regione Puglia da parte del gup Susanna De Felice denunciò l'amicizia tra questa e la sorella del governatore, Patrizia, è stata trasferita alla Procura di Roma. Una punizione in piena regola per chiudere un procedimento aperto proprio dal Csm per «rimuovere preventivamente una situazione di presunta incompatibilità tra lei e i colleghi». Il gup che giudicò innocente il presidente di Sel dall'accusa di abuso d'ufficio, invece, verrà trasferita alla Corte d'appello di Taranto, ma solo per avallare una sua richiesta. Era stato lo stesso giudice a chiedere, infatti, il trasferimento all'interno di un concorso ordinario. Due pesi due misure, quindi, per i principali attori di un processo che sollevò un vero e proprio terremoto all'interno del Tribunale, seguito da uno strascico di polemiche. I pm Desirè Digeronimo e Francesco Bretone che avevano chiesto una condanna a 20 mesi di reclusione per Vendola (processato insieme all'ex assessore alla Salute Alberto Tedesco), infatti, subito dopo l'assoluzione del politico avevano inviato un esposto al procuratore generale di Bari, al capo del loro ufficio e a un procuratore aggiunto, segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore. Dall'iniziativa, però, avevano preso le distanze 26 pm firmando una lettera, che aveva spinto poi i consiglieri di Area ad aprire una pratica sulla Digeronimo. Le accuse del Csm su di lei erano basate non solo sulla conflittualità con alcuni colleghi e avvocati, ma anche sul rischio di non imparzialità per via dei rapporti personali con l'ex direttore generale della Asl di Bari, Lea Cosentino e con la sua amica Paola D'Aprile. E non era bastato a dar manforte alle parole della Digeronimo le foto pubblicate a febbraio da Panorama, che mostravano una pranzo organizzato nell'aprile 2006 per il compleanno di una cugina di Vendola, al quale partecipavano lo stesso governatore e il giudice De Felice. Così il pm non ha potuto far altro che indicare una nuova sede di lavoro ottenendo in cambio l'archiviazione della pratica disciplinare. Ma non ha deposto le armi e ieri in una lettera aperta è tornata ad attaccare il Csm, Vendola e i colleghi: «Incolpevolmente ho pensato che indossare la toga significasse osservare fino in fondo il principio che la legge è uguale per tutti». Poi annuncia: «Se si creeranno le condizioni servirò in altro ruolo i miei concittadini». Una promessa che non esclude un futuro da candidato sindaco di Bari.
Ecco il testo della lettera aperta indirizzata "ai cittadini di Bari" e postata dal sostituto procuratore Desirée Digeronimo sul suo profilo Facebook: "Ho chiesto il trasferimento alla Procura di Roma ritenendo non più “tollerabile” la mia permanenza in servizio presso la Procura di Bari a seguito delle accuse totalmente infondate di alcuni colleghi sostituti auditi al CSM nel corso della pratica che mi ha riguardata. Preciso che tale procedura per incompatibilità non attiene in alcun modo a profili disciplinari né tantomeno a pretese irritualità riferibili all’invio di una nota, riservata personale, diretta ai miei superiori gerarchici e avente ad oggetto accadimenti inerenti il processo a carico del Presidente di Regione, Niki Vendola. La richiesta di trasferimento è stata motivata dal profondo rispetto dovuto all’istituzione della Procura della Repubblica di Bari e dalla mia personale indisponibilità a proseguire una collaborazione con alcuni colleghi in servizio in tale ufficio; infatti, dopo la pubblicazione sulla stampa del contenuto delle contestazioni formulate dal CSM, ancor prima che, in un legittimo contraddittorio, potessi dimostrarne la pretestuosità e falsità, come in ogni caso ho fatto depositando una memoria ampiamente supportata da riscontri documentali, ho ritenuto doveroso tutelare, da tali false accuse, la mia onorabilità e dignità professionale depositando un esposto alla competente Procura di Lecce. Nel corso di questi anni e soprattutto di questi ultimi mesi, attraverso un’ ossessiva sovraesposizione mediatica, ovviamente mai da me voluta o ispirata, sono state riportate notizie non corrispondenti alla verità dei fatti, che oggi ritengo opportuno precisare e smentire. La riservata da me sottoscritta unitamente al collega Bretone sulla vicenda De Felice – Vendola costituiva, nell’esercizio delle mie funzioni di Pubblico Ministero titolare di quel processo, una doverosa comunicazione di ufficio con riferimento a fatti e circostanze che necessitavano di superiore valutazione da parte dei soggetti istituzionali a ciò preposti. Tale atto, e non esposto, lungi dall’essere stato compiuto in violazione di legge e/o regole processuali era corrispondente a precisi doveri del mio ufficio. Illegittima e in violazione del dovere di riservatezza risulta la pubblicazione di tale nota riservata, circostanza in merito alla quale ho provveduto a formalizzare denuncia presso le sedi competenti. Tralasciando aspetti suscettibili di altre e ben più gravi valutazioni, una irrituale interferenza nell’esercizio delle funzioni a me assegnate dallo Stato potrebbero considerarsi i successivi documenti diramati alla stampa da parte dei rappresentanti di associazioni di categoria e/o di singoli uffici, con i quali, senza cognizione di causa e frettolosamente, veniva stigmatizzata a mio carico l’inesistente violazione di regole processuali. In merito ad una serie di false affermazioni riferite da alcuni protagonisti di tale vicenda e riportate dalla stampa , ho sporto denuncia presso la Procura di Lecce, in particolare: al contrario di quanto riferito dal Presidente Vendola nel corso di numerose trasmissioni televisive non sono mai stata amica, nel senso pieno del termine, della collega De Felice né mai ho presentato quest’ultima alla sorella del Presidente, Patrizia; del resto nella ormai nota fotografia del settimanale “Panorama” non sono certo io ad essere ritratta tra tali intimi protagonisti del pranzo di compleanno della cugina del Presidente; al contrario di quanto riferito da Patrizia Vendola non ho mai chiesto favori a lei o al fratello né mai ho avuto motivi di astio o inimicizia nei confronti di costoro; al contrario di quanto riferito dalla dott.ssa Pirrelli, moglie del ex senatore PD e magistrato Gianrico Carofiglio, non ho mai avuto rapporti conflittuali con giudici o avvocati del distretto, né con la maggior parte dei colleghi sostituti di Bari, mai ho intrattenuto rapporti di amicizia o colloqui telefonici con la dott.ssa Lea Cosentino, come risulta peraltro inconfutabilmente dimostrato dalla trascrizione di una intercettazione telefonica tra me e la dott.ssa Paola D’Aprile avvenuta ad opera del collega Scelsi nell’agosto del 2009, collega oggi imputato a Lecce per tali condotte in un processo che mi vede persona offesa. La verità di ciò che è accaduto in questi lunghi anni è tutta da un’altra parte. Prima di indagare sugli illeciti nella gestione della sanità regionale pugliese anche per chi oggi mi accusa ero magistrato competente e attento e del resto i risultati prodotti in 15 anni di lavoro appassionato e serio presso la Procura di Bari sono sotto gli occhi di tutti. La mia incompatibilità ambientale nasce dall’ “incolpevole” circostanza di essermi imbattuta in un’indagine che avevo il dovere, in ossequio al servizio che svolgevo per i cittadini di Bari, di approfondire e concludere; doveri che mi imponevano di non voltare la testa, di non tenere le carte nei cassetti. “Incolpevolemente” ho pensato che indossare la toga significasse osservare fino in fondo il principio che “la legge è uguale per tutti” e pur provocata e aggredita , “incolpevolemente” ho pensato che per un giudice il primo dovere fosse proseguire il suo lavoro nel silenzio e nella riservatezza, facendo parlare esclusivamente i propri provvedimenti. Ed in effetti i provvedimenti della Corte di Cassazione che hanno confermato la bontà dell’impianto accusatorio dell’indagine sulla sanità che sino al novembre 2009 ho personalmente seguito e poi condiviso con altri colleghi non possono che parlare per me. Oggi sono fiera di essere riuscita a indossare con onore una toga, pervenendo a tali importanti risultati , mentre un “potente” , come Lui stesso si è definito in recenti interviste, Presidente di Regione, nell’agosto 2009 in una lettera aperta pubblicata su tutte le testate nazionali, pur dichiarando di agire “per amore della verità” chiedeva a gran voce la mia astensione dall’indagine, mi tacciava di incompetenza, accusandomi genericamente di intrattenere rapporti di parentela e amicizia incompatibili con il ruolo. Sono fiera di aver saputo onorare con il silenzio l’istituzione che rappresento a fronte di tale comportamento del Presidente della Regione Puglia, che omettendo di rappresentare le sue doglianze presso le sedi competenti, così privandomi di ogni legittima difesa e contraddittorio, compiva una grave interferenza nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali di un magistrato della Repubblica Italiana. Sono fiera di aver resistito nell’adempimento del dovere nonostante la solitudine e la mancanza di solidarietà di chi avrebbe dovuto proteggere non me ma la mia funzione. E così la sezione locale dell’ANM che liquidava la questione della lettera di Vendola come un “fatto personale” tra me e il Presidente o il CSM dell’epoca che, contrariamente a quanto fatto per identici casi che riguardavano altri colleghi e altri personaggi pubblici, mi negava tutela posso dire oggi, con assoluta convinzione, che mancavano di salvaguardare non un singolo magistrato ma il prestigio e la credibilità delle funzioni giudiziarie. Vado via dalla mia città lasciando processi delicati e indagini in corso, forse a qualcuno ciò piacerà, ma a loro dispetto Bari sarà sempre il centro dei miei affetti e dei miei pensieri, e, se si creeranno le condizioni, sarò felice di continuare a servire in altro ruolo i miei concittadini, con lo stesso impegno e determinazione, ma soprattutto con lo stesso Amore, quello che in questi anni ha fatto la differenza. Tanto esprimo ai cittadini di Bari che non mi hanno fatto mancare l’affetto e la solidarietà ma anche a chi oggi gioisce per una vittoria di “Pirro”. Un grazie speciale e con il cuore alle donne e agli uomini con cui ho condiviso quotidianamente le fatiche e le gioie del mio lavoro, ho apprezzato in voi onestà e coraggio, abnegazione assoluta a uno Stato spesso avaro con i suoi uomini migliori. Infine, rivolgendo un pensiero a quei colleghi della Procura di Bari, che pur decretando il mio esilio ringrazio per avermi aperto nuove e luminose strade da percorrere, mi torna in mente con un sorriso la frase di Diogene il cinico, il quale, condannato dai “ Sinopi” all’esilio, condannava costoro a rimanere in Patria". Bari lì 26 luglio 2013 Desirée Digeronimo.
La giunta distrettuale di Bari dell’Anm esprime "il proprio rammarico per il discredito che è stato gettato sull'intera magistratura, sul suo organo di autogoverno e sulla stessa Associazione nazionale magistrati". Secondo la giunta barese dell’Anm, è doveroso "sottolineare come il magistrato non possa sottrarsi alle regole che è chiamato a far rispettare". "La scelta della dott.ssa Digeronimo – rileva l’Anm – di trasferirsi presso altra sede, che di fatto ha bloccato il procedimento apertosi per la verifica di condotte che l’abbiano resa incompatibile con la permanenza presso la Procura di Bari, non può e non deve portare a cercare il consenso popolare, per fini evidentemente extragiudiziali, attraverso dichiarazioni unilaterali che altri magistrati, in ossequio ai principi di serietà, riservatezza e rispetto del codice deontologico, hanno riservato esclusivamente alle sedi istituzionali".
Vendola risponde al magistrato che lo indagò. "Scende in politica? Ci guadagna la giustizia". Scontro aperto tra il governatore leader di Sel e il pm Digeronimo che ha annunciato la volontà di candidarsi a sindaco di Bari. "Contro di me spinta da motivazioni politiche". "Una discesa in campo da cui la politica non guadagnerà, la giustizia certamente sì". E' scontro aperto tra il governatore Nichi Vendola e il magistrato Desirée Digeronimo che lo ha indagato per la vicenda della nomina di un primario, cui sono seguiti strascichi giudiziari e frizioni interne al Palazzo di Giustizia di Bari che hanno portato al trasferimento del pm a Roma per incompatibilità, scrive “La Repubblica”. Trasferimento annunciato con una lettera aperta alla città in cui la Digeronimo, oltre ad attaccare Vendola e i colleghi che l'hanno segnalata al Csm, si è detta pronta a candidarsi per diventare il prossimo sindaco di Bari. Circostanza che - attacca Vendola - porta a galla la verità sulla "lunga clandestina campagna elettorale che spingeva le azioni della dottoressa Digeronimo". "Vado via dalla mia città lasciando processi delicati e indagini in corso" scrive la Digeronimo alla cittadinanza, sostenuta da un gruppo di associazioni politiche, pronte a lanciare le primarie della società civile. "Forse a qualcuno ciò piacerà, ma a loro dispetto Bari sarà sempre al centro dei miei affetti e dei miei pensieri e, se si creeranno le condizioni, sarò felice di continuare a servire in altro ruolo i miei concittadini con lo stesso impegno e determinazione, ma soprattutto con lo stesso Amore, quello che in questi anni ha fatto la differenza". "Sebbene sia abituato a cercare sempre le parole più appropriate per raccontare le mie emozioni - questa la replica del governatore - confesso che questa volta, dinanzi alle parole della dottoressa Digeronimo, ho provato la tentazione di restare in silenzio. Per marcare una distanza. Tuttavia, siamo dinanzi a una lettera pubblica e non davanti ad un atto giudiziario: ed è doveroso parlare. Una lettera ai 'cittadini baresi' proveniente da un magistrato tuttora in servizio a Bari, che non disdegna di esibire la propria 'folgorazione' per la politica. Lo fa con esibita ostilità nei confronti della mia persona. Lo fa, ed è la cosa che appare più paradossale e imbarazzante, con ostilità nei confronti della funzione giudiziaria, che tutti i cittadini vorrebbero esercitata da uomini e donne equilibrati e sereni. Che la dottoressa Digeronimo non sia stata terza e serena nei miei confronti, io lo so bene e la sua lettera una volta di più lo conferma. "Oggi capisco che non è serena nemmeno con il Csm, che ne ha decretato all'unanimità l'incompatibilità, imponendole di fatto il trasferimento. E non è serena neppure con i suoi colleghi, pm e giudici. Per cinque anni ho bevuto un calice amaro, ma sono stato sempre ossequioso verso le istituzioni giudiziarie e mi sono difeso nei processi uscendone sempre a testa alta. E' vero: mille volte ho sospettato che il suo accanimento nei miei confronti fosse motivato anzitutto da vanità, sebbene piuttosto crudele. Oggi finalmente appare la verità. Dunque, era solo una lunga clandestina campagna elettorale per una sorprendente autocandidatura quella che spingeva le azioni della dott. ssa Digeronimo. Una discesa in campo da cui la politica non guadagnerà, la giustizia certamente sì".
Comunque troppi indizi fanno una prova. Troppi dubbi sull'operato della magistratura.
E sulle foto di Vendola spunta Carofiglio. C'è il nome del magistrato-scrittore, secondo Panorama, nell’inchiesta barese sul presunto furto delle foto del governatore a pranzo con il giudice De Felice. Spunta a sorpresa il nome del magistrato-scrittore-politico Gianrico Carofiglio nell’inchiesta barese sul presunto furto delle foto di Nichi Vendola a pranzo con Susanna De Felice, il giudice che lo ha assolto nell’ottobre 2012 dall’accusa di abuso d’ufficio. Lo rivela Panorama, in edicola da domani, giovedì 18 luglio. Lo ha scoperto la Polizia postale di Bari che ha analizzato il computer dell’uomo che dice di avere rubato quelle immagini, Cosimo Ladogana, all’epoca compagno di Patrizia Vendola, sorella del governatore pugliese Nichi. Tutto inizia quando Ladogana, tra il 22 e il 23 febbraio scorsi, senza rivelare la sua identità, propone a Panorama alcuni scatti di quel pranzo e altri riguardanti un incontro a casa di Carofiglio tra Patrizia Vendola e De Felice alla vigilia del processo contro il governatore della Puglia. Il settimanale, subodorando una trappola, dà conto della strana offerta. L’identikit di Ladogana viene riconosciuto da amici e parenti e così, il 28 febbraio, il presunto ladro scrive all’allora senatore del Pd Carofiglio, amico della famiglia Vendola e del giudice De Felice, un’email di giustificazioni: «Ho preso delle decisioni e ho intrapreso delle iniziative con l’intento di colpire una precisa persona (il cronista di Panorama, ndr) e non certo tutti noi». Giura che il suo piano (successivamente realizzato) era quello di far incriminare per ricettazione il giornalista: «Era da giorni che avevo quella maledetta idea in testa, tanto da parlarne in maniera scherzosa anche a Patrizia. Dicevo: “A quel pezzo di merda bisognerebbe fargli il culo proponendogli materiale rubato”». Ladogana è disperato e a Carofiglio assicura: «Sono disposto a tutto (…). Non avrei problemi, se fosse necessario, di presentarmi davanti a un giudice autodenunciadomi». Dopo pochi minuti Carofiglio, sempre per posta elettronica, risponde e promette di concedere la sua consulenza a una condizione: Cosimo dovrà inviare - precisa il magistrato - «tutto (ma davvero tutto senza censura) lo scambio di email con quel signore» e «un sunto delle comunicazioni telefoniche, con numeri delle utenze e durate delle conversazioni ed eventuali sms» tra il cognato e il cronista. Nei giorni successivi Ladogana spedisce in visione diverse bozze della sua autodenuncia al magistrato-scrittore e il 5 marzo, quando il documento è già stato lungamente corretto e limato (anche nella parte sull’incontro a casa Carofiglio), ne consegna una copia alla Digos. Dopo poche ore la procura di Bari apre un fascicolo per furto e ricettazione.
Tutta la verità sulle foto di Vendola. La vera storia del fidanzato di Patrizia Vendola e delle foto regalate a Panorama, scrive Giacomo Amador su “Panorama”. Oggi la notizia del giorno a Bari la offre ai suoi lettori «La Repubblica», sulla prima pagina del dorso locale: «Il partner di Patrizia Vendola: “Ho dato io le foto a Panorama» . Il sommario chiarisce meglio la vicenda: «Cosimo Ladogana ha presentato denuncia alla Digos accusandosi di aver ceduto lui al settimanale le foto della festa a cui hanno partecipato il governatore (Nichi Vendola ndr) e il gip (Susanna De Felice ndr) che lo ha assolto». Bum! Ma perché avrebbe tradito la famiglia della fidanzata «all’insaputa di tutti»? Semplice: «Voleva scoprire le carte del settimanale e tutelare la sua donna» sarebbe la versione offerta ai poliziotti. In realtà la storia è andata un po’ diversamente e vale la pena di essere raccontata dall’inizio. Alle 10 e 52 minuti di giovedì 21 febbraio sul computer della segreteria di Panorama arriva una email di un lettore misterioso, nascosto dietro il nickname Japigia69 (Japigia è un quartiere di Bari). Panorama è da poche ore in edicola con la storia della foto della ormai famosa festa di compleanno a cui parteciparono il Vendola e il giudice De Felice, che lo avrebbe assolto nel 2012 dall’accusa di abuso d’ufficio a fronte di una richiesta di condanna a 20 mesi di reclusione. Il nostro settimanale, però, sino a quel momento, aveva pubblicato solo un disegno, una ricostruzione grafica di quell’evento conviviale. Scrive Japigia: «La foto originale, scattata da me, del 15 aprile 2007 (non 2006) di cui parlate nell’articolo di oggi è in mio possesso insieme ad altre 30 foto che ritraggono e raccontano l’evento. Se interessati, le cedo molto volentieri, altrimenti passo ad altri che sono in attesa. Grazie». Panorama, mentre il giornale va in stampa, è riuscito a entrare in possesso dell’immagine del pranzo e la pubblicherà sul suo sito Internet verso mezzogiorno di quella stessa mattina. Ma Japigia non può saperlo e ritiene di poter fare il colpo grosso. Anche se l’immagine la abbiamo, il cronista è ovviamente interessato a capire meglio la vicenda e invia una email a Japigia. La risposta è rapida e l’appuntamento viene fissato per il pomeriggio successivo, venerdì 22 febbraio. Nel frattempo ci attrezziamo per capirne di più e smascherare l’anonimo. Pochi giorni prima ci aveva telefonato, schermato da un numero privato, un altro mister x e ci aveva offerto immagini a un prezzo cospicuo. L’uomo senza volto dà del «tu» al cronista e sa che ha già visionato (senza riuscire a ottenerla) un’istantanea della festa. La storia non ci piace e pensiamo a come svelare l’identità del trafficante di immagini. Dopo un consulto con la direzione viene chiamato il procuratore di Lecce Cataldo Motta che, a quanto ci risulta, ha un fascicolo aperto sui rapporti tra De Felice e Vendola. Non sappiamo, né possiamo sapere, che Motta ha già chiesto l’archiviazione per il gip. La risposta del magistrato è secca: «E che c’entro io?». Quindi consiglia: «Avvertite le forze di polizia, se lo ritenete». Noi preferiamo a quel punto raccontare la proposta ricevuta ai nostri lettori. Torniamo a Japigia. Dopo il primo colloquio, le nostre difese non si abbassano. Ma come i giocatori di poker chiediamo di «vedere». L’uomo, grande e grosso, età apparente sui 45 anni, si presenta nella hall dell’albergo in cui alloggiamo. Si siede con noi a un tavolino e inizia subito a riempire l’aria di millanterie (lo scriverà lui stesso in una mail successiva, quando scoveremo la sua reale identità). Dice di essere tornato in Puglia da un anno, di lavorare per un misterioso gruppo di persone che lo paga profumatamente per trovare notizie «scomode» e di essere iscritto all’albo dei giornalisti. Questa informazione, come accerteremo, è vera: Ladogana dovrebbe aver fatto il praticante in un piccolo giornale di Sesto San Giovanni (Milano) ai tempi in cui faceva il «galoppino» di alcuni noti politici del luogo, ci rivela un amico dell’epoca, Filippo Penati in primis, ex caposegreteria di Pier Luigi Bersani, oggi afflitto da qualche grattacapo giudiziario. In albergo Cosimo (ma lui si presenta come Domenico, anche se a un certo punto si confonde e dichiara il vero nome) tira fuori tre quattro fogli formato A4 pieni di foto, stampe di provini o di cartelle digitali, e ce le mostra. Ci sono gli scatti del pranzo (sono davvero una trentina) e quelle di un altro evento molto più recente. Cosimo insiste su questo punto, dice che risalgono all’1 maggio del 2012 e che erano presenti sia De Felice che Patrizia Vendola. Aggiunge pure che ci sono altre foto delle due donne in occasione di una Pasquetta e di un Capodanno trascorsi insieme, sempre successivi al 2009 e quindi «pericolosamente» recenti per la famiglia Vendola. Sono questi scatti vicini nel tempo la merce che prova a vendere in questo mercatino improvvisato, visto che le immagini del pranzo del 2007 hanno perso valore alla borsa della notizia dopo la pubblicazione della prima foto su Panorama.it. L’informatore dice di avere estratto le istantanee da un vecchio telefonino della Vendola, poi si contraddice e racconta di aver pagato un tecnico per recuperare un hard-disk usato della donna, pagando 3 mila euro. Una cifra buttata lì, quasi a dare un prezzo al pacchetto. Japigia non capisce, o forse sì, che quegli scatti, con tali premesse, diventano roba buona per i ricettatori. Lui, per tranquilizzarci, si propone per una collaborazione che duri nel tempo con il giornale, ovviamente da realizzare con la sua reale identità. Nel frattempo sul tavolo srotola altre storie. Dice di avere degli audio compromettenti di un magistrato a colloquio con Patrizia Vendola e che quelle registrazioni le aveva suggerite un parlamentare del Pd. Sostiene inoltre di avere il file di un colloquio tra due imprenditori che scagionerebbe Penati. Gli riferiamo che il nostro tempo è scaduto perché dobbiamo andare al comizio di Vendola per provare a intervistarlo. Sospendiamo la trattativa, con la promessa di rivederci. Siamo in una fase di studio: il racconto di Cosimo è confuso, le foto sono chiaramente autentiche, lui preferisce rimanere anonimo. La sera lo incrociamo in compagnia di una donna (tra poche righe scoprirete la sua identità). Ci ignoriamo volutamente. Il giorno dopo, altro appuntamento in albergo, ma la matassa non si sbroglia. Anzi. Japigia ci dà appuntamento a Roma, promette di svelare il suo nome e di consegnarci il materiale. In realtà sparisce dai radar. Salvo inviare quattro foto via email: «Sta a voi decidere se ringraziarmi» precisa. Anche senza pagare un centesimo, l’accusa per Panorama di essere una macchina del fango (un ritornello che Vendola aveva già cantilenato dopo una nostra intervista alla sorella) è dietro l’angolo. E sebbene scopriremo che quella melma Vendola ce l’ha in casa, con la direzione decidiamo di pubblicare le istantanee e di descrivere così chi ce le ha consegnate: «Ma qual è l’identità della fonte e come è entrata in possesso delle foto? Il percorso non è chiaro. Potrebbe essere tortuoso, financo illegale. “Carbonara” (nel pezzo lo chiamiamo così ndr) dice di essere un giornalista freelance e di aver videoregistrato il nostro incontro. Quindi scompare e non si fa più sentire (…). Un approccio indecifrabile. Anche perché nelle stesse ore il cronista incrocia Carbonara per le vie di Bari, e lui fa finta di niente. Passeggia con una signora, con cui sembra in confidenza. Il cronista la riconosce: è Patrizia Vendola (ecco chi è la donna ndr). Gioco o doppiogioco? In ogni caso non è divertente». Secondo noi ce n’è abbastanza per incuriosire le forze dell’ordine o un magistrato. Ma nessuno, a Bari, sembra interessato alla nostra storia. Nessuno si preoccupa di verificare chi siano gli strani personaggi che offrono foto di cronaca in città senza rivelare la propria identità. Proviamo a chiedere aiuto a Gianrico Carofiglio, magistrato, senatore Pd e grande amico dei Vendola: «So chi è la vostra fonte, ma vi rivelerò la sua identità solo se prima mi racconterete tutto». Quello che avevamo da dire sull’informatore lo abbiamo scritto, replichiamo. A Carofiglio non basta, vuole altri particolari, cerca conferme ai suoi sospetti. Eppure quanto pubblicato su Panorama sembra sia bastato a rendere identificabile Ladogana all’interno del cerchio magico di Vendola. Per lo meno questo sostiene Japigia, che il 28 febbraio ricompare con una email intestata «Ringraziamenti»: «Davvero un peccato. Tutto sommato anche previsto. Grazie. Buona giornata». Il messaggio è vagamente minaccioso. Rispondiamo spiegando che il suo comportamento, le sue parole e le sue frequentazioni ci avevano fatto sospettare di una trappola. Lui si indigna: «Io ero sincero, volevo darvi sul serio una mano, per motivi personali, non ho preteso soldi (…) non sono scomparso, aspettavo il vostro articolo. È andata così, pazienza». Lo abbiamo reso riconoscibile e questo lo ha mandato nel panico: «Beh, almeno adesso avete la certezza che non era un trappolone come lo chiamate voi, che non ero in combutta con nessuno. Cellulare bollente il mio oggi, insulti a non finire, dai miei ex conoscenti, impossibile negare e quindi reo confesso». La storia è sempre più intricata e Cosimo non intende proprio togliersi la maschera. Scopriamo il suo nome casualmente, da un conoscente vicino al cerchio magico, ma anche questo ci aiuta poco. Esistono diversi omonimi. Iniziamo la caccia. Vogliamo conoscere la verità e glielo facciamo sapere. Chiediamo, sempre per iscritto, di incontrarlo e di parlare a quattr’occhi, per capire i reali motivi del suo comportamento. Non risponde. Gli riferiamo che il materiale in suo possesso ci servirà in vista di eventuali querele già annunciate. Lui preferisce restare nell’ombra. Ma l’uomo è venale e per riagganciarlo gli proponiamo «una soluzione buona per entrambi». Abbocca. «Non vedo perché dovrei fidarmi di te» scrive riferendosi al cronista, «ti ho incontrato e tu due ore dopo mi vedi in compagnia (di Patrizia Vendola ndr) e decidi di trattarmi così? Mi hai messo tutti contro» si lamenta. Ma alla fine del messaggio apre uno spiraglio: «Quale sarebbe “una buona soluzione per entrambi”?». Restiamo sul vago. Non promettiamo niente di concreto. Lui torna alla carica: «Anche se volessi accettare come potreste tutelarmi da eventuali conseguenze penali e quale sarebbe il mio compenso?». Proponiamo di continuare a proteggere il suo anonimato ed eventualmente di pagargli foto e collaborazione, se dimostrerà di essere un giornalista, attraverso «un regolare bonifico». Probabilmente queste condizioni lo scoraggiano e si eclissa di nuovo. Nel frattempo apprendiamo molte informazioni sul suo conto. Un ex politico di Sesto San Giovanni ci racconta la sua vera storia, le imprese fallite, l’attuale vita fatta «di espedienti». Ci invia il suo numero di cellulare con questa raccomandazione: «Non fategli male, è un buon diavolo, forse un po’ c…e». Inviamo a Cosimo altre email, messaggini sul cellulare, ma lui continua a non dare segni di vita. Il 4 marzo, a causa della nostra insistenza, probabilmente si sente in trappola e spedisce al cronista poche righe, apparentemente dettate da un leguleio: «Preciso che tutto quello che ho detto nella nostra chiacchierata, erano invenzioni e millanterie. Ho frequentato Patrizia Vendola per oltre un anno, siamo stati insieme tutti i giorni e nell’arco di quest’anno c’è stato un solo casuale incontro con la dottoressa De Felice. Ogni cosa diversa tu dovessi dire o attribuire virgolettata, sul tuo giornale sarà falso e ne dovrai rispondere alle persone eventualmente diffamate, in sede civile e penale». Rispondiamo che per tutelarci a noi basta rivelare il suo nome, il fatto che ci abbia consegnato le foto e che ne abbia altre. Il 5 marzo scriviamo un articolo sull’affaire Vendola-De Felice senza citarlo. È l’ultima possibilità che gli diamo per uscire allo scoperto. Gli facciamo capire che lo proteggeremo come fonte in cambio delle prove di quello che abbiamo scritto, riscontri che abbiamo visto, ma che non ci ha consegnato. Ribadiamo che se non si farà vivo saremo costretti a svelare la sua identità per difendere il nostro lavoro con i lettori e nei tribunali. Quello stesso pomeriggio un collega ci avverte che Ladogana è andato ad autodenunciarsi alla Digos. Alle 19.25 Japigia ci annuncia personalmente la decisione: «Ho riferito tutto alla polizia giudiziaria, consegnando la documentazione. Ognuno si prenderà le proprie responsabilità». La nostra risposta è lapidaria e un po’ ironica: «Bene. Finalmente trionferanno verità e giustizia. Speriamo che almeno alla Digos tu non abbia chiesto soldi, abbia dato le tue vere generalità, consegnato tutto quello di cui parli nell’audio e le foto che ci hai fatto vedere». Già. Chissà se a qualcuno, adesso, interesseranno le immagini che documentano gli incontri della famiglia Vendola e del giudice De Felice anche in anni molto recenti. Forse ora ci sarà chi proverà a vederci chiaro. Se accadrà, di questo piccolo miracolo dovremo ringraziare Japigia.
Patrizia Vendola, sorella di Nichi, è stata sentita dai giudici in merito alla sua amicizia con Susanna De Felice, il giudice che nell’ottobre scorso ha assolto il governatore pugliese dall’accusa di concorso in abuso d’ufficio, scrive “Libero Quotidiano”. A rivelarlo è un articolo del settimanale Panorama, che racconta il giro di frequentazioni della sorella del leader di Sel, vicina a molti magistrati della procura di Bari, che poi ha assolto il governatore. Vendola, dal canto suo, smentisce e querela il settimanale della Mondadori. Ma vediamo i fatti. Il 31 ottobre dello scorso anno Nichi Vendola viene assolto con formula piena dal tribunale di Bari «perché il fatto non sussiste» dall’accusa di abuso d’ufficio in merito alla nomina di un primario dell’ospedale San Paolo. A puntare il dito contro il governatore era stata un’ex dirigente dell’Asl del capoluogo pugliese, Lea Cosentino, a suo tempo sollevata dal suo incarico proprio da Vendola. La richiesta dell’accusa nei confronti di Nichi è pesante: 20 mesi di reclusione. Vendola, che ha appena dato vita all’alleanza di centrosinistra insieme al Pd, però afferma con forza la sua innocenza: «Se verrò condannato, lascerò la politica», disse Nichi, prima di essere assolto. A dicembre, però, il procuratore di Lecce, Cataldo Motta, apre un fascicolo proprio sulla De Felice, il giudice che ha assolto il governatore. Lo spunto arriva proprio dai due pm che hanno indagato Vendola: Desirèe Di Geronimo e Francesco Bertone. La Di Geronimo, tra l’altro, è stata per anni anche lei molto amica della sorella del governatore, come testimoniano alcune immagini su Facebook. E il 31 gennaio Patrizia Vendola viene convocata in procura per dare spiegazioni sulla sua amicizia con la De Felice. Quello che vogliono capire è se tra le due donne, la sorella di Vendola e il giudice, esistesse un’amicizia che possa gettare ombre sulla sentenza di assoluzione del governatore. E davanti ai pm la sorella dei Vendola avrebbe ammesso la conoscenza con la De Felice, specialmente nel periodo dal 2004 al 2009, in seguito alle frequentazioni con Carofiglio e sua moglie, Francesca Pirrelli, altra pm del capoluogo pugliese. «Ho condiviso amici e feste con De Felice per diversi anni, con una cadenza di circa una volta al mese, fino al 2009. Dopo ci saremmo viste cinque o sei volte, non di più», ha detto Patrizia Vendola ai magistrati. Insomma, la frequentazione c’era, anche con il compagno della De Felice, il magistrato Achille Bianchi, anch’egli amico di Carofiglio e della moglie. Nulla di male, per carità. Il problema, però, si pone se si viene a scoprire che un giudice che assolve una determinata persona è amica di colui che ha assolto o di un suo stretto familiare. E nell’inchiesta sarebbero saltate fuori anche delle fotografie che ritraggono allo stesso tavolo Vendola e, appunto, De Felice. «E’ possibile, ma si tratta di occasioni o episodi avvenuti molto tempo prima il processo nei confronti di mio fratello», ha spiegato la sorella di Vendola ai pm. Un intreccio che rischia di gettare un’ombra di sospetto sull’assoluzione del governatore pugliese ora impegnato nella campagna elettorale per le Politiche al fianco di Pier Luigi Bersani. Ma Vendola fermamente smentisce e querela Panorama. «Ho dato mandato ai miei legali di sporgere denuncia nei confronti del settimanale Panorama, per il piccolo concentrato di fango, con cui, in linea con l'informazione berlusconiana, ha inteso colpirmi», afferma il governatore, annunciando il ricorso alle vie legali.
Comunque troppi indizi fanno una prova. Troppi dubbi sull'operato della magistratura.
Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta.
Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato - per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole. Bisognerà invece aspettare ancora per avere le motivazioni della sentenza Fitto: la corte ha chiesto un'ulteriore proroga, bisognerà aspettare sino al 14 agosto. Non hanno ancora finito di scrivere le motivazioni per la sentenza che ha condannato Raffaele Fitto a quattro anni di reclusione per corruzione e abuso d’ufficio, e già questo processo è finito in un altro fascicolo giudiziario: Fitto ha accusato i suoi giudici, con un esposto alla procura di Lecce, di essere stati troppo celeri nei suoi riguardi. Il procuratore di Lecce Cataldo Motta, aperto il fascicolo, ha chiesto gli atti del processo al presidente del tribunale di Bari, Vito Savino, che glieli ha trasmessi e di fatto ora sono i giudici Luigi Forleo, Clara Goffredo e Marco Galesi a doversi difendere. “Non c’era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi”, aveva attaccato Fitto poche ore dopo la condanna, “gli stessi giudici, per altri processi, hanno tenute tre udienze l’anno mentre, nel mio caso, ci sono state anche tre udienze a settimana”, scrive Antonio Massari su “Il Fatto Quotidiano”. Dopo l’attacco verbale, l’esposto in procura, con annesso fascicolo e indagine appena aperta. Per quanto possa apparire surreale, ora sono i giudici a doversi tutelare dall’accusa di essere stati troppo ligi, di aver evitato la prescrizione in un processo che vedeva coinvolto, con l’accusa di corruzione, uno dei più potenti politici del Pdl, ex ministro e tuttora pupillo dell’ex premier Silvio Berlusconi. E come Berlusconi con Nicolò Ghedini, anche Fitto è difeso da un avvocato che siede in Parlamento, ovvero Francesco Paolo Sisto. Condannato in primo grado – la vicenda riguarda la tangente da 500mila euro, pagata dagli Angelucci al movimento politico di Fitto, “la Puglia prima di tutto”, per ottenere in cambio, secondo l’accusa, la gestione di 11 Residenze sanitarie assistite (Rsa) – ora Fitto si rimetterà al giudizio della Corte d’Appello. Il Presidente della corte d’Appello di Bari è Vito Marino Caferra, da poco nominato “osservatore” del “comitato dei saggi” per le riforme costituzionali. Una nomina passata in commissione affari costituzionali, fortemente voluta proprio da Francesco Paolo Sisto, che l’ha proposto, questa volta – s’intende – nella sua veste di parlamentare Pdl. E quindi, in sintesi, da un lato Fitto denuncia – e la procura di Lecce indaga – i giudici che l’hanno condannato, perché troppo celeri nel calendarizzare le udienze del suo processo. Dall’altro il suo avvocato, in qualità di parlamentare, spinge il presidente della Corte d’appello – che dovrà calendarizzare le future udienze – nel ruolo di osservatore dei saggi. Nessun dubbio sul fatto che Caferra, nella sua veste di giudice, non si lascerà condizionare. Molti dubbi, invece, sull’opportunità di accettare questo incarico, giunto proprio su proposta di Sisto.
ITALIA, CULLA DEL DIRITTO NEGATO. STORIE DI FALLIMENTI.
Con questa importante ed approfondita inchiesta, prende il via la nuova rubrica su la ”INGIUSTIZIA ITALIANA”, che metterà a nudo le disfunzioni, l’inefficienza e l’ingiustizia che caratterizzano lo Stato italiano, i suoi apparati, la sua burocrazia. Un sistema di ingiustizie utile solo a vessare i cittadini, scrive James Condor su “L’Indipendenza”.
LA PALUDE DEI FALLIMENTI. Un Paese dove i processi non finiscono mai. E che in compenso sono fatti malissimo. Un Paese dove la proprietà privata non conta niente, dove lo Stato sottrae illecitamente un minore alle famiglie senza farsi troppi scrupoli, dove la vita delle famiglie è presa a calci. E dove nessuno, per questi abusi, paga mai. Non si tratta di critiche feroci o di sfumature politiche, che anzi attaccano o difendono la giustizia a seconda dello schieramento, ma della fotografia scattata all’Italia dalla Corte per i diritti dell’uomo. Strasburgo ha infatti pubblicato i numeri sulle sanzioni in materia di giustizia inflitte ai Paesi della Convenzione dal 1959 al 2010 dal tribunale per i diritti umani, mostrando al mondo cosa sia davvero quella che ancora alcuni fingono di considerare la culla del diritto pur di non cambiare una macchina che miete vittime a ripetizione: la nostra giustizia. Che miete vittime, ma che costa pure tantissimo sotto il profilo economico: in particolare, ed è paradossale, costa eccezionalmente proprio grazie all’artifizio che lo Stato aveva inventato per rimediare ai propri errori rispetto alla Convenzione, la legge Pinto, che ha fatto molto più che decuplicare i costi senza nemmeno riuscire a individuare le cause del “male”. E aggiungendone dell’altro: ulteriori cause a Strasburgo e ulteriori indennizzi. Giusto per farsi un’idea dei dati di Strasburgo, la Spagna in 41 anni ha subito al tribunale per i diritti dell’uomo 91 sentenze, la Germania 193, il Regno Unito 443, la Grecia 613. L’Italia invece ne ha nientemeno che 2121: una valanga, addirittura il doppio della Russia, superata solo dalla Turchia. Ciò che più conta è che in 1617 casi è stata riconosciuta almeno una violazione della Convenzione per i diritti umani e che solo in 51 casi non sono state riscontrate violazioni. La gran parte delle decisioni riguarda, com’è noto, la lentezza dei processi, specie in materia civile, con 1139 condanne. Sotto di noi, l’abisso, con la Turchia al secondo posto con 440 condanne, quasi un terzo, e sotto un nuovo baratro.
Meno noto il fatto che 238 nostre violazioni riguardino l’equo processo, sempre all’articolo 6 della Convenzione, ma diretto alle violazioni del diritto ad una giusta difesa. Ossia: è vero che ci mettiamo tanto a fare un processo, però, alla fine, possiamo dire che è stato pure ingiusto. Quanto al diritto alla vita privata e famigliare, in cui l’Italia vanta plurime condanne per sottrazione illecita di minori alle famiglie da parte dello Stato, non abbiamo eguali: 131 condanne, l’unico Paese con numeri a tre cifre, numeri spaventosi anche se confrontati con Turchia, Russia, Romania, Polonia, tutti Paesi che per decenni non sono stati esattamente noti come templi giuridici. Ma il catalogo di record non finisce qui: 15 sentenze sul diritto di voto (al secondo posto la Turchia con 6, in mezzo ad una sfilza di 0 violazioni) e ben 297 sentenze sulla protezione della proprietà privata. Tra i Paesi dell’Ue sotto di noi c’è l’abisso, dato che al secondo posto c’è la Grecia con 62 violazioni, quasi un quinto delle nostre, che per contro ce la battiamo alla grande con Romania, Russia, Turchia e Ucraina. L’aspetto più importante è che 2121 sentenze per violazione dei diritti umani nei processi non significano 2121 casi, perché ogni sentenza può radunarne a gruppi, perfino di centinaia. È questo che può dare l’idea di un fenomeno mostruoso, una metastasi del sistema che continua a divorarlo.
NUOVI RECORD NEL 2011. Dal 31 dicembre 2010 al 30 novembre 2011 la situazione è infatti ulteriormente peggiorata: l’Italia ha continuato imperterrita a rosicchiare percentuali sulla torta dei ricorsi dei cittadini dei Paesi membri, passando dai 10200 ricorsi della fine del 2010, ai 13400 ricorsi di fine novembre, passando così dal 7,5% all’8,8% della torta. Da notare l’assenza dei grandi Paesi occidentali nella torta – se escludiamo un piccolissimo 2,4% del Regno Unito -, tutti sotto la voce “altri 37 Stati”. E che superiamo Romania, Ucraina, doppiamo Polonia e Serbia, quadruplichiamo o quasi la Bulgaria.
LA LEGGE FALLIMENTARE. L’INFAMIA DEL REGIO DECRETO. Ci sono processi e processi. Per comprendere come l’Italia non rispetti affatto le Convenzioni che firma, c’è un processo italiano in particolare che ha comportato negli anni, e in parte ancora comporta, una sfilza infinita, in una volta sola, di una lunga serie di violazioni agli articoli della Convenzione di Strasburgo, e ai suoi successivi protocolli, sui diritti dell’uomo: si va dalla libera circolazione al diritto alla corrispondenza, dal diritto di voto al diritto ai propri beni, dall’accesso al processo al diritto alla vita privata e famigliare. A comportare tutte queste violazioni è il nostro processo sui fallimenti, uno dei più grandi scandali italiani passati sotto silenzio per decenni. E di cui si fa ancora fatica a parlare. Eppure si tratta quasi sempre di un labirinto dal quale, chi ci finisce dentro, non esce più. Ci sono diverse ragioni per le quali si può incappare in un fallimento, specie in uno Stato che ha la pressione fiscale più alta d’Europa e pretende taluni fondamentali pagamenti, come l’iva, anche prima che uno l’abbia incassata. E che chiede tasse in anticipo sulla presunzione di un volume d’affari, come se gli imprenditori avessero la sfera di cristallo. Di certo in questa maglia finisce spesso brava gente, anche per poche migliaia di euro, gente con una faccia e una casa. E quasi mai, invece, chi fa dell’attività societaria un’arma per delinquere, troppo accorto per non sfruttare prestanome o, per usare una frase in gergo, le cosiddette teste di legno. Troppo astuto per avere intestato qualcosa. Ci vorrebbe dunque una legislazione molto accorta, in grado di stabilire con equità caso per caso. Ma in una Repubblica fondata sul lavoro e che fa dunque dell’impresa del lavoro la sua base, la legge fallimentare è regolata unicamente da una legge del Regno: il Regio Decreto n. 267 del 16 marzo 1942. Una legge rimasta sostanzialmente immutata per 60 anni.
LA SPIRALE DEL FALLIMENTO. Gianna Sammicheli vive a La Spezia. Si è occupata di cause per i diritti umani in Germania, Spagna e in Inghilterra e da qualche tempo si sta confrontando con il sistema giuridico italiano. «La legge 80/2005 e il decreto legislativo 5/2006 hanno dovuto recepire molte delle indicazioni date dalla Corte Europea, per modificare la legge, dopo diverse condanne subite dall’Italia a Strasburgo. Le nuove norme tuttavia hanno finito per applicarsi solo alle procedure iniziate dopo la data di entrata in vigore della legge. Il fatto è che per tutte le procedure che erano in corso in quel momento le violazioni ci sono già state e quindi restano lamentabili nei sei mesi dalla chiusura dal fallimento, nonostante l’abrogazione delle norme». Quali sono le leggi del nostro codice che per 60 anni hanno violato la Convenzione di Strasburgo? «Sono stati abrogati in particolare gli articoli 48, 49, 50 sulla corrispondenza, la libertà di circolazione, l’iscrizione nel registro dei falliti, dalla quale partivano automaticamente le “incapacità” previste dal codice civile e dalle leggi speciali. Molte erano “incapacità” relative ai diritti civili o politici. Come la perdita del diritto di voto per cinque anni, l’impossibilità di iscrizione agli albi per esempio o di amministrare società. In realtà, già aprire un conto corrente per molti è stato un problema. La corrispondenza del fallito, tutta, andava direttamente al curatore; il fallito non poteva muoversi liberamente e doveva restare sempre a disposizione del curatore. Queste limitazioni persistevano fino alla sentenza di riabilitazione, che poteva essere chiesta dopo cinque anni dalla chiusura del fallimento. Il che, spesso, avveniva dopo vent’anni dall’inizio del fallimento». Una vita. Vent’anni senza disporre dei propri beni, senza poter verificare che vengano venduti e non svenduti, senza poter avere un fido o accendere un mutuo, spesso senza nemmeno avere un conto corrente. Vent’anni di segnalazioni alle centrali rischi, un marchio d’infamia che ha ottenuto un rimedio. Forse. «La Corte Costituzionale,- prosegue Sammicheli - con la sentenza n. 39/2008, ha dichiarato l’incostituzionalità degli articoli 50 e 142 per il testo anteriore all’entrata in vigore della riforma, nella parte in cui si stabiliva che le “incapacità personali” derivanti al fallito dalla dichiarazione di fallimento perdurassero oltre la chiusura della procedura concorsuale. Questo proprio per chiarire che se anche la riforma non si applica alle procedure vecchie, le “incapacità” di questi vecchi fallimenti cessano con la chiusura. Però…». Però?
IL RIMEDIO É PEGGIO DELLA CURA. «Il problema è che la riforma ha eliminato il Registro dei Falliti e le norme sulla riabilitazione, ma all’eliminazione non è seguita alcuna modifica di legge che permetta di eliminare di fatto tutte le “incapacità” in modo automatico alla chiusura del fallimento». Si spieghi. «In sostanza, abrogando l’istituto della riabilitazione, paradossalmente non si possono più eliminare tutte le conseguenze che derivavano dalla riabilitazione. Con questa si aveva anche l’estinzione degli effetti dell’eventuale condanna penale che talvolta si accompagna alla dichiarazione di fallimento. Il fallito quindi, oggi, chiuso il fallimento, non può semplicemente chiedere ad esempio l’iscrizione al registro delle imprese per l’inizio di nuova attività commerciale, perché non ha alcun documento che attesti il riacquisto delle capacità, né può ottenere direttamente il certificato del casellario che non menzioni i provvedimenti giudiziari relativi al fallimento. L’articolo 24 T.U. 313/2002 infatti lo rende formalmente possibile solo se c’è stata una sentenza di riabilitazione. Di fatto si lascia che i falliti si arrangino da soli, specie se il fallimento è già chiuso». E cioè questo significa che chi ha visto chiuso il proprio fallimento dopo vent’anni deve fare una nuova causa davanti ad un giudice perché una nuova sentenza ne cancelli il nome dal casellario penale. E sembra in effetti dire lo stesso anche la circolare del Ministero della Giustizia del 22 settembre 2008. E che cosa accade in questi casi? Accade che il giudice interpreta. E non è affatto detto che disponga la cancellazione. Una situazione kafkiana.
CHI CONTROLLA I CONTROLLORI? IL CONTRIBUENTE PAGA.
Sicchè anche chi è fallito vent’anni fa e il suo fallimento è stato chiuso da tempo immemore, rischia ancora di trovarsi tracce che gli impediscano una nuova vita, anche solo l’accesso ad una banca. Di più. Nonostante le modifiche, prosegue Sammicheli, «il fallito oggi è tuttora privato dell’amministrazione e della disponibilità dei propri beni a partire dalla dichiarazione di fallimento, beni che vengono gestiti esclusivamente dagli organi preposti. È poi il curatore a stare in giudizio nelle controversie, anche in corso, relative ai rapporti di diritto patrimoniale. Inoltre, il fallito non ha né ha mai avuto libero accesso al proprio fascicolo, il che gli impedisce di verificare l’operato degli organi fallimentari. Se è vero che devono essere i creditori ad interessarsene, è anche vero che non se questi lo fanno e il curatore agisce ai danni del fallimento stesso, come è anche successo, difficilmente il fallito potrà saperlo, pur subendone le conseguenze». Nella zona grigia dei fallimenti emergono così storie come quella di un giudice del tribunale fallimentare di Firenze, Sebastiano Puliga, condannato in primo grado, lo scorso novembre 2012, a quindici anni, tre dei quali condonati. Accusato di corruzione, abuso d’ufficio, peculato, falso, interesse privato in procedure concorsuali e concorso in bancarotta, è stato condannato insieme ad una trentina di persone, tra avvocati, commercialisti, architetti e ingegneri, tutti con pene dai 3 anni e 2 mesi ai 9 anni e 9 mesi. Cuore della vicenda un presunto comitato d’affari per pilotare l’affidamento di perizie e curatele. Il fatto è che le indagini su di lui sono cominciate nel 2002 e la prima sentenza è giunta nove anni più tardi. E riguardava vicende ovviamente precedenti, anni ’90. Significa che, se davvero Puliga è colpevole, ci sono falliti che aspettano giustizia da una vita. «Qualsiasi sia l’esito processuale- dice ancora Sammicheli – è evidente che vicende come queste forse risentono proprio di una eccessiva fiducia accordata originariamente dalla legge agli organi fallimentari. Prima della riforma non c’era alcuna espressa incompatibilità tra i magistrati fallimentari e quelli, ad esempio, incaricati dell’esecuzione sui beni dei falliti. In pratica il giudice del fallimento poteva anche essere giudice delle cause che autorizzava ed in cui stava in giudizio il curatore. La riforma ha cercato quindi di diminuire i poteri del giudice, a favore del comitato dei creditori, aumentando anche i requisiti per essere nominati curatori».
Situazione risolta? A sentire il legale no. «Il fallito resta nella situazione precedente. Per ottenere i documenti, in modo da controllare la gestione dei beni, al fallito occorre infatti fare istanza al giudice, che può anche non accoglierla o accoglierla solo in parte. Per esempio le relazioni del curatore anche ora possono non essere date e gli altri documenti dati attraverso il curatore. Il fallito cioè può tuttora non vedere mai il proprio fascicolo e spesso non ha idea di quello che viene fatto».
SUICIDARSI PER NON FALLIRE. E se nessuno vede, e nessuno può controllare, ecco la zona grigia. Dove tutto può succedere, in silenzio. E per anni, tanti anni. Anni in cui il fallito non sa se una sua casa, ad esempio, sia stata venduta a prezzi tali da coprire il debito.
Non sa nulla. Solo che pagherà a vita. Con mezzi, beni. E infamia.
Di più. «Non solo un fallimento medio anteriore alla riforma è durato almeno dieci anni – conclude il legale -, molti dei quali passati ad aspettare che i beni immobili del fallimento venissero venduti o svenduti, con tutte le conseguenze sulle sue “incapacità”. Ma il fallito, ai sensi dell’art. 120 LF , una volta chiuso il fallimento, ritorna esattamente nella posizione di partenza, ovvero con tutti i debiti non pagati sulle spalle ed è, anche solo teoricamente, di nuovo aggredibile». Punto e a capo. E in una macchina come questa, ecco perché tanti falliti si suicidano. Ed ecco perché in tanti si tolgono la vita piuttosto che fallire.
MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.
Ci sono processi che non cominciano, scrive “Fronte del Blog”.
Processi iniqui e processi che non finiscono mai. E che spesso, quando finiscono, risultano pure fatti male. La fotografia di mezzo secolo di giustizia italiana a Strasburgo mette in luce però molto di più: intrusione illecita nella vita privata da parte dello Stato, negazione del diritto di proprietà, violazioni dell’equo processo. Soluzioni? Vediamole.
LEGGE PINTO. Nel 2001 prese forma la legge Pinto, voluta per arginare gli infiniti procedimenti di risarcimento dell’Italia, togliendoli alla Corte Europea per affidarli alle Corti d’Appello. Il risultato non è mai stato brillante ed è emerso in tutta la sua forza nel 2010: le Corti d’Appello risarcivano un’inezia. Il ministero, che aveva visto lievitare gli indennizzi dai 4 milioni di euro del 2002 agli stratosferici 81 del 2008, pagava a rilento (36,5 milioni non risultavano ancora versati alla fine del 2010). E mille persone erano così tornate a Strasburgo, contestando il ritardo nel pagamento della somma già liquidata dalla sentenza: la “mora” della mora. Si trattava della punta dell’iceberg: perché una sentenza non corrisponde ad un caso, ma può radunare anche centinaia di casi. Il ricorso principale, come si sa, nelle cause contro lo Stato a Strasburgo, riguarda la lunghezza dei processi. I responsabili dei ritardi non si sa mai chi siano, se non una generica burocrazia. Nella relazione annuale 2010 al Parlamento il Governo aveva infatti ammesso che la Legge Pinto non riusciva a “fronteggiare efficacemente eventuali condotte negligenti di singoli magistrati, causative dell’irragionevole ritardo processuale, ovvero a vigilare sull’obbligo dei dirigenti degli uffici giudiziari di realizzare un’efficiente organizzazione del lavoro”.
DI CHI È LA COLPA? Eppure i processi non vanno piano perché i magistrati sono pochi: ne abbiamo una media di 1,39 ogni diecimila abitanti a fronte di uno 0,91 dei Paesi dell’Ue, oltre a quasi mille rincalzi entrati negli ultimi tre anni. E allora? Il Governo Monti ha provato a riformare la legge Pinto con il decreto legge dello scorso giugno, che snellisce la procedura. Con quali effetti, avremo modo di raccontarvelo più avanti, perché una riforma strutturale necessita di tempi medi. Di certo, stando ai numeri di Strasburgo, il problema della giustizia in Italia non riguarda soltanto la lunghezza dei processi, civili in particolar modo. Riguarda anche altro. Pure se, di questo “altro” che stiamo per vedere, se ne parla assai poco. Forse perché non pesa economicamente come la lentezza processuale, calcolata pari ad un punto del Pil. Forse. Di sicuro, in uno Stato di diritto, questo “altro” dovrebbe avere un peso addirittura superiore.
EQUO PROCESSO. La Corte per i diritti dell’Uomo ha pubblicato le statistiche sulle sentenze europee emesse dal 1959 al 2011: e l’Italia, oltre a risultare di gran lunga il più condannato tra gli Stati dell’Ue nel totale delle violazioni (quasi il triplo della Francia, 10 volte la Germania, oltre 20 volte la Spagna), alla voce “diritto al giusto processo” presenta 245 condanne. Si tratta sempre dell’articolo 6 della Convenzione per i diritti dell’Uomo, come per la lentezza processuale, ma riguarda stavolta le violazioni del diritto ad una giusta difesa. Materia penale, per intenderci. Tra i Paesi occidentali, ne ha sei in più unicamente la Francia, dove, in compenso, i processi sono molto più rapidi. Il resto della compagnia è formato da Turchia, Romania, Ucraina e Russia. Sotto, il baratro. Ciò significa che da noi non solo i processi durano una vita. Ma in linea di massima sono fatti pure male. Il che, quando di mezzo c’è il penale, comincia a far nascere angoscia. Perché sui dati non ha pesato affatto solo la nostra normativa sulla contumacia, no. «Sono diverse le condanne in materia di giusto processo: per impossibilità di interrogare i testimoni, le vittime e gli accusatori. Per assenza di difesa effettiva e incapacità dell’avvocato d’ufficio, o per processi conclusi solo per via della testimonianza delle vittime o ancora per assenza di imparzialità negli organi giudicanti o nella pubblica accusa». Sono le parole di Gianna Sammicheli. Formazione giuridica in Germania, Spagna e in una ONG di Londra che porta avanti cause per violazione dei diritti dell’uomo di fronte a tutte le Corti internazionali; si è occupata di diritto nei paesi dell’Est, ma è rimasta sgomenta quando si è confrontata con il sistema italiano, non appena è tornata a lavorare nel Belpaese, La Spezia, esattamente. In Italia infatti, spiega: «si assiste ad interpretazioni della giurisprudenza di Strasburgo inspiegabilmente diverse da quelle che deriverebbero da una traduzione letterale della stessa, tanto che la Corte è di nuovo subissata da ricorsi come prima della Legge Pinto». Snocciola sei sentenze contro l’Italia per ingiusta detenzione: doveva riparare lo Stato, ma la magistratura negava gli indennizzi, dando sostanzialmente la colpa dell’arresto all’arrestato.
SOTTRAZIONE DI MINORI, PROPRIETÀ PRIVATA E DIRITTO DI VOTO. «Moltissime – prosegue la Sammicheli – anche le condanne al nostro Paese in materia di minori, dove i giudici italiani hanno tolto i figli ingiustamente alle famiglie». Nella fotografia della tabella di Strasburgo, tutto questo va alla voce “diritto alla vita privata e famigliare”. E qui non abbiamo davvero eguali: 133 condanne, l’unico Paese con numeri a tre cifre, numeri spaventosi anche se confrontati con Turchia, Russia, Romania, Polonia, tutti Paesi che per decenni non sono stati esattamente noti come templi giuridici.
Ma il catalogo di record non finisce qui: 16 sentenze sul diritto di voto (al secondo posto la Turchia con 6, in mezzo ad una sfilza di 0 violazioni) e ben 310 sentenze sulla protezione della proprietà privata. L’Occidente, in questo, è lontano da noi anni luce: al secondo posto dell’Ue c’è infatti la Grecia con “appena” 62 violazioni, un quinto delle nostre, che per contro ce la battiamo alla grande con Romania, Russia, Turchia e Ucraina.
COME STANNO LE COSE. I nostri dati della giustizia, visti con l’occhio europeo, sono devastanti. Ma non basta. Perché peggiorano ancora se mettiamo a fuoco alcuni archivi. Secondo uno storico dell’Eurispes, infatti, dal dopoguerra al 2003 oltre quattro milioni di italiani furono “vittime” della giustizia e i prosciolti nei processi tra il 1980 e il 1994 erano addirittura il 43,94%. Quasi la metà. E allora la domanda è: chi ha mai pagato per questi errori e per le tantissime violazioni dei diritti dell’Uomo commesse dalla nostra giustizia? Chi ha pagato per le ingiuste detenzioni comminate, per le violazioni dell’equo processo, per aver sottratto un bambino illegittimamente ad una famiglia, una volta che tutto questo è stato acclarato? È difficile fare nomi. Ma chi non paga quasi mai pare siano proprio i protagonisti della giustizia, e cioè i magistrati, neppure in sede disciplinare. Almeno secondo i dati emersi in “La legge siamo noi” (Piemme, 2009) di Stefano Zurlo, che prendeva in esame svariati procedimenti disciplinari del Csm e raccontava di toghe trattate a buffetti o addirittura assolte per le vicende più assurde, o ancora di toghe non espulse neanche quando avevano chiesto l’aiuto di un boss. Il tutto mettendo sul piatto numeri pesanti: tra il 1999 e il 2006, su 1010 procedimenti disciplinari, 812 sono finiti con l’assoluzione o il proscioglimento; 126 con l’ammonimento, 38 le censure. Ma solo 22 volte c’è stato un vero provvedimento minimo (rallentamento di carriera) e 6 volte l’espulsione. Ventotto provvedimenti concreti su 1010. Non sarà un po’ poco?
QUARTO GRADO DI GIUDIZIO. In nome dell’indipendenza della magistratura non si è mai voluto mettere mano ad una strutturale riforma della giustizia. E si è lasciato che quello che è un problema serio, diventasse un mero “equivoco” politico: chi voleva la riforma s’intendeva fosse schierato da una parte, chi non la voleva, s’intendeva schierato dall’altra. Facile. Ma l’indipendenza della magistratura in Italia non è solo quella che stabilisce l’autonomia dalla politica e l’essere soggetta solo alla legge. No. L’indipendenza della magistratura in Italia è quella che consente ad un giudice l’interpretazione della legge, perché possa decidere in libera coscienza. Un principio nobile, che tuttavia può portare, ad esempio, un giudice di secondo grado a condannare un imputato con gli stessi, precisi elementi, con cui questi era stato assolto in primo grado. A fargli decidere di non sentire alcuni testimoni che la difesa ritiene cruciali. E a non fargli rispettare i dettami chiari e netti stabiliti dalla Convenzione per i diritti dell’Uomo, che pure l’Italia ha sottoscritto. Senza, nemmeno in questo caso, stando ai dati pubblicati da Zurlo, subire alcuna seria conseguenza nemmeno in sede disciplinare. Non a caso, per mettere una pezza alle continue condanne della Corte di Strasburgo all’Italia per le violazioni dell’equo processo, la Corte Costituzionale ha emanato ad aprile 2011 una clamorosa sentenza: la numero 113. Trattava il caso di Paolo Dorigo, condannato a tredici anni e sei mesi con l’unica prova fornita da due testimoni che però non furono mai controinterrogati in un confronto diretto. Già nel 1998 Strasburgo definì quel processo “iniquo”, ma Dorigo uscì di prigione dopo aver scontato quasi tutta la pena. La Corte Costituzionale, partendo proprio dalla sua lunga vicenda, ha stabilito che se Strasburgo dichiara il processo “iniquo”, è illegittimo non prevederne la revisione: e ha in pratica introdotto un possibile quarto grado di giudizio. Sostanzialmente, in caso di condanna dell’Italia a Strasburgo, il processo potrebbe essere rifatto. Ma forse è tempo che oggi si superi l’equivoco politico. E che qualcuno metta finalmente mano ad una riforma della giustizia capace di risolvere tutte queste contraddizioni: premiando finalmente i magistrati che non sbagliano. E rallentando davvero chi sbaglia troppo.
LO STATO DELLA GIUSTIZIA VISTO DA UN MAGISTRATO.
Lo stato della giustizia in Italia: intervista al giudice fatta da Stefano Lorenzetto e pubblicata su "Il Giornale". Questa sconvolgente intervista è un clamoroso atto di denuncia del sistema giudiziario italiano, fatto da chi, Edoardo Mori, magistrato lo è stato in modo instancabile e apprezzatissimo per 42 anni. Quello che racconta è lo sfacelo totale. Una delle sue dichiarazioni..«Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm». Ed eccone un’altra…«La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure». E ancora un’altra...."i periti offrono ai Pm le risposte desiderate, gli forniscono le pezze d’appoggio per confermare le loro tesi preconcette. I Pm non tollerano un perito critico, lo vogliono disponibile a sostenere l’accusa a occhi chiusi. E siccome i periti sanno che per lavorare devono far contenti i Pm, si adeguano".
Edoardo Mori, uno di quegli uomini precisi, scrupolosi e dallo stile impeccabile che sembrano appartenere a un secolo precedente, se ne è andato dalla magistratura con un senso di disgusto. Racconta di come troppe volte si è fatto e viene fatto totalmente carta straccia del diritto. E’ davvero estremamente raro che un Magistrato, specie se ha svolto ruoli importanti, faccia dichiarazioni di questo livello. Ecco perché crediamo che questa intervista vada letta.
Magistrati, alzatevi! Stavolta gli imputati siete voi e a processarvi è un vostro collega, il giudice Edoardo Mori. Che un anno fa, come in questi giorni, decise di strapparsi di dosso la toga, disgustato dall’impreparazione e dalla faziosità regnanti nei palazzi di giustizia.
«Sarei potuto rimanere fino al 2014, ma non ce la facevo più a reggere l’idiozia delle nuove leve che sui giornali e nei tiggì incarnano il volto della magistratura. Meglio la pensione». Per 42 anni il giudice Mori ha servito lo Stato tutti i santi i giorni, mai un’assenza, a parte la settimana in cui il figlioletto Daniele gli attaccò il morbillo; prima per otto anni pretore a Chiavenna, in Valtellina, e poi dal 1977 giudice istruttore, giudice per le indagini preliminari, giudice fallimentare (il più rapido d’Italia, attesta il ministero della Giustizia), nonché presidente del Tribunale della libertà, a Bolzano, dov’è stato protagonista dei processi contro i terroristi sudtirolesi, ha giudicato efferati serial killer come Marco Bergamo (cinque prostitute sgozzate a coltellate), s’è occupato d’ogni aspetto giurisprudenziale a esclusione solo del diritto di famiglia e del lavoro. Con un’imparzialità e una competenza che gli vengono riconosciute persino dai suoi nemici. Ovviamente se n’è fatti parecchi, esattamente come suo padre Giovanni, che da podestà di Zeri, in Lunigiana, nel 1939 mandò a farsi friggere Benito Mussolini, divenne antifascista e ospitò per sei mesi in casa propria i soldati inglesi venuti a liberare l’Italia. Mori confessa d’aver tirato un sospirone di sollievo il giorno in cui s’è dimesso: «Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm». Da sempre studioso di criminologia e scienze forensi, il dottor Mori è probabilmente uno dei rari magistrati che già prima di arrivare all’università si erano sciroppati il Trattato di polizia scientifica di Salvatore Ottoleghi (1910) e il Manuale del giudice istruttore di Hans Gross (1908). Le poche lire di paghetta le investiva in esperimenti su come evidenziare le impronte digitali utilizzando i vapori di iodio. Non c’è attività d’indagine (sopralluoghi, interrogatori, perizie, autopsie, Dna, rilievi dattiloscopici, balistica) che sfugga alle conoscenze scientifiche dell’ex giudice, autore di una miriade di pubblicazioni, fra cui il Dizionario multilingue delle armi, il Codice delle armi e degli esplosivi e il Dizionario dei termini giuridici e dei brocardi latini che vengono consultati da polizia, carabinieri e avvocati come se fossero tre dei 73 libri della Bibbia. Nato a Milano nel 1940, nel corso della sua lunga carriera Mori ha firmato almeno 80.000 fra sentenze e provvedimenti, avendo la soddisfazione di vederne riformati nei successivi gradi di giudizio non più del 5 per cento, un’inezia rispetto alla media, per cui gli si potrebbe ben adattare la frase latina che Sant’Agostino nei suoi Sermones riferiva alle questioni sottoposte al vaglio della curia romana o dello stesso pontefice: «Roma locuta, causa finita». Il dato statistico può essere riportato solo perché Mori è uno dei pochi, o forse l’unico in Italia, che ha sempre avuto la tigna di controllare periodicamente com’erano andati a finire i casi passati per le sue mani: «Di norma ai giudici non viene neppure comunicato se le loro sentenze sono state confermate o meno. Un giudice può sbagliare per tutta la vita e nessuno gli dice nulla. La corporazione è stata di un’abilità diabolica nel suddividere le eventuali colpe in tre gradi di giudizio. Risultato: deresponsabilizzazione totale. Il giudice di primo grado non si sente sicuro? Fa niente, condanna lo stesso, tanto – ragiona – provvederà semmai il collega in secondo grado a metterci una pezza. In effetti i giudici d’appello un tempo erano eccellenti per prudenza e preparazione, proprio perché dovevano porre rimedio alle bischerate commesse in primo grado dai magistrati inesperti.
Ma oggi basta aver compiuto 40 anni per essere assegnati alla Corte d’appello. Non parliamo della Cassazione: leggo sentenze scritte da analfabeti». Soprattutto, se il giudice sbaglia, non paga mai. «La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure». Il dottor Mori parla con cognizione di causa: ha dovuto subire ben sei provvedimenti disciplinari e tutti per aver criticato l’operato di colleghi arruffoni e incapaci. «Dopo aver letto una relazione scritta per un pubblico ministero pugliese, con la quale il perito avrebbe fatto condannare un innocente sulla base di rivoltanti castronerie, mi permisi di scrivere al procuratore capo, avvertendolo che quel consulente stava per esporlo a una gran brutta figura. Ebbene, l’emerita testa mi segnalò per un procedimento disciplinare con l’accusa d’aver “cercato di influenzarlo” e un’altra emerita testa mi rinviò a giudizio. Ogni volta che ho segnalato mostruosità tecniche contenute nelle sentenze, mi sono dovuto poi giustificare di fronte al Csm. E ogni volta l’organo di autogoverno della magistratura è stato costretto a prosciogliermi. Forse mi ha inflitto una censura solo nel sesto caso, per aver offuscato l’immagine della giustizia segnalando che un incolpevole cittadino era stato condannato a Napoli. Ma non potrei essere più preciso al riguardo, perché, quando m’è arrivata l’ultima raccomandata dal Palazzo dei Marescialli, l’ho stracciata senza neppure aprirla. Delle decisioni dei supremi colleghi non me ne fregava più nulla».
–Perché ha fatto il magistrato?
«Per laurearmi in fretta, visto che in casa non c’era da scialare. Fin da bambino me la cavavo un po’ in tutto, perciò mi sarei potuto dedicare a qualsiasi altra cosa: chimica, scienze naturali e forestali, matematica, lingue antiche. Già da pretore mi documentavo sui testi forensi tedeschi e statunitensi e applicavo regole che nessuno capiva. Be’, no, a dire il vero uno che le capiva c’era: Giovanni Falcone».
–Il magistrato trucidato con la moglie e la scorta a Capaci.
«Mi portò al Csm a parlare di armi e balistica. Ma poi non fui più richiamato perché osai spiegare che molti dei periti che i tribunali usavano come oracoli non erano altro che ciarlatani. Ciononostante questi asini hanno continuato a istruire i giovani magistrati e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma guai a parlar male dei periti ai Pm: ti spianano. Pensi che uno di loro, utilizzato anche da un’università romana, è riuscito a trovare in un residuo di sparo tracce di promezio, elemento chimico non noto in natura, individuato solo al di fuori del sistema solare e prodotto in laboratorio per decadimento atomico in non più di 10 grammi».
–Per quale motivo i pubblici ministeri scambiano i periti per oracoli?
«Ma è evidente! Perché ».
–Ci sarà ben un organo che vigila sull’operato dei periti.
«Nient’affatto, in Italia manca totalmente un sistema di controllo.
Quando entrai in magistratura, nel 1968, era in auge un perito che disponeva di un’unica referenza: aver recuperato un microscopio abbandonato dai nazisti in fuga durante la seconda guerra mondiale. Per ottenere l’inserimento nell’albo dei periti presso il tribunale basta essere iscritti a un ordine professionale. Per chi non ha titoli c’è sempre la possibilità di diventare perito estimatore, manco fossimo al Monte di pietà. Ci sono marescialli della Guardia di finanza che, una volta in pensione, ottengono dalla Camera di commercio il titolo di periti fiscali e con quello vanno a far danni nelle aule di giustizia».
–Sono sconcertato.
«Anche lei può diventare perito: deve solo trovare un amico giudice che la nomini. I tribunali rigurgitano di tuttologi, i quali si vantano di potersi esprimere su qualsiasi materia, dalla grafologia alla dattiloscopia. Spesso non hanno neppure una laurea. Nel mondo anglosassone vi è una tale preoccupazione per la salvaguardia dei diritti dell’imputato che, se in un processo si scopre che un perito ha commesso un errore, scatta il controllo d’ufficio su tutte le sue perizie precedenti, fino a procedere all’eventuale revisione dei processi. In Italia periti che hanno preso cantonate clamorose continuano a essere chiamati da Pm recidivi e imperterriti, come se nulla fosse accaduto».
–Può fare qualche caso concreto?
«Negli accertamenti sull’attentato a Falcone vennero ricostruiti in un poligono di tiro – con costi miliardari, parlo di lire – i 300 metri dell’autostrada di Capaci fatta saltare in aria da Cosa nostra, per scoprire ciò che un esperto già avrebbe potuto dire a vista con buona approssimazione e cioè il quantitativo di esplosivo usato. È chiaro che ai fini processuali poco importava che fossero 500 o 1.000 chili. Molto più interessante sarebbe stato individuare il tipo di esplosivo. Dopo aver costruito il tratto sperimentale di autostrada, ci si accorse che un manufatto recente aveva un comportamento del tutto diverso rispetto a un manufatto costruito oltre vent’anni prima.
Conclusione: quattrini gettati al vento. Nel caso dell’aereo Itavia, inabissatosi vicino a Ustica nel 1980, gli esami chimici volti a ricercare tracce di esplosivi su reperti ripescati a una profondità di circa 3.500 metri vennero affidati a chimici dell’Università di Napoli, i quali in udienza dichiararono che tali analisi esulavano dalle loro competenze. Però in precedenza avevano riferito di aver trovato tracce di T4 e di Tnt in un sedile dell’aereo e questa perizia ebbe a influenzare tutte le successive pasticciate indagini, orientate a dimostrare che su quel volo era scoppiata una bomba. Vuole un altro esempio di imbecillità esplosiva?».
–Prego. Sono rassegnato a tutto.
«Per anni fior di magistrati hanno cercato di farci credere che il plastico impiegato nei più sanguinosi attentati attribuiti all’estrema destra, dal treno Italicus nel 1974 al rapido 904 nel 1984, era stato recuperato dal lago di Garda, precisamente da un’isoletta, Trimelone, davanti al litorale fra Malcesine e Torri del Benaco, militarizzata fin dal 1909 e adibita a santabarbara dai nazisti. Al processo per la strage di Bologna l’accusa finì nel ridicolo perché nessuno dei periti s’avvide che uno degli esplosivi, asseritamente contenuti nella valigia che provocò l’esplosione e che pareva fosse stato ripescato nel Benaco dai terroristi, era in realtà contenuto solo nei razzi del bazooka M20 da 88 millimetri di fabbricazione statunitense, entrato in servizio nel 1948. Un po’ dura dimostrare che lo avessero già i tedeschi nel 1945».
–Ormai non ci si può più fidare neppure dell’esame del Dna, basti vedere la magra figura rimediata dagli inquirenti nel processo d’appello di Perugia per l’omicidio di Meredith Kercher.
«Si dice che questo esame presenti una probabilità d’errore su un miliardo. Falso. Da una ricerca svolta su un database dell’Arizona, contenente 65.000 campioni di Dna, sono saltate fuori ben 143 corrispondenze. Comunque era sufficiente vedere i filmati in cui uno degli investigatori sventolava trionfante il reggiseno della povera vittima per capire che sulla scena del delitto era intervenuta la famigerata squadra distruzione prove. A dimostrazione delle cautele usate, il poliziotto indossava i guanti di lattice. Restai sbigottito vedendo la scena al telegiornale. I guanti servono per non contaminare l’ambiente col Dna dell’operatore, ma non per manipolare una possibile prova, perché dopo due secondi che si usano sono già inquinati. Bisogna invece raccogliere ciascun reperto con una pinzetta sterile e monouso. I guanti non fanno altro che trasportare Dna presenti nell’ambiente dal primo reperto manipolato ai reperti successivi. E infatti adesso salta fuori che sul gancetto del reggipetto c’era il Dna anche della dottoressa Carla Vecchiotti, una delle perite che avrebbero dovuto isolare con certezza le eventuali impronte genetiche di Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Non è andata meglio a Cogne».
–Cioè?
«In altri tempi l’indagine sulla tragica fine del piccolo Samuele Lorenzi sarebbe stata chiusa in mezza giornata. Gli infiniti sopralluoghi hanno solo dimostrato che quelli precedenti non erano stati esaustivi. Il sopralluogo è un passaggio delicatissimo, che non consente errori. Gli accessi alla scena del delitto devono essere ripetuti il meno possibile perché ogni volta che una persona entra in un ambiente introduce qualche cosa e porta via altre cose. Ma il colmo dell’ignominia è stato toccato nel caso Marta Russo».
–Si riferisce alle prove balistiche sul proiettile che uccise la studentessa nel cortile dell’Università La Sapienza di Roma?
«E non solo. S’è preteso di ricostruire la traiettoria della pallottola avendo a disposizione soltanto il foro d’ingresso del proiettile su un cranio che era in movimento e che quindi poteva rivolgersi in infinite direzioni. In tempi meno bui, sui libri di geometria del ginnasio non si studiava che per un punto passano infinite rette? Dopodiché sono andati a grattare il davanzale da cui sarebbe partito il colpo e hanno annunciato trionfanti: residui di polvere da sparo, ecco la prova! Peccato che si trattasse invece di una particella di ferodo per freni, di cui l’aria della capitale pullula a causa del traffico. La segretaria Gabriella Alletto è stata interrogata 13 volte con metodi polizieschi per farle confessare d’aver visto in quell’aula gli assistenti Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Uno che si comporta così, se non è un pubblico ministero, viene indagato per violenza privata. Un Pm non può usare tecniche da commissario di pubblica sicurezza, anche se era il metodo usato da Antonio Di Pietro, che infatti è un ex poliziotto».
–Un sistema che ha fatto scuola.
«La galera come mezzo di pressione sui sospettati per estorcere confessioni. Le manette sono diventate un moderno strumento di tortura per acquisire prove che mancano e per costringere a parlare chi, per legge, avrebbe invece diritto a tacere».
–Che cosa pensa delle intercettazioni telefoniche che finiscono sui giornali?
«Non serve una nuova legge per vietare la barbarie della loro indebita pubblicazione. Quella esistente è perfetta, perché ordina ai Pm di scremare le intercettazioni utili all’indagine e di distruggere le altre. Tutto ciò che non riguarda l’indagato va coperto da omissis in fase di trascrizione. Nessuno lo fa: troppa fatica. Ci vorrebbe una sanzione penale per i Pm. Ma cane non mangia cane, almeno in Italia. In Germania, invece, esiste uno specifico reato. Rechtsverdrehung, si chiama. È lo stravolgimento del diritto da parte del giudice».
–Come mai la giustizia s’è ridotta così?
«Perché, anziché cercare la prova logica, preferisce le tesi fantasiose, precostituite. Le statistiche dimostrano invece che nella quasi totalità dei casi un delitto è banale e che è assurdo andare in cerca di soluzioni da romanzo giallo. Lei ricorderà senz’altro il rasoio di Occam, dal nome del filosofo medievale Guglielmo di Occam».
–In un ragionamento tagliare tutto ciò che è inutile.
«Appunto. Le regole logiche da allora non sono cambiate. Non vi è alcun motivo per complicare ciò che è semplice. Il “cui prodest?” è risolutivo nel 50 per cento dei delitti. Chi aveva interesse a uccidere? O è stato il marito, o è stata la moglie, o è stato l’amante, o è stato il maggiordomo, vedi assassinio dell’Olgiata, confessato dopo 20 anni dal cameriere filippino Manuel Winston. Poi servono i riscontri, ovvio. In molti casi la risposta più banale è che proprio non si può sapere chi sia l’autore di un crimine. Quindi è insensato volerlo trovare per forza schiaffando in prigione i sospettati».
–Ma perché si commettono tanti errori nelle indagini?
«I giudici si affidano ai laboratori istituzionali e ne accettano in modo acritico i responsi. Nei rari casi in cui l’indagato può pagarsi un avvocato e un buon perito, l’esperienza dimostra che l’accertamento iniziale era sbagliato. I medici i loro errori li nascondono sottoterra, i giudici in galera. Paradigmatico resta il caso di Ettore Grandi, diplomatico in Thailandia, accusato nel 1938 d’aver ucciso la moglie che invece si era suicidata. Venne assolto nel 1951 dopo anni di galera e ben 18 perizie medico-legali inconcludenti».
–E si ritorna alla conclamata inettitudine dei periti.
«L’indagato innocente avrebbe più vantaggi dall’essere giudicato in base al lancio di una monetina che in base a delle perizie. E le risparmio l’aneddotica sulla voracità dei periti».
–No, no, non mi risparmi nulla.
«Vengono pagati per ogni singolo elemento esaminato. Ho visto un colonnello, incaricato di dire se 5.000 cartucce nuove fossero ancora utilizzabili dopo essere rimaste in un ambiente umido, considerare ognuna delle munizioni un reperto e chiedere 7.000 euro di compenso, che il Pm gli ha liquidato: non poteva spararne un caricatore? Ho visto un perito incaricato di accertare se mezzo container di kalashnikov nuovi, ancora imballati nella scatola di fabbrica, fossero proprio kalashnikov. I 700-800 fucili mitragliatori sono stati computati come altrettanti reperti. Parcella da centinaia di migliaia di euro. Per fortuna è stata bloccata prima del pagamento».
–In che modo se ne esce?
«Nel Regno Unito vi è il Forensic sciences service, soggetto a controllo parlamentare, che raccoglie i maggiori esperti in ogni settore e fornisce inoltre assistenza scientifica a oltre 60 Stati esteri. Rivolgiamoci a quello. Dispone di sette laboratori e impiega 2.500 persone, 1.600 delle quali sono scienziati di riconosciuta autorità a livello mondiale».
–E per le altre magagne?
«In Italia non esiste un testo che insegni come si conduce un interrogatorio. La regola fondamentale è che chi interroga non ponga mai domande che anticipino le risposte o che lascino intendere ciò che è noto al pubblico ministero o che forniscano all’arrestato dettagli sulle indagini. Guai se il magistrato fa una domanda lunga a cui l’inquisito deve rispondere con un sì o con un no. Una palese violazione di questa regola elementare s’è vista nel caso del delitto di Avetrana. Il primo interrogatorio di Michele Misseri non ha consentito di accertare un fico secco perché il Pm parlava molto più dello zio di Sarah Scazzi: bastava ascoltare gli scampoli di conversazione incredibilmente messi in onda dai telegiornali. Ci sarebbe molto da dire anche sulle autopsie».
–Ci provi.
«È ormai routine leggere che dopo un’autopsia ne viene disposta una seconda, e poi una terza, quando non si riesumano addirittura le salme sepolte da anni. Ciò dimostra solamente che il primo medico legale non era all’altezza. Io andavo di persona ad assistere agli esami autoptici, spesso ho dovuto tenere ferma la testa del morto mentre l’anatomopatologo eseguiva la craniotomia. Oggi ci sono Pm che non hanno mai visto un cadavere in vita loro».
–Ma in mezzo a questo mare di fanghiglia, lei com’è riuscito a fare il giudice per 42 anni, scusi?
«Mi consideri un pentito. E un corresponsabile. Anch’io ho abusato della carcerazione preventiva, ma l’ho fatto, se mai può essere un’attenuante, solo con i pregiudicati, mai con un cittadino perbene che rischiava di essere rovinato per sempre. Mi autoassolvo perché ho sempre lavorato per quattro. Almeno questo, tutti hanno dovuto riconoscerlo».
–Non è stato roso dal dubbio d’aver condannato un innocente?
«Una volta sì. Mi ero convinto che un impiegato delle Poste avesse fatto da basista in una rapina. Mi fidai troppo degli investigatori e lo tenni dentro per quattro-cinque mesi. Fu prosciolto dal tribunale».
–Gli chiese scusa?
«Non lo rividi più, sennò l’avrei fatto. Lo faccio adesso. Ma forse è già morto».
Intervistato sul Corriere della Sera da Indro Montanelli nel 1959, il giorno dopo essere andato in pensione, il presidente della Corte d’appello di Milano, Manlio Borrelli, padre dell’ex procuratore di Mani pulite, osservò che «in uno Stato bene ordinato, un giudice dovrebbe, in tutta la sua carriera e impegnandovi l’intera esistenza, studiare una causa sola e, dopo trenta o quarant’anni, concluderla con una dichiarazione d’incompetenza». «In Germania o in Francia non si parla mai di giustizia. Sa perché? Perché funziona bene. I magistrati sono oscuri funzionari dello Stato. Non fanno né gli eroi né gli agitatori di popolo. Nessuno conosce i loro nomi, nessuno li ha mai visti in faccia». Si dice che il giudice non dev’essere solo imparziale: deve anche apparirlo. Si farebbe processare da un suo collega che arriva in tribunale con Il Fatto Quotidiano sotto braccio? Cito questa testata perché di trovarne uno che legga Il Giornale non m’è mai capitato. «Ho smesso d’andare ai convegni di magistrati da quando, su 100 partecipanti, 80 si presentavano con La Repubblica e parlavano solo di politica. Tutti espertissimi di trame, nomine e carriere, tranne che di diritto».
–Quanti sono i giudici italiani dai quali si lascerebbe processare serenamente?
«Non più del 20 per cento. Il che collima con le leggi sociologiche secondo cui gli incapaci rappresentano almeno l’80 per cento dell’umanità, come documenta Gianfranco Livraghi nel suo saggio Il potere della stupidità».
–Perché ha aspettato il collocamento a riposo per denunciare tutto questo?
«A dire il vero l’ho sempre denunciato, fin dal 1970. Solo che potevo pubblicare i miei articoli unicamente sul mensile Diana Armi. Ha chiuso otto mesi fa».
LA MALAGIUSTIZIA E L’ODIO POLITICO. LA VICENDA DI GIULIO ANDREOTTI.
6 maggio 2013 muore Giulio Andreotti. Le frasi celebri di Giulio Andreotti:
- "Il potere logora chi non ce l'ha";
- "Nella sua semplicità popolare, il cittadino non sofisticato, passando davanti al Parlamento o ai ministeri, è talora indotto a porre il dubbio che sia proprio lì che si governa l'Italia";
- "Se fossi nato in un campo profughi del Libano forse sarei diventato anch'io un terrorista";
- "A parte le guerre puniche mi viene attribuito veramente di tutto";
- "L'umiltà è una virtù stupenda, ma non quando si esercita nella dichiarazione dei redditi";
- "Amo talmente la Germania che ne vorrei due";
- "I miei amici che facevano sport sono morti da tempo";
- "Aveva uno spiccato senso della famiglia, al punto che ne aveva due ed oltre";
- "I pazzi si distinguono in due tipi: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che credono di risanare le Ferrovie dello Stato";
- "Meglio tirare a campare che tirare le cuoia";
- "Essendo noi uomini medi le vie di mezzo sono per noi le più congeniali";
- "La cattiveria dei buoni è pericolosissima";
- "Non basta avere ragione, serve avere anche qualcuno che te la dia";
- "Assicuro la mia collega che tra un pranzo e l'altro non prenderò cibo" (a Franca Rame che stava facendo lo sciopero della fame);
- "Clericalismo? La confusione abituale tra quel che è di Cesare e quel di Dio";
Storia d'Italia e di Andreotti. Da De Gasperi a Caselli, racconti e fatti (divisi per decenni) del politico che ha fatto la storia del nostro paese, scrive Stefano Vespa su “Panorama”. Due persone hanno segnato più di altre la lunga vita di Giulio Andreotti: Alcide De Gasperi e Gian Carlo Caselli. L’accostamento può apparire eccessivo, eppure si stenta a trovare una sintesi diversa di 70 anni di storia italiana, anzi andreottiana, cominciata da giovanissimo sottosegretario dello statista dc nel Dopoguerra e conclusa con gli echi dei processi per mafia cui Andreotti è stato sottoposto dagli anni Novanta. Ma ogni decennio lo ha visto protagonista.
Dai Quaranta ai Sessanta. Sottosegretario alla presidenza del Consiglio a 28 anni, nel 1946, e ministro per la prima volta a 36 anni, nel 1954, quando guidò il Viminale, Andreotti in quegli anni badò al suo collegio nel Frusinate e a costruire la sua corrente all’interno della Democrazia cristiana, corrente conservatrice e molto vicina al Vaticano. Gli anni Sessanta sono anche gli anni dello scandalo Sifar e del piano Solo, il tentato golpe del generale Giovanni De Lorenzo, scandalo che scoppiò mentre Andreotti era ministro della Difesa. E proprio dalla distruzione dei dossier del Sifar (il servizio segreto militare) nacque una delle tante polemiche che ha caratterizzato la sua vita, mentre continuavano le guerre sotterranee tra le correnti scudocrociate.
Settanta, gli anni di piombo. Un decennio terribile: gli anni di piombo, l’omicidio Moro, la morte di due Papi, il compromesso storico e il governo della “non sfiducia”, progenitore delle attuali “larghe intese”, mentre il mondo era dominato dalla Guerra fredda. Andreotti ha vissuto da protagonista quel periodo. Presidente del Consiglio per la prima volta nel 1972, ha dovuto confrontarsi (insieme con gli altri leader dc) con la costante ascesa del Partito comunista e con la contemporanea evoluzione della società, il cui simbolo è stato il referendum sul divorzio del 1974. La proposta di compromesso storico tra i due grandi partiti popolari, Dc e Pci, avanzata su Rinascita da Enrico Berlinguer subito dopo il golpe cileno del settembre 1973, e di cui ricorre quest’anno il quarantesimo anniversario, avrebbe attraversato la politica italiana fino al luglio 1976. Caduto il governo Moro, dopo il grande successo del Pci alle elezioni politiche fu proprio Andreotti a presiedere nel luglio di quell’anno il primo governo della “non sfiducia”, un monocolore dc con l’appoggio esterno di quello che si definiva “arco costituzionale”: tutti (anche il Pci) tranne il Msi. E un filo strettissimo legò Andreotti alla tragedia Moro. Dopo la caduta di quel governo, fu proprio Aldo Moro a tessere la tela di nuove “larghe intese” e certamente non fu un caso che venne rapito il 16 marzo, mentre stava andando a Montecitorio per la fiducia che un altro governo Andreotti avrebbe, comunque, di lì a poco ottenuto ancora una volta con l’astensione del Pci. Erano gli anni della “strategia dei due forni”, una delle “invenzioni” andreottiane: la Dc, era la tesi, doveva alternativamente scegliere di accordarsi con il Pci o con Psi a seconda delle convenienze del momento. Tesi che, ovviamente, non piacque molto a Bettino Craxi, dal 1976 segretario socialista.
Ottanta, gli anni del Caf. Quel camper è passato alla storia. Durante il congresso del Psi nel gennaio 1981 Bettino Craxi e Arnaldo Forlani stilarono appunto il “patto del camper” da cui nacque il pentapartito (che univa anche Psdi, Pli e Pri) grazie al quale i partiti laici entravano nell’alternanza di governo. Andreotti “benedì” l’accordo che sancì la nascita del Caf, acronimo dei cognomi dei tre leader. Quelli furono però anche anni difficili sul fronte internazionale, molto prima della caduta del Muro di Berlino. Andreotti era ministro degli Esteri quando ci fu la crisi di Sigonella con gli Stati Uniti nella quale il premier, Bettino Craxi, com’è noto mostrò il polso di ferro impedendo agli americani di arrestare sul territorio italiano i dirottatori dell’Achille Lauro. Se fu Craxi il personaggio centrale di quelle convulse ore, Andreotti, che ne condivise le scelte, è stato alcune volte criticato per una politica estera considerata troppo filoaraba. In un’intervista l’ex ministro degli Esteri Franco Frattini disse che in realtà era nello stesso tempo filoisraeliano: la sostanza stava nella posizione geostrategica della Penisola, collocata tra “l’acqua santa e l’acqua salata” come spiegò negli anni successivi lo stesso Andreotti con la consueta ironia.
Novanta, dal sogno Quirinale ai processi. Gli anni Novanta erano cominciati bene perché nel 1991 Andreotti fu nominato senatore a vita. Ma l’anno successivo cambiò tutto: mentre cominciava Mani pulite (che non l’ha mai sfiorato), coltivò il sogno della presidenza della Repubblica sperando di succedere a Francesco Cossiga, dimessosi alla fine di aprile. La notizia della strage di Capaci, con la morte di Giovanni Falcone e della moglie Francesca Morvillo, lo raggiunse nel suo studio. Lo videro impallidire e capì che non sarebbe mai andato al Quirinale. Mandò i suoi collaboratori più stretti dai vertici del Pds: il sottosegretario Nino Cristofori avvertì Claudio Petruccioli, braccio destro di Achille Occhetto, e il portavoce Stefano Andreani si recò da Luciano Violante. “L’attentato è stato fatto per bloccarmi” fece dire Andreotti. Dei processi per mafia si continuerà a scrivere per anni. Gian Carlo Caselli, oggi procuratore di Torino, si insediò a Palermo il 15 gennaio 1993, proprio il giorno in cui fu arrestato Totò Riina. E nei mesi immediatamente successivi la procura di Palermo cominciò a indagare su Andreotti per i suoi presunti rapporti con Cosa nostra. Tra feroci polemiche e incredulità e dopo un’assoluzione in primo grado nell’ottobre 1999, Andreotti fu condannato in appello per associazione per delinquere fino al 1980, reato ormai prescritto, mentre fu confermata l’assoluzione per gli anni successivi. Caselli aveva lasciato la procura di Palermo nel luglio 1999, pochi mesi prima dell’assoluzione di Andreotti. Molti videro nella scelta la consapevolezza che anni di indagini e di veleni non avrebbero prodotto il risultato sperato (dalla procura), anche se ovviamente Caselli ha sempre negato. Andreotti fu poi assolto anche dall’accusa di omicidio del giornalista Mino Pecorella: la Cassazione nel 2002 annullò senza rinvio la condanna in appello, confermando l’assoluzione in primo grado. Nella ventennale guerra tra politica e giustizia, però, l’inchiesta palermitana è una pietra miliare: da un lato una procura convinta di aver trovato il “terzo livello”, i capi politici della mafia; dall’altro un imputato modello incredulo, ma rispettoso della giustizia. Certamente i riconosciuti contatti fino al 1980 confermano un modo di fare politica che dimostrava una sottovalutazione del fenomeno mafioso. Nello stesso tempo, insistere sul bacio a Riina è stata a sua volta la prova di voler credere a qualunque episodio pur di poter brandire una condanna. Molto politica, prima che giudiziaria. Gli ultimi anni. Le assoluzioni, arrivate “in vita” come da lui auspicato, lo hanno fatto tornare ai suoi studi e alla politica. Non quella attiva, ma quella parlamentare. Sempre presente in aula e nella “sua” commissione Esteri del Senato, dove ascoltava e veniva ascoltato con attenzione. La sua vita andrà ancora studiata a fondo, se si vorrà davvero capire l’Italia.
Ospite della puntata di lunedì 6 maggio 2013, di Un giorno da pecora, programma radiofonico in onda su Radio 2, è stato Vittorio Sgarbi, l'irriverente polemista che ha fatto del turpiloquio un marchio di fabbrica. Su Giulio Andreotti, scomparso proprio oggi, dice: "Sono stato il primo a difendere Andreotti dai magistrati, non lo riceveva più nessuno a parte il Vaticano", rivela. Riguardo le accuse di mafia che spesso hanno lambito Andreotti, il critico d'arte afferma: "La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Per tacitare l'irruento Sgarbi, il conduttore Claudio Sabelli Fioretti ha invitato in trasmissione anche la mamma, l'87enne Rina Cavallini, l'unica a riuscire a zittire Sgarbi, che la ascolta in religioso silenzio. Sul rapporto con la madre confida: "Mia madre pensava fossi stupido perché fino a due anni non parlavo. Poi, quando ho iniziato...". Quindi spiega il motivo dei suoi sbrocchi in televisione: "Mi incazzo quando il mio interlocutore fa ragionamenti illogici o stupidi".
L'immortale distrutto dai pm e ucciso dall'Italia dell'odio. L'inchiesta di Palermo per collusioni mafiose fu un processo politico mascherato: fu abbandonato da tutti quelli che erano certi della sua condanna. E i forcaioli non lo lasciano riposare in pace neppure nel giorno della scomparsa, scrive Vittorio Sgarbi su “Il Giornale”. Giulio Andreotti è morto due volte: una biologicamente il 6 maggio 2013; l'altra, moralmente e politicamente, vent'anni prima, il 27 marzo 1993. Fu allora infatti che una azione violenta lo travolse mascherando da regolare indagine giudiziaria una contrapposizione etica e ideologica. Andreotti è il simbolo dell'Italia che non trova pace e verità neanche nel giorno della scomparsa di un uomo di 94 anni. Sono di ieri sera le accuse vergognose di quella parte di Paese che ha approfittato della sua morte per colpirlo ancora, per rilanciare pettegolezzi infamanti, frutto di una perversione fanatica paragonabile a quella che negli stessi giorni del 1993 sconvolgeva l'Algeria. Accosto due situazioni così lontane, di entrambe le quali fui testimone attivo, perché nel 1994, presidente della commissione Cultura della Camera dei deputati, vennero a trovarmi l'ambasciatore e alcuni esponenti politici «laici» dell'Algeria mostrandomi fotografie raccapriccianti di violenze e stragi con madri e bambini uccisi con efferata crudeltà, teste e arti mozzi, sventramenti: uno scenario di guerra. Non mi risultavano conflitti in Algeria e chiesi ragioni di tanta violenza. Mi fu spiegato che si trattava di un «regolamento dei conti» fra musulmani e musulmani, tra fanatici religiosi e osservanti moderati ancora legati alla tolleranza derivata dagli anni dell'occupazione francese. La matrice della violenza era chiara. Dopo l'indipendenza il ripristino delle tradizioni aveva determinato una riabilitazione religiosa attraverso alcuni maestri inviati dall'Iran a insegnare le leggi del Corano nelle Madraze. I bambini educati in quelle scuole a una concezione religiosa integra e pura sarebbero diventati, una volta adulti, titolari di un rigore e delle conseguenti azioni punitive contro i non abbastanza osservanti. Perché faccio questo parallelo? Perché, gli anni della contestazione studentesca, a partire dal 1968, e ancor prima con la denuncia delle «trame» del Palazzo da parte di Pier Paolo Pasolini, avevano fatto crescere una generazione convinta di dover cambiare il mondo e di dover abbattere i santuari, fra i quali la Democrazia cristiana e i suoi inossidabili esponenti. Da questo clima derivò, ovviamente, l'assassinio di Aldo Moro (ma già allora l'obbiettivo doveva essere il meglio protetto Andreotti) attraverso un vero e proprio processo alla Democrazia cristiana da parte delle Brigate Rosse. Forme estreme, violente, ma radicate nella convinzione che il potere politico fosse dietro qualunque misfatto: stragi di Stato, mafia, servizi segreti, P2. Con la P2, colossale invenzione di un magistrato, senza un solo condannato (sarebbe stato difficile, essendovi fra gli iscritti, il generale Dalla Chiesa, Roberto Gervaso, Maurizio Costanzo, Alighiero Noschese, per le comiche finali), cominciò l'interventismo giudiziario, per riconoscere i metodi del quale dovrebbe essere letta nelle scuole la sentenza di Cassazione che proscioglie tutti gli imputati dall'accusa di associazione segreta e da ogni altra responsabilità penalmente rilevante. L'inchiesta fu così rumorosa che ancora oggi «piduista» è ritenuta un'ingiuria. E, con tangentopoli e la fine di Craxi, arrivò anche il momento di Andreotti, che non poteva essere colpito per corruzione o per finanziamenti illeciti. Così, con perfetto coordinamento, l'azione partì da Palermo. Andreotti, come avviene nelle rivoluzioni, fu accusato di tutto: di associazione mafiosa e di assassinio. Quelle accuse che ieri hanno imperversato per tutta la giornata: internet e soprattutto i social network hanno vomitato odio ripescando le storie di quegli anni senza possibilità di contraddittorio e dando per verità assodate le congetture dei magistrati. Giornali come il Fatto Quotidiano, rappresentanti dell'Italia giustiziera, hanno parlato del processo distorcendo la verità. Fa ridere che si parli tanto di pacificazione politica per gli ultimi vent'anni quando Andreotti è vittima persino da morto del contrario della pace, cioè dell'odio. Quello di Palermo non era un processo letterario, non era un processo alla storia, ma un vero e proprio processo penale. Quello che non era cambiato era Caselli, il pubblico ministero, che, come tutti noi, da studente all'università, da militante di partito, aveva sempre visto Andreotti come Belzebù, come il «grande vecchio», e non poteva lasciarsi sfuggire l'occasione di poterlo processare veramente, da magistrato. La mafia voleva far pagare ad Andreotti la indisponibilità di intercorsa trattativa dopo anni, per tutti i partiti, di implicazioni e di sostegni elettorali. Ma perché solo ad Andreotti e non ai tanti altri rappresentanti politici? Il processo allo Stato doveva essere esemplare, non diversamente da quello rivoluzionario che portò alla morte di Moro. Ma questa volta non erano le Brigate Rosse, era un vero e proprio tribunale della Repubblica con pubblici ministeri e giudici veri. E di cosa dibattevano come prova regina? Del bacio tra Andreotti e Riina a casa di uno dei Salvo. Intanto, tutto appariva a me irrituale e irregolare. Ogni giorno, con pochissimi altri (uno dei quali il coraggioso Lino Iannuzzi), notavo incongruenze e contraddizioni. Perché Andreotti doveva essere processato a Palermo come capo corrente di un partito quando tutta l'attività politica si era svolta a Roma e il suo collegio elettorale era stato in Ciociaria? Dopo essere stato bruciato dal Parlamento come presidente della Repubblica, fu indagato dalla magistratura a Perugia per l'omicidio Pecorelli e a Palermo per associazione mafiosa. Per dieci anni si difese, essendo di fatto degradato da deputato a imputato, e perdendo ogni ruolo politico. In quegli anni fu abbandonato da tutti che erano certi, indipendentemente dalla colpa, della sua condanna. Ma la condanna è il processo stesso.
Andreotti era diventato un appestato, non meritevole di alcuna continuità intellettuale o politica. Andreotti era il «Male». In certi momenti, quando smontavo nella mia trasmissione «Sgarbi quotidiani» alcune ridicole accuse care a Caselli, come quella di essersi recato in visita a un mafioso, a Terrasini, alla guida di una Panda (lui che probabilmente non aveva patente), mi sembrava che ogni limite fosse superato, e pure il senso del ridicolo. Ma mi sbagliavo: tutto era maledettamente vero. Alla fine fu assolto. Ma la formula non poteva essere più ambigua per non penalizzare il suo accusatore. Così si inventò che i reati contestati a Andreotti fino al 1980 erano prescritti, e lui risultava assolto soltanto per quelli che gli erano stato attribuiti dall'80 al '92. Una assoluzione salomonica per non sconfessare il grande accusatore. Ma ingiusta e insensata.
Perché ciò che è prescritto non può essere considerato reato, in assenza di quella verità giudiziaria che si definisce soltanto con il dibattimento che, a evidenza, a reati prescritti, non vi fu. E intanto Andreotti assolto, con riserva, era già morto. E oggi nel coro di quelli che lo rimpiangono e lo onorano mancano le scuse e il pentimento di quelli che lo avevano accusato fantasiosamente e ingiustamente in nome della lotta politica. Quindi non della giustizia.
Il paradiso può attendere, aveva detto a metà ottobre citando il famoso “Heaven can wait” di Warren Beatty e Buck Henry, scrive Paolo Guzzanti su “Panorama”. Ma stavolta il cielo si è stancato di aspettare e non ha concesso proroghe. E così, dopo Francesco Cossiga che a confronto è morto giovane, il grande Giulio, il divo Giulio, l’uomo più sospettato e più esaltato della politica italiana, l’enigmatico, l’astuto, quello di cui Craxi diceva “tutte le volpi finiscono in pellicceria”, ha sgombrato il campo della storia viva, per andare ad abitar d’ora in più nella storia stampata, filmata, certificata, ma non più viva. Non c’è niente di peggio quando muore un personaggio importante, di un cronista che comincia con l’avvertire che “io lo conoscevo bene”. Ma il fatto è che io lo conoscevo veramente bene e lui mi conosceva altrettanto bene e non ci piacevamo moltissimo. L’ultima grande performance Andreotti l’ha infatti prodotta sul piccolo proscenio della Commissione parlamentare d’inchiesta Mitrokhin di cui sono stato per quattro anni il presidente e lui, Giulio, per quattro anni un commissario assiduo, puntiglioso, provocatorio, divertente, odioso, sempre dalla parte della Russia sovietica e dunque anche in quell’occasione beniamino dei comunisti che nella commissione Mitrokhin si proponevano il compito di ostacolare in ogni modo e impedire ridicolizzando, che si arrivasse a trovare la verità sugli agenti sovietici in Italia, intendendosi per agenti non le spie, ma proprio coloro che agivano come agenti di influenza. Andreotti era lì, pronto alla rievocazione, pronto alla battuta, pronto a sabotare con armi sottilissime tutto il lavoro costruttivo che facevamo. L’ex ministro degli esteri di Gheddafi mi disse a Tripoli durante una pausa dei nostri lavori durante l’incontro con la Commissione Esteri: “Se c’è un uomo che noi in Italia abbiamo sempre adorato, veramente adorato oltre che rispettato, è il vostro Giulio Andreotti, che dio lo protegga e lo benedica”. Pensavo si riferisse soltanto al notissimo e in qualche caso sfacciato atteggiamento filo arabo del senatore a vita, ma non si trattava soltanto di questo: “Lui era qui con noi quella sera in cui a Mosca annunciarono la fine dell’Unione Sovietica e ammainarono la bandiera rossa dal Cremlino. Noi piangevamo, eravamo commossi e anche disperati. Andreotti era terreo, traumatizzato. Poi disse: da adesso il mondo sarà molto diverso e non sarà certamente migliore perché sarà un mondo americano”. Questa sua affermazione fa un po’ il paio con quella dei tempi in cui, caduto il muro di Berlino, si prospettava la riunificazione tedesca, disse: “Io amo talmente i tedeschi che di Germanie ne vorrei sempre almeno due”. Il suo credo politico era quello del debito pubblico senza troppi freni e navigare a vista, usando buon senso e una certa sfacciataggine unita a cinismo. Se fu riconosciuto colpevole di aver intrattenuto rapporti di reciproco rispetto e qualcosa di più con la mafia almeno per un certo periodo, ciò ha senso: Andreotti rispettava i poteri costituiti e la mafia era un antico marchio di fabbrica di potere costituito. E poi, come disse in un’altra circostanza “è sempre meglio tirare a campare che tirare le cuoia”. Ricordo personale: la madre di mia madre e la madre di Giulio, Rosa Andreotti, erano molto amiche perché avevano entrambe avuto i loro figli al Collegio degli Orfani in via degli Orfani. La loro amicizia si estese ai figli: mia madre, mio zio e lui, Giulio, anche perché vivevano tutti nella stessa magnifica strada, via Parione nel quartiere Parione di Roma, alle spalle di piazza Navona. Mia nonna mi raccontava che Rosa Andreotti parlando del figlio bambino diceva: “Questo figlio non è normale, non somiglia agli altri bambini. Ha qualcosa dentro di sé che non capisco, che nessuno capisce. O sarà disperato o diventerà qualcuno”. Mia madre mi raccontava che il piccolo Giulio evitava tutti i giochi che impegnavano il fisico, come correre, e aveva sempre un taccuino in tasca per fare il giornalista. Così un paio di volte l’anno capitava a casa nostra per un caffè e io diffidavo moltissimo di questa presenza e speravo che se ne andasse presto perché ero un tipico adolescente di sinistra e Andreotti sembrava già allora il devoto Satana che poi è stato dipinto. Se uno scorre le foto della sua vita vede che è stato un uomo attentissimo alla vita cinematografica, amico stretto di Federico Fellini il quale lo considerava una parte essenziale del paesaggio italiano, ma anche in senso positivo. Frequentava le attrici, gli attori, i set cinematografici, aveva i capelli nerissimi imbrillantinati e pettinati all’indietro come Rodolfo Valentino e benché avesse la gobba, aveva anche un suo charme, un certo sex appeal. Era un uomo di destra all’inizio della carriera (il politico più longevo, con più incarichi di governo, una eterna carriera parlamentare) e veniva dalla nidiata di Alcide de Gasperi che lo volle giovanissimo sottosegretario nel pieno della guerra fredda, con un’Italia che sapeva di polvere e macerie e che era tutta da ricostruire, ma che già godeva, si industriava, costruiva e attraversava il boom economico, la magica crescita che proiettò il Paese dalla preistoria della guerra al XX secolo dell’industria, dell’arte, del reddito, della Seicento Fiat e delle autostrade, della commedia all’italiana, del cinema leggero e un po’ ignorante, e Andreotti era sempre ovunque. Poi lui chiuse personalmente la sua guerra fredda e diventò lentamente ma con costanza il divo dei comunisti italiani. Condivideva con Cossiga questa passione per gli ex nemici: i comunisti, compresi quelli russi, erano per lui, per loro, gente carismatica, muta, pesante, importante, spartana e allo stesso tempo ricca per le grandi risorse minerarie dell’allora Unione Sovietica. Cominciò così la marcia di avvicinamento di Andreotti al Pci di Enrico Berlinguer e i due insieme vararono la bozza di quel patto politico rischiosissimo che poi si è chiamato “compromesso storico” e sul cui altare Aldo Moro ha lasciato la pelle. La storia del Compromesso storico è la storia stessa di Andreotti. Aldo Moro accettò di aprire in piena guerra fredda ai comunisti, contando su un accordo di massima con gli americani. I termini di questo accordo sono stati pubblicati da Maurizio Molinari e Paolo Mastrolilli per Laterza nel settembre del 2005 e consiste in una raccolta di documenti fondamentali che mostra come gli Stati Uniti fossero estremamente e positivamente interessati al Compromesso storico, purché il Pci si sganciasse una volta per tutte dall’Urss, rompesse con il dovuto clamore accettando la prevedibile scissione, ed entrasse a pieno titolo nel novero dei partiti democratici italiani indispensabili per il ricambio della classe dirigente. E’ importante ricordarlo perché poi è stata fatta passare la vulgata secondo cui Moro voleva fare il compromesso storico con Berlinguer, ma la Cia lo fece rapire da brigatisti rossi controllati da Langley, Virginia, per far fallire l’eroico progetto. Secondo il progetto originale invece, di cui Andreotti fu un notaio e non l’unico, Moro doveva diventare presidente della Repubblica dopo Giovanni Leone e garantire dal Quirinale l’intera operazione. Andreotti sarebbe diventato il presidente del Consiglio del primo governo sostenuto in Parlamento del Patito comunista e a quel primo passo avrebbe dovuto far seguito il taglio del cordone ombelicale con Mosca e un secondo governo, benedetto anche dai Paesi della Nato, con ministri comunisti. L’attacco di via Fani, la prigionia interrogatorio e l’esecuzione di Aldo Moro, misero fine al progetto. Al Quirinale andò Sandro Pertini, ma Andreotti decise di resistere sulla vecchia linea e di dare comunque vita con i comunisti al nuovo governo con il loro appoggio determinante e ufficiale. Questo esperimento nacque nel sangue e visse poco e male. I comunisti erano molto spaventati da quel che era successo e non vollero tagliare con Mosca, dove i dirigenti del Pci seguitarono a ritirare ogni anno un gigantesco finanziamento illegale che drogava la politica italiana, anche perché costituiva un alibi per tutti coloro che in Italia erano disposti a commettere illeciti con la scusa di finanziare il proprio partito. Poi i comunisti decisero di chiudere la partita e si ritirarono definitivamente. Ma Giulio Andreotti non mollò. La mia impressione (molto più di una impressione) è che sia lui che Cossiga fecero non soltanto il possibile, ma specialmente l’impossibile per salvare la vita a Moro accettando accordi che poi saltarono perché la controparte era decisa a liquidare l’ostaggio e lo fece. Quegli eventi non sono mai stati ben chiariti e io penso che la devastazione della Commissione Mitrokhin di cui Andreotti fu parte attiva controllando strettamente ogni fase dell’inchiesta, fosse dovuta proprio al fatto che eravamo arrivato al nocciolo della questione. Andreotti lo sapeva, lo temeva e non per caso il suo amico Cossiga lo volle nominare a sorpresa senatore a vita per neutralizzarlo e promuoverlo su uno scranno dal quale non avrebbe più fatto politica. Il processo di Palermo per i pretesi rapporti con Cosa Nostra fu una sorta di corollario di quelle vicende. Andreotti si lasciò processare docilmente, scrisse molti libri sostenendo che doveva pagarsi gli avvocati, fra cui il professor Coppi, per difendersi e fu sempre lì, a Palermo, pienamente a disposizione su quei banchi, come lo era stato davanti a me per quattro anni nella Commissione Mitrokhin. Difendeva un passato, certamente ha difeso fino alla morte con Cossiga e come Cossiga il segreto su ciò che realmente accadde durante i cento giorni del rapimento Moro ed ebbe modo di sviluppare sempre la sua politica filo araba, diventando così la bestia nera degli israeliani. Lo andai a trovare più volte nel suo studio in piazza San Lorenzo in Lucina, dove andava ogni mattina prestissimo. Lì riceveva giornalisti, politici, industriali, gente di cultura e gente decisamente lontana dalla cultura. Io penso che sapesse qualcosa in più, qualcosa che anche io ho sospettato e di cui ho scritto molto, sulle vere ragioni che possono aver fatto scattare la decisione di uccidere Falcone quando non era più un nemico sul campo della mafia, ma un alto burocrate romano del ministero di Grazia e Giustizia. Quando il mio amico Giancarlo Lehner annunciò l’intenzione di voler scrivere della collaborazione di Falcone con i giudici russi, il procuratore generale Stepankov in particolare, per indagare sul tesoro del Kgb e del Pcus portato in Italia per essere riciclato sotto la protezione di alte figure della finanza, Andreotti lo mandò a chiamare e gli ricordò di avere lui stesso, come ministro degli esteri, inviato dei fonogrammi a Mosca per facilitare gli incontri segreti di Falcone. Gli disse che per lui avrebbe recuperato quei fonogrammi che avrebbero costituito la prova scritta di quel che stava facendo Falcone quando fu eliminato. Lo richiamò qualche giorno dopo per dirgli: “Alla Farnesina mi dicono che hanno perso quei documenti. Ora, alla Farnesina non hanno mai perso nulla e mai si perde nulla. Lo prenda come un messaggio: lasci perdere la sua inchiesta e passi ad altro, sarà più salutare per lei”.
"I miei 11 anni di imputato per mafia". Un'intervista rivelatrice al sette volte presidente del Consiglio dopo l'assoluzione del 2004 rilasciata a Maurizio Tortorella e pubblicata su Panorama del 21 ottobre 2004. Tremilaottocentoquarantadue giorni: tanto è durata la vicenda giudiziaria di Giulio Andreotti, senatore a vita, sette volte presidente del Consiglio, accusato d'omicidio a Perugia e d'associazione mafiosa a Palermo. Il 15 ottobre la Cassazione lo ha liberato definitivamente per la seconda volta: a 84 anni, 11 dei quali trascorsi da imputato, Andreotti non è né il mandante dell'assassinio del giornalista Mino Pecorelli, né il sodale dei mafiosi siciliani. Anche dopo l'assoluzione, però, le polemiche non si sono placatew. Gian Carlo Caselli, ex procuratore di Palermo e magistrato simbolo del processo palermitano ad Andreotti, insiste: «È stato mafioso» scrive sulla Stampa, assicurando che la Cassazione ha «confermato che fino al 1980 l'imputato ha commesso il reato di associazione con i boss dell'epoca». Franco Coppi e Giulia Bongiorno, i due penalisti del senatore, gli rispondono che «è oggettivamente impossibile prevedere che cosa scriverà la Cassazione: non ci sono le motivazioni. Ma il procuratore generale della Cassazione ha chiesto di modificare proprio quel punto della sentenza d'appello». Lui, Andreotti, sul tema non parla. Il giorno dell'assoluzione si è detto felice d'essere arrivato vivo alla fine dei suoi processi. Poi non ha aggiunto molto. Panorama lo ha intervistato in esclusiva.
Vuole fare un bilancio esistenziale dei suoi due processi?
«Li ho vissuti con amara sorpresa, anche per il modo ambiguo con cui è nato il secondo, quello di Palermo. Ma, ringraziando Dio, ho resistito.»
Perché crede di essere stato sottoposto a questo calvario giudiziario?
«Forse ero da troppo tempo ballerina di prima fila e c'era chi voleva cambiare del tutto lo spettacolo.»
Lei ha parlato di un «mandante occulto»: chi è? S'è accennato ad ambienti americani: è partito tutto oltreoceano? O pensa a suoi avversari politici in Italia?
«Un mandante occulto: che vi sia ciascun lo dice... con quel che segue. Qualche venatura d'oltreoceano c'è, ma non governativa. C'è un pentito, o meglio, spero che lo sia, a doppio servizio.»
Di quale pentito parla?
«Francesco Marino Mannoia: collabora con la giustizia italiana e con quella americana e mi incuriosisce. Quanto agli Stati Uniti, però, ho avuto in processo la testimonianza molto gratificante di tre ambasciatori degli Stati Uniti: Maxwell Rabb, Peter Secchia e Vernon Walters. E questo è più che sufficiente.»
Per il suo processo palermitano lei ha attribuito qualche responsabilità a Luciano Violante. Conferma?
«Certamente fu lui a dare corso a una telefonata anonima, investendo il tribunale di Palermo che non c'entrava niente. Ma non porto rancore a nessuno. La Scrittura dice: «Non voglio la morte del peccatore, ma che si converta e viva».»
Dopo l'assoluzione lei ha dichiarato: «Qualcuno, da oggi, dormirà un po' meno tranquillo». A chi si riferiva? Ai pm di Palermo? Ai mafiosi pentiti che l'hanno accusata? O al «mandante occulto»?
«Lasciamo perdere. Lo strano di questa vicenda è la sua prefabbricazione: nella sentenza di rinvio a giudizio a Palermo si dice: «Dopo due udienze». Ma l'udienza fu una sola. Avevano preparato prima il modulo?»
Cosa direbbe al suo primo accusatore, Tommaso Buscetta, se fosse vivo?
«Buscetta non mi attribuì mai il delitto Pecorelli: è stata una montatura altrui. Comunque, Dio l'abbia in gloria.»
Nell'assoluzione resta la macchia della prescrizione per i suoi presunti collegamenti mafiosi fino alla primavera del 1980. Spera che le motivazioni possano portare qualche sorpresa positiva per lei?
«Certamente lo spero. Quel che mi ha colpito di più, in Cassazione, sono state le parole del procuratore generale, Mauro Iacoviello. Abituato da anni a pm che si schieravano sempre a sostegno dell'ipotesi accusatoria, sono rimasto favorevolmente impressionato da un rappresentante dell'accusa che invece l'ha demolita pezzo per pezzo, chiedendo addirittura il rigetto del ricorso dei suoi colleghi pm. Ma Iacoviello ha anche attaccato proprio la parte della sentenza d'appello relativa alla prescrizione, in cui si ritiene provato l'incontro alla tenuta di caccia.»
Lei parla del famoso, presunto incontro tra lei e il boss Stefano Bontate nella sua tenuta di caccia nel Catanese?
«Sì. Il pentito Angelo Siino aveva indicato la data dell'incontro tra fine giugno e inizio luglio 1979. Io ho dimostrato la mia impossibilità di essere in Sicilia in quel periodo: ero in Giappone e in Russia. Il tribunale m'ha dato ragione. In appello i pm hanno detto che Siino s'era sbagliato. Già questo mi sembra piuttosto anomalo come argomento: se il pentito viene smentito, che senso ha dire che ha sbagliato solo le date? Ma comunque i miei avvocati hanno chiesto di produrre tutti i documenti diretti a provare dove mi trovassi in tutte le altre possibili date diverse da quelle indicate da Siino. Ero presidente del Consiglio e quindi potevo agevolmente ricostruire i miei impegni. La documentazione non è stata accettata, ma la sentenza d'appello afferma che l'incontro potrebbe essere avvenuto in un altro momento. Cioè in una data in cui avrei potuto dimostrare che ero altrove. E per questo il procuratore generale ha parlato di violazione di diritto di difesa.»
Caselli, però, sostiene che la Cassazione ha «confermato l'accusa di un Andreotti mafioso fino al 1980».
«Non voglio rispondergli. Per me il processo è finito. Ho cose molto più serie da fare. L'assoluzione ha smentito oltre 40 pentiti.»
Questo risultato dovrebbe indurre qualche riflessione sul loro impiego?
«Sì: maggiore prudenza. E anche un po' più di risparmio di denaro pubblico. Del resto, già la Corte d'appello di Palermo, assolvendomi, ha scritto che i pentiti, contro di me, potrebbero essere stati mossi «da antipatia politica, dal particolarissimo interesse accusatorio degli inquirenti o dal cinico perseguimento di benefici personali». E nessuna delle tre ipotesi mi pare meritevole.»
Lei ha mai provato a fare un calcolo di quanto, in questi 11 anni, sia costata l'attività giudiziaria contro l'imputato Andreotti?
«Il calcolo è impossibile, e come contribuente mi preoccupa. Non lo facciano più.»
LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA.
«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica, numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. È falso: non è così né sotto la vigenza del vecchio codice, né sotto il nuovo codice. La magistratura italiana, pur essendo stata costretta ad operare in condizioni difficilissime e talora drammatiche in diverse fasi della storia recente del nostro paese, ha saputo rendere giustizia in piena serenità ed imparzialità, senza che fosse necessario il trasferimento del processo. Ricordiamo un caso per tutti: il processo di Torino alle Brigate rosse, in cui gli imputati adottarono tutti i mezzi per impedire la celebrazione del processo, giungendo alla uccisione del presidente dell’Ordine degli avvocati, Fulvio Croce. Ebbene giudici professionali e giudici popolari portarono a termine il processo (e nel rispetto delle garanzie della difesa, pur in quei tempi di legislazione di emergenza) proprio a Torino. In questo tutti riconobbero un segno di forza delle istituzioni democratiche e la migliore risposta alla sfida del terrorismo: rendere giustizia e rendere giustizia ove i fatti criminosi erano stati commessi, secondo le ordinarie regole del processo. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale, e cioè gli ultimi tredici anni: le istanze di rimessione accolte sono state due. Il punto più preoccupante della proposta Cirami non è la reintroduzione della formula "legittimo sospetto", ma il meccanismo di sospensione automatica del processo, che lascia la giustizia disarmata di fronte ad atteggiamenti ostruzionistici di imputati, che non vogliano arrivare alla conclusione del processo. La sospensione della fase finale del processo si determina, infatti, secondo la proposta di legge Cirami, automaticamente anche nel caso di istanze palesemente infondate, di ripresentazione a cascata di istanze da parte di coimputati nello stesso processo: e concreti sono, per questo, i rischi di prescrizione e di decorrenza dei termini di custodia cautelare.»
«Per quanto concerne la remissione per motivi di legittimo sospetto occorre che i capi delle procure generali si attengano a una concezione rigorosamente ristretta dell'istituto». La circolare ministeriale che abbiamo citato non esce dagli archivi del governo Prodi e neppure dal cassetto del terribile ex procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli, scrive Bruno Perini. Si tratta invece di una direttiva piuttosto chiara che il ministro fascista Dino Grandi inviava a tutti i tribunali italiani nel 1939, consigliando loro di usare la legittima suspicione con cautela. Eppure se si dà uno sguardo alla storia giudiziaria italiana, se si ritorna su quei casi in cui la legittima suspicione è stata accolta vengono i brividi e si capisce perché la legittima suspicione si trasformi nel legittimo sospetto contro giudici, pubblici ministeri, tribunali. Il caso più drammatico, più doloroso, in cui l'accettazione della legittima suspicione fece danni incalcolabili fu il processo per la strage di piazza Fontana. Non è il caso di soffermarsi più di tanto su quel buco nero della nostra storia. E' tristemente noto: la legittima suspicione riuscì a strappare il processo ai giudici di Milano in un clima golpista e lo trasferì a Catanzaro. Per trent'anni la verità sulla strage rimase sotterrata dalla collusione tra servizi, governi e apparati militari. Il processo di piazza Fontana è il caso più clamoroso ma non certo il primo. Basta scartabellare negli archivi giudiziari per trovare le vittime della legittima suspicione. A due anni dalla fine della guerra si giunge al drammatico processo per la strage di Portella delle Ginestre. Il processo viene spostato da Palermo a Viterbo: la banda di Salvatore Giuliano viene condannata ma i mandanti assolti. Nel 1963 ci imbattiamo nel disastro del Vajont: il processo da Venezia viene trasferito a L'Aquila dove la strage viene definita «evento imprevedibile» e dove governo e Enel vengono assolti. Nello stesso anno il processo per la strage di Ciaculli viene trasferito da Palermo a Catanzaro. Buscetta viene condannato ma altri mafiosi del peso di Pippò Calò se la cavano. Se si leggono gli atti dei processi per mafia si scopre che la richiesta di legittima suspicione viene utilizzata a man bassa, come una chiave magica usata per ottenere in sedi più consone assoluzioni totali o per insufficienza di prove. Il caso più clamoroso è quello di Luciano Liggio, precursore e maestro di Totò Riina. Dopo l'esordio del 1948 con l'uccisione del segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto, Liggio nel `58 ammazza il boss concorrente Michele Navarra. Liggio viene processato ma prevale la legittima suspicione: nel processo di Bari il fondatore della corrente dei corleonesi viene assolto dal tribunale di Bari per insufficienza di prove. Un altro caso clamoroso fu quello delle schedature Fiat. Giampaolo Zancan, esponente dei verdi, vice presidente della commissione giustizia si ricorda di quegli anni: «Allora vivevo a Torino. Ricordo che la procura della Repubblica aveva scoperto, grazie a denunce circostanziate, che la Fiat aveva assoldato carabinieri e questurini. A seguito della richiesta di legittima suspicione, motivata, si badi bene, dai legali della Fiat con "il pericolo di manifestazioni sindacali", il processo fu spostato e ritardato di anni fino a quando i reati di corruzione furono prescritti. Vedi - dice Zancan - io a quelli che vogliono tornare a quegli anni leggerei una sentenza con la quale la Cassazione in un processo a quattro avvocati, il cosiddetto caso Sardegna, respinse la legittima suspicione. In quella motivazione si scriveva tra l'altro che vi è un diritto della comunità a giudicare i fatti dove il presunto reato avviene. Quando Berlusconi e Previti chiedono la legittima suspicione per i loro processi offendono prima di tutto i milanesi». Negli anni `60 fu proprio Milano il luogo in cui si celebrò il processo alla Zanzara. Quelli sopra i cinquant'anni si ricorderanno che la Zanzara era un giornalino fatto dagli studenti del Liceo Parini usato per contestare ante litteram le regole del conformismo e dell'educazione borghese. In base a denunce e lamentele della parte più reazionaria dei genitori e dell'opinione pubblica ne nacque un processo che fece grande scandalo. Per evitare che nello scandalo finisse il buon nome di qualche famiglia milanese fu invocato addirittura l'ordine pubblico e per legittima suspicione il processo finì a Genova. Si potrebbe continuare a lungo in questa ricostruzione dei danni provocati da un sospetto, troppo spesso illegittimo, nella storia politica e giudiziaria di questo paese. Nel 1989, comunque, il legislatore decide che le maglie della legittima suspicione sono troppo larghe e discrezionali e soprattutto che vengono usate come strumento per impedire la celebrazione dei processi. A spingere al cambiamento sono proprio i numerosi processi per mafia finiti con l'assoluzione per insufficienza di prove. Viene introdotta una nuova norma, quella attuale, che suona così: «In ogni stato e grado del processo di merito, quando la sicurezza o l'incolumità pubblica, ovvero la libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo sono pregiudicate da gravi situazioni locali tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, la Corte di Cassazione...rimette il processo ad altro giudice». L'introduzione di questa norma restrittiva taglia le unghie a coloro che usavano la legge come un grimaldello. Per tutti gli anni `90 i ricchi avvocati dei ricchissimi imputati per tangenti tentano di utilizzare la legittima suspicione per farla franca. Il caso che tutti ricordano è quello di Bettino Craxi che durante la bufera di tangentopoli chiede attraverso i suoi legali ai giudici della Cassazione di spostare da Milano i numerosi processi a suo carico.
La richiesta viene presentata in tutte le sedi processuali ma viene respinta proprio perché la suprema Corte si trova a dover fare i conti con una norma restrittiva che lascia poco scampo a chi vuole fare il gioco delle tre carte.
Il 6 maggio 2013 è stata respinta l'istanza di Berlusconi di trasferimento a Brescia dei suoi processi a Milano. La richiesta di trasferimento è basata sul legittimo sospetto che ci sia un accanimento giudiziario, “un’ostilità” da parte del sede giudiziaria del capoluogo lombardo (che giudica sul caso della giovane marocchina) e da parte della Corte d’Appello, che si occupa del processo Mediaset, nei confronti del Cavaliere. In quaranta pagine, stilate dai legali e giunte in Cassazione a metà marzo, vengono rappresentate una serie di decisioni, atteggiamenti e frasi pronunciate in aula dai giudici che sarebbero la dimostrazione dell’accanimento nei confronti del leader del Pdl; tra queste le ordinanze con cui sono stati negati i legittimi impedimenti, le visite fiscali a carico di Berlusconi ricoverato al San Raffaele per uveite, la sentenza del caso Unipol dove gli non sono state concesse le attenuanti generiche, la fissazione di 4 udienze in 7 giorni nel processo Ruby, e alcune affermazioni in aula del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del presidente del collegio, Giulia Turri. Nel 2003 la richiesta di trasferire da Milano a Brescia i processi del cosiddetto filone toghe sporche (Imi-Sir/Lodo Mondadori), in cui era imputato Cesare Previti (mentre Berlusconi era stato prosciolto per prescrizione) fu respinta dai giudici, i quali ritennero che la situazione prospettata non potesse far ipotizzare un concreto pericolo di non imparzialità a Milano.
A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». È l' ennesimo colpo di scena sul caso Avetrana. Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». E a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate. Per spiegare in che cosa consiste la «grave situazione locale» che «turberebbe lo svolgimento del processo», Mazzotta si dilunga sull'arresto di Cosima (la madre di Sabrina) avvenuto praticamente in diretta tivù dopo la fuga di notizie che l'aveva preannunciato («Fu un tentativo di linciaggio» dice il professor Coppi), parla di testimoni presenti a raduni di piazza che contestavano Cosima, ricorda le pietre e le intimidazioni contro Michele Misseri, il marito di Cosima e padre di Sabrina che fece ritrovare il cadavere di Sarah e confessò di averla uccisa dopodiché cambiò versione più volte, accusò sua figlia dell'omicidio e tornò di nuovo al primo racconto («Ho fatto tutto da solo, Sabrina e Cosima sono innocenti»). Per riassumerla con le parole di Coppi: «L'abbiamo sempre detto, in questo procedimento sono avvenuti fatti di una gravità oggettiva e se non c'è serenità è giusto trasferirlo». Per argomentare meglio la sua richiesta, Coppi ha citato la sentenza Imi-Sir/lodo Mondadori del 2003 (imputati Previti e Berlusconi) con la quale le Sezioni Unite della Cassazione stabilirono che in quel procedimento non ci fu legittima suspicione. Tutti i punti che in quel processo motivarono la mancanza del legittimo sospetto, nel caso Avetrana dimostrano, secondo Coppi, esattamente il contrario: cioè che esiste la legittima suspicione.
Eppure nonostante il dettato della legge fosse chiaro (L' articolo Legittima suspicione Art. 45, comma 1 del Codice di procedura penale: «In ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di Appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell' imputato, rimette il processo ad altro giudice») La Corte di Cassazione per l'ennesima volta a rigettato l'istanza.
Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge Piazza Fontana ll processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969 (foto), ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza Vajont Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico Salvatore Giuliano Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo
RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO. UNA NORMA DISATTESA.
L'imputazione di quattro avvocati nelle indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi è "sconcertante e inquietante". L’Unione delle camere penali scende in campo contro i pubblici ministeri del caso di Avetrana e chiede al ministro della Giustizia l’invio di ispettori alla procura di Taranto. Lo fa nel silenzio assordante della Camera Penale e dell'intero Consiglio dell'ordine degli avvocati di Taranto, assuefatti o collusi alle anomalie del foro tarantino. Anomalie su cui vi è una coltre di omertà forense e giudiziaria e di censura mediatica.
Per l’Ucpi è “assurdo che nel medesimo procedimento si trattino questioni riguardanti il delitto e questioni relative all’indagine sul delitto stesso”. Ma "ancora più grave è che alcune contestazioni mosse a due avvocati letteralmente s'intromettono indebitamente nelle scelte e nelle strategie difensive, le quali dovrebbero, al contrario, costituire un recinto invalicabile e coperto dal segreto professionale".
C'è dunque una "grave violazione del diritto di difesa" da parte dei pm. E in particolare è “sconcertante quanto capita all’avvocato De Cristofaro, il quale per aver sostenuto l'assunzione di responsabilità del proprio assistito, da quest’ultimo reiteratamente dichiarata, si ritrova indagato per 'infedele patrocinio dai pubblici ministeri che si prefiggono l'obiettivo di provare la responsabilità di altra e diversa persona".
Secondo i penalisti, "si è verificato un 'corto circuito all’interno del quale i pm che sostengono l'accusa hanno elevato un’imputazione, per un reato riguardante in astratto le condotte del difensore che si pongono in contrasto con l’interesse del proprio assistito, che già a una prima lettura appare addirittura paradossale, poiché‚ si fonda su fatti che dimostrano in maniera lampante il contrario, e cioè che il difensore ha viceversa dato seguito alle richieste del proprio assistito.
In realtà, i pm procedenti hanno valutato come contrastante con l’interesse dell’imputato, puramente e semplicemente, una versione dei fatti da questi offerta che confligge con l’ipotesi di accusa e lo hanno fatto sulla scorta della loro ricostruzione dei fatti".
Insomma, "oltre a ergersi arbitri della formulazione dell’accusa, i pm pretendono di determinare anche l’interesse dell’imputato a sostenere l’una o l’altra tesi, e nel far questo criminalizzano l’attività del difensore, il che appare una intollerabile violazione del diritto di difesa oltre che l'espressione di una cultura apertamente inquisitoria. Con il risultato, inquietante e certamente non ignorato, che attraverso la contestazione elevata si vorrebbe determinare, allo stato, un obbligo deontologico di astensione da parte del difensore che, in consonanza con il proprio assistito, ha sostenuto una tesi avversa rispetto a quella caldeggiata dalla Procura".
Non solo: "Nel corso dell’indagine le attività difensive - lamenta l’Ucpi - sono state costantemente oggetto di controllo da parte della autorità giudiziaria, e anche di decisioni assai stravaganti quale quella di autorizzare l’espletamento di un atto di parte, come l’assunzione di informazioni, 'alla presenza dei pm procedenti oppure di imporre il potere di segretazione nei confronti di persone sottoposte alle indagini".
Tutto ciò si riverbera nell'ipotesi di affrancarsi il diritto di poter far scegliere agli imputati i difensori che più aggradano ai Pm. L'avv. De Cristofaro, per forza di cose prenderà in considerazione la concreta possibilità di rilasciare l'incarico trovandosi in una situazione di contrasto con il suo cliente, mentre per i P.M. l'operato del suo predecessore, l'avv. Galoppa era conforme se non strumentale alle loro attività.
Tutto questo lo sa bene il dr Antonio Giangrande di Avetrana, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, che nel denunciare codeste anomalie, viene perseguitato dai magistrati criticati, con il benestare della Corte di Cassazione, che non rileva affatto il legittimo sospetto che i loro colleghi tarantini possano essere vendicativi contro chi si ribella.
29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?».
«La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa».
Intanto Sabrina Misseri si sente come Amanda Knox. Era inevitabile che la ragazza americana, assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher dopo quattro anni di carcere, sarebbe diventata il simbolo dell’accanimento giudiziario. Tutti coloro che pensano di trovarsi in prigione ingiustamente usano lei come termine di paragone. L’ha fatto Sabrina Misseri, in carcere per l’altro delitto mediatico italiano, quello di Sarah Scazzi. Sabrina, dal carcere di Taranto, ha detto: “Mi sento come Amanda“. La ragazza di Avetrana, come l’americana e come l’italiano Raffaele Sollecito, sostiene di essere innocente e di essere stata arrestata ingiustamente: “Sono in carcere da innocente, ma io quattro anni qui dentro non resisto”.
Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri.
Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:
Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.
Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.
Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.
Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.
Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.
Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri.
La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata.
Non solo. Non c'è nessuna traccia che inchioda madre e figlia: manca l'arma del delitto. Non ci sono testimoni. L'unico, il fioraio Buccolieri, ha raccontato prima informalmente di aver visto Sarah mentre veniva trascinata nell'auto di Cosima. E poi però ha smentito tutto: "Era solo un sogno". In compenso, però, c'è zio Michele, che mentre si infuria a mezzo stampa con la moglie ("quando ero in carcere ha tagliato male tutta l'uva, ha combinato un disastro"), continua ad autoaccusarsi dell'omicidio di Sarah. Ma non gli crede nessuno. "Il soffocamento avviene ora in casa Misseri, ora nel garage, ora nella macchina di Cosima" scrive la Cassazione. Ed effettivamente non è chiaro dove Sarah sia stata ammazzata, visto che le ricostruzioni si sovrappongono tra loro, ma spesso non combaciano. La mazzata è arrivata poi dai rilievi dei Ris che - seppur in alcuni casi effettuati tre mesi dopo l'omicidio - non hanno dato alcun risultato: non ci sono tracce di Sarah a casa Misseri e in nessuno dei presunti luoghi del delitto. E soprattutto non ci sono tracce della ragazza sulle armi del delitto possibili sequestrate nel corso dei mesi. Le cinquanta cinture di Sabrina, la corda di Michele, il compressore del garage: è stato tutto analizzato senza alcun esito. La procura colloca l’ora del delitto tra le 13.55 quando Sarah viene vista per strada e le 14,25 quando a casa Misseri arriva Mariangela Spagnoletti. Lo stesso fa la Cassazione ritenendo genuina la testimonianza di un uomo che è sicuro di aver visto Sarah poco prima delle 14 passeggiare verso casa Misseri. "La ragazza è arrivata lì e ha trovato la morte: Sabrina ha poi aspettato per strada l'amica Mariangela per evitare che si accorgesse dei movimenti in macchina e ha mentito alla zia Concetta, quando è andata a chiedere di Sarah, sostenendo che i genitori non erano in casa", dice in sintesi la Procura. La difesa fa notare, però, che c'è stato uno scambio di squilli e sms tra Sarah e Sabrina intorono alle 14,30 quando la ragazza secondo questa ricostruzione avrebbe già dovuto essere morta. "Ha fatto tutto Sabrina - risponde l'accusa - per depistare e avere un alibi". "Ciao mi chiamo Sarah, in questo periodo sono molto legata ad un ragazzo che ha 27 anni, io ne ho solo 15 ma lui è dolcissimo con me e mi coccola sempre, si chiama Ivano, e lui piace anche a mia cugina Sabrina". Sarah appuntava queste parole sul suo diario qualche giorno prima di essere ammazzata. Mentre Sabrina tempestava Ivano di sms e scenate di gelosia. Sono le prove inoppugnabili, secondo la procura, che sta nella gelosia il movente dell'omicidio. La tesi però non convince la Cassazione che ha chiesto al Riesame di Taranto di rimotivare meglio anche questo punto.
«Lotterò sempre per farle scagionare, ma se non riuscirò a farle uscire, la farò finita perché non riesco ad andare avanti così». Intervistato dalla trasmissione Mediaset Domenica Cinque, solitamente affollata di reduci del grande Fratello, Michele Misseri si rammarica per non aver lasciato tracce evidenti della sua colpevolezza. «Mi pento di non aver lasciato nessuna traccia del delitto. La corda l'ho buttata insieme alle scarpe nel bidone della spazzatura». E ancora: «Gli abitanti di Avetrana vogliono che io dica che sono state Sabrina e Cosima ad uccidere Sarah. Soffro per la mia famiglia perché quella poveretta di Sarah non riposerà mai in pace».
Questo è il paradosso tutto italiano: da una parte Michele Misseri, un reo confesso di omicidio in libertà che, se pur considerato inattendibile, da lui si prendono per buone solo le versioni che fanno comodo alla tesi della procura; da l’altra parte Cosima Serrano e Sabrina Misseri, che professano la loro innocenza, ma sono in carcere senza prove.
Prove che nemmeno la polizia scientifica ha trovato.
Se fosse per le serie televisive come i "Ris" o "La Squadra" l'Italia sarebbe la patria dei casi risolti. Ma purtroppo qui stiamo parlando solo di fiction e la realtà ci racconta ben altre storie. Partiamo proprio dal Reparto Investigazioni Scientifiche, i famigerati carabinieri dei Ris. La letteratura e la televisione (programmi, film, ecc..) li hanno reso imbattibili, mentre invece sul campo spesso e volentieri banali errori commessi da questo reparto compromettono l'arresto o la detenzione del colpevole.
L'omicidio Meredith Kercher, ma soprattutto l'assoluzione per non aver commesso il fatto di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, è solo l'ultimo dei casi irrisolti.
I "delitti imperfetti", da cui prendono il nome sia i libri dell'ex comandante Luciano Garofano che la famosa serie televisiva, diventano perfetti proprio a causa di grossolani errori degli inquirenti. Tutto è iniziato quando i Ris sono diventati famosi all'opinione pubblica durante il caso del duplice omicidio di Novi Ligure nel 2001. Per tutti fu un vero e proprio successo, nato dall'ottimo lavoro del reparto dei carabinieri. Ma non va dimenticato, però, che a mettere sulla pista giusta gli investigatori fu proprio Erika, che quando era ancora solo sospettata di aver ucciso madre e fratellino venne filmata in una stanza della caserma dei carabinieri mentre mimava ad Omar, fidanzatino e complice, come avesse pugnalato la donna. Quindi la chiave di volta di questo caso furono le intercettazioni ambientali. Forse possiamo considerare proprio delitto di Novi l'ultimo delitto risolto senza che ci fossero ombra di dubbi. Tracce, arma del delitto, confessioni: insomma, tutti i tasselli del mosaico al loro posto.
Lo stesso non si può dire di Cogne. Nonostante la condanna di Anna Maria Franzoni per l'omicidio del piccolo Samuele ancora oggi l'Italia è divisa in due, innocentisti e colpevolisti. Infatti, seppure ci siano degli indizi manca l'arma del delitto e l'assassina, in questo caso la madre della vittima, tutt'altro che reo confessa. Molti sono stati gli errori degli inquirenti sul caso Cogne che hanno portato a un ritardo di anni sulla verità che ancora oggi, come detto, può avere dei punti deboli e traballa.
Vi ricordate dell'omicidio di Garlasco della giovane Chiara Poggi? Tanti sospetti sul fidanzato Alberto Stasi e i pochi indizi raccolti facilmente smontati dalle perizie di parte. Anche qui errori di chi dovrebbe essere (o si considera) infallibile. Basti pensare che dopo il delitto la "scena del crimine", come ormai siamo abituati a chiamarla dopo essere stati influenzati dai Csi vari, venne addirittura inquinata da un gatto, che la scientifica chiuse dentro la villetta per un giorno intero a scorrazzare! Anche qui nessun elemento valido per trovare l'assassino. Un esempio: la prova ferrea data da una macchia di sangue della vittima sul pedale della bici di Stasi venne facilmente smontata dai difensori del ragazzo, che riuscirono a dimostrare che si poteva trattare benissimo di macchie di flusso mestruale calpestate accidentalmente giorni prima del delitto dal giovane. Ad oggi nessuno è riuscito a respingere la tesi difensiva seppur a prima vista improbabile.
L'omicidio di Perugia è ormai noto a tutti. In molti nonostante la sentenza della corte d'appello sono convinti che Raffaele e Amanda non fossero estranei all'assassinio di Meredith. Ma anche qui i Ris e affini non sono riusciti a dimostrare nulla e per i periti è stato facile evidenziare i loro errori, smontando così la tesi accusatoria. Unico colpevole Rudy Guede (difeso guarda caso dagli avvocati mediatici Gentile e Biscotti).
Nel caso della piccola Yara Gambirasio, invece, ci troviamo di fronte a una vera e propria sfida da parte dell'assassino, o assassini, agli inquirenti, i quali stanno facendo di tutto per perderla: ritardi nelle indagini, auto e furgone dell'unico sospettato, il marocchino Mohamed Fikri, non perquisito, etc, etc. Si è preferito schedare tutto il dna degli abitanti di Brembate e dintorni, ma non degli operai o di chi ha lavorato nel cantiere che potrebbe essere la vera scena del crimine, come viene suggerito dalla polvere di calce nei polmoni della piccola vittima e dalla presunta arma del delitto (un utensile da lavoro utilizzato nel campo dell'edilizia).
E arriviamo al caso del giorno. Fino a ieri tutti eravamo convinti che i magistrati avessero in mano dei saldi indizi sulla colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, nell'omicidio della piccola Sarah Scazzi, ad Avetrana. Invece, anche questa volta le granitiche prove appaiono argillose. Addirittura si parla di elementi inconsistenti, che potrebbero alla prossima udienza del Tribunale del Riesame portare alla scarcerazione delle uniche due accusate dell'omicidio, dopo il proscioglimento di Michele Misseri (prima reo confesso poi scagionato e ora nuovamente reo confesso, ma non creduto).
Nel caso di Melania Rea ci sono tutti gli elementi del vecchio "delitto all'italiana": lui, lei, l'altra, quattrini. Parolisi è in galera (difeso guarda caso dagli avvocati mediatici Gentile e Biscotti), ma anche qui come in quasi tutti i casi che abbiamo elencato si rischia di andare ad un processo indiziario e quindi a tenere aperte le porte del dubbio. Negli ultimi decenni nel campo investigativo la scienza ha dato una grossa mano. Però a volte è proprio la certezza scientifica o l'ossessione di trovarla che conduce, come abbiamo visto, a degli errori in cui spesso il fiuto del vecchio investigatore non incappava. Uno su tutti negli anni Settanta l'indimenticabile commissario della squadra mobile di Torino Giuseppe Montesano, uno "sbirro" alla vecchia maniera che ispirò registri e scrittori grazie ai suoi successi. Tutti veri.
Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri.
Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:
Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.
Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.
Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.
Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.
Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.
Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri.
La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata.
La Corte di Cassazione ha deciso che il tribunale di Milano non ha preconcetti nei confronti di Silvio Berlusconi e che quindi i processi in corso (Ruby e Mediaset) possono riprendere sotto la Madonnina. «Non entro nel merito dei cavilli giuridici - scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale” - mi limito a osservare che la sentenza del 6 maggio 2013 (rigetto dell’istanza di rimessione per legittimo sospetto) contraddice il buon senso e la verità storica. Per anni abbiamo scritto in solitudine che Ingroia era un pm politicizzato, che cercava di usare la giustizia per entrare in politica e già faceva politica attraverso la giustizia. La conferma l'abbiamo avuta con la sua discesa in campo alle ultime elezioni al motto di «abbattiamo Berlusconi». Anche Milano ha una forte tradizione di pm ammazza Silvio finiti in Parlamento nelle file della sinistra o da questa piazzati in posti di prestigio e ben remunerati: Di Pietro, D'Ambrosio e Colombo sono i più famosi tra i beneficiati. Che alla Procura di Milano da 18 anni ci sia in atto una vera e propria caccia all'uomo è un fatto incontestabile. Caccia che ha prodotto danni enormi al Paese fin dall'inizio, con quell'avviso di garanzia che nel '94 fece cadere il primo governo Berlusconi e che si rivelò di lì a poco completamente infondato. Non senza lati paradossali, comici se non provocassero conseguenze tragiche (lo stesso per Andreotti fu la leggenda del bacio a Totò Riina), come è l'ultima inchiesta della Boccassini su presunti festini privati ad Arcore: migliaia di intercettazioni e centinaia di interrogatori non sono riusciti a provare non dico un reato, ma neppure una molestia, tanto che ancora oggi, a distanza di due anni, non c'è ancora una vittima che chieda giustizia. È vero, e sacrosanto, che tutti gli uomini sono uguali davanti alla legge. Ma deve essere vero anche il contrario, cioè che la legge deve essere uguale con tutti gli uomini. Cosa che a Milano, con Berlusconi non è stato. Continue forzature di norme e procedure hanno portato a una mole di processi contro un solo uomo senza precedenti in Occidente. Fino a oggi nessun verdetto ha superato il vaglio dei tre giudizi, quindi Berlusconi appartiene ancora alla categoria degli incensurati e questo qualche cosa vorrà ben dire. Trovare una sede processuale neutra rispetto a un passato inquinato ci sembrava un segnale forte, un aiuto a quella rappacificazione politica da tanti auspicata a parole. Ma nei fatti c'è chi vuole continuare sulla strada della guerra civile fino alla vittoria sul campo. A partire dai magistrati di Milano, ben spalleggiati, pare, dai colleghi della Cassazione. Il tutto, ovviamente, non è beneaugurante per la nuova stagione politica delle larghe intese.»
CITTADINI ROVINATI DALLA GIUSTIZIA.
Coppola, assolto dopo sei anni: "Il fatto non sussiste". L'imprenditore esce dal carcere dopo un infarto, un tentato suicidio e una fuga. "Qualcuno si deve vergognare" dice su “Libero Quotidiano”. La corte di appello di Roma il 7 maggio 2013 ha assolto Danilo Coppola, perché il fatto non sussiste, dall’accusa di bancarotta fraudolenta in relazione al crac della società Micop, vicenda costata in primo grado all’imprenditore una condanna a sei anni di reclusione e una lunga custodia cautelare preventiva. Stesso destino processuale anche per Daniela Candeloro, ex addetta alla contabilità, oggi assolta dopo essere stata condannata a 4 anni dal tribunale. Si è chiusa così una vicenda giudiziaria su cui ha certamente pesato la decisione con cui lo scorso dicembre la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso della Micop, aveva decretato la nullità della sentenza di fallimento. I giudici della corte di appello di Roma hanno disposto nei confronti di Danilo Coppola la restituzione delle partecipazioni azionarie precedentemente poste sotto sequestro, compresa la quota del 2% di azioni della Banca Intermobiliare di Investimenti e Gestioni (BIM). "Il periodo di detenzione, subito da Coppola per le accuse per cui oggi si è avuta l’assoluzione piena, ha provocato centinaia di milioni di danni al Gruppo", si legge in una nota. E l’imprenditore, dopo l'assoluzione, ha così commentato: "Il mio arresto, come ho sempre detto, è stato creato ad arte ed in molti oggi si dovrebbero per questo vergognare". Nel corso dei sei anni passati in cella, Coppola tentò il suicidio, e nel novembre 2007 ebbe un arresto cardiaco ed entrò in coma. Nel dicembre dello stesso anno la fuga dall'ospedale, per poi riconsegnarsi alla polizia. Nel giugno del 2010 raggiunse un accordo con il Fisco per saldare il suo contenzioso: versò all'erario 160 milioni di euro.
Coppola assolto dopo due anni di cella. Il manager era stato condannato a 6 anni per un crac. La Corte d'Appello di Roma ribalta il verdetto: "Il fatto non sussiste", spiega Anna Maria Greco su “Il Giornale”. «Il fatto non sussiste», scrive nella sentenza la Corte d'Appello di Roma. E assolve con «formula piena» l'immobiliarista Danilo Coppola. L'ex «furbetto del quartierino» (con Stefano Ricucci) delle intercettazioni telefoniche che hanno acceso i riflettori sul discusso protagonista delle scalate Antonveneta-Bnl, si prende la sua amara rivincita a 46 anni, di cui 2 vissuti in carcere, con una condanna in primo grado a 6 anni sulle spalle. «Il mio arresto - commenta Coppola - come ho sempre detto, è stato creato ad arte ed in molti oggi si dovrebbero per questo vergognare». Un fiume di accuse legate al crac della società Micop e a un buco di 130 milioni di euro, finisce nel nulla: bancarotta fraudolenta, associazione per delinquere, appropriazione indebita e falso ideologico. Romano ma di famiglia siciliana, era il ventunesimo uomo più ricco d'Italia quando fu arrestato il 10 marzo 2007, con grande clamore. Adesso arriva la sconfessione dell'impianto accusatorio costruito contro di lui dai pm Giuseppe Cascini e Rodolfo Maria Sabelli, che firmarono allora il mandato di cattura. E che si tratti di un ex segretario dell'Anm e dell'attuale presidente del «sindacato» delle toghe fa un certo effetto. Quel periodo in prigione ha provocato «centinaia di milioni di danni al gruppo Coppola», accusano i suoi. Questo, senza contare i danni umani. I due anni di custodia cautelare, in parte anche in ospedale e ai domiciliari, sono stati segnati da atti di autolesionismo, attacchi di panico, tentativi di suicidio, crisi cardiache e anche da colpi di scena tipici della sua vita spericolata, come l'evasione-lampo durante un ricovero per farsi intervistare in tv e protestare contro il trattamento subito. Ora, la sentenza di secondo grado impone la restituzione delle partecipazioni azionarie dell'imprenditore messe sotto sequestro, compresa la quota del 2 per cento di azioni della banca intermobiliare di investimenti e gestioni (Bim). Che sarebbe finita così lo si poteva capire già a dicembre, quando la Cassazione ha accolto il ricorso della Micop e ha decretato la nullità della sentenza di fallimento. Per i legali dell'imprenditore quel provvedimento della Suprema corte probabilmente ha pesato molto sulla decisione dei giudici d'Appello, anche se per esserne certi bisognerà attendere il deposito delle motivazioni della sentenza. La stessa assoluzione di Coppola arriva per la commercialista Daniela Candeloro, ex addetta alla contabilità, che era stata condannata dal tribunale nel febbraio 2009 a 4 anni, oltre ad una serie di pene accessorie. Nel primo processo per il presunto crac Micop già altri 6 imputati erano stati completamente assolti. Alla fine del 2010, il tribunale di Roma aveva disposto il dissequestro di 818.199 azioni Mediobanca (0,1 per cento del capitale), di 4.550.000 azioni ordinarie A.S. Roma (3,4 per cento), di 3.853.360 azioni Ipi (5 per cento) e del 29,9 per cento del capitale della Hotel Cicerone srl, oltre a beni personali riconducibili a Coppola per un valore complessivo di 40 milioni. Undici mesi più tardi il tribunale del Riesame ha dissequestrato anche alcune auto di lusso dell'immobiliarista. Ma qualcosa rimane ancora sospeso perché, rispetto al filone principale dell'inchiesta che portò in carcere Coppola, il manager è a giudizio con altri per il reato d'associazione per delinquere. «Quel processo però deve ancora cominciare», spiega uno dei difensori. Nel dicembre 2007 dopo la fuga da un ospedale contattò «SkyTg24» dichiarando di essere vittima di una persecuzione. In primo grado condannato a 6 anni per il crac Micop, nel 2011 salda il conto con il Fisco, con un maxi-accordo milionario.
Crac Micop, Danilo Coppola arrestato l'1 marzo 2007, con l'accusa di bancarotta, riciclaggio e associazione a delinquere. L'ex furbetto del quartierino Danilo Coppola assolto con formula piena. Ad Andrea Bassi sull'Huffington post dice: "Sono stato vittima di manovre dei poteri forti". Quasi due anni di carcerazione preventiva. Un tentativo di suicidio. Un fuga dall'ospedale dove era piantonato solo per rilasciare un'intervista a SkyTg24 per dichiararsi "un perseguitato". E ora, dopo oltre un lustro, assolto perché il fatto non sussiste. Condannato a sei anni di reclusione in primo grado, l'immobiliarista Danilo Coppola, uno dei protagonisti dell'estate dei furbetti del quartierino, quella delle scalate alle banche, è stato assolto con formula piena in appello. Una sentenza che arriva dopo che già la Cassazione aveva riabilitato l'imprenditore romano annullando il fallimento della Micop. Proprio quello che aveva portato all'arresto di Coppola. L'Huffingtonpost ha raggiunto telefonicamente l'immobiliarista.
Dottor Coppola, lei ha detto a caldo: “molti devono vergognarsi di quello che è accaduto”. Chi e perché?
«Sono anni che cerco di raccontare quello che è accaduto. Il mio arresto è stato creato a tavolino dalla Procura di Roma. Mi hanno arrestato facendo fallire una mia società (la Micop, ndr) senza che io ne fossi a conoscenza. Una società fatta fallire, tra l’altro, per un debito fiscale di 7 milioni di euro in un gruppo che all’epoca fatturava 3,5 miliardi. Per questo sono stato tenuto in custodia cautelare per 2 anni, battendo ogni record nella storia della Repubblica italiana. Senza quella istanza di fallimento, poi annullata dalla Cassazione, non ci sarebbe stato il caso Coppola. È stato fatto un attentato ad una persona ritenuta in quel momento scomoda. Alcuni pm si sono comportati come dei camerieri dei poteri forti. Non so per quali ragioni o quanto consapevolmente.»
In che modo avrebbero "servito" questi poteri forti?
«È bastato che alcuni giornali facessero degli articoli delegittimatori e loro si sono messi a ruota.»
Che fa, tira in ballo il cortocircuito mediatico-giudiziario?
«Sono finito in un meccanismo del genere. Ma non è solo questo. Mi sono scontrato con un pubblico ministero, il dottor Cascini, che probabilmente apparteneva ad una classe sociale diversa e che vedeva in me un arricchito.»
Addirittura pregiudizi sociali?
«La realtà è che ero una preda facile. Non ero legato a nessuna lobby di potere. Si sono accaniti su di me.»
Lei ha tirato in ballo i poteri forti dietro le sue vicende. Chi sarebbe il burattinaio o i burattinai?
«Non voglio fare nomi, ma è semplice tirare le fila. In quel momento ero un imprenditore di 38 anni che era arrivato ad avere il 5% di Mediobanca, una disponibilità di partecipazioni importante. È chiaro che questo dava fastidio a chi è seduto nel salotto buono. C'è stata una reazione.»
In che modo?
«Tramite i giornali. Hanno fatto dei dossier su di me. Dossier prodotti apposta per delegittimarmi e fare il vuoto intorno. Alla prova dei fatti si è dimostrato tutto falso. Quello che mi è successo è veramente una pagina vergognosa della giustizia italiana. Non si può arrestare una persona, far fallire una società a sua insaputa, metterla in custodia cautelare per un tempo lunghissimo, poi si scopre che nulla era vero.»
In termini umani immagino che questa vicenda l’abbia provata moltissimo, ma in termini finanziari quanto le è costata?
«I miei avvocati hanno fatto dei conti precisi. Questa vicenda è costata 1,2 miliardi al mio gruppo. Danni veri. La detenzione ha prodotto un effetto domino che ha portato al sequestro e alla svendita di numerosi asset. Faccio solo l’esempio delle azioni Bim che quando me le hanno sequestrate valevano 22 milioni di euro, oggi che me le restituiscono valgono 10 milioni.»
Adesso cosa farà?
«Grazie a Dio non mi sono mai arreso. Adesso sto facendo delle ristrutturazioni del mio gruppo. Continuo ad avere degli asset molto importanti. La mia famiglia sta costruendo il centro di Porta Vittoria a Milano, 150 mila metri quadri tra residenze e uffici, uno degli alberghi più grandi di Milano, un centro commerciale di cui una parte venduto a Esselunga.»
Adesso si terrà lontano dalla finanza?
«Guardi, il mondo nel frattempo è cambiato. Anche questi poteri forti che c’erano nel 2005-2006 oggi sono meno forti di prima. Tante lobby si sono frantumate. È chiaro che oggi viviamo in un momento in cui c’è molta più meritocrazia che appartenenza a classi sociali o ad amicizie.»
Casi gonfiati e accuse fragili: quelli rovinati dalla giustizia. Dall'ex ministro Romano al provveditore Balducci in troppi messi alla gogna e poi scagionati senza scuse, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Non si tratta di demonizzare le indagini: i processi a volte vanno in un modo a volte in un altro. Quel che colpisce è, talvolta, la temeraria fragilità di capi d'imputazione che erano stati presentati da giornali e tv come rocce saldissime. E invece basta poco e si scopre che non era così. Il pregiudizio non ha retto al giudizio e il banchiere, il revisore dei conti, il politico di turno, ritrovano d'incanto l'innocenza perduta. Ci vuole poco a macchiare la storia di una persona: un pentito di mafia, un'operazione finanziaria magari complicata, altro ancora. E così certe indagini corrono verso il verdetto e tutti si convincono che alla fine la sentenza sarà una ghigliottina e taglierà le teste dei corrotti. E di chi aveva saltato le regole come ostacolo fastidioso. Poi ecco l'assoluzione. E il testacoda di certezze mai messe alla prova. Assoluzione collettiva, come nel caso dei 19 imputati alla sbarra per i Mondiali di nuoto del 2010. Violazioni urbanistiche, ma quello che conta è il contesto. E quel rosario di nomi rimanda implacabile alle malefatte della presunta «cricca» e al «sistema gelatinoso». Ecco Angelo Balducci, un nome che porta dritto a maneggi e malversazioni e poi Angelo Zampolini, altra garanzia presunta di malaffare, quello dei lavori di ristrutturazione della casa di Claudio Scajola al Colosseo. Figurarsi. Anatema. Condanna prima ancora di iniziare a discutere. Salvo andare a sbattere, alla fine, contro l'assoluzione. E l'assoluzione è arrivata anche per Claudio Rinaldi, il commissario dei Mondiali di nuoto e deus ex machina del presunto scandalo delle piscine romane. Sorpresa. I reati tanto declamati non c'erano. E naturalmente questo non significa che Balducci sia uno stinco di santo o che la cricca e il sistema gelatinoso non esistano. Però ci vorrebbe cautela. Però non è corretto generalizzare. E fare, come si dice, di ogni erba un fascio. È facile, troppo facile, imprigionare in un fumetto nero di corruzione tutte le persone immortalate in una certa fotografia. Ecco l'indagine sul Sistri, il futuribile sistema sulla tracciabilità dei rifiuti: l'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio Carlo Malinconico, che aveva macchiato il governo dei tecnici, finisce ai domiciliari. Scatta la gogna. Ora si scopre che «non c'è mai stato alcun trasferimento di denaro né consulenze». Domiciliari revocati. Ma non funziona così e le sentenze ce lo dicono, strattonando le nostre certezze. Saverio Romano, ministro dell'Agricoltura nel governo Berlusconi, è stato dentro la nube dei sospetti per dieci anni. E per dieci anni la macchina della Procura ha girato contro di lui. Impresentabile. Un marchio negativo, quasi un brand al contrario, per il governo del Cavaliere. Poi, ecco l'assoluzione. Accolta in certi ambienti quasi con fastidio, come un incidente da superare, perché quando si coltiva un teorema non è facile ammettere che quell'ipotesi era sbagliata. Assoluzione. Come in un capitolo roboante della triste vicenda Italease. C'è la banca, anzi le banche, e allora il gesso dei media ha già tracciato sulla lavagna la lista dei cattivi. Per definizione. Salta fuori, filone nel filone, che due banchieri di Deutsche Bank e un revisore di Deloitte avrebbero truffato e falsificato nel grande calderone della banca. Quasi mille azionisti chiedono 34 milioni di risarcimento a Deloitte, il presunto mostro che non ha visto, che si è girato dall'altra parte, forte con i deboli e debole con i poteri forti. Peccato che non sia andata così: anche questa storia finisce in niente. Senza colpa e senza risarcimento. Si insegue la colpevolezza per ritrovare un lembo del mantello dell'innocenza. È l'eterno paradosso di un Paese che pensa di riscattarsi con le manette.
IL DELITTO DI SARAH SCAZZI: PROCESSO AI MISSERI; PROCESSO ALL’ITALIA.
ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
«Giusto processo in Italia. E’ solo una stronzata. E l’intercalare rende bene l’idea sull’indignazione dei giuristi con un po’ di dignità. A Taranto ci hanno messo 6 giorni per accogliere pari pari le richieste dell’accusa. Ufficio della Procura di cui la presidente Trunfio ne faceva parte. Tutti abbiamo diritto al Giusto Processo, ma a Taranto tale diritto è negato. Sabrina Misseri e Cosima Serrano colpevoli del delitto? Forse sì e forse no. Ma anche loro meritano un giusto processo. Per la morte di Sarah Scazzi una sentenza di condanna per tutti gli imputati accolta da un’Italia plaudente. E’ una vergogna. E’ disumano ed incivile rallegrarsi per le disgrazie altrui. Una sentenza di condanna così come da me ampiamente prevista anche per l’appello. Previsione pubblicata sui giornali in tempi non sospetti. E non poteva essere altrimenti. Una trappola strategica ordita dall’accusa. I Giudici sono stati obbligati ad emettere sentenza di condanna. Al contrario ci sarebbe stato il paradosso di non aver avuto nessun colpevole per quel delitto, essendo stato estromesso Michele Misseri dall’accusa di omicidio. Con un’assoluzione e senza responsabili del delitto la Procura di Taranto in Italia avrebbe fatto ridere pure i polli. Una sentenza emessa dal popolo italiano e non “in nome del popolo italiano”. Un popolo che ha giudicato non solo i protagonisti, ma tutta una comunità. Un popolo plasmato da media morbosi e gossippari. Nei film la trama ed il regista ci fanno sapere chi è l’assassino, che la polizia ed il giudice non conosce. Se il colpevole viene assolto o non indagato perché non ci sono prove, lo spettatore ci rimane male. Eppure, attraverso i comportamenti ritenuti corretti da parte dei protagonisti del film, la morale è chiara. Niente prove, niente condanna. La morte di Sarah Scazzi è realtà. Come in un film i media morbosi ci hanno indotto a credere, convincendoci, che Sabrina Misseri e Cosima Serrano fossero le colpevoli. Potrebbero esserlo, nulla è escluso, ma dobbiamo farcene una ragione: non ci sono prove. Indizi contestabili, sì, ma prove niente. Addirittura per Cosima meno di nulla. L’art. 533, primo comma, c.p.p. impone il principio di Diritto per cui si condanna “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Questo perché in un paese civile meglio un reo in libertà, che un innocente in galera. E, a quanto pare, l’Italia pur essendo la culla del diritto, non figura tra i paesi civili.»
Intervista esclusiva al dr Antonio Giangrande, avetranese doc. Egli, avendo vissuto la storia del delitto di Sarah Scazzi sin dall’inizio, conosce bene fatti e persone, protagonisti della vicenda. Corso degli eventi seguiti e documentati sin dal principio in un libro e con video. Un punto di vista interessante ed alternativo, sicuramente non omologato. Un personaggio che non si fa certo intimorire dalla magistratura e dall’avvocatura e che bistratta quell’informazione corrotta culturalmente. Per conoscerlo meglio basta andare su www.controtuttelemafie.it.
Dr Antonio Giangrande sembra sicuro di quello che dice.
«Via Poma, Garlasco, Perugia, il caso Yara Gambirasio. I casi più celebri. Orrori senza fine e quando, per caso, il colpevole salta fuori, si scopre che la soluzione era a portata di mano, quasi banale, e perfino ovvia: come nella vicenda dell'Olgiata con il maggiordomo filippino. E invece la nostra giustizia e i nostri apparati investigativi continuano, spesso e volentieri, a perdersi dietro congetture dietrologiche e teoremi labirintici, ma soprattutto le troppe inchieste finite in nulla e i troppi processi impantanati. Gli esperti arrivano tardi, quando le prove sono già state compromesse, contaminate, sprecate. Polizia e carabinieri sono spesso in disaccordo fra di loro, secondo una trita consuetudine centenaria, e la polizia giudiziaria esplora le piste possibili con il guinzaglio corto impostole dalla legge che le ha messo addosso il collare della dipendenza dalla magistratura. Per restare sulla cronaca: da una parte c’è Michele Misseri, difeso dagli avvocati Luca Latanza da Taranto e Fabrizio Gallo da Roma. Quest’ultimo che accusa a Quarto Grado del 19 aprile 2013 il primo avvocato di Misseri, Daniele Galoppa, di essere stato ripreso dal GIP perché suggeriva a Michele Misseri le risposte che accusavano la figlia Sabrina in sede di Incidente Probatorio. Il contadino di Avetrana che si dichiara colpevole del delitto e della soppressione del corpo della nipote, non risparmia dichiarazioni e interviste ai vari corrispondenti delle testate televisive nazionali che presidiano costantemente la villa di via Deledda. In una di queste, al Graffio di Telenorba, prima ha spiegato per l’ennesima volta le modalità del delitto e poi ha mostrato la valigia già pronta per quando sarà trasferito in carcere al posto – così lui spera fino in Cassazione – della figlia e di sua moglie. Dall’altra parte, dopo aver rispedito alla Corte d'Appello il processo sul delitto di Meredith Kercher, la ragazza inglese assassinata a Perugia nella notte tra il primo e il due novembre 2007, la Cassazione ha annullato anche la sentenza di assoluzione di Alberto Stasi per l’omicidio di Chiara Poggi, avvenuto il 13 agosto 2007 a Garlasco (in provincia di Pavia). Da quando Chiara Poggi venne uccisa e ritrovata senza vita il 13 agosto del 2007 nella sua casa di Garlasco, errori soprattutto nelle prime 24 ore ci sono stati. Così come a Perugia; così come ad Avetrana. Innanzitutto troppe persone sono entrate nella casa, inquinando la scena del crimine. Poi il primo interrogatorio di Alberto, che poteva essere determinante, è stato condotto prima da un maresciallo dei CC, poi interrotto, e continuato da un Capitano arrivato più tardi. Non è stata cercata immediatamente l'arma del delitto. E' stato acceso e spento troppe volte il pc di Alberto, che, per la Procura, doveva essere la prova regina. Non sono state sequestrate subito le famose scarpe di Alberto, né la bicicletta. Non è stato fatto un sopralluogo a casa sua o nell'officina del padre dove poteva nascondersi l'arma del delitto. I cellulari di alcune persone legate ai due sono stati messi sotto controllo solo dopo mesi e non immediatamente. Tutto questo davanti ad una Procura che è parsa inadeguata fin dal principio come gli investigatori. Perché solo con la parola "inadeguatezza" si può spiegare il fatto che nella casa sotto sequestro e con la "scena del crimine" ancora da analizzare (lo ricordiamo era quasi ferragosto e persino la scientifica era in ferie) venne lasciato libero di circolare il gatto di casa e qualcuno si è pure permesso di fumare, lasciare cenere sul pavimento, calpestare tracce ematiche. Il 18 aprile 2013 la Cassazione ha conferma questi dubbi ed ha deciso che il procedimento va rifatto per questioni di "metodo". L'accusa chiede la condanna a 30 di reclusione. Diversi gli indizi raccolti contro l'ex fidanzato: le scarpe “candide”, i pedali della sua bicicletta con tracce ematiche della vittima, le sue impronte miste al Dna di Chiara trovate sull'erogatore del sapone nel bagno dove l'assassino si è lavato. Nessun alibi, secondo l'accusa, per l'ex fidanzato: non era al computer mentre Chiara veniva uccisa. Innocente al di là di ogni ragionevole dubbio in primo grado ed in Appello. A questo punto mi si deve spiegare una cosa: a chi dare ragione? Ai giudici che assolvono od a quelli che condannano? Perugia, Garlasco, Avetrana: il ragionevole dubbio per motivare l’assoluzione se non sovviene in questi casi, allora quando?»
Ma chi è Antonio Giangrande. Nessuno da Avetrana ha mai parlato di lui, né, tantomeno, tv e giornali hanno richiesto i suoi commenti.
«Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Il fatto che nessuno mi ha mai interpellato sul delitto di Sarah Scazzi, nonostante che tutti ad Avetrana abbiano avuto l’occasione per farsi intervistare (alla faccia dell’omertà), non me ne cruccio, probabilmente i giornalisti non ritengono interessante il personaggio e le sue opinioni. D’altronde mi vanto proprio di essere diverso per i miei convincimenti e per il mio spirito libero e responsabile. Di parere diverso dai miei detrattori sono i miei sostenitori, che, in centinaia di migliaia, invece, seguono i miei video e leggono i miei testi, ritenendoli importanti, alternativi e fondamentali per farsi un’opinione corretta sui fatti. Oltretutto su internet seguono più me e le mie inchieste che il lavoro di tante redazioni stereotipate e finanziate da una certa politica, che, pur pensando di essere unici, navigano nel mare dell’informazione insieme a migliaia di simili. Mi da fastidio solo una cosa: snobbare me può essere giustificato dalla codardia, ma ignorare l’associazione antimafia che rappresento, a tutto vantaggio di altri sodalizi ben sponsorizzati politicamente, descrive bene la professionalità di certi giornalisti».
Che coincidenza: nascere ad Avetrana, il paese dei Misseri, e vivere di luce riflessa!
«Ognuno di noi è nato in qualche posto che sicuramente non era voluto dal nascituro. Poi sta a noi rendere quel posto dove siamo nati degno di essere vissuto, né quel posto può essere l’alibi dei nostri fallimenti. Per dire: Chi nasce a Roma non diventa automaticamente Presidente della Repubblica. Io vivo in questa vita con dei compagni di viaggio. Qualcuno scenderà dal treno prima, qualcun altro dopo di me. Scenderanno comunque tutti dal treno della vita, anche coloro che saliranno dopo, così come hanno fatto quelli che son saliti prima. E non osta il fatto di avere nobili natali. Sono le fasi della vita. Io faccio di tutto per tutelare e onorare il posto dove sono nato. Località né peggio, né meglio di altre. Non vivo sotto i lampioni, per cui non rifletto né la mia, né l’altrui luce. Anche perché ognuno di noi vive il suo spazio e con il web questo mio spazio è il mondo. Solo gli ignoranti sminuiscono la forza che la mente ha nel superare lo spazio ed il tempo. Il miglior riconoscimento ricevuto è il ringraziamento da parte del Commissario Governativo per le iniziative contro la lotta alla mafia e all’usura, il quale mi ha invitato, anche, a partecipare all’incontro tenuto a Napoli con i Prefetti del Sud Italia per parlare di Sicurezza, mafia ed usura. Ciò significa considerarmi degno interlocutore, mentre le Autorità locali mi ignorano, mi emarginano, mi perseguitano. Appunto. L’avv. Santo De Prezzo, di Avetrana, conferma in una sua denuncia (in seguito alla quale per me è scaturita assoluzione più ampia perché il fatto non sussiste e di cui si è chiesto conto a lui ed anche nei confronti dei magistrati che l’hanno agevolata), che il Presidente dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, è considerato dalle Forze dell’Ordine di Avetrana un mitomane calunniatore. Tale affermazione spiega bene il perché degli insabbiamenti e le archiviazioni che seguivano le mie denunce, sol perché si denunciavano i reati degli intoccabili. Spiega bene altresì, l’ostracismo dei media. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.»
Dr Antonio Giangrande, con le sue opere letterarie, la sua web tv ed i suoi canali youtube ha voluto documentare in testi ed in video pregi e difetti della società italiana. Ma chi sono gli italiani?
«Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.»
A scrivere delle malefatte dei poteri forti a lei cosa ne consegue?
«Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia l’antimafia è una liturgia finanziata dallo Stato in cui vi è l’assoluto monopolio in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. La sinistra, i media, gli insegnanti ed i magistrati artatamente han fatto di Don Luigi Ciotti e di Roberto Saviano le icone a cui fare riferimento quando ci si deve riempir la bocca con il termine “legalità”. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo. Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Mi hanno condannato all’indigenza. Tenuto conto che i miei libri si leggono gratuitamente, da scrittore non ho nessun introito. A dover scrivere la verità, purtroppo, non posso essere amico di magistrati, avvocati e giornalisti. Essere amico su chi avrei da scrivere, inficerebbe la mia imparzialità di giudizio. Avendo avuto l’occasione di svolgere l’attività forense per 6 anni senza abilitazione ma con il patrocinio legale, ho sì vinto tutte le cause, ma si sono imbattuto in tutto quello che è più malsano del mondo della giustizia: la corruzione morale e materiale delle toghe, siano essi magistrati od avvocati. E nessuno ne parla. Io ne parlo e ne subisco le ritorsioni. Non mi abilitano e sono investito da processi per diffamazione. Sempre assolto, ma per esserlo sono stato costretto a denunciare e ricusare il giudice naturale. Il giudice Rita Romano di Taranto, tra le altre cose, ha assolto chi mi aveva aggredito in casa mia con l’intento di far male a me, a mia moglie ed ai miei figli, affinchè non presenziassi ad un’udienza in cui difendevo la moglie dell’aggressore, vittima di stalking. Le prove dell’aggressione non sono state prodotte dalla procura, né ammesse dal giudice. A questo punto l’assoluzione dell’aggressore fu così motivata: “la testimonianza di Antonio Giangrande non possa ritenersi pienamente attendibile”. La Procura di Taranto chiede ed ottiene l’archiviazione delle denunce contro loro stessi. La Procura di Potenza archivia tutte le mie denunce contro i magistrati di Taranto ed accoglie tutte le denunce dei loro colleghi tarantini contro di me per quanto scrivo su quello che succede a Taranto. Un modo di tacitarmi per quanto scrivo anche su quello che succede Potenza. In virtù della mia esperienza il mio assunto è: la mafia vien dall’alto!»
Perché parla di cortocircuito Giustizia-Informazione?
«I giornalisti ci hanno inculcato la convinzione della santità, della infallibilità e della intoccabilità della magistratura. Il mondo della comunicazione e dell’informazione fa passare il principio per il quale i magistrati, preparati, competenti ed equilibrati, non sbagliano quasi mai e per di più, quando lo fanno, non devono essere criticati, in quanto le colpe delle disfunzioni giudiziarie vanno ricondotte sempre e comunque al sistema, quindi alla politica. Insomma: i magistrati sono di un’altra razza. Gli avvocati, anche per colpa della propria viltà, anziché imprimere l’assioma della indispensabilità e della parità della loro funzione, sono fatti passare per comprimari. Agli occhi della gente incarnano coloro che con sotterfugi e raggiri fanno uscire i rei dalla galera. Il dogma che dovrebbe valere per tutti i Magistrati e tutti i Giornalisti è: non avere ideologia, né amici. Questo per dare un’apparenza di imparzialità. Invece l’ideologia non gli manca, né tantomeno gli amici. Ed ottimi amici, spesso, sono proprio tra di loro, i Magistrati con i Magistrati ed i Magistrati con i Giornalisti, in un rapporto di reciproca mutualità. Amici ed ideologia, a iosa, spesso in un rapporto vicendevole: eccome! I magistrati ed i giornalisti hanno un ego smisurato che li rende autoreferenziali, presuntuosi ed arroganti, dimenticando che il potere, che gli uni e gli altri hanno, è stato assunto in virtù di un concorso pubblico, come può essere quello italiano. I Magistrati ed i Giornalisti non vengono da Marte, pertanto senza natali e casato e con un DNA differente dal resto dei cittadini. I primi, quindi, non sono la voce della Giustizia, i secondi non sono la voce della Verità. Tutto questo crea un vulnus all’esistenza di tutti noi. Prova ne è la sorte di Pietro D’Amico. Si è tolto la vita assistito dal personale di una clinica Svizzera. Pietro D'Amico era un magistrato per bene, una «toga buona» e fuori dai giochi di potere. Messo in croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Pietro D'Amico, autore di saggi di Filosofia del Diritto e Diritto romano adottati come libri di testo da alcune università, era stato indagato, insieme ad altri magistrati dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la perquisizione di un parlamentare nell'ambito dell'inchiesta Poseidone sui presunti illeciti nella gestione dei fondi per la depurazione. Ne era uscito indenne, ma totalmente disgustato. Aveva deciso di abbandonare la toga commentando: "Questa magistratura non mi merita". Tutto ciò fa pensare una cosa: se è successo a lui, figuriamoci cosa succede ai poveri cristi. Non esiste un solo Paese democratico e moderno nel quale uno dei poteri che regge l’architettura dello Stato è sottratto a qualsiasi controllo e sul quale vige una sorta di impunità che si è trasformata, negli anni, in un delirio di onnipotenza senza strumenti di comparazione nell’intero mondo occidentale; uno Stato nello Stato, regolato da leggi autonome, sottratto ai più elementari controlli democratici e autoimmunizzato contro ogni critica. Guai a chi si permette di criticare un magistrato, l’operato di un giudice o la conduzione di un’indagine: il rischio automatico è quello di attirare gli strali dei “pasdaran” del giustizialismo con ondate di fango mediatico; gli stessi per i quali un magistrato in esercizio della sua funzione, e magari nel tempo libero, può criticare liberamente lo Stato suo datore di lavoro, dare giudizi estremi sul Parlamento che vota le leggi (che un magistrato dovrebbe applicare e che invece vorrebbe lui dettare) e ridurre il tutto ad un mero esercizio di presunta democrazia, mentre se è lo Stato o il Parlamento, o anche un semplice cittadino, a criticare un magistrato si grida al complotto, o, addirittura, si è condannati per diffamazione dagli stessi magistrati criticati. Ma si sa. La coerenza è il segno distintivo dei limitati encefalici.»
Perché tra le sue opere a carattere generale ha scritto il libro su una vicenda particolare “SARAH SCAZZI, QUELLO CHE NON SI OSA DIRE. IL RESOCONTO DI UN AVETRANESE”?
«Avetrana, e per questo non si ha alcuna spiegazione logica, stranamente ed a differenza di altre sparizioni di persone, sin dal primo giorno della scomparsa di Sarah Scazzi è stata oggetto di attenzione mediatica morbosa. Sin dal primo momento è stata invasa dai camion con le paraboliche tv, come se una regia occulta avesse predisposto l’evento ed avesse previsto l’imponderabile, misterioso e drammatico seguito. Sin da subito sono arrivati i migliori consulenti forensi e gli eccelsi avvocati dai fori più importanti con la conseguente domanda logica: chi li paga? Per propaganda e pubblicità: chissà? Sono calati avvocati propostisi (vietato dalla deontologia; divieto che pare valga solo per l’avv. Vito Russo di Taranto), o avvocati consigliati da parenti od amici interessati. Solo per gli imputati minori si son visti avvocati riconducibili a conoscenza personale. Si son visti, addirittura, avvocati che si sono arrogati la funzione di pubblici ministeri: la ricerca della verità. In questo coinvolgendo i consulenti salottieri che alla tv, in programmi che dovevano trasparire imparzialità, invece, propinavano la loro convinzione personale ospiti di conduttrici compiacenti. Poi alle accuse di Michele di essere stato plagiato rispondevano: io non c’ero! Si son visti giornalisti vagare per Avetrana intenti ad intervistare appositamente ignoranti nullafacenti nei bar, con l’intento di estorcere delle considerazioni dotte. Si son visti giornalisti aspiranti scrittori, con il sogno di scrivere sul delitto di Avetrana un esclusivo Best Sellers, arrogandosi la elitaria genitura della verità. Generalmente da tutta Italia mi si chiede aiuto, essendo riconosciuta la mia competenza per aver seguito tutti i casi giudiziari analoghi. Ad Avetrana, da avetranese, sono stato tra i primi ad offrire la mia consulenza gratuita, dopo aver segnalato alle autorità alcuni personaggi che gironzolavano intorno alla famiglia Scazzi. Personaggi che hanno conosciuto i fatti dall’interno della famiglia nell’imminenza dell’evento, ma che non sono stati mai chiamati a testimoniare. Con Concetta e Giacomo Scazzi vi è stato un’incontro, qualche consiglio. Presente era Cosima e Valentina. Le ho viste affiatate con Concetta. Successivamente, con l’arrivo degli avvocati di Perugia (in quella fase non vi era alcun assoluto bisogno di assistenza legale) si era sottoposti al loro vaglio per parlare con la Famiglia Scazzi. Si è erto un muro. Da allora nessun incontro vi è più stato, né nessun grazie si è dato alle associazioni avetranesi che si sono attivate per la ricerca di Sarah e per la fiaccolata in suo onore. Le luci della ribalta sono un’illusione anche nel dolore, in special modo se c’è qualcuno che illude. In quei frangenti caotici si veniva a formare la trama intrigante, oscura, imperscrutabile e misteriosa di un film più che “giallo”. “Giallo” è la definizione italiana, poiché negli Stati Uniti non esiste questa parola per definire lo specifico genere cinematografico che va sotto i nominativi di “crime story”, “noir”, “mistery” e “thriller”. Avetrana è diventata, suo malgrado, l’ombelico del mondo. E’ conosciuta ormai in tutto il pianeta. Tutti parlano di Avetrana, degli avetranesi, degli Scazzi, dei Serrano e dei Misseri. E tutte le altre località se ne dovranno fare una ragione. Eppure tanta notorietà (subita) provoca immenso rancore. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche in modo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Studi scientifici dimostrano come spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi detiene il potere o posti di responsabilità pubblica senza averne le capacità, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più, chi non ha arte ne parte, ma ha le luci della ribalta (come i personaggi del gossip o, come nel nostro caso, i protagonisti delle cronache giudiziarie). Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. Per questo si odia tanto Avetrana e Sabrina Misseri. Loro malgrado hanno un successo planetario che altri (gli invidiosi) vorrebbero per sé, finanche per le stesse ragioni, ma non lo possono mai avere. Allora scatta il meccanismo di delegittimazione e di denigrazione, fino ad arrivare al vilipendio di una comunità. Quando si parla del delitto di Sarah Scazzi, non si parla del danno che il sistema banale, superficiale e poco professionale dell’informazione e della comunicazione ha arrecato alla comunità colpita. State sicuri: nessuno vuol parlarne e nemmeno può. Bisogna essere Avetranesi con dignità ed orgoglio per sentire sopra la propria pelle il disprezzo di gente stupida ed ignorante che quando sa che tu sei di Avetrana nella migliore delle ipotesi sghignazza: “ahhaaaa…., ahhaaaa…”. Oppure di gente cattiva che lancia epiteti e che ti apostrofa: “ahhaa…, siete quelli che hanno ucciso Sarah”; “ahhaaa…, il paese omertoso e mafioso che ha ucciso la bambina”. Come al solito, poi, in questa Italia dove il migliore c’ha la rogna, te lo dice gente che a parlar di loro o della loro comunità dovrebbero mettersi la maschera in faccia per coprirsi per la vergogna. Certo che ad Avetrana vi è un inspiegabile accanimento mediatico. Finanche lo sport ha parlato di Sarah Scazzi. Un servizio della “Domenica Sportiva” della Rai il 7 aprile 2013 parla, sì, di calcio ad Avetrana, ma (pure qui con retro pensiero) evidenzia anche il malessere che comporta l’essere di Avetrana in trasferta. Ma noi avetranesi ad aver grande intelletto e ad insegnare cultura adottiamo il celebre verso della Divina Commedia del sommo poeta Dante Alighieri “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. E proprio per passare oltre, il mio compito è quello di svelare il corto circuito informazione-giustizia. In questa Italia pregna di banalità e pregiudizi, frutto di ignoranza e disinformazione, e a volte di malafede, ognuno di noi dovrebbe chiedersi. La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!" «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio. «Dovete sapere – dice a un certo punto Salvatore Borsellino al convegno a Bari per la presentazione del libro di Giuseppe Ayala - che mio fratello Paolo dopo il 1° luglio 1992 chiese varie volte al Procuratore della Repubblica di Caltanisetta di essere ascoltato come testimone per riferire circostanze decisive per l'accertamento della verità della strage di Capaci, in cui perirono Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta, ma questi, il Procuratore della Repubblica di Caltanisetta, si rifiutò di ascoltarlo.» Al che Giuseppe Ayala, sorridendo, ha commentato: “Eh si! In effetti c’è anche questa!”. Sono piene le aule dei Tribunali di tesi accusatorie, spesso strampalate dei PM, imbastite in modo a dir poco criticabile, poi accolte dai loro colleghi giudici. Il caso di Salvatore Gallo è di quelli destinati a passare alla storia degli errori giudiziari più clamorosi. Fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello Paolo che in realtà, sette anni dopo, si ripresenta vivo e vegeto. Ed ancora la Iena Mauro Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe Uva, ha ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda ad ottobre nel 2011, che conteneva un'intervista a Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva anch'essa querelata per diffamazione. Giuseppe Uva il 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si denuncia da anni, come Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi. Lucia Uva chiede solo giustizia e si ribella contro gli insabbiamenti delle denunce. Stessa sorte, querela per diffamazione, è toccata alla mamma di Aldrovandi, come stessa sorte è toccata ad Alfonso Frassanito, padre adottivo di Carmela, la ragazzina di Taranto morta perché stuprata e non creduta dai magistrati. In Italia devi subire e devi tacere. Da sempre, inascoltato, combatto per istituire il “Difensore Civico Giudiziario” con i poteri dei magistrati, ma senza essere uno di loro. Solo nel 2012 l’Italia ha aggiunto un nuovo record alla lista di primati negativi collezionati nel tempo a Strasburgo sul fronte della giustizia. Dopo essersi aggiudicata per anni la maglia nera come Paese, tra i 47 del Consiglio d’Europa, con il più alto numero di sentenze della Corte per i diritti dell’uomo non eseguite (arrivato ora a quota 2569, dietro di noi ci sono la Turchia con 1780 sentenze non eseguite e la Russia con 1087), l’Italia è diventata anche lo Stato che spende di più per indennizzare i propri cittadini per le violazioni dei diritti umani subite: ben 120 milioni di euro. Una cifra pari a circa cinque volte il contributo annuo versato al Consiglio d’Europa e più del doppio di quanto nel 2012 hanno pagato complessivamente, come indennizzi, tutti gli altri Stati membri dell’organizzazione. Senza parlare poi di quegli errori giudiziari che costano come una manovra. Indagini approssimative. Magistrati ed avvocati che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis. C'è già un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni, assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990. Il caso di Busco, difeso proprio da Franco Coppi difensore anche di Sabrina Misseri nel processo sul delitto di Sara Scazzi, rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari. L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno 2012, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio 2011, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Ma quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso Tortora al caso Barillà. Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che sarebbero cinque milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Bisogna che qualcuno dica alla gente che quello che succede ad Avetrana succede in tutta Italia. Tante le similitudini con i fatti di cronaca riportati dai media. Informazione e giustizia. Simbiosi cinica e bara, sadismo allo stato puro. Parliamo di Franco Califano. È stato arrestato due volte per cocaina, una volta nell’ambito del caso Chiari-Luttazzi (una serie di personaggi dello spettacolo messi in cella per droga nel 1970 e poi tutti assolti), un’altra all’interno del caso Tortora (l’inchiesta della magistratura napoletana che accusò falsamente il popolare presentatore di essere un boss della Camorra, uno dei più grandi scandali giudiziari degli anni Ottanta). In tutto s’è fatto per questo tre anni e mezzo di carcere. Suo commento: «Negli anni Settanta sono finito nel processo di Walter Chiari, negli anni Ottanta in quello con Tortora: possibile che alla mia età, con la mia carriera non me ne sono meritato uno tutto per me?». Stranamente, o forse no - scrive Valter Vecellio su “L’Opinione” - sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole alla vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente venne riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a parte, Califano venne coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella vicenda che in precedenza aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di quell’inchiesta che doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu invece un venerdì (e non solo un venerdì) nerissimo per la giustizia italiana. Califano ci raccontò che ad accusarlo erano due "pentiti": Pasquale D' Amico e Gianni Melluso, "cha-cha". Ma D' Amico poi aveva ritrattato le sue accuse. Melluso, invece le aveva reiterate, raccontando di aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del "Club 84", vicino a via Veneto, a Roma; e successivamente nell'abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel "Club 84" il sottoscala non c’era; e Califano in vita sua non ha mai abitato a corso Francia. Infine Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto. Califano ci raccontò che le accuse nei suoi confronti erano solo quelle di cui s’è fatto cenno; e che non si siano svolte indagini e accertamenti per verificare come stavano le cose non sorprende col senno di poi, e a ricordare come l’inchiesta in generale venne condotta. E sulle modalità investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono stato coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il “Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, avevo rivelato «atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora». Ed ero effettivamente colpevole: avevo infatti raccontato che Melluso aveva ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a Giovanni Panico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale “Visto”; e il contenuto degli articoli anticipati e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia” e “AdN Kronos”. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tv... Queste le indagini; e dato il modo di condurle, non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per tantissimi di coloro che in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei cronisti spediti a Napoli, presero per buone, e furono pochi a vedere quello che poteva essere visto da tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei pochi; e non sorprende che questa vicenda la si preferisca occultare e ignorare. Ed ancora. Per i pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy, Stefano Cucchi «è morto di fame e di sete». "Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi", ha accusato il pubblico ministero Vincenzo Barba. Che ha ricordato le difficoltà affrontate nel corso delle indagini a causa ''del clamore mediatico insopportabile'' e in particolare per proteggere quello che ritiene essere il testimone ''credibile'', l'immigrato Samura Yaya. "Abbiamo avuto l'esigenza di tutelarlo come fonte di prova - ha continuato Barba - A un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo, anche il senatore Stefano Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi. Il processo è stato difficile - ha detto il pm Barba - anche a causa di varie rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass media hanno influito sull'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo''. «Riteniamo inaccettabile e gravemente offensive le dichiarazioni del pm Barba sul conto di Stefano e di tutti noi - commenta la sorella Ilaria Cucchi - Continuo a chiedermi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. Non posso accettare che non venga riconosciuta la verità su quello che è successo a Stefano tutto il resto non mi interessa - ha aggiunto con gli occhi lucidi - La verità la sanno tutti. Io, speravo che entrasse anche nell'aula di giustizia e continuo ad avere fiducia nella Corte: ripongo in loro tutta la mia fiducia, perché ogni risposta che non sia coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta ipocrita noi non la possiamo accettare. L'atteggiamento che abbiamo notato oggi in aula è perfettamente coerente con quello che e stato l'atteggiamento della procura per tutta la durata del processo, tanto che spesso viene da chiedersi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. La responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile, loro non sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall'altra arte e non si può far finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in quell'ospedale per cause che non c'entrano con il pestaggio. Non si può negare che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita assolutamente normale. Abbiamo discusso per anni con la procura della frattura di l3. Ora apprendo che si è concordemente riconosciuto che gli accertamenti ed i prelievi sono stati fatti sulla maggior parte della vertebra lasciando fuori proprio quella in discussione. In particolare i consulenti del Pm hanno prelevato tessuto osseo della vertebra nella parte opposta ed interna dove, guarda caso , vi era una vecchia frattura . Non solo, ma poi è emersa evidente un'altra frattura ad l4, cioè così vicina e sotto ad l3 da non poter non far pensare che entrambe siano state procurate a Stefano con un calcio od un colpo diretto proprio in quella zona. Tutti i medici che lo visitarono notarono segni evidenti e particolare dolore lamentato da mio fratello proprio lì. Gli stessi consulenti del Pm hanno fotografato abbondante sangue sui muscoli della stessa zona, che, visti al microscopio, risultano anche lacerati. Insomma la schiena di Stefano è massacrata di fratture e la procura procede per lesioni lievi. Ora, dopo aver detto che la frattura di l3 su cui i miei consulenti discutevano, era in realtà vecchia, mi aspetto che su quella di l4 si dica che se l'è procurata da morto. Siamo veramente stanchi di questo teatrino tragicomico». Ed ancora. La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia. A proposito del delitto di Sarah Scazzi e di Yara Gambirasio e gli autogol della giustizia e del giornalismo italiano. Vi ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di Avetrana? Giusy Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il suo corpo è ritrovato il pomeriggio successivo all'omicidio sulla scogliera, vicino allo stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia. Il caso scuote la città del Gargano che viene assediata nei giorni successivi dalle tv nazionali e locali in cerca di risoluzioni per quello che diviene un caso di cronaca nazionale. È stato un periodo di tensione e terrore, quello che si è consumato a Manfredonia, sessantamila abitanti, una quarantina di chilometri da Foggia. Per mesi questa fetta del Gargano è stata sotto shock per la tragica fine di Giusy, uccisa a colpi di pietra da Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni, che 40 giorni dopo (il 23 dicembre 2004) venne arrestato dalla polizia e che confessò l'omicidio: l'uomo, un cugino del padre della ragazza, ha ammesso di aver colpito la vittima con una pietra perché tra loro c'era una relazione e lei minacciava di raccontare tutto a sua moglie se l'avesse lasciata. Il ricordo della povera Giusy è ancora vivo in tutta la comunità accusata a suo tempo di omertà come tutte le comunità che subiscono vicende analoghe. Una vicenda drammatica con molti colpi di scena seguitissima da stampa e tv. Speciali tv sono stati dedicati al caso dalla solita Rai Tre con il programma “Ombre sul giallo”, ideato, scritto e condotto da Franca Leosini. Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Intanto l’8 ottobre 2011 per quel delitto il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione “famiglia” della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana) Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione. Le ragazze accusate malamente in vario modo si rammaricano del fatto che i giornali e le tv pronti ad infierire con accanimento mediatico su di loro, nel momento in cui vi è stata per loro stesse una sentenza di assoluzione, omertosamente i medesimi giornalisti hanno censurato la notizia, tacitando gli errori dei magistrati. Sono loro a gridare con una testimonianza esclusiva al dr Antonio Giangrande, scrittore (autore anche del libro su Sarah Scazzi, già pubblicato sul web) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In sintesi il loro pensiero conferma un tema ricorrente identico a sé stesso: povero territorio e poveri protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un sistema mediatico che nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si inizia con uno strillio del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano. In quel momento ti casca il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti scontri con procuratori della repubblica innamoratissimi della loro tesi di accusa, assecondati dal Tribunale della loro città e sostenuti da giornalisti che pendono dalla loro bocca o che si improvvisano investigatori. E l’opinione pubblica, influenzata dalla stampa, ti odia fino ad augurarti la morte. «Dalla sentenza che ha acclamato la nostra estraneità ai fatti, nessuno ci ha cercato per ristabilire la verità e per renderci la nostra dignità e la nostra reputazione. Chi è schiacciato dal tritasassi della giustizia, anche se innocente, è frantumato per sempre». E’ il pensiero di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, ma possono essere le affermazioni di migliaia di innocenti che da queste vicende ne sono usciti distrutti. Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda? Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutti come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e accusate di essere state responsabili indirettamente della sua morte. Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo. Il fenomeno Vallettopoli era appena cominciato: un tormentone mediatico che aveva trasformato la tranquilla e sonnecchiante città di Potenza in un vero e proprio “ombelico del mondo”, scriveva Stella Montano sul “Quotidiano della Basilicata”. Giornalisti, reporter, fotoreporter, cameraman di testate giornalistiche e agenzie di stampa di tutt’Italia, tutti a Potenza, per studiare da vicino quella che sarebbe stata una delle inchieste più discusse degli ultimi anni; ma anche autisti, avvocati, segretari, agenti di spettacolo al servizio di veline e soubrette, di attori e calciatori, chiamati a rispondere alle difficili domande del pm che aveva aperto le indagini sulle presunte estorsioni ai danni di vip, attività che aveva fatto la fortuna dell’agenzia “Corona’s”, il cui logo, in quel periodo era diventato uno status symbol, consolidato persino dinanzi al carcere di Potenza, il 29 marzo del 2007, giorno del suo 33esimo compleanno, festeggiato dai suoi collaboratori più fedeli con una grande torta e con tanto di candeline. Albergatori e ristoratori felici del tutto esaurito; trovare un posto libero in un pub o in una pizzeria era diventata un’impresa. Esaurite sin dalle prime ore del mattino le copie di quotidiani, settimanali e periodici: la voglia di leggere era diventata dilagante, dirompente. Per i 3 tassisti in servizio in città, spola ininterrotta dalla stazione al tribunale, dagli alberghi al carcere: un lavoro così estenuante a Potenza non si era mai visto. Come non si era mai visto che qualcuno prendesse addirittura dei giorni di ferie dal lavoro per non perdersi uno spettacolo “live” senza eguali, tra le inferriate del Tribunale. Tra flash e microfoni buttati letteralmente in aria, il passaggio super scortato di Raoul Bova, Loredana Lecciso, Diego Della Valle, Fernanda Lessa, Nina Moric, aveva mandato in visibilio anche studenti, adolescenti e ragazzine, pronte ad immortalare con un flash quel passaggio dorato di vittime/carnefici del “sistema Corona”. Girandola di starlette e paillettes che in quei giorni avevano di fatto trasformato la visione del capoluogo lucano agli occhi del mondo mediatico. Merito di quel “pm biondo che faceva impazzire il mondo” che aveva scoperchiato le malefatte di un “ragazzo insolente” di nome Fabrizio Corona. Qualcuno aveva persino proposto di far diventare Henry John Woodcock «assessore al turismo del comune di Potenza». Starlette, gossip ed inchieste giudiziarie. Le tante Ruby dell’informazione e della giustizia italiana. Guerra, Berardi, Polanco, Faggioli… Che fine hanno fatto le “olgettine”? Qualche anno fa non si parlava che di loro, oggi sono quasi dimenticate. Da Barbara Guerra a Iris Berardi, da Marysthell Polanco a Barbara Faggioli. Che fine hanno fatto le cosiddette ragazze del bunga-bunga? E quelle che abitavano nell’ormai famigerato appartamento di via Olgettina, a Milano? Non si parlava d’altro, i quotidiani erano ricchi tutti i giorni di notizie e segnalazioni sulle loro imprese e i rotocalchi si contendevano le loro immagini «rubate» durante costosissime incursioni nel quadrilatero della moda, in centro a Milano, per l’immancabile shopping quotidiano. Erano tante le ragazze in qualche modo entrate nell’elenco delle donne attribuite a Silvio Berlusconi. “Oggi” le aveva contate una a una: da Nicole Minetti a Maryshtell Garcia Polanco, da Roberta Bonasia a Barbara Faggioli, da Alessandra Sorcinelli a Iris Berardi, per non parlare di Ruby Rubacuori. L’elenco, alla fine, ne conteneva ben 131. È passato, come dicevamo, solo qualche anno. Per qualcuno il ricordo di quelle ragazze è già sbiadito. Per altri sono rimaste nella memoria collettiva. «Subisco dai giudici violenza psicologica, una vera e propria tortura, una pressione insostenibile». Lo ha detto Ruby, all’anagrafe Karima El Mahroug, la giovane marocchina al centro del processo sui festini hard nella residenza di Silvio Berlusconi ad Arcore, che il 4 aprile 2013 ha inscenato una protesta contro i magistrati davanti al Palazzo di Giustizia di Milano. La giovane ha letto un comunicato stampa lungo sei pagine sulle scale del tribunale e si è presentata con un cartello che recitava 'Caso Ruby: La verità non interessa più?'. Protesta anche contro la stampa, che a suo parere strumentalizza la sua storia: «Per colpire Berlusconi la stampa ha fatto male a me. Oggi ho capito che è in corso una guerra contro Berlusconi e io ne sono rimasta coinvolta, ma non voglio che la mia vita venga distrutta». Ruby ha letto un comunicato che ha consegnato ai giornalisti presenti. «La colpa della mia sofferenza è anche di quei magistrati che, mossi da intenti che non corrispondono a valori di giustizia, mi hanno attribuito la qualifica di prostituta, nonostante abbia sempre negato di aver avuto rapporti sessuali a pagamento e soprattutto di averne avuti con Silvio Berlusconi. Non sono una prostituta. Nessuno ha voluto ascoltare la mia verità, l’unica possibile. Voglio essere ascoltata dai magistrati per dire la verità, sono la parte lesa in questa vicenda. Voglio protestare per non essere stata sentita. Non ne capisco la ragione e intendo dirlo pubblicamente. La violenza che più mi ha segnato è stata quella del sistema investigativo. Dei ripetuti interrogatori che ho subìto, soltanto alcuni sono stati messi a verbale. Trovo sconcertante e ingiusto che nessuno voglia ascoltarmi, soprattutto perché secondo l'ipotesi accusatoria io sarei la parte lesa, secondo la ricostruzione dei pm sarei la vittima. Oggi dopo aver sopportato tante cattiverie sono qui a chiedere di essere sentita. Sono vittima di uno stile investigativo e di un metodo fatto di domande incessanti sulla mia intimità, le propensioni sessuali, le frequentazioni amorose, senza mai tenere conto del pudore e del disagio che tutto ciò provoca in una ragazza di 17 anni. A 17 anni non sapevo nemmeno chi fossero i pm, non leggevo i giornali, a malapena sapevo chi fosse Berlusconi. Oggi ho capito che è in corso una guerra nei suoi confronti che non mi appartiene, ma mi coinvolge, mi ferisce. Non voglio essere vittima di questa situazione non è giusto. Chiedo che qualcuno ascolti quello che ho da dire, voglio raccontare l'unica verità possibile e lo voglio fare in sede istituzionale. La violenza che più mi ha segnato è stata quella di essere vittima di uno stile investigativo fatto di promesse mai mantenute di aiutarmi a trovare una famiglia e di proseguire gli studi. Alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili, piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Ho deciso di parlare per rispondere a chi, magistrati e giornalisti inclusi, mi ritiene una poco di buono. Sono spiaciuta di aver fatto una cavolata dicendo che ero parente di Mubarak». E contro i magistrati: «Non c’è la prova che mi prostituissi, l’atteggiamento degli investigatori fu amichevole poi cambiò quando capirono che non avrei accusato Silvio Berlusconi. A quel punto sono iniziate le intimidazioni subliminali, gli insulti nei confronti delle persone che mi avevano aiutato...una vera e propria tortura psicologica. Una volta - ha raccontato ancora Ruby - non potendone più sono addirittura scappata dalla comunità di Genova in cui mi trovavo per non dover subire ancora quella pressione e l'unico che si preoccupò e mi convinse a rientrare è stato un amico al quale sono tuttora affezionata. Sono rientrata e di fronte alla pressione incessante dei magistrati ho ceduto: era più facile dire sì e raccontare storie inverosimili piuttosto che farmi angosciare o peggio far accettare la verità che avrei voluto raccontare. Mi sono resa conto - ha continuato - che a loro non interessava nulla di me. Ho raccontato di aver incontrato persone che conoscevo solo grazie ai rotocalchi, come Cristiano Ronaldo o Brad Pitt e dentro di me mi domandavo come fosse possibile che non si accorgessero che erano frottole. Questa è stata la peggiore delle violenze che ho subito, oltre alle costanti diffamazioni riportate dalla stampa alle quali mi pento di non aver reagito prima. Ho raccontato tante bugie, anche ai magistrati, perché mi vergognavo di me, del posto in cui sono nata, della mia famiglia, dei piccoli lavori di fortuna che sono stata costretta a fare per racimolare qualche spicciolo. Per questo ho raccontato bugie per sentirmi diversa e per convincere anche gli altri che lo fossi davvero, diversa come avrei voluto essere sempre. Mi spiace aver raccontato queste bugie anche a Silvio Berlusconi, il quale, oggi, sono sicura, si sarebbe dimostrato rispettoso e disposto ad aiutarmi anche se avessi detto la verità. La verità è che vengo da una paesino che si chiama Letojanni e che la mia famiglia vive in condizioni di grande precarietà. La verità è che per tanto tempo volevo essere un'altra persona e adesso pago il conto: il rischio di vivere il resto della mia vita con appiccicato il marchio infamante della prostituta che qualcuno ha voluto affibbiarmi a tutti i costi. Quanto alla finta parentela, «mi spiace di aver detto altre bugie sulle mie origini, ho giocato di fantasia perché il vecchio passaporto me lo ha permesso». E, per essere ancor più credibile, la giovane marocchina ha mostrato ai giornalisti un falso passaporto nel quale compariva il nome di Mubarak. «Presentarmi come la nipote di Mubarak - ha aggiunto Ruby - mi serviva a costruire una vita parallela, diversa dalla mia. Mi serviva a mostrare un’origine diversa, lontana dalla povertà in cui sono nata e cresciuta e dalla sofferenza che ho patito prima e dopo aver lasciato la mia famiglia in Sicilia. Ho subito un ennesimo episodio di intolleranza, quando la domenica di Pasqua una persona guardando mia figlia ha detto “spero che non diventi come sua madre”. Voglio che si sappia che la colpa è di quella stampa che per colpire Silvio Berlusconi ha fatto del male a me. Parlo di quei giornalisti che mi hanno violentato pubblicando le intercettazioni telefoniche che mi riguardavano». La ragazza ha spiegato di essere stata «umiliata per troppo tempo» e, ha aggiunto, «se questo è il Palazzo di Giustizia voglio che giustizia sia fatta». «Non voglio - ha concluso Ruby - essere distrutta, non voglio che venga distrutto il futuro di mia figlia a causa di un gioco pericolosissimo molto più grande di me nel quale sono stata trascinata con violenza quando avevo solo 17 anni. Voglio che mia figlia sia fiera di me». Intanto la «strega» diventa oggi l’ultima fatica letteraria di Mario Spezi in “L’angelo dagli occhi di ghiaccio” che sarà in libreria a fine marzo 2013 ma solo in Germania, perché gli editori italiani e quelli americani non lo hanno voluto stampare. Questa volta non è una ragazza chiamata Sabrina, ma una ragazza chiamata Amanda. Lasciatasi alle spalle la drammatica esperienza del Mostro, Spezi con il suo amico Douglas Preston, scrittore americano impegnato anche lui nella controinchiesta sui delitti di Firenze, in questo libro non raccontano solo la lunga vicenda giudiziaria di Amanda e Raffaele ma stabiliscono un inquietante collegamento fra l’inchiesta sul Mostro di Firenze e l’omicidio di Meredith. Due inchieste condotte dallo stesso Pm, Giuliano Mignini: «Con gli stessi argomenti», scrivono Spezi e Preston. «Rituali osceni, riti satanici, orge di sesso e sangue, omaggi a Satana, come aveva predetto una “santona” che, con le sue rivelazioni, aveva dato un contributo importante al magistrato nelle indagini sul Mostro». Amanda sembra non avere dubbi. «Contro di lei uno stillicidio che ha influito sulle persone». «L’aveva intuito anche Raffaele Sollecito che pochi giorni dopo la sua assoluzione mi confidò: “Ho capito benissimo che la mia storia è stata solo l’apice di quella di Mignini e dell’indagine perugina sul Mostro di Firenze”», rivela Spezi. Che aggiunge: «Senza l’antefatto del Mostro non si capisce fino in fondo cosa sarebbe avvenuto a Perugia nei quattro anni successivi. Un antefatto che aprì le porte dei tribunali a una nuova versione dell’antica caccia alle streghe». Ma come è stata costruita la «strega Amanda»? Spiega Spezi: «Con uno scientifico stillicidio di notizie a senso unico iniziato poche ore dopo il suo arresto. Non dimentichiamoci che quattro giorni dopo gli inquirenti annunciarono: “Il caso è chiuso”. Oggi sappiamo che nessuno di loro è colpevole. Ma in primo grado Raffaele e Amanda furono condannati. E l’opinione pubblica era colpevolista. Per loro fortuna i giudici dell’Appello fecero fare una nuova perizia scientifica e il risultato per l’Accusa fu uno tsunami: “Tutti gli accertamenti tecnici svolti prima non sono attendibili”, stabilirono i nuovi periti. Malgrado ciò fuori dal Tribunale la sera dell’assoluzione centinaia di persone accolsero la sentenza urlando: “Vergogna”. Evidentemente erano manipolati da una falsa informazione. Per loro la strega doveva finire al rogo. Tutti i mezzi di informazione diedero il massimo risalto all’assoluzione ma ben pochi indagarono sul perché era avvenuta una storia tanto grave. E ancora oggi in America chi osa difendere Amanda rischia addirittura l’incolumità. Ne sa qualcosa il mio amico Preston che sul suo blog riceve spesso pesanti minacce». Sul delitto di Sarah Scazzi sono stati scritti fiumi di parole e mandati in onda migliaia di ore di disquisizioni giornaliere sull’argomento, in salotti con gente che si improvvisava esperta di sociologia e di diritto. Avetrana è stata invasa da orde di giornalisti, ognuno portatore di pregiudizi e luoghi comuni. Sentimenti che hanno trasbordato ai loro lettori. Io conoscitore attento delle vicende umane in Italia in tema di violazione dei diritti umani in ambito della giustizia e dell’informazione, ho voluto riportare un punto di vista oggettivo che nessuno mai ha ed avrebbe avuto il coraggio di riportare. La storia di Sarah da me riportata è intrisa di storie analoghe alla sua. Ho rapportato il comportamento di media e magistratura per poter fare un parallelismo tra le varie vicende. Chi legge i miei libri, e quello su Sarah Scazzi in particolare, non rimarrà deluso, ma si arricchirà di informazioni mai da alcuno riportate. Per esempio nessuno ha mai parlato di Valentino Castriota, il portavoce della famiglia Scazzi, che nelle prime settimane viveva in quella casa. Il Castriota non è stato mai chiamato a riferire quanto lui avesse saputo in quei giorni. Come strano è – così come ha sottolineato Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, criticando l’operato della Procura – il perché, quando si è accertato che Sarah, uscita da casa, era arrivata in quella dei Misseri, non è stata sequestrata l’abitazione dei Misseri?» Tutto sbagliato, tutto da rifare: la disastrata malagiustizia all’italiana funziona così. E’ d’accordo con me Luca che scrive su “Menti Informatiche”. Processi che durano una vita e non concludono nulla; indagini che non finiscono mai; sentenze parziali e pasticciate che non reggono l’urto dell’analisi logica e costringono spesso a ricominciare tutto daccapo. Non a caso, nella speciale classifica redatta dalla Banca mondiale sul funzionamento della giustizia, l’Italia si piazza al 155° posto su 185 Paesi: siamo meglio dell’Afghanistan, ma peggio della Sierra Leone, del Malawi, dell’Iraq e della Bolivia. Per celebrare il più clamoroso processo penale di tutti i tempi, quello che nel 1946, a Norimberga, giudicò e condannò i crimini del Terzo Reich e dei gerarchi e militari nazisti, cioè 12 anni di storia, bastarono 11 mesi. Al 4 aprile 2013, dopo cinque anni e quattro mesi, noi ancora non sappiamo cosa successe veramente nella villetta di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher; dopo cinque anni e sette mesi, ignoriamo chi sia l’assassino di Chiara Poggi a Garlasco; dopo due anni e sette mesi dall’uccisione di Sarah Scazzi ad Avetrana si è ancora al primo grado; dopo due anni e quattro mesi, brancoliamo nel buio per l’omicidio di Yara Gambirasio a Brembate. Ci sono voluti 22 anni per ritrovarsi al punto di partenza sul mai risolto assassinio di Simonetta Cesaroni, in via Poma, a Roma; 20 anni per scoprire finalmente che l’omicida della contessa Alberica Filo Della Torre, all’Olgiata, è, nel la più classica tradizione giallistica, il maggiordomo filippino Manuel Winston, peraltro in chiodato da una intercettazione disponibile tre giorni dopo il delitto che però non fu mai ascoltata; 20 anni per avere la certezza che se le indagini sulla scomparsa di Elisa Claps a Potenza nel 1993 fossero state svolte con un minimo di competenza, il caso si sarebbe risolto in poche ore e forse Danilo Restivo non avrebbe ucciso nel 2002 in Inghilterra la sartina Heather Barnett. A proposito, qualcuno dovrà pur spiegare ai genitori della studentessa inglese Meredith Kercher, come mai un tribunale di Sua Maestà ha impiegato un anno e l i giorni per arrestare e condannare Restivo all’ergastolo, mentre noi siamo ancora in alto mare nel delitto di Perugia. Secondo le statistiche europee, i processi penali in Italia durano in media otto anni; negli altri Paesi dell’Unione, al massimo tre; negli Stati Uniti, invece, si va da un minimo di un giorno a un massimo di una settimana per la stragrande maggioranza dei casi. In Norvegia, sono bastate 10 settimane per processare e condannare Anders Breivik, autore della strage di Utoya (77 persone uccise a fucilate). Da noi ci sono processi, quelli privilegiati, accelerati perché illuminati dal faro mediatico, che avanzano faticosamente al ritmo di un’udienza a settimana e processi che si inceppano per fatti incredibili: a gennaio 2013 la Corte di Cassazione ha annullato per vizio di forma il deposito delle motivazioni del processo «Crimine infinito» sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia (110 persone condannate) perché la stampante si era rotta e mancavano 120 delle 900 pagine.
Da queste sue parole si evince che lei non ha remore a parlare degli errori, veri o presunti, commessi dai magistrati di Taranto.
«I magistrati di Taranto ed il loro operato. Il solo che si è ribellato allo strapotere dei magistrati tarantini in ambito locale è stato il dr. Antonio Giangrande, me medesimo. Io ho presentato svariate denunce a Potenza e presso altre procure competenti, quando Potenza non è intervenuta per abuso ed omissione commessi presso gli uffici giudiziari Tarantini. Naturalmente, lasciato solo, non potevo che subire l’onta del linciaggio, dell’accusa di mitomania o pazzia e dell’accanimento giudiziario, che nei miei confronti non ha prodotto alcuna condanna penale per reati d’opinione. Oggi non sono più solo. Anche l’Ilva con un esposto a Potenza denuncia i magistrati tarantini: "Accanimento contro di noi. Verificate se hanno commesso reati". La denuncia è stata depositata negli ultimi giorni di marzo 2013 da parte dell'avvocato Leonardo Pace per conto dello studio De Luca di Milano che segue l'azienda. Non dall’avvocato tarantino che segue gli interessi dell’azienda. Egidio Albanese, avvocato già presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto ed in buoni rapporti istituzionali con quei magistrati. D'altronde un ex prefetto e i magistrati erano fatti appositamente per lavorare a braccetto. Invece sono finiti in tribunale: il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante, noto per la sua moderazione e la stima che ha nella magistratura, ex Prefetto di Milano già candidato a Milano proprio per il centrosinistra, ha denunciato in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico e i custodi incaricati di vigilare il sequestro. A Taranto i magistrati non applicano la legge: loro SONO LA LEGGE. Questo atteggiamento li ha portati a disapplicare le leggi dello Stato, ma per la Corte Costituzionale la legge salva-Ilva è legittima. E dunque il colosso dell'acciaio può continuare a produrre. Perché quelle norme varate per permette all'azienda di restare in vita "non hanno alcuna incidenza sull'accertamento delle responsabilità nell'ambito del procedimento penale in corso davanti all'autorità giudiziaria di Taranto". Un'interpretazione che fa a pugni con quella dei giudici tarantini per il quali autorizzare la produzione equivale a una autorizzazione a inquinare. Anzi, a continuare a inquinare. Questa la decisione presa dalla Consulta sulla legge 231/2012 varata a dicembre a stragrande maggioranza dal Parlamento, che ha convertito il decreto del governo Monti, intervenuto dopo il sequestro dell'area a caldo dello stabilimento e l'apertura della querelle giudiziaria che ha visto contrapporsi magistratura e politica nella ricerca di una soluzione per Taranto e per la salute dei suoi cittadini. L’azienda che ha anche minacciato di chiedere i danni per i mancati introiti, appellandosi proprio al via libera concesso con la salva-Ilva. Il lungo conflitto sulla legge è partito lo scorso luglio 2012: da un lato i magistrati di Taranto che indagano per disastro ambientale, dall'altro il governo e il parlamento che con la legge hanno di fatto superato quel provvedimento per evitare il blocco dell'attività del siderurgico. Per la Corte Costituzionale sono in parte inammissibili, in parte infondate le questioni di legittimità sollevate. Secondo il Tribunale, la norma con i suoi tre articoli ne viola cinque della Costituzione. Il gip Todisco, invece, ha rilevato elementi per sostenere la violazione di ben diciassette articoli della carta costituzionale. Profili di incostituzionalità - tra cui quello sul diritto alla salute e quello sull'indipendenza della Magistratura - che però non hanno retto al vaglio della Consulta, per la quale lo stabilimento tarantino può proseguire l'attività produttiva e la commercializzazione dei prodotti nonostante i provvedimenti di sequestro disposti dall'autorità giudiziaria. Una puntualizzazione di diritto al fine di spiegare l’eventuale scontato esito della denuncia a Potenza. Il diritto non prevede l’istituto dell’insabbiamento: o rinvio a giudizio per i denunciati o procedimento per calunnia contro Ferrante e Buffo. Chiaro no?!? Sono passati giorni da quando (11 novembre 2010) un magistrato della Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio è stato rinchiuso in casa agli arresti domiciliari dai Magistrati del Tribunale di Potenza. Magistrati denunciati proprio da Di Giorgio. Premettiamo che a marzo 2010 il Magistrato Matteo Di Giorgio aveva denunciato sia il Magistrato della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi (M.D.) sia l'ex maresciallo Leonardo D’Artizio alla Procura della Repubblica di Catanzaro per abusi nelle indagini contro di lui. In pratica la dott.sa Laura Triassi si serviva per le indagini contro il collega Matteo Di Giorgio del Maresciallo Leonardo D’Artizio, sottoufficiale dell’arma non più in servizio in quanto espulso dall’Arma perché imputato di maltrattamenti e di altri gravi reati, dai quali era scaturito anche un suicidio di un carabiniere, suo subalterno. La denuncia di Di Giorgio contro la dott.sa Laura Triassi e il maresciallo Leonardo D’Artizio provocò la reazione irata dei magistrati di Magistratura democratica, i quali intimarono a Di Giorgio di chiedere lui stesso il trasferimento presso la Procura della Repubblica di Pescara, dove c’era un posto libero, pena spiacevoli conseguenze per lui. Conseguenze che poi si sono puntualmente verificate. C’è una cittadina in provincia di Taranto di 17.000 anime che si chiama Castellaneta, in cui risiedono un parlamentare del P.D Rocco Loreto ed un magistrato della locale Procura della Repubblica di Taranto Matteo Di Giorgio, i cui parenti militano politicamente nell’area di centro-destra. Nell'anno 2000 infatti il parlamentare del P.D. dopo aver perso le elezioni comunali a Castellaneta, inoltra contro il Magistrato Matteo Di Giorgio ben tre denunce penali una di fila all’altra: 6 aprile 2000, 31 maggio 2000 e 2 giugno 2000. Le denunce però vengono dirottate a Potenza (sede competente a giudicare dei reati in cui è parte lesa un Magistrato che esercita le sue funzioni nel distretto di Taranto) e - fatto imprevisto - pervengono nelle mani di John Woodkock. Woodckock non è un Magistrato condizionabile, indaga da par suo e scopre che nel 2001 il parlamentare aveva contattato un imprenditore tal Francesco Maiorino, testimone nel processo affinché calcasse la mano su Di Giorgio e lo accusasse di fatti non veri per ipotizzare una sua possibile corruzione giudiziaria. Di fronte a fatti di questa gravità Woodckock arresta il parlamentare. Però, nonostante Woodckock, il processo per calunnia va avanti molto a rilento. Ancora nell’anno di grazia 2010 per fatti che risalgono nientedimeno che al 2001, non si è ancora concluso nemmeno il giudizio di primo grado. L'11 settembre 2009 interviene una novità. Woodckock si trasferisce a Napoli e nel Tribunale di Potenza si rafforza la presenza di M.D. Per Di Giorgio inizia presso il Tribunale di Potenza un autentico calvario. Altre denunce partano dalla penna del senatore del P.D. e l’11 novembre 2010 le parti si invertono. Di Giorgio rimane parte lesa di delitto di calunnia, ma diventa imputato di concussione in un altro processo che ha origine dalle denunce di cittadini di Castellaneta chiaramente di sinistra e viene posto lui questa volta agli arresti domiciliari. Si arriva così all’assurdo che nel processo per calunnia ancora in corso Di Giorgio magistrato e parte lesa dovrebbe comparire in catene e il parlamentare imputato di calunnia contro di lui, potrebbe irriderlo dal banco degli imputati. Uno scarno comunicato dei magistrati del Tribunale di Taranto colleghi di Matteo Di Giorgio all’indomani dell’emissione del mandato di cattura contro Di Giorgio (12 novembre 2010) esprime fiducia nell’operato dei giudici di Potenza e auspica però che la vicenda si chiarisca al più presto (ergo che in pochi giorni il collega Di Giorgio sia liberato). In un paese in cui i magistrati fanno interviste e pubblicano libri parlando delle loro inchieste ancora aperte, può sembrare surreale: eppure mercoledì 20 febbraio 2013 il Consiglio Superiore della Magistratura ha punito Clementina Forleo, giudice a Milano, negandole gli avanzamenti di carriera cui avrebbe avuto diritto non solo per anzianità ma anche per le valutazioni sulla sua professionalità («eccellente») fornite dal consiglio giudiziario di Milano e acquisite nel suo fascicolo. La colpa della Forleo è essere andata anni fa in televisione, ad Annozero, denunciando le pressioni dei «poteri forti» sull'inchiesta Bnl-Unipol, ovvero sulla scalata della assicurazione «rossa» alla Banca Nazionale del Lavoro. E l'inizio dei guai della Forleo iniziò quando chiese al Parlamento di poter trascrivere le intercettazioni delle telefonate di Massimo D'Alema e del suo compagno di partito Nicola La Torre, definendoli «complici consapevoli del disegno criminoso». La storia – si diceva una volta – è fatta di corsi e ricorsi storici. Con ciò si voleva dire che la storia è composta di vicende analoghe che di volta in volta nel tempo si ripetono. Quindi è presumibile che Clementina Forleo sia stata massacrata da una azione congiunta che ha visto convergere magistrati dalemiani di M.D. e magistrati finiani di M.I. Tra questi ultimi c’è anche quell’Alberto Santacaterina all’epoca Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Brindisi, affiliato a M.I., la corrente di destra delle toghe che fa capo a Gianfranco Fini, il quale in pratica si è clamorosamente e apertamente rifiutato di espletare indagini sulle minacce e sugli attentati subiti dalla famiglia della Forleo, non ultimo la morte dei genitori preannunciata da una lettera anonima (“i tuoi genitori moriranno e poi morirai anche tu“;) e puntualmente verificatasi venti giorni dopo a seguito di uno “strano” incidente stradale. Alberto Santacaterina finì sotto processo per questo motivo, fu a un passo dall’essere sottoposto a mandato di cattura da parte di un valoroso magistrato della Procura della Repubblica di Potenza F. Esposito per associazione a delinquere, falso, omissioni di atti d’ufficio, abuso in atti d’ufficio e altri reati. Poi, a seguito di un altro strano incidente stradale il giudice F. Esposito precipitò in una scarpata. Stette lì lì per morire, dovette abbandonare l’inchiesta che passò – provvidenzialmente per Santacaterina – nelle mani di un Magistarto di M.D. Cristina Correlae e tutto si sistemò. In seguito Alberto Santacaterina si troverà in premio a fare il Sostituto Procuratore distrettuale anti-mafia presso la Procura della Repubblica di Lecce. Alcuni Magistrati della stessa Procura della Repubblica di Lecce vorrebbero incriminare i valorosi magistrati della Procura della Repubblica di Bari Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sulla base di una denuncia del magistrato sempre di Bari e di M.D. Giuseppe Scelsi. I Magistrati Antonio Laudati, Ciro Angelillis e Eugenia Pentassuglia sono i magistrati i quali, meritoriamente, hanno scoperchiato il pentolone puteolento della malasanità pugliese. Anche i magistrati del Tribunale di Taranto si son visti recapitare un messaggio inquietante attraverso l’arresto disposto dal magistrato di MD della Procura della Repubblica di Potenza Laura Triassi del loro valoroso collega Matteo Di Giorgio già delegato su Taranto per le indagini anti-mafia dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce diretta dal valoroso magistrato Cataldo Motta. Il mandato di cattura è stato poi in gran parte annullato dalla Cassazione ma al dott. Matteo di Giorgio continua a essere imposta la misura del soggiorno obbligato e la sospensione dal servizio e dallo stipendio che dura ormai da anni. Per aver pubblicato sul mio sito web le vicende attinenti il caso di Clementina Forleo, la Procura, il GIP ed il Tribunale di Brindisi, prima, e la Procura, il GIP ed il Tribunale di Taranto, poi, hanno pensato di incriminarmi per violazione della Privacy e di oscurare l’intero sito di centinaia di pagine, con vicende estranee a quelle oggetto di processo. Ma “un giudice a Berlino” ha rimesso le cose a posto, pronunciando l’assoluzione perché il fatto non sussiste. In questo processo, ossia nel processo per il delitto di Sarah Scazzi, quel che salta agli occhi di chi ha anche poca dimestichezza con le cose di giustizia e che palesemente si evidenzia è la incoerenza assoluta del pensiero dei magistrati. I moventi del delitto secondo l’accusa: gelosia per Ivano, anzi, no; lesione dell’onore e della reputazione familiare, anzi, no; gelosia tra sorelle. Uno vale l’altro, c’è solo l’imbarazzo della scelta. La ricostruzione del delitto secondo la procura avallata dal Gip di Taranto, in base alle motivazioni delle custodie cautelari di Pompeo Carriere e Martino Rosati: 6 ottobre 2010, Michele Misseri confessa ai carabinieri, in un interrogatorio a Taranto, di aver ucciso Sarah, strangolandola nel garage di casa dopo un rifiuto alle sue avances, e di aver abusato del cadavere in campagna. Nella notte fa ritrovare il corpo, gettato in un pozzo-cisterna, anzi, no; Sabrina (d’accordo con il padre che uccide Sarah) ha trascinato con forza nel garage la cugina Sarah con il proposito di darle una lezione, al fine di evitare che la ragazzina potesse diffondere in paese la notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a conoscenza, anzi no; l’omicidio è stato commesso esclusivamente da Sabrina, in garage, fra le 14.28.26 e le 14.35.37, anzi no; l’omicidio è stato commesso dalla sola Sabrina, in garage, prima delle ore 14.20, anzi, no; l’omicidio è stato commesso da Sabrina, in concorso con la madre, e non più in garage, ma in casa. Inoltre, i difensori degli imputati hanno lamentato di essersi trovati di fronte a una memoria di 599 pagine depositata dal pubblico ministero che, al contrario di quanto era stato assicurato, non sarebbe una mera riproduzione della requisitoria pronunciata in aula, ma conterrebbe alcuni fatti nuovi, che stravolgerebbero la stessa e presenterebbe delle contraddizioni. Quando si pensa che in un dato ufficio giudiziario giudicante vi possa essere il dubbio che il giudizio possa esser influenzato da fattori esterni al processo, la legge dà la possibilità al cittadino di presentare alla Corte di Cassazione il ricorso per rimessione in altro luogo del processo per legittimo sospetto che il giudizio non sia sereno. E’ il ricorso per legittima suspicione. Questo ricorso è stato presentato da Franco Coppi, e non poteva essere proposto se non da un avvocato estraneo al Foro di Taranto anche per ragioni di opportunità, oltre che di coraggio, così come è stato da me presentato per le mie vicissitudini ritorsive, proprio perché, io parlando senza peli sulla lingua sono molesto ai magistrati di Taranto che, da me criticati, pretendono di giudicarmi per quello che scrivo. Purtroppo la Corte di Cassazione mai ha accolto un ricorso del genere, disapplicando di fatto una legge dello Stato per tutelare i loro colleghi magistrati, a scapito della vita di un presunto innocente, dichiarato erroneamente colpevole. Condannate, in primo grado, all’ergastolo Sabrina Misseri e sua madre Cosima Serrano per l’omicidio di Sarah Scazzi. La Corte di Assise di Taranto ha disposto anche l’isolamento diurno di 6 mesi in carcere per entrambe. 8 anni a Michele Misseri per concorso nella soppressione del cadavere della nipote e per furto aggravato del telefonino della vittima. Condannati a 6 anni Carmine Misseri e Cosimo Cosma, fratello di Michele Misseri il primo e nipote il secondo, per concorso in soppressione di cadavere. 2 anni a Vito Russo, ex avvocato di Sabrina, condannato per intralcio alla giustizia. 1 anno a Antonio Colazzo e Cosima Prudenzano e 1 anno e 4 mesi a Giuseppe Nigro, tutti testimoni del processo condannati per falsa testimonianza, con pena sospesa. La Corte di assise di Taranto ha condannato anche Michele Misseri, Cosima Serrano e Sabrina Misseri al risarcimento dei danni, da stabilire in separata sede, alla famiglia Scazzi e al Comune di Avetrana. Nello stesso tempo ha stabilito una provvisionale di 50mila euro ciascuno ai genitori di Sarah, Giacomo Scazzi e Concetta Serrano, e di 30mila euro per il fratello Claudio. La sentenza è stata letta in aula dalla presidente Rina Trunfio che ha dovuto chiedere a forza il silenzio per fermare l’applauso spontaneo dei presenti in aula alla lettura della sentenza. Durissima la reazione alla sentenza della madre di Sarah Scazzi, Concetta Serrano Spagnolo: “chi uccide merita questo”. Le posizioni dei testimoni che non hanno testimoniato a favore dell’accusa saranno vagliate dallo stesso ufficio della procura. Come volevasi dimostrare e come già ampiamente anticipato a tutta la stampa e ad “Affari Italiani” del 15 novembre 2011 «posso profetizzare la condanna per gli imputati, in 1° e 2° grado, con assoluzione in Cassazione». D’altronde lo stesso Franco De Jaco, difensore di Cosima Serrano, aveva avvertito lo stesso sentore. «Perché qui commetterete un altro omicidio, oltre quello perpetrato in danno di una povera ragazzina. E un altro omicidio è quello di mettere in galera, all’ergastolo due innocenti, una giovanissima peraltro. E’ un altro omicidio. E’ inutile per la difesa arrampicarsi sugli specchi perché tanto la Corte, attenzione, non la gente, la Corte ha già la sentenza, ha già deciso. Quando io sento queste cose mi sento mortificato come cittadino, pur sapendo che ciò non è vero. Però quando viene trasferito questo segnale, quando viene trasferito questo pensiero, noi generiamo nella gente quello che sta avvenendo: la rivolta. Non la rivolta verso la politica; la rivolta verso le istituzioni.»
Per quanto preannunciato a tutta la stampa ed ad “Oggi” il 16 febbraio 2012, senza intenti diffamatori ho chiesto agli avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è possibile che a presiedere la Corte d’Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex colleghi oggi facenti parte dell’attuale collegio accusatore nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale. Ma avvisaglie ci erano già state. Non devono essere piaciute le risposte della testimone Liala Nigro alla giudice popolare. Troppo a favore di Sabrina Misseri? Certamente quella frase sfuggita ad alta voce e detta all’orecchio della sua collega di giuria popolare non è sembrata opportuna alla difesa, tanto che l’avvocato Nicola Marseglia ha fatto presente il fatto alla presidente Rina Trunfio chiedendo l’astensione della signora. E dopo una breve riunione la giudice ha letto la sua astensione «per motivi personali». Sarà!, commenta Maria Corbi, giornalista de “La Stampa”. E il fatto che la giudice si sia astenuta certo fa pensare. E che dire dei giudizi espressi dai giudici togati. Tutto tranquillo se non foss’altro che un fuorionda tra i giudici irrompe nel processo. Presidente Trunfio: «certo vorrei sapere, là, le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati… tra di loro e se si daranno l’uno addosso all’altro.» Giudice latere Misserini: «ah, sicuramente.» Presidente Trunfio: «bisogna un po’ vedere, no, come imposteranno… potrebbe essere mors tua via mea. Non è che negheranno in radice.» Il fuori onda semina imbarazzo al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. Nelle mani della difesa è finito un dialogo, in aula, tra il giudice Rina Trunfio, presidente della Corte di Assise, e il giudice a latere Fulvia Misserini. Le due discutono delle imputate, Sabrina Misseri e sua madre Cosima, che potrebbero, secondo le supposizioni dei giudici - sembra dalla conversazione - optare per una strategia incrociata nella difesa che le porterebbe ad accusarsi a vicenda, La conversazione è stata catturata dai microfoni delle telecamere autorizzate a riprendere il dibattimento. In particolare la frase che ha colpito gli avvocati è quella dove il presidente della corte d’assise, il giudice Cesarina Trunfio, dice: “(Non è che) negheranno in radice”. «Si evince che hanno già una ben definita opinione che non rinviene necessariamente da una valutazione attenta degli atti ma da un'idea precostituita». Spiega l'avvocato Franco De Jaco. Il professor Franco Coppi parte da solo all’attacco, e non poteva esser altrimenti, e viene seguito soltanto da un componente del collegio difensivo, Franco De Jaco, legale di Cosima, nella formulazione della richiesta di astensione dei giudici della Corte d’Assise. Ed è sulle iniziative da adottare dopo il fuorionda che si spacca l’ampio collegio difensivo. Uno degli avvocati di Cosima, Luigi Rella, dimissionario presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce, va via in netto anticipo rispetto alla fine dell’udienza. Marseglia nel corso del suo intervento spara a zero sugli inquirenti e sulla conduzione dell’inchiesta. «Vi stanno proponendo un errore giudiziario sulla base di prove acquisite in modo barbaro, in perfetto stile cubano. Sulla base di elementi forniti da testimoni che sostengono una giusta causa perché è una giusta causa, sono i metodi per sostenerla che non sono giusti, che fanno indignare e impegnano la difesa fino allo spasimo perché questo modello procedimentale, prima che processuale, non deve passare, perché questa inchiesta è stata condotta in maniera intollerabile in quanto ad acquisizione della prova. Un enorme errore giudiziario costruito su prove acquisite nel corso di deposizioni in cui gli inquirenti hanno usato metodo sbagliato che la legge vieta ». Ciò nonostante Marseglia lascia da solo il professore nell’iniziativa contro l’assise giudicante. «Non posso che invitarvi a valutare la possibilità e il dovere di astenervi», ha chiesto senza mezzi termini ai giudici. «Domani – ha aggiunto Coppi – siamo disposti a riprendere il cammino se ci verrà restituita quella serenità che in questo momento mi è stata tolta. Un difensore – spiega Coppi – non può non rappresentare ai giudici le sue perplessità e le sue preoccupazioni, il giudice ha diritto alla sua serenità ma anche il difensore ha diritto alla serenità di parlare con un giudice terzo, imparziale, che fino all’ultimo momento è disposto ad ascoltare le ragioni dell’accusa e della difesa. Con quale spirito continuiamo ad affrontare al processo? Vi chiediamo una dichiarazione che vi rassereni ma che ci chiarisca il senso di quelle frasi che suscitano preoccupazione. Ci aspettiamo dalla corte un chiarimento che ci restituisca serenità salvo decisioni diverse che potete assumere. Chiediamo che i giudici togati valutino la possibilità di astenersi». Coppi non ha gradito una frase relative a possibili strategie difensive in cui «si fa riferimento ad accordi fra i difensori, c’è cordialità ma non accordi». La presidente Trunfio, da parte sua, visibilmente contrariata, ha alzato le spalle dicendo che non dipendeva da lei tale decisione facendo così intendere di essere disposta al rischio di una ricusazione la cui ultima parola spetta, in questo caso, alla Corte d’appello del Tribunale. Medesima richiesta di astensione è stata fatta subito dopo dall’avvocato De Jaco mentre il suo collega del collegio difensivo, Luigi Rella, aveva lasciato inaspettatamente l’aula. Alla richiesta di astensione formulata dal professore si associa soltanto un componente del collegio difensivo. Ampio collegio, composto dai tantissimi avvocati, più del numero richiesto rispetto ai molti imputati. Avvocati locali, tra cui Lorenzo Bullo, difensore di Carmine Misseri e già praticante avvocato di Nicola Marseglia, di cui ha assunto il modus operandi. Franco De Jaco: «Sono frasi che ci hanno messo in allarme. E’ normale per noi che due colleghi si scambino delle opinioni ma quello che ci preoccupa è l’ultima frase, “non possono negare in radice i fatti”. Diamo la patente di buona fede a quelle dichiarazioni, non ci sono dubbi di nessun genere. Domani se noi la rivedremo qui e saremo rasserenati». Le affermazioni, che De Jaco definisce «imprudenti», anche per il difensore evidenzierebbero «una opinione già precostituita». «Non posso far finta di niente di fronte a certe affermazioni». Imbarazzante, infine, la posizione di Marseglia il quale è stato colto di sorpresa dalla mossa del professore. Da segnalare l’evidente scollamento del collegio difensivo di Sabrina Misseri. «Il mio intervento è a titolo individuale perchè non ho avuto modo e tempo di potermi consultare con l’avvocato Marseglia impegnato nella fatica della sua discussione», ha voluto precisare Coppi mentre il suo collega Marseglia dopo 7 ore di arringa lasciava il tribunale inseguito dai giornalisti ai quali ha confermato di essere all’oscuro di tutto. «Se le cose stanno come mi dite – ha poi dichiarato riferendosi al fuori onda galeotto – spero domani di sentire le spiegazioni della presidente Trunfio e di poter andare avanti con la mia arringa che è ancora impegnativa». Ma nessun avvocato del foro si associa. Solitamente sono i legali a lamentare il condizionamento ambientale dei magistrati presentando richiesta di rimessione. Evidentemente il condizionamento ambientale non vale soltanto per i magistrati. Da pensare è il fatto che un avvocato che si mette contro i giudici può rischiare di non esercitare più la professione forense (procedimenti penali pretestuosi o procedimenti disciplinari fittizi), ovvero rischia di perdere tutte le cause, ovvero rischia che i suoi protetti non passino l’esame di avvocato con i magistrati criticati nelle commissioni d’esame. Chi lo dice? Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Questo deve far riflettere i profani del diritto. Riflessione generale sul mondo forense italico. A chiacchiere son tutti bravi. I veri avvocati si distinguono dagli “azzeccagarbugli” succubi del potere di manzoniana memoria, proprio nell’adozione di certi atti. Ma come disse don Abbondio “se il coraggio uno non ce l’ha, non se lo può dare”. Appunto e proprio per questo a Franco Coppi va il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof.Coppi – è detto in una nota – è “per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato”'. Il riferimento è al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Peccato però che gli avvocati vili e ignavi continuano sì ad esercitare in combutta con i magistrati, ma intanto a pagarne le pene sono i loro clienti. Per esempio in questo caso si noterà chi è molte spanne sopra ai colleghi, presunti principi del Foro. Chi lo dice questo? Lo dice chi principe del foro lo è davvero. Franco Coppi: «Poi c’è chi ritiene di far finta di niente e chi ha il coraggio di dire alla giudice che in questo momento non si fida.» «La difesa non è spaccata. Il professor Coppi ha sempre la forza e il coraggio di assumere tutte le posizioni che deve assumere un avvocato comode o scomode che siano». Così risponde, suo malgrado, Nicola Marseglia, l’altro difensore, con Coppi, di Sabrina Misseri. Naturalmente i media stanno lì a limitare la portata della gravità delle affermazioni ed ad affannarsi ad accusare i legali di difesa di prendere la palla al balzo per bloccare un processo terminale. Esemplare è l’editoriale pro magistrati del direttore di studio 100 tv, emittente tarantina e notoriamente vicina alla Procura di Taranto. « Insomma. Naturalmente tutti usano i mezzi possibili ed immaginabili per far vincere le proprie tesi. Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Avetrana:”Humus sociale e culturale che ha prodotto il delitto; ambiente malsano scandagliato dai magistrati tarantini”, dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, diffamando il paese di Sarah Scazzi e dei Misseri, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini. Sia mai che le imputate, ancora presunte innocenti, potessero uscire di galera. In seguito di ciò la Corte d’Assise di Taranto ha deciso di astenersi nel processo sull’omicidio di Sarah Scazzi trasmettendo gli atti al presidente del Tribunale dopo la diffusione del video con fuori onda tra presidente e giudice a latere. «Abbiamo chiesto ai giudici di valutare l’opportunità o meno di astenersi, abbiamo sollevato un problema come qualsiasi altro difensore degno di questo nome avrebbe fatto. I giudici hanno dato dimostrazione di scrupolo rimettendo la valutazione dell’astensione al presidente del tribunale. Non si tratta di ottenere o non ottenere qualcosa – ha aggiunto Coppi – non era un risultato al quale noi puntavamo. Abbiamo sollevato semplicemente un problema che ci sembrava non potesse non essere sollevato in relazione a delle frasi che erano state rese pubbliche. Ci atterremo alla decisione del presidente del tribunale. Chi dice che si tratta di un attacco strumentale alla Corte si deve vergognare di dirlo perchè io ero sceso a Taranto per discutere il processo. Ieri c'è stata questa sorpresa - ha aggiunto Coppi – e io, che ho insegnato sempre ai miei allievi che bisogna avere con la toga addosso di avere il coraggio di assumere tutte le iniziative che rientrano nell’interesse del cliente, ho fatto quello che la mia coscienza mi imponeva di fare. Non vado a cercare mezzucci, che me ne importa del rinvio di un giorno o di un mese in un processo dove si discute di ergastolo. Quindi chi dice queste cose è completamente fuori strada e dovrebbe anzi vergognarsi di dirle, se sono state dette.» Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note. Noi difensori non avremmo potuto fare nulla di diverso. Hanno detto che era un’ancora di salvezza insperata. Chi ha detto quelle cose offende quella toga che io indosso e che forse anche lui indossa. Nulla è stato fatto per rendere più difficile il cammino della giustizia. E da un mese che studiamo per l’arringa difensiva. Sono venuto a Taranto domenica scorsa con la voglia di discutere questo processo. Abbiamo appreso di questo scambio di battute, abbiamo fatto quello che tutti gli avvocati degni di questo nome avrebbero fatto. Ci siamo rimessi esplicitamente alla coscienza dei giudici, non c’era bisogno della ricusazione. Volevamo una risposta che ci acquietasse. …abbiamo parlato alle vostre coscienze…. Abbiamo messo in gioco la simpatia presso di voi, ma la toga impone iniziative di questo tipo. Noi dovevamo fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo avuto una risposta che viene dalle vostre coscienze e spero che la vicenda sia chiusa così. Se ci saranno altri seguiti non dipenderà da noi. Credo di essere ugualmente legittimato di porre a lei il mio saluto e la dimostrazione del mio ossequio insieme all’augurio che la sentenza che voi state per pronunciare sia quale il popolo attende, ossia solamente espressione di verità e di giustizia». «Dunque ergastolo parola tanto attesa da un’opinione imbevuta di messaggi televisivi. Questa parola è stata finalmente pronunciata, non un dubbio scuote il pm e di ciò noi non abbiamo nessun dubbio. Altrimenti la richiesta sarebbe stata diversa. Dice di essere sereno, caso mai condito con un po’ di amarezza. Non importa che Michele Misseri abbia ripetuto in questa aula di essere stato lui l’unico assassino. E questo non è sufficiente a far venire un ragionevole dubbio, nonostante la sentenze della Cassazione che sottolineano come una condanna oltre ogni ragionevole dubbio debba esserci solo quando non esiste una ipotesi alternativa. E non vediamo come si possa parlare di una tesi oltre ogni razionalità umana, quando Misseri ha confessato, ha fatto ritrovare i vestiti, il cellulare, il luogo di sepoltura. Come si può pensare che questa ipotesi sia al di la della razionalità umana? …. Non riusciamo a comprendere come l’ipotesi di Michele Misseri colpevole non sia dotata di razionalità pratica. Altrimenti seguendo il ragionamento del pm dobbiamo dire che la Cassazione è ininfluente. E dobbiamo ricordare che due volte la corte di Cassazione ha dichiarato fragile l’indizio del movente gelosia, e che non ci sono sufficienti gravi indizi a carico di Sabrina. Ma questo non ha nessuna importanza per i pm. Anzi hanno la massima serenità nel chiedere la condanna all’ergastolo per questa ragazza. Un’accusa cieca che non si rende conto delle contraddizioni delle accuse con cui chiede la condanna al’ergastolo. Ha detto o non ha detto che è stato un movente d’impeto? E per questo si chiede l’ergastolo. E’ vero che viene contestato il sequestro in cui assorbe l’omicidio. Ma questo è il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi, non di sequestro. E l’omicidio è delineato come animato da un dolo d’impeto. Nonostante tutto ciò: ergastolo. Dico questo per sottolineare alcuni aspetti dell’intervento del pm, per spiegare poi tutto l’apparato critico che intendo dispiegare per dimostrare l’infondatezza dell’impostazione del pm. Ma iniziamo con il dire che la richiesta del pm coincide con una larghissima attesa dell’opinione pubblica. Nego che il pm abbia voluto compiacere all’opinione pubblica, ma certamente c’è una corrispondenza. E una corrispondenza con le sentenze emesse nei vari salotti televisivi. Non è detto che la vox populi sia anche una vox dei. Io ricordo l’ammonizione del presidente di questa corte che ci ha avvertito che a loro interessa solo quello che accade in questa aula». Il professor Coppi parla anche di conduttori, consulenti, qualche magistrato che vanno in televisione «che senza conoscere gli atti di questo processo hanno pontificato con quella sciocca sicumera che è figlia dell’ignoranza». «Abbiamo visto anche testimoni che hanno applaudito quando Cosima è stata arrestata. Voi dovreste essere solo i notai di queste sentenza di condanna popolare. Quest’aula, anche se non ha la responsabilità di quello che accade fuori di essa, ha comunque assorbito il fastidio e l’astio nei confronti dei difensori degli avvocati di Sabrina Misseri. Non abbiamo nessuna intenzione di trasformare questa discussione in una questione personale, lasciamo perdere gli insulti di cui siamo stati oggetti. Lasciamo stare le minacce. Che ci lasciano del tutto indifferenti. Lasciamo perdere tutte le sfide, tutti i paragoni, le domande impudenti volte a sapere chi è che ha retribuito la nostra attività. E quale sarebbe il tornaconto che a noi verrebbe? A tutti ricordo che io sono un vecchio avvocato innamorato della giustizia e mi sia concesso di ripetere a voce alta: solo questo m’arde e solo questo mi innamora. Sono qui soltanto per spirito di giustizia. Non accuserei mai di un omicidio Misseri sapendo che è colpevole la mia cliente. Se posso far passare sotto silenzio le offese che riguardano la mia persona non posso far passare le offese sul merito di questa causa». «Una barzelletta è stata definita la nostra ipotesi del movente sessuale. Vedremo se questa tesi è una barzelletta. Certo non posso negare che quel giudizio non sia anche una sorprendente offesa nei confronti della mia persona. Ne parleremo a lungo della responsabilità esclusiva di Michele Misseri. Il pm dice che hanno dovuto subire una istanza di remissione, come se questo costituisse un offesa. Ma vi siete chiesti signori del pm cosa abbiamo dovuto subire noi difensori? Vi siete chiesti perché l’abbiamo chiesta? Vogliamo ricordare i motivi di quella remissione? Ma vi rendete conto che quando noi abbiamo inteso svolgere investigazioni difensive, anche solo per andare in carcere a sentire Michele Misseri, che il giudice ha imposto la presenza del procuratore della Repubblica a una attività difensiva? C’è tutta l’Italia che ride. E non dovevamo proporre un’istanza di remissione? E vi siete chiesti perché la procura generale ha espresso parere favorevole alla remissione? E vogliamo ricordare le modalità con cui si è proceduto all’interrogatorio di Michele Misseri? “Ma Michele stai tranquillo, a Sabrina non succederà niente”. Vogliamo ricordare l’incidente del giudice popolare che si è dovuto dimettere? (per avere offeso una testimone della difesa). Vogliamo ricordare la lista dei testi messi sotto processo per falsa testimonianza e favoreggiamento? Non si può dire una parola a favore di Sabrina Misseri senza finire sotto processo. Vogliamo ricordare la nomina di una consulente di Michele Misseri che data la sua specializzazione non capiamo a cosa servisse, che addirittura partecipa all’interrogatorio, che sposta il difensore per procedere lei stessa a fare domande? Anche perché questa consulente si era già pronunciata dicendo che Michele era un pedofilo, l’unico responsabile del delitto. Aveva già conquistata la ribalta televisiva accusando il suo futuro cliente. Una nomina che mi porta a pensare all’articolo 64 secondo comma, all’articolo 188 … Io mi sono dovuto ben guardare di svolgere qualche attività non per paura ma per l’interesse della mia cliente. Noi abbiamo una sola speranza e per questo abbiamo valutato l’astensione. Noi vogliamo avere la fiducia che voi signori giudice saprete allontanarvi dalle suggestioni che vengono da fuori ma anche da dentro questa aula riconoscendo le ragioni della difesa. Le nostre ragioni sono basate sui fatti non alla fantasia e attingono alla logica e al buon senso. Manzoni diceva «Il buon senso c’è, ma è nascosto dal senso comune». Noi dobbiamo guardare agli atti sostituendo al senso comune il buon senso. Uno scrittore americano ha scritto che esistono quattro categorie di giudici quelli con il cuore ma senza testa, quelli con la testa ma senza cuore, quelli senza cuore e senza testa e quelli con il cuore e con la testa. Noi siamo convinti di parlare a giudici che fanno parte di quest’ultima categoria e testa e cuore significa coscienze e cuore di un giudice che ha la forza di sconfessare i pm e di assolvere un imputato per cui è stata chiesta la pena dell’ergastolo. Tutti i nostri testimoni sono sotto processo per falsa testimonianza. Brandelli di verità che sono importanti per noi. Va punita Sarah, e la prima idea che gli viene in mente per spiegare perché Sabrina porta Sarah in garage (una delle versioni di accusa) è proprio questa. Quale valore possono avere le sue dichiarazioni dopo tante versioni? La ritrattazione della ritrattazione? Potremmo dire che una ritrattazione annulla l’altra e si deve tornare alla confessione. Ma abbiamo ben altri argomenti. Iniziamo a chiederci il valore della confessione. Come si può definire prima di riscontri la sua confessione? Visto che ha fatto ritrovare telefonino, corpo, chiavi. La confessione è comunque una prova che non esige riscontri, come stabilisce la Cassazione. Non ha bisogno di riscontri esterni. Ma quanti ergastoli sono stati dati con una semplice confessione. Michele Misseri il 6 ottobre è ascoltato come persona informata sui fatti. I pm a quel punto hanno già sospetti su Sabrina, l’hanno già ascoltata il 30 e le hanno detto che sta dicendo delle falsità pazzesche. Questo è l’atteggiamento dei pm come risulta dall’interrogatorio del 30 settembre. I pm maturano l’idea che Sabrina sappia, che sia addirittura coinvolta bell’omicidio, Ma quel 6 ottobre Misseri inizia a cadere in qualche contraddizione, sugli orari, sulla raccolta dei fagiolini. E lo incitano a dire la verità. E il pm inizia a insinuare l’idea che possa essere capitato un incidente, una disgrazia. «Si liberi un po’, ci faccia capire». La confessione spiazza i pm, bisogna nominare un difensore d’ufficio, ma la pista Sabrina non viene eliminata. E i pm non hanno la capacità di eliminare una pista a cui si erano affezionati. E iniziano gli interrogatori. Michele prima coinvolge la figlia come spettatrice (papà cosa hai fatta) , poi c’è la chiamata in correità e infine la chiamata in reità. Mi chiedo se non si siano state tecniche persuasive che hanno vincolato la libera determinazione di Michele Misseri, che non aveva la forza di resistere alle domande di un pubblico inquisitore. E’ singolare, come i mutamenti di versione avvengono quasi sempre dopo una sospensione di un interrogatorio e dopo una serie di rassicurazioni e di inviti su Sabrina. «Questo per scagionare Sabrina, Miché, stai tranquillo….». Anche Nicola Marseglia per Sabrina Misseri, nonostante il suo smisurato rispetto per i magistrati tarantini afferma che «Questo è un processo particolare, abbastanza atipico. E' il processo di Sabrina Misseri, a Sabrina Misseri. E' stato così sin dal primo momento. Il capitano Nicola Abbasciano, ex comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri, che fu posto al vertice delle indagini, l'aveva individuata fin dal primo momento insieme a Ivano Russo – dice l'avvocato Nicola Marseglia - Si coltiva questa ipotesi di lavoro dall'inizio. La confessione di Michele Misseri - ha aggiunto Marseglia - ha spiazzato l'ufficio del pubblico ministero e ha introdotto un elemento spurio di ipotesi di lavoro a cui non aveva pensato nessuno. Da qui nasce l'equivoco nei confronti di Sabrina, che subisce una serie di aggiustamenti nel corso delle indagini che non conoscono alternative.» Questo la dice tutta sul clima che si respira a Taranto e sulla conduzione dei processi. A Taranto poi, c’è il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere. A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è considerata una prova regina! Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi. Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. Altra vergogna, altro precedente. 15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile. Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la Corte d’Appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti. Altro precedente: non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Pedone, meccanico di 51 anni, da innocente ha trascorso quasi otto anni in cella prima di intravedere bagliori di giustizia. Ma gli elementi che hanno portato all’affermazione della sua innocenza e di altri tre imputati erano già parzialmente emersi nel corso del processo madre. «E’ certo - ha detto l’avvocato Petrone - che qualcuno sapeva di quanto avvenuto durante le indagini». Ora per gli innocenti si apre un lungo iter processuale per ottenere il risarcimento per ingiusta detenzione. Carlo Petrone è l’avvocato di Dora Chiloiro nel processo sul delitto di Sarah Scazzi, accusata anch’essa di falsa testimonianza.»
Come si è comportata la stampa e la televisione in questa vicenda che ha colpito, sì, la famiglia Scazzi e Misseri, ma anche tutta la comunità avetranese?
«Anche Hollywood fa la sua comparsa nel processo Scazzi. L’accurata arringa dell’avv. Franco De Jaco affida al potere delle immagini di un film in bianco e nero del 1957 il destino della sua assistita. La pellicola diretta da Sidney Lumet, intitolato “Parola ai giurati” e magistralmente interpretato da un superbo Henry Fonda, racconta l’accorata difesa di un ragazzo di diciotto anni accusato di aver ucciso il padre che lo picchiava. Nella pellicola, rivolgendosi ai giurati, riuniti in Camera di Consiglio, spetta all’avvocato del giovane dimostrare che non ci può essere una condanna quando sussista quel “ragionevole dubbio” di fronte al quale è impossibile emettere un verdetto di colpevolezza. “Avetrana non è Hollywood”. L’assedio di media e curiosi. «Non è Hollywood» c’è scritto su un muretto di mattoni che si trova a poca distanza dall’abitazione della famiglia Misseri, dove è stata uccisa, il 26 agosto 2010, Sarah Scazzi. Il messaggio è indirizzato alle numerose troupes televisive e di ‘fly’ (furgoni con le antenne paraboliche montate sul tetto) che presidiano da giorni l’abitazione in cui vivono la mamma e la sorella di Sabrina Misseri. Proprio davanti alla villetta di via Grazia Deledda vanno in onda, in diretta, diversi collegamenti televisivi e si montano ogni giorno i servizi per i telegiornali e gli speciali tv. Già Valentina Misseri aveva urlato in più occasione contro i giornalisti. La sorella di Cosima, Emma,per sfuggire all’assalto dei giornalisti ha colpito con uno schiaffo al volto un operatore tv; contro gli altri ha urlato: «Andate via, che c’entriamo noi!». E continuano anche i pellegrinaggi dei “turisti dell’orrore”: alcune famiglie arrivate dal Foggiano per visitare i luoghi in cui ha vissuto, è morta e ora riposa Sarah. Ma la storia si ripete. A Newtown come Avetrana. Tutto il mondo dei media è paese. La città della strage in Usa è assalita da orde di cronisti e camion tv. Almeno 27 morti, tra cui 20 bambini, tra i 5 e i 10 anni, sono stati falciati il 14 dicembre 2012 da un giovane con problemi mentali, Adam Lanza, poco più che ventenne. Dopo la sparatoria, non c’è tempo per il dolore. La piccola città è letteralmente invasa dai media e dai giornalisti. A denunciare tutto il racconto di un cronista della BBC, Johnny Dymond. “E ‘insopportabile. Che cosa vogliono tutti? Sono quattro o cinque famiglie che hanno perso i bambini ed è troppo per loro, con tutti i media qui. Che cosa cerchi?” gli racconta nella hall dell’albergo dove dorme, uno degli abitanti, infastidito dalla troppa attenzione. Il villaggio della scuola di Sandy Hook, è cambiato. Tra camion, microfoni e crocevia di persone, le stradine non sono più le stesse. E poi Casa Grillo come ad Avetrana. Dal giorno della certificazione del successo del Movimento 5 Stelle alle politiche 2013 , una schiera di giornalisti e fotografi stanzia di fronte alla casa di Beppe Grillo. Accampati in attesa, nella speranza di una dichiarazione o di un’immagine dell’inafferrabile leader mentre scorrono, nei tg, le immagini del cancello che si apre e da cui esce, quando va bene, un’auto. Un modus operandi, un modo di fare giornalismo e di raccontare le cose che ricorda da molto vicino le più recenti pagine di cronaca del nostro Paese, con i cronisti accampati di fronte alla casa dell’assassino o della vittima di turno. E un modello che, quando Beppe Grillo non è in casa, come in occasione della trasferta romana per l’incontro e la catechizzazione dei neo eletti, si ripete puntuale fuori dall’hotel dove il leader grillino è atteso. Un corto circuito informativo in cui i fotografi vengono fotografati, in cui i leader non dichiarano e i giornalisti non comprendono che la loro attesa a microfono spianato della dichiarazione sarà vana. E così il modello applicato è e rimane quello classico: il modello ‘Avetrana’, un modello inadeguato che genera persino dei paradossi. E’ il caso dei fotografi fotografati, i fotografi cioè che, appostati per catturare le immagini del primo conclave grillino, si sono ritrovati ad essere i soggetti degli scatti divertiti dei neoeletti che con i loro cellulari immortalavano il loro primo momento di notorietà. Come è diversa Brembate di Sopra. Il sindaco di Brembate Sopra, Diego Locatelli, dopo la richiesta di silenzio stampa avanzata dalla famiglia Gambirasio sulla scomparsa di Yara, è intervenuto sulla vicenda e attraverso un comunicato ha invitato “gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio di Brembate di Sopra”».
Dal punto di vista sociologico cosa ha dedotto dal comportamento dei media e dell’influenza che questi hanno sulla gente che li segue?
«Il delitto di Sarah Scazzi ha dato vita ad un fenomeno inspiegabile e mai avvenuto prima. La gente a casa partecipa ad un reality show e con il telecomando della tv decide chi è il colpevole. Quanto più le trasmissioni tv che si interessano al caso alzano il loro share adottando la linea giustizialista, tanto più quella trasmissione viene seguita dai telespettatori e tanto più si guadagna in pubblicità. Di conseguenza la trasmissione rincara la dose, concentrandosi sugli elementi, veri o artefatti, adducenti la colpevolezza del tapino di turno. Essere garantista in tv non paga e i giornali si adeguano. Lo hanno capito bene i magistrati aprendo un processo ed adottando le tesi accusatorie che più aggradano il pubblico.»
Da esperto giuridico: a punta di Diritto cosa ha da contestare?
«Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un processo con prove certe? No! E’ un processo con indizi precisi, gravi e concordanti, tali da formare una prova? No! E’ solo un processo alle intenzioni. Il processo per il delitto di Sarah Scazzi è un esempio. Questo è un PROCESSO INDIZIARIO. Ossia è un processo senza prove ma solo indizi, contrastanti e contestabili. Senza prove, nonostante vi siano innumerevoli intercettazioni ambientali, anche in carcere. Nulla traspare la prova regina. Mai vi sono state confessioni carpite, ma solo le confessioni genuine di Michele Misseri: la prima e l’ultima. Da parte della magistratura tarantina vi è solo l’esigenza di accontentare la bolgia popolina che chiede il sangue degli imputati e la dimostrazione che Avetrana è omertosa e collusa. Indotti a ciò da un giornalismo approssimativo ed ignorante, oltre che pregno di pregiudizi e luoghi comuni. A ben guardare con gli occhi imparziali la ricostruzione del delitto pare che sia più frutto di illazioni, supposizioni e congetture della Pubblica accusa, mal sostenute da prove oggettive. Tale ricostruzione è facilmente attaccabile dalla difesa degli imputati. Difesa composta da vecchi ed agguerriti volponi. Da quanto desunto e dalla mancanza della pistola fumante (prova certa) appare che le imputate (Cosima e Sabrina): o sono innocenti, o siano talmente brave, le imputate, da non lasciar alcuna traccia del loro delitto. Nessuna prova; nessuna confessione. D’altro canto colui che si professa colpevole, inascoltato, lui sì, avendo fatto trovare prima il cadavere e poi il cellulare, è solidamente riconducibile al delitto ed alla soppressione del cadavere. E non si pensi che Michele sia uno sprovveduto. Le sue comparsate in tv e le lettere e quant’altro fatto senza la presenza dei parenti induce a pensare che “Zio Michele” sa il fatto suo. Ogni sua azione non può essere frutto di induzione ed istigazione di moglie e figlia tenuto conto che esse marciscono in galera da anni e quindi nessuna possibilità di regia. Ossequiosi e servili, poi, sono state le parti civili. E non sono mancate i riporti ai luoghi comuni ed ai pregiudizi diffamatori alla comunità: “Delitto di mafia” ha sentenziato la difesa di Concetta Serrano; “Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona”. Così si è espresso con la sua arringa l’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! Pasquale Corleto del Foro di Lecce che in riferimento all’esame di avvocato ebbe a dire: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. Amara verità per chi come lui denuncia, sì, ma non fa niente per cambiare le cose e per chi come me, invece, porta avanti una battaglia ventennale che riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato”. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti. Non solo, pur avendo già segnalato ai precedenti Parlamenti, è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 10 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me, come presidente di una associazione antimafia, è stata impedita l’iscrizione del sodalizio per mancata costituzione dell’albo. Tornando al processo sono di tutt’altro tenore le difese degli imputati: “In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Tant’è che i pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima. Atti che arriveranno allo stesso ufficio della Procura che ne ha chiesto la trasmissione. Poi ci sono anche altri 3 avvocati, oltre a Vito Junior Russo, che, d'altronde, il 21 novembre 2011 sono stati assolti da Pompeo Carriere: Gianluca Mongelli accusato di tentato favoreggiamento personale insieme a Vito Russo. Per Emilia Velletri, ex difensore di Sabrina con il marito Vito Russo, le accuse di intralcio alla giustizia e di soppressione di atti veri. All’avv. Francesco De Cristofaro, del foro di Roma, ex legale di fiducia di Michele Misseri, la Procura contesta invece il reato di infedele patrocinio. Velletri, Mongelli e De Cristofaro sono stati giudicati e assolti con il rito abbreviato. La Procura ha chiesto un anno di reclusione per Emilia Velletri e Francesco De Cristofaro e sei mesi per Gianluca Mongelli. Non ci dimentichiamo poi che il processo ha altri tentacoli. Tra questi c'é quello che coinvolge Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che raccontò di aver visto, il 26 agosto 2010, Cosima intimare in strada a Sarah di salire in auto (dove c'era presumibilmente, per l'accusa, anche Sabrina), salvo poi riferire due giorni dopo che si era trattato di un sogno. C’è sua cognata Anna Scredo, moglie dell’imputato Antonio Colazzo, poi prosciolta dal Gup, c’è il suo amico Michele Galasso, c’è il funzionario di banca Angelo Milizia. E che dire della ex psicologa del carcere di Taranto Dora Chiloiro, citata come teste dalla difesa di Sabrina Misseri. La stessa, all’udienza del 10 dicembre 2012, ha dichiarato di essere stata "imprecisa" nell' udienza preliminare del 7 novembre 2011, quando riferì di aver avuto numerosi colloqui in carcere con Michele Misseri, di averlo sentito in carcere anche dopo l'incidente probatorio del 19 novembre e che Michele Misseri aveva detto di essere stato lui ad uccidere Sarah. Per questi motivi Chiloiro è stata già rinviata a giudizio per falsa testimonianza, avendo confermato le dichiarazioni dell'udienza preliminare anche nel processo dinanzi alla Corte di assise.»
Da esperto dell’informazione cosa ha da contestare?
«E la stampa cosa fa? E’ sadica e cinica. Da bollino rosso sono tg e approfondimenti giornalistici: il Comitato Media e Minori e L’Agcom hanno «bocciato» soprattutto servizi e dibattiti sui delitti con vittime minorenni: preoccupante lo stile usato nel trattare i casi di Sarah Scazzi, Yara Gambirasio ed Elisa Claps da Tg1 e Studio Aperto (sanzionati più volte); da censurare anche l’approccio di Chi l’ha visto? (Rai3) sull’omicidio Claps per le «immagini particolarmente impressionanti» o di Quarto grado (Rete4) per la «dettagliata galleria di casi criminosi». Il Comitato biasima la scelta di trattare crimini nella fascia protetta «spettacolarizzando la notizia» e «soffermandosi sugli aspetti più morbosi», come è accaduto nei contenitori pomeridiani delle principali reti. Violazioni sono state compiute da Pomeriggio Cinque e Domenica Cinque su Canale 5, e La vita in diretta (Rai1) dove si è giocato sull’«invasività e la ricerca di espressioni e filmati forti capaci di attirare l’attenzione dei telespettatori». Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi «Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Eppure c’è stato il coinvolgimento di Ilaria Cavo, giornalista di Mediaset, l’unica insieme a Maria Corbi de “La Stampa”, a raccontare in modo corretto ed imparziale la cronaca di un processo emblematico. Ilaria Cavo, brava giornalista di Mediaset che per conto del programma Matrix si è occupata di celebri casi di cronaca nera. Decine di simili situazioni, nel suo libro “Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”. Le vicende contenute nel volume riguardano per lo più casi che non hanno attirato su di sé l’attenzione dei media. Sono passati abbastanza in sordina. E forse per questo sono ancora più sconcertanti. Il procuratore aggiunto Pietro Argentino ha fatto notificare l’avviso di chiusura delle indagini preliminari al 34enne di Ginosa Raffaele Calabrese, ingegnere, consulente della difesa di Sabrina Misseri, e alla giornalista di Matrix Ilaria Cavo. L’episodio in questione è quello avvenuto il 26 ottobre 2010, quando Calabrese avrebbe offerto ad alcuni giornalisti televisivi che stazionavano dinanzi al tribunale, alcune foto scattate nel garage della famiglia Misseri, quello che viene indicato negli atti ufficiali come il luogo del delitto di Sarah. Il giornalista del Tg2 Valerio Cataldi riuscì a registrare il colloquio con il consulente della difesa di Sabrina, rifiutando ovviamente ogni forma di trattativa economica. La stessa sera, quelle foto poi furono mandate in onda da Matrix. A Raffaele Calabrese il procuratore aggiunto Pietro Argentino contesta l’interferenza illecita nella vita privata dei Misseri perché «mediante l’uso di una macchina digitale, si procurava indebitamente immagini relative all’interno del «garage» dell’abitazione di Cosima Serrano e Michele Misseri, scattando almeno 16 foto delle quali tre le cedeva a Ilaria Cavo. Con l’aggravante di aver commesso il fatto con abuso di prestazione d’opera». La giornalista Ilario Cavo è indagata invece per ricettazione in quanto «a scopo di profitto acquistava e, comunque, riceveva da Raffaele Calabrese le foto del garage di sicura provenienza delittuosa». E sul fronte dell’informazione, va segnalato che la Procura ha avviato accertamenti anche sull’intervista a Michele Misseri fatta in carcere il 13 febbraio 2011 dalla giornalista di Libero Cristiana Lodi che entrò nella casa circondariale come collaboratrice di un parlamentare del Pdl, la deputata del Pdl Melania Rizzoli De Nichilo. Per Ilaria Cavo e Raffaele Calabrese il giudice monocratico Ciro Fiore il 22 maggio 2012 ha dichiarato l’assoluzione. Calabrese ha chiesto il processo con rito abbreviato, la Cavo rito abbreviato condizionato all'audizione di un altro giornalista. E poi ancora c’è il caso di Fabrizio Corona, condannato a cinque anni di detenzione per estorsione ai danni del calciatore David Trezeguet. Il 2 luglio 2013 da detenuto dovrà presentarsi al Tribunale di Manduria con l’accusa di violazione di domicilio. La denuncia è stata sporta da Concetta Serrano, mamma di Sarah Scazzi. La vicenda risale al 26 febbraio 2011, quando l’ex re dei paparazzi era entrato in casa della famiglia Scazzi passando da una finestra e spaventando la madre della ragazza. Nonostante le scuse alla donna, in televisione Corona ha raccontato un’altra versione dei fatti: disse di essere rimasto nell’abitazione di Concetta a chiacchierare per una mezz’oretta, e che Concetta gli aveva perfino offerto il caffè. Lo scopo del fotografo era quello di realizzare delle interviste in esclusiva ai protagonisti della tragica vicenda. Concetta Serrano non ha ritirato la denuncia e, come disposto dal pm Maurizio Carbone, il paparazzo dovrà presentarsi quest’estate al Tribunale di Manduria. Per l’accusa di violazione di domicilio, Fabrizio Corona rischia altri 3 anni di carcere. A proposito di interviste non autorizzate. Concetta Serrano, la mamma della 15enne Sarah Scazzi uccisa lo scorso 26 agosto 2010, il 9 aprile 2011 ha presentato una denuncia-querela contro il giornalista Mediaset Marcello Vinonuovo per la trasmissione di un’intervista non autorizzata andata in onda venerdì 8. L’episodio, sul quale non si sono appresi particolari, è stato denunciato ai carabinieri della Stazione di Avetrana. E’ andata in onda una nuova puntata di Studio Aperto Live, lo spazio di approfondimento di Studio Aperto che su Italia 1 si occupa delle vicende di cronaca più attuali. Quindi alla luce delle nuove notizie legate alla richiesta del Dna per quattro persone implicate nel caso con diversi ruoli si è deciso di tornare ad Avetrana per parlare con Concetta Serrano ed è stata mandata in onda un’intervista alla madre di Sarah che però non era stata autorizzata dalla donna. L’argomento dell’ultima puntata era ancora il caso dell’omicidio di Sarah Scazzi: tracce di Dna riaprono le indagini. E proprio questo particolare ha spinto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, a presentare una querela contro il giornalista di Mediaset Marcello Vinonuovo presso i carabinieri della Stazione di Avetrana. Subito sono arrivate le repliche di Giovanni Toti, direttore di Studio Aperto, e Mario Giordano, direttore di News Mediaset: i due hanno subito detto che quella realizzata da Vinonuovo non è un’intervista rubata, Toti dice: “Il cronista si è qualificato come tale, aveva il microfono in mano e accanto l’operatore con la telecamera in spalla. Le domande erano assolutamente rispettose: non c’era nulla che potesse ledere la dignità della madre di una vittima, anzi la signora Concetta ha avuto la possibilità di esprimere il suo punto di vista. La conversazione si è svolta senza alcuna tensione nè fraintendimento, nè sui contenuti nè sul ruolo di entrambi. Non vedo perchè non avremmo dovuto mandarla in onda”. Anche Giordano interviene sulla vicenda dicendo: “L’intervista è stata realizzata in luogo pubblico, da un giornalista che si è dichiarato tale, con il microfono ben in vista come dimostrano le immagini. La signora Concetta ha espresso ragionamenti sensati e condivisibili rispetto a un tema di interesse pubblico. Una persona può legittimamente non rispondere, ma se risponde e c’è interesse pubblico a quello che dice, non vedo perchè non lo si debba trasmettere”. Non turba a nessuno il fatto di sapere che Concetta Serrano, pur quasi ogni giorno sulla cronaca con la sua famiglia, rilasci interviste a iosa e, nonostante tutti i media siano con lei e artatamente contro sua sorella Cosima Serrano e sua nipote Sabrina Misseri, pretende di autorizzare o meno le interviste scomode e di denunciare Marcello Vinonuovo di Italia 1, forse perché collega di Ilaria Cavo. Ilaria Cavo è con Maria Corbi l’unica ad aver dato notizie con un minimo di imparzialità. Ad Avetrana non c’è modo di palesare la verità nonostante la multa per 400 programmi tv che si sono occupati in maniera morbosa del caso di Avetrana. L’Agcom ha voluto porre un freno a questa continua ricerca di fare ascolti in televisione sfruttando il dolore delle persone ed ha comunicato all’Ordine dei giornalisti l’intenzione di multare 400 trasmissioni che si sono occupate del caso Scazzi violando le norme. Ma secondo il presidente dell’Ordine, Enzo Iacopino i giornalisti sono stati trattati come burattini da burattinai: “Seminavano tutto e tutto noi giornalisti mandavamo in onda o pubblicavamo sui giornali”.»
A questo punto cosa vorrebbe che si sapesse?
«Ora basta!!! Bisogna far conoscere la verità. La verità storica alternativa a quella mediatico-giudiziaria. Il processo per l’omicidio di Sarah Scazzi non è contro i Misseri, ma contro Avetrana, anzi, contro il Sud Italia. Gelosia e Reputazione sono i traballanti moventi inquadrati da stampa e magistratura. La magistratura sin da subito è stata incapace di sbrogliare la matassa fino a quando la soluzione gli è stata offerta sul piatto d’argento proprio da Michele Misseri. Ed ancora si continua ad insinuare che Avetrana non ha collaborato. Ipotesi fomentate da giornalisti ignoranti e prezzolati da padroni senza scrupoli e dal finanziamento pubblico. Pennivendoli che alimentano stereotipi datati. Nel contesto territoriale (per loro omertoso e retrogrado) non emerge più il cafone con coppola e con lupara che per gelosia spara a destra ed a manca. Oggi ci rapportiamo con l’evoluzione del pregiudizio: donne baffute in nero nascoste da gonne lunghe e fazzoletto in testa che con il sangue lavano l’onta del tradimento e della maldicenza. Poco si parla dell’Avetrana tecnologica con i suoi giovani a navigare sul web ed a rapportarsi sui social network ed a passare il tempo libero fino a notte inoltrata nei Pub all’inglese maniere. No! Bisogna far immaginare Avetrana con i carretti trainati dai muli o meglio dagli asini di Martina Franca. Quante volte si è sentito nei salotti trash della tv italiana da improvvisati commentatori: “…non siamo a Milano o a Roma, siamo lì. Qui si parla di Avetrana, un piccolo paese del sud. Lì..un paese così…dove tutti si conoscono, dove tutti stanno a sparlare…un paese del profondo mezzogiorno. Mi sa tanto che quando si parla dei cervelli in fuga non ci si riferisce alle nostre eccellenze che sono costrette ad emigrare, ma ci si riferisca agli encefali fuggiti dai crani dei giornalisti che sono stati ospitati ad Avetrana, anziché cacciati così come hanno fatto a Brembate di Sopra. Giornalai, e non giornalisti, che per dare la loro verità sono stati pronti ad intervistare nullafacenti ed ubriaconi nei bar del paese. Nel film “Benvenuti al Sud” la frase ricorrente è che chi viene al sud piange due volte: nel venire e nell’andar via. Bisogna dire che, invece, è proprio certa stampa che fa venir da piangere, ma per la loro condizione professionale. Mi sa che fa bene Beppe Grillo a non voler rapportarsi con tutti loro, così come aveva ragione Malcom X. Disse Malcolm X, «Se non state attenti, e dico questo perché ho visto qualcuno di voi cascare nella trappola, se non state attenti finirete con l'odiare voi stessi e con l'amare il bianco che vi procura tanti guai. Se gli consentite di persuadervi, vi spingerà a credere che non è giusto usar violenza contro di lui quando lui la usa contro di voi. Se non state attenti i media vi faranno amare gli oppressori e odiare quelli che vengono oppressi. La stampa è capace di farvi amare gli assassini ed odiare le vittime». Giorgio Bocca (notoriamente antimeridionale) su “L’Espresso” se la prende anche con i giornalisti locali: «Ne esce male anche l'informazione, Avetrana è un villaggio del profondo Sud nella campagna di Taranto, i primi ad accorrere sono i corrispondenti locali che mandano fiumi di parole confuse, di rivelazioni contraddittorie che si aggiungono alla difficoltà di trovare una minima ragione nella caotica e irragionevole vicenda.» Avetrana, invece, ha capito da subito che le luci della ribalta volevano un paese maledetto, omertoso. «Ma quale omertà, qui è il contrario, nessuno si fa i fatti suoi» dicono ora che il virtuale è più forte della realtà. Adesso che i programmi televisivi si sono inseguiti in una corvée instancabile e ormai quasi mancano le comparse, a Sabrina tocca apparire a reti unificate: piange a Matrix e nello stesso tempo è a Porta a porta con la riedizione di un suo intervento a La vita in diretta. La prima a capire che solo la tv poteva salvarla è stata la madre di Sarah, Concetta. Da subito ha intuito che spalancando la porta ai media avrebbe conosciuto la sorte di sua figlia. E così è stato. Sospira il procuratore capo di Taranto Francesco Sebastio: «Ditemi un momento nel quale non era in televisione a dirci come condurre le indagini, come dovevamo fare... Non si poteva neppure dire all’assassino: aspetta a confessare che finisca la trasmissione. Ne sarebbe iniziata un’altra». E per 42 giorni, come nota un investigatore, «lei davanti alle telecamere si è fatta sempre trovare pronta e in ordine». Senza un filo di ricrescita, notano i maligni, «i capelli rossi, come se ogni giorno si rifacesse l’henné». Una famiglia diabolica, i Misseri, decimata dalle accuse ed Avetrana, bollata come omertosa, bugiarda, depistante. Questo il ritratto che il pm del caso Sarah Scazzi ha tracciato in quattro giorni di requisitoria chiedendo l’ergastolo per Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, zia e cugina della vittima accusate di concorso in omicidio e sequestro di persona. Non solo. I pubblici ministeri hanno chiesto alla Corte d’Assise la trasmissione degli atti riguardanti le deposizioni fatte durante il processo da Ivano Russo, il ragazzo conteso tra Sabrina e Sarah, Alessio Pisello, componente della comitiva delle due cugine, Anna Scredo, moglie di Antonio Colazzo, Giuseppe Olivieri, imprenditore di Avetrana datore di lavoro della moglie del testimone Antonio Petarra che vide il giorno del delitto Sarah Scazzi mentre si recava verso l’abitazione dei Misseri, Anna Lucia Pichierri, moglie di Carmine Misseri, e infine Giuseppe, Dora e Emma Serrano, fratelli e sorelle con Cosima e Concetta, schierate nelle loro testimonianza a favore della prima. Ivano Russo in collegamento da Avetrana con “La Vita In Diretta” con Marco Liorni si è lamentato del fatto che lui ha rischiato di essere arrestato perché sospettato del delitto o comunque di essere reticente o falso, oggi verrebbe indagato, pur inquadrate le responsabilità del delitto, per essere stato reticente e falso. Il movente per i Pubblici Ministeri di Taranto? «La possibile rivelazione dei rapporti intimi con Ivano (amico delle due cugine) che avrebbe potuto compromettere l'immagine della famiglia Misseri in un piccolo centro provinciale come Avetrana». Come se la gente del piccolo centro come Avetrana non ha null’altro da fare che stare dietro alle vicende sessuali di una ragazza che non conosce e che non interessa conoscere tenuto conto di tutti i problemi che attanagliano i cittadini italiani. Naturalmente qui si parla di magistrati che, dai dati pubblici rilevabili da siti istituzionali, risultano essere anche loro del posto che degradano. Si parla di BUCCOLIERO dott. Mariano Evangelista Nato a Sava il 7.4.1965 e di Argentino dott. Pietro di Torricella. Ma contro i pregiudizi non ci sono limiti. Da ultimo e non sarà l’ultima volta, un sedicente giornalista, tal Paolo Ojetti, il 7 marzo 2013 in riferimento al delitto di Sarah Scazzi ha scritto su “Il Fatto Quotidiano”: «Quello che alla fine lascia pensosi è il “contesto”, una alchimia di arcaico e ipermoderno, di barbarie da profondo sud e di spregiudicato uso dei media da parte di assassini e di comprimari…E il movente? Messaggini erotici da tenere segreti. Ricatti sessuali adolescenziali. Difesa della purezza familiare, valore dalla cintola in giù che giustifica tuttora violenza, stupro, incesto, femminicidio. Può anche darsi che la cronaca nera punti solo all’Auditel. Ma, almeno in questo caso, è stato uno schiaffo benefico che riporta con i piedi sulla terra di un paese arretrato». In riferimento al gruppo di Sarah Scazzi il sedicente giornale “padano” di Taranto, “Taranto Sera”, scrive «Un gruppo in cui non si sarebbe disdegnata qualche pratica parecchio ‘spinta’, inconfessabile, a maggior ragione in un contesto come quello di un piccolo paese del profondo Mezzogiorno, quale Avetrana.» Altra sedicente giornalista, tal Annalisa Latartara, non nuova ad exploit del genere (si pensi viene dalla nordica Taranto), lo stesso giorno e sempre a proposito ha scritto su “Il Corriere del Giorno” di Taranto: «Ma l’opera di depistaggio della famiglia Misseri è stata agevolata dall’omertà di chi ha visto e non ha raccontato nulla, né di sua spontanea iniziativa, né dinanzi agli investigatori. Di chi chiamato a deporre in aula non ha detto tutto quello che sapeva.» Ed ancora altro sedicente giornalista, tal Pasquale Amoruso e sempre a riguardo su “Il Quotidiano Italiano” (padano anch’esso) di Bari ha scritto: «L’omertà è il vero strumento di contrasto alla Giustizia nel caso Scazzi. L’omertà di Giovanni Buccolieri, il fioraio di Avetrana che dichiarò di aver visto zia e cugina costringere Sara in lacrime salire in macchina, salvo poi ritrattare la sua versione, dicendo di non aver visto effettivamente la scena, ma piuttosto, di averla sognata, e l’omertà di tre suoi parenti, indagati per favoreggiamento personale e intralcio alla Giustizia. L’omertà dei nove testimoni le cui dichiarazioni contrastano con le prove in mano agli inquirenti e l’omertà di chi, pur sapendo come stanno le cose, perché qualcuno c’è, non parla per preservare, non so cosa sia peggio, un assassino o una rispettabilità ormai perduta. Insomma, quante persone occorrono per uccidere una ragazzina? Tutte quelle che non parlano.» Ed ancora. «Sullo sfondo di queste tesi difensive, però, il ficcante lavoro della procura che abbiamo visto nelle udienze passate ha scandagliato con accuratezza la grande mole di indizi, intercettazioni, testimonianze e confidenze, entrando anche e soprattutto, non dimentichiamolo questo, nell’humus sociale, culturale e familiare nel quale si è realizzato il terribile omicidio.» Dice a mo di lacchè dei magistrati Walter Baldacconi, direttore del TG di Studio 100 tv, emittente “Padana” con sede a Taranto, criticando le tesi difensive di Nicola Marseglia e le prese di posizione di Franco Coppi in merito al fuori onda che hanno dato l’imput all’astensione dal processo Scazzi della Trunfio e della Misserini.»
Va bene, ma gli amministratori locali e con essi l’opposizione consiliare cosa hanno fatto?
«Nonostante lo smacco giudiziario e l’offesa mediatica a tutta la popolazione avetranese il sindaco della ridente località, Mario De Marco, del Popolo delle Libertà, e la sua giunta cosa fanno? Anziché prendersela con chi ci sputtana, le loro ire si rivolgono alle parti più deboli, forse responsabili di delitti che, però, niente hanno a che fare con le insinuazioni o le vere e proprie accuse di omertà ed arretratezza sociale e culturale della comunità. «Avetrana - si legge nell'atto di parte civile - si è guadagnata la triste fama di cittadina quasi omertosa, simbolo di un profondo sud, vittima ancora oggi di troppi luoghi comuni. Sono note le spedizioni dei cosiddetti turisti dell'orrore - continua l'avvocato Corleto - che si sono avventurati nei luoghi simbolo della vicenda: le vie in cui si trovano le abitazioni della famiglia di Sarah e della famiglia Misseri, lo stesso cimitero che ospita la tomba di Sarah, nonché il pozzo di campagna nel quale è stato rinvenuto il cadavere della ragazzina sono stati meta di veri e propri pellegrinaggi. In questa dolorosa vicenda ci sono due vittime. La prima è certamente Sarah, l'altra è la città di Avetrana». «Gli Avetranesi hanno nel cuore Sarah e sono offesi dal comportamento della famiglia Misseri. Perché a prescindere dalle singole responsabilità che saranno accertate nel dibattimento, sono stati loro a innescare la morbosa attenzione dei media su questo caso e la conseguente ripercussione negativa per l'immagine della nostra comunità», rincara la dose il vicesindaco Alessandro Scarciglia. «In tutta questa situazione la popolazione di Avetrana è rimasta letteralmente disorientata, privata della propria serenità, impossibilitata ad osservare il dovuto silenzio e rispetto nei confronti della giovane vittima, nonché violentata in ogni aspetto della quotidianità, oltre che letteralmente assediata dai mezzi di informazione». Una «sete di giustizia», continua il documento della costituzione di parte civile, per «un’offesa enorme, una ferita profonda che merita di essere valutata e adeguatamente riparata in sede giudiziaria». Per gli amministratori che si dichiarano parte offesa, quindi, «il nome di Avetrana è ormai tristemente associato al crimine del quale sono chiamati a rispondere gli imputati» che dovrebbero così, se condannati, rifondere la somma «che sarà poi quantificata - ha spiegato il penalista Corleto - in un secondo tempo e in sede civilistica». Lo stesso avvocato che dovrebbe difendere la reputazione di Avetrana afferma inopinatamente «Avetrana è una città di gente che lavora e vi preannunzio per andare sempre più in fretta LA GENTE DI AVETRANA E’ COME MICHELE MISSERI. Se ad Avetrana non ci fosse stata gente sana, non avremmo potuto parlare della contestazione d'accusa di sequestro di persona». E MENO MALE CHE DIFENDE L'ONORE DI AVETRANA, perchè gli Avetranesi non gettano i bambini nei pozzi!!!! L’avvocato Pasquale Corleto il quale, in rappresentanza del Comune di Avetrana, ha fatto un’esposizione giuridica che ha ricalcato, potenziandola, la tesi dei pubblici ministeri. Difendendo a suo parere subito la «parte sana» della comunità avetranese (e meno male se fosse stato il contrario?), per il cui danno all’immagine ha chiesto 300 mila euro di risarcimento danni, il penalista leccese ha esordito dicendo che «la popolazione di Avetrana non è omertosa, è fatta di persone buone», fatta eccezione, ha aggiunto diffamando gratuitamente, prima con un’intervista a Blustar TV e poi in aula, coloro che in giudizio non sono. «Il collegio dei Falsi, cioè Valentina (Misseri) e compagni, che buttando a mare tutti gli avvocati precedenti, hanno imposto questa linea della banda del falso che come Ivano Russo sono i giganti del turpiloquio e del depistaggio: una serpe. E’ il soggetto più turpe, più viscido. La serpe che entra nel processo. Che parla fuori, dentro le aule, le interviste, alle telecamere e tutto ciò che sapete, quando deve dire qualcosa di concreto, è questo il vangelo dettato dalla regia. Quando si sono visti con le mani al collo non potevano più dire chiacchiere a gente con la toga e dicono non ricordo». Avetrana: omertà e mafia, luoghi comuni che si rincorrono. «Un massacro gestito con metodi mafiosi. Sarah Scazzi è stata massacrata ed è un massacro peggiore per le condotte successive al delitto che denotano un metodo mafioso, da 416 bis. Sarah non doveva essere solo uccisa - ha spiegato Nicodemo Gentile, l’avvocato degli Scazzi - ma doveva sparire ed essere annientata. Non doveva esistere più. Doveva diventare uno di quei tanti volti che fanno parte dell'esercito di scomparsi.» Chi rappresentava Avetrana avrebbe fatto meglio a cercare e catalogare in questi anni ogni articolo di stampa ed avrebbe dovuto registrare ogni intervento delle miriadi trasmissioni tv per far rendere il conto delle loro denigrazioni ai rispettivi responsabili, siano essi ignoranti giornalisti o che siano pseudo esperti improvvisati. Come non dar ragione all’altra parte politica di Avetrana: «Sono Cinzia Fronda, cittadina del paese di Avetrana e segretaria sezionale del Partito Democratico. Scrivo da cittadina di un paese devastato, maltrattato, violentato da tanto orrore. Ovviamente mi riferisco al caso Scazzi che da qualche giorno è tornato prepotentemente alla ribalta. Ho sentito diversi giornalisti che con una facilità pericolosa e poco professionale, secondo la mia opinione, continuano a denigrare Avetrana e i suoi abitanti facendoci passare per quelli omertosi, ignoranti e, perché no?, cittadini di serie C2! Sono veramente stanca di questo continuo maltrattamento mediatico, vorrei fare presente che la maggior parte dei cittadini di Avetrana sono persone normali, con una cultura normale, con una vita normale e che non mi sembra assolutamente giusto che si faccia di tutta l'erba un fascio. Con tutto il rispetto per gli abitanti di Brembate, che hanno anche amministratori di rispetto che ben si sono guardati dall'esporsi in maniera esagerata, non cedendo al fascino mediatico, vorrei far presente che lì la famiglia di Yara ha chiesto il silenzio stampa e allora tutti a parlarne bene mentre per il caso di Avetrana si continua a dare addosso agli abitanti perchè molti continuano ad amare intrattenersi con i giornalisti, anche quando sarebbe il caso di smettere di parlare a vanvera e lasciare che gli inquirenti facciano serenamente il loro lavoro. Basta violenze mediatiche, Avetrana non è il paese dei mostri, è un paese che ha voglia di riprendere a vivere normalmente e serenamente». Peccato che anche lei si è limitata a dire parole, parole, parole…..»
Va bene. Allora presenti lei Avetrana.
«Sorge su quella che era chiamata la “Via Sallentina”, Avetrana, l’antico tratto viario che in epoca messapica, e successivamente in quella romana, collegava Taranto, Manduria, Nardò, Leuca e Otranto. Con le sue 8.300 anime, il paese vanta origini antiche, ma sono in particolare le tracce di epoca romana a risaltare come il “canale romano”, che raccoglieva e faceva confluire le acque in quello naturale di San Martino. Sono numerose le ipotesi del suo toponimo, tra cui quella che lo fa derivare da “habet rana”, per via delle massiccia presenza di rane nella zona ricca di paludi o, ancora e forse più attendibile, l’ipotesi che risalga ad una distorsione di “terra veterana”, ovvero non coltivata. Certo è che Avetrana custodisce e mostra le sue vestigia con orgoglio a cominciare dal suo piccolo ma prezioso centro storico, nel quale ogni nobile e feudatario del suo tempo ha lasciato la propria firma: dai Pagano agli Albrizi fino agli Imperiale ed i Filo. Di quello che doveva essere un imponente castello si scorge oggi il torrione circolare e parte delle mura mentre i vezzi decorativi di alcuni palazzi come palazzo Torricelli e palazzo Imperiale, accanto alle architetture più modeste tra i viottoli del centro lasciano oggi intuire il potere della nobiltà nel piccolo e operoso borgo. Zona di grotte e depressioni carsiche dalle quali sono emersi anche resti del Neolitico, Avetrana, in epoche sicuramente più recenti, vanta un’ammirabile tradizione di resistenza: nel 1929 fu il centro di una rivolta dei contadini poi repressa dal regime fascista, mentre negli anni Ottanta si oppose strenuamente alla costruzione nel suo territorio di una centrale nucleare. Il paese dista dal mare appena quattro chilometri e dalla zona denominata “Urmo Belsito”, località marina abitata da moltissimi cittadini extraregionali e comunitari scelta da loro come dimora di relax, lo sguardo può spaziare dal mare all’orizzonte alla rigogliosa macchia mediterranea che la fa da padrone nell’entroterra. Il patrono di Avetrana è San Biagio e viene festeggiato il 29 aprile. Il comune dista 43 chilometri dal capoluogo,Taranto, e 37 chilometri da Lecce. Rispetto ad altri paesi Avetrana si è fatta sempre notare per la sua intraprendenza, emancipazione ed apertura mentale e per le indiscusse virtù di alcuni suoi concittadini. Si ricorda Antonio Giangrande, noto scrittore letto in tutto il mondo o suo figlio Mirko divenuto a 25 anni e con due lauree l’avvocato più giovane d’Italia. Ed ancora Biagio Saracino, Cavaliere della Repubblica; Leonardo Laserra, Tenente Colonnello, maestro della Banda della Guardia di Finanza nota in tutto il mondo. E poi Antonio Iazzi, professore dell’università del Salento, e Leonardo Giangrande, già vice presidente della Camera di Commercio di Taranto. Ed ancora Rita Rinaldi, soubrette e cantante o i duo artistico musicale Mimma e Giusy Giannini (in arte Emme e gy) con Miriana Minonne e Valentina Iaia (in arte Miry e Viky). Ed ancora Vito Mancini, concorrente del Grande Fratello 12. E tanti altri talenti ancora. Ma di questo i media ignoranti ed in malafede non ne parlano.»
La stampa. L’informazione cartacea e video come hanno riportato i fatti storici e giudiziari?
«Con la loro verità mediatica. Come volevasi dimostrare dopo la scorpacciata di immagini, interviste, servizi tv a favore della requisitoria dell’accusa e delle arringhe delle parti civili, farcite anche di gratuite ed impunite calunnie e diffamazioni o, come ha riferito Franco Coppi ad Anna Gaudenzi su Affari Italiani, « Sono state dette troppe cose e non abbiamo apprezzato alcune battute poco eleganti.» Bene si diceva che dopo l’abbuffata di poco corrette prese di posizioni della stampa, a dare voce alla difesa non c’è nessuno. Sono passate sotto silenzio le udienze dedicate agli imputati. Addirittura le tv locali, a turno, hanno ignorato l’evento. Poche righe dedicate e servizi assenti o striminziti. Rimasugli dedicati a Michele Misseri. Solo la malasorte difende Avetrana. Tempi duri per gli operatori dell’informazione. Rovinose cadute, strani malori, telecamere che si spengono, fari che esplodono, cassette inceppate. E ancora serrature d’auto che s’inchiodano, incidenti stradali e bucature multiple delle ruote. Una sospetta concentrazione d’infortuni scuote il popolo dei media che ha preso domicilio ad Avetrana per documentare il giallo dell’uccisione della piccola Sarah Scazzi. Nella graduatoria della iella, la categoria che ha avuto la peggio è quella dei giornalisti. Le donne sono più sfigate dei loro colleghi. Sono molti, anzi troppi i processi sotto la lente mediatica. Si parla troppo spesso di processo mediatico, di quanto possa influenzare quello giudiziario, soprattutto quando l'opinione pubblica non accetta i fatti e le sentenze. Il problema, secondo alcuni, è che anche nei processi si preferisce soffermarsi sugli aspetti scandalistici o curiosi delle vicende anziché addentrarsi sul merito dei reati. Il processo del terzo millennio si offre oramai senza veli allo sguardo mediatico che imbastisce processi paralleli fuori dalle aule di giustizia e dai suoi riti, i cui improvvisasti ed imperiti pubblici ministeri sono i giornalisti od i conduttori di trasmissioni trash tv ed i giudici sono i loro lettori o telespettatori, godenti peccatori delle altrui disgrazie. Nessuno spazio alla difesa dei malcapitati. Fa niente se poi i tapini sono prosciolti nei processi veri. Ha ragione Massimo Prati quando dice che questo fa capire in maniera netta come tanti nostri magistrati non sappiano, o per diversi motivi non vogliano, leggere allo stesso modo le “'tavole” dei codici penali e come tanti di loro si sentano ancora parte attiva di un'altra epoca storica. Fa capire come i nostri magistrati non siano stati preparati, da chi doveva insegnargli ed aiutarli mentalmente, ad entrare da uomini giusti negli anni duemila. Fa capire come siano rimasti ancorati agli albori della giustizia, a quando chi giudicava comminava pene in base alle possibilità economiche ed al ceto sociale. Nella Babilonia di quasi quattromila anni fa, durante il regno di Hammurabi, il povero, a parità di reato, era obbligato alla morte, mentre chi aveva possibilità economiche, per tornare un “uomo libero” si limitava a pagare un'ammenda. Nel basso Medioevo, nella futura italica terra, si procedeva con un trattamento simile, trattamento che teneva conto non solo dei beni posseduti, ma anche delle amicizie altolocate e del ruolo che il reo ricopriva nella sua comunità. Ad oggi nel terzo millennio pare proprio che nulla sia cambiato. Da anni la nostra “giustizia” è divisa in tronconi colorati. E sempre più spesso capiamo di avere a che fare con enormi disparità di trattamento. Già nel '71 con il film “In nome del popolo italiano” ci fu chi puntò il dito (Dino Risi) contro quei magistrati, allora idealisti e squattrinati, che abusavano del potere concesso loro dal popolo italiano. Qualcosa è cambiato da allora? Difficile rispondere sì, visto che fra il “certo colpevole” e chi si dichiara innocente la disparità di trattamento è enorme e tutta in favore del “certo colpevole”, visto che i trattamenti cambiano da procura a procura, da tribunale a tribunale, visto che con alcuni imputati c'è chi usa il guanto di velluto mentre, per reati simili se non identici, da altre parti c'è chi usa il pugno di ferro. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono rimasti quattro anni in carcere in attesa di un verdetto “giusto”. Sabrina Misseri e sua madre sono chiuse in galera da anni senza essere dichiarate colpevoli in modo definitivo. Sabrina Misseri è stata arrestata perché non ha ammesso di amare e di essere gelosa del “Delon di Avetrana”, perché non ha ritenuto di aver litigato con la cugina la sera precedente la scomparsa. Questo è bastato ad impedire si facesse un minimo di indagine che convalidasse i sospetti. Di logica le accuse, siano di estranei o di un “caro genitore”, vanno verificate prima di mandare i carabinieri ad eseguire un ordine di arresto... non si dovrebbe arrestare e sperare di trovar prove successivamente, si dovrebbero trovar prove e poi arrestare. Sua madre ha subìto la stessa sorte: ha seguito la figlia in carcere perché un fiorista l'ha sognata e perché c'è chi ha notato un'ombra grigia sfrecciare per Avetrana. Un sogno ed un'ombra possono giustificare il carcere in canili umani? Non inserirò altre storie di presunti colpevoli, arrestati e carcerati preventivamente e senza prove, basta cercare in internet per trovare migliaia di innocenti risarciti della reclusione ingiusta con soldi statali... e non con quelli privati di chi ha sbagliato a chiudere in carcere, senza avere prove, un incensurato. Rovinare la vita delle persone comuni è fin troppo facile, questo è quanto l'italiano, che non ha mai avuto guai con la giustizia, deve capire. Non deve credere di essere immune perché onesto, e non deve pensare che a lui ed ai suoi figli non capiterà mai quanto capitato ad altri. Lo sbaglio è sempre dietro l'angolo. Lo sa bene Giuseppe Gullotta, che di anni in galera ne ha fatti ventuno, compresi i preventivi, a causa delle torture riservate a chi lo ha accusato (poi impiccatosi in carcere seppure avesse un solo braccio). Ed anche se un domani il danno verrà scoperto e riparato, non ci sarà mai un risarcimento che possa compensare la psiche, che possa riportare in vita i genitori morti dal dolore, che possa ridare la “salute” alle mogli che per la vergogna e il dispiacere sono invecchiate anzitempo (sempre siano restate accanto ad un marito che non c'era), che possa far tornare l'infanzia e l'adolescenza nei figli cresciuti senza un padre accanto, cresciuti col marchio dell'infamia che porta il dover parlare di un genitore non presente perché in carcere. Non inserirò altre vergogne italiche, non le inserirò perché anche se narrassi mille e una storia, nulla cambierebbe e nessuno modificherebbe il proprio modo di operare e di giudicare gli altri, siano essi giudici o pubblico di talk show. Per questo servirà tempo e una buona capacità di insegnamento da parte di chi formerà i nuovi giudici ed i nuovi magistrati. Ma non c'è da stupirsi, in fondo la nostra giustizia rispecchia la maggioranza del popolo italiano... quella maggioranza che succhia la notizia senza accorgersi che il gusto lascia l'amaro in bocca. A un mese dalla sentenza di primo grado sull'omicidio di Avetrana, Michele Misseri torna ad autoaccusarsi. Ospite in collegamento di Barbara D'Urso a Domenica Live, zio Michele ha nuovamente confessato la sua colpevolezza scagionando la moglie Cosima e la figlia Sabrina. “Loro sono innocenti – ha ripetuto più volte Misseri – io sono l’assassino, ma nessuno mi vuole credere. Ho i rimorsi e devo pagare per quello che ho fatto.” L'uomo ha poi minacciato il suicidio se la moglie e la nipote verranno condannate in via definitiva. Per chi se lo fosse perso: Barbara D'Urso e le sue faccette il 3 marzo 2013 hanno intervistato Michele Misseri a Domenica Live su Canale 5. Tempo concesso all'occultatore del cadavere di Sarah Scazzi e reo confesso del delitto: un'ora circa, nemmeno fosse Silvio Berlusconi. Senza lasciare nulla al caso, la D'Urso si è vestita a righe per l'occasione e lo ha intervistato per la seconda volta nel giro di pochi mesi (la prima era stata a dicembre 2012); da Avetrana, collegata in diretta, Ilaria Cavo. Perché a Michele Misseri, nello spazio domenicale che un tempo era rivolto alle famiglie, si concede la diretta. Ma lo scandalo è la piega che prendono certe trasmissioni trash e disinformative: Quarto Grado, La Vita in Diretta, Porta a Porta, Chi la Visto? ecc. E' interessante notare l'evoluzione della figura di Michele Misseri; all'inizio era lo “zio orco”, poi è diventato - per i giornalisti - la povera vittima di moglie e figlia, e allora la sua immagine è stata in parte ripulita. Così per i tg è tornato semplicemente ad essere un uomo: lo zio Michele. Contemporaneamente il processo sull'omicidio di Avetrana si era spostato dalle aule giudiziarie in televisione; la sovraesposizione delle persone coinvolte era stata tale da renderli personaggi televisivi, Sabrina e Michele Misseri in particolare. La voglia di sangue del pubblico. Il Colosseo come gli studi televisivi. La parzialità dei conduttori è spudorata e non fanno niente affinchè non prevalga la voglia di giustizialismo a danno di Sabrina Misseri e Cosima Serrano: Mara Venier e tutti gli altri, compreso l’ipocrisia di Barbara D’Urso che si dichiara “vicina a Concetta e alla sua battaglia”. Mai nessuno di loro, però, a raccontare la verità. La verità storica ed incontestabile è che il processo è ancora al primo grado, manca il certo appello e la Cassazione e, cosa che rimarca un certo senso di malessere nei confronti di certi magistrati, è che Michele Misseri si dichiara colpevole ma è libero, mentre la moglie e la figlia che si professano innocenti sono in carcere. Si dichiarano colpevoli l’uno ed innocenti le altre da sempre e con coerenza, come se fossero criminali esperti ed incalliti. Non solo: prima la D'Urso lo invita per impennare lo share (e per cos'altro sennò?), poi lo cazzia per quello che ha fatto, (confessare il delitto che secondo lei non ha commesso o aver commesso il delitto?). “I padri non diventano assassini” dice la D’Urso, giusto per appagare le voglie del pubblico guardone e schierarsi dalla parte di chi pensa che Michele menta per coprire Sabrina.»
La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo Scazzi, come si è comportata?
«Comunque, per colpevoli che possano essere agli occhi dei giustizialisti, è pur vero che la colpevolezza va provata e nessuno, dico nessuno, può essere condannato senza prove che adducano ad una colpa al di là di ogni ragionevole dubbio. Eppure c’è chi si ostina a tener ferma la sua posizione, senza ombra di dubbio, mossa da sentimenti prosaici e poco religiosi. Eppure nessuno, oltre al sottoscritto, osa parlare contro il sentimento comune, se non Ilaria Cavo con i suoi atteggiamenti, la giornalista Mediaset indagata proprio dalla procura di Taranto, e Maria Corbi con i suoi articoli, giornalista del “La Stampa” di Torino. La nostra colpa è vedere le cose con imparzialità senza essere genuflessi e succubi ai magistrati tarantini. Il processo al delitto di Sarah Scazzi è il processo ad Avetrana. Alla richiesta da parte di Argentino e Buccoliero della condanna per tutti gli imputati, specialmente per l’ergastolo a Sabrina Misseri ed alla madre Cosima Serrano, tutta l’Italia forcaiola ha applaudito. Si sentono ancora gli applausi registrati nello studio di “La vita in diretta” con Marco Liorni e di “Pomeriggio cinque” con Barbara D’Urso. A tutti i testimoni che hanno testimoniato contro la tesi accusatoria si prospetta la condanna per falsa testimonianza. L’Italia forcaiola che per soddisfare l’aspettativa di vendetta pretende la tortura e l’omicidio di Stato per lavare l’onta di un efferato delitto. A scanso di essere lapidati da falsi moralisti si tiene a precisare che si può essere d’accordo, ma non bisogna mai emettere giudizi affrettati e sommari, prima di ascoltare cosa ha da dire la difesa, tenuto conto che nei processi italiani, fino a che non tocchi ai difensori la parola, hanno voce solo i pubblici ministeri ben ammanicati con giornalisti approssimativi e parziali. Per chi conosce bene il sistema della giustizia in Italia ed i magistrati italiani prima di emettere sentenze popolari bisogna essere cauti e con cognizione piena di causa. La mamma di Sarah, Concetta Serrano Spagnolo, ha accolto le richieste di ergastolo con mezza soddisfazione. «Sono cose che non fanno gioire nessuno e che non servono a ridare la vita strappata di una bambina. Chi uccide merita l'ergastolo - ha dichiarato la mamma di Sarah, Concetta - è stato il processo delle menzogne ed è anche giusto che coloro che hanno detto tutte queste menzogne paghino per quello che hanno detto. Non hanno avuto pietà per una bambina che stava anche piangendo». «Ho sempre detto che il movente della gelosia di Ivano non mi convinceva, che c'era qualcosa di losco e quello che è emerso ieri lo conferma». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi. Concetta ha fatto riferimento, con quel 'losco', alle abitudini a sfondo sessuale che aveva la comitiva di cui faceva parte Sabrina Misseri, come fare spogliarelli o andare a vedere le coppiette, coinvolgendo presumibilmente anche Sarah. Certo che ognuno di noi ci si potrebbe anche chiedere cosa facesse una ragazza di 15 anni insieme ad una comitiva di maggiorenni ed avere orari di rientro non compatibili per una ragazza della sua età. Concetta ha aggiunto che «è possibile» che Cosima abbia inseguito Sarah e abbia partecipato al delitto, secondo la tesi dell’accusa, perchè «lei è di altra tradizione, di altra generazione e non accettava questo stile di vita di Sabrina». «Non è vero, come hanno detto – ha aggiunto – che io odio Sabrina e Cosima. Mi fa rabbia che loro ce l’abbiano ancora con Sarah e continuino a dire che sono innocenti nonostante l'evidenza».» Un giornalista chiede a Concetta: “Signora Concetta Serrano (madre di Sarah Scazzi), dopo trentasette udienze e tanti testimoni, quali cose ha capito di questo processo? E che cosa si aspetta?” «Ho trovato eccellente la presidente della Corte d’Assise Rina Trunfio, bravi anche i pubblici ministeri Mariano Buccoliero e Pietro Argentino che hanno condotto indagini puntuali e puntigliose. Come andrà a finire non lo so, non ho molta fiducia nella giustizia degli uomini. I magistrati, anche loro, si devono attenere a certi dettami di legge che non ci proteggono. Anche se gli imputati prenderanno il massimo della pena, tra indulti e buona condotta li rivedremo in giro dopo pochi anni. Così, tanti sacrifici, tanto lavoro e tanti soldi di noi cittadini a che cosa saranno serviti? A niente. Ieri sono andata a comprare delle caramelle e il negoziante mi ha fatto notare la stranezza delle leggi: Fabrizio Corona deve stare in carcere cinque anni per reati tutto sommato banali, mentre mio cognato Michele, che ha gettato il corpo di una bambina in un pozzo, lo vediamo girare libero in paese come se niente fosse. Non solo io, ma tutto il paese è indignato per questo». Critiche alla giustizia in senso lato ed apprezzamenti ai magistrati, che poi non sono altro che il corpo e l’anima della giustizia e per gli effetti gli unici responsabili dell’ingiustizia e della malagiustizia. La ricerca di un colpevole e non del colpevole e la pena dura e certa da far scontare in canili umani per soddisfare il bisogno di vendetta e non di giustizia, pare che sia l’opinione di Concetta Serrano. Le convinzioni di Concetta Serrano sui magistrati italiani non sono certo condivise da altre mamme come lei, certo non traviate dal turbinio mediatico, ma artatamente i media usati da quest’ultime come strumento per una lotta dura e costante mirante alla ricerca della verità. «Ci sono in Italia "inefficienze gravi" nelle indagini che riguardano i sequestri dei bambini, "qualcosa che non funziona" su cui il governo deve intervenire, altrimenti "i bambini continueranno a sparire e non verranno mai trovati".» L’accusa arriva da Piera Maggio e Maria Celentano, rispettivamente la madre di Denise Pipitone – scomparsa a Mazara del Vallo il 1 settembre del 2004 – e di Angela Celentano, sparita sul Monte Faito il 10 agosto 1996. Intervenute a ‘Buona Domenica’ su Canale 5 del 1 marzo 2008 le due madri hanno preso spunto dalla vicenda di Ciccio e Tore. «Il mio pensiero va a quei due bambini che purtroppo non ci sono più. Ringrazio Dio perché ho ancora la speranza di riabbracciare Angela e invece quei due bambini sono lassù - dice Maria Celentano per attaccare investigatori e inquirenti. «C’é in Italia un’inefficienza grave nelle indagini sui sequestri di bambini – afferma Piera Maggio – Nel 2007 abbiamo scoperto una cosa allucinante. Ci sarebbe stata la risoluzione del caso di Denise, e nessuno se ne era accorto. La sfortuna maggiore di mia figlia è stata quella di avere delle persone che la cercavano che forse non avevano le competenze per svolgere determinate indagini. Ho perso e mi hanno fatto perdere la fiducia nella giustizia italiana. Le famiglie - aggiunge la mamma di Denise - possono fare poco e niente, non hanno mezzi, aiuti necessari. Sono sole psicologicamente e moralmente e a pagare sono sempre i bambini». Parole simili arrivano da Maria e Catello Celentano. «Forse dodici anni fa non c’erano i mezzi che ci sono oggi – dice Maria – ma la realtà e sempre quella: i bambini spariti non si trovano. Non so perché, forse c’é poco impegno e poca responsabilità da parte degli adulti, ma qualcosa che non funziona c’é perché i bambini continuano a sparire. E poi si ritrovano in questo modo qua che è una cosa veramente atroce». «In Italia - aggiunge il marito - ogni volta che scompare un bambino si impiegano persone che non sono attrezzate, non hanno capacità e mezzi. E invece bisogna fare di più per loro». La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia. Il mio libro “Sarah Scazzi, il delitto di Avetrana. Il resoconto di un Avetranese. Tutto quello che non si osa dire”, fa parte integrante della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” composta da 50 opere trattanti, appunto, la sociologia storica, di cui io sono profondo cultore: ossia rappresentare e studiare il presente, rapportandolo al passato e riportandolo al futuro. Il libro su Sarah Scazzi è la vicenda soggettiva ed oggettiva che rappresenta l’Italia. Sarah Scazzi può essere Yara Gambirasio, Elisa Claps, Ciccio e Tore, Denise Pipitone, e tutte quelle vicende misteriose che hanno interessato i media. Se l’Italia dei media ha giudicato Avetrana, influenzando il pensiero dei più, un Avetranese giudica l’Italia dei media e le sue patologie: omertà, censura, disinformazione. E lo fa con una certa e non indifferente perizia, adottando un sistema inoppugnabile. Non riportare le proprie opinioni, che non interessano a nessuno ed a scanso di accuse di mitomania o pazzia, ma affidarsi ai fatti certi ed incontestabili, citandone la fonte. Il libro work in progress aggiornato periodicamente come tutti gli altri libri si può trovare da leggere gratuitamente sul sito dell’associazione di cui sono presidente nazionale www.controtuttelemafie.it in cui vi sono pure i filmati di riferimento, ovvero a minimo costo su Google libri, su Amazon per l’E-Book o su Lulu per il cartaceo.»
E sui magistrati in generale cosa ha da dire?
«Toghe rosse, toghe nere, toghe rotte. I giudici come le seppie e i polpi: cambiano colore a seconda degli imputati?
Il problema forse non è tanto nel colore delle toghe ma nella loro insita incapacità di cogliere la verità storica nelle vicende umane. La loro presunta superiorità morale e culturale rispetto alla massa, avallata dal concorso truccato che li abilita, li pone talmente in alto che miseri loro non riescono a leggere bene la realtà che li circonda. Insomma loro son loro e noi “non siamo un c….”. Le strade italiane, oramai, sono diventate molto più transitabili, quasi deserte, non perché le persone son diventate improvvisamente più casalinghe e pantofolaie, ma semplicemente perché certuni PM e Giudici di casa nostra amano sbattere nelle patrie galere chiunque gli giri intorno: quindi, tutti dentro appassionatamente! La Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo accusa ad alta voce il nostro Paese, che viene giustamente condannato per il trattamento inumano e degradante dei carcerati detenuti nelle infernali galere italiche. Pensate che tale richiamo abbia minimamente scosso gli uomini dalla galera facile? I pubblici ministeri, i Gip, i Gup e i Procuratori Capo? I giudici monocratici o riuniti in assise. Neanche per idea! Al minimo dubbio, al fresco, nei Grand Hotel Italiani a -7 stelle; le cui stanze di meno di 3 metri quadrati possono contenere anche tre o quattro detenuti. Ma, a loro cosa può interessare; per le tenebrose toghe nere ciò che conta è apporre tacche su tacche alle loro pistole fumanti. Tanto chi paga quest’ammasso di carne sovrapposta in loculi invivibili è il cittadino italiano. I tantissimi processi, indagini, rinvii a giudizio per chi non ha fatto un emerito c…., e i tantissimi suicidi che si verificano settimanalmente in tali luoghi di tortura, non contano niente. L’importante è che di fronte a una ridottissima controversia ci si copra le spalle, ammanettando coloro che - di fatto - potrebbero a tutti gli effetti, e molti lo sono, essere innocenti. Tanto i Giudici, i PM e compagnia bella non verranno mai toccati, né verranno mai chiamati a rispondere in solido (pecuniariamente, moralmente, penalmente) dei misfatti compiuti. Solo nei casi eclatanti di magistrati pedofili, di giudici che usano il proprio ufficio per ricattare sessualmente viados o donne della mala, o di quelli conniventi con le varie mafie, si arriva a arrestarli, sed post breve tempus tutto viene subdolamente fatto passare nel dimenticatoio. Questa, purtroppo, è la disperata situazione della legge italiana, a voler continuare a non separare le carriere, a rimandare da tempo immemore la riforma della giustizia, e all’equiparare reati inferiori, quello, per esempio, di Fabrizio Corona, a reati gravissimi come l’omicidio, altro esempio la sentenza vergognosa del macellaio Jucker che si è fatto solo 10 anni per aver trucidato la fidanzata. In campagna elettorale si parla di tutto, meno della libertà del cittadino italiano che sta scomparendo, terrorizzato dalle cupe toghe nere. Il rischio della rappresentanza politica è sbagliare il rappresentante, perché questi signori nominati dall’alto si presentano in un modo e poi si comportano al contrario.»
Che rapporto ha lei con i magistrati locali e se ha fiducia nel loro operato, tenendo conto anche dell’esito del processo sul delitto di Sarah Scazzi?
«C’E’ SEMPRE UN GIUDICE A BERLINO. IL FUTURO AFFIDATO ALLA SORTE PER CHI RACCONTA LA VITA SENZA PARAOCCHI. La condanna o l’assoluzione affidata alla fortuna per la quale ti viene assegnato un magistrato dedito alla giustizia e non al culto della propria personalità. Quando, per poter esercitare il diritto di critica e di cronaca, senza pagare fio, ti tocca essere giudicato dal giusto giudice assegnato per sorte (e non per normalità come dovrebbe essere). «Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Questa premessa per raccontare le mie e l’altrui vicissitudini giudiziarie per aver scritto la verità e l’esito differenziato dei processi in virtù del giudice che ha deciso sulle cause. Per raccontare come può cambiare il senso della vita dell’imputato le cui sorti sono pendenti dal volere di una persona, il cui giudizio può essere falsato da un criticabile modus operandi. E’ un giorno come gli altri in quel Tribunale. Tribunale di Manduria, sezione staccata di Taranto. Ma è come se fossi in qualunque Tribunale d’Italia. E’ il 21 febbraio 2013, ma può essere qualsiasi altro giorno dell’anno che fu o che sarà. Sono lì da imputato per l’ennesimo processo per diffamazione a mezzo stampa, uno dei tanti senza soluzione di continuità. E’ il prezzo da pagare per non essere pecora in un immenso gregge. In attesa del mio turno, tra i tanti procedimenti chiamati, seguo il processo a carico dei dirigenti della Banca di Credito Cooperativo di Avetrana ed a carico di un noto politico dello stesso paese, la cui moglie si presenta alle elezioni per la Camera dei Deputati. Sono molteplici i reati contestati, in riferimento ad un assegno incassato ante datato e firmato per somme di denaro riferibili ad un defunto. La stessa banca è coinvolta, tramite il suo funzionario, anche nella vicenda di Sarah Scazzi. Nel proseguo dei procedimenti penali sento il nome dell’imputato di un altro processo, Giovanni Caforio, anche lui perseguito per diffamazione a mezzo stampa. Anche lui una mosca bianca nel sistema disinformativo locale. Accusato e giudicato per aver scritto sul suo giornale di Sava, Viva Voce, il resoconto critico della mal amministrazione cittadina a vantaggio personale, facendo riferimento ad un procedimento penale a carico di un amministratore, avvocato. L’avvocato Romoaldo Claudio Leone, sentendosi diffamato, ha querelato il direttore del giornale. Nel processo è stato difeso come parte civile dall’avv. Gianluigi De Donno. Il giudice titolare Rita Romano non è lei a decidere ed allora in quel processo accade una cosa che non ti aspetti: il suo sostituto, il giudice togato Simone Orazio, dopo un’attenta ed approfondita analisi della questione giuridica, assolve l’imputato, visibilmente commosso. Strano quel che è successo in quel giorno in quell’aula. In precedenti udienze il direttore Giovanni Caforio era già stato più volte condannato per lo stesso reato, ma per altri fatti, proprio dal Giudice Rita Romano. Sentenze naturalmente appellate. Per la Corte di Appello di Taranto, che assolve Giovanni Caforio perché il fatto non costituisce reato, è da assolvere "perchè nella critica, la verità esprime un giudizio che, in quanto tale, è sì, l’elaborazione soggettiva di un avvenimento ma non può del tutto essere scollegata dalla realtà". Ancora mi rimbomba in testa quel che accadde il 12 luglio 2012: assolto con la formula più ampia nel Tribunale di Manduria dove è titolare Rita Romano, ma da lei non giudicato: per non aver commesso il fatto. Assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. Da rimarcare è il fatto che tutte, dico tutte, le mie denunce od esposti presentati agli organi competenti sono state regolarmente insabbiati: archiviati o di cui non si è più avuto notizia pur chiedendo esplicitamente l’esito. Far passare per mitomane o pazzo chi è controcorrente è la prassi, per denigrarne nome ed attività. Nonostante non vi sia mai stata condanna per calunnia.»
Quindi ritiene che, nonostante la sua opera moralizzatrice, alcuni magistrati del posto la perseguitano?
«Non dimentico il 18 aprile 2013. Due processi a Manduria, sezione staccata del tribunale di Taranto. In quei processi scomodi, che nessuno vuol fare, più giudici togati di Taranto si avvicendano: Rita Romano, Vilma Gilli, Maria Christina De Tommasi; oltre a 2 giudici onorari: Frida Mazzuti e Giovanni Pomarico. Processi a mio carico costruiti ad arte senza che vi sia stata la querela necessaria o la denuncia di attivazione. Alla prima giudice, Rita Romano, si è presentata ricusazione per la denuncia presentata contro di lei. In seguito di ciò l’avv. Gianluigi De Donno rinuncia alla mia difesa. Ha avuto le stesse remore di Nicola Marseglia nel momento in cui Franco Coppi ha presentato istanza di astensione alla Misserini ed alla Trunfio, i giudici di Sabrina Misseri. Per il primo sono accusato di calunnia in concorso con mia sorella, per aver presentato una denuncia contro un sinistro truffa, in cui era coinvolta un’avvocatessa stimata dai magistrati di Taranto, compreso un sostituto procuratore della Repubblica dello stesso Foro in cui esercitava, e sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato un esposto penale ed amministrativo a varie istituzioni denunciando questo ed altri casi di malagiustizia. Per l’altro processo sono accusato di diffamazione a mezzo stampa per aver pubblicato una denuncia contro le perizie false in Tribunale, da chi, Giuseppe Dimitri, mio cliente che ho difeso da avvocato fino all’estremo, mancava di legittimazione a farlo, in quanto il presunto diffamato era altra persona, cioè il denunciato. In udienza il danneggiato ha confermato che non ha mai presentato querela contro di me, né aveva avuto mai intenzione di farlo. Per quella denuncia il giudice Rita Romano ha condannato per calunnia Dimitri, nonostante il Consulente Tecnico del Tribunale, proprio per il reato di cui era accusato, era già stato depennato dalla lista tribunalizia dei CTU. Nel primo processo mi si accusa di aver calunniato, in concorso con mia sorella, un avvocato, Nadia Cavallo, accusandola, sapendola innocente, di aver chiesto ed ottenuto illecitamente i danni per un sinistro truffa e con testimoni falsi in suo atto di citazione che indicava come responsabile esclusiva Monica Giangrande. In effetti Monica Giangrande non era responsabile di quel sinistro. Eppure è stata condannata dal giudice Rita Romano. La condanna per calunnia a carico di mia sorella inopinatamente non è stata appellata dai suoi avvocati, pur sussistendone i validi motivi. La giudice, Rita Romano, è stata da me denunciata, così come Salvatore Cosentino, sostituto procuratore a Taranto e poi trasferito a Locri . Salvatore Cosentino, come tutti i magistrati di Taranto aveva molta stima per Nadia Cavallo. Rita Romano ha condannato mia sorella pur indicando in sentenza che altra persona era responsabile esclusiva del sinistro, così come mia sorella andava attestando. Va da sé che tale sentenza contenente illogicità e contraddizioni sarebbe dovuta essere appellata. Salvatore Cosentino era il Sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto che ha chiesto ed ottenuto l’archiviazione della denuncia contro la Procura di Taranto. Procura che ha archiviato le denunce presentate riguardo proprio a quel sinistro truffa. I processi civili inerenti il sinistro sono stati tutti soccombenti, nonostante le prove indicassero palesemente il contrario. La Nadia Cavallo ha ottenuto il risarcimento danni del sinistro dall’assicurazione, oltre che 25,000 mila euro di danni morali da Monica Giangrande proprio per la condanna di calunnia. Per questo procedimento la mia posizione sin dall’inizio è strana. Non sono convocato nella prima udienza preliminare con mia sorella, quindi è nullo il mio rinvio a giudizio. Dopo anni, nella seconda udienza preliminare, il GUP chiede al PM gli atti di prova a mio carico, in tale sede mancanti. Alla risposta negativa gli concede ulteriore termine di 6 mesi per trovare la prova della mia colpa, al termine dei quali, durante la terza udienza preliminare vi è comunque il Rinvio a Giudizio. All’ultima giudice devo provare se il fatto sussiste, se l’ho commesso, se è previsto come reato. Ebbene. Io, come mia sorella sapevamo benissimo che l’avvocato era colpevole: perché non era attendibile la versione fornita dell’evento. Ma questo non lo dicevamo solo noi, io e mia sorella, ma anche l’avvocato della compagnia assicurativa costituita nei vari giudizi. Eppure questi non è stato perseguito dello stesso reato. Per la compagnia non era verosimile il fatto che un signore che tocca lo sportello di un’auto non identificata e condotta da signora diversa dalla Monica Giangrande, si alzi e se ne vada, per poi chiamare un’ambulanza per farsi portare a casa e non in ospedale. Eppure negli atti di citazione non viene chiamata in causa la vera responsabile del presunto sinistro ed il vero proprietario dell’auto. Ciò nonostante si conoscesse il responsabile esclusivo del sinistro, veniva chiamata in causa mia sorella che acclamava a gran voce la sua estraneità. Ma il fatto eclatante è che sono stato accusato di calunnia io che quella denuncia non l’ho mai presentata, né ho indotto mia sorella a farlo, non essendo il suo avvocato. Sono stato accusato di calunnia io, che se l’avessi fatto, sapevo benissimo che la denuncia era fondata. Per quanto riguarda la seconda accusa, di diffamazione a mezzo stampa, c’è da dire che il sito web, su cui vi era l’articolo che faceva riferimento ai fatti, non era mio, né l’articolo era a me riferibile. Io per scrivere le mie inchieste ho moltissimi miei canali di divulgazione facilmente riconducibili a me e di quelli io ne rispondo. Né tantomeno la Polizia Postale si è prodigata sotto gli ordini del PM di sapere dall’azienda web provider che gestisce il server di pubblicazione chi fosse il vero proprietario del sito web e quindi responsabile delle pubblicazioni. E bene sapere, comunque, al di là di questo, che è lecita la pubblicazione delle denunce penali, così come stabilito dalla Corte di Cassazione. Per questi processi, come volevasi dimostrare, con il giusto giudice l’esito è scontato: Assoluzione piena da parte del Giudice Togato Maria Christina De Tommasi e da parte del GOT Giovanni Pomarico. Anzi, meglio ancora. Giovanni Pomarico, nel processo della presunta diffamazione per le perizie false, non ha fatto altro che registrare la remissione della querela delle parti. Di chi non aveva legittimazione a presentarla contro di me e di chi addirittura non l’aveva presentata affatto. Con il giudice naturale, se non vi fosse stata la ricusazione, sarebbe stata condanna certa. Quanto successo a Caforio mi conforta di un fatto: aver adottato i rimedi giusti per potermi salvare da sicura condanna. Il giudice titolare Rita romano è stata da me denunciata per fatti attinenti l’attività giudiziaria, scaturenti condanne per me, che nel proseguo si sono estinti, e per i miei familiari, e per tale denuncia è stata ricusata. Le ricusazioni presentate contro il giudice nei successivi processi che mi riguardavano, ha permesso a me di cambiare il mio destino e comunque di essere giudicato da giudici diversi e per gli effetti di essere dichiarato assolto. Per le ricusazioni presentate per palese mio interesse, però, lo stesso avvocato Gianluigi De Donno, mio difensore, ha rimesso il suo mandato. Motivo: la Ricusazione non si doveva fare. C’è da sottolineare che successivamente il Giudice Rita Romano, ogni qualvolta era investita dei miei procedimenti, si asteneva, tacendo della mia denuncia contro di lei, non mancando, però, di sottolineare ad alta voce nelle udienze affollate che l’astensione era dovuta al fatto che io ero stato da lei denunciato per calunnia. Denuncia che avrebbe scaturito un procedimento, di cui io non avevo avuto notizia. Non solo. Il 18 febbraio 2013 il Pm Ida Perrone, sostituta di Pietro Argentino (entrambi denunciati a Potenza) nella sua requisitoria in un procedimento per il reato di usura a carico di un Giangrande (poi non condannato) ha pensato di dichiarare: «i Giangrande sono ben noti in Avetrana per essere considerati usurai e per aver io stessa trattato alcuni procedimenti». In quello stesso collegio giudicante la medesima Rita Romano ha dovuto astenersi per grave inimicizia con il sottoscritto per i suddetti motivi riferiti. Le stesse affermazioni diffamatorie sono state proferite in altro procedimento penale in sede di conclusioni dall’avvocato Pasquale De Laurentiis, difensore di un individuo giudicato e condannato proprio per diffamazione in udienza ed anche lui per aver pronunciato proprio la stessa frase. Evidentemente questi signori lo possono fare, legittimati a farlo dal loro ruolo ed agevolati dal farlo da chi in toga lo permette, senza alcun controllo alcuno, tanto meno se le vittime in tale sede non possono alcunchè obbiettare, né tali dichiarazioni offensive, denigratorie e diffamatorie rese in udienza, vengono verbalizzate dai cancellieri per poter querelare i responsabili, sempre che si trovi un loro collega disposto a perseguirli. E’ chiaro che i magistrati e gli avvocati di Taranto e provincia hanno il dente avvelenato contro di me. L’intento è colpire i Giangrande per colpire il Giangrande, ossia me. Ma una cosa è certa. In Avetrana vi sono centinaia di persone con il cognome Giangrande. Nessuno di loro è stato mai condannato in via definitiva per il reato di usura. Quindi nulla si può dire sul nome Giangrande, ne tanto meno si può dire qualcosa su di me, Antonio Giangrande, che, oltretutto, sono il presidente nazionale proprio di una associazione antiracket ed antiusura, il quale ha fatto l’errore di battersi contro l’usura bancaria e l’usura di Stato. E’ quello che a Taranto è stato il primo ad attivarsi contro le bufale dei titoli MyWay e 4you della Banca 121 poi Banca Monte Paschi di Siena. Quello che ha lottato a tutela degli incapaci e delle perizie false. Quello che ha denunciato i concorsi pubblici truccati e i sinistri stradali falsi. Denunce regolarmente archiviate. Certo è che io, sì, invece, ho scritto libri sui miei detrattori. Specialmente quelli operanti sul foro di Taranto. Che sia per questo il motivo di tanto astio? Ed è questo il motivo che non vogliono che faccia l’avvocato e da decenni non mi abilitano alla professione forense? Ed è questo il modo di collaborare con chi ha il coraggio di mettersi contro la mafia e di affermare che comunque la mafia vien dall’alto e per gli effetti aver denunciato le malefatte dei poteri forti e presentato altresì a Potenza le denunce contro i magistrati di Taranto, che tra l’altro si son archiviati una denuncia a loro carico anziché girarla proprio a Potenza? Per questo forse non vi è alcuna collaborazione istituzionale e sostegno morale e finanziario, per il modo di pormi nei confronti dei poteri forti? Ed è per tutto questo che i loro amici giornalisti ignorano e denigrano me così come fanno con Beppe Grillo?»
Lei ha altri esempi di contrastanti giudizi riferibili all’attività dell’informazione?
«Certo. Il 21 febbraio 2013, un altro fatto. Dopo la richiesta di assoluzione da parte dell'accusa, il giudice del Tribunale di Casarano dott. Sergio Tosi, ha assolto Maria Luisa Mastrogiovanni per tutti e 12 i capi di imputazione. Il fatto non sussiste. E' la sentenza con la quale è stata assolta dall'accusa di diffamazione a mezzo stampa la giornalista Maria Luisa Mastrogiovanni, direttore del Tacco d'Italia. A portarla davanti al Tribunale penale di Casarano, presidente Sergio M. Tosi, è strato Paolo Pagliaro, editore televisivo salentino molto noto di Tele Rama, a sua volta protagonista di alcune vicissitudini giudiziarie, ma come imputato. Proprio queste vicende (l'uomo subì anche gli arresti domiciliari per un'inchiesta della procura barese, il cui processo è stato stralciato dal troncone principale nel quale è stato invece condannato l'ex ministro Fitto), insieme ad una serie di irregolarità e stranezze nella conduzione della sua azienda, costituirono l'oggetto di una corposa inchiesta di copertina de Il Tacco d'Italia, andato in edicola nel dicembre 2005. La stessa sorte non è toccata per Enzo Magistà e Antonio Procacci. Il gip di Bari Gianluca Anglana ha disposto l’imputazione coatta per i giornalisti di Telenorba Enzò Magistà e Antonio Procacci coinvolti nell’inchiesta scaturita dalla messa in onda del filmato girato dalla polizia scientifica di Perugia che mostrava il cadavere di Meredith Kercher. Meredith Kercher fu uccisa nel novembre del 2007 a Perugia e, nella casa in cui viveva, fu girato un video dalle forze dell’ordine per esaminare la scena del crimine che in seguito fu mostrato da Telenorba, una emittente pugliese. Il gip ha invece archiviato le posizioni dei familiari di Raffaele Sollecito, assolto in secondo grado dall’accusa di omicidio volontario insieme ad Amanda Knox. Il pm di Bari aveva chiesto l’archiviazione per tutti gli indagati perché «la diffusione di alcune parti del filmato relativo al sopralluogo effettuato dalla polizia scientifica nell’abitazione in cui venne rinvenuto il cadavere di Meredith Kercher – è stato scritto nella richiesta di archiviazione – , nel quale viene ripreso il corpo denudato della vittima, è avvenuto nell’ambito dell’esercizio del diritto di cronaca senza alcun intento offensivo della reputazione della studentessa uccisa». “Leso il diritto alla riservatezza ed alla tutela dell’immagine della ragazza e, per lei, dei suoi familiari”. E’ scritto, invece, in un passaggio dell’ordinanza con cui il gip del Tribunale di Bari Gianluca Anglana ha accolto l'opposizione proposta dalla famiglia di Meredith Kercher, la studentessa inglese uccisa a Perugia la notte tra il primo e il 2 novembre 2007, con riferimento alla richiesta di archiviazione per due giornalisti pugliesi che nel marzo 2008 mandarono in onda le immagini del corpo nudo della vittima. Il giudice, nel disporre l’imputazione coatta per Enzo Magistà, direttore di Telenorba, e per il giornalista Antonio Procacci, ha respinto la richiesta di archiviazione presentata dalla Procura di Bari in relazione ai reati di diffamazione a mezzo stampa e violazione del codice della privacy. In particolare è “pacifica la sussistenza dei requisiti della verità dei fatti rappresentati”, secondo il gip, e “non sembra rispettato il requisito della continenza nella esposizione del servizio”. Per il giudice, “risultano obiettivamente raccapriccianti le immagini delle ferite” e “tali da turbare il comune sentimento della morale”. L'inchiesta, nata dalla denuncia della famiglia Kercher, è approdata a Bari dopo che, in udienza preliminare, il gup di Perugia ha dichiarato la propria incompetenza territoriale. Il procuratore di Bari, Antonio Laudati, nel luglio 2012, aveva chiesto l’archiviazione del procedimento per tutti gli indagati (oltre Magistà e Procacci, anche i familiari di Raffaele Sollecito), ritenendo per i giornalisti “che gli stessi avessero agito nel legittimo esercizio del diritto di cronaca” e per gli altri l’insufficienza di elementi per sostenere l'accusa a dibattimento. Il giudice ha accolto la richiesta di archiviazione per padre, madre, sorella e due zii di Sollecito, condividendo le conclusioni della procura.»
Per le mie battaglie di civiltà e giustizia, che nonostante tutto creano un certo seguito nazionale, non potrei mai trovare una candidatura in qualsiasi partito tradizionale, reazionario e conservatore, da destra a sinistra. Eppure, in questa situazione di emarginazione e persecuzione, neanche in un movimento come quello di Grillo ho potuto trovare un posto in Parlamento per battermi per quello che so e per quello che sono a vantaggio dei più. Motivo? Perché i nuovi giustizialisti e moralisti della domenica hanno pensato bene di inibire le candidature a chi è indagato o condannato. Fa niente se trattasi di ritorsione giudiziaria al diritto sacrosanto di critica al malgoverno ed alla corruzione. Nel 2013 i grillini, primo partito a Taranto e secondo in provincia, catapultano a Roma ben due deputati. Oltre al più noto Alessandro Furnari, c’è anche Vincenza Labriola. La neo deputata 32 anni, mamma, laureata in Scienze della Comunicazione, prima delle politiche è stata già candidata al Consiglio comunale. Nel 2012 raccolse un solo voto di preferenza, oggi invece lo ‘tsunami’ di Grillo che ha investito il paese, l’ha lanciata in Parlamento. Precedenti risultati elettorali? Un voto. Sì, proprio così. Un solo voto di preferenza alle comunali di maggio 2012. È questo il «precedente» elettorale della neodeputata del Movimento Cinque Stelle, Vincenza Labriola, che insieme ad Alessandro Furnari, rappresenta i «grillini» parlamentari della provincia ionica. Ma se Alessandro Furnari, ex candidato sindaco alle comunali (prese l’1.6 per cento), bene o male lo si conosce, chi è mai Labriola? Alla «Gazzetta» lei si presenta così: «Sono laureata in Scienze della comunicazione ed ho discusso una tesi sullo sviluppo dell’arco ionico. E poi, trovare un lavoro confacente al titolo acquisito è risultata un'impresa praticamente impossibile nella mia città. Sono sposata - continua - ed ho scelto di rimanere nella mia città per amore». Quell’unico voto (anche se, un anno fa era diventata madre per la seconda volta e non aveva tempo per fare campagna elettorale) conferma, in maniera plastica, le tante contraddizioni del Porcellum. Ovvero, di una legge elettorale che (nonostante le primarie «democratiche e le parlamentarie degli stessi grillini) premia comunque i «nominati». Mandando a Montecitorio e a Palazzo Madama chi, di fatto, non ottiene un solo voto dagli elettori ma conquista il seggio in virtù della posizione in lista. Anzi, no. Labriola, un voto (ma proprio uno) l’ha comunque avuto...
LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO
Signore Onorevole Cittadino Parlamentare,
avrei bisogno per un attimo della sua attenzione. Dedichi a me un suo momento,così come io dedico le mie giornate alle vittime di mafia e delle ingiustizie. Questa mia segnalazione non è spam, né tantomeno l’istanza di un mitomane o di un pazzo e quindi da cestinare.
Sono il dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, riconosciuta dal Ministero dell’Interno come associazione antiracket ed antiusura, e scrittore-editore dissidente, che proprio sulle varie tematiche sociali ha scritto 50 libri letti in tutto il mondo facenti parte della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.
Mi rivolgo a voi perché nuovi, in quanto i parlamentari delle legislature precedenti non si sono mai degnati di dare dovuto riscontro alle mie segnalazioni di interesse pubblico. Nell’ambito della mia attività sempre io ho dato risposte ai miei interlocutori pur se a volte erano persone disperate e fuori di testa e quindi pretendenti risposte che io, senza potere, potessi dare.
Per prima cosa le sto a segnalare il fatto, già segnalato ai precedenti Parlamenti, che è impossibile in Italia svolgere l’attività di assistenza e consulenza antimafia se non si è di sinistra e se non si santificano i magistrati. In Italia vi è l’assoluto monopolio dell’antimafia in mano a “Libera” di Don Ciotti e di fatto in mano alla CGIL, presso cui molte sedi di “Libera” sono ospitate. “Libera”, con le sue associate locali, è l’esclusiva destinataria degli ingenti finanziamenti pubblici e spesso assegnataria dei beni confiscati. Di fatto le associazioni non allineate e schierate (e sono tante) hanno difficoltà oltre che finanziaria, anche mediatica e, cosa peggiore, di rapporti istituzionali. Si pensi che la Prefettura di Taranto e la Regione Puglia di Vendola a “Libera” hanno concesso il finanziamento di progetti e l’assegnazione dei beni confiscati a Manduria. A “Libera” e non alla “Associazione Contro Tutte le Mafie”, con sede legale a 17 km. A “Libera” che non può essere iscritta presso la Prefettura di Taranto, perchè ha sede legale a Roma, e non dovrebbe essere iscritta a Bari, perché a me è stato impedita l’iscrizione per mancata costituzione dell’albo.
Altra segnalazione di una mia battaglia ventennale riguarda l’esame truccato dei concorsi pubblici ed in specialmodo quello di abilitazione forense, che poi è uguale a quello del notariato e della magistratura. Ho anche cercato di denunciare l’evasione fiscale e contributiva degli studi legali presso i quali i praticanti avvocato sono obbligati a fare pratica. I “Dominus” non pagano o pagano poco e male ed in nero i praticanti avvocati e per coloro che non hanno partita iva non gli versano i contributi previdenziali presso la gestione separata INPS. Agli inizi, facendo notare tale anomalia al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, mi si disse: “fatti i cazzi tuoi anche perché vedremo se diventi avvocato. Appunto. Da anni mi impediscono di diventarlo, dandomi dei voti sempre uguali ai miei elaborati all’esame forense. Elaborati mai corretti.
Il sistema di abilitazione truccato riguarda tutte le professioni intellettuali: magistrati, avvocati, professori universitari, giornalisti, ecc. La domanda che ci si dovrebbe porre è: dov’è il trucco?
COMMISSIONI D’ESAME: con la riforma del 2003, (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180), dopo gli scandali e le condanne sono stati esclusi dalle commissioni d’esame i Consiglieri dell'Ordine degli Avvocati, competenti per territorio, mentre i Magistrati e i Professori universitari non possono correggere gli scritti del loro Distretto. Le commissioni locali fanno gli orali e vigilano sullo scritto, mentre gli elaborati sono corretti da altre commissioni estratti a sorte. Questa riforma, di fatto, mina la credibilità delle categorie coinvolte. Le Commissioni e le sottocommissioni hanno un diverso metro di giudizio, quindi alla fine bisogna affidarsi anche alla buona sorte per avere una commissione più benevola. Naturalmente, le Commissioni del nord continuano ad avere un atteggiamento pro lobby, limitando l’accesso all’avvocatura al 30% circa dei candidati, per paura che i futuri avvocati del sud emigrino al nord. A riguardo ci sono state interrogazioni scritte al Ministro della Giustizia da parte di deputati (n. 4-10247, presentata da Pietro Fontanini mercoledì 16 giugno 2004 nella seduta n. 478 e n. 4-01000 presentata da Silvio Crapolicchio mercoledì 20 settembre 2006 nella seduta n. 038). Dubbi sono sorti anche sul modo di abbinare le commissioni. Il deputato lucano Vincenzo Taddei (PdL) ha presentato un’interrogazione scritta al Ministro della Giustizia. Il motivo della richiesta di intervento è preciso: per ben tre anni consecutivi, nel 2005, 2006 e 2007, da quando sono entrate in vigore le modifiche sullo svolgimento dell’esame di avvocato, le prove scritte dei candidati della Corte d’Appello di Potenza stranamente sono state sempre corrette presso la Corte d’Appello di Trento con percentuali di ammessi all’orale sempre molto basse (nel 2007 circa il 18%).
LE TRACCE: sono conosciute giorni prima la sessione, tant’è che il senatore Alfredo Mantovano ha presentato una denuncia penale ed una interrogazione al Ministro della Giustizia (n. 4-03278 presentata il 15 gennaio 2008 Seduta n. 274).
INIZIO DELLE PROVE: la lettura delle tracce avviene secondo le voglie del Presidente della Corte d’Appello, che variano da città a città. Nel 2006 la lettura delle tracce a Lecce è stata effettuata alle ore 11,45 circa, anziché alle 09,00 come altre città. In questo modo i candidati hanno tempo di farsi dettare le tracce e i pareri sui palmari e cellulari, molto prima della lettura ufficiale.
IL MATERIALE CONSULTABILE: nel 2008, tra novembre e dicembre il caos. Se al concorso di magistratura succede di tutto, a quello di avvocatura è ancora peggio. Due concorsi diversi, stessa sorte. Niente male per essere un concorso per futuri magistrati ed avvocati. Niente male, poi, per un concorso organizzato dal ministero della Giustizia. Dentro le aule di tutta Italia, per il concorso di avvocati che si svolge in ogni Corte d'Appello italiana, è entrato di tutto: fotocopie, bigliettini con possibili tracce e, soprattutto, palmari e cellulari. Ma sul concorso in magistratura svolto a Milano c’è ne da parlare. Sopra i banchi i codici «commentati» vietati, con il timbro del ministero che ne autorizzava l'utilizzo. Relazione pubblicata sul sito del Ministero della Giustizia e protocollata con il n. 19178/2588 del 24/11/2008, in cui il presidente denuncia l'atteggiamento «obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore della Polizia di Stato, trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima». Eppure le regole dovevano essere più rigide. Dovevano esserci più controlli. Era stato assicurato dal ministero della Giustizia. Con tanto di sanzioni e espulsioni.
IL MATERIALE CONSEGNATO: per norma si dovrebbe consegnare ogni parere in una busta, contenente anche una busta più piccola con i dati del candidato. Ma non è così. Le buste con i dati si possono aprire prima della lettura degli elaborati. A Roma, venerdì 13 marzo 2009, alla fine è dovuta intervenire la polizia penitenziaria. Al grido di “Buffoni! Buffoni!” centinaia di esaminandi del padiglione 6 al concorso di notaio si sono scagliati contro la commissione. “Questo esame è una farsa – hanno gridato – ci sono gli estremi per poterlo annullare”. Si è visto “gente che infilava un nastro rosso nella busta” per farsi riconoscere, gente che “aveva le tracce già svolte” e gente che, dopo aver chiacchierato con i commissari, “si faceva firmare la busta in modo diverso”.
CORREZIONE DEGLI ELABORATI: la legge 241/90 e il Ministero della Giustizia dettano le regole in base alle quali si deve svolgere la correzione, per dare i giudizi. Essi attengono alla rappresentanza delle categorie degli avvocati, magistrati e professori universitari, oltre all’attenzione data alla sintassi, grammatica, ortografia e sui principi di diritto del parere dato.
Cosa fondamentale, la legge regola la trasparenza dei giudizi e la Costituzione garantisce legalità, imparzialità ed efficienza.
Di fatto, le commissioni da sempre adottano una percentuale di ammissibilità, che contrasta con un concorso a numero aperto: 30% al nord, 60% al sud.
Di fatto, le commissioni sono illegittime, perché mancanti, spesso, di una componente necessaria.
Di fatto, i tre compiti non sono corretti, ma falsamente dichiarati tali, perché sono immacolati e perché non vi è stato tempo sufficiente a leggerli. (3/5 minuti per elaborato: per aprire la busta con il nome e la busta con l’elaborato, lettura del parere di 4/6 pagine, correzione degli errori, consultazione dei commissari per l’attinenza ai principi di diritto, verbalizzazione, voto e motivazione).
Di fatto, i voti dei tre elaborati sono identici e le motivazioni sono mancanti o infondate. Su tutti questi notori rilievi vi è stata interrogazione presentata dal deputato Giorgia Meloni (n. 4-01638 mercoledì 15 novembre 2006 nella seduta n.072). Oltre che quella n. 4-01126 presentata da Giampaolo Fogliardi mercoledì 24 settembre 2008, seduta n.054, e quella n. 4-07953 presentata da Augusto di Stanislao mercoledì 7 luglio 2010, seduta n.349. Illegale ed illegittimo è anche il ritardo con cui sono consegnate dalle commissioni di esame le copie degli elaborati, al fine di impedire la presentazione in termini dei ricorsi al Tar, in quanto la maggior parte di questi ricorsi sono accolti dalla giustizia amministrativa. Solo, però, se presentati in modo ordinario, in quanto le commissioni impediscono l’accesso al beneficio del gratuito patrocinio.
Di fatto, il Ministero non risponde alle interrogazioni parlamentari, né ai ricorsi dei candidati. Le denunce penali contro gli abusi e le omissioni, poi, sono gestite dai magistrati, componenti delle stesse commissioni contestate, per cui le stesse rimangono lettera morta.
Di fatto, gli ispettori in loco del Ministero della Giustizia sono componenti del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati, che come tali non possono far parte delle Commissioni, in quanto dalla riforma del 2003 sono stati esautorati per il loro comportamento.
Di fatto, alcuni candidati superano l’esame al primo tentativo. Chi presenta le denunce penali circostanziate e provate, invece, deve rinunciare a causa delle ritorsioni. Sulla home page di www.controtuttelemafie.it al link dossier vi sono tutti gli atti giudiziari di riferimento.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
Questa è la denuncia penale, così come richiesta in sede di avocazioni delle indagini alla procura Generale della Corte di Appello di Potenza, e per la quale è stata presentata (a dire di Rita Romano) denuncia per calunnia.
DENUNCIA ALLA S.V.
Rita Romano, giudice monocratico del Tribunale di Taranto, sezione staccata di Manduria,
domiciliata in viale Piceno a Manduria,
per i reati di cui agli artt. 81, 323, 476, 479 c.p., con applicazione delle circostanze aggravanti, comuni e speciali ed esclusione di tutte le attenuanti,
IN QUANTO
Essa, abusando del suo ufficio, ha adottato continuamente atti del suo ufficio, con “INTENTO PERSECUTORIO”, lesivi degli interessi, dell’immagine e della persona del sottoscritto, motivati da pregiudizio ed inimicizia e non sostenute da prove.
Nei procedimenti che riguardavano direttamente o indirettamente il Giangrande Antonio, quando questi esercitava la professione forense, essa ha condannato quando le prove erano evidenti riguardo l’innocenza, o essa ha assolto quando le prove erano evidenti sulla colpevolezza.
PREMESSO CHE:
Giangrande Antonio, da difensore, è stato vittima di un aggressione in casa da parte del marito di una sua assistita in un procedimento di separazione, al fine di impedirgli la presenza all’udienza del giorno successivo. Nel processo penale n. 10354/03 RGD, in data 14 febbraio 2006, la Romano assolveva l’aggressore Mancini Salvatore. In un processo istruito, in cui il PM non ha richiesto l’ammissione di alcun testimone, pur indicanti in denuncia Giangrande Antonio, sua moglie Petarra Cosima e il figlio Giangrande Mirko, la Romano sente solo i coniugi ai sensi del’art. 507 c.p.p. su indicazione del Giangrande, ma rinuncia alla testimonianza di Mirko, il vero testimone. Tale abnorme decisione di assoluzione è stata assunta disattendendo i fatti, ossia le lesioni e le testimonianze, e definendo testimoni inattendibili il Giangrande e la Petarra.
Giangrande Antonio era accusato di esercizio abusivo della professione forense e per gli effetti di circonvenzione di incapace. Nel processo penale n. 7612/01 RGPM, in data 06/03/2007, nonostante lo stesso PM riteneva il reato di esercizio abusivo della professione forense infondato e inesistente, essendovi regolare abilitazione al patrocinio legale, chiedendone l’assoluzione, la Romano condannava il Giangrande per circonvenzione di incapace. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante le tariffe forensi prevedevano l’obbligatorietà dell’onorario per il mandato svolto. Tale abnorme decisione è stata assunta nonostante più volte si sia denunciata la violazione del diritto di difesa per mancata nomina del difensore, per impedimento illegittimo all’accesso al gratuito patrocinio. E’ seguito appello. Da notare che il giorno della sentenza era l’ultimo processo ed erano presenti solo il PM, il giudice Romano, il cancelliere e il difensore dell’imputato. Dagli uffici giudiziari è partita la velina. Il giorno dopo i giornali portavano la notizia evidenziando il fatto che il condannato Giangrande Antonio era il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Era la prima volte che le vicende del Tribunale di Manduria avevano degna attenzione.
Giangrande Antonio era difensore di Natale Cosimo in una causa civile di sinistro stradale. Il testimone Fasiello Mario dichiara di non sapere nulla del sinistro. Esso era denunciato per falsa testimonianza. Nel processo penale n. 1879/02 PM , 1231/04 GIP, 10438/05 RGD, in data 27 novembre 2007, la Romano lo assolveva. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante lo stesso rendeva testimonianza contrastante a quella contestata. Lo assolveva nonostante affermava il vero e quindi il contrario di quanto falsamente dichiarato in separata causa. Lo assolveva nonostante a difenderlo ci fosse un difensore, Mario De Marco, impedito a farlo in quanto Sindaco pro tempore di Avetrana. Il De Marco e Nadia Cavallo hanno uno studio legale condiviso.
Giangrande Antonio e Giangrande Monica erano accusati di calunnia, per aver denunciato l’avv. Cavallo Nadia per un sinistro truffa, in cui definiva, in reiterati atti di citazione, Monica “RESPONSABILE ESCLUSIVA” del sinistro. Atti presentati due anni dopo la richiesta di risarcimento danni, che la compagnia di assicurazione ha ritenuto non evadere. Il Giangrande Antonio non aveva mai presentato denuncia. Antonio era fratello e difensore in causa di Monica. La posizione del Giangrande Antonio era stralciata per lesione del diritto di difesa e il fascicolo rinviato al GIP. Nel processo penale n. 10306/06 RGD, in data 18 dicembre 2007, la Romano condannava Giangrande Monica e rinviava al PM la testimonianza di Nigro Giuseppa per falsità. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante la presunta vittima del sinistro non abbia riconosciuto l’auto investitrice, si sia contraddetto sulla posizione del guidatore, abbia riconosciuto Nigro Giuseppa quale responsabile del sinistro, anziché Giangrande Monica. Tale abnorme decisione è stata assunta, nonostante Nigro Giuseppa abbia testimoniato che la presunta vittima sia caduta da sola con la bicicletta e che con le sue gambe sia andato via, affermando di stare bene. E’ seguito appello.
Giangrande Antonio era difensore di Erroi Cosimo, marito di Giangrande Monica, sorella di Antonio. In causa civile, in cui difensore della contro parte era sempre Cavallo Nadia, tal Gioia Vincenzo ebbe a testimoniare sullo stato dei luoghi, oggetto di causa. Il Gioia, in chiara falsità, palesava uno stato dei luoghi, oggetto di causa, diverso da quello che con rappresentazione fotografica si è dimostrato in sede civile e penale. Il Gioia, denunciato per falsa testimonianza veniva rinviato a giudizio in proc. 24/6681/04 R.G./mod 21. Difeso da Cavallo Nadia in proc. 10040/06 RGD. In data 16 aprile 2008 il giudice Rita Romano, pur evidenti le prove della colpevolezza, assolveva il Gioia Vincenzo.
"La pubblicazione della notizia relativa alla presentazione di una denuncia penale e alla sua iscrizione nel registro delle notizie di reato, oltre a non essere idonea di per sé a configurare una violazione del segreto istruttorio o del divieto di pubblicazione di atti processuali, costituisce lecito esercizio del diritto di cronaca ed estrinsecazione della libertà di pensiero previste dall'art 21 Costituzione e dall'art 10 Convenzione europea dei diritti dell'uomo, anche se in conflitto con diritti e interessi della persona, qualora si accompagni ai parametri dell'utilità sociale alla diffusione della notizia, della verità oggettiva o putativa, della continenza del fatto narrato o rappresentato. (Rigetta, App. L'Aquila, 10 Marzo 2006)". (Cass. civ. Sez. III Sent., 22-02-2008, n. 4603; FONTI Mass. Giur. It., 2008).
SE QUESTA E’ GIUSTIZIA.
Solo nel 2012 l’Italia ha aggiunto un nuovo record alla lista di primati negativi collezionati nel tempo a Strasburgo sul fronte della giustizia. Dopo essersi aggiudicata per anni la maglia nera come Paese, tra i 47 del Consiglio d’Europa, con il più alto numero di sentenze della Corte per i diritti dell’uomo non eseguite (arrivato ora a quota 2569, dietro di noi ci sono la Turchia con 1780 sentenze non eseguite e la Russia con 1087), l’Italia è diventata anche lo Stato che spende di più per indennizzare i propri cittadini per le violazioni dei diritti umani subite: ben 120 milioni di euro. Una cifra pari a circa cinque volte il contributo annuo versato al Consiglio d’Europa e più del doppio di quanto nel 2012 hanno pagato complessivamente, come indennizzi, tutti gli altri Stati membri dell’organizzazione. Una situazione, stigmatizzata recentemente anche dal ministro Cancellieri, che rispecchia le condizioni in cui versa il sistema giudiziario nazionale e che è stata fotografata dal rapporto annuale del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa sull’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti umani pubblicato. E sempre sul tema è arrivata anche la notizia del ricorso presentato dall’Italia contro la sentenza con cui a Strasburgo è stata condannata lo scorso gennaio per le condizioni in cui vivono i detenuti nelle carceri italiane. Un’azione che, secondo molti osservatori, è destinata nella migliore delle ipotesi solo a guadagnare tempo in vista delle decisioni in arrivo sulle cause intentate da centinaia di detenuti e la necessità di intervenire sulle strutture carcerarie per superare l’emergenza. Intanto però a Strasburgo l’Italia è finita anche nella top ten dei “sorvegliati speciali” dal Comitato dei ministri, status che il nostro Paese condivide al momento con altri 28 Paesi. Una condizione che sottopone il nostro Paese a uno stretto monitoraggio e alla necessità di fornire costantemente prove inconfutabili sulle misure che sta adottando per sanare criticità abnormi come la lentezza dei processi e la gestione dei rifiuti in Campania. Un problema, quest’ultimo, approdato al Comitato dei ministri dopo che un anno prima la Corte ha condannato il nostro Paese per la «prolungata incapacità delle autorità di assicurare la raccolta, il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti nella regione». Restano poi sempre aperte questioni come quella delle confische e degli espropri fatti dai comuni, sin dagli anni ’70, ai danni di singoli cittadini e società. A far conquistare all'Italia il non invidiabile record di indennizzi sono state in particolare tre sentenze della Corte di Strasburgo in cui i giudici hanno stabilito una violazione del diritto di proprietà. A causa di violazioni sistematiche del diritto alla proprietà, l’Italia è stata condannata a pagare, in un solo anno, indennizzi per ben 97 milioni, di cui 49 per la distruzione dell’ecomostro di Punta Perotti e 48 per l’esproprio di un terreno della società Immobiliare Podere Trieste. Mentre sono ancora pendenti davanti alla Corte altri 300 ricorsi sulla stessa materia e molti ancora sono in arrivo. Ma a pesare sulla “bolletta-indennizzi” del 2012 è stata anche la vicenda delle frequenze TV non concesse a Centro Europa 7, costata ai contribuenti 10 milioni di euro. Da sole queste tre condanne sono costate al contribuente italiano quasi 108 milioni di euro, una somma che supera di molto quella pagata l'anno scorso da tutti gli Stati membri del Consiglio d'Europa messi insieme (72 milioni di euro). Senza queste tre condanne l'Italia avrebbe pagato in indennizzi un totale di 11 milioni di euro, arrivando al secondo posto dietro alla Turchia, condannata a pagare nel 2012 23 milioni di euro. Senza parlare poi di quegli errori giudiziari che costano come una manovra. Indagini approssimative. Magistrati ed avvocati che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis, scrive Francesco Viviano su “La Repubblica”. C'è già un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni, assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990. Il caso di Busco, difeso proprio da Franco Coppi difensore anche di Sabrina Misseri nel processo sul delitto di Sara Scazzi, rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Parola di Guardasigilli, messa nero su bianco dal neoministro Paola Severino nella sua relazione sullo stato della Giustizia in Italia, presentata alla Camera a gennaio: "Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari". I condannati della strage di via D'Amelio. L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno scorso, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio scorso, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Ma quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso Tortora al caso Barillà". Proprio questo aveva dichiarato, nel dicembre del 2010, l'allora l'avvocato e docente universitario Paola Severino, commentando la pista falsa che, durante le indagini sul rapimento della piccola Yara Gambirasio, aveva portato in carcere il cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che sarebbero cinque milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. "Nell'ultimo decennio ci sono state 8 mila richieste l'anno di risarcimento per ingiusta detenzione. E ben 2.500 sono state accolte. Ma la legge attuale non consente un adeguato risarcimento perché fissa il tetto massimo in 516 mila euro" afferma l'avvocato Gabriele Magno, bolognese, fondatore dell'Associazione nazionale vittime errori giudiziari. "Noi chiediamo l'abolizione di questo tetto, così come chiediamo che sia tolto il limite di tempo entro il quale si può avviare la causa di riparazione, che oggi è fissato in due anni dalla revisione del processo e dall'assoluzione". 213 milioni di risarcimento nel triennio 2004-2007. Senza considerare che ogni detenuto costa allo Stato 235 euro al giorno (la metà se è ai domiciliari): quanto pesano in termini di soldi gli errori giudiziari? I dati per i periodo 2004- 2007, forniti dal ministero dell'Economia, in quanto ufficiale pagatore parlano di 213 milioni di euro. I risarciti sono 3.600, per il 90 per cento italiani, per il resto stranieri. Il risarcimento più alto, di 4,6 milioni, lo ha ottenuto Daniele Barillà, scambiato nel 1992 per un trafficante internazionale di droga per il semplice fatto che aveva un'auto e una targa molto simili a quelle di un narcotrafficante pedinato dai carabinieri. Per Barillà, come per molti altri, oltre all'errore giudiziario, c'era il problema dell'ingiusta detenzione: cinque anni e mezzo, nel suo caso. "La vera novità è che per la prima volta, per lui, è stato accolto il concetto di risarcire il danno esistenziale" dice l'avvocato Magno. "Un danno che va ad aggiungersi a quello morale, biologico ed economico". Ma è sempre dei magistrati la colpa? No: l'avvocato Magno se la prende anche con i suoi colleghi: "In base alla mia esperienza, la responsabilità è dei giudici nella metà dei casi, per il resto è di noi avvocati: per i ricorsi presentati in ritardo, le scelte difensive sbagliate o gli errori procedurali. I magistrati possono sbagliare, come tutti: non ci interessa punirli, ma vogliamo venga risarcita la vittima e riabilitato il suo buon nome. E di fronte al rischio indennizzo, il giudice si autolimiterebbe e farebbe molta attenzione nell'adottare certi provvedimenti. Senza nulla togliere alla sua autonomia". L'attuale normativa sull'ingiusta detenzione e sugli errori giudiziari - secondo Magno - non sarebbe sufficiente per compensare chi ha subito danni quasi irreparabili. Così, la sua associazione ha già indicato alcune proposte di riforma: "La prima questione riguarda l'ingiusta detenzione e proprio il fatto che la richiesta di indennizzo è sottoposta a un limite di prescrizione di due anni dalla sentenza definitiva. Questo limite ci sembra assurdo, perché si crea una prescrizione brevissima che incide sull'efficacia reale della tutela di chi ha subito una simile ingiustizia. Vogliamo che quel limite di due anni sia sostituito con la clausola in ogni tempo, per dare modo a chiunque di rivalersi. Altra proposta: creare una sorta di automatismo che consideri le vittime di ingiusta detenzione privilegiate nel loro reingresso nel mondo del lavoro. Penso ai concorsi pubblici, dove la condizione di chi ha subito malagiustizia dovrebbe essere equiparata a quella dei portatori di handicap". Napoli,Le statistiche confermano che, negli ultimi 15 anni, sono state completamente scagionate oltre 300 mila persone. Soltanto tra il 1990 e il 1994, sono state quasi 24.500 le sentenze definitive pronunciate con la formula assolutoria più ampia: perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non ha commesso il fatto. Ad esse vanno aggiunte altre 73.326 persone assolte con una formula altrettanto liberatoria, ma più tecnica: il fatto non costituisce reato. In base ai dati disponibili, non proprio recentissimi, però, errori giudiziari o ingiuste detenzioni si registrano soprattutto al Sud. La Corte d'appello di Napoli guida questa classifica avendo riconosciuto il maggior numero di casi: 449 risarcimenti concessi nel 1999 (e 152 nel 2000), pari al 9,53 per cento del totale nazionale. In seconda posizione, la Corte di Reggio Calabria che, sempre nel 1999, ha dato al via libera a 420 autorizzazioni. Seguono Catanzaro e Palermo, con 412 e 406 sentenze nello stesso anno. Fino al 1999, oltre la metà dei risarcimenti sono stati riconosciuti da giudici del Sud, un quarto al Nord e un quinto al Centro. Ma altri indennizzi milionari, ben più consistenti di quello di Barillà, sono in arrivo. Se infatti, per i suoi cinque anni di prigione, lo Stato ha risarcito 4,6 milioni di euro, quanto dovrà rifondere agli ex ergastolani della strage Borsellino?
GIUSTIZIA. QUELLO CHE NON SI DICE.
Tutta la stampa ne da la notizia il 14 aprile 2013. Si è tolto la vita assistito dal personale di una clinica Svizzera. Pietro D'Amico era un magistrato per bene, una «toga buona» e fuori dai giochi di potere. Messo in croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Pietro D'Amico, autore di saggi di Filosofia del Diritto e Diritto romano adottati come libri di testo da alcune università, era stato indagato, insieme ad altri magistrati dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la perquisizione di un parlamentare nell'ambito dell'inchiesta Poseidone sui presunti illeciti nella gestione dei fondi per la depurazione. Ne era uscito indenne, ma totalmente disgustato. Aveva deciso di abbandonare la toga commentando: "Questa magistratura non mi merita". Non aveva compiuto ancora 60 anni quando ha deciso di lasciare la magistratura. Ex magistrato calabrese, Pietro D'Amico, 62 anni, di Vibo Valentia, è morto in una clinica di Basilea, in Svizzera, dove gli è stato praticato il suicidio assistito. D'Amico aveva deciso di sottoporsi al suicidio assistito in piena lucidità, scegliendo a tale scopo la struttura sanitaria in Svizzera. Il suo ultimo incarico lo aveva svolto alla Procura generale di Catanzaro in qualità di sostituto procuratore. Negli anni scorsi era stato indagato, insieme ad altri magistrati dalla Procura di Salerno, per una fuga di notizia per la perquisizione di un parlamentare nell'ambito dell'inchiesta Poseidone sui presunti illeciti nella gestione dei fondi per la depurazione. D'Amico era stato poi prosciolto, ma aveva deciso di abbandonare la toga commentando: "Questa magistratura non mi merita". L'ex pg Domenico Pudia ricorda che D'Amico «da tempo, in seguito a quelle accuse, aveva perso il sorriso». Quell'indagine «finì come doveva finire, ma nonostante tutto lui non si è più ripreso. Ebbe una sorta di rigetto della magistratura e forse dei magistrati». I sospetti su D’Amico nascevano in quel clima di veleni che dominava all’epoca la procura di Catanzaro, con una guerra di bande tra magistrati che, dopo l’avocazione dell’inchiesta Why Not a De Magistris, sfociò nel clamoroso conflitto tra la procura salernitana e quella catanzarese, con sequestri e contro sequestri di atti giudiziari. Un ambiente avvelenato in cui in fondo a soccombere, o comunque a pagarne maggiormente le conseguenze, erano i più corretti, quelli che nelle inchieste finirono per essere una sorta di danno collaterale. Oltre a D'Amico, finirono sott'inchiesta a Salerno l'ex pg Domenico Pudia, il capo dei gip Antonio Baudi, il carabiniere Mario Russo e l'ex procuratore Mariano Lombardi, scomparso un paio di anni fa. Furono tutti prosciolti. «Insussistenza della notizia di reato», insostenibile «fattispecie associativa» e «lacunoso impianto accusatorio» furono i termini usati dal giudice per demolire il teorema della fuga di notizie orchestrata dai massimi vertici del distretto giudiziario di Catanzaro. Eppure, nonostante la riabilitazione da quell'infamia subita dopo oltre trent'anni di onorata carriera, Pietro D'Amico non si è più ripreso. È entrato in depressione. Tra il disgusto e la rabbia agli amici aveva confidato: «Questa magistratura non mi merita», e si era dimesso. Era stato massacrato, ai tempi delle Grandi Inchieste di Giggino. Messo in croce sui giornali per un sospetto suffragato da indizi labili. Era finito nel tritacarne investigativo di de Magistris e Genchi (entrambi sotto processo a Roma per l'acquisizione illegale dei tabulati telefonici di otto parlamentari) per aver fatto due telefonate. Una al presidente della Regione Calabria Giuseppe Chiaravalloti (suo collega magistrato) della durata di venti secondi. Cronometrati. E l'altra all'allora deputato-avvocato Giancarlo Pittelli. Ecco, i sospetti su D'Amico nacquero così: per aver chiamato due futuri indagati di de Magistris. Il nome del procuratore generale aggiunto fece capolino anche nella vicenda che vide coinvolto l'allora capitano dei carabinieri Attilio Auricchio, braccio destro di de Magistris ai tempi di Catanzaro e poi suo fedele capo di Gabinetto al Comune di Napoli. Fu D'Amico, infatti, a ottenere che l'ufficiale dell'Arma fosse punito per aver sbagliato a trascrivere una intercettazione telefonica in cui, al posto della parola «provveditore», era stato annotato «procuratore», con l'aggiunta (che nella conversazione originale non esisteva) del nome Chiaravalloti. D'Amico impugnò l'assoluzione nel procedimento disciplinare di primo grado e trascinò Auricchio davanti al gran giurì del ministero della Giustizia che ribaltò l'assoluzione e gli inflisse la censura. Ai pm che lo sentirono qualche tempo dopo, Auricchio rivelò che il ricorso di D'Amico era animato da «uno zelo sospetto». «Per l'allucinante inchiesta di Salerno, era entrato in una depressione nerissima», dice al Giornale l'ex governatore Chiaravalloti. «Era un buono, un uomo dolcissimo. Uno studioso, lontano dai giochi di potere. Visse quell'indagine come un torto personale che non è riuscito a superare». L'ex pg Domenico Pudia ricorda che D'Amico «da tempo, in seguito a quelle accuse, aveva perso il sorriso». Quell'indagine «finì come doveva finire, ma nonostante tutto lui non si è più ripreso. Ebbe una sorta di rigetto della magistratura e forse dei magistrati». «Finì nei guai perché parlava con me», sottolinea Giancarlo Pittelli. Che aggiuge: «De Magistris ha fatto del male a centinaia di persone che ho difeso. A me ha distrutto l'esistenza».
Enzo Tortora e le tante vittime della (in)giustizia, scrive Fedro su “Blog Sicilia”. Milioni di italiani hanno seguito la fiction dedicata all’incredibile vicenda giudiziaria ed umana di Enzo Tortora; milioni di italiani sono inorriditi al pensiero di come l’infernale ingranaggio della giustizia in questo paese sia in grado di stritolare la vita di chiunque.
Enzo Tortora non era un italiano qualunque: era un giornalista di straordinarie capacità, un uomo profondamente rispettoso delle leggi ed una delle personalità pubbliche più esposte nella lotta culturale e ideologica contro ogni forma di criminalità; eppure tutto questo non fu sufficiente per, almeno, beneficiare dell’ombra del dubbio rispetto alle false certezze di magistrati ciechi ed incapaci. Bastarono un manipolo di pentiti alla ricerca della rivelazione sensazionale e di un congruo sconto di pena per distruggere, senza alcuna prova e con la connivenza degli inquirenti, un uomo per bene, la cui sola colpa era quella di essere famoso ed indifeso. Uno dei più tragici errori giudiziari della storia italiana, che costò a Tortora un tumore e la prematura morte e che spianò la strada ad un referendum con il quale la stragrande maggioranza degli italiani decise che i magistrati che sbagliavano, rovinando la vita a degli innocenti, dovevano pagare, come accade a qualsiasi altro cittadino. Ed invece, dopo anni ed anni, di un inutile e stanco dibattito, i magistrati restano gli unici servitori dello Stato a non correre alcun rischio per la loro negligenza o per la loro incapacità; le promozioni continuano a fioccare in ragione dell’anzianità senza alcuna valutazione soggettiva. Anzi, persino i magistrati del “caso Tortora”, all’indomani della sentenza e dell’evidenza del clamoroso errore, invece di essere cacciati come sarebbe accaduto in qualsiasi paese civile, continuarono ad esercitare e ad accumulare le promozioni che gli scatti d’anzianità determinarono. Non esiste un solo Paese democratico e moderno nel quale uno dei poteri che regge l’architettura dello Stato è sottratto a qualsiasi controllo e sul quale vige una sorta di impunità che si è trasformata, negli anni, in un delirio di onnipotenza senza strumenti di comparazione nell’intero mondo occidentale; uno stato nello stato, regolato da leggi autonome, sottratto ai più elementari controlli democratici e autoimmunizzato contro ogni critica. Guai a chi si permette di criticare un magistrato, l’operato di un giudice o la conduzione di un’indagine: il rischio automatico è quello di attirare gli strali dei “pasdaran” del giustizialismo; gli stessi per i quali un magistrato in esercizio della sua funzione, e magari nel tempo libero, può criticare liberamente lo Stato suo datore di lavoro, dare giudizi estremi sul parlamento e ridurre il tutto ad un mero esercizio di presunta democrazia, mentre se è lo stato o il parlamento, o anche un semplice cittadino, a criticare un magistrato si grida al complotto. Ed allora si applichi subito e senza indugio il risultato di quel referendum e si rispetti la volontà degli italiani; ciascun magistrato risponda ai cittadini del suo operato, paghi se sbaglia e venga premiato solo se è capace. Solo cosi si determinerà un circuito virtuoso che selezioni e protegga i magistrati migliori, faccia riacquistare ai cittadini la fiducia perduta nella giustizia, e soprattutto eviti il ripetersi di altri casi come quello di Enzo Tortora, o come quelli delle migliaia di italiani che sono morti di giustizia.
Il caso di Salvatore Gallo è di quelli destinati a passare alla storia degli errori giudiziari più clamorosi. Fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del fratello Paolo che in realtà, sette anni dopo, si ripresenta vivo e vegeto. E’ il 6 ottobre 1954 quando la moglie di Paolo Gallo, contadino siciliano, ne denuncia la scomparsa alla stazione dei carabinieri di Avola (Siracusa). Suo marito è uscito per andare a lavorare nei campi all’alba del giorno precedente, ma non è mai tornato a casa. Le indagini dei carabinieri sono a dir poco precipitose. Sul luogo dove Paolo Gallo era solito lavorare ci sono tracce di sangue. C’è sangue anche nella casa del di lui fratello, Salvatore. E siccome tutti in paese sanno che i due fratelli non vanno d’accordo e sono soliti accapigliarsi per quegli investigatori di paese due più due fa quattro: se Paolo è stato ucciso ad ucciderlo è stato Salvatore, probabilmente con l’aiuto del figlio, Sebastiano. Ma il cadavere di Paolo non c’è. Non fa nulla, si vede che i due lo hanno sotterrato da qualche parte in campagna. A nulla valgono le professioni di innocenza di Salvatore e Sebastiano Gallo. La Giustizia, quando vuole, sa muoversi decisione. E senza tentennamenti. Nel primo processo a nulla serve che due contadini giurino di aver visto Paolo Gallo vivo e vegeto. Non è la giustizia a sbagliarsi, ma loro a mentire: condannati per falsa testimonianza. Salvatore Gallo viene invece condannato all’ergastolo, a 14 anni per occultamento di cadavere (quale?) il figlio Sebastiano. Stessa storia al processo d’Appello: pena confermata per il padre, pena ridotta a un anno e quattro mesi per il figlio. Inammissibile qualsiasi ricorso in Cassazione. Sarà necessaria un’attenta inchiesta giornalistica, condotta da un cronista di razza come Enzo Asciolla, del quotidiano La Sicilia, per dimostrare quanto la giustizia degli uomini sia fallace. Asciolla, seguendo una labilissima traccia, scopre che Paolo Gallo non è mai morto, ha semplicemente deciso di scomparire. Peccato che suo fratello Salvatore abbia trascorso sette anni in galera e che in carcere, nel penitenziario dell’isola di Santo Stefano, vicino a Ventotene, riservato agli ergastolani, si sia gravemente ammalato di artrosi e sia finito su una sedia a rotelle.
Venerdì 12 aprile 2013 alle ore 23.00 su Italia 1, nuovo appuntamento in seconda serata con "Le Iene". Conducono Ilary Blasi, Teo Mammucari e la Gialappa's. Tra i servizi di questa puntata: nei giorni prima la Iena Mauro Casciari, che ha preso a cuore la vicenda della morte di Giuseppe Uva, ha ricevuto una querela per diffamazione per un servizio andato in onda ad ottobre nel 2011, che conteneva un'intervista a Lucia Uva, la sorella di Giuseppe Uva anch'essa querelata per diffamazione. Per far luce sulla vicenda, Casciari intervista nuovamente Lucia Uva e ripercorre la storia del fratello, quarantenne morto in circostanze poco chiare il 14 giugno del 2008 a Varese. L'uomo, quella notte, viene portato con un amico in centrale per accertamenti da una pattuglia di Carabinieri. È proprio l'amico a raccontare di aver contattato il 118 mentre si trovava in sala d'attesa, sentendo dei lamenti di Uva provenire da un'altra stanza; richiesta fatta poi rientrare durante una chiamata di conferma del 118 alla caserma. Solo poche ore dopo, una guardia medica chiederà l'intervento di un'ambulanza per un Tso (trattamento sanitario obbligatorio); è sempre stato sostenuto, infatti, che Giuseppe Uva si sia reso protagonista di atti di autolesionismo. Ricoverato nell'ospedale psichiatrico di Varese, l'uomo verrà dichiarato morto poco tempo dopo. Secondo quanto accertato inizialmente dalle indagini, sembra gli siano stati somministrati medicinali incompatibili con l'assunzione di alcool. Per fare maggiore chiarezza e verificare le reali cause della morte, successivamente, però, il tribunale decide per la riesumazione del corpo. La perizia testimonia che la morte del giovane sarebbe stata scatenata; da "stress emotivo" dovuto "a uno stato di intossicazione etilica acuta”; “a misure di contenzione fisica e lesioni traumatiche auto e/o etero prodotte". La sentenza emessa il 23 aprile 2012 assolve, quindi, il medico dell'ospedale di Varese che era stato accusato di aver somministrato cure sbagliate a Giuseppe Uva. Il giudice ordina, quindi, la trasmissione degli atti al pm con riferimento agli accadimenti accorsi prima dell'ingresso in pronto soccorso. A quattro anni dalla morte dell'uomo, però, non si ha ancora un colpevole, per questo la sorella di Giuseppe Uva chiede che vengano fatte delle indagini per capire cosa sia successo nel lasso di tempo tra il fermo e il ricovero in ospedale. A questo punto il servizio parla della richiesta di avocazione delle indagini, per inerzia del Pubblico Ministero Abate, avanzata da Lucia Uva presso la procura Generale della Corte d’Appello di Milano, adducendo il fatto che nessuna indagine è stata fatta per trovare il responsabile della morte del fratello Giuseppe. L’istanza viene rigettata e sia Lucia Uva e sia Mauro Casciari spiegano che ha indurre al diniego è stata proprio la querela per diffamazione presentata contro di loro. Quindi, non è stata accolta la richiesta dei familiari di Giuseppe Uva di togliere l'indagine al pm Abate. La Procura generale della Corte di Appello di Milano ha bocciato la richiesta dei familiari di Giuseppe Uva di togliere al pm Agostino Abate l’indagine ed affidarla ad un altro magistrato. Lo si riferisce nella pagina ufficiale su Facebook dedicata al 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto in caserma a Varese per alcune ore. Un’altra “vittima di Stato”, come si denuncia da anni, come Cucchi e Aldrovandi. Già pochi giorni fa Angela De Milato, figlia di Lucia Uva e nipote di Giuseppe, aveva deciso di presentare una denuncia contro lo stesso pm per favoreggiamento e abuso atti d’ufficio. “Dovrà processare tutta la nostra famiglia per farci tacere, sono stanca delle vessazioni che subisce mia mamma di fronte all’indifferenza di tutti coloro che dovrebbero intervenire”, aveva spiegato De Milato. La procura sulla morte di Uva ha indagato e mandato a processo per omicidio colposo i tre medici che quella notte ebbero in cura Uva, sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio – e non i carabinieri, che, come sostiene la famiglia picchiarono Uva. Lucia Uva aveva chiesto di verificare l’ipotesi del pestaggio, ma quel fascicolo è stato chiuso dalla procura. Non è mancata la beffa: l’unica ad essere stata denunciata è stata la stessa Lucia Uva, per aver accusato in un’intervista con Le Iene i carabinieri e la polizia per l’omicidio del fratello. Non è mai stato ascoltato dai pm il testimone principale, Alberto Biggioggero, l’amico che aveva condiviso con Giuseppe quella che si rivelerà l’ultima notte della sua vita. Anche dentro il commissariato, dove erano stati portati perché ritenuti ubriachi. Allo stesso modo, non erano state messe agli atti le conversazioni telefoniche registrate tra carabinieri e il 118. La bocciatura della richiesta, per i familiari di Uva, è – come si legge su Fb - lo stop all’ultima speranza affinché si indagasse in caserma. Nonostante “l’abbia chiesto anche il giudice nelle motivazioni della sentenza di primo grado”, in cui è stato assolto il medico accusato di aver ucciso Giuseppe. “Adesso siamo certi che scadranno i termini per la prescrizione, dato che non faranno mai in tempo ad arrivare al terzo grado. E comunque Abate non cambierà idea certo ora”. Così sembra che non si saprà mai la verità su quello che accadde realmente la notte in cui morì Uva.
La stessa notizia con il titolo “Caso Uva: un altro passo indietro” è stata scritta da Elisabetta Reguitti l’11 aprile 2013 su “Il Fatto Quotidiano”. La procura generale della Corte di Appello di Milano ha bocciato la richiesta dei familiari di Giuseppe Uva di togliere al pm Agostino Abate di Varese l’indagine per affidarla ad un altro magistrato. All’indomani della richiesta presentata da Fabio Anselmo legale della famiglia, Angela De Milato, figlia di Lucia Uva e nipote di Giuseppe, ha però presentato anche una denuncia contro lo stesso pm per favoreggiamento e abuso atti d’ufficio. “Dovrà processare tutta la nostra famiglia per farci tacere, sono stanca delle vessazioni che subisce mia mamma di fronte all’indifferenza di tutti coloro che dovrebbero intervenire”, aveva scritto la giovane donna nipote del 43enne morto a Varese, nel giugno del 2008, dopo essere stato fermato e trattenuto nella caserma dei carabinieri di Varese. La procura sulla morte di Uva fino ad oggi ha indagato per omicidio colposo i tre medici che quella notte ebbero in cura Uva, sottoposto a Tso (Trattamento sanitario obbligatorio). Lucia Uva chiede però che venga sentito il testimone di quella notte e vengano messe a verbale alcune registrazioni telefoniche partite dalla caserma dei carabinieri verso il 118; tutto al fine di verificare l’ipotesi del pestaggio. Al momento l’unica denunciata è Lucia Uva per i suoi commenti scritti su Fb. Parole disperate dopo aver visto suo fratello morto all’obitorio il cui corpo presentava ferite sospette. Ora dopo la bocciatura della richiesta di trasferimento, il processo è a rischio di prescrizione. Sarà una corsa contro il tempo per riuscire a scoprire cosa sia davvero accaduto quella notte in cui è morto.
Omicidio Uva: il Csm indaga sul pm che non indaga, scrive Checchino Antonini su “Osservatorio Repressione”. Un'azione disciplinare pende sul magistrato che non vuole interrogare il teste di quella notte ed è ostile a familiari e legali. Un'azione disciplinare del Csm pende sul pm del caso di Giuseppe Uva, morto nel 2008 nell'ospedale di Varese dopo essere stato fermato dai carabinieri. Ad Agostino Abate è contestato tra l'altro il comportamento ostile, in aula e fuori, nei confronti della sorella dell'uomo ucciso, Lucia, fatta allontanare durante un'udienza. La notizia proviene proprio dal Consiglio superiore della magistratura dove viene spiegato che proprio per la pendenza del procedimento disciplinare si sono dovuti archiviare gli esposti ricevuti sulla vicenda e che dunque non c'è stata nessuna inerzia del Consiglio. Era stata Ilaria Cucchi, sorella di Stefano e dunque compagna di sventura di Lucia Uva, a lamentare il silenzio del Csm sugli esposti presentati dalla sorella di Uva e da Luigi Manconi. Di qui la decisione della Prima Commissione di Palazzo dei marescialli di avviare una ricognizione sulla sorte di queste denunce, su richiesta del consigliere togato di Unicost Giovanna Di Rosa. Il contrasto fra la famiglia di Uva e il pm dura da tempo soprattutto per il fatto che Abate ha sempre voluto interpretare quella morte come un "banale" caso di malasanità senza mai voler interrogare l'amico di Uva, Alberto Biggioggero, arrestato con lui quella notte e testimone delle urla di Uva nella caserma della polizia in cui avrebbe trascorso alcune ore in balìa delle forze dell'ordine. Un giudice, assolvendo in primo grado il medico portato alla sbarra da Abate, aveva ordinato - invano - la riapertura dell'inchiesta con l'accusa da parte del pm di essere lui stesso succube del clima mediatico. Il contrasto era culminato qualche giorno fa con la presentazione di una denuncia a carico del pm alla Procura della Repubblica di Brescia per favoreggiamento e abuso in atti d'ufficio. Da parte sua Abate s'era scagliato più volte contro la sorella del ragazzo ucciso, contro il suo legale Fabio Anselmo (lo stesso dei casi Aldrovandi, Ferrulli e Cucchi) e contro i giornalisti che osavano riprendere la vicenda come un caso di malapolizia. I famigliari di Uva (Lucia è stata perfino accusata di aver manipolato il cadavere di suo fratello) contestano la chiusura dell'inchiesta: secondo il pm non ci sono responsabilità delle forze dell'ordine nella morte dell'uomo, mentre per i parenti Uva avrebbe subito percosse in caserma. La Procura Generale della Corte di Appello di Milano ha bocciato la richiesta di togliere a quel pm l'indagine ed affidarla ad un altro magistrato. «Era l'ultima speranza che si indagasse in caserma, e invece no - scrive Lucia - nonostante l'abbia chiesto anche il Giudice nelle motivazioni della sentenza di primo grado in cui è stato assolto il medico accusato di aver ucciso Giuseppe. Quindi ora siamo certi che scadranno i termini per la prescrizione. (Non faranno mai in tempo ad arrivare al terzo grado, e comunque il pm Abate non cambierà idea certo ora). Non sapremo mai la verità su ciò che accadde quella notte. Mai».
Invece
Articolo 21 zione disciplinare nei confronti del pubblico ministero del processo sul caso di Giuseppe Uva, morto nel 2008 nell’ospedale di Varese dopo essere stato fermato dai carabinieri. Nel procedimento al magistrato Agostino Abate è contestato tra l’altro il comportamento tenuto in aula nei confronti della sorella dell’uomo, Lucia, fatta allontanare durante un’udienza. La notizia si è appresa al Csm, dove spiegano che proprio per la pendenza del procedimento disciplinare si sono dovuti archiviare gli esposti ricevuti sulla vicenda che chiedevano di trasferire ad altro magistrato l’indagine su quanto accaduto quella notte nella caserma dei carabinieri. La decisione della Prima Commissione di Palazzo dei marescialli è partita dalla richiesta del consigliere togato di Unicost Giovanna Di Rosa. Il contrasto fra la famiglia di Uva e il pm. dura da tempo ed è culminato qualche giorno fa con la presentazione di una denuncia a carico del pm alla Procura della Repubblica di Brescia per favoreggiamento e abuso in atti d’ufficio. Ma c’è anche una sentenza che invita a far luce: il 28 giugno dell’anno scorso il giudice Orazio Muscato ha assolto un medico accusato di aver provocato la morte di Uva in seguito alla somministrazione di un farmaco e il tribunale, unitamente all’assoluzione del medico, ha inviato gli atti al pubblico ministero con particolare riferimento a quanto accaduto prima dell’ingresso di Giuseppe Uva in ospedale, ovvero a quanto successo nella caserma dei carabinieri. Le parole del giudice, scritte nella motivazione della sentenza, sono perentorie e non lasciano adito ad equivoci: “Costituisce un legittimo diritto dei congiunti di Giuseppe Uva, conoscere se negli accadimenti intervenuti antecedentemente all’ingresso del loro congiunto in ospedale, siano ravvisabili profili di reato; e ciò tenuto conto che permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta essere staro redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quieta pubblica, è stato prelevato e portato in caserma, così come tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all’interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono anche alcune volanti della polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di in intervento particolarmente invasivo quale il Trattamento Sanitario Obbligatorio.” Dunque secondo il giudice Orazio Muscato se si vuole stabilire con precisione le cause o le concause della morte bisogna ricostruire quanto è successo nella caserma, “occorre disporre della fotografia delle condizioni nelle quali versava Uva al momento del suo ingresso in ospedale, mentre del tutto superflui ed irrilevanti sono gli accertamenti tesi a verificare le ragioni in base alle quali è giunto in Ospedale in quelle condizioni”. La vicenda: Alle 10.30 di mattina del 14 giugno 2008, all’ospedale Circolo di Varese, muore. Giuseppe Uva. Giuseppe Uva, prima di essere ricoverato in regime di trattamento sanitario obbligatorio, è stato dalle 3 di notte alle 6 nella locale caserma dei carabinieri con i militari e con sei poliziotti, tutto l’equipaggio di pattugliamento notturno della cittadina. Giuseppe era stato fermato in compagnia dell’amico Alberto Biggiogero in stato di ebbrezza alcolica mentre spostava delle transenne al centro della strada. Nessun verbale di arresto viene compilato quella notte, proprio perché non hanno commesso alcun reato. Nonostante questo, i due rimangono in caserma per tre ore. Biggiogero viene liberato, mentre Uva nelle primissime ore della mattina viene trasferito in ospedale, dove muore poco dopo. Aveva il naso fratturato, le scarpe consumate e il cavallo dei pantaloni imbrattato di sangue. Da quel 14 giugno la sorella di Giuseppe, Lucia Uva, chiede con tutte le sue forze che venga fatta chiarezza sulla morte del fratello. Sono passati quasi 5 anni, e a oggi l’unico processo celebrato è stato contro un medico, accusato di aver somministrato un farmaco sbagliato e di avere quindi causato la morte. Il medico è stato assolto e, perizia dopo perizia, si è arrivati a stabilire la correttezza di quella prescrizione. Se non sono stati i farmaci, a uccidere Giuseppe, cosa è stato? All’interno della procura di Varese esiste un fascicolo, il 5509, che dovrebbe contenere le indagini svolte per accertare responsabilità precedenti all’ingresso di Giuseppe in ospedale. Lucia Uva, che è stata recentemente querelata dai carabinieri per diffamazione, ha ritirato il fascicolo 5509, perché la sua querela è stata inserita in quegli atti. Al suo interno ci sono solo doppioni di atti già acquisiti nel processo contro i medici. Delle ore passate da suo fratello in caserma, neanche l’ombra di un’indagine o di avvisi di garanzia.Giuseppe Uva, la giustizia rovesciata, scrive Paolo Favarin. Indagine bis su carabinieri e polizia senza risultati. La procura di Varese indaga la sorella Lucia e querela per diffamazione gli autori del documentario “Nei secoli fedele”. Per la procura la colpa è sempre dei medici: Giuseppe Uva morto per un caso di malasanità. Dopo l’assoluzione di Carlo Fraticelli, adesso altri due dottori rischiano il rinvio a giudizio, mentre l’indagine bis su carabinieri e polizia – che nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2008 trattennero Giuseppe e il suo amico Alberto Bigiogero per una notte intera – si è conclusa con un clamoroso nulla di fatto: nessun addebito agli uomini in divisa, tra le quattro mura della caserma di Varese non è successo nulla, le urla e il rumore delle botte non vogliono dire niente, assolutamente niente. Un mare di fango che schizza, con il pm Agostino Abate che ha iscritto nel registro degli indagati Lucia Uva e un giornalista delle Iene, Mauro Casciari, “colpevoli” di aver diffamato l’Arma e la polizia. Decisione presa in seguito a una denuncia sporta dall’avvocato Luca Marsico, consigliere regionale del Pdl. Ma non basta. Le indagini non sono finite e nel mirino adesso ci sono finiti pure gli autori del documentario “Nei secoli fedele”, che ricostruisce tutto il caso con interviste e materiale giudiziario: Adriano Chiarelli – scrittore, documentarista e collaboratore di Contropiano – e il regista Francesco Menghini.«La notizia non ci sorprende – dice adesso Chiarelli -, vista la piega che stanno prendendo gli eventi. A finire sul banco degli imputati, ancora una volta, saranno coloro che si battono in difesa della giustizia e della legalità, e non i diretti interessati. È accaduto con Patrizia Moretti, sta accadendo con Lucia Uva e di conseguenza con noi».La tremenda sensazione di giustizia mancata si somma ora al rammarico per un rovesciamento totale della vicenda: chi cercava la verità diventa colpevole e chi ha fatto di tutto per insabbiare la vicenda è una vittima. La colpa – se esiste – diventa dell’ospedale, che avrebbe sbagliato la somministrazione di alcuni medicinali a Giuseppe Uva, ma «io ho visto tanto sangue. Mille perizie dimostrano che i dottori non c’entrano», dice la sorella Lucia. A nulla è servita la sentenza del giudice Orazio Muscato, che chiedeva alla procura di indagare meglio sui fatti avvenuti in caserma. Per il pm Agostino Abate carabinieri e polizia hanno semplicemente fatto il proprio dovere. E allora è tutta colpa di Lucia e dei suoi “compari”, trattati malissimo e derisi dall’accusa per tutto il processo di primo grado a Fraticelli, tanto che nella sentenza di assoluzione, il giudice non può non sottolineare che «L’esame del pm è stato nel complesso effettivamente condotto con toni e modalità tali da indurre l’esaminato (nel caso, i periti) in stato di soggezione, con ripetuti interventi del Tribunale tesi a ricondurlo nell’alveo delle regole proprie della normale dialettica processuale, a fronte delle lamentazioni avanzate dagli stessi periti di venire sostanzialmente derisi dal pm».Una lotta senza quartiere ormai per arrivare a una verità che ormai sfugge solo alla procura di Varese. «Se i rappresentanti della giustizia intendono perseguire coloro che chiedono la verità – l’amarissima conclusione di Chiarelli -, facciano pure. Siamo disponibili fin da subito a essere interrogati e a mettere a disposizione tutto ciò di cui siamo venuti a conoscenza durante la permanenza a Varese».La polemica infinita e, a tratti, pretestuosa, portata avanti da chi dovrebbe lavorare per la giustizia rischia di far scivolare l’intera vicenda verso l’oblio della prescrizione: la vicenda si trascina da quasi cinque anni e, nei tribunali, il tempo ha il potere di spazzare via ogni cosa. Rimangono alcuni particolari: i vestiti di Giuseppe sporchi di sangue, le fotografie che mostrano un uomo massacrato, pieno di lividi. Torturato. E una telefonata, quella fatta da Bigiogero al 118, nella notte più lunga della sua vita, l’ultima del suo amico Pino.«118…» «Posso avere un’auto-lettiga qui alla caserma di via Saffi?…» «Sì, cosa succede?» «Praticamente stanno massacrando un ragazzo…» «In caserma?» «Eh, sì…» «Ho capito… Va bene… Adesso la mando».
Franco Califano, morto a Roma il 30 marzo 2013 a 74 anni. Personaggio “contro”, finisce due volte in prigione: una volta nel 1970, per possesso di stupefacenti (in cui fu coinvolto anche Walter Chiari , assolto poi con formula piena) e, una seconda volta, nel 1983 ancora per droga, con l’aggravante del porto abusivo di armi (stavolta è coinvolto Enzo Tortora, anche lui assolto). L’esperienza della prigione segnerà la vita di Franco Califano, che inciderà un album per esorcizzare in qualche modo il dolore: “Impronte digitali”. «Io sono stato assolto “perché il fatto non sussiste” e non per non avere commesso il fatto, dopo tre anni e mezzo di carcere, senza mai una lacrima o una lamentela, senza sbraitare, senza dire nulla. E all’epoca non c’era il risarcimento dei danni». In quanti pensano a Califano come una vittima sacrificale della giustizia? Eppure lo sono stati Walter Chiari, Lelio Luttazzi ed Enzo Tortora, finiti «al gabbio» proprio come Califano, per le stesse indagini, poi riabilitati come simboli dell’ingiusto martirio. Riusciva a scherzarci:« Sono finito nel processo con Walter Chiari e Lelio Luttazzi, poi con Tortora, mai un processo tutto per me». Tre anni e mezzo dentro poi l’assoluzione, tutte e due le volte, perchè il fatto non sussiste «senza una scusa, ma non mi piango addosso. L’ho presa come una esperienza in più. Una brutta cosa, però io ho la forza di pensare ad altro». Superficiale quanto basta, o forse solo abituato al peggio. Finì in cella la prima volta nel 1970 per possesso di stupefacenti, poi assolto con formula piena, nella vicenda giudiziaria vergognosa che coinvolse anche Walter Chiari, stroncandone la carriera. Da quella esperienza carceraria Califano trovò spunto per far nascere un album, “Impronte digitali”. Califano finì nuovamente in carcere per lo stesso motivo e più il porto abusivo di armi nel 1983, volta insieme al conduttore televisivo Enzo Tortora in un'altra vicenda emblematica di mala giustizia. In entrambi i processi Califano fu assolto “perché il fatto non sussiste”. Subito dopo la sua morte il primo a ricordare quelle ingiuste vicissitudini giudiziarie, via twitter, è Vittorio Feltri: “È morto Califano. Fu incarcerato due volte – scrive -. Innocente. Nessun risarcimento. Quante ne ho viste di storie così. Quante ingiustizie. Dolore”. Dopo questa seconda esperienza chiese aiuto e sostegno all'allora leader del Partito Socialista Italiano Bettino Craxi. Ne ottenne una risposta e poi questo rapporto si tramutò in amicizia. Successivamente il Califfo (1992) prima che la tempesta di Tangentopoli travolgesse tutto l'arco socialista in Italia decise di candidarsi, nelle fila del Psdi, il Partito Socialdemocratico italiano, senza però essere eletto. Successivamente venne sempre “bollato” come cantante vicino alla destra anche se diceva di sé: “Io sono liberale, anticomunista”. Forse, scrive “Il Foglio”, sono proprio la catena d’oro al collo ed i braccialetti la cause dell’ostracismo schifiltoso contro “il trucido” cui l’ha dannato un certo ambiente, anche prima della sua doppia avventura giudiziaria risoltasi con quelle che chiama “le assoluzioni strapiene”, una volta nel 1970, ai tempi del processo Walter Chiari, e una volta nel 1983, ai tempi del processo Tortora, solo che Califano viene citato un po’ meno di Walter Chiari ed Enzo Tortora, come tragico esempio di errore giudiziario. Ascolta volentieri Radio Radicale, il Califfo, e però si sente un reietto della memoria garantista: gli altri “giustamente esaltati” come vittime di malagiustizia, lui “ingiustamente dimenticato” come vittima di malagiustizia, gli altri “presi nel mucchio” perché famosi, lui preso nel mucchio “per riempire un buco dopo la scarcerazione di Walter Chiari” e poi perché, “nel paese del fango”, aveva il curriculum giusto (“amicizie losche, vizi esibiti, look malavitoso, modo di esprimermi volgare e anticonformista, un passato truce, nessuna protezione politica”, scrive in “Senza manette”). Un tipo adatto ai reati ipotizzati: associazione per delinquere di stampo camorristico, traffico internazionale di stupefacenti (il cui uso Califano aveva sempre ammesso per uso personale), sfruttamento della prostituzione, anche allora reato perfetto per prove imperfette. Ancora oggi il Califfo non si capacita del perché “soltanto Bettino Craxi” (altra foto su un comodino del salotto) si interessò alla sua sorte di “innocente dietro le sbarre”, disperato come nel primo collegio da cui era “evaso scalzo” da bambino, idolo dei detenuti (“com’è a letto quell’attrice?”, gli chiedevano i carcerati stanchi dei giornaletti porno) e impaurito a morte dall’apatia che aveva preso il compagno di cella Pietro Valpreda. (“Chi mi vuole prigioniero non lo sa, che non c’è muro che mi stacchi dalla mia libertà”, dice, non a caso, la strofa di una delle sue canzoni più celebri, “La mia libertà”). Stranamente, o forse no - scrive Valter Vecellio su “L’Opinione” - sarebbe stato strano il contrario, quasi tutti i giornali (non più di un paio le eccezioni), ricordando Franco Califano, hanno fatto cenno alle disavventure giudiziarie del “Califfo” limitandole alla vicenda che portò in carcere Walter Chiari e Lelio Luttazzi, per uso e spaccio di droga. E anche su questo si potrebbe dire: che ogni volta che richiama in causa Luttazzi si dovrebbe aver cura di ricordare che “el can de Trieste” era assolutamente estraneo ai fatti contestati, solo tardivamente venne riconosciuto innocente, patì una lunga e ingiusta carcerazione, e da quell’esperienza ne uscì schiantato. Luttazzi a parte, Califano venne coinvolto, ficcato a forza è il caso di dire, nella vicenda che in precedenza aveva portato in carcere Enzo Tortora, nell’ambito di quell’inchiesta che doveva essere il “venerdì nero della camorra” e fu invece un venerdì (e non solo un venerdì) nerissimo per la giustizia italiana. E Califano serviva, eccome: il suo passato, il suo non aver mai nascosto amicizie “pericolose”, l’uso ammesso della cocaina, serviva evidentemente per legittimare i precedenti arresti, in omaggio a teoremi che cominciavano a scricchiolare. Solo che anche Califano era innocente, con la camorra e i suoi traffici non aveva nulla a che fare; e da quelle accuse, alla fine, venne assolto. Ricordare quell’arresto, quella pagina che il buon gusto impedisce di qualificare come si vorrebbe, significava ricordare e rievocare tutta quella vicenda. Meglio ignorare tutto, confidare sul tempo trascorso, e sulla memoria che si scolora… Fummo davvero in pochi, in quei giorni, a osservare che anche per quel che riguardava Califano i conti non tornavano. Ci si cominciò a interessare alla sua vicenda in seguito all'accorato appello al presidente della Repubblica di allora lanciato da Gino Paoli. Califano, detenuto da mesi, si mise in contatto con noi: «Sono frastornato e distrutto, perchè un uomo non è un diamante, non ha il dovere di essere infrangibile... Ho in testa brutte cose... venitemi a salvare, sono innocente, e non è giusto che muoia, che mi spenga così...». Califano ci raccontò che ad accusarlo erano due "pentiti": Pasquale D' Amico e Gianni Melluso, "cha-cha". Ma D' Amico poi aveva ritrattato le sue accuse. Melluso, invece le aveva reiterate, raccontando di aver consegnato droga a Califano in un paio di occasioni: nel sottoscala del "Club 84", vicino a via Veneto, a Roma; e successivamente nell'abitazione del cantante a corso Francia, sempre a Roma. Solo che nel "Club 84" il sottoscala non c’era; e Califano in vita sua non ha mai abitato a corso Francia. Infine Califano, in compagnia di camorristi, avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen o di una Maserati di sua proprietà; automobili che Califano non ha mai posseduto. Per accertarlo non ci voleva la scienza di Sherlock Holmes, o il genio di Hercule Poirot; bastava il buon senso – meglio: il “senso buono” - di Jules Maigret. Scienza, buon senso e senso buono, con tutta evidenza assenti, e limitiamoci a questo. Califano ci raccontò che le accuse nei suoi confronti erano solo quelle di cui s’è fatto cenno; e che non si siano svolte indagini e accertamenti per verificare come stavano le cose non sorprende col senno di poi, e a ricordare come l’inchiesta in generale venne condotta. E sulle modalità investigative, può risultare illuminante un episodio in cui sono stato coinvolto. Anni fa, chi scrive venne convocato a palazzo di Giustizia di Roma, per chiarire – così si chiedeva da Napoli – come e perché in un servizio per il “Tg2”, “in concorso con pubblici ufficiali da identificare”, avevo rivelato «atti d’indagine secretati consistenti in stralci della deposizione resa in una caserma dei carabinieri dal pentito Gianni Melluso sulla vicenda Tortora». Ed ero effettivamente colpevole: avevo infatti raccontato che Melluso aveva ritrattato tutte le sue accuse; e che assieme a Giovanni Panico e Pasquale Barra aveva concordato tutto il castello di menzogne e calunnie; un segreto di Pulcinella, tutto era già stato pubblicato dal settimanale “Visto”; e il contenuto degli articoli anticipati e diffusi da “Ansa”, “Agenzia Italia” e “AdN Kronos”. Dunque, sotto inchiesta per aver ripreso notizie (vere) pubblicate da un settimanale e da agenzie di stampa. Evidentemente dava fastidio la diffusione in tv... Queste le indagini; e dato il modo di condurle, non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, e per tantissimi di coloro che in quel blitz vennero coinvolti. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Indagini che la maggior parte dei cronisti spediti a Napoli, presero per buone, e furono pochi a vedere quello che poteva essere visto da tutti. È magra consolazione aver fatto parte di quei pochi; e non sorprende che questa vicenda la si preferisca occultare e ignorare.
Questa è la sorte che tocca ai presunti carnefici ed alle vittime cosa è riservato?
Condannare tutti gli imputati (agenti, medici e infermieri) a pene comprese tra i due anni e i sei anni e otto mesi di reclusione, così scrive Fulvio Fiano su “Il Corriere della Sera” e così riporta “La Repubblica”. Queste le richieste dei pm Vincenzo Barba e Francesca Loy ai giudici della III Corte d’Assise, presieduti da Evelina Canale al termine della requisitoria nel processo per la morte di Stefano Cucchi, geometra romano 31enne fermato per possesso di droga il 15 ottobre 2009 e morto una settimana dopo nel reparto protetto dell'ospedale Sandro Pertini. In particolare i pm hanno chiesto che siano inflitte le seguenti pene: sei anni e otto mesi di reclusione per il primario Aldo Fierro, sei anni ciascuno per i medici Stefania Corbi e Flaminia Corbi, cinque anni e mezzo ciascuno per gli altri due medici Silvia Di Carlo e Luigi De Marchis Preite; quattro anni ciascuno per Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe; due anni ciascuno per gli agenti penitenziari Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. Tutti i sanitari sono accusati a diverso titolo di abbandono di persona incapace. Secondo il magistrato è stata riscontrata una "sciatteria assoluta" nel modo in cui era tenuta la cartella clinica di Cucchi. Tutto il personale medico e infermieristico deve rispondere anche di favoreggiamento e omissione di referto. A carico di Rosita Caponetti è ipotizzato invece il reato di falso e abuso d'ufficio. Per lei sono stati chiesti due anni. Per gli agenti di polizia penitenziaria sono stati chiesto 2 anni. I tre sono: Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici. Loro devono rispondere di lesioni personali aggravate. In particolare gli agenti penitenziari sono accusati di lesioni aggravate e di abuso d'autorità nei confronti di arrestati o detenuti per aver, secondo l'accusa, il 16 ottobre del 2009 picchiato Cucchi nelle camere di sicurezza del tribunale in attesa dell'udienza di convalida. Non solo gli agenti avrebbero anche sottoposto il 31enne stante "le continue lamentele, a misure di rigore non consentite dalla legge per farlo desistere dalla reiterate richieste di farmaci". Falso ideologico e abuso d'ufficio sono contestati a un medico e al direttore dell'ufficio detenuti per aver scritto cose non corrispondenti al vero nella cartella clinica di Cucchi relativamente alle sue condizioni generali di salute facendolo ricoverare in una struttura per pazienti non acuti, stabilizzati e non con politraumatismi come nel suo caso. Secondo la ricostruzione dell'accusa, in sostanza, sarebbero state precostituite le condizioni formali per coprire gli agenti penitenziari. Gli altri medici e i tre infermieri sono accusati di falso ideologico, abuso d'ufficio, abbandono di persona incapace, rifiuto di atti d'ufficio, favoreggiamento e omissioni di referto sono invece i reati contestati, sempre a seconda delle singole posizioni processuali. Secondo l'accusa, questi, "dal 18 al 22 ottobre abbandonavano Cucchi incapace di provvedere a se stesso", omettendo anche "di adottare i più elementari presidi terapeutici e di assistenza che nel caso di specie apparivano doverosi e tecnicamente di semplice esecuzione ed adottabilità e non comportavano particolari difficoltà di attuazione essendo per altro certamente idonei ad evitare il decesso di paziente". Secondo l'accusa, questi, tra l'altro, omettevano "volontariamente di adottare qualunque presidio terapeutico al riscontri di valori di glicemia ematica pari a 40 mg/dl, rilevato il 19 ottobre, pur essendo tale valore al di sotto della soglia ritenuta dalla letteratura scientifica pericolosa per la vita, neppure intervenendo con una semplice misura quale la somministrazione di un minimo quantitativo di zucchero sciolto in un bicchiere d'acqua che il paziente assumeva regolarmente, misura questa idonea ad evitare il decesso". Secondo l'accusa gli stessi indagati, sempre "volontariamente": non avrebbero né svolto un "necessario" elettrocardiogramma né una "semplice palpazione del polso" per tenere sotto controllo la brachicardia; non avrebbero comunicato a Cucchi "l'assoluta necessità di effettuare esami diagnostici essenziali alla tutela della sua vita, limitandosi ad annotare gli asseriti rifiuti nella cartella clinica, motivati dalla volontà di effettuare colloqui con un avvocato, circostanza che omettevano di comunicare alla polizia penitenziaria"; non avrebbero trasferito Cucchi in un reparto più idoneo a curarlo; non avrebbero controllato il "corretto posizionamento o occlusione del catetere". Nella loro requisitoria i pm hanno affrontato le violenze subite da Cucchi. «È stato picchiato nelle celle del Tribunale di piazzale Clodio in attesa del processo di convalida perchè pretendeva cure per la sua crisi d'astinenza in cui probabilmente si trovava. Comunque quelle lesioni non ne causarono la morte» ha detto Barba. "I tre agenti di polizia penitenziaria non hanno mai chiamato il medico, dopo aver preso in consegna Stefano Cucchi, prima dell'udienza di convalida quella mattina", ha detto in un passaggio della sua requisitoria il pm Vincenzo Barba davanti ai giudici della corte d'assise di Roma. "Samura ha sentito il pestaggio che ha subìto Cucchi. Proprio il fatto che lui dice solo di aver ascoltato e non visto gli da proprio ulteriore attendibilità - ha detto parlando del cosiddetto 'supertestimone', un immigrato del Gambia che fu portato in carcere lo stesso giorno del giovane geometra poi deceduto - Samura ha parlato delle lesioni avute da Cucchi, ci ha mostrato come lui gli fece vedere il colpo ricevuto sulla gamba. E quando trovammo i pantaloni che aveva indosso la vittima abbiamo avuto l'ulteriore conferma della veridicità del racconto di Samura. Vedendo le “strisciate” di sangue all'interno della gamba del pantalone si capisce". "Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi", ha accusato il pubblico ministero Vincenzo Barba. Che ha ricordato le difficoltà affrontate nel corso delle indagini a causa ''del clamore mediatico insopportabile'' e in particolare per proteggere quello che ritiene essere il testimone ''credibile'', l'immigrato Samura Yaya. "Abbiamo avuto l'esigenza di tutelarlo come fonte di prova - ha continuato Barba - A un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo, anche il senatore Stefano Pedica. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi. Il processo è stato difficile - ha detto il pm Barba - anche a causa di varie rappresentazioni dei fatti che sono state portate fuori dal processo. I mass media hanno influito sull'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo''. ''Sin dall'inizio - ha sottolineato ancora - i pm hanno operato nell'ombra senza clamori mediatici emersi in seguito non certo per nostra volontà. Abbiamo voluto dare massimo spazio a tutte le parti in causa, a tutte le loro richieste. Ma l'impatto mediatico è divenuto sempre più invasivo, ci sono state ben due commissioni che hanno indagato contemporaneamente a noi e con evidenti interferenze. Ci sono state svariate interrogazioni parlamentari fino a numerosi tentativi di depistaggio da parte di personaggi che noi abbiamo inserito nella lista testimoniale''. "Ci sono tre punti chiave di questo processo: Stefano Cucchi fu picchiato mentre era in una cella di piazzale Clodio; fu ricoverato al Pertini pur essendo gravi le sue condizioni; la condotta del personale sanitario dell'ospedale fu caratterizzata da lacune, omissioni e incurie che rivelano un vero e proprio e stato di abbandono del paziente che essendo detenuto non poteva scegliere da chi farsi curare", ha proseguito il pm Barba durante la requisitoria . Il magistrato ha quindi aggiunto che il ricovero all'ospedale Sandro Pertini "per isolarlo dal mondo, dalla sua famiglia e nascondere quanto accaduto nelle celle di piazzale Clodio". E ancora: "Cucchi e la sua malattia sono stati trattati come una mera pratica burocratica come si evince dal certificato di morte, una farsa in cui si parla di morte naturale. Niente degli ultimi giorni della vita di Stefano Cucchi doveva trasparire dalla documentazione ospedaliera. In sostanza secondo il pm l'amministrazione penitenziaria si sarebbe fortemente impegnata per far ricoverare Cucchi al Pertini benché tale struttura sanitaria non fosse adeguata alle sue condizioni di salute. Per raggiungere tale scopo si attiva anche il funzionario del Prap (provveditorato regionale amministrazione penitenziaria) Claudio Marchiandi. Giudicato con rito abbreviato in altro procedimento questi fu condannato a due anni di reclusione. Tale sentenza è stata capovolta nel giudizio di secondo grado, dove è stato assolto. Pendente il ricorso in Cassazione. "C'è un'evidente falsità di quanto scritto nella documentazione sanitaria da cui sembrerebbe che Cucchi stava benino", ha concluso Barba. E l'altro pubblico ministero, Maria Francesca Loy ha aggiunto: «Le lesioni che aveva Stefano non sono neanche una concausa della sua morte ma hanno valenza occasionale. Cucchi - ha sottolineato il pm - è morto perché non è stato alimentato, non è stato curato, rifiutava di cibarsi e nessuno dei medici si è preoccupato di farlo nutrire». Per il pubblico ministero Loy, Cucchi «è morto di fame e di sete». La magrezza del 31enne viene paragonata a quella «dei prigionieri di Auschwitz». «Tutti noi possiamo immaginare le conseguenze di uso di droghe su un corpo umano per vent'anni. Assumeva ogni tipo di sostanza stupefacente, soffriva inoltre di crisi epilettiche dall'età di 18 anni. Dal 2001 al 2009 ha compiuto ben 17 accessi al pronto soccorso dell'ospedale Vannini, una media di due all'anno». Secondo il pm, quello dei medici «non è stato un comportamento colposo, ma chiari indici di indifferenza nei confronti del paziente». «Il dolo è configurabile in tutte le manifestazioni. Non stiamo dicendo che i medici e gli infermieri hanno voluto far morire Cucchi, ma davanti al rifiuto di un paziente maleducato, cafone e scorbutico, hanno accettato il rischio che potesse morire» spiega Loy. «Non c'è dubbio che nei comportamenti dei sanitari ci siano profili di imperizia. La condotta dei medici ha determinato la morte di Cucchi», anche se «non stiamo parlando di un giovane sano», ha concluso. Forti della super perizia chiesta dal tribunale e che – attribuendo il decesso alle mancate cure - dà loro sostanzialmente ragione sulla scelta di non contestare il reato di omicidio per le percosse subite dal 31enne dopo l’arresto, i pm hanno aperto la loro requisitoria accusando chi, a loro avviso, ha voluto speculare fin dall’inizio sulla vicenda: «Tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi», ha detto Barba. Un processo che la pubblica accusa – coprotagonista di aperte polemiche con i familiari del giovane - non ha esitato a definire «mediatico». «I mass media - ha sostenuto ancora il pm - hanno influenzato l'opinione pubblica. C'è chi ha voluto dare una rappresentazione della realtà diversa da quella emersa dal processo». "Cucchi era una persona di una magrezza patologica di quelle che abbiamo visto di rado, per lo più nei film che raccontano quanto successo ad Auschwitz". Cosi il pm Maria Francesca Loy nel corso della sua requisitoria davanti alla III Corte d'Assise. Il magistrato quindi ha affrontato la questione delle lesioni riportare da Cucchi: "Secondo tutti i periti sono modeste anche se dolorose - ha detto - Siamo convinti che le lesioni cagionate dalla penitenziaria siano state, più che un pestaggio, probabilmente una spinta o un calcio che lo ha fatto cadere a terra. Una violenza gratuita inflitta nei confronti di un detenuto che in quel momento teneva un comportamento ritenuto insopportabile". "Stefano Cucchi era lungi da essere un giovane, sano e sportivo - ha aggiunto - era tossicodipendente da circa trent'anni con gli effetti devastanti che ciò comporta per il corpo di una persona. Soffriva inoltre di crisi epilettiche da quando aveva 18 anni. Due volte all'anno circa negli ultimi dieci anni si e' recato al pronto soccorso per traumi, abusi d'alcol. Non e' normale per un giovane sano. Periti definiscono le sue condizioni di grave deperimento organico. Durante la degenza al Pertini ha perso dieci chili". "L'unica lesione comprovata dalla perizia è quella della vertebra sacrale – continua il pm Maria Francesca Loy. - In termini di invalidità civile si può affermare che provocò un danno biologico inferiore al 9 per cento, quindi una lesione lieve, modesta, anche se dolorosa. Ma certamente non doveva portare ad un esito mortale". Il magistrato ha sottolineato che "i medici legali più famosi d'Italia si sono concentrati su questa vicenda". L'atto di violenza subita da Stefano Cucchi fu "gratuito e inutile". “Non servivano esperti per dirci la causa di morte - ha detto - Bastava vedere le foto”. Nel ricostruire quelle lesioni, il pm ha ricordato quanto riferito da un testimone ritenuto dagli inquirenti "credibile": il cittadino del Gambia, Samura Yaya, che la mattina del 16 ottobre del 2009 si trovava in stato di fermo nelle celle sotterranee del tribunale di Roma insieme a Cucchi. "Ho sentito quando loro davano calci - cosi il pm Barba leggendo la testimonianza di Samura che raccontava quanto sentì in quella cella - Lui è caduto e piangeva. Ho guardato dal finestrino e ho visto tre persone vestite di blu che lo trascinavano. Lui poi mi ha fatto vedere una ferita alla gamba". Il gambiano "non ha avuto niente in cambio che non fosse un suo diritto". Per Loy, il comportamento dei medici e degli infermieri del Pertini "non fu colposo, ma un chiaro sintomo dell'indifferenza che hanno avuto nei confronti di quel paziente". Nessun dubbio quindi per il pm sulla configurabilità del reato di abbandono di persona incapace nei confronti del personale che curò Cucchi al Pertini, stesso reato ipotizzato anche nel caso del naufragio della Costa Concordia. "Anche di fronte a un paziente maleducato, che rifiuta le cure e il cibo - ha aggiunto - non si doveva lasciar perdere, dagli esami erano evidenti le gravi condizioni, se cosi non fosse meglio cambiare mestiere". "I medici dell'ospedale Sandro Pertini, con condotte colpose o con imperizia o con negligenza, non hanno saputo individuare la patologia da cui era affetto il paziente Stefano Cucchi, di cui ne sottovalutarono le condizioni. L'evento morte era prevedibile". Era stato il parere dei periti (i milanesi Cristina Cattaneo, Mario Grandi, Gaetano Iapichino, Giancarlo Marenzi, Erik Sganzerla, Luigi Barana) incaricati dalla terza corte di assise di Roma di stabilire le cause della morte di Stefano Cucchi. "La causa della morte di Stefano Cucchi - dice testualmente la perizia - per univoco convergere dei dati anamnestico clinici e delle risultanze anatomopatologiche va identificata in una sindrome da inanizione". "Con il termine di morte per inanizione - scrivono i periti - si indica una sindrome sostenuta da mancanza (o grande carenza) di alimenti e liquidi". Secondo i pm, il processo mediatico ha reso per esempio reso difficile proteggere uno dei testimoni chiave, l'immigrato del Gambia, Samura Yaya, che la mattina del 16 ottobre del 2009 si trovava nella cella adiacente a quella di Cucchi nei sotterranei del tribunale di Roma. «Abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico», ha detto ancora il magistrato- Andando poi nel merito della vicenda, l’accusa si è soffermata a su un punto in particolare: «Il giorno del suo arresto dopo la convalida in tribunale ed il pestaggio, arriva la decisione di portarlo dal carcere all'ospedale Fatebenefratelli. Ma dalle 16.35 alle 19.50 lui resterà in una panchina, senza assistenza perché sono stati posti tutti i possibili ostacoli per impedire, rallentare. E tutto questo tempo per percorrere dieci minuti al massimo di strada, tra il Fatebenefratelli e Regina Coeli». Un atteggiamento che ha secondo i pm una motivazione ben precisa: «La necessità di evitare che occhi estranei vedessero. Per celare una situazione di precarietà»."Abbiamo avuto l'esigenza di tutelare Samura come fonte di prova - ha detto Barba - il clamore mediatico era diventato insopportabile. Ad un giorno dall'incidente probatorio tutti hanno tentato di raggiungerlo. Noi abbiamo dovuto fare una lotta impari per difendere la nostra fonte di prova da un attacco politico e giornalistico, tutti volevano farsi grandi con la morte di Cucchi". Per determinare il momento in cui "Cucchi è stato aggredito - ha aggiunto il magistrato - rilevano le dichiarazioni dei familiari. Dopo l'arresto fu perquisita casa prima di andare a piazzale Clodio e in quell'occasione non fu notato niente di strano. Quando poi il padre incontrò Stefano in tribunale lo notò sofferente e con il volto tumefatto. Tutto ciò dimostra che l'aggressione avvenne prima dell'udienza. Il medico del tribunale che lo visitò, poi, per la prima volta certificò la presenza di lesioni. Lesioni che furono riscontrate anche dal medico di Regina Coeli che però trovò ostruzionismo da parte del personale del carcere per far trasferire il detenuto al Fatebenefratelli. Anche i medici di questa struttura decretarono la gravità delle condizioni di Cucchi".
Questa la verità requirente, dall’altra parte la verità storica riferita dai parenti della vittima. Versione della vittima che lo Stato dovrebbe tutelare e non degli imputati. «Riteniamo inaccettabile e gravemente offensive le dichiarazioni del pm Barba sul conto di Stefano e di tutti noi - commenta la sorella Ilaria Cucchi - Continuo a chiedermi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. Affermare, o peggio alludere al fatto che noi non avessimo riferito ai carabinieri, durante la perquisizione in casa nostra, che Stefano avesse anche un'altra casa a Morena per nascondere la droga, da noi stessi poi ritrovata e denunciata, è un comportamento intollerabile oltre che incomprensibile. Tra l'altro nessuna indagine è stata fatta su chi l'abbia data a Stefano. I pm nella loro ansia accusatoria dimenticano che mio padre aveva regolarmente denunciato alla Questura la presenza di Stefano in quella casa - ha precisato Ilaria Cucchi, sorella della vittima - Io e la mia famiglia ci siamo sottoposti a questo processo lunghissimo e dolorosissimo. Continuiamo a sperare che si riconosca verità su quanto accaduto a Stefano e per questo riponiamo estrema fiducia nella Corte. Non posso accettare che non venga riconosciuta la verità su quello che è successo a Stefano tutto il resto non mi interessa - ha aggiunto con gli occhi lucidi - La verità la sanno tutti. Io, speravo che entrasse anche nell'aula di giustizia e continuo ad avere fiducia nella Corte: ripongo in loro tutta la mia fiducia, perché ogni risposta che non sia coerente con quanto accaduto a Stefano, ogni risposta ipocrita noi non la possiamo accettare. L'atteggiamento che abbiamo notato oggi in aula è perfettamente coerente con quello che e stato l'atteggiamento della procura per tutta la durata del processo, tanto che spesso viene da chiedersi chi sono gli imputati nel processo per la morte di mio fratello. La responsabilità dei medici è assolutamente gravissima e innegabile, loro non sono più degni di indossare un camice, questo lo abbiamo sempre detto e continueremo a sostenerlo fino alla morte. Loro avrebbero potuto salvare mio fratello e non lo hanno fatto, si sono voltati dall'altra arte e non si può far finta di niente, come non si può far finta che Stefano sarebbe finito in quell'ospedale per cause che non c'entrano con il pestaggio. Non si può negare che Stefano fino a prima del suo arresto conduceva una vita assolutamente normale. Abbiamo discusso per anni con la procura della frattura di l3. Ora apprendo che si è concordemente riconosciuto che gli accertamenti ed i prelievi sono stati fatti sulla maggior parte della vertebra lasciando fuori proprio quella in discussione. In particolare i consulenti del Pm hanno prelevato tessuto osseo della vertebra nella parte opposta ed interna dove, guarda caso , vi era una vecchia frattura . Non solo, ma poi è emersa evidente un'altra frattura ad l4, cioè così vicina e sotto ad l3 da non poter non far pensare che entrambe siano state procurate a Stefano con un calcio od un colpo diretto proprio in quella zona. Tutti i medici che lo visitarono notarono segni evidenti e particolare dolore lamentato da mio fratello proprio lì. Gli stessi consulenti del Pm hanno fotografato abbondante sangue sui muscoli della stessa zona, che, visti al microscopio, risultano anche lacerati. Insomma la schiena di Stefano è massacrata di fratture e la procura procede per lesioni lievi. Ora , dopo aver detto che la frattura di l3 su cui i miei consulenti discutevano, era in realtà vecchia, mi aspetto che su quella di l4 si dica che se l'è procurata da morto. Siamo veramente stanchi di questo teatrino tragicomico».
Tutto sbagliato, tutto da rifare: la disastrata malagiustizia all’italiana funziona così, scrive Luca su “Menti Informatiche”. Processi che durano una vita e non concludono nulla; indagini che non finiscono mai; sentenze parziali e pasticciate che non reggono l’urto dell’analisi logica e costringono spesso a ricominciare tutto daccapo. Non a caso, nella speciale classifica redatta dalla Banca mondiale sul funzionamento della giustizia, l’Italia si piazza al 155° posto su 185 Paesi: siamo meglio dell’Afghanistan, ma peggio della Sierra Leone, del Malawi, dell’Iraq e della Bolivia. Per celebrare il più clamoroso processo penale di tutti i tempi, quello che nel 1946, a Norimberga, giudicò e condannò i crimini del Terzo Reich e dei gerarchi e militari nazisti, cioè 12 anni di storia, bastarono 11 mesi. Dopo cinque anni e quattro mesi, noi ancora non sappiamo cosa successe veramente nella villetta di Perugia dove fu uccisa Meredith Kercher; dopo cinque anni e sette mesi, ignoriamo chi sia l’assassino di Chiara Poggi a Garlasco; dopo due anni e sette mesi dall’uccisione di Sarah Scazzi ad Avetrana si è ancora al primo grado; dopo due anni e quattro mesi, brancoliamo nel buio per l’omicidio di Yara Gambirasio a Brembate. Ci sono voluti 22 anni per ritrovarsi al punto di partenza sul mai risolto assassinio di Simonetta Cesaroni, in via Poma, a Roma; 20 anni per scoprire finalmente che l’omicida della contessa Alberica Filo Della Torre, all’Olgiata, è, nel la più classica tradizione giallistica, il maggiordomo filippino Manuel Winston, peraltro in chiodato da una intercettazione disponibile tre giorni dopo il delitto che però non fu mai ascoltata; 20 anni per avere la certezza che se le indagini sulla scomparsa di Elisa Claps a Potenza nel 1993 fossero state svolte con un minimo di competenza, il caso si sarebbe risolto in poche ore e forse Danilo Restivo non avrebbe ucciso nel 2002 in Inghilterra la sartina Heather Barnett. A proposito, qualcuno dovrà pur spiegare ai genitori della studentessa inglese Meredith Kercher, come mai un tribunale di Sua Maestà ha impiegato un anno e l i giorni per arrestare e condannare Restivo all’ergastolo, mentre noi siamo ancora in alto mare nel delitto di Perugia. Secondo le statistiche europee, i processi penali in Italia durano in media otto anni; negli altri Paesi dell’Unione, al massimo tre; negli Stati Uniti, invece, si va da un minimo di un giorno a un massimo di una settimana per la stragrande maggioranza dei casi. In Norvegia, sono bastate 10 settimane per processare e condannare Anders Breivik, autore della strage di Utoya (77 persone uccise a fucilate). Da noi ci sono processi che avanzano faticosamente al ritmo di un’udienza a settimana e processi che si inceppano per fatti incredibili: lo scorso gennaio, la Corte di Cassazione ha annullato per vizio di forma il deposito delle motivazioni del processo «Crimine infinito» sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia (110 persone condannate) perché la stampante si era rotta e mancavano 120 delle 900 pagine. Perché la giustizia italiana è in tilt? «Perché le regole del nostro processo sono farraginose e insopportabilmente burocratiche. Perché, come in tutte le altre professioni, ci sono magistrati che lavorano il giusto e altri che lavorano troppo poco, finendo per ingolfare i tribunali; e poi si perde un sacco di tempo in procedure inutili », ci dice l’avvocato Nino Marazzita, esimio penalista, veterano di casi complessi come quello Moro e Pasolini. «Un esempio? La cosiddetta generalizzazione dei testimoni (obbligatoria da noi, ma inesistente in altri Paesi, come l’Inghilterra) che prima di dire in tribunale quello che sanno devono rispondere a domande del tipo: come si chiama? Quando è nato? Dove abita? Che lavoro fa? Eccetera eccetera. Totale: dieci minuti, in media, persi nei preliminari della testimonianza e cinque pagine almeno di verbale. Moltiplichiamo questi dati per le circa 3 milioni e 300 mila cause penali, ognuna delle quali ha in media cinque testimoni, e scopriremo che la “generalizzazione” ci costa 82 milioni e 5 0 0 mila pagine in u tili e 2.750.000 ore perse ogni anno». E poi c’è il problema delle indagini, troppo spesso sbagliate. «In Inghilterra, è dal 1890 che esistono manuali che spiegano come sterilizzare la scena di un delitto per evitare l’inquinamento delle prove», spiega Marazzita. «Da noi, invece, funziona ancora oggi tutto alla carlona. Ecco perché molte, troppe sentenze di primo grado vengono rovesciate in appello oppure in Cassazione». Sul banco degli imputati c’è il principe delle prove: il test del Dna. «E proprio così», spiega Marazzita. «Anche perché da noi si usa una tecnologia ormai datata che fornisce il risultato, spesso non risolutivo, in 40 giorni, mentre negli Stati Uniti bastano 2 ore e 15 minuti per avere delle certezze scientifiche molto più affidabili. Ecco perché Oltreoceano ci sono magistrati che risolvono, dopo decenni, i cosiddetti coldcase, mentre da noi si impasticciano anche le indagini più lineari o si creano casi spesso grotteschi». Tutto è relativo. C’è da chiedersi, perciò, con che stato d’animo, Alberto Stasi – unico indagato per l’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco – viva il ricorso in Cassazione (udienza, il 5 aprile) del Procuratore generale di Milano. Sottoposto a un provvedimento di fermo il 24 settembre del 2007, è stato liberato per l’insussistenza di elementi contro di lui quattro giorni dopo; assolto in primo grado; assolto in Corte d’appello con motivazioni durissime nei confronti dell’accusa, che, scrivono i giudici, delinea «un gioco di variabili multiple, di probabilità assolutamente caotiche e non solidali». «Confidiamo nella fine di questa odissea», ci dice l’avvocato Angelo Giarda, difensore di Stasi. «Certo è che, dopo tre sentenze uniformi, ci potevano risparmiare questo ulteriore passaggio. Alberto è vittima di una persecuzione dei pubblici ministeri». Morale della favola: non c’è un colpevole (e non ci sarà mai) per il delitto di Garlasco; Alberto Stasi ha bruciato quasi sei anni della sua vita; la sua famiglia ha speso una montagna di soldi per difenderlo. E previsto un indennizzo? «Ovviamente no», dice l ’avvocato Giarda. «Il codice non lo prevede perché costerebbe troppo allo Stato, il quale non chiederà nemmeno scusa». Il caso di Elisa caso di Elisa Claps è emblematico di quasi tutti i mali della giustizia italiana. «La Polizia aveva risolto il delitto poche ore dopo», ci dice l’avvocato Giuliana Scarpetta, legale della famiglia Claps. «Avevano messo nel mirino Danilo Restivo chiedendo il sequestro e l’analisi dei suoi abiti insanguinati: la verità sarebbe venuta a galla. Ma il magistrato si rifiutò. Ecco perché si sono persi 17 anni. Ora vogliamo chiarire ogni aspetto oscuro, sapere i nomi di chi ha coperto l’assassino. Noi non ci arrendiamo». La famiglia di Yara, invece, sembra prossima a gettare la spugna. «A quasi tre anni dal l’assassin io del la ragazzina e per lo stato delle indagini», ci dice l’avvocato Enrico Pelillo, legale della famiglia Gambirasio, «si può ragionevolmente sospettare che non ci sarà mai un processo». L’ennesimo delitto senza colpevole; l’ennesima sconfitta della Repubblica italiana.
SEI IN CARCERE? CREPA!
Se sei malato in galera, crepa, scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. Ci sono detenuti con il cancro, la leucemia, il diabete, l'Alzheimer, l'epilessia. Per non dire dei disabili. E nelle carceri italiane sono quasi sempre abbandonati come bestie. Una vergogna a cui bisogna mettere fine. Antonio respira a fatica, si trascina zoppicando appoggiandosi al muro. I suoi passi lenti dalla cella all'infermeria sono un calvario quotidiano che percorre quasi nell'oscurità. Il diabete gli ha portato via la vista e il piede sinistro è ormai consumato dalla cancrena. Michele, invece, quando è entrato a Rebibbia pesava più di novanta chili. Oggi, divorato dall'anoressia, non arriva a trentotto. Nei penitenziari italiani Antonio e Michele non sono eccezioni. L'elenco di reclusi con patologie gravi è sterminato: ci sono persone colpite dall'Alzheimer e dal cancro, leucemici ed epilettici come ha raccontato "l'Espresso" un mese fa. Dati ufficiali non esistono ma secondo le stime di alcune associazioni - tra cui Antigone e Ristretti Orizzonti - il 47 per cento dei detenuti ha bisogno di assistenza per seri problemi medici o psicologici: quasi 31 mila persone tra le 66 mila e 685 rinchiuse negli istituti di pena. Adesso il caso di Angelo Rizzoli ha permesso di aprire uno squarcio su questi drammi: i legali hanno denunciato la situazione dell'editore settantenne arrestato per bancarotta, provocando interrogazioni parlamentari e l'intervento del Guardasigilli. Rizzoli soffre di sclerosi multipla ma nella sezione detenuti dell'ospedale Pertini di Roma non c'è la possibilità di fisioterapia e quindi il morbo stava avanzando. Il Tribunale del Riesame gli aveva negato la possibilità di andare ai domiciliari ma adesso il gip lo ha autorizzato: potrà curarsi in un centro adeguato. Più a Nord, nel carcere di Busto Arsizio esiste un reparto di fisioterapia completamente attrezzato: non è stato mai aperto. Uno spreco e un paradosso rispetto al panorama disastroso delle prigioni italiane: ci sono istituti clinici solo in tredici penitenziari su 207. La Corte europea dei diritti dell'uomo è stata perentoria: «Le disfunzioni strutturali del sistema penitenziario non dispensano lo Stato dai suoi obblighi verso i detenuti malati».Chi non assicura terapie adeguate viola la Convenzione europea e all'Italia sono già state inflitte diverse condanne. L'ultima lo scorso gennaio: un detenuto di Foggia, parzialmente paralizzato e costretto a scontare la pena in una cella di pochi metri quadrati, verrà risarcito per il danno morale. Una sentenza poco più che simbolica: lo Stato dovrà pagargli 10 mila euro. Spesso però il danno più grave viene dalla burocrazia, che impedisce di fatto le cure specifiche. L'acquisto dei farmaci deve essere autorizzato dal direttore, mentre i ricoveri e persino le visite urgenti passano attraverso procedure lente e complesse, con effetti disumani. Certo, bisogna impedire le fughe e i contatti con l'esterno: il trasferimento in centri clinici è uno strumento utilizzato soprattutto dagli uomini di mafia per evadere o mantenere i rapporti con i clan. Ma, a causa della carenza di mezzi e organici, troppe volte diventa impossibile organizzare il trasporto in ospedale, che prevede la sorveglianza costante da parte degli agenti. Così soltanto a Roma nelle ultime settimane quattro persone sono morte nei penitenziari. Anche i disabili faticano a ricevere assistenza adeguata. Nelle carceri italiane sono quasi mille. Come Cataldo C., 65 anni, detenuto a Parma per reati di droga. Nel 1981 è stato colpito da un proiettile e il trauma midollare lo ha costretto sulla sedia a rotelle. Da allora deve sottoporsi a una particolare terapia riabilitativa, la idrokinesiterapia, con iniezioni al midollo spinale, per alleviare il dolore e permettergli un parziale recupero. I medici hanno più volte dichiarato la sua totale incompatibilità con il carcere, che fra l'altro non ha ambienti idonei per chi si muove sulla sedia a rotelle. Le istanze presentate dal difensore Francesco Savastano sono state bocciate e oggi l'uomo non può più neppure sottoporsi alle iniezioni: Cataldo C. ha perso anche quel poco di mobilità che era riuscito a recuperare grazie alle cure. Dietro le sbarre moltissimi detenuti si ammalano di anoressia. Arrivano a perdere più della metà del peso e si riducono a larve umane, esposte a traumi e infezioni. Alessio M., 48 anni, dal 2011 è recluso ad Avellino, in attesa di giudizio per usura. A raccontare la sua storia attraverso l'associazione "Detenuto Ignoto" è la moglie Lucia: «Soffre di una forma di idrocefalo che gli provoca mal di testa lancinanti, parzialmente curati con un drenaggio alla testa di cui è tuttora portatore». E' riuscito a ottenere i domiciliari solo per pochi mesi. Poi, con il ritorno in cella, è cominciata anche l'anoressia. Inevitabile che la detenzione provochi o amplifichi disturbi mentali. Spiega l'associazione Antigone, tra le più attive nel denunciare l'abisso dei penitenziari: «Molto spesso arrivano sani, o magari con una lieve tendenza alla depressione, e nel giro di qualche mese la loro mente precipita nel buio». E' il caso di Osvaldo G., 57 anni, detenuto a Reggio Calabria. Invalido e affetto da dieci gravi diverse patologie allo stomaco, al pancreas, al fegato e ai reni, è in carcere da più di un anno per aver danneggiato la porta dell'ufficio di un uomo con il quale aveva litigato. In cella deve condividere il wc alla turca con altri quattro reclusi. Durante il giorno ha violenti conati di vomito e fitte di dolore che lo costringono a letto. Ha diritto a quattro ore d'aria, ma non riesce a uscire: vive sempre in una cella gelida d'inverno e torrida d'estate. L'affollamento rende praticamente impossibile la pulizia personale, che nelle sue condizioni dovrebbe essere ancora più accurata. Nella débâcle del nostro sistema carcerario anche assistere i diabetici è difficile: secondo l'Associazione medici dell'amministrazione penitenziaria italiana sono circa il 5 per cento dei reclusi. Oltre tremila persone che devono fare i conti con un duplice ostacolo. Le dosi di insulina che devono farsi iniettare quotidianamente e più volte al giorno a volte sono irreperibili. La mensa interna non è in grado di garantire i pasti totalmente privi di zuccheri e scarsi di amidi, gli unici compatibili con la loro condizione. Secondo il regolamento, il detenuto diabetico avrebbe diritto all'insulina 3-4 volte al giorno e a una dieta personalizzata. La realtà però è molto diversa. L'associazione Ristretti Orizzonti si è occupata attraverso l'avvocato Davide Mosso del caso di un detenuto algerino di 36 anni, Redouane M., trovato senza vita nel reparto psichiatria del carcere di Monza. L'uomo - diabetico, epilettico e con diagnosi di disturbo borderline - il giorno prima della morte si era rifiutato di prendere l'insulina e i medici del carcere non gli avevano fatto la somministrazione forzata. Ancora più penalizzati gli anziani. Soli e malati, spesso restano dietro le sbarre anche dopo i 70 anni, il limite di età previsto dal nostro codice penale. Nel carcere di Cagliari è rinchiuso ad esempio Carlo F., 75 anni. Soffre di cardiopatia ischemica dovuta a tre infarti al miocardio, claustrofobia e morbo di Parkinson. Ad aggravare la situazione fisica c'è la depressione che, insieme all'ansia, gli provoca un'accentuazione del tremore al punto da fargli cadere gli oggetti dalle mani. Le sue istanze per ottenere i domiciliari sono rimaste inascoltate. E solo di recente gli è stata concessa una cella con un wc normale, e non quello alla turca, inagibile per un anziano.
Carceri, se questi sono uomini, scrive Paolo Biondani e Arianna Giunti su “L’Espresso”. Malati con cancro e Aids senza cura. Donne con neonati in gabbia. Sporcizia dovunque. Le testimonianze dei prigionieri. Il ladro di biciclette. L'alcolista senza tetto che ha rubato un panettone. L'ex tossicodipendente che è evaso dalla comunità perché non gli facevano vedere la figlia. Il detenuto con un tumore al cervello. Il ventenne devastato dalla cocaina che dorme sul pavimento di una cella fradicia. Lo straniero che lavorava in nero nei cantieri, con la crisi è finito a vivere per strada e ora è dentro per furto di cibo. L'anziano paralizzato in carrozzella. La mamma italiana arrestata con una piccola dose di droga che è costretta a crescere in prigione la figlioletta di undici mesi. Il carcere in Italia è una discarica sociale. Dopo anni di proclami sul giusto processo e il garantismo, il nostro Paese ha il record assoluto di condanne inflitte dalla Corte europea per condizioni di detenzione disumane. Per descrivere il male di vivere nei penitenziari, "l'Espresso" ha raccolto testimonianze dirette dei detenuti, che si raccontano in una serie di lettere. Scritti (e disegni) disperati, confermati dai documenti giudiziari e dai referti sanitari forniti da avvocati, medici e volontari delle più note associazioni ed enti di tutela. Tra tante, troppe storie di dolore e ingiustizia, ne sono state selezionate alcune rappresentative dei drammi più diffuse tra le oltre 65 mila persone rinchiuse nei penitenziari italiani, che dovrebbero al massimo contenerne ventimila di meno. Il detenuto L. è un italiano di 38 anni con un cumulo di piccoli precedenti per droga. In cella ormai da nove anni, ha il virus dell'Hiv e l'epatite, come molti ex tossicodipendenti, ma ha anche un tumore al cervello, per cui ha già subito due interventi chirurgici. Oggi non è nemmeno in grado di scrivere: la sua storia è raccontata nelle carte dei medici dell'associazione Antigone. Sballottato da un carcere all'altro, tra Genova, Firenze e Pisa, L. non riesce a curarsi con i farmaci salvavita, anche perché la terapia anti-cancro risulta incompatibile con quella contro l'Aids. Quindi il tumore al cervello continua a riformarsi. Due anni fa tenta per la prima volta il suicidio. In estate, la beffa: ottiene finalmente la detenzione domiciliare, ma dopo una settimana esce di casa («Dovevo solo buttare l'immondizia», giura, senza essere smentito) e viene riarrestato per evasione. Imprigionato a Rebibbia, non può fare la chemioterapia, perché mancano agenti per scortarlo in ospedale. Pallido, magrissimo, perde sangue dalle feci e rifiuta le medicine. Il resoconto sanitario si chiude con queste parole: «Ha tentato di nuovo di uccidersi inghiottendo tre tagliaunghie». Nel dicembre scorso il tribunale di sorveglianza ha disposto una nuova perizia medica. Nell'attesa L. resta in prigione. Fine pena: 2016. «Se non muore prima», è l'amaro commento dell'avvocata Simona Filippi, responsabile legale di Antigone. Il detenuto M., italiano di mezza età, ha un passato di alcolista senza tetto: scrive di aver vissuto per anni «nei boschi attorno a Roma». Arrestato e condannato per piccoli furti (rubava cibo e sigarette), non viene curato, ma imprigionato. A Rebibbia riceve farmaci contro l'epilessia che provocano incontinenza: di notte non riesce a trattenere urina e feci. Nessuno lo vuole vicino. La sua lettera è straziante: «Da tre mesi la mia malattia si è aggravata e non trattengo più nulla. Per le paure e la depressione il mio cervello sta perdendo i pezzi. Ora mi trovo in cella con altri due detenuti, uno è psicopatico, l'altro fa lo sciopero della fame. Quando vado in depressione mi abbraccio nel bagno e piango. Sono diventato un maiale nel suo porcile. Per favore aiutatemi, mandatemi uno psicologo». Il primo choc per tutti i carcerati è il sovraffollamento. L'italiano V., detenuto a Ivrea, descrive così la sua cella: «Questo è un piccolo carcere che dovrebbe contenere non più di 150 detenuti, ma ne ospita il doppio. La mia cella è predisposta per un detenuto, in realtà siamo in tre: misura 4 metri per 3. Il bagno è senza acqua calda: in realtà è solo un wc non separato dal cucinino. C'è molto freddo, dalle finestre entrano spifferi diabolici. E il lavoro è un privilegio per pochi. Io sono sepolto vivo 24 ore su 24. Che carcere è questo, dove non sono rispettati il minimo della dignità e della salute?». Cinque ventenni tunisini, rinchiusi a San Vittore, hanno disegnato il loro angolo del "sesto raggio" in una lettera spedita agli avvocati dello studio Losco-Straini. «In ogni cella siamo in sei: due metri quadrati a persona, ma buona parte del locale è occupato dai due letti a castello su tre livelli, che chiudono anche l'unica finestra, per cui non c'è mai ricambio d'aria. Il davanzale è coperto da strati di escrementi di piccione. La cella è infestata di scarafaggi, la porta resta chiusa per venti ore al giorno, le docce sono comuni a tutto il reparto...». I cinque ragazzi non avevano commesso alcun reato: nel gennaio 2012 sono stati rinchiusi al Cie di via Corelli solo perché erano senza permesso di soggiorno. Quando è scoppiata l'ennesima rivolta, sono stati arrestati con l'accusa di "devastazione". A Crotone il tribunale ha assolto tre stranieri come loro, giudicando «legittimo» ribellarsi contro strutture«indecenti e disumane». A Milano invece i tunisini sono stati condannati senza attenuanti e rinchiusi nel raggio che ha impressionato il presidente Giorgio Napolitano. Da Monza un ventenne lombardo arrestato per scippo (cercava i soldi per la cocaina) scrive che è costretto a dormire «su un materasso per terra, in una cella piccolissima, dove fa freddo e le pareti sono fradicie d'acqua».Gli avvocati delle Camere penali confermano che nella ricca città brianzola «675 detenuti sono stipati in stanze che dovrebbero ospitare solo una persona, ma ne contengono quattro, con due letti e due materassi stesi a terra, perché ben 83 celle sono state chiuse per allagamenti e infiltrazioni». Da Lecce il detenuto F. spiega: «Siamo in tre in una cella singola dove spesso restiamo senza acqua e senza luce»; «d'inverno fa freddo e d'estate con il caldo l'aria diventa irrespirabile soprattutto per me che sono cardiopatico»; «il passeggio è coperto da un rete metallica piena di escrementi»; e «per risolvere il problema della mancanza di spazio ora ci vengono sequestrati gli indumenti». Dalla Toscana A. protesta, con feroce autoironia: «Quattro metri quadrati a testa non sono uno spazio consono a un essere umano, visto che una legge ne garantisce un minimo di sette ai suini». I più soli e disperati sono i tantissimi stranieri (e italiani) che non hanno neppure un amico o parente che possa visitarli e aiutarli. Mohamed, 25 anni, è arrivato in Italia tre anni fa senza permesso. Essendo clandestino, poteva lavorare solo in nero. Per due anni è stato reclutato a giornata dai caporali in piazzale Lotto a Milano: operaio invisibile nei cantieri delle grandi opere. Con la crisi ha perso anche il lavoro nero. Senza casa, senza famiglia, ha dovuto«dormire per strada e vivere di elemosina», come spiega agli avvocati dello studio Di Leo-Bottino. Un giorno ha rubato cibo in un centro commerciale: arrestato e condannato a 8 mesi, ha ottenuto la condizionale. Ma la sospensione della pena vale solo la prima volta. Tornato all'addiaccio, è stato riarrestato per un secondo furto di scatolame. Ora è in cella e deve scontare entrambe le condanne: il ladro per fame uscirà nel 2014. Ma non si lamenta:«Stare in carcere è meglio che dormire al gelo». Il carcere è una tragedia anche tra bambini e genitori. Oggi sono 60 i minori di sei anni (età media, 12 mesi) che crescono in cella con le mamme per mancanza delle strutture alternative, in teoria previste da un decennio dalla legge Finocchiaro: a Milano funzionano, nel resto d'Italia no. Ma c'è anche il problema dei minori con un genitore o entrambi in carcere. «Sono circa centomila», stima Lia Sacerdote, presidente di Bambini senza sbarre, l'associazione che ha creato a San Vittore uno "spazio giallo" per ridurre lo choc delle visite.«E' un problema nel problema: i genitori si vergognano di parlare dell'arresto e i figli li colpevolizzano pensando di essere stati abbandonati». Nella sede dell'associazione c'è G., una bella mamma italiana con la vita distrutta da sei grammi di eroina: «Ero tossicodipendente, mi hanno arrestata nel '97 e condannata a sei anni. Mia figlia aveva 11 mesi, è rimasta in cella con me fino ai tre anni. Una suora buona la portava di nascosto a vedere il papà, anche lui detenuto nell'ala maschile. Quando ha compiuto tre anni, me l'hanno tolta di colpo: la mia piccolina piangeva disperata, fu il giorno più brutto della mia vita. Dopo la scarcerazione, sono impazzita per riaverla. E' tornata con me a 13 anni. Ma nel 2011 mi hanno riarrestata. Mi hanno considerata complice di uno spacciatore veneto che non vedevo dal 1997, solo perché mi telefonava lui. Mi hanno processato come irreperibile, l'avvocato d'ufficio non mi ha mai avvertito: ho saputo del processo solo dopo la Cassazione. Quindi sono finita nel carcere di Como, che è veramente un inferno. Condannata a due anni ingiustamente, lo giuro. Questa estate è morto il mio compagno. Non ho avuto il permesso di andare al suo funerale. Mia figlia mi vuole molto bene, ma io non ce la faccio più. Oggi ho potuto finalmente vedere la tomba del mio uomo. Accanto c'è un loculo vuoto. Ho pensato: aspetta me». La lettera dell'italiano F. alla comunità Saman sembra quasi il manifesto di una generazione bruciata tra droga e prigione: «Ho 46 anni, metà della mia vita l'ho trascorsa in carcere: ho fatto solo furti e piccole rapine, sempre per avere i dieci euro per la dose, ma ogni volta mi condannavano a 3-4 anni. Non mi è stata data mai la possibilità di curarmi, di avere una misura alternativa al carcere. In cella a Favignana, a Sulmona e poi al Nord ho visto tantissimi casi come il mio: ragazzi che non sono delinquenti, ma hanno solo un problema, la droga». «Due terzi dei detenuti sono in cella per tre sole leggi», lamenta Riccardo De Facci, responsabile del coordinamento nazionale delle comunità di accoglienza: «La Fini-Giovanardi sulla droga, le norme penali della Bossi-Fini sull'immigrazione e la ex Cirielli che punisce chi ha precedenti. Tre leggi che creano un circuito criminogeno che blocca le misure alternative e fa saltare tutti i percorsi di rieducazione». Gli effetti repressivi delle nuove norme sugli stupefacenti, arrivate a equiparare gli spinelli all'eroina, si sono aggravati proprio con la ex Cirielli, la famigerata legge berlusconiana che salva con la prescrizione politici corrotti e grandi evasori, ma toglie ogni speranza al popolo dei recidivi: chi ha già subito condanne anche lievi, viene bersagliato di aggravanti e paga carissimo ogni nuovo reato anche minore. Il detenuto C., 45 anni, scrive a Saman dal carcere di Velletri: «Ho rubato un panettone per fame e sto scontando 26 mesi di reclusione. Sogno di rifarmi una vita e voglio aiutare gli altri». Il signor A., 64 anni, è un ex operaio diventato alcolista e senza tetto dopo la morte del figlio e il licenziamento. Già incarcerato per aver rubato scatole di tonno e alcolici al supermercato, nel settembre 2011 è stato riarrestato per furto di una bicicletta. Condannato a tre anni e mezzo, sta scontando nel carcere di Monza. L'avvocata Antonella Calcaterra, referente nazionale per il carcere delle Camere penali, mostra indignata il casellario del detenuto T.: «Ha quasi 50 anni e ne ha vissuti trenta da tossicodipendente. Ha commesso solo piccoli furti. Dopo ogni scarcerazione, violava l'obbligo di non uscire di casa la notte e in questo modo ha accumulato nove pagine di mini-condanne per evasione. Riarrestato nel 2008, avrebbe meritato sei mesi di cella, ma la ex Cirielli gli ha resuscitato tutte le condanne precedenti per le evasioni da casa: la pena finale ha raggiunto l'assurdo tetto di 13 anni e sei mesi».
SPECULATORI DELLA SOFFERENZA. CHI CI GUADAGNA SUI DETENUTI?
Chi mangia sulle carceri-lager, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Mentre in galera le condizioni sono sempre più disumane, emergono le spese folli dei super dirigenti: foresterie con Jacuzzi in terrazzo, tivù da sessanta pollici e tappeti persiani (ma anche scopini da bagno pagati 250 euro l'uno). Il vitto di un detenuto costa allo Stato meno di quattro euro al giorno, una somma che dovrebbe garantire tre pasti quotidiani. Ma non sempre le imprese che si aggiudicano gli appalti per cifre così basse riescono a garantire quantità e qualità del cibo che viene distribuito nelle celle. E così i reclusi devono arrangiarsi, con i viveri che ricevono dalle famiglie o con le merci acquistate a carissimo prezzo negli spacci delle case di pena. Una situazione che condiziona la vita delle oltre 65 mila persone rinchiuse nelle prigioni italiane, in strutture che dovrebbe ospitarne al massimo 47 mila. Allo stesso tempo, però, alcuni magistrati al vertice dell'amministrazione penitenziaria godono di benefit scandalosi: hanno diritto ad appartamenti anche nel centro di Roma con un canone di sei euro al giorno, acqua, luce, gas e pulizie compresi, che non tutti però pagano. Un privilegio che, come nel caso di Gianni Tinebra da sette anni procuratore generale a Catania, mantengono anche dopo avere lasciato l'incarico. E per arredare queste foresterie non si risparmia sui lussi: sul tetto-terrazza di una è stata installata una Jacuzzi con idromassagio, in salotto ci sono tv da sessanta pollici costate duemila euro, sui pavimenti tappeti persiani e si arriva alla follia di far pagare 250 euro lo scopino di un bagno. L'elenco di queste spese "fuori norma" è stato depositato ai pm di Roma e alla Corte dei Conti che hanno avviato indagini. Ma è solo uno dei paradossi di un sistema carcerario che continua a essere una vergogna italiana. I nostri penitenziari sono una discarica di esseri umani dove non solo è negata ogni possibilità di rieducazione ma viene umiliata anche la dignità delle persone. «Più volte ho denunciato l'insostenibilità di queste condizioni ma i miei appelli sono caduti nel vuoto», ha dichiarato il presidente Giorgio Napolitano nella storica visita a San Vittore del 7 febbraio. Il dramma è stato praticamente ignorato dalla campagna elettorale, con l'unica eccezione dei Radicali, soli a portare avanti una battaglia di civiltà per l'amnistia: un provvedimento che il capo dello Stato ha detto di essere stato pronto a firmare«non una ma dieci volte». A testimoniare quanto sia paradossale la situazione bastano pochi dati: ogni anno lo Stato destina due miliardi e ottocento milioni per l'amministrazione penitenziaria, ma l'88 per cento finisce negli stipendi del personale. Un altro 7,3 per cento viene impegnato per il vitto dei detenuti e così rimane meno del 5 per cento per qualunque altra necessità: 140 milioni per la benzina, le vetture, le divise, gli arredi, la manutenzione e le ristrutturazioni. Insomma, non ci sono fondi per mettere mano alle terribili condizioni delle prigioni, spesso ancora ospitate in monasteri ottocenteschi o vetuste fortezze. Se si investisse poco meno di 200 milioni di euro sulla ristrutturazione, come spiegano funzionari del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria, si potrebbero ottenere subito nuovi posti per garantire spazi a 69 mila detenuti, solo per il circuito maschile: basterebbe puntare su un ampliamento degli istituti, senza impegnarsi nella costruzione di altre carceri. La direzione generale risorse del Dap ha fatto un calcolo di quanto servirebbe per fronteggiare l'emergenza edilizia. La proposta è stata illustrata nei mesi scorsi al Consiglio d'Europa che si è svolto a Roma. Secondo il Dap oggi il valore convenzionale degli immobili è di circa cinque miliardi di euro: ci vorrebbero 50 milioni l'anno per la manutenzione ordinaria e 150 per quella straordinaria. La cronica carenza di stanziamenti oggi ha azzerato gli investimenti per nuovi padiglioni e l'assenza di manutenzione ha determinato la chiusura o il completo abbandono di intere sezioni che «attualmente si trovano in condizioni strutturali e igieniche assolutamente incompatibili con le finalità penitenziarie per cui gli spazi a disposizione dei detenuti si sono ulteriormente ridotti». Ma invece di fare passi avanti, si continua a precipitare nel baratro. Perché sulla carta c'è «un numero eccessivo di istituti»: sono 206, ma di questi 120 hanno meno di duecento posti e 63 addirittura meno di cento. E le strutture piccole si trasformano in uno spreco di risorse, richiedono un numero più alto di agenti e personale rispetto al numero di reclusi. In teoria, l'Italia ha il miglior rapporto tra metro cubo di edifici e detenuti, senza però che questo dato statistico si trasformi in un miglioramento delle condizioni. Tutt'altro: secondo le analisi del Formez ci sono in media 140 reclusi per cento posti letto. Persone obbligate a vivere per ventidue ore al giorno in celle claustrofobiche, con tre-quattro brande sovrapposte, bagni minuscoli e pochissime docce. Anche il primato nel rapporto tra detenuti e agenti penitenziari resta teorico: si continua a discutere della carenza di personale di custodia mentre una moltitudine di agenti è in servizio nel ministero di via Arenula, negli uffici periferici regionali o viene distaccato ad altri incarichi, lasciando sguarniti i raggi delle celle. «E' assolutamente chiaro che si sia sbagliato qualcosa», si legge nella relazione del Dap al Consiglio d'Europa, «così com'è chiaro che proprio ragionare su questi apparenti paradossi costituisca il corretto approccio per provare, almeno, ad allineare il sistema penitenziario italiano a quello degli altri Stati europei». Nell'ultimo anno i vertici del Dap hanno cercato di cambiare la rotta. Con investimenti limitati, evitando gli sprechi, hanno ristrutturato alcune sezioni degli istituti, realizzando 4.630 nuovi posti. La nuova legge sugli arresti domiciliari, che permette di scontare in casa condanne inferiori ai dodici mesi, ha fatto uscire quasi novemila detenuti. Su altri 6.000 con pene fino a due anni si devono pronunciare i giudici di sorveglianza. Nonostante questo l'emergenza continua. Ad affollare le carceri sono soprattutto gli extracomunitari: ben 24 mila, con una predominanza di cittadini marocchini e tunisini. La maggioranza dei detenuti è accusata o condannata per reati contro il patrimonio: 34.583 sono finiti dentro per furti, rapine, estorsioni, ricettazione, usura, frodi, riciclaggio. Altri 26.160 hanno commesso reati legati alla droga; 24.090 sono accusati di crimini contro la persona come violenze e omicidi; 10.425 invece devono scontare pene per armi. I colletti bianchi in cella per reati contro la pubblica amministrazione come corruzione e concussione invece sono 8.307. Su 65mila reclusi, solo 604 sono laureati, di cui 176 stranieri: altri 21 mila hanno la licenza di scuola media inferiore. E gli unici a potere contare su celle comode, con uno o due letti per stanza, sono mafiosi e terroristi sottoposti a regime di media e massima sicurezza: settemila persone, tra cui 133 donne. Ma questa esigenza ha provocato un altro squilibrio, con la necessità di riservare numerose sezioni a questi sorvegliati speciali, aumentando la ressa nelle altre. Dopo l'indulto varato dal governo Prodi nel 2007, i cui effetti sul sovraffollamento sono stati vanificati nel giro di tre anni, di fatto non ci sono stati interventi. Con la solita logica emergenziale, nel 2010 il ministro Angelino Alfano ha elaborato un piano straordinario per l'edilizia carceraria. E' stato nominato un commissario con ampi poteri e risorse finanziarie: nei proclami iniziali si parlava di 700 milioni di euro, poi i soldi sono spariti. Oggi sono in fase di avvio i lavori per costruire un paio di padiglioni mentre tutto il programma iniziale è stato riesaminato secondo criteri di efficienza dal nuovo commissario straordinario. Nel piano Alfano, oltre alla nomina di consulenti amici del politico, sono stati pianificati tanti cantieri ignorando le situazioni più urgenti o le esigenze dei territori. Come il caso del carcere che si voleva edificare a Mistretta, nel Messinese, eliminato in fretta dalla mappa. Un vecchio vizio: negli anni Ottanta lo scandalo delle carceri d'oro ha dimostrato come i nuovi penitenziari erano stati edificati solo in base a logiche politiche, di collegio elettorale o di tangente, senza guardare alle necessità dei detenuti. Che spesso sono obbligati a rimanere concentrati negli istituti più vicini alle sedi dei processi. Ma anche in tempi recenti le nuove prigioni sono diventate l'occasione per rapidi arricchimenti. Durante la gestione del Dap guidata da Franco Ionta ha destato curiosità la figura del "responsabile unico di progetto" che a norma di legge intascava il 2 per cento dell'opera. A firmare era sempre lo stesso funzionario, un tecnico, sostituito poi da un magistrato: lo stesso Ionta. Oggi nella campagna elettorale la questione delle carceri è stata ignorata. Solo i Radicali hanno continuato senza sosta a proporre il problema. E ora toccherà al nuovo Parlamento dare risposte concrete per uscire da quella che il presidente ha definito una «situazione mortificante», ribadendo senza mezzi termini: «Sono in gioco l'onore e il prestigio dell'Italia».
Il lavoro dei detenuti? E' un business, scrive Luciana Grosso su “L’Espresso”.
La legge lo sancisce come un diritto. Ma per chi è dietro le sbarre, lavorare è un optional. E chi riesce ad avere un impiego, è pagato pochissimo. Mentre le aziende che impiegano i carcerati godono di grossi sgravi fiscali. Il lavoro penitenziario è un diritto preciso, sancito dalla legge 354. Si è dimostrato efficace nel rieducare e reinserire i detenuti, con le recidive che raramente superano il 20% (secondo dati che dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria definiscono 'empirici') ma è anche un'opportunità clamorosamente vantaggiosa per cooperative più o meno sociali e aziende, che, grazie alla legge Smuraglia sul lavoro dei detenuti, si ritrovano con mano d'opera a costo minimo e compensati con ampie agevolazioni fiscali. E' un ingranaggio che sulla carta funziona per tutti: detenuti, carcere e aziende. Ma nella pratica i meccanismi si inceppano. La prima cosa che non va riguarda, per i detenuti come per tutti, la disoccupazione. In base al rapporto stilato dall'associazione Antigone, 'Senza dignità', il numero dei detenuti oggi impiegati è il più basso dal 1991: "Nel primo semestre 2012" recita il report "a lavorare sono stati 13.278 detenuti, ossia meno del 20% del totale dei reclusi". Questo con buona pace del fatto che il lavoro dietro le sbarre sia obbligatorio e necessario. "Quello che si tende a dimenticare" spiegano dall'osservatorio Ristretti Orizzonti, che monitora la situazione delle carceri italiane "è che il lavoro in carcere è obbligatorio. I detenuti non possono rifiutarsi di farlo e il carcere è tenuto a fornirlo. Solo che questo non succede e oggi chi ha la possibilità di lavorare viene considerato un privilegiato: il lavoro passa per essere un premio". Il secondo intoppo riguarda la retribuzione. In questo caso la grande differenza la fa il fatto che si lavori per il carcere (con mansioni semplici come portavivande, portalettere o cuoco) o per un soggetto esterno, cooperativa o azienda. Nel primo caso, ai detenuti spetta una mercede, ossia un compenso, da cui vengono scalati circa tre euro al giorno per i costi di vitto e alloggio. Per questi lavori il compenso può limitarsi anche solo a 50 euro al mese. La mercede viene calcolata da un'apposita commissione e non può essere inferiore ai due terzi dello stipendio del Contratto nazionale di categoria. "Questa è la teoria" continuano gli analisti di Ristretti Orizzonti "la pratica è un po' diversa. Tanto per cominciare la commissione non si riunisce dal 1994. Da 19 anni aspettiamo che ne venga nominata una nuova, che aggiorni gli importi, che sono fermi alla base del 1987. Inoltre bisogna considerare che si viene pagati a ore e certe mansioni, come il portavivande, con tutta la buona volontà, non possono essere svolte per più di due o tre ore al giorno, e quindi i compensi sono solo di poche decine di euro". Nonostante si tratti di lavori per lo più dequalificati e retribuiti in modo minimo, quelli all'interno del carcere sono considerati un lusso sempre più raro perchè il budget previsto nel bilancio del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria per le mercedi dei detenuti negli ultimi anni si è ridotto del 71%: dagli 11 milioni di euro del 2010, ai 9,3 del 2011 ai 3,2 del 2012. Migliore è la condizione di chi lavora presso cooperative o aziende, e ha una retribuzione sostanzialmente pari agli omologhi liberi e la possibilità di fare un lavoro qualificato e qualificante. Ma qui arriva il terzo, grave, inghippo: quello dei diritti. Benché siano del tutto regolamentati dalla legge e pari a quelli del CCNL (ferie, malattia, assicurazione ecc.) spesso sono solo affidati al buon cuore dei datori di lavoro perché nessuno tra i lavoratori ha il coraggio di alzare al testa. Un silenzio difficile da scalfire. "Solo da poco siamo riusciti a penetrare l'ambiente del carcere" conferma Corrado Mandreoli, della CGIL di Milano "Difficile che i detenuti avanzino rivendicazioni. Per la prima volta abbiamo fatto una vera assemblea e una vera vertenza legata alla retribuzione". Il caso è quello di un gruppo di lavoratori del carcere di Bollate che lavorava a cottimo per un'industria metalmeccanica. "Eravamo riusciti a introdurre un contratto migliore, con paga oraria. Ma l'azienda, con una serie di escamotage, è riuscita a riconvertire la paga oraria in paga a pezzo, calcolando l'orario svolto sulla base dei pezzi prodotti, il che ha comportato una revisione al ribasso degli stipendi". Un altro problema riguarda la buona fede delle cooperative. Se la stragrande maggioranza di loro offre lavoro, istruzione e reale riscatto, altre approfittano della situazione e non negano di aver trovato la "Cina in Italia". La ragione è semplice. Per ogni detenuto impiegato ricevono, per effetto della legge Smuraglia, 516 euro di credito di imposta. In questo modo non solo hanno un lavoratore che costa poco e che non si lamenta, ma anche la cui sola presenza consente loro di risparmiare su tutti gli altri. Un quadro difficile pensato per aiutare i carcerati e che invece, nei casi peggiori, può degradarne ancora di più la situazione. "Il problema del lavoro dei detenuti c'è" conferma il vice direttore del DAP Luigi Pagano "e ha grandi dimensioni. Non riguarda solo i singoli abusi di singoli datori di lavoro in malafede, ma in senso più ampio il sistema. Il lavoro penitenziario va profondamente ripensato e riformato, e soprattutto agevolato. La legge Smuraglia, per la quale sono arrivati ora, in modo rocambolesco e che non sapremo se si ripeterà, 16 milioni di euro, non basta. Spesso per le aziende far lavorare i detenuti è complesso e costoso, dunque se possono, evitano. Allo stesso modo per i detenuti lavorare è incompatibile con gli obblighi carcerari e legali della loro condizione, come l'ora d'aria o i colloqui". Ad oggi però di riforma non si parla, anzi, si valuta un nuova legge che porti a 1000 euro il credito di imposta per le aziende, e renderebbe ancora più appetibile la forza lavoro dietro le sbarre, con il pericolo di attirare ancora di più i "furbetti dell'esenzione fiscale", in cerca di agevolazioni. I carcerati però devono lavorare e con compensi adeguati. Lo prevede la legge, lo richiede il loro benessere e la sicurezza di tutti. Dunque come fare? La soluzione, forse un po' naif, la propongono proprio gli analisti e i volontari di Ristretti Orizzonti: "Bisogna disinnescare il meccanismo che rende il lavoro dei detenuti, con i mille limiti del caso, un business per le imprese e non un'opportunità vera per i detenuti. Se questi soldi fossero gestiti direttamente dallo Stato e non dalle cooperative o dai privati sarebbe meglio per tutti: per le casse dello Stato che non dovrebbero elargire esenzioni, per i detenuti, i cui diritti sarebbero più al sicuro e anche per le imprese che non si sobbarcherebbero l'onere retributivo di dipendenti che, per motivi oggettivi di orario e altro, spesso rendono meno di altri".
Il Lettore scettico, disabituato al racconto dei fatti umani senza pregiudizi sociali od ideologici, ovvero conditi da ignoranza od approssimazione, si chiederà: perché leggere questo libro e non la miriade di lavori aventi lo stesso tema, stilati da più o meno autori improvvisati ed estemporanei?
Per prima cosa perché tale opera è citata più di altre nei canali d'informazione come punto di riferimento ed addirittura indicata da Wikipedia come resoconto ufficiale del "Delitto di Avetrana".
Per seconda cosa perché il lettore, assuefatto alla cultura omertosa e censoria imperante, proverà a leggere i fatti, scritti senza peli sulla penna e basati sulla conoscenza diretta: insito nello stile di Antonio Giangrande, autore della collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo" da poter leggere gratuitamente sui suoi canali web, in quanto nessun editore ha voluto pubblicare i suoi volumi.
Chi legge questo libro, aggiornato periodicamente e da scoprire fino all'ultima pagina, si immergerà nella vicenda umana con riferimento ai fatti della società italiana che fanno da corollario ai fatti di cronaca, divenuti storia.
Si inizia per dire che, a proposito del delitto di Sarah Scazzi....ad Avetrana non è venuto alcun giornalista degno di questa qualifica. Il vero giornalista la notizia la cerca nel luogo dell'evento e la dà al pubblico: certamente non la crea. Egli riporta il fatto e poi, se è capace, dà il commento. Ad Avetrana il commento sul luogo e sull'evento (spesso frutto di pregiudizio e/o ignoranza) è diventato un fatto, oggetto di disquisizioni salottiere!!!
BUONA LETTURA.......
Per rimembrare ed a futura memoria si presenta al mondo la composizione e l'elaborazione di un'opera di didattica e di ricerca senza influenze ideologiche, territoriali e temporali. Opera di me medesimo, Antonio Giangrande, autore di decine di libri di inchiesta e di denuncia. Scrittore non omologato, quindi osteggiato da media ed istituzioni e per questo poco conosciuto.
La mia ricerca e la mia didattica, non per giudicare, ma per conoscere.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perché "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sé, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento verticale, criminale e vessatorio, di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso e non recedo mai dal dire: la mafia ti distrugge la vita, lo Stato ti uccide la speranza.
ASPETTATIVA DI GIUSTIZIA. DALLA PARTE DELLE VITTIME.
Partiamo dall’aspettativa di giustizia che hanno le vittime (ed i loro familiari). La mamma di Sarah, Concetta Spagnolo Serrano, non crede nella giustizia. «La morte di Sarah è un segreto che si porteranno sempre dentro Cosima e Sabrina». Queste alcune delle parole di Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, raccolte dall'inviato di Quarto Grado e in onda su Retequattro alle 21.10 del 7 settembre 2012. «Quel 26 agosto - racconta Concetta Serrano parlando con l'intervistatore del giorno della scomparsa della figlia quindicenne - ho avuto l'impressione che a Sarah fosse accaduto qualcosa di grave, ma non sapevo di preciso cosa. Mai avrei immaginato nulla del genere». «Mia figlia - afferma la donna - è stata vittima della cattiveria di Sabrina e Cosima. Il fatto che mia sorella, insieme alla figlia, abbiano rincorso Sarah, mi fa pensare a qualcosa di più squallido della gelosia. Secondo me oltre a quello ci sono altre cose». «In questi mesi non ho mai avuto il desiderio di parlare con loro semplicemente perché tanto, vigliaccamente, non si assumono le loro responsabilità dicendo la verità. Continueranno sempre con quella versione all'infinito. È una pugnalata quando mi guardano con quegli occhi indemoniati e pieni di scherno. Mi sento tradita e penso che un tempo erano altre persone». «Non so se ci sia ancora poco o molto da scoprire sull'omicidio di mia figlia. L'importante - dice ancora la donna - è che si arrivi alla verità. Questo è un segreto che si portano dentro Cosima e Sabrina e non so come facciano a sopportare questo peso atroce sulla coscienza, ammesso che ne abbiano una». La donna conclude parlando del processo e del suo stato d'animo quando si trova in aula: «Quando sono in aula - racconta - mi sembra di perdere il contatto con la realtà. In questi mesi ho assistito alle udienze e sono rimasta profondamente turbata. Mi sembra un processo assurdo, tant'è che spesso mi pongo degli interrogativi e dico: ma questo processo perché si svolge? A chi serve? Chi se ne avvantaggia? La vittima? Non direi proprio». «Se la giustizia deve rendere a ciascuno il suo - conclude Concetta Serrano - a Sarah cosa verrà corrisposto?»
La domanda che sorge spontanea è: cerchiamo giustizia o piuttosto pretendiamo vendetta? Ed una persona di fede che crede nella misericordia divina, può perseguire la vendetta e non la giustizia? E poi quale giustizia: quella pretesa dai media; quella pretesa dalle parti; quella imposta dai magistrati?
Nella trasmissione "Quarto Grado", in onda su Rete 4, è intervenuta la mamma della povera Sarah, la bimba uccisa due volte: prima dall’omicida e dopo dai media. Pur comprendendo il dolore di una madre a cui viene uccisa una figlia, in modo crudele e da parenti, c'è da dire che la signora ha lanciato una serie di nefandezze. Nessuno le toglie il diritto sacrosanto di pretendere giustizia giusta e vedersi risarcita per la perdita della figlia. Tuttavia, questo non la autorizza, in pubblico via Tv, a lanciare proclami di vendetta con parole forti e ancor di più fare ingiusta pubblicità alla setta dei Testimoni di Geova. Proprio lei che afferma che chi invita "zio Michele" nelle trasmissioni tv, lo invita in cerca audience a buon mercato. Concetta Spagnolo Serrano più volte ha detto che vuole vendetta, che questa vendetta è gradita a Dio Geova. Insomma, un Dio vendicatore e giustiziere, una vera eresia mandata in diretta, senza che nessuno degli ospiti avesse avuto il coraggio di contraddirla. A parere della mamma di Sarah Scazzi, Dio dovrebbe mandare fulmini e saette sugli assassini. Una concezione eretica e blasfema, perché detta da una persona di fede. Quel Dio a cui la signora si riferisce forse è il Dio del vecchio testamento, adorato dai Testimoni di Geova, dagli ebrei e dai mussulmani. Il Dio di Gesù Cristo è Dio fatto da amore puro e misericordia e sa perdonare, se pentito, anche il peggior delinquente. Se Dio fosse stato come dice la signora, non sarebbe morto di Croce, avrebbe sterminato facilmente i suoi aguzzini. Bisogna distinguere: Dio non manda mai il male, ma lo permette, quando questa specie di catechismo del male, serve per ottenere un bene. La sparata della signora Scazzi, ci fa riflettere su come la Tv esageri con dibattiti relativi ai delitti, alle morti. Si ascoltano parole in libertà, interviste che potrebbero anche essere frutto di contrattazione e teorie spesso senza fondamento, in quanto nessuno dei soloni, ha letto le carte processuali. Non sarebbe ora di smetterla con questi catechizzatori mediatici, senza arte, ma di parte, che ci lavano il cervello?
Nei fatti di cronaca nera si impreca contro il mostro sbattuto in prima pagina, spinti dall’impeto dell’odio ed in base alle informazioni date per un interesse, quindi spesso distorte od artefatte. Al presunto autore si scaglia l’anatema più grave: affinché egli bruci all’inferno per tutta l’eternità. Inferno è il termine con il quale in ambito religioso, si indica il luogo metafisico (o fisico) che attende, dopo la morte, le anime (o i corpi) degli uomini che hanno rifiutato Dio scegliendo in vita il male ed il peccato. l'Inferno è caratterizzato da estremo dolore, enorme disperazione e tormento eterno. Può essere visto come un luogo metafisico o spirituale che ospita le anime incorporee dei morti, oppure come luogo fisico sede di tormenti altrettanto fisici. L'Inferno costituisce una condizione di dannazione eterna e questa condizione è solitamente assegnata in base alla condotta morale e spirituale che la persona ha tenuto in vita. Certo è che nessuno sa che l’inferno in terra si chiama carcere e che lì dentro vi sono persone, spesso, che non meritano di starci. E’ una discarica di rifiuti umani, spesso frutto di raccolta differenziata (poveri ed indifesi), la maggior parte senza colpa, o colpa apparente, o comunque non tanto grave da giustificarne la reclusione. Di questo tutti stanno attenti a non parlarne, tanto i delinquenti sono sempre gli altri e meritano quella pena. Ce ne rammarichiamo solo quando in discarica ci andiamo noi, ben pensanti. Solo allora scopriamo che l’inferno in terra è ingiusto, specie se esso a noi perviene dalla giustizia terrena e non da quella divina.
E IL GIUDICE SI TOLSE LA TOGA PERCHE' NON SOPPORTAVA L'IDIOZIA DEI COLLEGHI.
E il giudice si tolse la toga: "Non sopportavo più l’idiozia di troppi colleghi". Per 42 anni al servizio dello Stato, 80mila sentenze e mai un giorno d’assenza. Sei volte davanti al Csm per le critiche alla corporazione: "Sempre prosciolto". Edoardo Mori, l’emblema di un sistema che non garantisce e non tutela i diritti dei cittadini, così viene raccontato da Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Magistrati, alzatevi! Stavolta gli imputati siete voi e a processarvi è un vostro collega, il giudice Edoardo Mori. Che un anno fa, come in questi giorni, decise di strapparsi di dosso la toga, disgustato dall’impreparazione e dalla faziosità regnanti nei palazzi di giustizia. «Sarei potuto rimanere fino al 2014, ma non ce la facevo più a reggere l’idiozia delle nuove leve che sui giornali e nei tiggì incarnano il volto della magistratura. Meglio la pensione». Per 42 anni il giudice Mori ha servito lo Stato tutti i santi i giorni, mai un’assenza, a parte la settimana in cui il figlioletto Daniele gli attaccò il morbillo; prima per otto anni pretore a Chiavenna, in Valtellina, e poi dal 1977 giudice istruttore, giudice per le indagini preliminari, giudice fallimentare (il più rapido d’Italia, attesta il ministero della Giustizia), nonché presidente del Tribunale della libertà, a Bolzano, dov’è stato protagonista dei processi contro i terroristi sudtirolesi, ha giudicato efferati serial killer come Marco Bergamo (cinque prostitute sgozzate a coltellate), s’è occupato d’ogni aspetto giurisprudenziale a esclusione solo del diritto di famiglia e del lavoro. Con un’imparzialità e una competenza che gli vengono riconosciute persino dai suoi nemici. Ovviamente se n’è fatti parecchi, esattamente come suo padre Giovanni, che da podestà di Zeri, in Lunigiana, nel 1939 mandò a farsi friggere Benito Mussolini, divenne antifascista e ospitò per sei mesi in casa propria i soldati inglesi venuti a liberare l’Italia. Mori confessa d’aver tirato un sospirone di sollievo il giorno in cui s’è dimesso: «Il sistema di polizia, il trattamento dell’imputato e il rapporto fra pubblici ministeri e giudice sono ancora fermi al 1930. Le forze dell’ordine considerano delinquenti tutti gli indagati, i cittadini sono trattati alla stregua di pezze da piedi, spesso gli interrogatori degenerano in violenza. Il Pm gioca a fare il commissario e non si preoccupa di garantire i diritti dell’inquisito. E il Gip pensa che sia suo dovere sostenere l’azione del Pm». Da sempre studioso di criminologia e scienze forensi, il dottor Mori è probabilmente uno dei rari magistrati che già prima di arrivare all’università si erano sciroppati il Trattato di polizia scientifica di Salvatore Ottoleghi (1910) e il Manuale del giudice istruttore di Hans Gross (1908). Le poche lire di paghetta le investiva in esperimenti su come evidenziare le impronte digitali utilizzando i vapori di iodio. Non c’è attività d’indagine (sopralluoghi, interrogatori, perizie, autopsie, Dna, rilievi dattiloscopici, balistica) che sfugga alle conoscenze scientifiche dell’ex giudice, autore di una miriade di pubblicazioni, fra cui il Dizionario multilingue delle armi, il Codice delle armi e degli esplosivi e il Dizionario dei termini giuridici e dei brocardi latini che vengono consultati da polizia, carabinieri e avvocati come se fossero tre dei 73 libri della Bibbia. Nato a Milano nel 1940, nel corso della sua lunga carriera Mori ha firmato almeno 80.000 fra sentenze e provvedimenti, avendo la soddisfazione di vederne riformati nei successivi gradi di giudizio non più del 5 per cento, un’inezia rispetto alla media, per cui gli si potrebbe ben adattare la frase latina che Sant’Agostino nei suoi Sermones riferiva alle questioni sottoposte al vaglio della curia romana o dello stesso pontefice: «Roma locuta, causa finita». Il dato statistico può essere riportato solo perché Mori è uno dei pochi, o forse l’unico in Italia, che ha sempre avuto la tigna di controllare periodicamente com’erano andati a finire i casi passati per le sue mani: «Di norma ai giudici non viene neppure comunicato se le loro sentenze sono state confermate o meno. Un giudice può sbagliare per tutta la vita e nessuno gli dice nulla. La corporazione è stata di un’abilità diabolica nel suddividere le eventuali colpe in tre gradi di giudizio. Risultato: deresponsabilizzazione totale. Il giudice di primo grado non si sente sicuro? Fa niente, condanna lo stesso, tanto - ragiona - provvederà semmai il collega in secondo grado a metterci una pezza. In effetti i giudici d’appello un tempo erano eccellenti per prudenza e preparazione, proprio perché dovevano porre rimedio alle bischerate commesse in primo grado dai magistrati inesperti. Ma oggi basta aver compiuto 40 anni per essere assegnati alla Corte d’appello. Non parliamo della Cassazione: leggo sentenze scritte da analfabeti». Soprattutto, se il giudice sbaglia, non paga mai. «La categoria s’è autoapplicata la regola che viene attribuita all’imputato Stefano Ricucci: “È facile fare il frocio col sedere degli altri”. Le risulta che il Consiglio superiore della magistratura abbia mai condannato i giudici che distrussero Enzo Tortora? E non parliamo delle centinaia di casi, sconosciuti ai più, conclusi per l’inadeguatezza delle toghe con un errore giudiziario mai riparato: un innocente condannato o un colpevole assolto. In compenso il Csm è sempre solerte a bastonare chi si arrischia a denunciare le manchevolezze delle Procure». Il dottor Mori parla con cognizione di causa: ha dovuto subire ben sei provvedimenti disciplinari e tutti per aver criticato l’operato di colleghi arruffoni e incapaci. «Dopo aver letto una relazione scritta per un pubblico ministero pugliese, con la quale il perito avrebbe fatto condannare un innocente sulla base di rivoltanti castronerie, mi permisi di scrivere al procuratore capo, avvertendolo che quel consulente stava per esporlo a una gran brutta figura. Ebbene, l’emerita testa mi segnalò per un procedimento disciplinare con l’accusa d’aver “cercato di influenzarlo” e un’altra emerita testa mi rinviò a giudizio. Ogni volta che ho segnalato mostruosità tecniche contenute nelle sentenze, mi sono dovuto poi giustificare di fronte al Csm. E ogni volta l’organo di autogoverno della magistratura è stato costretto a prosciogliermi. Forse mi ha inflitto una censura solo nel sesto caso, per aver offuscato l’immagine della giustizia segnalando che un incolpevole cittadino era stato condannato a Napoli. Ma non potrei essere più preciso al riguardo, perché, quando m’è arrivata l’ultima raccomandata dal Palazzo dei Marescialli, l’ho stracciata senza neppure aprirla. Delle decisioni dei supremi colleghi non me ne fregava più nulla».
Perché ha fatto il magistrato? «Per laurearmi in fretta, visto che in casa non c’era da scialare. Fin da bambino me la cavavo un po’ in tutto, perciò mi sarei potuto dedicare a qualsiasi altra cosa: chimica, scienze naturali e forestali, matematica, lingue antiche. Già da pretore mi documentavo sui testi forensi tedeschi e statunitensi e applicavo regole che nessuno capiva. Be’, no, a dire il vero uno che le capiva c’era: Giovanni Falcone».
Il magistrato trucidato con la moglie e la scorta a Capaci. «Mi portò al Csm a parlare di armi e balistica. Ma poi non fui più richiamato perché osai spiegare che molti dei periti che i tribunali usavano come oracoli non erano altro che ciarlatani. Ciononostante questi asini hanno continuato a istruire i giovani magistrati e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ma guai a parlar male dei periti ai Pm: ti spianano. Pensi che uno di loro, utilizzato anche da un’università romana, è riuscito a trovare in un residuo di sparo tracce di promezio, elemento chimico non noto in natura, individuato solo al di fuori del sistema solare e prodotto in laboratorio per decadimento atomico in non più di 10 grammi».
Per quale motivo i pubblici ministeri scambiano i periti per oracoli? «Ma è evidente! Perché i periti offrono ai Pm le risposte desiderate, gli forniscono le pezze d’appoggio per confermare le loro tesi preconcette. I Pm non tollerano un perito critico, lo vogliono disponibile a sostenere l’accusa a occhi chiusi. E siccome i periti sanno che per lavorare devono far contenti i Pm, si adeguano».
Ci sarà ben un organo che vigila sull’operato dei periti. «Nient’affatto, in Italia manca totalmente un sistema di controllo. Quando entrai in magistratura, nel 1968, era in auge un perito che disponeva di un’unica referenza: aver recuperato un microscopio abbandonato dai nazisti in fuga durante la seconda guerra mondiale. Per ottenere l’inserimento nell’albo dei periti presso il tribunale basta essere iscritti a un ordine professionale. Per chi non ha titoli c’è sempre la possibilità di diventare perito estimatore, manco fossimo al Monte di pietà. Ci sono marescialli della Guardia di finanza che, una volta in pensione, ottengono dalla Camera di commercio il titolo di periti fiscali e con quello vanno a far danni nelle aule di giustizia».
Sono sconcertato. «Anche lei può diventare perito: deve solo trovare un amico giudice che la nomini. I tribunali rigurgitano di tuttologi, i quali si vantano di potersi esprimere su qualsiasi materia, dalla grafologia alla dattiloscopia. Spesso non hanno neppure una laurea. Nel mondo anglosassone vi è una tale preoccupazione per la salvaguardia dei diritti dell’imputato che, se in un processo si scopre che un perito ha commesso un errore, scatta il controllo d’ufficio su tutte le sue perizie precedenti, fino a procedere all’eventuale revisione dei processi. In Italia periti che hanno preso cantonate clamorose continuano a essere chiamati da Pm recidivi e imperterriti, come se nulla fosse accaduto».
Può fare qualche caso concreto? «Negli accertamenti sull’attentato a Falcone vennero ricostruiti in un poligono di tiro - con costi miliardari, parlo di lire - i 300 metri dell’autostrada di Capaci fatta saltare in aria da Cosa nostra, per scoprire ciò che un esperto già avrebbe potuto dire a vista con buona approssimazione e cioè il quantitativo di esplosivo usato. È chiaro che ai fini processuali poco importava che fossero 500 o 1.000 chili. Molto più interessante sarebbe stato individuare il tipo di esplosivo. Dopo aver costruito il tratto sperimentale di autostrada, ci si accorse che un manufatto recente aveva un comportamento del tutto diverso rispetto a un manufatto costruito oltre vent’anni prima. Conclusione: quattrini gettati al vento. Nel caso dell’aereo Itavia, inabissatosi vicino a Ustica nel 1980, gli esami chimici volti a ricercare tracce di esplosivi su reperti ripescati a una profondità di circa 3.500 metri vennero affidati a chimici dell’Università di Napoli, i quali in udienza dichiararono che tali analisi esulavano dalle loro competenze. Però in precedenza avevano riferito di aver trovato tracce di T4 e di Tnt in un sedile dell’aereo e questa perizia ebbe a influenzare tutte le successive pasticciate indagini, orientate a dimostrare che su quel volo era scoppiata una bomba. Vuole un altro esempio di imbecillità esplosiva?».
Prego. Sono rassegnato a tutto. «Per anni fior di magistrati hanno cercato di farci credere che il plastico impiegato nei più sanguinosi attentati attribuiti all’estrema destra, dal treno Italicus nel 1974 al rapido 904 nel 1984, era stato recuperato dal lago di Garda, precisamente da un’isoletta, Trimelone, davanti al litorale fra Malcesine e Torri del Benaco, militarizzata fin dal 1909 e adibita a santabarbara dai nazisti. Al processo per la strage di Bologna l’accusa finì nel ridicolo perché nessuno dei periti s’avvide che uno degli esplosivi, asseritamente contenuti nella valigia che provocò l’esplosione e che pareva fosse stato ripescato nel Benaco dai terroristi, era in realtà contenuto solo nei razzi del bazooka M20 da 88 millimetri di fabbricazione statunitense, entrato in servizio nel 1948. Un po’ dura dimostrare che lo avessero già i tedeschi nel 1945».
Ormai non ci si può più fidare neppure dell’esame del Dna, basti vedere la magra figura rimediata dagli inquirenti nel processo d’appello di Perugia per l’omicidio di Meredith Kercher. «Si dice che questo esame presenti una probabilità d’errore su un miliardo. Falso. Da una ricerca svolta su un database dell’Arizona, contenente 65.000 campioni di Dna, sono saltate fuori ben 143 corrispondenze. Comunque era sufficiente vedere i filmati in cui uno degli investigatori sventolava trionfante il reggiseno della povera vittima per capire che sulla scena del delitto era intervenuta la famigerata squadra distruzione prove. A dimostrazione delle cautele usate, il poliziotto indossava i guanti di lattice. Restai sbigottito vedendo la scena al telegiornale. I guanti servono per non contaminare l’ambiente col Dna dell’operatore, ma non per manipolare una possibile prova, perché dopo due secondi che si usano sono già inquinati. Bisogna invece raccogliere ciascun reperto con una pinzetta sterile e monouso. I guanti non fanno altro che trasportare Dna presenti nell’ambiente dal primo reperto manipolato ai reperti successivi. E infatti adesso salta fuori che sul gancetto del reggipetto c’era il Dna anche della dottoressa Carla Vecchiotti, una delle perite che avrebbero dovuto isolare con certezza le eventuali impronte genetiche di Raffaele Sollecito e Amanda Knox. Non è andata meglio a Cogne».
Cioè? «In altri tempi l’indagine sulla tragica fine del piccolo Samuele Lorenzi sarebbe stata chiusa in mezza giornata. Gli infiniti sopralluoghi hanno solo dimostrato che quelli precedenti non erano stati esaustivi. Il sopralluogo è un passaggio delicatissimo, che non consente errori. Gli accessi alla scena del delitto devono essere ripetuti il meno possibile perché ogni volta che una persona entra in un ambiente introduce qualche cosa e porta via altre cose. Ma il colmo dell’ignominia è stato toccato nel caso Marta Russo».
Si riferisce alle prove balistiche sul proiettile che uccise la studentessa nel cortile dell’Università La Sapienza di Roma? «E non solo. S’è preteso di ricostruire la traiettoria della pallottola avendo a disposizione soltanto il foro d’ingresso del proiettile su un cranio che era in movimento e che quindi poteva rivolgersi in infinite direzioni. In tempi meno bui, sui libri di geometria del ginnasio non si studiava che per un punto passano infinite rette? Dopodiché sono andati a grattare il davanzale da cui sarebbe partito il colpo e hanno annunciato trionfanti: residui di polvere da sparo, ecco la prova! Peccato che si trattasse invece di una particella di ferodo per freni, di cui l’aria della capitale pullula a causa del traffico. La segretaria Gabriella Alletto è stata interrogata 13 volte con metodi polizieschi per farle confessare d’aver visto in quell’aula gli assistenti Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Uno che si comporta così, se non è un pubblico ministero, viene indagato per violenza privata. Un Pm non può usare tecniche da commissario di pubblica sicurezza, anche se era il metodo usato da Antonio Di Pietro, che infatti è un ex poliziotto».
Un sistema che ha fatto scuola. «La galera come mezzo di pressione sui sospettati per estorcere confessioni. Le manette sono diventate un moderno strumento di tortura per acquisire prove che mancano e per costringere a parlare chi, per legge, avrebbe invece diritto a tacere».
Che cosa pensa delle intercettazioni telefoniche che finiscono sui giornali? «Non serve una nuova legge per vietare la barbarie della loro indebita pubblicazione. Quella esistente è perfetta, perché ordina ai Pm di scremare le intercettazioni utili all’indagine e di distruggere le altre. Tutto ciò che non riguarda l’indagato va coperto da omissis in fase di trascrizione. Nessuno lo fa: troppa fatica. Ci vorrebbe una sanzione penale per i Pm. Ma cane non mangia cane, almeno in Italia. In Germania, invece, esiste uno specifico reato. Rechtsverdrehung, si chiama. È lo stravolgimento del diritto da parte del giudice».
Come mai la giustizia s’è ridotta così? «Perché, anziché cercare la prova logica, preferisce le tesi fantasiose, precostituite. Le statistiche dimostrano invece che nella quasi totalità dei casi un delitto è banale e che è assurdo andare in cerca di soluzioni da romanzo giallo. Lei ricorderà senz’altro il rasoio di Occam, dal nome del filosofo medievale Guglielmo di Occam».
In un ragionamento tagliare tutto ciò che è inutile. «Appunto. Le regole logiche da allora non sono cambiate. Non vi è alcun motivo per complicare ciò che è semplice. Il “cui prodest?” è risolutivo nel 50 per cento dei delitti. Chi aveva interesse a uccidere? O è stato il marito, o è stata la moglie, o è stato l’amante, o è stato il maggiordomo, vedi assassinio dell’Olgiata, confessato dopo 20 anni dal cameriere filippino Manuel Winston. Poi servono i riscontri, ovvio. In molti casi la risposta più banale è che proprio non si può sapere chi sia l’autore di un crimine. Quindi è insensato volerlo trovare per forza schiaffando in prigione i sospettati».
Ma perché si commettono tanti errori nelle indagini? «I giudici si affidano ai laboratori istituzionali e ne accettano in modo acritico i responsi. Nei rari casi in cui l’indagato può pagarsi un avvocato e un buon perito, l’esperienza dimostra che l’accertamento iniziale era sbagliato. I medici i loro errori li nascondono sottoterra, i giudici in galera. Paradigmatico resta il caso di Ettore Grandi, diplomatico in Thailandia, accusato nel 1938 d’aver ucciso la moglie che invece si era suicidata. Venne assolto nel 1951 dopo anni di galera e ben 18 perizie medico-legali inconcludenti».
E si ritorna alla conclamata inettitudine dei periti. «L’indagato innocente avrebbe più vantaggi dall’essere giudicato in base al lancio di una monetina che in base a delle perizie. E le risparmio l’aneddotica sulla voracità dei periti».
No, no, non mi risparmi nulla. «Vengono pagati per ogni singolo elemento esaminato. Ho visto un colonnello, incaricato di dire se 5.000 cartucce nuove fossero ancora utilizzabili dopo essere rimaste in un ambiente umido, considerare ognuna delle munizioni un reperto e chiedere 7.000 euro di compenso, che il Pm gli ha liquidato: non poteva spararne un caricatore? Ho visto un perito incaricato di accertare se mezzo container di kalashnikov nuovi, ancora imballati nella scatola di fabbrica, fossero proprio kalashnikov. I 700-800 fucili mitragliatori sono stati computati come altrettanti reperti. Parcella da centinaia di migliaia di euro. Per fortuna è stata bloccata prima del pagamento».
In che modo se ne esce? «Nel Regno Unito vi è il Forensic sciences service, soggetto a controllo parlamentare, che raccoglie i maggiori esperti in ogni settore e fornisce inoltre assistenza scientifica a oltre 60 Stati esteri. Rivolgiamoci a quello. Dispone di sette laboratori e impiega 2.500 persone, 1.600 delle quali sono scienziati di riconosciuta autorità a livello mondiale».
E per le altre magagne? «In Italia non esiste un testo che insegni come si conduce un interrogatorio. La regola fondamentale è che chi interroga non ponga mai domande che anticipino le risposte o che lascino intendere ciò che è noto al pubblico ministero o che forniscano all’arrestato dettagli sulle indagini. Guai se il magistrato fa una domanda lunga a cui l’inquisito deve rispondere con un sì o con un no. Una palese violazione di questa regola elementare s’è vista nel caso del delitto di Avetrana. Il primo interrogatorio di Michele Misseri non ha consentito di accertare un fico secco perché il Pm parlava molto più dello zio di Sarah Scazzi: bastava ascoltare gli scampoli di conversazione incredibilmente messi in onda dai telegiornali. Ci sarebbe molto da dire anche sulle autopsie».
Ci provi. «È ormai routine leggere che dopo un’autopsia ne viene disposta una seconda, e poi una terza, quando non si riesumano addirittura le salme sepolte da anni. Ciò dimostra solamente che il primo medico legale non era all’altezza. Io andavo di persona ad assistere agli esami autoptici, spesso ho dovuto tenere ferma la testa del morto mentre l’anatomopatologo eseguiva la craniotomia. Oggi ci sono Pm che non hanno mai visto un cadavere in vita loro».
Ma in mezzo a questo mare di fanghiglia, lei com’è riuscito a fare il giudice per 42 anni, scusi? «Mi consideri un pentito. E un corresponsabile. Anch’io ho abusato della carcerazione preventiva, ma l’ho fatto, se mai può essere un’attenuante, solo con i pregiudicati, mai con un cittadino perbene che rischiava di essere rovinato per sempre. Mi autoassolvo perché ho sempre lavorato per quattro. Almeno questo, tutti hanno dovuto riconoscerlo».
Non è stato roso dal dubbio d’aver condannato un innocente? «Una volta sì. Mi ero convinto che un impiegato delle Poste avesse fatto da basista in una rapina. Mi fidai troppo degli investigatori e lo tenni dentro per quattro-cinque mesi. Fu prosciolto dal tribunale».
Gli chiese scusa? «Non lo rividi più, sennò l’avrei fatto. Lo faccio adesso. Ma forse è già morto».
Intervistato sul Corriere della Sera da Indro Montanelli nel 1959, il giorno dopo essere andato in pensione, il presidente della Corte d’appello di Milano, Manlio Borrelli, padre dell’ex procuratore di Mani pulite, osservò che «in uno Stato bene ordinato, un giudice dovrebbe, in tutta la sua carriera e impegnandovi l’intera esistenza, studiare una causa sola e, dopo trenta o quarant’anni, concluderla con una dichiarazione d’incompetenza». «In Germania o in Francia non si parla mai di giustizia. Sa perché? Perché funziona bene. I magistrati sono oscuri funzionari dello Stato. Non fanno né gli eroi né gli agitatori di popolo. Nessuno conosce i loro nomi, nessuno li ha mai visti in faccia».
Si dice che il giudice non dev’essere solo imparziale: deve anche apparirlo. Si farebbe processare da un suo collega che arriva in tribunale con Il Fatto Quotidiano sotto braccio? Cito questa testata perché di trovarne uno che legga Il Giornale non m’è mai capitato. «Ho smesso d’andare ai convegni di magistrati da quando, su 100 partecipanti, 80 si presentavano con La Repubblica e parlavano solo di politica. Tutti espertissimi di trame, nomine e carriere, tranne che di diritto».
Quanti sono i giudici italiani dai quali si lascerebbe processare serenamente? «Non più del 20 per cento. Il che collima con le leggi sociologiche secondo cui gli incapaci rappresentano almeno l’80 per cento dell’umanità, come documenta Gianfranco Livraghi nel suo saggio Il potere della stupidità».
Perché ha aspettato il collocamento a riposo per denunciare tutto questo? «A dire il vero l’ho sempre denunciato, fin dal 1970. Solo che potevo pubblicare i miei articoli unicamente sul mensile Diana Armi. Ha chiuso otto mesi fa».
PERCHE' CI FELICITIAMO DELLE DISGRAZIE ALTRUI?
Perché, noi poveri mortali, ci felicitiamo delle disgrazie altrui?
La risposta la dà Anna Meldolesi su “Il Corriere della Sera”. Gli americani a volte usano l’espressione «Roman holiday», con un chiaro riferimento ai crudeli giochi gladiatori. I tedeschi hanno un termine ancora più preciso per descrivere la gioia malevola che si può provare davanti alle sofferenze degli altri. Schadenfreude. È il rovescio della medaglia dell’empatia, e probabilmente il più vigliacco dei sentimenti. In italiano non esiste una parola del genere, ma non c’è dubbio che anche noi siamo capaci di avvertire un perverso piacere quando vediamo cadere qualcuno nel fango. Tanto più se era potente e riverito prima di finire in disgrazia, e se a difenderlo non c’è rimasto nessuno. È una miscela tossica di insoddisfazione di sé, risentimento e sadismo, che a volte sporca il più nobile dei sentimenti: il desiderio di giustizia sociale.
La postura e gli atteggiamenti propri di chi codardo subisce e tace e si rivale sui suoi simili. Della serie: gli sfigati alla riscossa. Isterica rivolta morale o linciaggio puro?
Storici e primatologi testimoniano che un maschio alfa può essere deposto da una coalizione di primati di basso rango. Gli psicologi sociali, d’altronde, sanno che i gruppi possono esprimere una violenza che moltiplica i tassi di aggressività individuali. Ma il piacere per le sventure altrui è già annidato nel cervello dei singoli, in ciascuno di noi. Soprattutto in chi ha una bassa autostima, come confermano diversi lavori scientifici, l’ultimo dei quali pubblicato a dicembre su «Emotion». I neuroscienziati che lo studiano hanno adottato la parola tedesca nata dalla fusione di avversità e gioia (Schaden più Freude) e hanno appurato che la Schadenfreude è parente stretta di uno dei sette peccati capitali: l’invidia. I meccanismi cognitivi dello shakespeariano mostro dagli occhi verdi sono stati rivelati sulla rivista «Science» da Hidehiko Takahashi, con l’aiuto della risonanza magnetica funzionale. Il gruppo giapponese ha scoperto che quando si è invidiosi del successo di qualcuno si attiva la corteccia cingolata anteriore, nel circuito neurale del dolore. Quando si gioisce della sfortuna altrui, invece, si attiva lo striato, che fa parte del circuito della ricompensa. Lo stesso che dispensa dopamina e piacere quando ci concediamo vizi e svaghi gratificanti. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche in modo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Ma resta il fatto che non tutti ce ne compiacciamo allo stesso modo. I soggetti studiati da Takahashi mostrano gradi variabili di attivazione dei centri dell’invidia, una volta messi di fronte a un soggetto che possiede qualità superiori alle proprie, così come dei centri della Schadenfreude quando il loro termine di paragone cade in disgrazia. Chi più soffre nella prima fase, più gioisce nella seconda.
Spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro, come spiega la neuropsicologa olandese Margriet Sitskoorn nel suo I sette peccati capitali del cervello, pubblicato da Orme. Ma non sempre l’invidia è così sciocca o così pericolosa. A volte l’attenzione ossessiva verso le qualità e i difetti degli altri diventa una molla per migliorare. Altre volte quella che sembra invidia è piuttosto un risentimento per le ingiustizie subite. Sono celebri gli esperimenti in cui Frans de Waal ha dimostrato che sia gli scimpanzé che le scimmie cappuccine si ribellano ai trattamenti iniqui. Se gli si offre un pezzo di cocomero come premio per aver svolto un compito, gli animali sono ben contenti. Ma se si accorgono che a un altro esemplare viene data dell’uva, non sono più disposti ad accettare una ricompensa che considerano meno appetibile.
Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi detiene il potere o posti di responsabilità pubblica senza averne le capacità, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più, chi non ha arte ne parte, ma ha le luci della ribalta (come i personaggi del gossip o, come nel nostro caso, i protagonisti delle cronache giudiziarie). Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. Secondo Sitskoorn, comunque, l’invidia non ha a che fare tanto con l’ingiustizia quanto, più in generale, con la disuguaglianza. Scatta soprattutto quando l’altro possiede più di noi perché è migliore di noi, anche se non sempre siamo disposti ad ammetterlo. Attenzione, ammonisce la neuropsicologa, il travestimento dell’invidia con i panni dell’ingiustizia può risultare talmente perfetto che alla lunga finiamo noi stessi per crederci.
MEDIA ED APPROSSIMAZIONE, SE NON DISINFORMAZIONE.
Una lettera di scuse. L’ha scritta Barbara Palombelli inviandola idealmente a Sarah Scazzi. Barbara Palombelli durante il Tg5 delle 20 del 17 ottobre 2010 ha letto con voce fuori campo una lettera di scuse indirizzata a Sarah Scazzi per l’eccesso mediatico. Secondo alcune voci di redazione, il direttore del Tg5 Clemente Mimun non avrebbe però gradito.
“Cara piccola Sarah, occhi da cerbiatto”. Così comincia la lettera. Mentre scorrono le immagini di quello che è diventato un accanimento mediatico, la voce della giornalista invita a un pentimento generale, che coinvolga tutti, a partire dagli addetti ai lavori. “Noi che, senza conoscerti, ti abbiamo incontrato nei telegiornali e sui giornali, ti abbiamo mangiata proprio come l’umidità di quel pozzo. Un pezzettino al giorno, piano piano, senza sprecare nemmeno una briciola della tua tragica favola”. “Tu, principessa che sei finita sfigurata e putrefatta dopo quaranta giorni in un pozzo, tanto che il professor Strada, che ti ha sezionato e analizzato, ti ha nascosto persino alla tua mamma”, continuava la giornalista che collabora con le reti Mediaset con i toni dolci di una madre che ha guardato “e giudicato con sospetto i manifesti horror, gli stessi che sono su tutti i muri delle stanze delle nostre figlie”. Palombelli poi conclude: “Ora che stai uscendo di scena per lasciare spazio ai tuoi assassini e alla rivelazione del male, in cui hai vissuto forse senza saperlo oppure sì, ora che tutta l’Italia partecipa all’indagine nazionale su di te che non ci sei più, ora è proprio arrivato il momento di pregare, pregare per te e per noi, per il nostro lavoro, per voi che state vedendo queste immagini. Non ti dimenticheremo. Sarah, perdonaci se puoi…».
I toni usati non sarebbero piaciuti al direttore del Tg5, Clemente Mimun che dopo l’edizione avrebbe avuto una discussione con la Palombelli. E, secondo quanto si apprende da fonti della redazione, Barbara Palombelli avrebbe lasciato il Tg5. Mediaset però smentisce e chiude il caso con queste parole diffuse alle agenzie: ”Barbara Palombelli non può avere lasciato il Tg5 per il semplice motivo che non fa parte della testata di Clemente Mimun”. La giornalista lavora infatti per Videonews, la testata Mediaset che produce tra gli altri Domenica Cinque, Mattino Cinque, Pomeriggio Cinque e Matrix, programmi dove Barbara Palombelli si esprime come commentatrice.
La lettera di scuse di Barbara Palombelli, un mea culpa a nome della categoria dei giornalisti, letta al Tg5 delle 20 di domenica, non è piaciuta al direttore Clemente Mimun. Che era allo stadio, ma è stato informato in diretta. E si è arrabbiato. Perché non era quello che le aveva chiesto. La Palombelli ha fatto di testa sua. «Non ha capito le indicazioni» spiegano al Tg5. C'è stata, tra i due, una discussione accesa. La Palombelli, che collabora con la testata Videonews e non con il tg, se n'è andata stizzita. Rottura non si sa quanto insanabile. «Se capiterà, la utilizzeremo ancora», spiega Mimun. Ma dovrà capitare.
“Cara Sarah Scazzi tu che sei finita sfigurata e putrefatta, tanto che il medico legale ti ha dovuto nascondere allo sguardo di tua madre Concetta."
Nel carosello mediatico del delitto perfetto, siamo ormai alla follia.
Una lettera quella di Barbara Palombelli piena di descrizioni horror, sanguinose, quasi violente sulla condizione del corpo di Sarah dopo morto. Necrofilia e giornalismo direi. Una macabra lettera, poesia nello spettacolo del delitto di Avetrana, che ha lo scopo di far giungere al pubblico le scuse tardive di un comitato di giornalisti che ha toppato sotto ogni punto di vista. Le prime lucide e logorroiche analisi sulla scomparsa di quella quindicenne con i poster dei gruppi rock dark appesi alle pareti della camera da letto. Una lettera macabra che descrive nei dettagli il corpo maciullato di Sarah, decomposto dall'acqua, mangiato dalla terra. Una lettera in cui la giornalista Barbara Palombelli invoca le scuse per Sarah, dal momento che lei come tanti altri "vampiri", le si sono gettati sopra il corpo innocente. Come nei clichè dei film horror, Barbara Palombelli scrive una lettera a Sarah Scazzi. Un colpo ad effetto scenico, che arriva nella giornata delle lettere, quella dell'amica di Sabrina ad un redattore del TG5 e le lettere di Cosima Spagnolo alla figlia Sabrina. Lettera che giunge dopo le polemiche che hanno investito la giornalista Barbara Palombelli e i suoi coattori nelle trasmissioni televisive, quelle che cercavano di scavare nella vita di Sarah Scazzi, considerandola una bad girl.
Scrive Barbara Palombelli: "Principessa che sei finita sfigurata e putrefatta tanto che il medico legale ti ha nascosto agli occhi di tua madre il corpo mangiato come l'umidità di quel pozzo..."
Durante la fase delle ricerche, c’è stata una morbosità eccessiva: a quale altra persona sono stati pubblicati i diari di scuola, dalle frasi da adolescente ai disegnini? A chi è capitato vedere pubblicate le confessioni private fatte con le amiche? Frasi del tipo. “Ho litigato con mia madre, mi mancano mio fratello e mio padre”? E poi i differenti profili di Facebook, proposti, raccontati, analizzati come terribili prove del reato, diventati subito terreno di congetture maligne. Gli adulti conosciuti in chat, la sua passione per Marilyn Manson, la sua cameretta ripresa in ogni angolo e mostrata nei collegamenti tv…
Non le è stato risparmiato niente.
Invece Sarah non aveva un amante trentenne, non era scappata al Nord in “fuga volontaria”, non si era affiliata segretamente alla setta satanica del luogo. Quella sua vita di ragazza di oggi, che frequenta Facebook e Internet, anche se la mamma non le ha dato il permesso di avere un computer in casa, è una vita normale, come quella di tanti nostri figli e amici. Una vita che avrebbe dovuto rimanere custodita, protetta e non esposta alle mille insinuazioni malevole dei retroscena quasi sempre inventati. Frutto della fantasia (anche banale) di tanti pseudo giornalisti.
Stringe il cuore due volte la storia di Sarah. Perché è un esempio da manuale di privacy violata di una ragazzina, che faceva le cose che fanno tanti adolescenti. Viveva di sogni, si sfogava con gli amici in Internet e quei suoi pensieri sono diventati pubblici e anzi sono stati usati. I cronisti hanno intervistato persino una sua simpatica amicizia scolastica, un ragazzino ripreso solo dai jeans sdruciti. “Sì mi veniva dietro”. Pensiamo con terrore se una volta toccasse a noi avere contatti con i cronisti, magari ai nostri figli che scrivono su Facebook e lasciano le loro foto e le loro sciocchezze dappertutto e non sanno che un giorno potrebbe esserci l’orco dell’interesse pubblico che mangia in due bocconi la loro vita, chiudendo lo spinoso caso di cronaca nera, con quattro supposizioni da strapazzo.
Ma che razza di giornalismo si pratica oggi in Italia? Non ci sarebbe da vergognarsi e da chiedere scusa? L’ha fatto Studio Aperto, diretto da Giovanni Toti. Rendiamogli merito. Sarebbe bello che questo diventasse un coro: “Scusa Sarah. Il mondo che hai lasciato, troppo presto, era molto brutto !!!"
Eppure, non è finita qui, perché dopo il ritrovamento del cadavere è andata pure peggio. Il caso s’è risolto praticamente in diretta, a “Chi l’ha visto”. A quella drammatica notte sono seguite ore e ore di dirette, per giorni, per mesi, per anni....
Il dr Antonio Giangrande, scrittore, autore del libro sul delitto di Sarah Scazzi, e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, senza intenti diffamatori si chiede e chiede agli avvocati in causa ed a tutta la stampa: come è possibile che a presiedere la Corte d'Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio e collega dell’aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero. Ex colleghi facenti parte del collegio che sostiene l'accusa nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto? Qualsiasi decisione finale sarà presa, sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale.
Gli avvocati e la Stampa non potranno mai dare una risposta. Ma la risposta arriva dallo scrittore Massimo Prati, attraverso il suo blog. Un solo avvertimento, non fidatevi di quei giornalisti che dicono da sempre di saper tutto ma che, se non riportano parole di altri, dimostrano di essere ben poco preparati sul caso Scazzi. Un esempio? Nel Corriere del Mezzogiorno un giornalista nazionale, venerato a Taranto, scrive che la procura, a sorpresa, ha depositato in tribunale una collanina con attaccato uno scoiattolino. "Chissà di chi è?" - si chiede il giornalista - "la famiglia Scazzi non l'ha mai vista addosso alla figlia... sarà mica che appartiene a chi l'ha gettata nel pozzo?". Quindi l'intenzione qual'è? Far sospettare di una ragazza mora, magari figlia dell'occultatore ufficiale, e far pensare al lettore distratto che "l'ha persa" mentre era intenta ad aiutare il padre (come sostiene la procura)? Ma no, quella frase è stata scritta tanto per dire e senza secondi fini, come d'altronde quella in cui si chiede: "Chissà da quanto era in quell'anfratto, forse c'era già da prima che vi fosse gettata Sarah?". Beh, il buon giornalista si tranquillizzi e mi permetta, dato che è una questione di libera e seria informazione, di rispondergli che non serve indagare, che la collanina con lo scoiattolino è caduta nel pozzo lo stesso giorno in cui si è occultato il corpo di Sarah. Forse la famiglia della piccola vittima non conosceva lo scoiattolino, anche se fatico a crederlo dato che lo conosco io, ma il ciondolo è immortalato attorno al collo di Sarah in diverse fotografie. Forse, dico forse, il giornalista si è distratto e non ha capito che la procura sa bene di chi è quella collanina, che l'ha inserita agli atti per creare un nuovo gioco di magia. Serve per far credere ai giudici sia stata strappata durante l'aggressione. Quindi non uno strangolamento improvviso, come sostiene il Misseri reo-confesso, ma una vera e propria esecuzione premeditata partita in auto al momento in cui, oniricamente, la ragazzina è salita sotto l'impulso dell'indice di sua zia. Mi sbaglio? Lo vedremo presto. Per intanto devo dire che non è l'unico appunto che devo fare al giornalista. C'è un filmato sul Corriere del Mezzogiorno, sempre a sua firma, in cui si vede un bell'albero di fico e si sente una voce dire essere quello in cui è stato portato il corpo della ragazza per essere violentato. Mi scuserà se sono inopportuno, ma volevo informarlo che la versione accettata dalla procura non prevede più alcun vilipendio di cadavere. Il dottor Galoppa, nell'incidente probatorio e penando non poco (secondo quanto denunciato da Michele Misseri), è riuscito a far dire al suo assistito che quell'evento era tutta un'invenzione della sua mente malata. Inoltre, altra cosa che non pare vera presente nel filmato, l'albero segnalato dal Misseri nella confessione è, parole sue, a cinquanta/cento metri dalla casa, e quello che in video ci viene mostrato è attaccato ai muri della masseria. In ogni caso il filmato è un buon filmato, specialmente nella sua parte finale quando viene inquadrato l'ex pozzo in cui la piccola fu gettata. Ed è buono perché ci mostra, tramite vecchie bottiglie di plastica e terra smossa, come la gente, che parla-parla-parla e sovente sparla, pensi davvero a Sarah. Non un fiore, non un biglietto con su scritto una frase a ricordo è presente nel punto in cui la piccola è stata ritrovata. Certo, Sarah riposa al cimitero di Avetrana, come Melania Rea riposa a Somma Vesuviana e Yara Gambirasio a Brembate. La differenza sta nel fatto che al chiosco della Pineta un fiore ed un pensiero ci sono sempre, che a Chignolo d'Isola, pur se confinati a lato del campo per volere del sindaco, un fiore ed un pupazzo ci sono sempre, mentre in contrada Mosca ci sono bottigliette di plastica. So che il luogo è isolato, ma mi aspettavo che chi chiede con veemenza giustizia per Sarah, parlo di chi abita in zona e tanto reclame fa in televisione dell'amore che portava a quel piccolo scricciolo quando era in vita, un minimo di sforzo lo avesse fatto. Visto che si spendono soldi in bombe carta da gettare in casa Misseri, mi aspettavo se ne spendessero anche per qualche litro di benzina ed un fiore da lasciare nel luogo in cui per quarantadue giorni la piccola è rimasta sepolta. Ma tant'è che i soldi mancano, sarà la congiuntura economica e l'aumento della "verde" a frenare le spese, e chi si è riunito di fronte alla caserma dei carabinieri per apostrofare ad assassina la signora Cosima Serrano, ha finito gli spiccioli e non ha tempo per fare una piccola colletta. E neppure il sindaco ha qualche centinaia di euro da investire in una lapide a ricordo, lapide che in pochi vedrebbero (visto che nessuno ci va in contrada Mosca) e non servirebbe a dar lustro mediatico alla cittadinanza. Quindi si può dire che manca la volontà di ricordare Sarah quando non se ne ha un ritorno di immagine, o economico, ma non manca l'intenzione di incamerare qualche spicciolo entrando a processo come parte lesa. Caro il mio sindaco, avrebbe dovuto incamerare soldi querelando chi ha venduto libri o montato trasmissioni tv parlando di Avetrana come di un paese di orchi e mostri, non credo che i suoi concittadini si siano rivisti in quelle parole e non credo che abbiano giovato a far ricordare al resto degli italiani la sua cittadina in maniera sana e amena. Pazienza, lasciamo il giornalista ed il sindaco e concentriamoci sul processo che presto sparerà i primi mortaretti. Tutti son contenti di essere in tribunale. I legali delle imputate, degli imputati e delle parti civili (molti di coloro sono di seconda o terza scelta per abbandono dei precedenti difensori), che non vedono l'ora di far domande ai testimoni; i procuratori, che tanto han fatto per arrivare al giudizio in Assise; le parti civili, a partire dal sindaco per arrivare alla badante rumena che ha chiesto un minimo di indennizzo per quanto subito. Quattro milioni di euro per essere stata additata da Sabrina Misseri quale possibile complice dell'ipotetico rapitore. Certo, la sua memoria va e viene, infatti non ricorda neppure di essere stata lei la prima a sospettare, la prima a dire che non si fidava della cugina di Sarah, additando in tal modo chi poi l'avrebbe additata. Per cui se fosse una partita di calcio il risultato sarebbe uno ad uno e la palla tornerebbe al centro. Ma qui non si tratta di pallone, qui si tratta di business, quindi quattro milioni di euro alla badante che poi si porterà in Romania la palla d'oro con cui s'è giocato. Un vero affare se il giudice la accontenterà. Ed a proposito del giudice c'è da constatare che la separazione delle carriere avrebbe fatto del bene a questo processo. Per carità, fino a prova contraria il presidente della Corte, la dottoressa Maria Ausilia Cesarina Trunfio, è un buon giudice che non sarà influenzabile dal contesto in cui "vive ed opera". Il problema è che ad ogni istanza difensiva non accolta, ad ogni ulteriore chiusura alla Difesa, ci potrebbero essere polemiche. Questo perché "vive ed opera" a Taranto da più di vent'anni e negli anni novanta era lei stessa un sostituto procuratore di quella città, al pari del dottor Buccoliero per fare un paragone attuale, ed ha lavorato gomito a gomito, tutti i giorni, anche con chi tutt'ora in procura vi lavora. E, per fare un esempio, nell'anno appena passato coi i procuratori ha avuto frequentazioni. Lei ed il dottor Argentino il 28 aprile 2011, dalle 15.30 alle 17.30, hanno parlato agli studenti della sezione di Taranto della facoltà di giurisprudenza (con sede centrale a Bari), sul tema: "L'esame incrociato: insidie e strategie". E l'esame di cui si parla riguarda i testimoni e gli indagati, quindi sia l'uno che l'altra hanno una identica veduta su come lo si deve fare, combacerà con quanto crede la Difesa? Ma non pensate "male", tutto andrà per il meglio. Al limite, se qualcosa non andrà come deve andare (sia per la Difesa che per l'Accusa), se ne riparlerà in Corte d'Appello, il secondo kolossal della serie (e sarà un successo pazzesco). In ogni caso non vi preoccupate di nulla e continuate i preparativi. La poltrona che non fa sudare l'avete? I pop corn, le noccioline, le patatine e le bibite? Presto che è tardi, mancate solo voi, lo sceneggiatore ha già consegnato i copioni e gli attori saranno nuovamente in postazione il prossimo martedì mattina...A proposito del citato “Il Corriere della Mezzogiorno” si riporta "Vita e morte dell’informazione". Intervista a Nazareno Dinoi su “Cronaca Nera”.
Dinoi, lei vive a Manduria e come giornalista ha curato gli articoli di cronaca nera sulla drammatica storia di Sarah Scazzi ad Avetrana. È il direttore de “La Voce di Manduria” e collabora per il “Corriere del Mezzogiorno”. Qual è stato il suo primo pezzo pubblicato sul caso?
Il mio primo articolo su Sarah Scazzi l’ho pubblicato il 29 agosto, tre giorni dopo la sua scomparsa. La notizia l’avevo avuta il giorno prima, ma parlando con i carabinieri decisi, sbagliando, di aspettare ancora.
Vivendo a Manduria, vicino ad Avetrana, ha potuto respirare anche le sensazioni della popolazione: qual è stata la sua prima impressione, e quale, invece, l’idea che si è fatto in seguito?
L’impressione che ho avuto subito è stata quella che poi si è purtroppo avverata. Nessuno in quel paese, me compreso, ha mai creduto ad una fuga volontaria nonostante le voci iniziali del possibile coinvolgimento di facebook, delle chat e della volontà di fuggire della ragazza. Tutti eravamo convinti del peggio. Un aspetto alquanto strano, questo, che meritava di essere approfondito sin da subito. Solo dopo si è capito che tutti quanti siamo stati manipolati dalla famiglia Misseri che è stata la prima, dai primissimi istanti della presunta scomparsa di Sarah, ad infondere pessimismo sulla sua sorte.
Che cosa significa, per i cittadini di Avetrana, da un punto di vista socio-antropologico, un delitto in una cittadina così piccola e così lontana finora dai fatti di cronaca?
L’abnorme interesse dei media su una comunità così piccola, così distante dai grandi eventi mediatici, difficile da raggiungere persino geograficamente, ha prodotto un’iniziale eccitazione con forte desiderio di partecipare al circo dell’informazione “all inclusive”. Nessuno di noi cronisti, per molti giorni, ha mai avuto difficoltà a raccogliere impressioni, racconti, aneddoti, persino spunti investigativi dagli avetranesi. Dopo, però, la macchina si è guastata e la gente ha cominciato a vederci come degli intrusi; e aveva ragione perché in troppi abbiamo approfittato, anche con l’inganno, della loro disponibilità.
Perché il turismo macabro dell’orrore, e quello squallido voyeurismo, ad Avetrana?
Voglio subito sfatare quello che è stato marchiato come una prerogativa tutta avetranese e del Sud più in generale. Il turismo dell’orrore è sempre esistito laddove si sono consumate le peggiori tragedie a danno di giovani vittime. Casalecchio di Reno, Cogne, Erba e Parma, e prima ancora Vermicino. Anche in quei casi non sono mancati gli altarini con fiori, dediche e orsacchiotti bianchi e gite di gruppo o familiari in visita nei luoghi dell’orrore.
Quale “vuoto” di umanità, relazioni, cultura c’è alla base di questo fenomeno, secondo lei?
Assodato che il voyeurismo noir non predilige latitudini, mi diventa più difficile dare una lettura antropologica del fenomeno. Forse tutto si spiega con il bisogno dell’essere umano di sentirsi partecipe del dolore altrui: più insopportabile è la perdita per gli altri, più ci interessa conoscerla da vicino, studiare i particolari, provare a rendere tangibile quella sensazione di sofferenza che si prova da semplice spettatore. O molto semplicemente per dire: “io sono stato lì”. In quest’ultimo caso giocano un ruolo fondamentale la televisione, le immagini, l’informazione in generale.
In uno dei suoi articoli, si legge che “tutti ci siamo fatti travolgere dall’eccitante ebbrezza del giallo di Avetrana dimenticando la piccola Sarah”. Qual è il modo migliore per ricordare Sarah, allora: costruire e intitolarle un canile come ha pensato il fratello Claudio, cercare verità e giustizia, fare un passo indietro dal punto di vista mediatico e giornalistico…
Bella domanda che merita più risposte. Ribadisco: ci siamo fatti travolgere dall’eccitazione del giallo dimenticando la vittima. Noi operatori dell’informazione, forse per la prima volta nella storia dei grandi omicidi, abbiamo avuto a disposizione una grande quantità di materiale da raccontare. Dai primissimi giorni abbiamo avuto accesso alle cose più personali, intime di Sarah. Abbiamo potuto raccogliere i ricordi della madre, del padre, gli zii, le cugine, le amiche, i professori. Siamo stati abbondantemente serviti, al limite della liceità, da una mole di dati investigativi spesso imbarazzanti. La prima volta che sono andato a casa Scazzi ho trovato le porte incredibilmente aperte e un’insperata disponibilità della famiglia. Io con altri colleghi siamo entrati nella stanza di Sarah quando c’erano ancora i suoi odori, tutte le sue cose sparse sulla scrivania, persino i jeans che il 26 agosto aveva tolto per indossare il costume da bagno. Conservo ancora le foto e un breve filmato video con il cellulare di quei pantaloni-feticcio rivoltati e gettati disordinatamente e in fretta sul suo lettino. Noi giornalisti, prima ancora degli investigatori, abbiamo avuto tra le mani i diari di Sarah, i suoi quaderni di scuola, le lettere piegate nei libri. I dirigenti della sua scuola hanno permesso la pubblicazione dei suoi diari, delle schede di ammissione, hanno fatto fotografare le scritte che Sarah lasciava sui banchi e sui davanzali dell’aula. Abbiamo tutti coscientemente violato il suo mondo ma pur avendo la possibilità di raccontarlo abbiamo preferito parlare del giallo, del pericolo di facebook, delle insidie di internet, del traffico d’organi, dei sospetti sui familiari, delle cose peggiori della loro vita privata. Nessuno di noi si è preoccupato, se non in minima parte e solo dopo la scoperta della sua morte, del dramma di quella ragazzina vissuta da sola nell’indifferenza di tutti. Sarah, abbiamo scoperto dopo, era un piccolo fantasma passato inosservato persino agli abitanti di una comunità dove si conoscono tutti. Qualcuno dei nostri intervistati, allora, aveva inventato ricordi di lei pur di apparire o di rendersi utile. Tutti abbiamo trascurato il vero dramma di questa storia che è l’abbandono: la mamma di Sarah, Concetta, abbandonata dalla sua famiglia che l’aveva ceduta agli zii diventati secondi genitori, la stessa Sarah abbandonata dal padre che aveva deciso di vivere lontano da lei e abbandonata anche dalla madre divenuta schiava di un credo in Geova che segna l’isolamento suo e della sua bambina dal resto del mondo. Sarah non ha mai potuto festeggiare un compleanno, un capodanno, un Natale, una festa di cresima, un ferragosto, una notte di San Lorenzo. Per questo persino il carattere non dolce della cugina Sabrina diventava un piacere per la povera ragazzina che adorava vivere con la famiglia che l’ha uccisa. L’idea del fratello Claudio di intitolare un canile a Sarah sarebbe stata buona se fosse stata gestita da altre persone.
In un suo articolo, lei ha insistito molto sulla figura di Ivano Russo. Di lui si racconta che, nonostante la confidenza con Sarah, il giorno della scomparsa della quindicenne, Ivano non la cercò mai al cellulare quando gli fu detto che Sarah era scomparsa. Qual è il suo parere su questo aspetto?
Prima che lo zio di Sarah, Michele Misseri, confessasse il delitto, noi giornalisti e credo anche gli inquirenti, eravamo convinti che Ivano sapesse la verità. Credo anche che in quel periodo il suo mandato di cattura fosse già pronto. Per il resto credo che la sua posizione sia tuttora oggetto di forte interesse da parte della procura.
A proposito di Concetta, la mamma di Sarah, lei l’ha descritta come una “madre distratta, prigioniera della sua fede a Geova”. Io credo però che le espressioni del viso, la “poca loquacità” di un essere umano, il suo essere anche un po’ defilato e riservato, non siano condannabili. Forse la affettività e la anaffettività, non possono essere decodificate, non possono equivalere a un modo di comportarsi standardizzato, o assoluto. Credo che pensare in questo modo, cioè attribuire una natura distratta a una madre da una posizione esterna, per giunta attraverso la telecamera, sia il prodotto di una “sovrastruttura sociale” di cui noi stessi siamo vittime. Lei che ne pensa?
Personalmente non ho mai condannato Concetta per l’assenza di lacrime. Anzi, come dicevo prima, dopo Sarah è lei la seconda vittima di questa triste storia: da un’infanzia fatta di abbandoni ha trovato un matrimonio sbagliato che l’ha lasciata sola con la figlia e ora con la figlia ha perso anche ogni seppure minimo legame che aveva con le sue sorelle e il fratello naturale che, di fatto, si sono tutti schierati con la famiglia Misseri. Dopo tutto questo, non le si può fare una colpa se non è capace di piangere. Io ho vissuto con lei tutti i momenti delle ricerche ed ero con lei la terribile notte in cui fu trovato il corpo della figlia gettato nel pozzo. E’ stata l’unica volta che ho visto le lacrime sul suo volto, erano lacrime senza pianto, senza singhiozzi, eppure l’immagine di lei che seguiva le notizie dei telegiornali della notte e quelle che le davamo noi era quella del dolore puro, indimenticabile.
In quale modo “La Voce di Manduria” ha trattato l’argomento del giallo di Avetrana e come hanno reagito i lettori de “La Voce di Manduria”, anche sul vostro sito?
Il sito “La Voce di Manduria” ha trattato costantemente l’argomento con almeno due notizie al giorno. I lettori si sono comportati nella maniera scontata: inizialmente hanno gradito poi, dai commenti che lasciavano, hanno cominciato ad esprimere giudizi negativi dicendoci di chiudere il sipario. Nonostante tutto, ancora oggi, le notizie su Sarah sono le più lette con una preferenza costante di almeno tre volte in più rispetto alle altre.
Qual è dal punto di vista mediatico e giornalistico l’aspetto più squallido della vicenda, secondo lei? L’errore da non commettere mai più?
L’aspetto più squallido è stato il mercato di immagini, di interviste e di documenti dell’inchiesta ad opera di personaggi tuttora, diciamo, “oscuri” e lo sfruttamento televisivo che si è fatto e si continua a fare: troppi esperti da talk show che si inventavano i fatti hanno fatto perdere credibilità alla notizia. A mio avviso sono questi gli errori da non commettere più insieme a quello di non violare l’intimità di una ragazza morta perché era sola. Già. Da quale pulpito viene la predica!
Ma Nazareno Dinoi non è quello che ha pubblicato su “Il Corriere del Mezzogiorno” e “Il Corriere della Sera” - "Il ritrovamento di Sarah in 71 foto: la sequenza dell’orrore". Foto raccapriccianti che hanno suscitato tanto disdegno anche tra i suoi colleghi? Da ricordare anche che Nazareno Dinoi ha pubblicato su "Puglia Press", un periodico gratuito, l'articolo della mia condanna, Dr Antonio Giangrande, l'autore del presente libro e, cosa più importante, presidente nazionale della Associazione Contro Tutte le mafie, riconosciuta dal Ministero dell'Interno. La notizia passata da soggetti operanti in ambienti giudiziari e forensi manduriani e tarantini, (forse dei giuda) che avevano tutto l'interesse a denigrare la persona e l'operato di chi si batte contro ogni illegalità ed ingiustizia, riportava l'epilogo in primo grado di un procedimento per abusivo esercizio della professione forense e l'indebito percepimento dell'onorario per l'opera prestata. Da sempre Antonio Giangrande si batte contro l'abilitazione forense truccata ed ogni concorso pubblico manipolato e contro gli insabbiamenti delle denunce scomode. Il Dinoi è stato tanto scrupoloso nel dare la notizia della condanna, foriera di ingenti danni, ma non ha dato la notizia del successivo proscioglimento in appello: la procura di Taranto ben sapeva del patrocinio legale risultante dagli elenchi depositati presso l'albo degli avvocati, ciò nonostante ha proceduto, così come ha proceduto per i reati di diffamazione a mezzo stampa, di cui mai, però, è conseguita condanna, in quanto gli articoli incriminati erano stati stilati da altri autori e pubblicati su siti web di altri proprietari. Il tutto facilmente verificabile. Il Dinoi non ha mai pubblicato questa notizia; come non ha mai pubblicato la notizia che il giudice che ha emesso a Manduria la sentenza poi appellata è stata denunciata per anomalie su questa e su altre sentenze; come non ha mai pubblicato le denunce di malamministrazione e di malagiustizia, le pretestuose archiviazioni delle quali sono state oggetto di attenzione addirittura dai giornali del Sud Africa. In loco si pensa bene di tacitare ogni voce libera contro chi denuncia gli abusi e le omissioni dei magistrati e chi tacita, spesso, appartiene proprio alla categoria dei giornalisti.
Bene. Nonostante tutto, come ben si legge, per amore di verità io non censuro, dando a tutti una visibilità immeritata. Se altri usano la censura o addirittura l'omertà nel nome di una omologazione o conformità alla cultura imperante, faranno i conti con la propria coscienza e con la propria professionalità.
Ciò non basta. Ci si può fidare di quello che dice la tv? La risposta negativa, sembra ovvia in questi ultimi tempi. Sempre più ci troviamo di fronte a servizi giornalistici falsi, e non pertinenti alla realtà. Immagini di catastrofi già accadute anni prima, che vengono riproposte per casi recenti. Questi giochetti non vengono poi fatte da reti minori, ma bensì da Tg di riferimento per milioni di italiani. Gli ultimi episodi scandalosi, riguardano il famoso affondamento della nave Costa Crociera. In primis i Tg misero in onda immagini che erano già di dominio pubblico su you tube da un paio di anni. Per marciare ancor sopra questa assurda storia, gli autori di varie trasmissioni pseudo-informative, hanno cominciato a costruire delle vere e proprie soap sui passeggeri della nave e la loro triste e sfortunata avventura. L’intento era quello di conquistare il pubblico emozionandolo. L’ultima storia in ordine di tempo è quella della ragazza che a causa dell’affondamento della nave, pare abbia perso il suo bambino che portava ancora in grembo. Dapprima, questa fantomatica mamma è intervenuta telefonicamente in trasmissioni quale Pomeriggio cinque. Il suo avvocato ospite di Lorella Cuccarini, si è dimostrato disgustato dei circa 11mila euro proposti come risarcimento, in quanto la vita umana non ha prezzo. Tutto andava per il meglio, finchè gli spettatori non hanno segnalato a Striscia la Notizia, la non pertinenza della foto mostrata dagli autori Rai al pubblico italiano. Quei due signori nella foto non erano gli sventurati passeggeri della Costa Crociera. Dietro front di avvocato e Lorella Cuccarini allora, la vera mamma verrà mostrata a Domenica Cinque. Macchè!! Anche qui vedendosi immischiati in “brutte acque”, lasciano perdere e non mandano in onda il Finto scoop. Sfortuna vuole che qualche talpa passi il filmato già registrato da Domenica cinque (avvenuto prima della messa in onda di Striscia che rivelava il finto scoop) alla trasmissione di Antonio Ricci. Poco cambia quindi se la Panicucci non abbia mostrato quell’intervista falsa, già bella e preparata per la domenica. La Tv invece di fare passi indietro e non mostrare i servizi falsi una volta beccati, dovrebbe cominciare a lavorare sulla fonte ed a mostrare al pubblico italiano soltanto la realtà…La storia era stata pubblicata da tutte le agenzie di stampa. Ma chi si è presentato a reclamare in tv il proprio dramma, a quanto pare, sul Concordia non c’è mai salito. Francesco Specchia su Libero ci racconta di un servizio di Striscia la Notizia in cui si mette in dubbio la veridicità della storia. E si ricorda che a mandare in onda due figuranti è stata proprio la Rai:
Accade che, il 5 febbraio scorso (2012), la Cuccarini intervisti via telefono, appunto, Cristina della suddetta coppia - i sedicenti Cristina & Gabrieli sposini in crociera sfuggiti al destino mortale della nave Costa -. Gli ascolti s’impennano, Lorella si commuove. Ma Striscia la Notizia s’accorge che la foto degli sposi usata dalla Rai di sfondo all’intervista è falsa. Palesemente falsa. Al punto che i due ragazzuoli, sotto diversa identità, sembrano essere, invece gli stessi - un po’ più invecchiati - concitati ospiti del legal show "Verdetto Finale" con Tiberio Timperi, guarda caso su Raiuno. Figuranti ad uso di viale Mazzini, parrebbe di prim’acchito. L’avvocato dei due meschini, Giacinto Canzona - un nome, un programma - che all’inizio in diretta s’era indignato contro la mala società che permette gli aborti sulle navi Costa senza risarcirli mai abbastanza, riconosce spudoratamente che Cristina e Gabriele, sì, è vero, non sono proprio quei Cristina e Gabriele; e che la fotografia mandata in onda non è altro che il frutto “di un mero errore materiale”.
Su questa falsa riga scoppia il caso della giornalista ‘postina’ che recapitava le lettere di Salvatore Parolisi all’amante. La notizia shock data il 15 febbraio 2012 dalla trasmissione ‘Chi l’ha visto?’. La vicenda è finita nelle carte dell’inchiesta della procura di Teramo sull’omicidio di Melania Rea. «Un fatto imbarazzante per la nostra categoria», l’ha definita Federica Sciarelli quando ne ha dato notizia. Increduli i parenti della giovane mamma di Somma Vesuviana, presenti in collegamento video. Con tanto di carte della procura in mano la trasmissione ha svelato che «una giornalista Mediaset» avrebbe fatto da ‘postina’ tra Salvatore Parolisi (in carcere con l’accusa di aver ucciso sua moglie) e l’amante, la soldatessa Ludovica. Le missive sarebbero state intercettate dalla direzione del carcere di Ascoli e, ha assicurato la Sciarelli, sarebbero regolarmente arrivate a destinazione. Ma l’aspetto ancor più inquietante è che la ‘postina’ avrebbe recapitato la missiva quando a Salvatore era stato fatto esplicito divieto di avere contatti con l’esterno e soprattutto con la sua amante. «Cara (nome giornalista, non reso pubblico), la busta bianca chiusa non è per voi», scrive Parolisi nella lettera mostrata da Rai3, «ma tu sai a chi mandarla, mi raccomando che arrivi a destinazione, assicurati che sia li». E nella lettera alla soldatessa Parolisi scrive: «ti ho mandato questa lettere tramite (nome della giornalista) perché sul mio verbale di accusa non posso avere nessunissimo contatto con te. Se riceverai questa lettera mi raccomando non lo dire a nessuno e non fidarti di nessuno». Poi Parolisi consiglia a lei di fare lo stesso: «metti in una busta sigillata la lettera che sarà per me». La giornalista e un suo collaboratore sono stati anche intercettati e la Procura ha scoperto che i due, che lavorano per «una trasmissione Mediaset» avrebbero redatto una finta lettera, spacciandola per una missiva di Parolisi alla loro redazione «e poi letta in trasmissione la sera del suo arresto». Incredulo lo zio di Melania, il signor Gennaro, che ha notato che la lettera spedita da Salvatore a Ludovica era datata 23 marzo, ovvero 4 giorni dopo l’arresto. «Salvatore si preoccupava addirittura di scrivere alla sua amante…» ha detto sconcertato. «Adesso mi viene il dubbio che Salvatore non abbia mai amato Melania…», ha commentato invece il fratello della vittima, Michele, «è sotto gli occhi di tutti… che intrallazzi che ha fatto e che faceva. Non si può accettare che dica ‘amo ancora mia moglie’ quando invece si preoccupava di scrivere ancora alla sua amante. Non è giusto e non accetto che lui continui a dire che ama Melania». Ma nella lettera spedita a Ludovica c’è anche una frase che lascia sconcertati. Salvatore scrive alla sua donna: «ho tante ammiratrici che mi scrivono ah ah ah». Sempre ‘Chi l’ha visto?’ nella puntata ha rivelato che nel corso delle indagini è emerso che il caporal maggiore frequentasse siti di trans (video e foto con contenuti pornografici) sia dal pc di casa che da un personale che portava in caserma. «Si tratta di siti che a Melania non avrebbero fatto piacere», ha commentato il fratello, «era una persona di sani principi e se lo avesse scoperto avrebbe sbattuto il marito fuori casa». E’ possibile che la donna si fosse accorta di quello che stava accadendo e si fosse arrabbiata? Potrebbe essere stato proprio questo il movente del delitto? Dal pc fisso sono stati estratti 145 indirizzi di posta elettronica di cui 5 visibili ed attivi e altri 140 cancellati e recuperati attraverso tecniche di ‘data carving’. «Dalla cronologia di navigazione Explorer normale non emergono siti di particolare interesse», si legge nella relazione dei carabinieri, «mentre dalla navigazione ‘in private browsing’ emergono siti di trans» con immagini molto forti. Anche le foto sono state allegate alle carte dell’inchiesta. «Non abbiamo alcuna intenzione di vederle», ha detto il fratello, «anche se possiamo immaginare il genere..». Sciarelli ha ricordato che nei mesi prima gli avvocati Biscotti e Gentile (difensori anche della Famiglia Scazzi) che difendono Parolisi avevano diffidato i giornalisti a parlare di questa vicenda. «Le carte sono qui», ha detto la giornalista. «Queste sono cose che dice la procura». Infine l’amarezza del fratello di Melania: «Salvatore aveva tante cose da fare: chattare con le trans, telefonare all’amante, tutte cose che riguardavano la sua seconda vita che noi non conoscevamo. Nei momenti successivi alla scomparsa di mia sorella invece di cercare sua moglie tornò in caserma… Andare a cancellare tutto questo gli avrebbe fatto molto comodo». Già. Proprio quella Sciarelli fa la predica a Mediaset e poi sputtana Parolisi ed i suoi avvocati censori. Quella giornalista che ha dato in diretta alla madre la notizia del ritrovamento del corpo di Sarah. La notizia della morte di Sarah viene data in diretta tv alla madre Concetta che era collegata in diretta dalla casa dello zio - l'assassino di Sarah - da Avetrana. Era il 6 ottobre 2010. Era la quarta puntata del programma Chi l'ha Visto? dedicata al caso della scomparsa della 15enne di Avetrana. E poi la svolta. Sarah strangolata e violentata dallo zio. In studio arrivano le prime notizie: i carabinieri sono alla ricerca di un corpo. La conduttrice si trova davanti ad una situazione «terribile»: così Federica Sciarelli definisce la puntata del suo programma “Chi l'ha visto” che ha seguito in diretta i tragici sviluppi della vicenda di Sarah Scazzi, mentre la madre della ragazza era in collegamento. «Le notizie si susseguivano in modo concitato: in un primo momento - racconta la conduttrice - abbiamo cercato di non dire nulla, anche perchè ci auguravamo che si trattasse della solita battuta di ricerca da parte degli investigatori. Poi a un certo punto la situazione è andata fuori controllo perchè alla madre arrivavano le telefonate di altri giornalisti. Allora la mia unica preoccupazione è stata accompagnare in qualche modo la madre di Sarah a casa. Eravamo infatti in collegamento con l'abitazione dello zio: se fossimo stati a casa di Sarah ce ne saremmo andati via noi. Ho cercato anche di allentare la tensione mandando in onda un lungo pezzo di ricostruzione della vicenda, è stato veramente difficile». A chi sottolinea il ruolo invasivo della diretta tv di fronte alla tragedia, la Sciarelli replica: «Se ho sbagliato mi dispiace. La direzione di Raitre ha deciso di mandarci in onda fino a Linea notte, facendo saltare “Parla con me”, ma del resto sarebbe stato assurdo e irrispettoso mandare in onda un programma di satira registrato, che sarebbe stato inevitabilmente fuori tono. Siamo il programma degli scomparsi: dal primo momento abbiamo sostenuto che quello di Sarah non era stato un allontanamento volontario, avremmo preferito che fosse stata trovata viva». Già nel 2008 Chi l'ha visto? seguì in diretta la notizia del ritrovamento dei corpi dei fratellini di Gravina: «Allora però - spiega la conduttrice - avemmo la notizia subito prima della messa in onda. E il padre venne a saperlo mentre era in carcere. Quella di ieri è una situazione che non ci era mai capitato e forse mai ci capiterà più nella vita». Già, davvero dispiaciuta!
ANNA MARIA FRANZONI: COLPEVOLE PERCHE' LO HA DETTO LA STAMPA.
E che dire di Cogne e del Caso Franzoni. La morte tragica del piccolo Samuele ed una responsabile mediatica e giudiziaria. Anna Maria Franzoni condannata a 16 anni: pochi per un omicidio; tanti per una inferma di mente; troppi per una innocente.
Per gli articolisti telematici in principio fu la villetta di Cogne. Esattamente il 30 gennaio 2002 le agenzie battevano la notizia di un bambino di tre anni rinvenuto in casa con la testa fracassata. Iniziava così uno dei casi di cronaca nera più discussi del recente passato italiano. Una tragedia familiare che portò in carcere la mamma Annamaria Franzoni. Ma anche un omicidio che cambiò la storia della televisione e il ruolo dell'opinione pubblica. Un plastico della casa faceva per la prima volta il suo ingresso a Porta a Porta. Vespa si tramutava nella signora in giallo e nascevano i due schieramenti: colpevolisti e innocentisti. Ogni telespettatore si sentiva una via di mezzo tra un Ris di Parma, un giudice e un avvocato. E ancora: lacrime della mamma in tv, annuncio della nuova gravidanza, avvocati di grido esperti tanto in diritto quanto in comunicazione, psicologi e psichiatri, giudici e tuttologi. Tutti insieme nell'arena. Un processo mediatico che, volente o nolente, fondava un genere. Il grande fratello del delitto. L'horror fiction. Seguirono poi Erika e Omar, Meredith kercher, Chiara Poggi, la strage di Erba, Sarah Scazzi, Melania Rea, ecc.. Plastici sempre più dettagliati, completi di auto o bicicletta da spostare all'occorrenza in strada o nel garage per meglio mostrare la presunta dinamica della tragedia. Fino all'ultimo, discusso modellino, quello della Costa Concordia, con tanto di "giallo". Vespa è stato accusato da alcune testate giornalistiche di un supposto favoritismo di cui avrebbe beneficiato la trasmissione ottenendo una riproduzione in scala della nave dalla Costa Crociere che lo avrebbe così negato a Vigili del Fuoco e sommozzatori impegnati nelle difficili operazioni di recupero. Ma Porta a Porta ha replicato di aver chiesto alla società un modellino della nave, ricevendo un rifiuto, e di essersi perciò rivolta a un artigiano che ha fornito una copia perfetta della nave per una cifra molto modesta. Chi di plastico ferisce...
Cogne è un punto di non ritorno. O, quanto meno, un rilevantissimo punto di svolta. Ecco cosa significò, dal punto di vista della comunicazione, il delitto di Cogne, all'indomani della cui gigantesca copertura mediatica si può davvero dire che nulla sarebbe stato più come prima. La tragica vicenda del piccolo Samuele Lorenzi dette inizio a un processo, fino a quel momento sconosciuto, di serializzazione dei programmi televisivi, che cominciarono a gemmare puntate su puntate su quell'unico evento, colorandosi di tinte sempre più noir (e splatter). La tv del dolore si fondeva così con il talk show, dando vita a una sorta di nuovo format di successo, fondato su una cronaca vera (e nera) che si convertiva in serial e veniva sceneggiata come un reality show. Tanti furono infatti i talk show che abbracciarono questa formula pulp di grande impatto emozionale (e un po' ossessivo), dal Maurizio Costanzo show a Matrix, per non parlare di trasmissioni pomeridiane come Buona Domenica e tante altre. Ma a fare da insuperabile laboratorio fu (e chi se lo dimentica più?) il Porta a Porta di Bruno Vespa, che ritornò su quel delitto per svariate decine di serate, conseguendo alcuni dei picchi di audience più alti della sua storia. Lo stesso salotto per antonomasia di un certo giornalismo che aveva fatto contribuito in Italia a creare e promuovere la «politica pop» (come l'hanno chiamata Gianpietro Mazzoleni e Anna Maria Sfardini) si inventava, di fatto, una formula di infotainment nella quale ogni alchimia equilibrata tra le parti saltava, e la dose di informazione veniva travolta da quella dell'intrattenimento (morboso e grandguignolesco). Il caso Cogne divenne, nella «versione di Vespa», un' autentica palestra di (discutibile) innovazione del modo di fare tv. Fu proprio in quell'occasione che venne brevettato un «accessorio scenografico» destinato a notevole fortuna: il famoso (o famigerato, a seconda dei punti di vista) plastico, che riproduceva la villetta dove venne consumato l'infanticidio, antenato di futuri modellini per tragedie successive (dall'omicidio di Avetrana alla nave Concordia). E fu allora che a vivisezionare, da ogni immaginabile (e pure inimmaginabile) punto di vista, quei fatti così tristi, si formò una «squadra speciale» di criminologi, psicologi, opinionisti che avrebbe dato vita a una sorta di compagnia di giro pronta a macinare ospitate su ospitate, e a sbarcare, come una truppa d'occupazione, in altri palinsesti e programmi. L'invenzione di una tradizione (televisiva): quel giornalismo popolare (e con punte trash) che, da noi (a differenza di quanto accaduto in altre nazioni), non si era mai tradotto in carta stampata, trovava il proprio perfetto habitat nel piccolo schermo. Non più informazione spettacolo, ma qualcosa che andava persino oltre: informazione spettacolista, potremmo dire, prendendo a prestito il termine da uno che se ne intendeva come l'intellettuale situazionista Guy Debord. Un «prodotto informativo» che dal tubo catodico rimbalzava sul web, dove i siti si riempivano delle discussioni accanite e feroci tra colpevolisti e innocentisti rispetto alla posizione di Annamaria Franzoni. Dalla tv generalista alla «comunicazione personale di massa» dei blog, insomma, Cogne ha fatto scuola.
E già, perché, non c'è niente da dire, il delitto, in termini di interesse del pubblico, paga sempre. Rotocalchi popolari e tribune televisive si avventano come sciacalli sulle carcasse di uomini e cose (delitti di Erba, Cogne, Novi Ligure, Avetrana, ecc. o affondamento della Concordia.) La cronaca nera impone mode di lunga durata, facendo leva sulla propensione nazionale alla tuttologia e sui corollari geografici che la accompagnano: razzismo, pressapochismo e distacco al nord, dietrologia al centro, fatalismo al sud. Ennio Flaiano, come al solito, aveva capito tutto: “Due anni fa, se non sbaglio, affondò un piroscafo nello scontro con un altro piroscafo. Noi per un mese – e anche due – ogni sera abbiamo parlato, tecnicamente, del disgraziato evento. Pur non avendo una diretta conoscenza della navigazione oceanica (i nostri spostamenti per mare si limitavano al tratto Napoli-Capri) noi sapevamo tutto: quali luci i due piroscafi avrebbero dovuto tenere accese (lo scontro accadde di notte), che intervallo passa tra un segnale di sirena e l’altro in caso di nebbia, come si naviga in alto mare, che differenza passa tra stazza, volume e tonnellaggio…” (Gli esperti” da “Le ombre bianche” è un intervento pubblicato nel 1958 sul Corriere della sera.) In televisione a quei tempi nessuno si sarebbe mai sognato di allestire circhi, arene e teatrini sulle disgrazie altrui, e così restavano i caffè, che erano luoghi di ritrovo, circoli di conversazione e sale da gioco, come in certi bar di città cantati dal giovane Gaber. E se non c’erano disastri navali, si poteva sempre contare sulle esondazioni del Po, su incidenti aerei e ferroviari, uxoricidi. Ci si improvvisava esperti di qualsiasi cosa. La televisione di oggi funziona allo stesso modo: un bar analogico o digitale. Se si desse lo spazio necessario a veri conoscitori dei fatti su cui si sproloquia, basterebbero pochi minuti e si potrebbe passare ad altro. E invece no, i veri esperti si lasciano a caso, nell'indifferenza generale. Ogni compagnia di giro della tv ha i suoi personaggi fissi ed amicali, interpretabili di volta in volta da figure intercambiabili, indistinguibili, probabilmente estratte a sorte da un elenco di amici e iscritte a un apposito registro di collocamento. Non manca mai lo psicologo vestito in maniera informale, tanto presuntuoso quanto benestante, abile nello spacciare sesquipedali banalità per affermazioni provocatorie e straordinariamente intelligenti. Poi c’è il criminologo, abbigliato come un ragioniere del catasto se uomo, come una professoressa dei film di Pierino se donna: più misurato ma non meno apodittico dello psicologo, diventa una belva se qualcuno si azzarda a contraddirlo. Ovviamente c’è anche un prete, con perle di saggezza da sciorinare alla bisogna: quando apre bocca nessuno osa contraddirlo, soprattutto nel primo canale. E qualche giornalista più narciso degli altri, specializzato nel cosiddetto “costume”. Seguono alcune figure minori, ma non meno scenografiche, in presunta rappresentanza della gente comune, o meglio dell’idea, sempre straordinariamente bassa, che autori e funzionari hanno della gente comune: il cantante degli anni ’60, la soubrette in disarmo con le ultime cartucce da sparare (magari un décolleté), la reduce di qualche reality con minigonna inguinale d’ordinanza e il fancazzista professionista con velleità da playboy. Che noia, che barba.
Il processo di primo grado, però non è che l'inizio di un cammino ancora lungo e pieno di sorprese, a cominciare dall'esposto che l'avvocato Taormina consegna alla guardia di finanza di Roma a nome dei Lorenzi e in cui viene fatto il nome di quello che secondo la difesa sarebbe il vero assassino. Poco dopo la procura di Torino apre un fascicolo, il cosiddetto 'Cogne bis', in cui si ipotizza la creazione di false prove nella villetta e in cui figurano 11 indagati, fra cui i Lorenzi e il loro legale. Del caso principale si torna a parlare quando l'avvocato Taormina presenta il ricorso in appello. Il secondo grado di giudizio si apre il 16 novembre 2005 in una delle maxi aule del tribunale di Torino di fronte a una corte presieduta da Romano Pettenati e a una platea di curiosi che per ben 22 udienze, tanto è durato il dibattimento, ha fatto la fila fin dall'alba davanti al Palagiustizia, improvvisando addirittura una distribuzione di numeri per non perdere la priorità d'arrivo. Di tanto in tanto, in aula, aperta al pubblico ma non a fotografi e cineoperatori per decisione della Franzoni, arrivano anche una rappresentanza del comitato nato proprio per sostenere l'innocenza dell'imputata. La battaglia inizia già dalla prima udienza, quando il pg Vittorio Corsi chiede una nuova perizia psichiatrica che viene depositata nel mese di giugno. I periti, che hanno lavorato solo sulle carte e sulle registrazioni di alcune trasmissioni televisive perché la Franzoni ha rifiutato di sottoporsi a un nuovo esame, concludono per un vizio parziale di mente e parlano di ''stato crepuscolare orientato''. Annamaria era stata interrogata qualche giorno dopo l'inizio del dibattimento e ancora una volta ai giudici aveva ripetuto la sua innocenza. Qualcuno pensava che il caso si sarebbe risolto in una manciata di ore. Un bimbo di tre anni era stato ucciso, in casa, in presenza della madre, una donna che non stava molto bene visto che la notte precedente aveva chiamato il 118 per un malore di poco conto. Eppure, con il passare dei giorni, il delitto di Cogne si trasformò nel ''giallo'' di Cogne, appassionò il pubblico dividendolo in colpevolisti e innocentisti, ebbe la sua robusta dose di colpi di scena e si chiuse solo dopo sei anni e quattro mesi, il 21 maggio 2008, quando la Cassazione rese definitiva la condanna a sedici anni di carcere (ridotti a tredici per l'indulto) per Annamaria Franzoni. Il piccolo Samuele muore nel lettone dei genitori, la testa fracassata da 17 violenti colpi inferti con un'arma mai trovata, il 30 gennaio 2002. Ci vuole un mese e mezzo (le manette scattano il 14 marzo) prima che Anna Maria venga arrestata. E subito si scatena la bagarre attorno agli elementi messi insieme dalla procura: il pigiama della donna inzuppato di sangue, le macchie sugli zoccoli, gli otto minuti passati dalla Franzoni fuori casa per accompagnare l'altro figlio allo scuolabus. Ogni discussione, in aula e fuori, si avviterà, fino all'ultimo giorno, attorno a questi e ad altri pochi elementi. Anna Maria, nel marzo del 2002, ha come difensore l'avvocato Carlo Federico Grosso, tratti e modi da antico gentiluomo torinese, ex vicepresidente del Csm, che la fa liberare nel giro di due settimane: mancanza di indizi, scrivono i giudici del tribunale del riesame.
Ed è solo il primo dei tanti stravolgimenti di fronte che scandiranno la storia dell'inchiesta. ''Per individuare l'assassino la procura di Aosta deve avere uno scatto di fantasia'', dice Grosso. Ma la procura di Aosta non molla la presa sulla Franzoni, ricorre in Cassazione e vince: il 10 giugno la Suprema Corte annulla l'ordinanza del riesame. E' in quel frangente che la famiglia di Annamaria chiama in aiuto Carlo Taormina, uno dei personaggi più in voga del momento: avvocato in processi clamorosi, docente universitario, parlamentare, grande frequentatore dei talk-show in tv, uomo dalle dichiarazioni roboanti e aggressive. L'opposto di Grosso (che, in pochi giorni, lascia la difesa della mamma di Sammy). Il 19 settembre, il riesame-bis stabilisce che l'ordine di cattura di Anna Maria è valido, che gli indizi ci sono, ma ormai la donna può attendere i processi in assoluta libertà. L'appuntamento con il giudice è il 19 luglio 2004. Taormina sceglie il giudizio abbreviato, si decide sulla base delle carte raccolte dalla procura, per sciogliere l'enigma al gup Eugenio Gramola basta un'udienza: Anna Maria è colpevole, sono 30 anni di carcere. Parte il contrattacco. Al grido di ''troveremo l'assassino'' Taormina raduna una squadra di collaboratori e, dopo un sopralluogo a Cogne il 28 luglio, compone una denuncia sulla plausibile colpevolezza di un vicino di casa.
Ma è un boomerang. Le carte arrivano alla procura di Torino, che ipotizza un inquinamento della scena del delitto: nasce l'inchiesta Cogne-bis, che anni dopo si chiude con una marea di proscioglimenti e la sola condanna della Franzoni a due anni per calunnia. Il 16 novembre 2005 scocca l'ora del processo d'appello. In teoria è un rito abbreviato, ma la Corte accontenta la difesa riaprendo il dibattimento e la causa si allunga a dismisura: si ascoltano nuovi testimoni, si rifà la perizia psichiatrica e Taormina trasforma ogni udienza in uno show. L'indomabile professore trova però un degno contraltare nella placida e sottile ironia del presidente, Romano Pettenati, e nell'austerità del pg Vittorio Corsi. Il tutto in un'aula stracolma di pubblico, tanta gente che non perde una battuta e soprattutto non stacca gli occhi dalla Franzoni per vedere se piange o se guarda il marito. Taormina polemizza su ogni virgola e il 20 novembre 2006, dopo l'ennesima protesta, lascia il processo. Al suo posto viene nominato un legale d'ufficio, Paola Savio. ''Sulle prime pensavo a uno scherzo'', confessa. E' un'avvocatessa giovane dall'aria mite, ma presto, con l'aiuto del collega Paolo Chicco, prende in mano la situazione. La strategia dei Franzoni cambia di nuovo, ora è più misurata, più centrata sul dolore e sulla commozione. Il pg Corsi non è da meno: ''Annamaria è una bimba che ha commesso un grosso guaio in un momento di debolezza, ammetta ciò che ha fatto e tutti le vorremo bene lo stesso''. La sentenza viene pronunciata il 27 aprile 2007: la mamma di Sammy è di nuovo colpevole ma questa volta merita le attenuanti e la pena è ridotta a sedici anni. Ed è la sentenza che, tredici mesi dopo, viene confermata dalla Cassazione. E' la sera del 21 maggio 2008. Già nella notte per Anna Maria si aprono le porte del carcere.
Certo per i magistrati e per i giornalisti ci sono dubbi, ma per la storia i dubbi permangono. L’arma del delitto non è mai stata trovata così come presumibilmente nemmeno il colpevole dell’ omicidio. Questo processo e questo delitto segnano l’inizio di un’attività mediatica negli omicidi più particolari ed efferati che l’Italia abbia mai avuto. L’avvocato Taormina, che per un certo periodo di tempo ha difeso la mamma di Cogne ha spinto perchè il caso di Anna Maria Franzoni fosse portato in televisione alla luce del pubblico giudice che si è diviso tra chi sosteneva una tesi colpevolista e chi invece sosteneva una tesi innocentista. Grazie alla trasmissione Porta a Porta, condotta da Bruno Vespa poi, il caso ha avuto una risonanza mediatica enorme quasi fosse una telenovela. L’omicidio di Samuele è diventato così un evento che ha coinvolto ogni famiglia italiana nel privato. Il viso della Franzoni e la sua persona sono stati esposti mediaticamente fino al 2008 anno in cui è stata confermata la sentenza che l’ha vista colpevole dell’omicidio del suo bambino e che le sta facendo tutt’ora scontare una pena nel carcere di Bologna. Durante le indagini, alcune prove sono state manomesse altre invece sono state montate nel tentativo di scagionare l’unica indagata, ma non solo, celebre è diventata la frase della Franzoni che di fronte ai Carabinieri venuti a casa sua per interrogarla poco dopo la morte del figlio implorava il marito di farne un altro come se la morte del piccolo Samuele non fosse altro che un cambio di bambino o un capitolo della propria vita da eliminare.
Sono le 8.28 del 30 gennaio 2002: al 118 di Aosta arriva la telefonata di una mamma disperata, che chiede aiuto per il suo bambino che "vomita sangue". Comincia così uno dei casi di cronaca più discussi e controversi, che in dieci anni di polemiche, perizie e colpi di scena, ha continuato ad appassionare l'opinione pubblica. Quella mamma è Anna Maria Franzoni, e il suo bambino il piccolo Samuele Lorenzi. Ucciso, secondo il processo, proprio dalla madre. Mentre l'autopsia accerta che il bambino è stato colpito alla testa da un corpo contundente, da subito i riflettori vengono puntati sulla mamma del bambino, Anna Maria Franzoni, e l'Italia torna a dividersi ancora una volta tra innocentisti e colpevolisti, trasformando la vicenda di Cogne in un caso giudiziario lungo e difficile, sul quale nel corso di questi anni si sono espressi esperti e non, di ogni genere e valore, e dove non sono mancati neppure anonimi "investigatori" che con lettere e perfino cartoline hanno hanno suggerito agli inquirenti la loro personale verità.
Il primo arresto di Anna Maria. A dare ragione a chi è convinto che Anna Maria, che da sempre si proclama innocente, sia colpevole arriva, il 14 marzo 2002, l'ordinanza di arresto firmata dal gip di Aosta, Fabrizio Gandini. L'accusa è di omicidio volontario e la mamma di Samuele viene rinchiusa nel carcere di Torino, dove rimane fino al 30 marzo, quando viene scarcerata su decisione del Tribunale del riesame che accoglie il ricorso presentato dal legale di Anna Maria, Carlo Federico Grosso. Per il Tribunale gli indizi non sono sufficienti, ma la decisione viene a sua volta annullata il 10 giugno dalla Cassazione, che rimanda tutto ad un nuovo collegio giudicante del Tribunale della libertà che questa volta, il 4 ottobre sempre del 2002, dichiara valido l'ordine di custodia per la Franzoni. Prima che il provvedimento diventi definitivo, il gip aostano, però, lo ritira per cessate esigenze cautelari. La donna resta indagata a piede libero.
Arriva l'avvocato Taormina. A difenderla, ora c'è però un altro avvocato. E' Carlo Taormina che il 25 giugno 2002 la famiglia Franzoni include nel collegio difensivo, provocando l'uscita di scena polemica di Carlo Federico Grosso. Intanto, l'8 aprile 2002, Annamaria a Novara incontra i periti incaricati di accertare se la donna, al momento dell'omicidio, fosse capace di intendere e di volere. La perizia stabilirà che Anna Maria è sana di mente e che lo era anche al momento dell'omicidio.
Prima condanna a 30 anni. Il 19 luglio 2004 il gup di Aosta, Eugenio Gramola, condanna la mamma di Cogne a trent'anni di carcere, il massimo della pena previsto con il rito abbreviato scelto dalla difesa. Per Annamaria , che nel frattempo ha avuto un nuovo figlio, Gioele, non si aprono però le porte del carcere. Insieme al marito Stefano Lorenzi e ai due figli si rifugia nel paese natale, protetta dalla famiglia che non ha mai smesso di credere nella sua innocenza.
La controaccusa ai vicini di casa. Il processo di primo grado non è che l'inizio di un cammino ancora lungo e pieno di sorprese, a cominciare dall'esposto che a fine di luglio l'avvocato Taormina consegna alla Guardia di Finanza di Roma a nome dei Lorenzi e in cui viene fatto il nome di quello che secondo la difesa sarebbe il vero assassino. Poco dopo la procura di Torino apre un fascicolo, il cosiddetto "Cogne-bis", in cui si ipotizza la creazione di false prove nella villetta e in cui figurano 11 indagati, fra cui i Lorenzi e il loro legale. Del caso principale si torna a parlare il 2 novembre, quando l'avvocato Taormina presenta il ricorso in appello. Il secondo grado di giudizio si apre il 16 novembre 2005 in una delle maxi aule del tribunale di Torino di fronte a una corte presieduta da Romano Pettenati e a una platea di curiosi che per ben 22 udienze, tanto è durato il dibattimento, ha fatto la fila fin dall'alba davanti al Palagiustizia, improvvisando addirittura una distribuzione di numeri per non perdere la priorità d'arrivo. Di tanto in tanto, in aula, aperta al pubblico ma non a fotografi e cineoperatori per decisione della Franzoni, arrivano anche una rappresentanza del comitato nato proprio per sostenere l'innocenza dell'imputata.
La perizia psichiatrica: "Vizio parziale di mente". La battaglia inizia già dalla prima udienza, quando il pg Vittorio Corsi chiede una nuova perizia psichiatrica che viene depositata nel mese di giugno. I periti, che hanno lavorato solo sulle carte e sulle registrazioni di alcune trasmissioni televisive perché la Franzoni ha rifiutato di sottoporsi a un nuovo esame, concludono per un vizio parziale di mente e parlano di "stato crepuscolare orientato". Annamaria era stata interrogata qualche giorno dopo l'inizio del dibattimento e ancora una volta ai giudici aveva ripetuto la sua innocenza. Nuovi sopralluoghi, perizie neurologiche e tecniche, interrogatori colpi di scena caratterizzano anche il processo d'appello che si protrae per oltre un anno e mezzo. Nella maxi aula 6 del Tribunale torinese, il pubblico non manca mai, ogni volta si presenta con la speranza di poter cogliere nei gesti o negli atteggiamenti della mamma di Cogne qualche indizio che possa anche solo alimentare il gossip.
Taormina rinuncia, arriva l'avvocato Savio. L'ultimo colpo di scena quando il legale Carlo Taormina, nel novembre 2006, rinuncia al mandato in aperta contestazione con la corte e con quella che per lui, come ha ripetuto più volte, è "una sentenza già scritta". D'ora in avanti sarà un avvocato d'ufficio a occuparsi del processo, l'avvocato Paola Savio, che dopo qualche mese da legale d'ufficio diventa avvocato di fiducia e impronta la sua difesa al massimo fair play, tanto che lo stesso presidente della Corte, Pettenati, prima di ritirarsi in Camera di consiglio per la sentenza, sottolinea: "E' stata una fortuna che il sistema informatico abbia scelto lei quel giorno in cui la signora era stata abbandonata dalla difesa".
Già. Meglio un avvocato di ufficio che un agguerrito e preparato avvocato di fiducia: Cose già viste, anche ad Avetrana.
Confermata la condanna di primo grado. Il procuratore generale, Vittorio Corsi e l'avvocato Savio si confrontano per due udienze ciascuno. Il primo, al termine di una requisitoria durata diverse ore, nella quale, uno dopo l'altro, analizza tutti gli elementi clou del processo, dall'arma del delitto, al pigiama, dagli zoccoli al calzino mancante, al ruolo che la famiglia Franzoni ha svolto negli anni in cui si è dipanata la vicenda, chiede, per Anna Maria la conferma della sentenza di primo grado, 30 anni, non senza prima averla invitata a confessare ed aver invocato la pietas della Corte. Alla pietas del procuratore generale risponde l'avvocato difensore che in due giornate di arringa ribatte punto per punto alle affermazioni dell'accusa e al termine chiede l'assoluzione piena per la sua cliente. Qualche giorno dopo è di nuovo il pg a replicare, conferma la sua accusa e chiede ad Annamaria il coraggio della confessione, mentre la difesa il coraggio lo chiede alla corte. Dicendosi certa dell'innocenza della cliente, appellandosi al "ragionevole dubbio" in processo in cui non ci sono ne arma né movente, chiede alla corte il coraggio di dubitare.
Anna Maria in lacrime davanti ai giudici. La parola fine tocca però ad Anna Maria. Tra le lacrime, la mamma di Cogne, che quel 30 gennaio 2002 chiedeva aiuto per il figlioletto ferito, ora con la voce rotta, ha chiede giustizia. «Siate giusti nel giudizio - ha detto - non ho ucciso mio figlio, non gli ho fatto niente». La corte però decide diversamente e dopo oltre 9 ore di Camera di Consiglio la condanna a 16 anni per l'omicidio del figlio (13 con l'indulto).
Anche la Cassazione respinge: condanna confermata. Contro la sentenza, i legali presentano ricorso in Cassazione che la suprema corte però respinge il 21 maggio 2008 confermando la sentenza emessa poco più di un anno prima dalla corte d'assise di Torino. Anna Maria Franzoni aspetta la sentenza a Ripoli Santa Cristina, sull'Appennino tosco-emiliano, a casa di un'amica. E a casa la raggiungono i carabinieri per notificarle l'arresto e trasferirla in carcere a Bologna.
Prosegue il turismo dell'orrore nella villetta. E non accenna a diminuire il turismo macabro a Cogne. La processione di gente nella casa di Montroz continua ancora oggi, magari in forma più contenuta. E' ancora l'allora sindaco Osvaldo Ruffier, memoria storica della comunità, a trovarsi a dover indicare il percorso da seguire per raggiungere la villetta di Annamaria e Stefano Lorenzi. «Quella vicenda resterà per noi una ferita incancellabile - afferma l'ex sindaco -. Dopo dieci anni va registrato che ci sono ancora persone che arrivano a Cogne e chiedono indicazioni per andare a vedere di persona la casa dove è stato ucciso il piccolo Samuele. Una pratica che, credo, non si interromperà mai». Il tempo, come racconta l'allora sindaco, ha contribuito a fare decantare la vicenda ma dalle sue parole si capisce che ci sono ancora ferite aperte: «chi ha vissuto la vicenda non potrà mai archiviare le infamanti accuse che ci si è sentiti rivolgere. Ad un certo punto è stata messa sotto accusa mezza Cogne, ma la giustizia ha messo da tempo la parola fine alla vicenda. A noi resta la macchia».
Cogne ha neve, gelo. E indifferenza. Il sindaco Franco Allera, primo cittadino dal 2010, geometra, è il progettista della «Villetta di Cogne», come ancora la chiamano, anzi, la rivendicano i turisti. «Sembra che il tempo non passi più, siamo ancora lì», dicono al bar «Centre», piccolo locale nella piazza del paese. Si ferma un'auto di una coppia a due passi del municipio. Lui chiede: «Scusi sa indicarmi la "villetta di Cogne"?». E un altro turista fa tintinnare la porta del tabaccaio, a qualche passo dal bar, e brucia il tempo del saluto con la sua impellente richiesta: «Avete una cartolina della "villetta"? Sa, quella...». Risposta: «So, so... No, non ne esistono». Il turismo macabro non ha limiti. Cogne come Avetrana. La «Villetta» in quel prato ripido in cui sbucano dalla neve rovi di rose selvatiche con bacche color del sangue è un po' meno sola, ma è una casa lasciata alla sua tragica testimonianza. Lasciata lì, non venduta, né affittata. Ad aprirla ogni tanto ci pensava «nonno Mario», il papà di Stefano Lorenzi, morto a fine agosto 2010. Hanno costruito due case appaiate e gemelle appena sopra e una grande di legno brillante e imponenti muri in pietra a fianco. C'è un grande cartello giallo dell'Immobiliare che l'ha costruita: si vende e si affitta. Ma dove Samuele fu ucciso con un oggetto mai scoperto (forse un cristallo di quarzo) tutto pare fermo al 2002. Solo il vento è riuscito a strappare sul lato nord i sigilli del sequestro. Sono spariti anche dalle ante di legno che proteggono gli «occhi» voluti da Anna Maria. Sulle altre finestre e sulle porte i fogli dell'autorità giudiziaria sono ancora lì, incollati da un largo e resistente nastro isolante marroncino. La «Villetta di Cogne» è in frazione Montroz. Guarda dall'alto il capoluogo e la prateria di Sant'Orso. Nessuno sa se sia ancora nei sogni di Anna Maria, forse lo è negli incubi. La mamma di Sammy, in carcere a Bologna, non vuole parlare con nessuno. Si è perfino chiusa nel bagno della sua cella per non incontrare il deputato Melania Rizzoli del Pdl che sta raccogliendo testimonianze per un libro sulle donne in prigione. Il suo avvocato torinese, Paola Savio, che ha tentato in tutti i modi di spegnere i riflettori sul «caso Cogne», mantiene la riservatezza di sempre. E dice: «Non verrà mai un giorno in cui Anna Maria smetterà di professare la sua innocenza».
Anna Maria in carcere riceve soltanto il marito Stefano, da sempre convinto della sua innocenza, e i suoi figli, Davide, che il mattino del delitto accompagnò allo scuolabus e Gioele, nato l'anno dopo. La Cogne tanto amata diventò un «paese di invidiosi» per Anna Maria proprio mentre aspettava il suo terzo figlio. Ne parlava nell'area verde dell'agriturismo della sua famiglia, a Monte Acuto, sull'Appennino bolognese. E lanciava le accuse, i suoi sospetti sui vicini. Si sentiva tradita dal paese che l'aveva accolta e l'aveva sorretta nei giorni della morte di Samuele. Un paese che si spaccò, che fu dilaniato da fronti contrapposti, che diventò a lungo un set tv.
Sindaco nel 2002 era Osvaldo Ruffier: «La gente adesso è indifferente, allora era un tumulto. Anche per Anna Maria è finita, a breve uscirà pure dal carcere. Donna tosta, sa? Eravamo in buoni rapporti anche se Stefano era un consigliere di opposizione. Subito fu la solidarietà, la compassione ad abbracciare quella famiglia, poi cominciarono a fare nomi di vicini e altri come coinvolti nell'omicidio. E allora Cogne si offese. Fu la frattura». E quello di oggi, Allera: «L'imperativo è uno solo, dimenticare e passare oltre. è stato un dramma della follia, una terribile vicenda umana. La giustizia ha fatto il suo corso e Cogne ha ritrovato il suo equilibrio». Dimenticare. Anche il parroco don Corrado Bagnod, che celebrò i funerali di Samuele, non spende parole: «Buongiorno, arrivederci».
La cittadina di Cogne troppo presto ha preso le distanze con i media e con Anna Maria Franzoni. Cosa nasconde la riservatezza di quella gente. Forse niente. Ma ad Avetrana quella stessa riservatezza per i media e per i forestieri è diventata omertà. Sono convinto che dietro il delitto di Cogne ci sia una verità storica non riconosciuta dalla verità processuale e mediatica. Ciò si evince da alcuni dati inconfondibili: manca il movente, manca l'arma del delitto, manca la confessione; la difesa aveva accennato di sapere chi era l'autore vero del delitto, annunciando di poterlo rivelare a tempo debito, ma poi non si è fatto più niente; la difesa insiste su indizi e macchie di sangue in posti della villetta che farebbero pensare ad una fuga precipitosa, ma queste prove non sono state abbastanza approfondite; si sa che la Franzoni non aveva un buon rapporto con Cogne, i cui abitanti, sbrigativamente, puntano il dito contro di lei quale unica indiziata, salvo poi non sapere un bel nulla del perchè del delitto; il sindaco o l'ex sindaco di Cogne affermavano che tutto era chiaro; si accennava che il probabile omicida è una persona di cui molti avrebbero paura. Si dice che la Franzoni potrebbe coprire il secondo figlio quale esecutore materiale del delitto. Si dice che la madre potrebbe aver dimenticato. Si parla persino di amanti della Franzoni. Forse qualcuno voleva rapire il piccolo Samuele e alle strilla di questi l’ha ucciso ed è scappato di corsa. Qualcuno ha fatto allusione anche a possibili interconnessioni politiche legate all’impegno amministrativo del padre dell’ucciso presso il Comune di Cogne. Si accenna anche a screzi continui con i vicini. Ma il fatto più inquietante è una intervista rilasciata da un familiare della Franzoni poche settimane dopo il delitto del piccolo Samuele, che parlava chiaramente di eventi che non possono essere resi pubblici.
Su “Oggi” Carlo Taormina a Giangavino Sulas afferma: è questa l’arma del delitto di Cogne? L’hanno cercata per anni. Dovunque. Hanno rivoltato come un guanto la villetta di Cogne. Hanno scavato in giardino. Hanno setacciato i terreni sottostanti. Hanno scandagliato i corsi d’acqua. Niente. I processi si sono chiusi in Cassazione il 21 maggio 2008 con la condanna definitiva di Annamaria Franzoni, senza l’arma che, la mattina del 30 gennaio 2002 aveva ucciso Samuele Lorenzi. Medici legali, carabinieri del Ris, periti, consulenti e magistrati si sono persi in mille ipotesi: dalla piccozza al martello, dal pentolino al sabò (lo scarpone valdostano), dal mestolo al moschettone da alpinista. L’hanno cercata invano con tale e tanta cocciutaggine che un giorno, qualche mese dopo il delitto, Giorgio Franzoni, il padre di Annamaria, esasperato ma con una buona dose di cinismo si fece intercettare da una microspia piazzata nella sua auto mentre diceva: «Sotterriamo una martellina dopo averla immersa nell’acido muriatico e gliela facciamo trovare. Così la smettono di cercarla». Oggi però la possibile arma che uccise il bambino di Cogne compare nello studio romano di piazza Cavour di Carlo Taormina, l’avvocato che ha difeso la Franzoni dal giugno 2002 al 20 novembre 2006, quando in Corte d’Assise d’Appello, a Torino, annunciò: «Lascio la difesa perché qui la sentenza è già scritta». «E se fosse questo l’oggetto con il quale è stato colpito a morte Samuele?», sorride e sogghigna Taormina mentre da un cassetto della scrivania tira fuori una pinza da elettrauto. «I miei medici legali, ai quali la feci esaminare, sono stati chiari: “È compatibile con le ferite sulla testa del bambino”. Ma io non ci credo perché a farmela trovare è stata una veggente. Questi personaggi sono dei ciarlatani, ma quella volta quella signora insistette tanto che alla fine mi convinse…». Scusi avvocato, quando quella volta? E chi è questa signora? Insomma, da dove salta fuori questa pinza e da quanto tempo la tiene nel suo studio? La storia che potrebbe addirittura portare a una richiesta di revisione del processo sul delitto di Cogne nasce negli studi di Telelombardia una sera del dicembre 2011 durante la trasmissione Iceberg condotta da Marco Oliva. Per poi approdare a Domenica 5 del 5 febbraio 2012, il talk chow di Canale 5 condotto da Federica Panicucci Si parla della scomparsa di Yara Gambirasio. Va in onda un’intervista a una veggente che dichiara di sapere tutto sul destino della ragazza di Brembate Sopra. Il conduttore chiede a Taormina che cosa ne pensi. «Buffonate », sbotta con la sua solita feroce schiettezza il penalista, che subito dopo però aggiunge: «Anche se a me, anni fa, è capitato un episodio… ». E qui inizia la clamorosa rivelazione: «Una signora insistette tanto sostenendo di avere avuto una visione durante la quale era sicura di avere individuato l’arma con la quale era stato ucciso Samuele. Mi convinse, dopo tante insistenze, ad accompagnarla a Cogne ed effettivamente sul greto di un torrente che scorre sotto la casa dei Franzoni trovammo uno strano oggetto». Fine della trasmissione.
Il giorno dopo chiamiamo Carlo Taormina: «Scusi avvocato, ma quell’oggetto l’ha fotografato?». «No. Io ho l’oggetto. Lo tengo nel mio studio». Andiamo da Taormina ed ecco da un cassetto comparire una pinza, grande e pesante, con i beccucci rotondi in cima. Classico strumento di elettricisti, elettrauto, periti elettrotecnici. Sembra nuova. «Vede, impugnata così, diventa un oggetto snodabile che può aver lasciato quella scia di macchie di sangue sulle pareti della stanza del delitto», dice l’avvocato. «E la forma arrotondata del manico è compatibile con le ferite. Me l’hanno detto i medici legali». Quando l’ha trovata? «Nel settembre 2004. C’era appena stata la sentenza di primo grado con la condanna a 30 anni per la Franzoni. Una signora di Parma che sosteneva di essere una veggente, diciamo solo il nome, Wanda, moglie di un noto imprenditore, cominciò a telefonarmi: “Le faccio ritrovare l’arma che ha ucciso Samuele”. Non le diedi retta finché un giorno mi disse: “Ho sognato il posto dove è stata nascosta. Se andiamo a Cogne la troviamo”. Alla fine cedetti. Partimmo accompagnati dalla mia scorta. In base a quanto diceva di aver visto durante il sogno, la donna iniziò la ricerca del nascondiglio lungo il torrente che scorre sotto la villetta dei Franzoni. Lo individuò dopo due ore e allora, io, lei e gli agenti della scorta iniziammo a cercare l’arma. Passarono altre due ore e proprio uno dei poliziotti, in una specie di piccolo anfratto, trovò questa pinza. “È questa l’arma che ha ucciso Samuele”, disse la donna. Be’, lo ammetto, ne fui impressionato ». Perché non la consegnò agli inquirenti? «Non rientrava nei miei compiti. Io ero il difensore della donna accusata del delitto. Ero tenuto solo alla sua difesa e al segreto professionale. Mi limitai a consegnarla ai miei medici legali. Avuta la loro risposta, decisi di tenerla e seguire gli sviluppi dell’inchiesta e del processo di secondo grado». Perché non la fece analizzare? Su quella pinza si potevano scoprire impronte digitali o genetiche di qualcuno. Forse temeva che potessero diventare la prova provata della colpevolezza della Franzoni? «Questo lo insinua lei. Le prove contro Annamaria dovevano trovarle gli inquirenti, non io. E non le hanno mai trovate». Perché non la consegna adesso, la pinza? «No. Dopo che uscirà il servizio su Oggi, la butterò via».
Con Carlo Taormina non c’è molto da discutere. Però, se quella pinza ha massacrato Samuele, negli spazi fra le ganasce potrebbero ancora essere custodite tracce di materiale biologico. Ma può davvero essere l’arma del delitto? L’abbiamo chiesto all’uomo che più di chiunque altro ha esaminato le ferite che hanno provocato la morte del bambino di Cogne. Francesco Viglino, medico legale e docente universitario, fece due autopsie: il 31 gennaio e il 4 febbraio 2002. L’8 giugno dello stesso anno consegnò la relazione conclusiva del suo lavoro alla Procura di Aosta. Sulle ferite, nella perizia sostiene: «Per quanto si evince dalla morfologia delle lesioni rilevate… si è potuto ipotizzare che le stesse siano state prodotte da corpo contundente che presenta le seguenti caratteristiche: facile e agevole impugnabilità; rigidità; di buona consistenza; dotato di margini acuti, rettilinei e spigoli vivi». E prosegue: «Tale condizione consente di rilevare una superficie di impatto del corpo contundente assai ristretta, come appunto, quella di uno spigolo o di una grossa punta». E conclude: «Ciò detto circa le caratteristiche delle lesioni, dovendo ipotizzare quale possa essere stato il mezzo che le ha prodotte, non può essere identificato in un mezzo ben preciso ma può essere compreso in una vastissima gamma di strumenti idonei a ledere. Ad esempio manganelli o bastoni o mazze per ciò che concerne le armi proprie, martelli, soprammobili, strumenti per l’uso domestico, quali armi impropriamente usate». Chiediamo a Viglino perché nella sua relazione non parli di pinze: «Avrei dovuto enumerare decine di oggetti. Il problema è la forma delle ferite: sono a coda di rondine. Queste pinze, impugnate al rovescio, potrebbero essere l’arma del delitto perché provocherebbero lesioni con le caratteristiche che ho detto». Luciano Garofano, ex comandante del Ris di Parma, allora cercò di scoprire quale fosse l’arma non solo dalla forma delle ferite ma dalla scia di macchie di sangue sulle pareti della stanza: «E conclusi», ci dice oggi, «che doveva essere un oggetto maneggevole e con un manico abbastanza lungo. Un oggetto che facesse “l’effetto aspersorio” trascinando il sangue dal basso verso l’alto. Questa pinza ha un manico che può provocare questo effetto. E anche alcune delle ferite sono compatibili con le punte della pinza rivolte verso il basso. Ma mi chiedo: perché saltano fuori adesso?».
A proposito del delitto di Sarah Scazzi e di Yara Gambirasio e gli autogol della giustizia e del giornalismo italiano. Vi ricordate il caso di Giusy Potenza, antesignano del delitto di Avetrana?
IL DELITTO DI GIUSI POTENZA. SABRINA SANTORO E FILOMENA RITA (FLORIANA) MAGNINI. ACCUSATE INGIUSTAMENTE MA PER LA STAMPA RESTERANNO "COLPEVOLI E PUTTANE" PER SEMPRE.
Giusy Potenza viene uccisa a Manfredonia con una grossa pietra. Il suo corpo è ritrovato il pomeriggio successivo all'omicidio sulla scogliera, vicino allo stabilimento ex Enichem. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia.
Il caso scuote la città del Gargano che viene assediata nei giorni successivi dalle tv nazionali e locali in cerca di risoluzioni per quello che diviene un caso di cronaca nazionale. È stato un periodo di tensione e terrore, quello che si è consumato a Manfredonia, sessantamila abitanti, una quarantina di chilometri da Foggia. Per mesi questa fetta del Gargano è stata sotto shock per la tragica fine di Giusy, uccisa a colpi di pietra da Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni, che 40 giorni dopo (il 23 dicembre 2004) venne arrestato dalla polizia e che confessò l'omicidio: l'uomo, un cugino del padre della ragazza, ha ammesso di aver colpito la vittima con una pietra perché tra loro c'era una relazione e lei minacciava di raccontare tutto a sua moglie se l'avesse lasciata. Il ricordo della povera Giusy è ancora vivo in tutta la comunità accusata a suo tempo di omertà come tutte le comunità che subiscono vicende analoghe. Una vicenda drammatica con molti colpi di scena seguitissima da stampa e tv. Speciali tv sono stati dedicati al caso dalla solita Rai Tre con il programma “Ombre sul giallo”, ideato, scritto e condotto da Franca Leosini.
Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Intanto l’8 ottobre 2011 per quel delitto il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione “famiglia” della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita (Floriana) Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione.
Le ragazze accusate malamente in vario modo si rammaricano del fatto che i giornali e le tv pronti ad infierire con accanimento mediatico su di loro, nel momento in cui vi è stata per loro stesse una sentenza di assoluzione, omertosamente i medesimi giornalisti hanno censurato la notizia, tacitando gli errori dei magistrati.
Sono loro a gridare con una testimonianza esclusiva al dr Antonio Giangrande, scrittore (autore anche del libro in elaborazione su Sarah Scazzi, già pubblicato sul web) e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. In sintesi il loro pensiero conferma un tema ricorrente identico a sé stesso: povero territorio e poveri protagonisti della vicenda, vittime sacrificali di un sistema mediatico che nell’orrore e nella persecuzione ha la sua linfa. Si inizia con uno strillio del citofono, con le forze dell’ordine che ti cercano. In quel momento ti casca il mondo addosso. E’ un uragano che ti investe. Ti scontri con procuratori della repubblica innamoratissimi della loro tesi di accusa, assecondati dal Tribunale della loro città e sostenuti da giornalisti che pendono dalla loro bocca o che si improvvisano investigatori. E l’opinione pubblica, influenzata dalla stampa, ti odia fino ad augurarti la morte. «Dalla sentenza che ha acclamato la nostra estraneità ai fatti, nessuno ci ha cercato per ristabilire la verità e per renderci la nostra dignità e la nostra reputazione. Chi è schiacciato dal tritasassi della giustizia, anche se innocente, è frantumato per sempre». E’ il pensiero di Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Magnini, ma possono essere le affermazioni di migliaia di innocenti che da queste vicende ne sono usciti distrutti.
Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda?
Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutti come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e accusate di essere state responsabili indirettamente della sua morte.
Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo.
L'omicidio Giusy Potenza: le tappe.
Dal delitto all'arresto del cugino, al coinvolgimento delle due ragazze di Manfredonia per favoreggiamento della prostituzione. Il suicidio di Grazia Rignanese madre di Giusy Potenza è l'ultimo episodio di un caso che ha sconvolto l'esistenza della famiglia Potenza e scosso la cittadina di Manfredonia, in provincia di Foggia.
Giusy Potenza viene uccisa il 12 novembre del 2004 a Manfredonia con una grossa pietra da 4 chili. Il suo corpo è ritrovato nei pressi dello stabilimento ex Enichem e di una scogliera il pomeriggio successivo all'omicidio. Dopo un mese e mezzo di continue voci sulla presenza di un branco e su presunte frequentazioni poco raccomandabili della ragazza, arriva la confessione di Giovanni Potenza, un pescatore di 27 anni cugino del padre. Il 23 dicembre il presunto omicida, sposato e padre di due figli di 2 e 8 anni, racconta agli inquirenti di aver cominciato dalla fine dell'estate precedente una relazione segreta con la giovane studentessa. Il pomeriggio dell'ultimo incontro, dopo aver avuto un rapporto sessuale in auto, l'uomo avrebbe detto a Giusy di essere intenzionato a mettere fine alla relazione.
Il 6 maggio 2005 le indagini hanno una svolta. Entrano nell'inchiesta altre due ragazze: si tratta di Sabrina Santoro e Filomena Rita Magnini, che vengono arrestate con l'accusa di favoreggiamento e false dichiarazioni, oltre che di induzione e sfruttamento della prostituzione. Le due, residenti a Manfredonia e incensurate, avrebbero mentito agli inquirenti per non far sapere di essere implicate in un giro di prostituzione in cui avrebbero trascinato anche Giusy Potenza. Il sospetto di un loro coinvolgimento esisteva da tempo: le due ragazze avevano infatti sostenuto di aver trascorso a casa il pomeriggio dell'omicidio, mentre alcuni testimoni le avevano notate proprio davanti al negozio Bernini, dove Giusy si era recata per comprare dei dischi poco prima che si perdessero le sue tracce. Particolarmente importante la testimonianza di un uomo, secondo il quale le due giovani avrebbero fatto prostituire Giusy in sporadiche occasioni con clienti procurati da loro e con la promessa di dividere gli incassi. In ogni caso, secondo gli inquirenti, le due ragazze non sarebbero coinvolte nell'omicidio, di cui sarebbe unico responsabile Giovanni Potenza.
Poi, il 30 maggio, un nuovo colpo di scena. In un bar del centro di Manfredonia Carlo Potenza, padre di Giusy, accoltella per vendetta Pasquale Magnini, padre di una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver indotto Giusy alla prostituzione. La rabbia innescata dal desiderio di vendetta lo ha spinto a entrare nel bar Olimpia di via Gargano, a Manfredonia, poco distante da casa sua: ha ordinato una birra, si è avvicinato con calma al bancone, ha estratto il coltello, ha urlato: «È ancora vivo questo qua?». Poi ha colpito, una volta sola, alla pancia, forse lo ha fatto seguendo un copione criminale maturato con il passare dei giorni, forse è stato un raptus scattato all'improvviso: fatto sta che in pochi istanti di lucida follia, Carlo Potenza, 37 anni, ha tentato di vendicare la figlia Giusy, la quindicenne massacrata il 12 novembre 2004 a Manfredonia, riducendo in fin di vita Pasquale Mangini, 41 anni, il padre di Filomena Rita, 19 anni, una delle ragazze arrestate con l'accusa di aver spinto la minorenne alla prostituzione, una storia affiorata nel corso di ulteriori indagini avviate dalla polizia. Potenza è uscito dal bar subito dopo aver colpito, ha tentato di fuggire ma è stato bloccato e arrestato dalla polizia; il ferito è stato trasportato in ospedale: è stato ricoverato nel reparto di chirurgia d'urgenza e poi in rianimazione. I medici lo hanno operato, le sue condizioni sono gravi e la prognosi è riservata. L'uomo viene ferito all'addome, Carlo Potenza è arrestato con l'accusa di tentato omicidio. Il giorno successivo altre due persone vengono arrestate con l'accusa di concorso in tentato omicidio: si tratta di due pescatori, amici del padre di Giusy, che lo avrebbero accompagnato nei pressi del bar e lo avrebbero aspettato fuori. Subito dopo il ferimento avrebbero preso in consegna il coltello e lo avrebbero nascosto mentre Potenza si dava alla fuga. Potenza era stanco delle voci del paese sulla figlia, diffuse sia durante la fase delle indagini ma anche successivamente al fermo del presunto assassino. Incontrò Mangini nel bar Olimpia dove quest’ultimo stava bevendo una birra e lo colpì con un grosso coltello da cucina. Poi uscì dal bar e consegnò l’arma a due amici pescatori, Antonio Varrecchia e Biagio Piemontese. Poco dopo giunsero i poliziotti del Commissariato che lo arrestarono e lo sottrassero al linciaggio della folla. Potenza, anche lui pescatore come il presunto assassino della figlia, venne scarcerato e posto agli arresti domiciliari in una località segreta, lontano da Manfredonia. Da quel momento Carlo Potenza è tornato a vivere a Manfredonia, sempre ai domiciliari presso la casa dei suoceri.
Infine, il 24 ottobre 2006, l’ennesimo lutto: la madre di Giusy, Grazia Rignanese, peraltro in attesa di 7 mesi di un figlio, si è tolta la vita impiccandosi. Non ha retto al dolore per la perdita tragica della figlia e a tutte le altre tragedie.
La ragazza avrebbe reagito male minacciando di riferire tutto alla moglie del pescatore e agli altri familiari. A quel punto la vittima sarebbe uscita dall'auto e, forse per il buio e la pioggia, sarebbe caduta accidentalmente giù per la scogliera profonda 8 metri, ferendosi. L'uomo l'avrebbe aiutata a risalire ma la ragazza avrebbe ripetuto le minacce. In un impeto d'ira, il pescatore le avrebbe fracassato la testa con un grosso sasso, lasciandola esanime sotto una pioggia battente. A incastrare Giovanni Potenza, dopo 40 giorni di indagini, è il confronto tra il suo Dna, abilmente prelevato dagli investigatori, e quello del liquido seminale ritrovato sul corpo della vittima. Una prova che conferma quanto detto dalla ragazza a un suo coetaneo il pomeriggio dell'omicidio in un negozio di dischi, parole alle quali gli investigatori, in un primo tempo, non avevano dato peso. I familiari della ragazza, attraverso il loro legale, sostengono la presenza di altre persone al momento dell'omicidio (smentita dagli investigatori) e negano la relazione di Giusy con l'uomo, di cui peraltro in paese nessuno sembrava essere a conoscenza. Anche dai tabulati telefonici non arrivano elementi che confermano il rapporto. I risultati definitivi dell'autopsia poi sostanzialmente confermano quanto ipotizzato dagli inquirenti in un primo momento: nessuna violenza sessuale e omicidio d'impeto.
8 ottobre 2011. La corte d’appello di Bari ha assolto Filomena Rita (Floriana) Mangini e Sabrina Santoro, le due ragazze accusate e condannate in primo grado a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione di Giusy Potenza, la 15enne di Manfredonia uccisa da un cugino del padre il 13 novembre 2004 a colpi di pietra. In primo grado l’accusa sosteneva che le due ragazze dividessero tra loro i guadagni delle prestazioni di Giusy con i clienti (da 10 a 30 euro), visto che, secondo l’accusa, procacciavano i clienti alla giovanissima. In un secondo momento decadde l’accusa di sfruttamento e restò in piedi solo quella di favoreggiamento. Le dichiarazioni di un amico di Giusy non sono state ritenute credibili in appello, così come dai tabulati telefonici è emerso che non ci fossero contatti tra le due imputate e la ragazzina. Il pianto liberatorio delle due amiche accompagna la lettura della sentenza del presidente della sezione famiglia della corte d’appello di Bari, che ribalta il verdetto di primo grado di condanna a 4 anni di carcere a testa per favoreggiamento della prostituzione. Sabrina Santoro, 30 anni, e Filomena Rita Mangini di 25 anni, non hanno favorito la prostituzione di Giusy Potenza, la quattordicenne sipontina ammazzata a pietrate il 13 novembre del 2004 da un procugino con il quale aveva una relazione clandestina, che lei minacciava di rivelare se lui non avesse lasciato la moglie. Le due imputate sono state assolte per non aver commesso il fatto, dopo due ore di camera di consiglio; pg e parte civile chiedevano la conferma della condanna a 4 anni, la difesa l’assoluzione. Indagando sull’omicidio della minorenne (l’assassino è stato condannato a 30 anni in via definitiva), Procura foggiana, agenti del commissariato e squadra mobile scoprirono che Giusy si prostituiva per pochi euro, da 10 a 30 euro a secondo della prestazione. E lo faceva - diceva l’accusa che non ha retto al vaglio dibattimentale - perchè Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini le procacciavano i clienti e spartivano i guadagni, vicenda per le quali le due imputate furono arrestate e poste ai domiciliari il 6 maggio del 2005 (l’accusa di favoreggiamento nei confronti dell’omicida inizialmente ipotizzata dal pm fu poi archiviata), per poi tornare libere dopo due mesi. Già la sentenza di primo grado, emessa dal Tribunale di Foggia l’11 ottobre del 2007, aveva in parte ridimensionato l’impianto accusatoria: escluse che le due imputate avessero indotto Giusy a prostituirsi e l’avessero sfruttata: furono comunque condannate a 4 anni a testa «solo» per favoreggiamento della prostituzione (e non anche per induzione e sfruttamento). Per questo reato, dopo innumerevoli rinvii, si è celebrato e chiuso in un’unica udienza il processo d’appello a Bari davanti alla «sezione famiglia». Il sostituto procuratore generale chiedeva la conferma della condanna, richiesta ribadita dagli avvocati Raul Pellegrini e Flora Torelli costituitisi parte civile per conto dei familiari di Giusy; i difensori, gli avv. Francesco Santangelo e Mario Russo Frattasi, hanno replicato parlando di accuse prive di riscontri, basate su voci e sulla testimonianza di un cliente di Giusy che tra indagini e processo di primo grado aveva cambiato innumerevoli versioni, dicendo tutto e il contrario di tutto. L’accusa contro Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini poggiava su due testimonianze, essenzialmente. C’era un coetaneo della vittima al quale la minorenne confidò, un mese prima dell’omicidio, d’essere entrata in un giro di prostituzione per soddisfare gli uomini e d’averlo fatto su proposta delle due imputate. E c’era soprattutto un manfredoniano di 34 anni (all’epoca dei fatti) che avrebbe avuto rapporti a pagamento con Giusy, dalla quale fu indirizzato - sostenevano inquirenti e investigatori - dalla Mangini e dalla Santoro («vuoi fre...? C’è quella ragazza lì...» l’invito che gli avrebbero rivolto le imputate, sempre smentito da queste ultime). La difesa replicava che le due imputate conoscevano Giusy solo per essere amiche della sorella maggiore, ma non la frequentavano e tantomeno ne «gestivano» la prostituzione; i tabulati telefonici dimostravano che non c’erano contatti tra la vittima e le imputate, pure «obbligatori» se le due amiche fossero state coinvolte nel presunto giro di prostituzione; il presunto cliente di Giusy aveva detto tutto e il contrario di tutto, negando prima, ammettendo rapporti a pagamento con la vittima, accusando le due imputate e poi facendo marcia indietro. Non è nemmeno certo che Giusy si prostituisse, altro argomento battuto dagli avv. Santangelo e Russo Frattasi per chiedere l’assoluzione delle due sipontine: vero che lei lo aveva confidato ad un amico, ma Giusy non sempre era credibile; e lo stesso presunto cliente ne aveva dette tante da renderlo assolutamente inattendibile e incredibile.
E’ stato scritto un libro sul delitto di Giusy Potenza: "Non ce lo dire a nessuno" di Innocenza Starace. Diario dell'avvocato di Giusy Potenza. Il libro comincia così: “Chiamo per conto di un amico, una giovane uccisa si trova vicino allo stabilimento ex Enichem”. - È un giorno di novembre piovoso quello in cui la telefonata, ovviamente anonima e inquietante, giunge al commissariato di Manfredonia. I poliziotti corrono e rinvengono il corpo di una giovinetta con il volto sfigurato e privo di alcuni denti. I jeans abbassati fino alle ginocchia. La ragazzina non aveva le scarpe e indossava una maglia gialla dal collo alto. Le braccia rivolte all’indietro. Il viottolo dove il corpo è disteso è di terra battuta e procede parallelo alla statale che porta alle spiagge di ciottoli bianchi di Mattinata e alle scogliere dei lidi di quella frazione di Monte Sant’Angelo dal breve nome di “Macchia”. Un luogo appartato, anche se vicino ci sono masserie frequentate da pecorai. Resti di biancheria intima, disseminati qua e là sull’erba, ne fanno intuire l’uso e la gente che lo frequenta quando cala la sera. Il corpo avrà presto un nome: Giusy. È la figlia quindicenne di Grazia Rignanese e Carlo Potenza, di cui era stata denunciata la scomparsa il giorno prima dai genitori, pazzi di terrore e rabbia. Inizia il giallo più sconcertante che abbia mai vissuto questa terra garganica, già insanguinata da faide e violenze. I suoi figli, però, seppur spesso presi da incomprensibili attacchi di violenza, mai si erano macchiati del sangue di una ragazzina innocente. In queste pagine vi è quella storia. È un diario cronaca perché registra i fatti, documenta le vicende, riporta gli atti giudiziari e le testimonianze raccolte negli interrogatori e nella fasi processuali; ma registra anche ciò che lo sguardo della donna avvocato, cittadina di Manfredonia, mamma di due ragazze, educatrice scout, non può fare a meno di vedere. Nella vicenda di Giusy si può entrare in modi diversi. Con la curiosità morbosa dei media o con il legittimo dovere di far luce sulla verità. Con i “lo avevamo sempre detto” della folla anonima e numerosa, sempre presente ad ogni cambio e colpo di scena o con il grido “vendetta e non giustizia” del nonno. Con la rabbia composta ma all’improvviso furente e aggressiva del padre o con il silenzio assordante del suicidio della mamma, ancora più assordante per la morte con lei del bimbo che ha un nome ma non viene al mondo. Con lo sguardo dolce e ammiccante di Michela e il suo prendersi cura, nell’abisso della tragedia, dei capelli di chi le sta accanto: “posso farti i capelli?” Io ci sono entrata perché coinvolta come avvocato di parte. La famiglia mi ha dato fiducia, abbandonandosi totalmente a me. Ci sono entrata al punto tale da capire che la ragione vera da trovare in questa storia non è solo quella della morte di Giusy, ma la ragione per cui si può morire a quindici anni in una città come Manfredonia (ma è solo Manfredonia?) che guarda a se stessa e ai suoi giovani voltando lo sguardo dall’altra parte. Dalla posizione privilegiata di chi è catapultato in una vicenda drammatica e complessa, tragica nel suo apparire e nel suo evolversi, mi è stato permesso di avere uno sguardo più profondo. Di quello sguardo il libro non priva il lettore, il quale può scegliere, una volta terminato la lettura, con la sentenza, di ritenere la vicenda conclusa. Oppure può ricominciare, pagina dopo pagina, a rileggere la storia e le domande vere che quel corpo trovato di fronte all’orizzonte, lasciano aperte. A queste domande ho dato forma non per futura memoria di Giusy ma per il futuro dei ragazzi che a quindici anni hanno molte domande, molti sogni, molti problemi. Ma non sempre hanno la fortuna di trovare le persone giuste.-
Torno a ripetere. Certo Giusy Potenza merita la nostra attenzione, ma non meritano forse analoga compassione le altre vittime di questa vicenda? Sabrina Santoro e Filomena Rita (Floriana) Mangini additate da tutte come “puttane” che hanno indotto Giusy alla prostituzione e sono state responsabili indirettamente della sua morte. Bene se nessuno lo fa, sarò io a ristabilire la verità e a dar voce a quelle vittime silenti, che oltraggiate dalla gogna mediatica, non sono mai oggetto di riabilitazione da parte di chi ha infangato il loro onore. Quei media approssimativi e cattivi che si nutrono delle disgrazie altrui. La verità si afferma dall’alto di un fatto: una sentenza definitiva di assoluzione. La verità tratta da un fatto e non dedotta da un opinione di un giornalista gossipparo.
«Oggi 15 gennaio 2011 alle ore 15, visti la situazione venutasi a creare, i comunicati non corrispondenti alla verità e il coinvolgimento di persone che nulla hanno a che vedere con il grave fatto accaduto, si chiede l’assoluto silenzio stampa per dar modo agli inquirenti e alle forze dell’ordine di svolgere l’attività investigativa con maggior serenità e tranquillità». Ancora più conciso il comunicato del sindaco che «invita gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio». Sembra la giusta presa di posizione della famiglia di Sarah Scazzi o del sindaco di Avetrana. La comunità, a causa dell’evento delittuoso, ha subìto grave danno d’immagine per colpa di un certo modo di fare informazione. Invece no. Da questi nessuna ribellione contro i gossippari. Nonostante l’attacco mediatico sia stato meno strumentale e pregiudizievole ai danni di Brembate di Sopra, senza comparire come avevano fatto per l’appello del 28 dicembre, Fulvio Gambirasio e Maura Panarese si affidano a un comunicato. Appongono le loro firme e lo consegnano al sindaco Diego Locatelli che lo legge in una conferenza stampa organizzata nella sala consiliare. Ancora più conciso il comunicato del sindaco del 16 gennaio 2011 che invita la stampa, le troupe televisive in particolare, ad abbandonare il suolo di Brembate di Sopra. Dopo di che è la volta di un dipendente della Lopav-Pima, una ditta di coperture di Ponte San Pietro. I titolari sono stati blindati in una inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli per traffico di droga e riciclaggio. Si era parlato di rapporti di lavoro fra Fulvio Gambirasio e la Lopav e che il rapimento della figlia potesse essere interpretato come una ritorsione nei suoi confronti. Una ipotesi che non si era mai concretizzata. Alcune trasmissioni televisive, «Chi l’ha visto?» e «Quarto grado», hanno però irritato i dipendenti della Lopav che hanno fissato la loro protesta in un comunicato. In una trentina si sono presentati alla conferenza stampa. «Sono in corso attività ed indagini giuridiche nei confronti dell’amministratore della società Lopav-Pima (attualmente detenuto nel carcere di Bergamo). In attesa di verificare i fatti e la sussistenza di eventuali reati la società è gestita da un commissario straordinario nominato dal Tribunale. I dipendenti che lavorano per la società Lopav-Pima sono 110, l’indotto è di circa 250 persone. Siamo stati dipinti come “mafiosi, corrotti e persone non oneste”». E ancora: «In realtà siamo padri di famiglia, lavoriamo per guadagnare il nostro pane onestamente per le nostre mogli, i nostri figli e continuiamo a farlo con la dignità insegnataci dai nostri genitori. Il sistema mediatico sta creando un mostro inesistente allo stato dei fatti. Chiediamo il diritto e il rispetto di lavorare con tranquillità, senza dover essere additati da chiunque si avvicini ai nostri mezzi. Voi fate il vostro lavoro, con dignità e professionalità. Noi vorremmo fare altrettanto. Concedeteci questo sfogo: perché ogni volta che torniamo a casa la domanda dei nostri figli è “ma è vero papà che sei mafioso?”. Ditemi voi cosa possiamo rispondere. Vi ringraziamo ma è doveroso tutelare il nostro lavoro, i nostri figli e le nostre famiglie». Brembate di Sopra come Avetrana: stessa malasorte a causa di una giustizia inefficiente e di una informazione approssimativa.
Cosa differenzia i casi di persone scomparse è nella definizione mediatica dell’atteggiamento delle comunità, che nulla sanno circa modi, tempi e circostanze delle sparizioni: al nord si parla di riservatezza, nel sud di omertà. Certo è che se qualcuno sa, il modo in cui vengono trattati i testimoni, incentivano questi a non dire nulla di quanto loro conoscenza. Andirivieni dagli uffici giudiziari, spese, oneri e perdita di giornate lavorative con risibili rimborsi. Mancata tutela con sputtanamento mediatico e probabili ritorsioni. Eventualità di coinvolgimento con accuse e sospetti infondati.
Cosa accomuna i casi di Ottavia de Luise e Elisa Claps a Potenza, il caso dei fratellini Ciccio e Tore a Gravina di Puglia, di Sarah Scazzi di Avetrana e di Yara Gambirasio di Brembate di Sopra: l’inadeguatezza se non il fallimento del sistema investigativo. Ritardi ed errori delle indagini e delle ricerche. Per Ottavia, Elisa e Sarah si indicò la fuga volontaria come motivo della scomparsa. Per Ciccio e Tore e per Yara si incarcerarono degli innocenti: il padre Filippo Pappalardi per Ciccio e Tore e il marocchino Mohammed Fikri, il primo extracomunitario a portata di mano, per Yara.
Mai che si parta da dei punti fermi nelle ipotesi: intra familiare o extra familiare. Intrafamiliare significa motivi passionali o di interesse economico. Extrafamiliare significa spasimanti respinti o diverbi con soci o vicini di casa, raptus o serial killer, pedofilia, ratto per espianto organi o schiavitù, sette sataniche. L'adottare la tesi della fuga volontaria per ragazzi al di sotto dei 18 anni, significa mancare il dovere di riportare a casa fanciulli che per legge sono incapaci e, comunque, non poter adottare gli strumenti investigativi (quali le intercettazioni, le perquisizioni, i fermi giudiziari), riservati ai reati più gravi, come il rapimento e l'omicidio.
OMICIDI E SETTE SATANICHE: NON SE NE DEVE PARLARE!!
Certo che non ci si può esimere dal citare il pensiero di Rita Pennarola che scrive su “La Voce delle Voci”. Moventi illogici, che non reggono, eppure diventano prove. Armi del delitto mai trovate. E quell'ombra dei clan che lasciano una firma sul cadavere, senza che nessuno voglia vederla. Lontane dalla prontezza delle Direzioni Antimafia, molte Procure di provincia seguono per mesi ed anni piste passionali, ruotando intorno a gelosie familiari, storie a luci rosse o al massimo sballi da balordi di periferia. Ma ecco come, da Melania alle altre, è possibile ricostruire una storia ben diversa. Manca l'arma del delitto. Oppure è lo stesso cadavere che non viene ritrovato, se non per circostanze del tutto fortuite. O ancora, il movente risulta illogico anche rispetto al più elementare buon senso. Restano così per sempre senza giustizia le ragazze sgozzate e lasciate dentro un bosco seminude, con gli occhi ancora spalancati a guardare il cielo, le mani giunte come in preghiera. Le donne belle e innocenti come Melania Rea. Un classico, la vicenda giudiziaria sul suo tragico destino: corpo ritrovato solo grazie ad un telefonista rimasto anonimo, arma (in questo caso un coltello da punta e taglio) finita chissà dove, movente assurdo. E in carcere con l'accusa di omicidio, ovviamente, c’è il marito. Senza che nessuno (o quasi, come vedremo) dei tanti inquirenti succedutisi intorno a questa atroce vicenda abbia saputo - o più probabilmente, potuto - rispondere ai mille interrogativi lasciati aperti dalla pista passionale. Un quadro da manuale che accontenta tutti, quella moglie gelosa accoltellata dal coniuge innamorato pazzo dell'altra. Così nessuno solleverà più il velo su eventuali traffici della malavita organizzata all'interno dell'esercito. E forse cala una pietra tombale sulle vere ragioni dell'assassinio. «Accade talvolta - dice Ferdinando Imposimato, giudice istruttore nelle più scottanti vicende della storia italiana, da Aldo Moro a Emanuela Orlandi - che il movente di un crimine risulti illogico, non congruente. Ciononostante taluni investigatori continuano a perseguire lo stesso filone d'indagini, che poi o viene smontato in fase processuale, oppure travolge con accuse pesantissime persone risultate poi innocenti». La tesi di Imposimato - che qui non parla in riferimento al delitto Rea, ma risponde ad una nostra domanda sui moventi “illogici” – è stata confermata fra l'altro nel caso della contessa Alberica Filo della Torre: attraverso una rigorosa ricostruzione dei fatti, sulla Voce di aprile 2009 Imposimato smontava la solita pista passionale seguita per vent'anni dagli inquirenti, indicando le responsabilità del cameriere filippino, sbrigativamente scagionato nei primi giorni successivi al delitto. Ed arrestato solo ad aprile 2011, dopo la scoperta del suo Dna in una macchia di sangue nel letto della vittima. «Ero stato colpito - spiega Imposimato - non solo dalla mancata valutazione di indizi che portavano univocamente in direzione del filippino, ma anche da quella che consideravo l'ingiusta incriminazione di alcune persone contro cui non esistevano indizi gravi, precisi e concordanti». Come Roberto Jacono, accusato, arrestato e poi prosciolto, una vita avvelenata da indagini miopi. Perciò ripartiamo da qui. Dalla grande lezione di Imposimato sulla necessità di un solido movente. Che non pare essere un amore folle, per il marito di Melania Salvatore Parolisi. Ma una motivazione forte, come vedremo, manca anche nella ricostruzione giudiziaria attuale di altre vicende che tengono da mesi col fiato sospeso gli italiani. Casi per lo più irrisolti, che nell'immaginario collettivo misurano quanto la nostra magistratura sia in grado di dar pace alle vittime e ai familiari con sentenze e prove definitive. A disporre l'arresto di Salvatore Parolisi è la Procura di Ascoli Piceno, che indaga fin dal quel giorno (era il 18 aprile 2011), prima per la scomparsa e poi per l'omicidio di Melania, dopo il ritrovamento del cadavere, avvenuto due giorni dopo a Ripe di Civitella. Quest'ultima località è in provincia di Teramo. Perciò, quando a giugno l'autopsia rivela che la donna è stata uccisa nello stesso luogo in cui viene ritrovata, la competenza passa da Ascoli a Teramo. Dove Salvatore, già in carcere, si trova di fronte al giudice per le indagini preliminari Giovanni Cirillo. Non un magistrato qualsiasi, lui. Basti pensare a quel Premio Borsellino assegnatogli nel 2008 durante un incontro pubblico a Roseto degli Abruzzi. Accanto a Cirillo, come relatori, ci sono Luigi de Magistris e Clementina Forleo. Entrambi erano stati colpiti da punizioni “esemplari” ad opera del Consiglio Superiore della Magistratura. La storia di de Magistris e Forleo è nota. Per loro oggi gli effetti di una giustizia non condizionata dai poteri forti stanno finalmente arrivando. Non così nel 2008. Il fatto che in quel tumultuoso periodo Cirillo fosse schierato al fianco dei due coraggiosi colleghi, la dice lunga sulla rigorosa volontà di non lasciarsi condizionare dai ranghi “alti” del potere, quand'anche essi fossero all'interno della stessa magistratura. Cirillo, che conosce a fondo le indagini sul caso Rea, è il gip che il 2 agosto convalida l'arresto di Parolisi richiesto dal pm ascolano Umberto Gioele Monti. Ed è grazie a Cirillo che le attività investigative cominciano ad assumere una diversa fisionomia. Non solo la ricerca spasmodica fra storie di corna a luci rosse e chat per transessuali, ma qualcosa di più solido, quello sfondo inconfessabile di traffici che forse vedono al centro, assieme all'istruttore delle soldatesse Parolisi, interi pezzi della caserma Clementi di Ascoli Piceno. Sembra di essere ad una svolta. Il gip non tralascia alcuna ipotesi, tanto che viene ascoltato il magistrato romano Paolo Ferraro, l'uomo che aveva dettagliato l'esistenza di riti satanici dentro alcuni complessi militari italiani.
A tal proposito per rimarcare la fondatezza del riferimento si cita l’interrogazione parlamentare “Legislatura 16 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-06272, pubblicato il 17 novembre 2011, Seduta n. 637. LANNUTTI – Ai Ministri della giustizia e della difesa. - Premesso che: il pubblico ministero di Roma, Paolo Ferraro, ha condotto in prima persona un’indagine su una presunta setta satanica, a cui avrebbero aderito anche alcuni esponenti dell’esercito, un gruppo segreto che si riunirebbe in eventi dove confluirebbero riti esoterici e banchetti a base di sesso e droga. Ad avvalorare questa pista ci sarebbero anche dei file audio che contribuirebbero a dissolvere qualsiasi dubbio sulla tesi del magistrato; l’indagine di Ferraro potrebbe, a detta dello stesso, intrecciarsi anche con il delitto di Ripe di Civitella dove il 20 aprile 2011 fu ritrovata morta Melania Rea, moglie di un caporalmaggiore del 235° Reggimento Piceno; successivamente il Consiglio superiore della magistratura (CSM), nella seduta del 16 giugno 2011, come si legge su “giustizia quotidiana.it”, ha deliberato di collocare in aspettativa per infermità, per quattro mesi, il pubblico ministero di Roma Paolo Ferraro. Il provvedimento è stato adottato con una procedura d’urgenza, motivata dalla asserita gravità ed attualità dell’inidoneità del magistrato ad adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio; dopo la decisione del CSM di sospenderlo per quattro mesi dal servizio per gravi motivi di salute, il magistrato decide di rendere pubblica la sua vicenda cominciata quando nel 2008 andò a vivere nella città militare della Cecchignola, a Roma; pertanto ad oggi Paolo Ferraro rimane sospeso per quattro mesi per motivi di salute, nonostante lui si dichiari perfettamente abile e a suo sostegno ci siano diverse perizie mediche che lo certificano; i difensori del pubblico ministero denunciano l’anomalia dell’azione del CSM e hanno presentato ricorso al Tar del Lazio per denunciarne l’illegittimità. In particolare gli avvocati Mauro Cecchetti e Giorgio Carta hanno espresso forti critiche verso il modus operandi del CSM nei confronti del loro assistito; si legge sul sito sopra citato: “Il procedimento cautelare seguito dal Csm risulta non solo costellato di violazioni delle garanzie difensive, ma addirittura atipico, perché non previsto da alcuna norma. Non risulta fondato su alcuna perizia medica, se non una risalente al 2008 che, peraltro, attestava l’idoneità allo svolgimento di attività professionali anche complesse”. Un particolare alimenta ulteriori sospetti nei due legali: “Il Csm – hanno riferito gli avvocati – ha stranamente ritenuto ininfluenti le numerose perizie mediche di parte, private e pubblica del 2011, attestanti la specifica idoneità ed anzi qualità intellettuale del magistrato, ed ha ignorato una denuncia analitica e argomentata depositata in atti, che evidenzia fatti gravissimi a suo danno patiti dal 2009 in poi”. Il pubblico ministero Paolo Ferraro non ha mai avuto provvedimenti disciplinari di alcun tipo, mentre ha sempre avuto giudizi di ottimo rendimento, occupandosi di inchieste anche importanti; -considerato che: la signora Milica Cupic, cittadina italiana, lamenta una serie di comportamenti quanto meno opinabili di organi della giustizia militare e civile in ordine a fatti da lei denunciati; in più occasioni ed in data 4 ottobre 2003, la signora Cupic ha denunciato gravi fatti a sua detta ascrivibili a personaggi identificati e identificabili. In particolare riferiti al suo ex marito, generale a due stelle e dunque alta carica dell’Esercito italiano, che ella ebbe a denunciare già nel 1996 in relazione alla morte violenta della propria figlia e di un sottoufficiale dell’Esercito avvenuta il 3 febbraio 1986; secondo quanto riferito dalla stessa signora Cupic ella avrebbe altresì avuto modo di segnalare come un alto grado della Guardia di finanza avrebbe favorito la promozione al suo ex marito. Tale personaggio sarebbe poi diventato Comandante Generale della Guardia medesima; la Procura della Repubblica di Roma, dopo aver ricevuto l’esposto firmato dalla signora Cupic, lo avrebbe trasmesso al Procuratore Aggiunto, dottor Ettore Torri, come esposto anonimo, mentre, ad avviso dell’interrogante, ne risultava esattamente identificato il soggetto che lo aveva inviato; tali denunce sono state archiviate, ma è evidente che in tal caso la signora Cupic avrebbe dovuto essere indagata per calunnia, cosa che non è mai avvenuta; sembra per la verità che la denuncia della signora Cupic in merito alla morte del Sottoufficiale e della propria figlia siano state archiviate, giustificandole con il fatto che la signora sarebbe affetta da «sindrome delirante lucida» e che di ciò la procura militare, per quanto riferito dall’interessata, sarebbe stata informata nel 1996, in modo improprio dal Tenente Colonnello dottor Corrado Ballarini di Bologna. La Cupic ha avuto più incontri, di sua spontanea volontà con il Capitano psichiatra criminologo Marco Cannavici nel 1995 presso il Policlinico Militare Celio di Roma, il quale fece in effetti un rapporto al direttore del Celio pro tempore sullo stato psicologico della signora, nel quale tuttavia mai pronunciò la diagnosi che avrebbe portato all’archiviazione; in data 15 gennaio 2005, la signora Cupic presentò alla procura militare di Roma una formale denuncia contro il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, generale Giulio Fraticelli, per «omissioni in atti d’ufficio», in relazione alle denunce presentate nei confronti dell’ex marito ed alla documentazione a suo dire inviata al generale Pompegnani. Il generale Fraticelli avrebbe comunicato alla signora Cupic di aver relazionato al procuratore Intellisano, il quale, peraltro, in un incontro avvenuto con la Cupic il 7 dicembre 2004, negò di aver mai ricevuto alcuna cosa; della denuncia di cui sopra esiste traccia nella lettera che la Procura militare della Repubblica presso il tribunale militare di Roma ha inviato allo studio legale Lombardi in data 16 maggio 2005, (Numero 8/C/04INT «mod. 45» di protocollo) a firma del Procuratore Intellisano; nel dicembre 2004 la Cupic ebbe a presentare una denuncia alla Procura Militare contro il Tenente Colonnello Ballarini inviandola al A.G. Maresciallo Cervelli; considerato infine che la sospensione del dottor Ferraro, improvvisamente ritenuto inadatto ad adempiere convenientemente ed efficacemente ai doveri del proprio ufficio, appare all’interrogante di dubbia legittimità, si chiede di sapere: di quali informazioni disponga il Governo sui fatti esposti in premessa; quali iniziative di competenza intenda adottare.”
Il 9 agosto 2011 Giovanni Cirillo lascia da un giorno all'altro il tribunale di Teramo. A sorpresa, nel pieno delle indagini sul delitto di Melania, il Csm lo manda a presiedere la Corte d'Assise di Giulianova. Ma lui non molla del tutto. Ed affida a Vanity Fair un'intervista che avrebbe dovuto imprimere la giusta accelerazione alle indagini. E invece è caduta nel vuoto. Il giudice parla con la giornalista di Vanity appena due ore dopo aver lasciato l'incarico: «da due ore - esordisce - non me ne occupo più, quindi non ho il dovere del silenzio». Cirillo ha ragionato a lungo sulle ragioni alla base del delitto. Sa che la pista della gelosia traballa. E spiega perchè: «il movente passionale ipotizzato dai magistrati di Ascoli (su cui è interamente basata l'ordinanza di custodia cautelare del pm Monti), l'idea che Parolisi fosse finito in un “imbuto”, stretto fra moglie e amante, non corrisponde alla sua condizione». Di più: «Parolisi non era un uomo disperato, lui con i piedi in due scarpe ci stava a meraviglia e non avrebbe mai lasciato entrambe. I pianti continui con l'amante erano finti, lo scrivono anche i carabinieri nelle intercettazioni: “Finge di piangere”. Inoltre, ha avuto fino all'ultimo rapporti con la moglie. Il movente è un altro». Non può spingersi oltre, Cirillo, consapevole com'è di dover rispettare il lavoro che ha ormai lasciato ai colleghi. Ma uno scenario ampiamente logico e credibile prende corpo dalle sue parole: «Melania - dice il gip – è stata uccisa perché aveva scoperto un segreto inconfessabile, forse legato alla caserma dove Parolisi lavorava. In tutta l'indagine resta un margine di dubbio sul fatto che Parolisi abbia accompagnato la moglie nel boschetto e lì sia intervenuta una persona che, però, non ha lasciato tracce di sè». Questo, aggiunge Cirillo, «sposterebbe tutto su un piano di premeditazione a aprirebbe scenari inquietanti, se Salvatore Parolisi stava rendendo conto a qualcuno di qualcosa che non sappiamo, se la moglie aveva scoperto qualcosa e lui è stato costretto a portarla lì». Non sapremo mai come sarebbero andate avanti le indagini se fosse stato il gip Cirillo a condurle in porto nei lunghi mesi che hanno preceduto il rito abbreviato per Parolisi. Nei primi giorni di giugno 2011 al 235esimo Reggimento Piceno fa ritorno la soldatessa Laura Titta, napoletana, che proprio presso quel reparto di stanza alla caserma Clementi era stata addestrata nel 2009. Dopo un anno di servizio a Napoli, ormai congedata, stranamente fra aprile e maggio fa domanda per tornare ad Ascoli. Tanto nel 2009 quanto nel giugno 2011, dentro quella caserma l'addestratore delle reclute femminili è il caporal maggiore Parolisi. Ma quando il 14 giugno le forze dell'ordine inviate dalla Dda partenopea arrivano alla Clementi per arrestare la Titta nell'ambito delle indagini sul boss Michele Zagaria, il fresco vedovo Parolisi dichiarerà agli inquirenti ascolani che lui la Titta non la ricorda, non l'ha mai frequentata. E tanto basterà, tanto sarà sufficiente ad allontanare l'immagine dei boss che estendono il loro potere nei reparti delle caserme, infiltrandosi tra le nostre forze armate. La reputazione dell'esercito, anche stavolta, è salva. Anche perché nessuno fra i tanti militari che erano in quell'area il 18 aprile, a quell'ora, per esercitazioni, ha sentito nulla, neppure un gemito della donna colpita con 37 coltellate. E per tutti va bene così.
Poi c'è un'altra donna. La cui storia, ben al di là di tutte le vere o presunte amanti di Parolisi, serve a chiarire i contorni degli inconfessabili traffici che probabilmente andavano avanti da tempo in quella, come forse in altre caserme italiane. Il 13 agosto del 2011 Alessandra Gabrieli, 28 anni, caporalmaggiore dei parà nell'esercito italiano, viene arrestata a Genova, la sua città, per spaccio di eroina. Il volto segnato dalla droga, la ragazza racconta agli investigatori: «mi hanno iniziato all'eroina alcuni militari della missione Isaf di ritorno dall'Afghanistan. È successo nel 2007 ed eravamo nella caserma della Folgore a Livorno. Ritengo che quello stupefacente, molto probabilmente, venisse portato direttamente dall'Asia». La giovane, che a settembre è stata condannata in primo grado a tre anni e mezzo di reclusione, aveva raccontato agli inquirenti che quanto capitato a lei era già successo ad altri colleghi. Aprendo di fatto la strada ad un'indagine della magistratura militare sui traffici nelle caserme italiane di droga proveniente dall'Afghanistan, che ne è notoriamente il primo produttore al mondo, con un fatturato salito alle stelle dopo l'arrivo delle forze Isaf. Altra centrale di smercio per hashish e dintorni in arrivo dalle “missioni di pace” deve poi essere stata un'altra caserma, quella degli Alpini a Tolmezzo, dove ha peraltro prestato servizio a lungo Salvatore Parolisi di ritorno dall'Afghanistan e prima di arrivare ad Ascoli. Ad aprile 2011, proprio nello stesso periodo in cui Melania viene assassinata, dentro la caserma di Tolmezzo qualcuno scopre che le canne dei fucili rientrati dall'Afghanistan sono imbottite di hashish. Un ritrovamento casuale, che porta alla scoperta di 360 grammi di sostanza stupefacente contenuta nei fucili. Un metodo ingegnoso, che ricorda tanto l'arte di arrangiarsi. Fatto sta che nessuno si presenta a ritirare quei fucili, benché la notizia delle indagini non fosse stata ancora diffusa. Unico indagato, un militare nato a Capua, che però nega ogni addebito. Ad oggi non si sa nulla né dell'inchiesta aperta dalla Procura militare, né di quella condotta dalla magistratura ordinaria, dopo che i fascicoli erano stati trasferiti da Tolmezzo a Roma. Indizi, solo indizi. Ma come non soffermarsi sulla loro evidenza? Perché ostinarsi a considerare un “depistaggio” quella siringa conficcata sul petto dilaniato di Melania, con accanto un laccio emostatico? «Quasi un marchio - commenta un avvocato del vesuviano da sempre alle prese con omicidi di camorra - quella siringa sul petto. Interpretando bene certi segnali, farebbe pensare più ad una tremenda punizione per il marito, con relativo avvertimento per gli altri, che alla necessità di sopprimere un testimone scomodo, cosa che generalmente i clan fanno con modalità meno appariscenti». E tutto questo, spiegherebbe anche le frasi che Parolisi dice nei primi minuti dopo aver denunciato la scomparsa della moglie («me l'hanno presa»), o le frasi che bofonchia con rabbia da solo in macchina («gli devo strappare il cuore dal petto, mi devo fare trent'anni ma lo devo fare»), e infine lo scambio di battute con la sorella Francesca (lei: «ora esce fuori tutto». E lui: «mi dispiace che ci ha rimesso Melania»). Salvatore sa. Conosce il volto degli assassini, di cui è stato in qualche modo complice?. Ma sa ancor meglio che non può e non deve parlare. E' la “legge” ferrea della camorra. Se parli, tu o i tuoi familiari prima o poi farete la stessa fine.
E a proposito di morti improvvise nell'esercito, sempre in quella tarda primavera del 2011, il 4 giugno, a Kabul viene ucciso il tenente colonnello Cristiano Congiu in circostanze che lasciano aperta la strada a molti dubbi. Se infatti l'esercito si affretta a precisare che si è trattato di un delitto di criminalità comune (avrebbe difeso una donna dagli “scippatori” in suolo afgano...), va ricordato subito che in quel bollente contesto mediorientale Congiu si occupava precisamente di segnalare e consegnare alla giustizia gli artefici dei traffici di stupefacenti, forte di una lunga esperienza in materia. L'aveva acquisita, forse, nei lunghi anni in cui era stato in servizio a Napoli, caserma del Rione Traiano. Un'ombra si allunga, inoltre, su quell'ultimo messaggio di Cristiano affidato alla sua pagina Facebook: «Qualcuno mi vuol far tacere». Scrive il Messaggero all'indomani dell'agguato che «la sua morte potrebbe quindi essere legata alla sua attività di investigatore, un agguato studiato nei minimi particolari per farlo tacere». Sono state aperte ben due inchieste su quei fatti, una della magistratura e l'altra dell'Arma dei carabinieri. Ad oggi, nulla è stato reso noto sui risultati. Congiu, che era balzato alle cronache per aver arrestato un pericoloso esponente dei Casalesi, quel giorno a Kabul aveva ricevuto la visita di una donna americana. Così sintetizza Peacereporter i contorni finali del giallo: «Rimane senza risposta da parte del ministero della difesa l'interrogativo della presenza in quella zona del militare e della sua ospite statunitense, in visita a una miniera di smeraldi a cinque ore da Kabul». L'informatissimo Corsera.it ha da tempo messo in relazione l'elementare puzzle tra l'atroce fine di Melania, l'omicidio Congiu, la presenza di Laura Titta alla Clementi e perfino il “suicidio” di Marco Callegaro, che a metà 2010 aveva denunciato sprechi e strani movimenti nel battaglione dell'esercito di stanza a Kabul. Tutti elementi che, a parte il coraggioso giudice per le indagini preliminari Giovanni Cirillo, nessuno fra gli inquirenti ad Ascoli o a Teramo ha messo in connessione fra loro per dare una spiegazione al massacro di Melania e trovare un movente ben più convincente rispetto a quello del presunto folle amore per la soldatessa: un sentimento che le stesse intercettazioni mostrano invece fragile, se non addirittura inesistente («ma chesta è scema?», dice Salvatore parlando con se stesso di Ludovica). E c'è ancora una frase, detta a botta calda, che accomuna Parolisi ad un'altra protagonista di un caso recente, anche lei imputata per omicidio. Salvatore Parolisi la dice, subito dopo la scomparsa di Melania, all'allora amico Raffaele Paciolla: «me l'hanno presa...». Pari pari l'esclamazione di Sabrina Misseri dopo la sparizione della cugina Sarah Scazzi: «l'hanno presa...».
Chi aveva preso Sarah? E perchè? Anche qui, la cortina di silenzio sulle tante incongruenze della ricostruzione ufficiale, è diventata di piombo. Cristallizzata, per giunta, dalle mille sequenze realizzate per la tv ripercorrendo quasi esclusivamente le carte dell'inchiesta giudiziaria. Nessuno, insomma, che provi almeno una volta a porre apertamente domande sugli stessi investigatori. I quali spesso non guardano dentro quei piccoli squarci rivelatori, illuminanti di un'altra verità. Quella che non si può dire. Forse qualcuno è disposto a scontare 30 anni di carcere piuttosto che svelare i veri mandanti. Un terrore imposto a chi ben conosce logiche e linguaggi della malavita organizzata.
IL FALLIMENTO DEL SISTEMA INVESTIGATIVO. BREMBATE SOPRA: QUANDO GLI ALTRI SIAMO NOI. IL DELITTO DI YARA GAMBIRASIO.
DOLORE E DELUSIONE
La madre di Yara scrive a Napolitano e critica le indagini sul caso. La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia.
Dolore e sconforto. Sentimenti troppo forti per continuare a rimanere chiusi a doppia mandata nel proprio cuore. Scrive Cesare Zapperi, su “Il Corriere della Sera”. Mamma Maura lo ha fatto per quasi due anni, ma adesso non ce la fa più. E lo scrive, in una lettera accorata, al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L'assassino di sua figlia Yara non ha volto. Tante le piste, tante le supposizioni, tante le amarezze sopportate dal giorno in cui il corpo della ragazzina è stato trovato in un campo incolto di Chignolo d'Isola. Ma vedere che la Giustizia non approda a nulla è troppo anche per chi non ha mai perso occasione di manifestare fiducia negli investigatori e negli inquirenti. Proprio per questo l'iniziativa è clamorosa. Mamma Maura si rivolge direttamente al Capo dello Stato, come rivelato dalla trasmissione «Quarto grado». Lo fa da semplice cittadina che si rivolge alla massima autorità. Il tono è pacato ma fermo. Le parole misurate, gli aggettivi calibrati. Ma da quelle poche righe emerge forte, senza inutili orpelli, l'insoddisfazione per il modo in cui finora sono state condotte le indagini sull'omicidio di Yara. Senza assumere i toni del «j'accuse», la lettera sottopone a Napolitano i dubbi e le perplessità che più volte sono state sollevate anche dagli organi di informazione. Le diverse piste battute: dal cantiere di Mapello ai sospetti su Mohamed Fikri fino al figlio illegittimo di un autista di Gorno morto ormai da parecchi anni. La battaglia, legittima certo, ma poco comprensibile all'uomo della strada, tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari. I tempi infiniti per avere risposta anche sulle iniziative del proprio legale. Mamma Maura rende partecipe il presidente della Repubblica del dolore provato in questi due anni (Yara fu trovata cadavere a Chignolo il 27 febbraio del 2011) e gli esterna il suo sconforto. Non si aspetta che la soluzione arrivi dal Quirinale. Non cerca a Roma le risposte che tardano ad arrivare (se mai arriveranno) da Bergamo. È lo sfogo di una cittadina amareggiata e delusa. Il grido di dolore di un'intera famiglia che ha sempre tenuto un atteggiamento molto composto. I Gambirasio hanno dovuto farsi forza. All'inizio non avevano voluto nemmeno affidarsi a un avvocato, come pure qualcuno aveva consigliato loro anche solo per mantenere il controllo sull'operato degli inquirenti. Poi, si erano convinti ad affidarsi ad Enrico Pelillo, il legale che dal momento in cui fu effettuata l'autopsia li segue. Ed è toccato a lui sollecitare, come parte lesa, il pubblico ministero ad effettuare nuovi accertamenti. Di qui anche la soluzione di affidarsi a un consulente del calibro dell'ex ufficiale del Ris di Parma, Giorgio Portera, che ha portato nuovi elementi all'attenzione degli inquirenti. Ma era stata proprio Maura Gambirasio ad esternare, rompendo il silenzio fin lì rigorosamente osservato, in aula davanti al giudice per le indagini preliminari Ezia Maccora, lo sconcerto per la mancata verifica delle traduzioni della frase di Fikri che hanno ingenerato più di un sospetto. «Posso dire una cosa?» si era fatta avanti con tono fermo in Tribunale. «Da mamma mi chiedo com'è possibile che le traduzioni siano così diverse», aveva chiesto rivolgendosi al giudice. Un paio di mesi prima, ancora lei aveva sussurrato: «Se questo ragazzo non c'entra nulla, sarò io la prima a chiedergli scusa». E invece, rimane ancora tutto aperto. Il pubblico ministero che vuole l'archiviazione del marocchino. Il gip si oppone. E il mistero, insieme al dolore di una madre e di una famiglia, rimane profondissimo.
La madre di Yara, insomma, avrebbe manifestato tutto il dolore e lo sconforto perché, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia, scrive “Il Secolo XIX”. "Cosa è successo quel giorno a Brembate? Qualcuno ce lo dovrà dire?''. E' questo il commento del sindaco Stefano Locatelli alla notizia della lettera scritta dalla madre di Yara Gambirasio al Presidente della Repubblica per lamentare l'assenza di risultati e le piste nulle dell'inchiesta. ''Una cosa è la fiducia, dei cittadini come della famiglia, che non è mai venuta meno, un'altra è produrre delle risposte'', ha detto il sindaco, che già in passato aveva con forza auspicato che venisse chiarito l'accaduto. ''Ringraziamo tutti per il lavoro svolto - ha proseguito - ma è legittimo chiedere risposte, capire dove si è sbagliato e dove si sono fatti dei passi avanti, capire se le risorse spese sono state bene o male indirizzate''. Il primo cittadino ha precisato che «non chiediamo giustizia e non abbiamo rabbia, ma è ovvio che chi era a capo delle attività renda conto, bisogna capire cosa non ha funzionato, se il caso è chiuso o se si può ancora arrivare alla verità. Non sapevo della lettera, ma possibile che bisogna sempre fare appelli? Ognuno faccia il proprio dovere, e se qualcuno ha sbagliato ci sono quelli preposti a valutare».
Infine, Locatelli ha ricordato come Napolitano «fu sin da subito vicino alla comunità», tanto che «telefonò nei primi mesi delle indagini per esprimerci la sua vicinanza dopo alcune polemiche seguite al fermo di Fikri».
26 novembre 2010, la scomparsa - 26 febbraio 2011. Yara, finita la speranza. Come Sarah Scazzi di Avetrana, i fratellini di Gravina di Puglia, Ciccio e Tore, Elisa Claps ed Ottavia de Luise di Potenza. Come migliaia in Italia.
Trovato il corpo: era a 300 metri dal Centro delle ricerche. Incredibili analogie col caso dei fratellini di Gravina, trovati morti in un pozzo, nel centro del paese, dove nessuno aveva guardato.
E’ andata in onda l’8 febbraio 2012, un nuovo appuntamento con Chi l’Ha Visto?, la trasmissione di Rai Tre condotta da Federica Sciarelli, che tratta casi di cronaca e di scomparsa. E’ andato in onda un interessante resoconto sul caso di Yara Gambirasio: oltre allo sfogo di Belotti è stata mostrata la lettera di due sostenitori delle forze dell’ordine che esprimono tutto il loro dispiacere per come sono state condotte le indagini fino a questo momento. Le perplessità sulle indagini del caso Yara Gambirasio hanno visto protagonista anche l’assessore regionale Daniele Belotti, il quale si è detto poco convinto di quello che è successo fino ad ora, le indagini sarebbero costellate di errori e ciò sarebbe anche dovuto alla storica rivalità tra polizia e carabinieri. Tutto sarebbe partito dalle dichiarazioni di alcune persone alle quali sarebbe stato prelevato il DNA: ebbene ad alcuni sarebbe stato chiesto il prelievo per il DNA per ben due volte (sia dalla polizia che dai carabinieri), segno che le due forze non starebbero collaborando. Se così fosse si spiegherebbero alcune cose: il ritardo nelle indagini, le incongruenze e i quasi 10mila prelievi per esame del DNA che hanno portato (ancora oggi) a scarsi risultati. A Chi l’Ha Visto è stato fatto il punto sulle indagini del caso e ancora una volta ci si è chiesti come mai si brancoli ancora nel buio. Perplessità anche sul comportamento del pm, colpevole di non aver voluto consentire alla famiglia di Yara Gambirasio l’accesso ai documenti delle indagini ma anche di aver stabilito troppo presto il dissequestro del campo dove la piccola Yara è stata ritrovata.
A Chi l’ha visto” continuano ad arrivare, da varie zone d’Italia, segnalazioni di persone che vivono lontano da Brembate alle quali gli inquirenti hanno chiesto un campione di Dna. Altre, invece, pur avendo avuto a che fare con la palestra di Yara proprio nel giorno dell’omicidio, hanno contattato il programma per dire che non sono state interpellate. Dopo che la famiglia Gambirasio ha nominato un legale e un consulente genetico, il prof. Giorgio Portera, biologo e genetista forense dell’università di Milano, dubbi sulle indagini sono stati espressi clamorosamente da una raccolta di firme. È stata lanciata dall'assessore regionale lombardo a Territorio e Urbanistica Daniele Belotti, che ha deciso di inviare al ministro della Giustizia Paola Severino e per conoscenza al vicepresidente del Csm, al procuratore generale della Corte d'Appello di Brescia e al procuratore aggiunto di Bergamo, la richiesta di sostituire o "in alternativa" affiancare al pubblico ministero Letizia Ruggeri "un pm di provata esperienza e capacità". Nel documento sono citati "l'affrettato dissequestro dell'area in cui è stato ritrovato il corpo, il mancato sequestro" e la mancata "perquisizione dell'auto e del furgone con cui Mohammed Fikri e i suoi amici si erano imbarcati diretti a Tangeri; il mancato controllo su un centinaio di operai stranieri che lavoravano al cantiere di Mapello; la mancata richiesta di rogatoria internazionale in modo da poter verificare se il telefonino di Yara fosse stato utilizzato all'estero; la mancanza di coordinamento tra le varie forze dell'ordine", tanto che "diversi Dna risulterebbero essere stati raccolti due volte, sia dai carabinieri che dalla polizia". Belotti ha anche definito "inspiegabile” il diniego opposto alla richiesta fatta dal prof. Portera, a nome della famiglia Gambirasio, di poter accedere agli atti dell'inchiesta. Intervistato da “Chi l’ha visto?”, il consulente di parte ha detto che la famiglia di Yara, pur mantenendo la massima fiducia negli inquirenti, vuole sapere che cosa è stato fatto finora dal punto di vista scientifico e non ha accolto positivamente il rifiuto. Portera ha ribadito che la richiesta, fatta come parte offesa, ha uno scopo collaborativo e che continua a sperare possa essere accolta al più presto.
Acceso dibattito, anche nella puntata del 3 febbraio 2012 del ciclo di "Quarto Grado", in merito al caso di Yara Gambirasio ed alla richiesta di sostituzione o affiancamento del pm titolare delle indagini, Letizia Ruggeri, fortemente criticata per la gestione dell'inchiesta, nella quale sarebbero stati accumulati ritardi, malfunzionamenti ed errori. Di fatto, le indagini sull'omicidio della tredicenne di Brembate sono comunque ad un punto fermo, né si comprende, al momento, che direzione intendano prendere. Tema conduttore della puntata, la petizione dell'assessore regionale della Lombardia a Territorio e Urbanistica, Daniele Belotti, il quale si è fatto promotore della petizione indirizzata al ministro della Giustizia, Paola Severino per sostituire il pm che indaga sulla morte di Yara o l’affiancamento di un magistrato di provata esperienza, per scoprire la verità. Nella vicenda è intervenuta anche la Associazione Nazionale Magistrati, che ha preso le parti del pm Ruggeri, ritenendo assolutamente inopportuna l'iniziativa dell'assessore Belotti, ma fatto sapere anche di non voler prendere una posizione sulla gestione del caso Gambirasio, in quanto caso delicatissimo e tutt'ora in corso. Un'intromissione sarebbe lesiva della deontologia professionale. Ma le adesioni alla petizione stanno però aumentando giorno dopo giorno, soprattutto da parte di sindaci di molti paesi ed esponenti politici che condividono questa posizione.
Yara, il pm Ruggeri querela Belotti "Procederemo per diffamazione". Secondo “Il Giorno” la denuncia non è ancora stata inviata alla Procura di Venezia, ma il pm Letizia Ruggeri querelerà per diffamazione l’assessore regionale leghista Daniele Belotti, che ha lanciato una petizione fra gli amministratori bergamaschi per chiedere la sostituzione o, in alternativa, l’affiancamento con un pm di «provata esperienza», del sostituto procuratore che coordina le indagini sul delitto di Yara Gambirasio, la 13enne di Brembate Sopra scomparsa il 26 novembre 2010 e il cui cadavere venne ritrovato tre mesi dopo, il 26 febbraio del 2011, in un campo incolto di Chignolo d’Isola. Il magistrato non ha gradito soprattutto la frase in cui, parlando di lei, si scrive «conferma, purtroppo, un basso profilo sia tecnico che morale per un caso di simile rilevanza». La conferma arriva dal legale del magistrato, l’avvocato Roberto Bruni. «L’intenzione della dottoressa Ruggeri è quella di procedere con la querela - spiega -. Ho letto, inoltre, che Belotti vuole inviare la petizione anche al ministro della Giustizia, al presidente del Consiglio superiore della magistratura, al procuratore generale della Corte d’Appello di Brescia e al procuratore aggiunto di Bergamo, Massimo Meroni. E questo fatto, secondo me, costituisce un’ulteriore diffamazione, in quanto altre persone verrebbero a conoscenza della frase ingiuriosa». Dal canto suo Daniele Belotti annuncia che andrà avanti con la sua iniziativa. «Anche stamattina - sottolinea - mi sono arrivate le adesioni di diversi amministratori. Ma confermo che la petizione la firmerò solo io. Pentito per quella frase? Assolutamente no. Il mio è stato uno sfogo, dettato dalla delusione e dalle modalità con cui il magistrato ha negato alla famiglia, con solo tre righe di spiegazione, l’accesso agli atti delle indagini. Sono convinto che anche l’aspetto umano abbia un valore. Mi riferivo, insomma, al caso specifico, alla condotta specifica, non certo alla persona della dottoressa Ruggeri, che neppure conosco. Molte e-mail che ho letto in questi giorni mi danno ragione e mi invitano a non desistere». «Per quanto riguarda, invece, l’intervento dei giudici che hanno ricordato che un intervento della politica sulla magistratura non ha senso e non è previsto dall’ordinamento, do loro ragione - conclude Belotti -. È tutto vero, ma mi chiedo anche se deve arrivare un assessore regionale a metterci la faccia prima che la giustizia si muova per dare un supporto al pm del caso Yara». Belotti respinge invece l’accusa di aver dato vita all’iniziativa per ottenere visibilità politica. «A chi dice questo, rispondo che quando si intraprendono certe azioni la visibilità è niente rispetto ai rischi che si corrono. Ho sentito in forma anonima molti agenti di polizia che condividono tanti miei dubbi. Se tanti la pensano così, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di dirlo, significa che i rischi sono molti».
Il tenue filo a cui erano ancora aggrappate le speranze dei genitori di Yara Gambirasio si è spezzato nel pomeriggio di sabato 26 febbraio 2011, quando è stato rinvenuto il corpo senza vita della 13enne scomparsa il 26 novembre 2010 da Brembate Sopra. Il cadavere della ragazzina, praticamente scheletrito, giaceva in un campo in località Madone, a pochi chilometri da casa sua, in un'area incolta, in prossimità del Centro di coordinamento delle ricerche che dista neppure 300 metri dal luogo del ritrovamento. Il corpo della tredicenne è stato rinvenuto in una campo tra Madone e Chignolo d'Isola, a una decina di chilometri da Brembate di Sopra, il paese in cui la ragazza viveva con la famiglia, e a poche centinaia di metri dal centro di coordinamento delle ricerche. Era abbandonato in un campo incolto, fra l'erba alta, in posizione supina con braccia e gambe leggermente allargate. Sul collo e sulla schiena, stando a prime informazioni, sarebbero stati trovati segni di un'arma da taglio, forse un coltello. Yara era ferita anche sui polsi, cosa che potrebbe testimoniare un'eventuale colluttazione della ragazzina con il suo o i suoi aguzzini. Le ferite sul corpo dell'adolescente, però, potrebbero anche essere segni dovuti all'azione degli agenti atmosferici sul cadavere. Ed è giallo su come il suo corpo possa essere arrivato in quel campo. C'è chi sostiene che possa essere stato portato lì addirittura nella mattinata. Gli investigatori hanno ascoltato un testimone che dice di aver visto un'auto partire a tutta velocità dal sentiero dove è stato rinvenuto il corpo. Lo stato di decomposizione, però, sembra rendere insostenibile questa tesi. Il corpo si presenta in parte mummificato e in parte scheletrito. C’era anche il porta chiavi e l’apparecchio ortodontico, l'ipod, la sim e la batteria del cellulare che la ragazzina portava al momento della scomparsa. Essendo in stato di decomposizione avanzato, a dire dei primi soccorritori, il cadavere sembrava particolarmente fragile. Gli accertamenti immediati dovranno stabilire se il corpo sia rimasto in quel posto sin dal giorno della scomparsa della ragazzina oppure se vi sia stato trasportato in seguito. La prima ipotesi getterebbe pesanti ombre sul lavoro degli investigatori: in tal caso vi sarebbero analogie col caso dei fratellini di Gravina trovati morti in un pozzo a due passi dal municipio del loro paese e cercati altrove, mentre a tutti sfuggiva quello che avevano sotto il naso.
Il cadavere era in avanzato stato di decomposizione e il riconoscimento formale è venuto dai genitori Maura e Fulvio Gambirasio, all'istituto di Medicina legale di Milano. E’ stato forse il momento più atroce che mai nessun papà o mamma al mondo sicuramente vorrebbe vivere. Prima di varcare l'ingresso dell’obitorio la signora Maura straziata dal dolore si è rivolta al capo della polizia di Bergamo, il questore Vincenzo Ricciardi: «Perché in questi mesi ci avete detto che Yara era viva? Sulla base di cosa? È stata trovata morta dopo tre mesi. Se per di più il corpo è sempre rimasto nel luogo dove è stato scoperto che cosa vi portava a dire che era ancora viva?» Secondo gli inquirenti è più probabile che Yara sia stata uccisa a coltellate, dopo un tentativo di autodifesa, nelle ore immediatamente successive alla sua sparizione e che il suo corpo sia rimasto tra le sterpaglie di Chignolo d’Isola per i successivi tre mesi. Appunto. In quel campo effettuate soltanto ricerche marginali. Gli inquirenti avrebbero accertato che le ricerche in quel campo furono condotte il 12 dicembre 2010 da un gruppo di circa 15 persone che in quella giornata si occupò delle zone di Bonate Sopra (l'area del tiro al piattello), Terno D'Isola (le aree adiacenti il cimitero) e Chignolo D'Isola (la zona di via Bedeschi). Il gruppo delle ricerche, che comprendeva dieci volontari della Protezione Civile, due carabinieri e almeno un'unità cinofila, si sarebbe diviso in due diverse direzioni: una che portava verso un'area di alberi, alle spalle del campo dove sono stati trovati i resti, e una verso un torrente che scorre parallelo allo sterrato."Pensavo di trascorrere un pomeriggio di distensione, invece la notte non ho dormito. Sono molto scosso, sto male". A parlare è Ilario Scotti, impiegato 48enne di Bonate Sotto, l'uomo che quel sabato pomeriggio verso le 15.30 ha trovato il corpo di Yara Gambirasio a Chignolo d'Isola. "E' stato solo un caso - ripete nell'intervista pubblicata da L'Eco di Bergamo - un caso fortuito. Di solito faccio atterrare l'aeroplanino ai miei piedi, sull'asfalto, non nel prato. Ma l'aereo ha compiuto una traiettoria anomala, non volava bene così l'ho fatto scendere nel campo, per evitare che cadesse e si rompesse". Quel modellino è così finito a terra, a un metro di distanza dal corpo di Yara. "Mi sono addentrato nel campo per recuperarlo - spiega - e quando l'ho trovato, a circa un metro ho notato qualcosa tra le sterpaglie. La prima impressione è di aver visto un mucchio di stracci buttati lì da qualcuno. Ma appena mi sono reso conto che si trattava di una persona ho chiamato il 113". Ilario Scotti conosceva la storia di Yara, ma al momento non pensava fosse la 13enne scomparsa tre mesi prima da Brembate Sopra. "All'inizio credevo si trattasse di un ragazzo, solo dopo l'arrivo degli inquirenti mi sono reso conto che poteva essere lei". La zona è molto frequentata e gli uomini della protezione civile l'avevano già perlustrata: possibile che quel corpo sia rimasto lì tre mesi senza che nessuno lo vedesse? Per l'appassionato di aeroplanini sì. "Se il mio aeroplanino non fosse finito proprio in quel punto non l'avrei mai vista, era nascosta dalle sterpaglie".
A centinaia, intere famiglie con bambini, si avviano in processione verso il luogo dove è stata ritrovata la piccola campionessa di ginnastica ritmica. C’è pietà, c’è dolore, c’è anche pura curiosità, la stessa, inevitabile, che ogni volta, in occasioni del genere alimenta il turismo del macabro, come ad Avetrana. Un altarino improvvisato. Decine di mazzi di fiori bianchi lasciati accanto al nastro che transenna la zona.
A Brembate è in vigore un’ordinanza comunale che vieta ai cronisti di stazionare davanti a quella che è stata la residenza della piccola vittima.
«Oggi 15 gennaio 2011 alle ore 15, visti la situazione venutasi a creare, i comunicati non corrispondenti alla verità e il coinvolgimento di persone che nulla hanno a che vedere con il grave fatto accaduto, si chiede l’assoluto silenzio stampa per dar modo agli inquirenti e alle forze dell’ordine di svolgere l’attività investigativa con maggior serenità e tranquillità». Ancora più conciso il comunicato del sindaco che «invita gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio». Sembra la giusta presa di posizione della famiglia di Sarah Scazzi o del sindaco di Avetrana. La comunità, a causa dell’evento delittuoso, ha subìto grave danno d’immagine per colpa di un certo modo di fare informazione. Invece no. Da questi nessuna ribellione contro i gossippari. Nonostante l’attacco mediatico sia stato meno strumentale e pregiudizievole ai danni di Brembate di Sopra, senza comparire come avevano fatto per l’appello del 28 dicembre, Fulvio Gambirasio e Maura Panarese si affidano a un comunicato. Appongono le loro firme e lo consegnano al sindaco Diego Locatelli che lo legge in una conferenza stampa organizzata nella sala consiliare. Ancora più conciso il comunicato del sindaco del 16 gennaio 2011 che invita la stampa, le troupe televisive in particolare, ad abbandonare il suolo di Brembate di Sopra. Dopo di che è la volta di un dipendente della Lopav-Pima, una ditta di coperture di Ponte San Pietro. I titolari sono stati blindati in una inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli per traffico di droga e riciclaggio. Si era parlato di rapporti di lavoro fra Fulvio Gambirasio e la Lopav e che il rapimento della figlia potesse essere interpretato come una ritorsione nei suoi confronti. Una ipotesi che non si era mai concretizzata. Alcune trasmissioni televisive, «Chi l’ha visto?» e «Quarto grado», hanno però irritato i dipendenti della Lopav che hanno fissato la loro protesta in un comunicato. In una trentina si sono presentati alla conferenza stampa. «Sono in corso attività ed indagini giuridiche nei confronti dell’amministratore della società Lopav-Pima (attualmente detenuto nel carcere di Bergamo). In attesa di verificare i fatti e la sussistenza di eventuali reati la società è gestita da un commissario straordinario nominato dal Tribunale. I dipendenti che lavorano per la società Lopav-Pima sono 110, l’indotto è di circa 250 persone. Siamo stati dipinti come “mafiosi, corrotti e persone non oneste”». E ancora: «In realtà siamo padri di famiglia, lavoriamo per guadagnare il nostro pane onestamente per le nostre mogli, i nostri figli e continuiamo a farlo con la dignità insegnataci dai nostri genitori. Il sistema mediatico sta creando un mostro inesistente allo stato dei fatti. Chiediamo il diritto e il rispetto di lavorare con tranquillità, senza dover essere additati da chiunque si avvicini ai nostri mezzi. Voi fate il vostro lavoro, con dignità e professionalità. Noi vorremmo fare altrettanto. Concedeteci questo sfogo: perché ogni volta che torniamo a casa la domanda dei nostri figli è “ma è vero papà che sei mafioso?”. Ditemi voi cosa possiamo rispondere. Vi ringraziamo ma è doveroso tutelare il nostro lavoro, i nostri figli e le nostre famiglie». Brembate di Sopra come Avetrana: stessa malasorte a causa di una giustizia inefficiente e di una informazione approssimativa.
Critiche su ricerche ed indagini formalizzate da Filippo Facci su “Libero-news”. Un tempo si scriveva: la polizia brancola nel buio. Oggi guai a scriverlo, e infatti nessuno l’ha sostanzialmente scritto per tre mesi: ma qualche parolina sulle indagini - domanda - ora almeno possiamo dirla? Oppure il rispetto sacrale per l’abnegazione dei nostri inquirenti deve esimerci dal giudicare demenziale ciò che ci sembra demenziale? Ieri i carabinieri sono tornati a recintare il terreno di Chignolo sul quale è stata trovata Yara, questo per ordine del pubblico ministero Letizia Ruggeri; ora: lasciamo anche perdere tutta la polemica sui controlli effettuati inutilmente almeno due volte (con i cani) senza che nessuno vedesse nulla, non facciamo innervosire ancora di più la Protezione civile di Bergamo, d’accordo, rispettiamo il silenzio stampa: ma qualcuno ci spiega il senso della cosa? Il sequestro è arrivato soltanto ieri, appunto, dopo il passaggio di decine di persone e troupe televisive: davvero l’analisi del terriccio sarà egualmente efficace e permetterà di capire se Yara sia stata lasciata lì subito dopo il delitto, consumato quasi certamente il 26 novembre, cioè subito, cioè tre mesi fa? E se è vero che i volontari che perlustrarono quella radura non sono sotto accusa, e che nei giorni scorsi sono stati ascoltati solo per poter escludere che Yara possa esser stata trasportata lì successivamente alla morte, diteci, in definitiva perché nessuno si è accorto del cadavere per tre mesi? La magistratura ha niente da rimproverarsi?
PISTE SUGGESTIVE E VANE. Lo chiediamo non per leziosità, ma proprio perché intanto, per tre mesi, rimiravamo l’impegno di chi organizzava battute di cani, fiumi e invasi dragati, elicotteri, georadar, intercettazioni e rilevazioni satellitari, piste estere, consulenze di genetisti, anatomopatologi, tecniche di reazione a catena delle polimerasi, piste suggestive ma che ora paiono rigirare su se stesse, come in tondo. «Stiamo ascoltando persone già sentite in precedenza» hanno fatto sapere gli investigatori di Bergamo. «Le attività di indagine non si fermano», ripetono. Beh, forse dovrebbero, perché per quanto «è un indagine complessa e stiamo lavorando su tante piste», come hanno pure detto ieri, dalla lista degli indagati non è neppure ancora stato cancellato Mohamed Fikri, l’operaio 22enne subito arrestato e subito rilasciato dopo aver addirittura fermato la nave dove viaggiava. C’è stata la pista dei parenti, degli amici, i tabulati telefonici, la pista dei pozzi, hanno preso il dna praticamente di tutti i pregiudicati del bergamasco, ora dicono - notare - che vorrebbero sottrarre il dna di alcuni soggetti a loro insaputa (per esempio: raccogliendo un mozzicone di sigaretta) e però per farlo occorrerebbe che il sospettato venisse indagato: ma «non ci sono indagati», fanno sapere. Chiaro come nebbia. Possiamo capire?
LE COLPE DEI CRONISTI. Ma certo che la colpa è anche di noi giornalisti: siamo noi che ingigantiamo e pompiamo e dilatiamo ogni singolo caso - ogni singola Yara - e mettiamo dunque una pressione terribile addosso a inquirenti e poliziotti e volontari e tutti quanti, siamo noi che facciamo articoli e servizi anche quando non c’è niente da dire, siamo noi che impieghiamo minuti per dire soltanto «nessuna novità di rilievo» o per rivelare che la famiglia di una ragazzina scomparsa ha ricevuto la visita della zia e della cugina. Siamo anche noi dei soggetti da circo (mediatico-giudiziario, d’accordo), ma non c’è niente di nuovo sotto il sole, in questo. Ci volete più seri? Fateci capire. Dateci una mano.
Altra stoccata su come sono state svolte le indagini viene data da Matteo Pandini e Matteo Magri su “Libero-news”. Il sostituto procuratore di Bergamo Letizia Ruggeri, che indaga sul caso della povera Yara Gambirasio, è andata in ferie due settimane dopo la scomparsa della tredicenne trovata cadavere il 26 febbraio 2011. La ragazzina era stata inghiottita dal buio il 26 novembre 2010, dopo essere uscita dal centro sportivo del suo paese, Brembate Sopra. Era lo stesso giorno, quello, in cui il procuratore della Repubblica di Bergamo Adriano Galizzi festeggiava le ultime ore di lavoro prima di andare in pensione dopo 49 anni di brillante carriera nella magistratura. Quella sera, il caso finisce sulla scrivania della dottoressa Ruggeri. Gli inquirenti si tappano la bocca e iniziano a lavorare immediatamente. Ben sapendo che i primi giorni sono quelli che spesso risultano decisivi per risolvere i casi. Sembrava fosse così anche per il dramma di Brembate Sopra, visto che sabato 4 dicembre viene bloccato un marocchino di 23 anni, Mohamed Fickri. Era su un traghetto salpato da Genova. Le accuse sono pesanti: sequestro di persona, omicidio e occultamento di cadavere. Lunedì 6 dicembre è interrogato dal gip e dal pm Ruggeri nel carcere di via Gleno, ma nel giro di un amen viene rilasciato con tante scuse. L’impianto accusatorio si regge soprattutto su un’intercettazione che si scoprirà essere stata tradotta male. Passano pochi giorni. 10 dicembre. Gli inquirenti rompono il silenzio e organizzano una conferenza stampa nell’ufficio del procuratore aggiunto Massimo Meroni. Arrivano giornalisti da tutta Italia, si fa fatica a trovare spazio, ma i taccuini non annotano una notizia che sia una. Il motivo è semplice: non c’è nulla da dire, al di là di un pronostico che si rivelerà tragicamente sbagliato: «Yara è viva? Per noi sì, non ci sono indicazioni contrarie» afferma Meroni. La Ruggeri già non c’è. Ha salutato tutti per andare in ferie, con la speranza di tornare più rilassata e pronta a risolvere il caso. Purtroppo, le indagini faranno registrare novità solo il 26 febbraio, col ritrovamento del cadavere in un campo di Chignolo d’Isola. A poche centinaia di metri dal comando della polizia locale che era stato trasformato in centro di coordinamento delle ricerche. Da lì, sono piovute critiche contro i molti volontari bergamaschi ritenuti incapaci di scovare il corpicino. Anche loro, effettivamente, si erano presi dei giorni di ferie dopo la drammatica scomparsa della giovane. Ma per cercarla, gratis. Tanto che sono stati difesi dal viceprefetto di Bergamo Sergio Pomponio, mentre il ministro Roberto Maroni ha parlato di «polemiche vergognose». «Dopo la vicenda della piccola Yara i magistrati dovrebbero dimettersi» perchè «se avessero impiegato per le ricerche le stesse risorse e tecnologie che hanno speso per indagare sulle ragazze dell'Olgettina forse Yara sarebbe ancora viva». È quanto afferma Daniela Santanchè, sottosegretario all'Attuazione del Programma, secondo cui la riforma della giustizia è «necessaria e urgente». «Tutti chiedono le dimissioni di tutti - osserva Santanchè -. A Berlusconi per il Rubygate, a Bondi perchè è crollato un muro marcio a Pompei, a Rosi Mauro per la gestione dell'aula del Senato» mentre «perchè - chiede - non si possono chiedere le dimissioni dei magistrati e dei procuratori? Li ha toccati la mano di Dio?». "L'assurdità e il livore che connotano tale dichiarazione - si legge in un comunicato diffuso dagli inquirenti - sono tali che la stessa non meriterebbe alcun commento da parte della Procura di Bergamo." «Rivendico la libertà di critica per un'indagine che si è dimostrata finora inadeguata. La magistratura non può pretendere di avere, oltre all'immunità per i propri errori, il diritto di non vedere il proprio lavoro essere messo in discussione». Così Daniela Santanchè, sottosegretario al Programma di governo, replica alla nota del procuratore capo di Bergamo, Massimo Meroni, in risposta alle critiche della deputata del Pdl sull'indagine per l'omicidio di Yara Gambirasio. «Mi sorprende che un alto rappresentante di questa casta - prosegue la Santanchè - voglia zittire un rappresentante del governo, quando i suoi colleghi intervengono quotidianamente e pubblicamente su questioni politiche e legislative che non dovrebbero riguardarli. Adesso - conclude l'esponente del Pdl - mi aspetto che oltre al mio silenzio chieda anche le mie dimissioni».
Yara forse è morta di botte, di freddo e di stenti in quel campo dove è stata trovata. E intanto nulla è certo su come, quando, chi è perchè.
Da Andrea Scaglia da “Libero-news” il reportage della conferenza stampa del 16 marzo 2011. "Ora, non è che uno vuol per forza prendersela con gli investigatori: trovare il colpevole di un delitto è faccenda affatto semplice, e il caso della povera Yara è apparso complicato fin dal principio. Però insomma, capita di assistere alla conferenza stampa organizzata dal procuratore capo di Bergamo, Massimo Meroni, e certo un po’ basito rimane. C’è da dire che Meroni è il capo della Procura, non colui che ha seguito l’indagine giorno per giorno, ma comunque: come da copione il giornalista inizialmente chiede se c’è una pista, un indizio, anzi una cerchia di persone verso cui s’indirizzano le indagini a tre mesi dall’omicidio, e il magistrato risponde con un secco «no». E in effetti è comprensibile, anche se una traccia ci fosse non sarebbe certo rivelata ai cronisti davanti a microfoni e telecamere. Poi però, dopo aver bacchettato i giornalisti poiché «si è oltrepassata la misura, non è possibile andare avanti per mesi sentendo chiacchiere pubbliche fondate sul nulla», ecco che arriva quell’altra frase che suona se non sprezzante quasi beffarda, «non ci sentiamo di escludere nessun sospetto in tutto il mondo». Cos’è, una battuta?
Ma, ancora, il cronista rimane comunque stupìto da quell’altra risposta. Viene chiesto al procuratore della situazione giudiziaria in cui attualmente si trova Mohammed Fikri, il manovale marocchino inizialmente sospettato del delitto. E il magistrato, quello che si lamenta delle chiacchiere sul nulla, risponde che «Fikri? Non credo che verrà richiamato dal Marocco. Se è indagato? Credo che la collega abbia richiesto l’archiviazione». Credo? Non credo? Ma scusi, a chi bisogna chiedere per sapere qualcosa di certo?
E poi, a tempo scaduto, ecco che il procuratore Meroni ti sfodera l’altra perfomance quasi teatrale. Nel senso che i giornalisti notano sulla scrivania un disegnino scimmiottante quello mostrato dal presidente del Consiglio durante la presentazione dell’annunciata riforma della giustizia: ricordate? C’era la bilancia della Giustizia pendente dalla parte dei pm, a significare quel che secondo il premier è attualmente uno squilibrio nel processo penale a favore dell’organo inquirente. E dunque, il dottor Meroni mostra il disegno, anche questo con la bilancia che pende dalla parte di giudici e pm (e però tra parentesi c’è anche il nome di Yara, mentre dall’altra è scritto “cittadino” con sotto la scritta “presunto aggressore di Yara”. E poi spiega il significato: «La bilancia pende dalla parte di giudici e pm perché sono loro che devono scoprire i reati e che rappresentano le vittime, mentre tra i cittadini ci sono anche persone che li commettono». Come dire in sostanza che è giusta l’attuale impostazione, mentre invece se passasse la riforma del governo anche il delinquente (anzi, il “presunto” delinquente, come scritto nello schemino con un riflesso condizionato tragicamente esilarante) sarebbe messo sullo stesso piano della vittima. E attenzione, non è che sul punto uno deve per forza essere d’accordo con Berlusconi, figuriamoci, ma quest’uscita del magistrato stona malamente, soprattutto per la circostanza. Che poi Meroni è a Bergamo da circa sei mesi: prima esercitava alla Procura di Milano, e all’inizio del 2010 si scontrò - giuridicamente parlando, s’intende - con Niccolò Ghedini, che di Berlusconi è l’avvocato, di cui aveva disposto l’accompagnamento coatto per farlo testimoniare nel processo sull’illecita diffusione delle intercettazioni legate al caso Unipol. In ogni caso, tornando a bilance e giustizie, lo stesso Meroni ha subito precisato che «quel che penso io sulla riforma non è rilevante, questo disegno è qui da quando in tivù è stato fatto vedere l’originale». Ma cos’è, signor giudice, ci prende per scemi? E ti vien da dire che allora è meglio Ingroia: almeno la sua opinione la sbandiera dal palco. Senza tanti disegnini".
"Aspettiamo che gli inquirenti facciano il loro lavoro, ma vogliamo sapere chi ha ucciso Yara". Questo il messaggio lanciato dal sindaco di Brembate, Diego Locatelli, dopo l'intervento del procuratore capo di Bergamo, Massimo Meroni. Le sue parole, ha detto Locatelli, "non mi hanno entusiasmato ma sinceramente non mi aspettavo molto di più. Si capisce che non hanno niente in mano. Lasciamoli lavorare e aspettiamo"."Siamo ancora in tempo, ma la richiesta che abbiamo formulato subito dopo il ritrovamento di Yara, interpretando anche il pensiero dei suoi genitori, è tuttora valida e legittima: vogliamo sapere chi è stato. Rispetto la professionalità di tutti - ha aggiunto il sindaco - ma anche loro dovranno rendere conto della loro competenza e della loro responsabilità". In merito alla possibilità che ad uccidere Yara possa essere stato qualcuno che non vive in paese, Locatelli ha commentato: "Ancora non si sa nulla al riguardo e il fatto di sapere che forse l'assassino non è del paese non mi rende più o meno contento. Sono pronto a qualsiasi soluzione".
In questa vicenda non manca la denuncia di due agenti: "Non c'è coordinamento nelle indagini". La lettera aperta di due persone appartenenti alle forze dell'ordine impegnate sul campo nelle ricerche di Yara che scrivono, in forma anonima, al quotidiano "L'Eco di Bergamo". "Avvertiamo un livello tale di rabbia e scoramento che non ci possiamo più esimere dal non esprimerlo", si legge nella missiva. "Negli ultimi tre mesi abbiamo assistito ad una gestione delle indagini da parte degli inquirenti perlomeno discutibile e oggettivamente farraginosa e, non da ultimo, improduttiva. Senza gettare la croce addosso a nessuno (buona fede ed impegno non sono in discussione), forse la chiave di questo insuccesso investigativo è da ricercarsi nella cronica assenza (storica) di sinergia tra carabinieri e polizia. (...) Sconcertante, inoltre, e non possiamo davvero sorvolare sulla questione, la direzione e la conduzione delle indagini affidata alla magistratura che, alla prova dei fatti, si è dimostrata impreparata o per lo meno avventata nel suo incedere".
"Una gestione discutibile. Sottolineiamo questo, sgombrare il campo da strumentalizzazioni di sorta o di parte e il sorgere di sterili polemiche prive di spirito costruttivo. Ispirandoci a Martin Luther King, che sosteneva che «le nostre vite cominciano a finire il giorno in cui stiamo zitti di fronte alle cose che contano», nemmeno noi in questo momento possiamo restare in silenzio. Potremo sbagliarci, ma negli ultimi tre mesi abbiamo assistito ad una gestione delle indagini da parte degli inquirenti perlomeno discutibile e oggettivamente farraginosa e, non da ultimo, improduttiva. Senza gettare la croce addosso a nessuno (buona fede ed impegno non sono in discussione), forse la chiave di questo insuccesso investigativo è da ricercarsi nella cronica assenza (storica) di sinergia tra carabinieri e polizia. Dualismo deleterio. La questione è annosa e di vecchia data, ma si ripropone in maniera antipatica e puntuale, eppure non si riesce a comprendere quando questo Paese capirà (ed ammetterà) quanto sia deleterio il dualismo tra due forze dell'ordine che invece di condividere mezzi, uomini e risorse, finiscono per nascondere alla controparte informazioni ed indizi, con l'unico risultato di non raggiungere mai il traguardo consolandosi che nemmeno i cugini (di un versante o dell'altro) sono riusciti a raggiungerlo. Semplicemente avvilente! Il caso della scomparsa di Yara prima e della scoperta del suo povero corpo deturpato, ha di nuovo portato alla ribalta il problema: il palese conflitto di interessi e attribuzioni tra i vertici dell'Arma dei carabinieri e della polizia di Stato, che determina, con puntualità ossessiva, una chiara, evidente dispersione di forze e di energie, a discapito della scoperta della verità d'indagine. Sconcertante, inoltre, e non possiamo davvero sorvolare sulla questione, la direzione e la conduzione delle indagini affidata alla magistratura che, alla prova dei fatti, si è dimostrata impreparata o per lo meno avventata nel suo incedere, come testimoniato in modo eclatante nella circostanza dell'arresto di un cittadino straniero (determinato da un'errata traduzione di una conversazione telefonica) rintracciato a bordo di una nave fatta rientrare apposta nelle acque territoriali italiane (!). E non da ultimo, come non citare le circostanze (evidenziate ampiamente da numerosi organi di stampa) del nuovo sequestro, a distanza di giorni, dell'area del ritrovamento del cadavere di Yara per l'effettuazione di rilievi scientifici chiaramente ormai «inquinati» dal libero accesso di giornalisti e gente comune dei giorni precedenti. Ad ogni modo, al di là delle questioni prettamente tecniche ed investigative, la drammatica ed assurda vicenda dell'assassinio della piccola Yara ha indelebilmente segnato tutta la società civile e spolverato ogni coscienza, nessuna esclusa. Proprio per questo motivo, la magistratura e le forze dell'ordine avrebbero, anzi «hanno», il dovere di fare il loro dovere nel massimo della trasparenza, assicurando alla giustizia colui (o coloro) che hanno commesso l'omicidio o che ad esso sono connessi. Questa lettera non è uno sfogo ma solo un'ammissione pubblica che se le cose a volte non vanno come dovrebbero, le responsabilità non si possono sempre camuffare. È troppa l'amarezza per l'evoluzione della vicenda, dal punto di vista investigativo, e per quello che, ahinoi, ci ritroviamo a vedere da chi osserva da una visuale privilegiata come la nostra. Troppa, per continuare a comprimerla nel silenzio."
Il marocchino disse: "Uccisa davanti al cancello". Riporta Panorama che Mohamed Fikri, il marocchino arrestato in un primo momento il 4 dicembre 2010, durante una telefonata alla fidanzata registrata dai carabinieri disse: "L'hanno uccisa davanti al cancello". Questa conversazione non venne inserita nel fascicolo riguardante il muratore. Secondo quanto riporta il settimanale il pm non avrebbe nemmeno mai chiesto conto della frase durante l'interrogatorio del 6 dicembre. Fikri era finito in cella per un'altra telefonata, ma in quel caso le sue parole vennero tradotte erroneamente e quindi fu liberato.
Gli investigatori lavorano nel silenzio e mettono insieme i tasselli di un puzzle che è tutt’altro che completo. Su uno dei guanti neri con le pailettes ritrovati nella tasca del giubbotto Hello Kitty di Yara ci sono due profili genetici, tracce di dna di un uomo e di una donna. «Due profili che non appartengono alla bambina, ai famigliari, alla cerchia stretta di chi la conosceva o alle persone già note ai database della polizia», ammette il magistrato. Impossibile pensare ad allargare a chissà chi la ricerca. Impensabile un’ipotesi di lavoro privilegiata: «Non ci sentiamo di escludere alcun sospettato in tutto il mondo».
Si capisce che è un paradosso. E’ chiaro che nella testa degli investigatori c’è l’ipotesi che Yara conoscesse e si fidasse della persona con cui sarebbe salita in auto prima di sparire nel buio di una strada deserta. «Non abbiamo elementi per dire che l’aggressore fosse una persona sola o di più», evita ogni certezza il magistrato. L’ipotesi che Yara sia stata vittima di un’aggressione sessuale è appunto solo un’ipotesi: «Yara è stata ritrovata vestita. Solo il reggiseno che aveva indosso era sganciato. Ma non ci sono segni evidenti di violenza sessuale». Medici ed esperti sono ancora al lavoro per accertare anche questo. Ci vorranno settimane, forse mesi, forse non si saprà mai.
Al momento non è nemmeno chiaro come sia morta Yara. Il magistrato fa l’elenco dei pochi risultati fino a questo momento: «Sul corpo di Yara sono stati rilevati tagli ai polsi, sul collo, sul dorso e sulle gambe. Non sembra che siano la causa della morte perché sono molto superficiali. Ci sono segni di contusione di origine incerta al capo e al volto, provocate da un corpo contundente, da percosse o da una caduta. La morte non è avvenuta né per dissanguamento né per soffocamento». Di sicuro Yara è morta in quel campo di Chignolo d’Isola a nove chilometri da casa dove è stata ritrovata per caso tre mesi dopo. Di sicuro l’assassino che conosceva la zona l’ha portata lì e lì l’ha abbandonata, con la certezza di averla uccisa e invece Yara potrebbe essere morta pure di freddo dopo ore.
Dalle 18 e 44 di venerdì 26 novembre 2010 quando dal cellulare LG di Yara parte un ultimo messaggio a un’amica - «Ci vediamo domenica», risponde lei o chi è con lei - a quando finisce nel campo di Chignolo d’Isola, dove ci sono ancora i nastri bianchi e rossi degli investigatori e qualche fiore appassito e biglietti commossi oramai scoloriti, è il buio assoluto. Il niente in cui si va a tentoni per cercare di capire quello che può essere successo a questa ragazzina di tredici anni. Si è fantasticato sui segni lasciati sulla sua schiena con un coltello. Una specie di croce di Sant’Andrea sopra due linee parallele. A qualcuno è venuto in mente che potesse essere un simbolo esoterico. Il procuratore aggiunto di Bergamo ci crede pochissimo: «I segni sulla schiena sono casuali. Qualunque segno compone un disegno, non c’è nulla per dire che sia una cosa deliberata. Non mi risulta che siano stati sentiti esperti di questione esoteriche. Non sappiamo nemmeno se quei segni con un coltello sono stati fatti prima o dopo la morte». Anche i pantaloni leggins neri che Yara indossava la sera della scomparsa e con cui è stata ritrovata tre mesi dopo sono tagliati in vita e più sotto. Gli slip che Yara indossava sono tagliati in corrispondenza delle ferite sul dorso. «I segni sulla schiena sono coerenti», rivela il magistrato. Ed è una delle poche certezze di questa indagine sulla morte di Yara, la cui fine non è ancora stata scritta e chissà se lo sarà mai. Al procuratore aggiunto di Bergamo non resta che sperare nelle analisi scientifiche che devono essere ancora terminate: «Andiamo avanti a lavorare. Non abbiamo ipotesi privilegiate». Il magistrato aspetta una svolta che potrebbe sempre arrivare. I genitori di Yara aspettano di poter presto celebrare i funerali della loro figlia. E chi quella sera l’ha uccisa, a questo punto, spera di non essere mai scoperto.
Intanto «La messa la celebra don Gustavo, il curato. Io non farò neppure l’omelia e non dirò più nulla in pubblico su Yara. Voi giornalisti avete strumentalizzato le mie parole». E’ nervoso, don Corinno Scotti, parroco di Brembate di Sopra. Da giorni evita i contatti con i giornalisti. Non spiega, non puntualizza. Si sottrae e basta. E gli abitanti di Brembate di Sopra dove abitava Yara raccolgono firme perché, ancora una volta, venga tolto l’assedio delle televisioni.
CASO YARA GAMBIRASIO: Resoconto
Venerdì 26
novembre 2010,
scompare Yara
Gambirasio. La scomparsa di
Yara Gambirasio
è diventato un caso mediatico. Le troupe televisive di tutti i più importanti
telegiornali d’Italia hanno messo le tende a Brembate Sopra. Dopo il giallo di
Avetrana si accendono i riflettori su un’altra storia che vede protagonista una
ragazzina scomparsa, una storia dai contorni misteriosi, una storia da dare in
pasto ai telespettatori dei vari
Pomeriggio 5, Chi l’ha visto, Domenica
In, Studio Aperto, ecc..
Memori del caso di
Sarah Scazzi,
le forze dell’ordine hanno deciso di transennare la via in cui abita la famiglia
Gambirasio per evitare l’assalto dei giornalisti. Che si sono posizionati a
poche centinaia di metri dall’abitazione, a metà strada dal centro sportivo dove
la ragazzina è stata vista per l’ultima volta. Sono stati allestiti vari studi
televisivi mobili, proprio come è successo per mesi ad Avetrana. E come per il
giallo di Sarah i giornalisti sono pronti a darsi battaglia a colpi di
esclusive, anche a discapito delle indagini ufficiali. Domenica un vicino di
casa 19enne ha raccontato a News Mediaset
di avere visto
Yara parlare in strada con due uomini. Dopo qualche ora però il ragazzo, sentito
dagli inquirenti, ha ammesso di non ricordare bene la scena. Ora rischia una
denuncia per essersi inventato tutto. Il volto di Yara è su tutte le prime
pagine dei giornali. Tutta la comunità
di Brembate
Sopra è impegnata a garantire la tranquillità dei genitori di Yara Gambirasio,
assediati dai mass media provenienti da tutta Italia. In prima fila,
l’amministrazione comunale guidata dal sindaco Diego Locatelli, il quale ha
emesso un’ordinanza ad hoc con la quale ordina la chiusura di via Rampinelli, la
strada dove risiedono il papà, la mamma, i due fratelli e la sorella della
13enne scomparsa. «Basta parlar male di mia figlia» - Lo sfogo della mamma di
Yara sul “L’Eco di Bergamo” - «No, Yara con questa storia non c'entra: non è
scomparsa volontariamente, non lo avrebbe mai fatto». Sono le parole di Maura,
la mamma della tredicenne scomparsa, che ha ribadito con forza quello che già
aveva sottolineato il giorno successivo alla sparizione misteriosa di sua
figlia. «Un colpo di testa? Non è proprio da lei», aveva detto. Poi, lo sfogo:
«Su questa vicenda si sta cominciando a fare troppa pubblicità negativa – ha
dichiarato – sia nei confronti di mia figlia, sia nei confronti di Brembate
Sopra, che non lo merita». «Non abbiamo ricevuto alcuna novità per il momento,
restiamo in attesa», ha detto la mamma di Yara. Sono ore di grande angoscia per
la famiglia Gambirasio, chiusa nel silenzio all'interno dell'abitazione di via
Rampinelli, ormai assediata da un esercito di cronisti. Il sindaco è dovuto
ricorrere perfino alla firma di un'ordinanza, che vieta ai furgoni della diretta
Tv di avvicinarsi: si può passare soltanto a piedi e a gruppetti di poche
persone. Quel che è certo, dice la famiglia, è che Yara è sparita contro la sua
volontà, non è sicuramente scappata. Nessun litigio, nessun brutto voto a
scuola, nessuna delusione: nulla al momento è emerso che possa giustificare una
simile ipotesi. «Yara – aveva già spiegato la madre Maura – aveva da poco
ritirato la pagellina scolastica (frequenta la terza media, ndr) e i voti erano
tutti molto buoni. Anche dalla ginnastica ritmica ha sempre avuto tante
gratificazioni. Vive solo per la ginnastica e per la sua famiglia». La mamma di
Yara fa l'educatrice all'asilo nido comunale di via Solata, a Bergamo, in Città
Alta. Il papà invece è geometra per una ditta di Brembate Sopra. Seconda di
quattro figli (ha una sorella maggiore e due fratellini più piccoli), Yara ha
riscosso ottimi risultati nel suo sport, fra cui una medaglia d'oro ai
campionati nazionali di Fiuggi nel 2009 e un successo nel 2010 a Pesaro.
Dall'abitazione non mancherebbe nulla di Yara, vestiti compresi: altro motivo in
più per escludere – dice la famiglia – l'ipotesi di un allontanamento
volontario. «Sulla vicenda di mia figlia – ha detto Maura riferendosi alle tante
ipotesi giornalistiche che si susseguono sui media – si sta facendo una cattiva
pubblicità e si inizia a sentire di tutto. Una cattiva pubblicità che purtroppo
coinvolge anche Brembate Sopra, che certo non lo merita». I media si sono
prodigati a definire i bergamaschi come poco collaborativi. Con Sarah Scazzi si
parla di Avetranesi omertosi, con Yara si parla di Bergamaschi muti. La sol
colpa dei cittadini è non riferire in esclusiva a loro qualsiasi notizia utile
allo scoop mediatico. Yara Gambiarasio una giovane e attraente ragazza è
scomparsa senza dare notizia ai genitori. Scomparsa improvvisamente. Da Avetrana
a Brembate Sopra, si capovolge l'obiettivo della telecamera e con affanno inizia
un'altra caccia al Lupo, all'uomo o al branco che potrebbe averla uccisa e
seviziata, perchè purtroppo le ipotesi degli inquirenti sono queste. Da Avetrana
ci torna in mente la lezione di mamma Concetta Scazzi, quando intervistata in
televisione ripeteva nei giorni prima del ritrovamento del corpo della figlia
Sarah: in circostanze di questo genere dovete indagare anche su di me, sui miei
familiari più stretti." Dove è finita Yara Gambirasio? Gli inquirenti questa
volta metteranno sotto sorveglianza i parenti più stretti e gli amici di scuola?
Comunque il 4 dicembre 2010 un tunisino bloccato nella notte su un traghetto è
in stato di fermo con l'accusa di omicidio. Secondo gli inquirenti, l'uomo
avrebbe sequestrato e ucciso la ragazza occultando poi il suo cadavere. Il
tunisino sarebbe un muratore al lavoro nei cantieri del bergamasco e in
particolare avrebbe lavorato a Mapelloi nel cantiere del centro commerciale dove
i cani avevano portato gli inquirenti sulle tracce di Yara. L'uomo era tenuto
d'occhio dagli investigatori dall'inizio della vicenda subito dopo la scomparsa
della ragazzina. "Che Allah mi perdoni, ma non l'ho uccisa io". Secondo
indiscrezioni, sarebbe stata questa frase, intercettata al telefono, a
convincere i Carabinieri che investigavano sulla scomparsa di Yara Gambirasio
della responsabilità del magrebino sottoposto a fermo per sequestro di persona,
omicidio e ora anche occultamento di cadavere. Pare che i sospetti fossero
indirizzati nei suoi confronti quando l'uomo si è assentato dal lavoro nei
giorni successivi alla scomparsa di Yara. L'uomo lavorava proprio nel cantiere
del centro commerciale di Mapello dove i cani avevano più volte condotto gli
investigatori. Intanto sale la tensione in paese e arrivano i primi segni di
intolleranza a Brembate Sopra. Quando si è sparsa la notizia del fermo di un
operaio magrebino di 23 anni con l'accusa di omicidio, sequestro di persona e
occultamento di cadavere, davanti alla casa della ragazza si è fermato un suv
Audi dal quale è sceso un uomo che ha inalberato un bersaglio con la scritta
'Occhio per occhio, dente per dente'."Non ne possiamo più di questi immigrati -
ha detto -, devono tornarsene a casa loro". Anche un'altra persona è arrivata
davanti Villa Gambirasio urlando contro il presunto omicida. "Io non ce l'ho con
lui perché è uno straniero - ha detto - non mi interessa di che razza sia,
voglio però che sia fatta giustizia, vorrei che facessero a lui quello che ha
fatto alla ragazzina". Brembate Sopra è un Comune di 7.800 abitanti da anni
guidato da una giunta del Carroccio. "Qui non siamo razzisti - ha aggiunto
un'altra signora passando - ma ci piace l'ordine e la tranquillità e qui non era
mai successa una cosa come questa". Intanto sulla stampa:"Bergamo omertosa
perché non fa i reality su Yara".
Ecco come Matteo Pandini, giornalista bergamasco, su Libero replica al collega
del messaggero e anche alla mamma di Sarah Scazzi. Pensate che scandalo: gli
inquirenti lavorano in silenzio, i familiari non parlano, i vicini di casa non
si eccitano vedendo le telecamere.
Dovrebbe essere
normale, tanto più in una situazione drammatica come la scomparsa di una
tredicenne, uscita dal centro sportivo del paese e ingoiata dal buio, e invece
qualcuno parla di «omertà».
Era il 26 novembre. Da allora, Yara Gambirasio sembra evaporata. Ricerche,
controlli, domande. All’esterno non è trapelato nulla, o quasi. Pochi giorni
dopo, era saltato su un 19enne vicino di casa di Yara, che a favore di tv aveva
raccontato la balla di aver visto la ragazzina, in compagnia di due adulti e
accanto a un’auto con le quattro frecce accese. Era una sciagurata bugia,
ritrattata nel giro di poche ore.
Dato che non esce nulla di concreto e
il circo mediatico - tenuto distante da casa Gambirasio - non sa cosa spremere,
ecco che tra una falsa pista e un’interpretazione fantasiosa fioccano le analisi
sociologiche. Che accendono l’ennesimo, inutile, derby Nord-Sud. Si paragona la
leghista Brembate Sopra all’Avetrana di Sarah Scazzi. O a una roccaforte della
mafia. A parte Massimo Gramellini, che sulla Stampa ha elogiato la sobrietà
della famiglia Gambirasio, sul paesino bergamasco stanno piovendo le prediche di
chi definisce quella comunità «una sorta di Corleone del profondo Nord» (lo ha
fatto il Messaggero).
Concetta, madre
di Sarah -
uccisa, ritrovata in un pozzo dopo quaranta giorni e per il cui omicidio sono
sospettati lo zio Michele e la cugina Sabrina - ha detto: «In quel paese i
familiari non parlano». E poi: «Nessuno ha visto niente, sono tutti chiusi. Se
lo avessimo fatto noi che siamo del Meridione ci avrebbero definito omertosi».
La signora merita rispetto, se non altro per il dolore e la tragedia che l’hanno
colpita, ma proprio la vicenda di Avetrana dovrebbe insegnare. Piuttosto che
tante sceneggiate tv, meglio un silenzio rispettoso. Piuttosto che finte
lacrimucce sparse nei salotti del piccolo schermo, meglio qualche dialogo
riservato con gli inquirenti.
A Brembate Sopra non è vero che nessuno parla. Non lo fanno con i
giornalisti, a parte lo sciagurato 19enne che abbiamo citato. I testimoni sono
decine. Un centinaio le persone ascoltate. L’altro giorno pure un boliviano
irregolare, vincendo la paura di essere espulso, ha contattato i carabinieri
perché convinto
di aver visto Yara. Molto probabilmente è un abbaglio, ma dietro una facciata
silenziosa c’è una comunità che si muove, cerca, prega.
D’altronde, se nessuno ha visto cosa
deve dire? Niente, appunto. C’è la certezza che il paese stia coprendo qualcuno?
Al momento, risulta di no. Allora è meglio tacere. Ed evitare prediche.
Gli inquirenti hanno invocato uno sforzo di memoria. Ma qui si parla di una
giovane che, uscita dal centro sportivo a due passi da casa, s’è volatilizzata
in pochi metri.
Hanno messo in campo pure dei super-segugi, che la signora Concetta Scazzi ha
lamentato non essere arrivati ad Avetrana, quando si cercava la povera Sarah. Le
conclusioni sono che la sobrietà ed il buon senso dovrebbero essere adottate
sempre e comunque da tutti i giornalisti. Così come la ponderazione da parte dei
magistrati. Così come la pazienza di aspettare le sentenze definitive da parte
dei cittadini. Ogni frase o ogni scritto pronunciata dai media può influenzare
l'opinione pubblica: quando gli eventi riguardano noi, ma anche quando
riguardano gli altri. Perchè gli altri siamo noi. Dal resoconto sul caso di
Sarah Scazzi, contenuto nelle pagine delle tematiche territoriali di Taranto
provincia, sembra che il trattamento mediatico riservato ad Avetrana sia
identico a quello riservato a Brembate Sopra. Nè il primo paese, nè il secondo
meritano cattiverie gratuite da chiunque proferite.
8 dicembre 2010. "Indagini da cani: Yara è un mistero". Questo è il titolo a firma di Giuseppe Sanzotta sul “Il Tempo”. Scarcerato il marocchino, le ricerche ripartono da zero. Ai carabinieri ora si affianca la polizia e dopo gli animali si dà peso ai testimoni. La storia di Yara ricorda da vicino quella di Sarah Scazzi. La frase di circostanza che si usa in questi casi è: si seguono tutte le piste. Come dire che non sanno che pesci prendere. Sì, perché la scomparsa di Yara, la tredicenne promessa della danza, resta un mistero. Chi l'ha presa? Dove l'ha presa? Cosa le ha fatto? Forse la sola drammatica certezza è che quella bambina sia morta. Certamente finché non si trova il corpo resta una flebile speranza, soprattutto nel cuore straziato dei genitori, ma polizia e carabinieri più che cercare un rapito, cercano un corpo senza vita, nei corsi d'acqua, tra le montagne di sabbia e sassi dei cantieri della zona, nei boschi. Cercano con quei cani giudicati infallibili che sembrano guidare le indagini. Sono loro che hanno portato a quel cantiere dove lavorava il marocchino fermato dopo un inseguimento in alto mare e poi rilasciato. Perché, ora si sa, hanno sbagliato a tradurre l'intercettazione, non si riferiva a Yara, non era in fuga, e il viaggio a casa era stato deciso da tempo. Come si fa a sbagliare così? Sembra impossibile. E ora si riparte, e l'impressione è che lo si faccia senza un programma. Così il guardiano di un cantiere, vicino a quello dell'azienda dove lavora il padre della ragazza, denuncia che da lui non sono state fatte indagini. E la macchina delle ricerche si sposta, passa tutto al setaccio. Viene trovato un telefonino, ma non è quello della ragazza. E c'è da scommettere che altri faranno nuove segnalazioni. Fin qui la gestione di tutta la vicenda non fa molto onore alle capacità investigative. Quel clamoroso abbaglio sul marocchino ne è la testimonianza. Torna alla mente la drammatica e quasi analoga vicenda di Sarah Scazzi. Fu schierato un esercito di esperti, ma senza il pentimento dello zio che fece di tutto per mettere i carabinieri sulle sue tracce, forse non avremmo scoperto un bel niente e il corpo sarebbe rimasto in quel pozzo per chissà quanto. Ma torniamo a Brembate di Sopra, qui la vicenda è ancora aperta. Il mostro è nei paraggi. Il sospiro di sollievo che hanno avuto in molti credendo di aver individuato nel marocchino fermato, l'assassino, è stato subito ricacciato indietro. L'intercettazione era un bluff, niente che potesse inchiodare il ragazzo. Ci sono testimoni, compreso il suo datore di lavoro, che affermano che all'ora della scomparsa era in servizio. A lui erano arrivati i cani, i soli detective di questa operazione, che avevano portato gli inquirenti nel cantiere e in particolare in un gabbiotto del guardiano del parcheggio di un centro commerciale in costruzione. È vero che c'era anche un testimone, un ragazzo di 19 anni che dava una versione diversa, aveva visto la ragazza in un altro luogo con due uomini e l'aveva vista vicina a una auto rossa. Non gli hanno creduto, i cani non gli hanno creduto perché da quella parte non sono mai andati. Così oggi si ripresenta il dubbio: hanno ragione i cani o quel testimone ridicolizzato? E non azzardiamo una risposta perché se i carabinieri credono ai cani, la polizia che ha avviato una indagine parallela prende in seria considerazione quella testimonianza. E la differenza non è da poco, perché se Yara stava effettivamente parlando con due uomini, dalla palestra aveva preso una strada diversa da quella che finisce al cantiere. Certo nulla toglie che possa esserci stata portata dopo. Di sicuro ora torna d'attualità la ricerca di due uomini. E di quella Citroen rossa. Così come quel furgone bianco che altri dicono di aver visto aggirarsi. E anche Fikri, il ragazzo marocchino, non è del tutto fuori dalla vicenda. Una confusione di ipotesi tra il dolore e lo sconforto di quei due poveri genitori che non sanno che fine ha fatto la loro bambina. E ora si chiedono anche perché è uscita da una porta secondaria della palestra. Qualcuno l'aspettava o qualcuno l'ha costretta. Un dubbio e una paura che ora hanno portato i genitori a non mandare più i ragazzi in quel luogo. Sospese le lezioni: non c'è sicurezza. O forse c'è solo tanta paura. A parte la psicosi, non del tutto ingiustificata viste le circostanze, resta angosciosa la domanda: cosa hanno fatto a quella bambina? Quanto avrà sofferto? Si è fidata di qualcuno che conosceva o è stata trascinata a forza? Se come tutto lascia temere è morta i suoi ultimi pensieri e forse le invocazioni saranno stati per i genitori, per la mamma. Così come è stato per Sarah. E questo pensiero aumenterà lo strazio, il dolore, la rabbia dei genitori. Verrebbe voglia di gridare a chi indaga di fare presto. Non siamo riusciti a prevenire ed evitare una mostruosità, almeno facciamo in fretta per togliere dalla circolazione quel mostro o quei mostri che ancora si aggirano liberi. E ci dobbiamo chiedere se da quel 26 novembre sia stato fatto proprio tutto il possibile, se nessuna segnalazione, testimonianza sia stata sottovalutata. Se non c'è stata una presunzione, la presunzione di chi segue una propria pista e per questo sottovaluta le altre. Ricordiamo che per Sarah si pensava a una fuga. E ricordiamo quell'episodio lontano dei fratellini di Gravina di Puglia. Ritrovati morti, caduti da un muro non lontano da casa. Eppure c'è chi pensò fin dall'inizio alla colpevolezza del padre, volevano incastrarlo invece di cercare quei due bimbi che agonizzavano a poche centinaia di metri da casa. Ora, con i cani o senza di loro, non solo Brembate, ma tutta l'Italia chiede verità e giustizia. Non un colpevole, ma il colpevole. Critiche anche da Massimo Martinelli de “Il Messaggero”. Almeno settanta ore di vantaggio. Che per un assassino in fuga sono un’enormità. Un regalo impagabile soprattutto per chi ha ucciso in preda ad un raptus. Di tipo sessuale, probabilmente. Perché consente al killer di riacquistare lucidità e pianificare una strategia di uscita. E’ questo l’effetto dell’errore da dilettanti allo sbaraglio che renderà difficile la caccia a chi, forse, ha già ucciso Yara. E’ come se gli investigatori di Bergamo fossero stati avvertiti con tre giorni di ritardo. Invece sono rimasti al palo per scelta, imboccando una pista che appariva suggestiva, ma che avrebbe dovuto suggerire alcune cautele in più. La verità è che hanno cercato il risultato immediato, l’arresto spettacolare, l’operazione mediatica. Anche se quel marocchino aveva un alibi granitico, che poteva essere verificato chiamando il suo datore di lavoro in un tempo inferiore a quello che è stato necessario per intercettare un traghetto in acque internazionali. E anche la telefonata indicata come unica prova per l’arresto: aveva un mittente, Fikri, e un destinatario. Che se fosse stato consultato subito avrebbe spiegato il motivo della chiamata. E fornito un contributo a tradurre la frase che invece è stata affidata ad un interprete di dubbia affidabilità. E ancora, Fikri aveva una fidanzata, che poteva informare i carabinieri che il viaggio in Marocco non era una fuga, ma era stato programmato da tempo. E che la decisione di gettare via una vecchia scheda sim era l’effetto di una scenata di gelosia, perché su quel numero continuavano ad arrivare telefonate di ex fidanzate. E’ vero, Fikri sembrava un uomo in fuga. Ma non lo era. E le indagini di polizia giudiziaria, come quelle della magistratura, non possono utilizzare un verbo all’imperfetto, ”sembrava”, per giustificare l’azzeramento dei diritti costituzionali. Non possono farlo mai. E se esistesse un termine più assoluto sarebbe il caso di utilizzarlo per la vicenda di questo marocchino, il cui arresto poteva scatenare una reazione xenofoba, che nel paese di Yara non c’è stata. Oppure finire sul tavolo di magistrati poco esperti e appiattiti sui rapporti della polizia giudiziaria. E non, come è accaduto, nelle mani di due donne che hanno avuto da subito la sensibilità tutta femminile di scavare negli occhi di Fikri. Sono le due uniche stelle che hanno vegliato sulla triste sorte di Fikri: un paese come Brembate dove ieri sera tre uomini al bar hanno visto un nordafricano sconosciuto e gli hanno offerto da bere, per solidarietà. E due donne che, con la toga sulle spalle, ci stanno davvero bene.
«Cosa accomuna i casi di Elisa Claps a Potenza, di Sarah Scazzi ad Avetrana e di Yara Gambirasio di Brembate di Sopra? L'inadeguatezza, se non il fallimento, del sistema investigativo. Ritardi ed errori delle indagini e delle ricerche. Per Elisa e Sarah si indicò la fuga volontaria come motivo della scomparsa. Per Yara si incarcerò un innocente, il marocchino Mohammed Fikri, il primo extracomunitario a portata di mano». Lo sfogo è di Antonio Giangrande, avvocato di Avetrana e personaggio noto del web attraverso la sua battagliera associazione “Contro tutte le mafie”. Nel monumentale dossier dedicato alle tragiche vicende di queste giovani donne, Giangrande è forse l'unico che non teme di indicare con chiarezza elementi che riguardano gli stessi investigatori. E a chiedersi, per esempio, «come è possibile che a presiedere la Corte d'Assise di Taranto per il processo di Sarah Scazzi, in violazione al principio della terzietà ed imparzialità del giudice, sia il giudice Cesarina Trunfio, ex sostituto procuratore di Taranto, già sottoposta del Procuratore Capo di Taranto Franco Sebastio nonché collega dell'aggiunto Pietro Argentino e del sostituto Mariano Buccoliero, cioè ex colleghi facenti parte del collegio che sostiene l'accusa nel medesimo processo sul delitto di Sarah Scazzi dalla Trunfio presieduto?». «Qualsiasi decisione finale sarà presa - rincara la dose l'avvocato – sarà sempre adombrata dal dubbio che essa sia stata influenzata dalla colleganza funzionale e territoriale». C'è solo Giangrande a ricordare come nel 2004, in quella stessa zona, le indagini sul delitto di una coetanea di Sarah, Giusy Potenza, avessero avuto come sfondo quella prostituzione minorile che nei territori fra Taranto e Foggia vede da sempre all'opera la Sacra Corona, orrenda gemmazione della camorra in terra pugliese, e come vittime centinaia di bambine innocenti, cui la natura aveva donato una bellezza senza pari. Abbandonata subito, infine, anche la pista del delitto di camorra nel caso di Yara Gambirasio, benché entrambi i titolari della ditta per la quale lavorava il padre della ragazza siano stati arrestati dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. E così, mentre si continuano ad eseguire gli oltre diecimila esami del Dna ad interi paesi, sperticandosi fino alla ricerca di possibili “figli naturali” dei presunti assassini, nessun rilievo è stato dato dagli inquirenti alle voci che fin dai primi giorni si rincorrevano in paese, a Brembate, su quella droga che circolava a fiumi nelle zone periferiche, gestita - come ormai ovunque in Lombardia e in tutto il Nord - da uomini che portano cognomi calabresi o campani. E che in zona vivono e lavorano da tempo anche con attività imprenditoriali alla luce del sole. Per Yara insomma, proprio come per Melania e Sarah, ad essere privilegiata rimane la strada del delitto passionale, o al massimo di un balordo. E a ricordarci qualcosa sulla principale investigatrice del caso Brembate, il pm Letizia Ruggeri, era stato solo il quotidiano Libero. Che il 9 marzo 2011, con il corpo della bambina appena ritrovato, ricorda come quel 26 novembre 2010, quando Yara scompare, sia lo stesso giorno in cui va in pensione il procuratore capo di Bergamo Adriano Galizzi. E che il sostituto Ruggeri, cui era stato assegnato il fascicolo, il 4 dicembre 2010 parte per due settimane di vacanze sulla neve. Situazione: «Nei 40 giorni cruciali per le indagini - sintetizza Libero - il pubblico ministero era in vacanza». Indignazione che si è materializzata con una raccolta di firme per l’estromissione del PM dalle indagini. Finale: ad oggi, mandanti ed assassino di Yara Gambirasio sono ancora senza volto.
Non meno stravagante e bizzarra è anche la coincidenza per la quale gli avvocati di Parolisi e della famiglia Scazzi sono gli avvocati di Perugia Walter Biscotti e Nicodemo Gentile, che si sono occupati anche del caso dell’omicidio di Meredith Kercher. Essi difendevano il condannato Rudy Guede. Per quel delitto sono stati assolti Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Anche loro vittime dei PM di turno innamorati della loro ipotesi investigativa.
IL FALLIMENTO DEL SISTEMA INVESTIGATIVO. AVETRANA IL DELITTO DI SARAH SCAZZI.
Palesi e fondate critiche sulla conduzione delle indagini, per quanto riguarda Sarah, sono a firma di Giorgio Sturlese Tosi su Panorama del 9 dicembre 2010.
Gli italiani, è storia vecchia, sono tutti allenatori della nazionale di calcio. Ma da qualche tempo sono diventati anche un popolo di investigatori. Le serie televisive e i grandi gialli, trattati in tutte le trasmissioni, hanno svelato i segreti di ogni tecnica investigativa e, al bar come al mercato, uomini e donne discettano con competenza di autopsie, luminol, guanti di paraffina e dna. Le indagini sulla morte di Sarah Scazzi vengono ormai seguite con più attenzione e trasporto delle serie tv sui Csi americani. Ma proprio dal confronto con i delitti più celebri e le crime fiction più apprezzate emergono alcuni aspetti dell’inchiesta sul caso Scazzi che lasciano perplessi. E il pubblico, sempre più preparato, segue con sconcerto l’evolversi dell’inchiesta. A cominciare dalle prime mosse dei carabinieri, dopo la denuncia di scomparsa del 26 agosto.
La prima pista falsa, seguita per troppe settimane.
All’inizio, e per settimane, fu battuta la pista dell’allontanamento volontario. Si scoprì, con stupore, che Sarah aveva creato più profili su Facebook mentre una frase banale, che tradiva un adolescenziale desiderio di andarsene da Avetrana, fu interpretata come la prova che si trattasse di una messinscena.
Le intercettazioni, disposte solo in settembre.
In quasi tutti i casi di scomparsa le prime attenzioni degli investigatori si concentrano sulla cerchia familiare. Ma fra agosto e settembre nessuno pensò d’intercettare le telefonate e le conversazioni delle persone legate alla vittima. Concetta Serrano, madre di Sarah, disse subito: «Indagate anche sulla famiglia, pure su di me». Ma nel mirino finì il padre di Sarah, Giacomo. Non i Misseri, nella cui casa Sarah trascorreva gran parte delle sue giornate. Solo il ritrovamento del cellulare di Sarah da parte di Michele Misseri, il 29 settembre, ha portato a una svolta nelle indagini.
Le ricerche a vuoto, ma qualcosa si poteva sospettare.
Inutili anche le battute condotte sul territorio da decine di volontari e dai carabinieri. Il cadavere di Sarah verrà scoperto solo grazie a Misseri, unico regista dell’inchiesta. Eppure, era noto in paese che l’uomo, nel giorno del delitto, aveva lavorato in quel campo di contrada Mosca.
La scena del delitto, isolata alcuni giorni dopo la confessione.
È la prima regola di ogni indagine. Ma il garage dove sarebbe avvenuto il delitto è stato setacciato dai tecnici della scientifica solo alcuni giorni dopo la confessione di Misseri. Lo stesso è accaduto per la casa di via Deledda, più recentemente indicata come il luogo dove sarebbe stata uccisa Sarah. Nessuno, in procura, aveva pensato di mandarvi gli esperti del Ris.
L’ambiguità della traccia telefonica.
Impossibile anche tracciare gli spostamenti del cellulare di Sabrina, cugina di Sarah e oggi principale sospettata. Nella guerra di perizie, già iniziata tra accusa e difesa, persino il fatto che il suo telefonino abbia agganciato il ripetitore vicino al pozzo dove è stato trovato il cadavere, un dato apparentemente di univoca interpretazione, è in realtà motivo d’incertezza: perché i periti della procura ritengono che a seconda di circostanze del tutto casuali i cellulari di Avetrana possano agganciare la zona di Nardò (dove si trova il pozzo) e viceversa.
Gli interrogatori, un po’ troppo incalzanti.
Quasi tutti gli interrogatori di Michele Misseri sono stati condotti con sollecitazioni incalzanti, che sembrano volerlo condurre verso una strada precisa. Ma le otto versioni rese fin qui dall’indagato hanno avuto fondamentalmente l’effetto di renderlo poco credibile.
L’arma del delitto, non ancora scoperta.
Insolito è stato anche l’approccio che gli inquirenti e i carabinieri del Ris hanno avuto con la Seat Marbella di Misseri, l’auto utilizzata per il trasporto del cadavere, che è stata sequestrata e custodita per giorni nel cortile della caserma dei carabinieri. I tecnici inizialmente ne hanno ispezionato il bagagliaio, senza però tenere conto di una cintura in cuoio. Soltanto dopo che Misseri l’ha indicata come arma del delitto (ma poi è stato smentito dall’autopsia) quella cintura è stata portata in laboratorio.
I possibili complici: ci sono, oppure no?
Anche le modalità dell’occultamento del cadavere sono avvolte nel mistero e i periti non sono ancora riusciti a stabilire se Michele abbia fatto tutto da solo o se qualcuno l’abbia aiutato a calare il corpo di Sarah nel pozzo.
Le visite dei familiari in carcere.
Del tutto particolare appare poi l’autorizzazione concessa dalla procura alla moglie e alla figlia di Misseri, Cosima e Valentina, di visitare Michele e Sabrina. Tanto più considerando che uno accusa l’altra e che il resto della famiglia si è da subito schierato con la ragazza. Un’interferenza che rischia di compromettere l’intero quadro testimoniale.
L’autopsia incerta.
Di nessun aiuto è stata la prova scientifica per eccellenza: l’autopsia. Luigi Strada, consulente tecnico dalla procura, non è riuscito a stabilire se a strangolare Sarah sia stato suo zio Michele, un contadino abituato a lavorare nei campi, oppure sua cugina Sabrina, una ragazza di 22 anni. Il medico legale deve ancora completare la sua analisi, tuttavia il corpo di Sarah è già stato sepolto.
L’ora del delitto, ancora non stabilita.
Neanche questa è certa. L’assenza di tracce di un «cordon bleu» ingerito da Sarah prima di uscire di casa, rilevata dal Ris, stravolge l’intera ricostruzione del delitto fin qui fatta da Misseri e sposta di oltre un’ora il momento del decesso.
Le ricostruzioni, che lasciano molte incertezze.
Condotto una seconda volta in contrada Mosca, Misseri ha ripetuto i gesti compiuti per gettare Sarah nel pozzo, allo scopo di dimostrare di avere fatto tutto da solo. Ma gli inquirenti, non avendo di meglio e forse inclini alla teoria del «dove sta il più sta il meno», gli hanno fatto sollevare prima un robusto carabiniere e poi un grosso masso che si trovava a portata di mano. Non solo, il consulente Strada, nel tentativo di far ripetere l’esecuzione a Michele Misseri in carcere, non avendo a portata di mano una cintura né una corda, ha utilizzato «un foulard arrotolato a mo’ di fune». Che, nelle sue rudi mani, ha evidenziato l’incertezza dei movimenti di zio Miche’.
Il segreto istruttorio, violato per due mesi.
Nonostante quanto prevede la legge, gli audio dei verbali di interrogatorio, i filmati dei sopralluoghi, i tabulati telefonici e i risultati delle perizie sono finiti sui giornali, in televisione e sul web. Tardivo, e inutile, il sequestro della procura di tutti gli atti ormai di dominio pubblico.
Ecco, in sintesi, le diverse versioni fornite da Michele Misseri agli inquirenti sull'uccisione della nipote Sarah Scazzi, avvenuto il 26 agosto 2010.
6 OTTOBRE 2010, MISSERI 'UNO': Michele Misseri si imbatte in Sarah che, alla ricerca della cugina Sabrina, entra nel garage dello zio, dove lui sta sistemando il trattore. L’uomo tenta un approccio sessuale con la nipote, che respinge le avances. Michele l’aggredisce alle spalle e con una corda la strangola. Nasconde il cadavere, poi lo colloca nel bagagliaio della sua auto, si dirige nelle campagne di Avetrana, denuda la salma e si lascia andare a un rapporto sessuale completo. Depone di nuovo il cadavere in auto e, infine, lo getta in un pozzo. L’uomo non chiama mai in causa la figlia Sabrina.
15 OTTOBRE 2010, MISSERI 'DUE': Sarah arriva in casa Misseri e la cugina Sabrina la trascina nel garage con la forza, avendo la stessa Sabrina ed il padre concordato di darle una lezione per intimorirla ed evitare che la ragazza diffondesse in paese la notizia delle attenzioni sessuali riservatele dallo zio, delle quali anche Sabrina era venuta a conoscenza. Mentre quest’ultima tiene per le braccia la cugina, Michele Misseri avvolge una corda intorno al collo di Sarah e la strangola. Sabrina, nel momento in cui vede la cugina accasciarsi, impaurita molla la presa e si allontana. L’uomo poi fa sparire il cadavere gettandolo nel pozzo. Alcuni giorni dopo, tramite il suo legale, Michele Misseri fa sapere di voler ritrattare la precedente confessione nella parte relativa agli atti sessuali sul cadavere.
4 NOVEMBRE 2010, MISSERI 'TRE': Sabrina e Sarah si incontrano per andare al mare e litigano, forse per gelosia nei riguardi di un amico comune, Ivano Russo. Sabrina trascina nel garage Sarah: la discussione degenera e lei strangola la cugina con una cintura trovata in garage. Sabrina sale a casa ed informa il padre Michele, che stava dormendo. L'uomo rassicura la figlia, che si allontana con l’amica Mariangela. Michele Misseri carica la salma di Sarah in auto, si dirige in campagna, abusa sessualmente del cadavere e, infine, lo getta nel pozzo calandolo con una corda.
19 NOVEMBRE 2010, MISSERI 'QUATTRO': Michele Misseri conferma sostanzialmente l’ultima versione, ma ritratta le presunte avances alla nipote e l’abuso sessuale del cadavere.
VIGILIA DI NATALE 2010, MISSERI CINQUE: Michele Misseri scrive due lettere alle figlie Sabrina e Valentina, scagionando di fatto la secondogenita e scusandosi per averla accusata ingiustamente ma senza spiegare i motivi delle precedenti accuse. È proprio in una lettera di poche righe inviata alle figlie Valentina e Sabrina (quest’ultima detenuta in carcere perchè accusata di concorso in omicidio) che Michele Misseri fa riferimento al fratello Carmelo: «mi hanno detto – scrive testualmente – che se non faccio quella confessione dovevano arrestare la mamma e zio Carmelo io per non mettere altri innocenti o dovuto fare la falsa».
16 FEBBRAIO 2011. MISSERI SEI. L’ultima confessione, sarebbe contenuta in una lettera che Michele Misseri avrebbe consegnato, o forse spedito, al suo difensore di fiducia, l’avv. Francesco De Cristofaro del foro di Roma. La circostanza è stata riferita nella trasmissione di Rai Uno “La vita in diretta”. La missiva, secondo quanto riferito nella trasmissione tv, sarebbe stata scritta il 16 febbraio. Misseri vi avrebbe raccontato che quel maledetto 26 agosto Sarah sarebbe entrata nel garage mentre lui era adirato perchè non partiva il motore del trattore. L’uomo avrebbe invitato bruscamente la nipote ad andar via, la ragazzina non gli avrebbe dato retta e Misseri, preso da un raptus d’ira, avrebbe strangolato la nipote con una corda. Il corpo esanime sarebbe caduto sul compressore. Era stato proprio Michele Misseri, in una lettera inviata mesi fa alla figlia maggiore Valentina, a parlare di un compressore, scrivendo che Sarah vi avrebbe battuto la testa cadendo dopo essere stata strangolata.
Nel processo in corte d’Assise Miche conferma di essere stato lui ad uccidere Sarah e che le versioni in cui accusava la figlia Sabrina erano state indotte dall’avv. Daniele Galoppa e dal consulente Roberta Bruzzone.
La Corte d’Assise di Taranto ha messo a punto le date delle ultime udienze del processo per l'uccisione di Sarah Scazzi. Il 25 e il 26 febbraio 2013 è prevista la requisitoria del pubblico ministero Mariano Buccoliero, il 4 marzo prenderà la parola il procuratore aggiunto Pietro Argentino, poi sono state fissate altre udienze per la discussione delle parti civili e dei difensori degli imputati fino all’8 aprile. Gli imputati sono nove. Sono accusate di omicidio volontario, sequestro di persona e soppressione di cadavere la zia di Sarah, Cosima Serrano, e sua figlia Sabrina Misseri. Michele Misseri è imputato di concorso in soppressione di cadavere con le due donne e del furto del telefonino di Sarah e di danneggiamento, seguito da incendio, degli effetti personali di Sarah. Carmine Misseri e Cosimo Cosma sono accusati di concorso in soppressione di cadavere. Gli altri quattro imputati a giudizio sono l'avvocato Vito Russo, ex difensore di Sabrina, al quale vengono contestati i reati di favoreggiamento personale e intralcio alla giustizia, e altri tre presunti favoreggiatori: Antonio Colazzo, Cosima Prudenzano e Giuseppe Nigro, che sono il cognato, la suocera e l’amico del fioraio di Avetrana Giovanni Buccolieri che dapprima raccontò di aver visto Cosima Serrano costringere Sarah, con la forza a entrare nella propria automobile e poi disse che si era trattato di un sogno. Buccolieri non è a giudizio in questo processo.
Concetta Serrano, fuori dall’aula nella pausa del processo, in collegamento con Giancarlo Magalli a “I Fatti Vostri” non ha perso occasione di accusare i suoi parenti e di promuovere la sua religione (Testimoni di Geova) con citazioni bibliche che ha lasciato inebetiti gli interlocutori in studio. (Vi era anche l’avv. Nino Marazzita). Intervistata da Filomena Rollo (la giornalista definita “cretina” da Michele Misseri perché accusata di essere giustizialista nei confronti di Sabrina) ha, anche, accusato i testimoni chiamati in aula di pensare più alla loro posizione che ad affermare la verità. Intanto l’odio parla per bocca della madre si Sarah. «L'hanno uccisa per tapparle la bocca. Perché‚ Sarah non doveva parlare più. Ho la sensazione che la bambina sapesse o avesse visto qualcosa… che sotto ci fosse qualcosa di grave». Lo ha detto Concetta Serrano, madre di Sarah Scazzi, la ragazzina uccisa ad Avetrana, in un'intervista che verrà trasmessa il 25 gennaio da "Quarto Grado" su Retequattro e della quale è stata diffusa un'anticipazione. Per Concetta, «la bugia più grossa di mia nipote Sabrina (Sabrina Misseri, accusata con la madre Cosima dell'omicidio) è stata quando ha detto "Mio padre è un vigliacco"». «Quando Sabrina dice così - ha detto ancora - vuol far credere che sia stato Michele ad uccidere Sarah e non lei. Secondo me, in realtà, il senso è un altro: lo dice perché‚ suo padre ha parlato e invece doveva stare zitto, come hanno fatto lei e la madre tutto questo tempo». Per Concetta, «visto che non hanno nessun altro a cui dare la colpa, le due si nascondono vigliaccamente alle spalle di Michele. Lui si presta, perché‚ sono le sue donne: la figlia e la moglie». Parlando del comportamento di Michele in aula, la signora Serrano ritiene probabile «che in aula Michele stia recitando o calcolando la corda giusta per impiccarsi, visto che dice che vuol farla finita». In chiusura Concetta parla della sorella Cosima: «C'è un detto che dice "Chi tace acconsente". Prima nelle interviste Cosima sbandierava la frase "Male non fare, paura non avere". Adesso si è ammutolita. Vorrei capire perchè davanti al giudice non parla». «Da sorella a sorella - conclude - vorrei chiederle cosa voleva dire il 26 agosto, in caserma, quando ha detto riferendosi a Sarah: "Questa volta l'ha fatta grossa. Questa sera, se viene, quando viene, le devi tirare uno schiaffone". Vorrei capire cos'ha fatto di grosso o cos'ha detto di tanto grave Sarah».
Non c’è dubbio nel suo pensiero, né discernimento tra i fatti avvenuti e quelli raccontati. Stille di odio e non di razionalità. L’esperienza dovrebbe insegnare e i suoi avvocati, proprio loro che difendono Salvatore Parolisi, dovrebbero spiegarle che nulla è mai come appare e che i giudizi (e le condanne) vanno date al di là di ogni ragionevole dubbio. E spesso l’odio o le influenze interessate sono cattive consigliere.
IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. LA STRAGE DI ERBA. OLINDO ROMANO E ROSA BAZZI. Non si arrendono i sostenitori dell’innocenza di Olindo Romano e della moglie Rosa Bazzi, definitivamente condannati all’ergastolo come autori della strage di Erba, l’11 dicembre del 2006. La notizia, rimbalzata via internet, riguarda la costituzione di un "Comitato Rosa - Olindo:”giustizia giusta", fondato dall'avvocato Diego Soddu e dai giornalisti Paola Pagliari e Cristiana Cimmino, quest'ultima già autrice di una pubblicazione, "Finché morte non ci separi", che raccoglie le lettere di Rosa e Olindo dal carcere. Secondo i sostenitori dell'innocenza della coppia, «il Comitato ha come scopo principale quello di promuovere le iniziative e le attività che ritiene idonee al fine di dimostrare l'ingiusta condanna di Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano, attualmente condannati all'ergastolo. Sono campi di intervento del Comitato tutti quelli in cui si può impegnare in una lotta civile contro le forme di ignoranza, intolleranza, preconcetti, emarginazione e discriminazione nei confronti di Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano». Tra i propositi ci sono quelli di organizzare convegni, dibattiti, riunioni, di lanciare petizioni, raccolte pubbliche di adesioni, fondi e firme. I due coniugi erbesi, lo ricordiamo, furono riconosciuti, dopo tre gradi di giudizio, colpevoli di una delle più orrende stragi dell'Italia del Dopoguerra. Persero la vita una giovane mamma, Raffaella Castagna, all'epoca 30 anni, disoccupata, volontaria in una comunità di assistenza a persone disabili, colpita con una spranga e da dodici coltellate; Paola Galli, 60 anni, casalinga, madre di Raffaella, lei pure uccisa a colpi di coltello, e la vicina di casa Valeria Cherubini, 55 anni, commessa, accorsa per prestare aiuto. Con un unico colpa alla gola, Rosa Bazzi assassinò il piccolo Youssef Marzouk, un bambino di due anni e tre mesi, figlio di Raffaella. Il marito della Cherubini, Mario Frigerio, 63 anni, si salvò per un miracolo. La sua testimonianza si rivelò fondamentale per la condanna degli assassini. Sono ormai passati più di sei anni da uno dei delitti più efferati, la strage di Erba, ma nonostante la confessione dei due colpevoli, i coniugi Olindo e Rosa Romano che abitavano nello stesso palazzo in cui sono avvenuti i fatti, c'è chi li difende e ha deciso di fondare anche un comitato a loro sostegno. E' sempre difficile riuscire a dimenticare un caso di cronaca particolarmente grave nonostante il passare degli anni e il delitto di Erba è certamente uno di questi proprio perchè a causa di alcune liti di condominio due coniugi, Olindo e Rosa Romano, che sono ora stati condannati all'ergastolo, hanno deciso di agire con grande crudeltà attraverso coltellate e spranghe uccidendo quattro persone, tra cui anche il piccolo Youssef, che al tempo aveva solo due anni e mezzo e senza mostrare alcun tipo di pentimento. A distanza di qualche anno Carlo Castagna, che con questo delitto ha perso moglie, figlia e nipotino, ha trovato la forza di perdonare comunque gli assassini, anche se ben diversa è la reazione di Azouz Marzouk, il suo ex genero, che non solo si è ricostruito una famiglia, ma clamorosamente è arrivato addirittura a ipotizzare che i colpevoli non siano Rosa e Olindo. Il parere de tunisino, pur essendo sorprendente, non è però l'unico e lo dimostra anche la nascita di un comitato nato in loro dfesa chiamato appunto "Comitato Rosa - Olindo: giustizia giusta", che si pone proprio l'obiettivo quello di promuovere una serie di iniziative e attività volte a dimostrare l'ingiusta condanna della coppia. Si tratta comunque di un progetto apolitico e apartitico nato dall'iniziativa dell'avvocato Diego Soddu e delle giornaliste Paola Pagliari e Cristiana Cimmino, autrice del libro "Finchè morte non ci separi", che raccoglie proprio le lettere che i due si son scambiati da quando sono rinchiusi in carcere a dimostrazione che il loro legame, per quanto li abbia portati a compiere un atto tanto grave, non ha scalfito minimamente il loro amore. Da qui in avanti si proverà quindi a lottare contro ogni forma di ignoranza, intolleranza, preconcetti, emarginazione e discriminazione nei confronti di Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano. Chi lo vorrà potrà quindi aderire a questa iniziativa attraverso la partecipazione a dibattiti, convegni, riunioni o raccolte fondi che saranno organizzati nei prossimi mesi. Azouz Marzouk scagiona Olindo e Rosa: "Non hanno ucciso loro Youssef e Raffaella". Una rivelazione che può riaprire il processo. Il marocchino pensa che i due assassini della moglie e del figlio non sono i vicini di casa. Parole che fanno discutere. I colpevoli non sono più colpevoli. Una rivelazione che può ribaltare una sentenza. Azouz Marzouk torna a parlare sulla strage di Erba. La sua dichiarazione lascia molte ombre su quello che è successo in quelle sera quando morirono il figlio Youssef, di 2 anni e la moglie Raffaella Castagna, e la suocera. Per l'omicidio sono stati condannati Olindo Romano e Rosa Bazzi, che per discussioni condominiali avevano deciso di fare fuori un'intera famiglia. Ora Marzouk parla e mette in dubbio la colpevolezza di Olindo e Rosa: "Loro non sono i colpevoli, sono solo dei poveretti che stanno pagando la loro ingenuità. Credo che giustizia non sia stata fatta – spiega al quotidiano “Il Giorno” a firma di Gabriele Moroni -. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente particolari che mi convincono che a ucciderli non siano stati i Romano”. Azouz vorrebbe la riapertura del procedimento per dimostrare che i due vicini non hanno compiuto la strage. “Ci sono dei colpevoli in giro e degli innocenti in galera. Prima o poi farò uscire la verità”. Su Erba il sipario non cala mai. «Olindo e Rosa sono innocenti. Mi batterò perché la loro innocenza venga a galla». Azouz Marzouk sei anni dopo. A sei anni dalla strage di Erba, quell’11 dicembre di orrore infinito, nella casa di ringhiera, grande come un falansterio, in via Diaz 25/C. Il giovane tunisino, marito, padre e genero di tre delle quattro vittime, parla da Zaghouan, la cittadina dove vive. E va oltre. La Cassazione si preparava a confermare l’ergastolo ai coniugi Romano, i vicini di casa che si erano autoproclamati giustizieri, e già Azouz auspicava una rilettura dell’inchiesta. Oggi Marzouk compie un passo in più. «Credo - dice scandendo le parole nell’italiano corretto di sempre - che giustizia non sia stata fatta. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente in mente particolari sia del processo sia della vita passata di mia moglie e di mio figlio che mi convincono che a ucciderli non sono stati loro, i Romano. Vedremo per un nuovo processo». Lancia quella che suona come una sfida. «Non ho mollato il processo. Chi pensa che mi sia fatto da parte si sbaglia. Prima o poi farò uscire la verità». L’ex netturbino di Erba e la moglie, la colf maniaca di ordine e pulizia, sono allora due innocenti murati nel carcere a vita? Azouz denuncia il suo parere assolutorio: «Sono dei poveretti che stanno pagando la loro ingenuità. Ci sono dei colpevoli in giro e degli innocenti in galera. Lo so perché ho passato anch’io il carcere da innocente, sottolineo da innocente». Una nuova moglie conosciuta a Lecco, una bambina, la proprietà di un minimarket nella sua città. Quanto pesa il passato sulla vita che ha ricominciato? «Porto nel cuore la breve vita che abbiamo passato insieme, io, Raffa, nostro figlio. La ripercorro almeno una volta la settimana per non dire tutti i giorni. L’amore per loro non lo può cancellare nessuno. L’uomo non è un computer a cui è possibile cancellare la memoria». Quella sera acqua mista e sangue lungo le scale, ristagnava nell’ampio cortile. Nell’appartamento al primo piano i corpi massacrati di Raffaella Castagna, della madre Paola Galli, del piccolo Youssef, due anni, sgozzato, riverso su un divano. Valeria Cherubini, la premurosa vicina, era vissuta giusto il tempo di risalire le scale, nove gradini, un pianerottolo, un’altra rampa e altri nove gradini, inseguita dal coltello assassino, per andare morire nella sua mansarda. Un uomo contemplava il massacro della sua famiglia: Carlo Castagna, il marito di Paola, il padre di Raffaella, il nonno di Youssef. Uomo di lavoro e di fede. Lì affonda la sua serenità, la stessa che usa per commentare le affermazioni di Azouz: «Non ho parole. Rispetto la sua posizione, anche se non riesco a capire cosa lo abbia indotto a prenderla. Mi pare incredibile, dopo tre gradi di giudizio. Come mi pare incredibile il ricorso della difesa a Strasburgo, come se non si avesse fiducia nella magistratura italiana. Vado avanti. Vivo nel ricordo di quelli che ho perduto, nella speranza e nell’attesa di raggiungerli. Nella vita ho messo il fieno in cascina con mia moglie Paola. Tanto fieno. Mi ha aiutato a passare questi inverni gelidi». Il coltello che gli trapassa la gola e recide una corda vocale. Nelle orecchie le invocazioni di aiuto della moglie. Mario Frigerio, il marito di Valeria Cherubini, è l’unico sopravvissuto. Ha lasciato Erba, vive in una paese vicino (ancora in via Diaz), a pochi passi dalla casa di Elena, la figlia dolce e forte. «Il nostro dolore - dice Elena - lo teniamo tutto dentro. La sofferenza è ancora tanta, tanto grande che è difficile esprimerla a parole». La truce saga di Erba forse non è ancora conclusa. Il difensori di Olindo e Rosa tenteranno di ottenere un nuovo processo. «Stiamo lavorando - dice l’avvocato Fabio Schembri - per la revisione. Abbiamo raccolto elementi interessanti, nuove dichiarazioni».
IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. FABRIZIO CORONA COLPEVOLE DI SFRONTATEZZA ED ARROGANZA.
Corona di spine con predica. Per quali misteriose ragioni Fabrizio Corona sia ancora in carcere, dopo essere stato liberato una prima volta, pertiene al rovesciamento del principio costituzionale secondo cui la prigione ha l'obbiettivo non di punire ma di riabilitare, scrive Vittorio Sgarbi, Mercoledì 20/12/2017, su "Il Giornale". Per quali misteriose ragioni Fabrizio Corona sia ancora in carcere, dopo essere stato liberato una prima volta, pertiene al rovesciamento del principio costituzionale secondo cui la prigione ha l'obbiettivo non di punire ma di riabilitare. L'articolo 27 recita: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Evidentemente non lo ha letto bene il pm Tiziana Dolci. Dopo il precedente del pluridifeso (da attacchi che non ha avuto) Nino di Matteo, che nelle sue requisitorie abbonda più in teoremi che in fatti, abbiamo adesso la denuncia di «bugie clamorose» (da verificare) da parte di Corona: «Non si può scrivere quello che si vuole in un atto della Procura della Repubblica, siamo in uno Stato civile, non siamo in uno Stato in cui la magistratura può scrivere quello che vuole, vale per me e per tutti i cittadini». In effetti il dovere della verità, per un pm, dovrebbe prevalere sulla passione per l'accusa che, sostanzialmente, crea una disparità fra il magistrato e l'imputato. E, siccome i fatti non si possono discutere, la reazione a una contestazione non può essere una predica, ma un'affermazione certa. E invece, tradendo lo spirito dell'articolo 27, la Dolci ha risposto come una preside che crede nell'esempio delle punizioni: «Basta con questa aggressività, non c'è nessun motivo. Faccia tesoro delle esperienze passate». Chissà cosa avrebbe detto a Caravaggio!
Fabrizio Corona: la giustizia sbaglia, ma non perdona, spiega Antonio Pellegrino. Dopo la fuga in Portogallo, Fabrizio Corona si è consegnato alle autorità portoghesi. Tornato in Italia, dovrà scontare 7 anni, 10 mesi e 17 giorni di carcere (la condanna iniziale era di 5 anni). Il reato di estorsione deve essere sicuramente punito e non ci sono scusanti. (Ma quel fatto configura l’estorsione e se sì, perché non perseguire tutto il sistema gossipparo?) In tale sede mi preme sottolineare il modus operandi quantomeno discutibile, a mio avviso della giustizia italiana. Il titolo del blog in esame non deve indurre il lettore in errore: con la locuzione “la giustizia sbaglia” non intendo affermare che la pena inflitta al fotografo dei vip sia erronea, bensì credo sia sbagliata nella sua commisurazione. Un esempio su tutti può evidenziare il mio ragionamento: Michele Misseri, noto alle cronache per essere implicato nella vicenda che ha portato all'uccisione di sua nipote, Sarah Scazzi, fu accusato di occultamento di cadavere. Si parla quindi di una vicenda legata alla morte di una persona, per di più una ragazza quindicenne. L'articolo 412 del codice penale recita testualmente: “Chiunque occulta un cadavere, o una parte di esso, ovvero ne nasconde le ceneri, è punito con la reclusione fino a tre anni”. Il reato di estorsione, dal canto suo, è disciplinato dall'articolo 619 del codice penale: “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 516 a euro 2.065”. C'è qualcosa che non quadra nelle due vicende: nella prima, quella riguardante Corona, quest'ultimo viene condannato a 5 anni dalla Cassazione (pena poi aumentata per la fuga) per aver estorto 25 mila euro a David Trezeguet, calciatore plurimilionario; nella seconda, legata all'omicidio di una ragazza, il codice prevede per occultamento di cadavere una pena massima di tre anni (il giudice decide da da zero a tre anni). Badate bene: con questo esempio non voglio scagionare il più noto paparazzo d'Italia, ma sottolineare l'incongruità della sua pena. Il reato di estorsione è sì grave, ma come molte norme del codice, penale o civile, c'è bisogno sempre di una interpretazione giurisprudenziale. L'estorsione di 25 mila euro fatta ad un calciatore plurimilionario è sicuramente meno grave rispetto a quella fatta ad una qualsiasi persona che porta a casa uno stipendio “ordinario”. In questo caso, anche 1000 euro sarebbero influenti nell'economia familiare. La giustizia italiana, talvolta, mostra alcune incongruenze e non solo. Lettera aperta a Tempi di Giuseppe Lucibello, avvocato di Fabrizio Corona: “Inspiegabile disparità di trattamento. In tutta questa vicenda l’aspetto che suscita maggiori perplessità è l’inspiegabile disparità di trattamento tra un Tribunale e l’altro”. «Nel paese dove tutti si sentono allenatori della Nazionale di calcio si assiste, da qualche giorno, ad un nuovo, avvincente, esercizio intellettuale: improvvisarsi avvocato difensore del sig. Fabrizio Corona. In televisione e sui giornali ognuno dice la sua spingendosi sino a voler individuare, retrospettivamente, le migliori strategie processuali. Tuttavia, prima di lanciarsi in più o meno autorevoli, nonché improvvisate, dissertazioni su come si sia giunti alle sentenze di condanna occorrerebbe avere piena cognizione delle vicende processuali. Pertanto abbandonando il riserbo che mi ero imposto per non incentivare inutili illazioni e strumentalizzazioni sulla pelle di Fabrizio e sulla tragedia che sta vivendo, ritengo che sia doveroso, a questo punto, effettuare alcune considerazioni, avendo vissuto questa vicenda in prima persona (sia pur a processi già avviati, con le ovvie preclusioni del caso). Quando sono iniziate le sue vicissitudini giudiziarie (Potenza- Woodcock – con l’inchiesta Vallettopoli) Fabrizio era stato rappresentato come il dominus di una sorta di S.P.E.C.T.R.E. del gossip, seppur incensurato. Dopo anni di processi, grazie alla paziente e laboriosa opera anche dei colleghi che mi hanno preceduto o affiancato, l’ipotesi accusatoria di Potenza è stata smontata e la quasi totalità delle accuse mosse a Corona è venuta meno. L’imputazione di associazione per delinquere non è giunta neanche al dibattimento. Conseguentemente le contestate estorsioni, si sono “sparpagliate” – per ragioni di competenza territoriale – in mezza Italia, creando così il primo serio danno a Fabrizio, costretto a difendersi in più sedi anziché innanzi ad un unico Giudice. I giudizi sono stati i più disparati; come si suol dire paese che vai usanza che trovi. Per i Giudici di Roma il pagamento di decine di migliaia di euro – da parte di un noto sportivo – per il ritiro di un servizio giornalistico non aveva natura illecita, tant’è che il procedimento è stato archiviato. I Giudici di Milano, competenti per sette casi di estorsione tentata o consumata, tra il primo ed il secondo grado, hanno ritenuto di mandare assolto Corona in ben 5 di essi. La condanna, ad un anno e 5 mesi, per i due residui tentativi è intervenuta per l’eccessiva lesività delle foto. Nonostante le decisioni di Roma e Milano, i Giudici di Torino, per un fatto indiscutibilmente analogo a quelli per cui vi è stata assoluzione, hanno ritenuto Corona colpevole condannandolo alla pesantissima pena di 5 anni di reclusione. Un esito particolarmente infausto che conclude un iter travagliato e denso di colpi di scena: basti pensare che il GUP inizialmente aveva mandato assolto Fabrizio o che la Corte d’Appello, “giocando” tra attenuanti ed aggravanti, ha aumentato la pena inflitta dai Giudici di primo grado da tre anni e quattro mesi a cinque anni. In punto di pena basti pensare che il Tribunale di Milano, in primo grado, per un’estorsione consumata e tre casi di estorsione tentata aveva inflitto una pena di tre anni e otto mesi! Ebbene il sottoscritto è ancora fermamente convinto che le condanne inflitte in relazione alla pratica del “ritiro” siano assolutamente ingiuste e che prospettare a qualcuno l’esercizio di un diritto quale la pubblicazione di un servizio fotografico (realizzato lecitamente) non ha nulla a che fare con la coercizione tipica del reato di estorsione. Del resto è singolare che dal 2007 ad oggi la lotta a questa “diffusissima pratica” si sia risolta unicamente nel processo a Fabrizio Corona ed ai suoi collaboratori. Se fosse bastata una sola inchiesta a smantellare definitivamente una pratica illecita ci troveremmo innanzi alla più efficace operazione anticrimine di questo paese. Ma posto che il “ritiro” dei servizi risulta essere ancora, pacificamente, in auge è evidente come Corona abbia assolto la funzione di capro espiatorio e che nella eccessiva severità di questa condanna siano entrate in gioco molte, troppe, variabili. Tra queste variabili che peso hanno avuto le assoluzioni di Corona a Milano nella condanna di Torino? In definitiva, in tutta questa vicenda l’aspetto che suscita maggiori perplessità è l’inspiegabile disparità di trattamento tra un Tribunale e l’altro e la circostanza che, pur applicando le stesse norme di diritto, i Giudici siano giunti a sentenze così diverse. Mai come in questo caso, in effetti, la supplenza giurisdizionale volta a colmare l’ennesimo vuoto legislativo ha prodotto risultati così discordanti.
IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. DELITTO DI MELANIA REA.
SALVATORE PAROLISI CON IL MOVENTE INTERSCAMBIABILE. Altra incongruenza. Il delitto di Melania Rea. Salvatore Parolisi è stato condannato per l'omicidio di Melania Rea? Si chiede Michela Murgia. Dipende dai punti di vista. Certo, in un'ottica giuridica la sentenza contro di lui non è nulla di meno che una condanna all'ergastolo, ma le motivazioni che sono state depositate dal giudice Tommasini raccontano piuttosto la storia di un'assoluzione civile. Raccontano, perché è questo che le motivazioni alle sentenze devono fare, e lo fanno nello stesso modo in cui lo fanno i romanzi, al punto che alcuni romanzieri italiani tengono appositi corsi ai giudici per insegnare loro a scriverle in modo narrativo. Se dovessimo quindi vederla dal punto di vista letterario, la ricostruzione del caso Rea mostra una trama che lascia interdetti, perché l'omicida vi appare come una figura fragile e deviata, preda di incontrollabili istinti, ma sottomessa e vessata dalla personalità forte di una moglie che lo umiliava di continuo. Melania Rea viene descritta invece come un'Erinni che faceva vivere il marito «in una sorta di sudditanza morale e fisica, già peraltro esistente per il divario economico e culturale ravvisabile tra le rispettive famiglie d'origine». In che modo venire da famiglie di diversa condizione socio-economica dovrebbe determinare sudditanza morale e addirittura fisica tra due coniugi non è per nulla chiaro, ma il giudice lo racconta come se il rapporto fosse logico. Tutte le ipotesi di premeditazione per odio, avidità e desiderio di vivere senza impedimenti un'altra relazione sono venute a cadere in questa nuova narrazione: quello di Parolisi è un «delitto d'impeto», un altro di quei «delitti passionali» che tante aggravanti fanno cadere nei processi per femminicidio. Di passione, intesa come brama sessuale, nella narrazione del giudice Tommasini ce n'è proprio tanta. Pure troppa per essere letterariamente credibile, al punto che viene presentato come verosimile un uomo che si eccita alla vista della moglie occupata in funzioni fisiologiche in un prato e vuole accoppiarsi sul posto a dispetto della figlia minore che poco distante dorme in auto. Ma persino il lettore di gialli di serie B riterrebbe fuori luogo che nel 2013 il rifiuto di Melania Rea ad avere rapporti sessuali in una situazione come quella venga raccontato come «l'ennesima umiliazione» inferta al marito e che l'omicidio feroce che ne è derivato sia motivato come reazione istintiva a un'umana passione respinta con sprezzo. Nella narrazione della sentenza del giudice Tommasini Melania Rea non è morta perché Parolisi la odiava, la tradiva e non sopportava che i soldi in casa li avesse lei. È morta invece perché ha rifiutato di soddisfare le «impellenti esigenze sessuali» di un uomo certamente bugiardo e avido, ma che lei umiliava ripetutamente e che aveva nei suoi confronti un rapporto di «sudditanza fisica e morale». È Melania Rea che è morta, ma nelle motivazioni della sentenza la vittima alla fine è Salvatore Parolisi. Che brutta storia ha scritto, signora giudice. Da qui lo sfogo di Salvatore Parolisi riportato da Il Centro “”. «Io e Melania quel giorno siamo stati a Colle San Marco. L’ho sempre detto, nessuno mi ha creduto. Oggi un giudice riconosce questa verità. Ma per me non c’è nessun sollievo. Di che cosa dovrei sentirmi sollevato? Io so di non essere l’assassino. Ma come posso difendermi da accuse che cambiano sempre?» Salvatore Paroli si si prepara ad affrontare il secondo processo di un’altra vita: quella senza moglie, senza figlia, con una condanna di primo grado all’ergastolo. Nella sala colloqui di Castrogno consegna amarezza e paure all’avvocato Nicodemo Gentile, uno dei legali che lo difende con Valter Biscotti e Federica Benguardato. Chi è il caporal maggiore? L’assassino di Melania Rea o lo sventurato protagonista di un destino maligno che gli ha assegnato, in un solo colpo, due tragedie: la moglie ammazzata con 35 coltellate e le accuse contro di lui ? «Ora è un uomo molto preoccupato a cui non dà più sollievo nemmeno il fatto di sapersi innocente», dice Gentile, «perchè si trova davanti un’accusa in continua evoluzione, con una dinamica che cambia di giudice in giudice». A cominciare dal movente. Il giudice Marina Tommolini, il magistrato che lo ha condannato all’ergastolo al termine di un rito abbreviato, nelle sue motivazioni ne ipotizza un altro: Parolisi avrebbe ammazzato la moglie perchè lei gli ha negato un rapporto sessuale. «Mi sono difeso dall’imbuto passionale, mi sono difeso dal segreto inconfessabile della caserma e continuerò a difendermi perchè io non ho ucciso», dice all’avvocato, «ma come faccio a difendermi da accuse che cambiano sempre? Il perchè e il come di questo delitto continuano a mutare. Se è così, è davvero facile condannare una persona». Lo fa nel giorno in cui all’Aquila s’inaugura l’anno giudiziario e il presidente della Corte d’appello Stefano Schirò dice che le «sentenze vanno criticate, ma non denigrate». Al suo avvocato, pronto a dire «che c’è il massimo rispetto per il giudice Tommolini, l’unico che ha avuto il coraggio di dire che erano stati violati i diritti della difesa», racconta che non è Melania, non è la loro vita quella tratteggiata nelle sessanta pagine di una sentenza che ha letto e riletto. «Quel 18 aprile non c’era tensione, Melania mi aveva perdonato per il mio tradimento. Melania non è mai stata aggressiva, non è mai stata dominante», dice il caporal maggiore, «da quelle pagine emerge un’immagine distorta di mia moglie». Entro i primi giorni di marzo i legali depositeranno il ricorso in Appello e molto probabilmente già prima dell’estate ci sarà la prima udienza del processo di secondo grado. Processo che Parolisi chiederà di tenere a porte aperte. Nel canovaccio che in questi giorni sta prendendo forma nelle mani dei difensori tanti spunti, a cominciare da quello del vilipendio sul corpo di Melania. Per la Tommolini il caporal maggiore l’avrebbe fatto nella mattinata del 20 aprile , giorno in cui nel pomeriggio venne scoperto il cadavere. «Alle 8.57 di quella mattinata», ricostruisce Gentile, «Parolisi chiama i carabinieri che stanno indagando perchè deve consegnare delle cose che gli hanno chiesto nell’ambito delle ricerche. Gli dicono di aspettare a casa e così lui fa. Resta fino alle 10.49 ad attendere i militari con cui si intrattiene anche a parlare per un po’ di tempo. Come avrebbe fatto a raggiungere il bosco di Ripe in un momento, in cui quella zona era piena di elicotteri e forze dell’ordine impegnati nelle ricerche?». Per tutto il resto bisognerà aspettare l’inizio del secondo processo per l’omicidio di Melania Rea. Parla di “nulla totale” uno dei componenti della difesa di Salvatore Parolisi, l’ex caporalmaggiore condannato all’ergastolo per l’omicidio di sua moglie Melania Rea. Il nulla totale corrisponde al fatto che non c’è niente, secondo Federica Benguardato, che colleghi Parolisi alla scena del crimine. Ed è questa, a suo dire, la vera prova della sua innocenza. L’avvocato del marito di Melania è tornato a parlare del caso nella trasmissione televisiva “Attualità” su Vero, ha parlato delle tanto discusse motivazioni della sentenza di condanna e del ricorso in appello. Un ricorso che, ha spiegato, spingerà sulla mancanza di prove sulla scena del crimine: “Non c’è una sola goccia di sangue o solo un capello che leghi Parolisi alla scena del crimine, la sentenza ha ancora molti dubbi aperti e le interpretazioni sono contraddittorie”. Per questi motivi il lavoro della difesa di Salvatore Parolisi, come avevano già annunciato gli avvocati, si muoverà su due fronti: il ricorso in appello per la sentenza di condanna all’ergastolo e l’azione legale per far incontrare il loro assistito con la figlia Vittoria. Secondo l’avvocato Benguardato, infatti, è importante che i due possano vedersi perché la bimba è stata tenuta lontana dal padre anche prima del processo. A proposito della mancanza di prove nell’omicidio, l’avvocato parla in televisione della questione del Dna rinvenuto sulla bocca di Melania e appartenente a Parolisi. Quella traccia è stata considerata per l’accusa una prova schiacciante ma l’avvocato ha affermato che “non ci sono studi che determinano il tempo di permanenza del Dna all’interno della bocca, quindi nessuno è in grado di stabilire quanto tempo prima è avvenuto il contatto”. Per la difesa di Parolisi, inoltre, ci sono molte incongruenze da chiarire anche riguardo al luogo in cui si trovava Melania Rea il giorno della sua uccisione e, infine, non manca in televisione il riferimento al rapporto tra l’ex caporalmaggiore e la sua amante Ludovica Perrone. “Il giudice ritiene la relazione fra i due non forte, è vero Parolisi tenta nell’immediato di depistare le indagini, ma si giustifica come un tentativo di protezione nei confronti della famiglia e della figlia. Gli indizi a suo carico in questo caso non sono stati, infatti, ritenuti sufficienti dal giudice”, ha affermato l’avvocato. Insomma, sia per la sua difesa che per il giudice che ha emesso la sentenza, l’atteggiamento di Parolisi non può far supporre direttamente un coinvolgimento nell’omicidio.
GRAVINA DI PUGLIA: CICCIO E TORE PAPPALARDI. STORIA DI ORDINARIA ITALIANITA'.
La storia di Ciccio e Tore Pappalardi: una storia di ordinaria italianità. La Procura di Bari riapre le indagini sulla morte dei fratellini di Gravina in Puglia, morti il 5 giugno del 2006. Indagano la Procura ordinaria e quella dei minorenni sulla base dell’esposto presentato dalla madre di Salvatore e Francesco Pappalardi, 11 e 13 anni, Rosa Carlucci. Secondo la donna cinque ragazzini, all’epoca dei fatti minorenni, erano in compagnia dei figli e saprebbero di più su come morirono. I corpi furono trovati nel pozzo di un palazzo abbandonato al centro della cittadina murgiana il 25 febbraio del 2006.
La vicenda - Per il periodo della scomparsa gli amici dei due fratellini avrebbero taciuto sulla loro morte ma la donna nella denuncia accusa anche alcuni maggiorenni. Il ritrovamento dei corpi portò a scagionare il padre di Ciccio e Tore che nel frattempo era finito in carcere con l’accusa di aver sequestrato e ucciso i figli e di averne fatto sparire i corpi. Secondo Rosa Carlucci, i fratellini caddero verosimilmente nella cisterna mentre partecipavano, assieme ad altri cinque adolescenti, a un gioco, a una sorta di prova di coraggio nella casa poi soprannominata delle cento stanze. Gli amichetti di Ciccio e Tore, quindi, sempre stando all’esposto, avrebbero visto i due ragazzini precipitare nella cisterna ma avrebbero nascosto la verità. La vicenda dei fratellini di Gravina ha inizio il 5 giugno del 2006 con la scomparsa di Francesco e Salvatore Pappalardi, 13 e 11 anni, di Gravina in Puglia. Una scomparsa rimasta nel mistero per quasi due anni, quando vengono ritrovati morti in una cisterna sotterranea in via Consolazione. Di seguito le tappe del caso.
5 Giugno 2006: E' il giorno della scomparsa a Gravina di Francesco e Salvatore Pappalardi. Al momento della scomparsa da circa venti giorni per decisione del Tribunale dei minorenni sono affidati al padre Filippo che vive con una convivente, Maria Ricupero, le sue due figlie ed una figlia nata dalla seconda unione del genitore. Pappalardi è separato dalla moglie Rosa Carlucci, che vive con un'altra figlia minorenne della coppia a Santeramo in Colle (Bari).
Giugno 2006: Ricerche ininterrotte in città (compresi pozzi e anfratti), nella gravina , sulla Murgia, nei boschi, finanche in Romania. Le ipotesi sono varie: allontanamento volontario, ruolo della madre, pista della pedofilia, pista rumena, tutte senza riscontri. Le indagini si concentrano sul padre.
27 Novembre 2007: Primo sviluppo importante dell'inchiesta: viene arrestato Filippo Pappalardi con le accuse di duplice omicidio aggravato da futili motivi e dai vincoli di parentela ed occultamento di cadavere.
25 Febbraio 2008: La tragica scoperta: i corpi di Ciccio e Tore vengono trovati da un vigile del fuoco alle 19.00 in una cisterna sotterranea di un grande stabile abbandonato (la 'casa delle cento stanze') in via Giovanni Consolazione, nel centro storico di Gravina. Il ritrovamento avviene fortuitamente: nella cisterna è caduto un altro bambino, Michelino, 12 anni, precipitato nel pozzo che conduce alla cisterna da un'altezza di 25 metri. Per soccorrerlo, i vigili del fuoco si calano, facendo così la drammatica scoperta.
11 Marzo 2008: Filippo Pappalardi viene scarcerato ma non viene rimesso del tutto in libertà: dopo l'istanza del legale difensore Angela Aliani e nonostante il parere negativo del procuratore Emilio Marzano e del pm Antonino Lupo, il gip Giulia Romanazzi dispone gli arresti domiciliari. Derubrica l'accusa di omicidio e ipotizza invece il reato di ''abbandono di minore o persona incapace aggravato da morte successiva'', come stabilito dall'articolo 591 comma 3, che prevede una reclusione da 3 a 8 anni di reclusione. Secondo questa nuova impostazione Pappalardi non ha ucciso i due figli Francesco e Salvatore, ma non ha detto tutta la verità e potrebbe avere delle responsabilità in quanto è accaduto.
4 Aprile 2008: Filippo Pappalardi viene rimesso in libertà. Le perizie medico-legali avvalorano l'ipotesi della caduta accidentale. Ciccio è morto per un'emorragia dopo la caduta nel giro di poche ore, Tore è morto nel sonno dopo un'agonia per fame, freddo, sete e per le ferite riportate nella caduta.
24 Luglio 2009: L'inchiesta a carico di Filippo Pappalardi viene archiviata dal gip del tribunale di Bari Giulia Romanazzi. Viene chiuso così ogni possibile profilo penale a carico dell'uomo. Rimane in piedi l'aspetto civile della vicenda con la richiesta di risarcimento danni di 516mila euro del legale Angela Aliani, avanzerà in merito all'ingiusta detenzione 'sancita' dalla Corte di Cassazione il 27 maggio del 2008.
21 Febbraio 2012: La Procura di Bari riapre le indagini sulla morte dei fratellini di Gravina in Puglia, morti il 5 giugno del 2006. Indagano la Procura ordinaria e quella dei minorenni sulla base dell'esposto presentato dalla madre di Salvatore e Francesco Pappalardi, 11 e 13 anni, Rosa Carlucci. Secondo la donna cinque ragazzini, all'epoca dei fatti minorenni, erano in compagnia dei figli e saprebbero di più su come morirono.
Sono gli amichetti di Ciccio e Tore la chiave di volta della riapertura del caso dei fratellini di Gravina in Puglia, Francesco e Salvatore Pappalardi, all'epoca di 13 e 11 anni, morti in un pozzo il 5 giugno del 2006 ma ritrovati solo venti mesi dopo, il 25 febbraio del 2008. Dopo la denuncia della madre, Rosa Carlucci, la Procura di Bari e quella dei minorenni hanno riaperto il caso. I bambini morirono in una cisterna sotterranea dopo che Ciccio cadde da un'altezza di circa 15 metri e l'altro fratellino lo seguì per soccorrerlo. Rosa Carlucci vuole che si indaghi proprio sulle circostanze della caduta e, attraverso le tv, ha fatto sapere che bisogna riascoltare gli amici, all'epoca minorenni, che erano con i due fratellini quel 5 giugno quando scomparvero. L'ipotesi dichiarata pubblicamente dalla madre (anche se non è esplicitata nella denuncia) è quella di una ''prova di coraggio'' a cui i due bambini potrebbero essere stati sottoposti, costretti a scendere in quel pozzo che percorre dalla cima ai sotterranei la famigerata ''casa delle cento stanze'' dove trovarono la morte. E qualcosa poi e' andato storto, con la caduta rovinosa del maggiore dei due fratelli. Agli atti dell'indagine ci sono le testimonianze dei tre amici che dichiarano di aver giocato a gavettoni con dei palloncini nella piazza delle Quattro fontane. Due di loro oggi sono maggiorenni e tra loro c'e' anche il bambino che veniva ritenuto teste-chiave dell'accusa quando dichiarò di aver visto l'ultima volta i suoi amici nell'auto di Filippo Pappalardi. Queste dichiarazioni sono state sconfessate dagli eventi successivi, a cominciare dalla riabilitazione di Pappalardi, ora ritenuto innocente. Era stato arrestato proprio ma dopo il ritrovamento dei corpi fu scarcerato e scagionato da ogni accusa.
La svolta nell'inchiesta avvenne il 25 febbraio del 2008 con il ritrovamento fortuito dei corpi dei bambini dopo la caduta di un altro minorenne, Michele, nello stesso pozzo. Anche lui ci giocava, come altri gruppi di bambini e come Ciccio e Tore. Gli accertamenti medico-legali, radiografici ed anatomo-patologici hanno stabilito che Ciccio è morto nel giro di poche ore per un'emorragia e sono state riscontrate numerose fratture, dovute alla precipitazione. Il più piccolo, Salvatore, è morto invece per un'agonia di freddo, fame, sete. Sono stati riscontrati anche segni di sanguinamento da una ferita. Se davvero c'erano altri bambini, dando l'allarme Ciccio e Tore si sarebbero salvati. Come è avvenuto per Michele che si salvò perché un amico di gioco avvisò la madre. E' questo il dilemma della vicenda. Ma gli amici del 5 giugno non parlano nè vogliono essere disturbati dai giornalisti. Perché è già stata dura uscire da quel trauma ed ora invece vengono nuovamente tirati dentro. Rosa Carlucci indica la presenza di altri bambini con la necessità di fare nuove investigazioni, risentendoli. E' importante sapere se c'erano, cosa hanno fatto, se ci sono implicazioni di genitori in tutto quello che è accaduto. Vale a dire nei silenzi. Quindi se c'è stata omertà. Anche Filippo Pappalardi vuole l'inchiesta sull'ipotesi della ''prova di coraggio'' in cui potrebbero essere coinvolti anche altri bambini. Stavolta gli ex coniugi la pensano allo stesso modo. “Se sarà necessario chiederò la riesumazione delle salme di Ciccio e Tore”. Rosa Carlucci lo riferisce oggi a “Barisera” e lo ripete in diretta tv in quelle trasmissioni che sono tornate a occuparsi della morte dei suoi figli, Francesco e Salvatore Pappalardi. “Ci sono verità nascoste in un maledetto fascicolo che nessuno ha mai preso in considerazione. Anche le modalità del ritrovamento dei corpi non sono chiare. Un piedino di Francesco fu trovato in posizione innaturale. E come mai? E’ giusto che mi diano spiegazioni. E se c’è qualcuno che ha nascosto le cose, è giusto che paghi”. Rosa nutre più di un sospetto ed è per questo che ha deciso di andare avanti. Il suo avvocato è già pronto a sostenere le richieste della donna. “Non ho ancora formalizzato la richiesta di riesumazione dei fratellini – dichiara Domenico Ciocia – Un nuovo esame sarebbe funzionale ad accertare la causa della morte. E’ nostra intenzione ripercorrere tutto l’iter, a 360 gradi, senza lasciare nulla di intentato. E se ci sono dei dubbi, chiarirli”. Aggiunge poi il legale: “Questa volta i nostri dubbi possiamo rappresentarli al magistrato. C’è un approccio più sereno alla vicenda. Nelle precedenti indagini ci si è concentrati sulla figura di Filippo Pallapardi trascurando tutto il resto. Quando poi furono trovati i fratellini e il padre fu scagionato, l’indagine non ha avuto più stimoli per procedere in altre direzioni. E credo che questo sia il problema fondamentale”. L’attenzione della mamma di Ciccio e Tore si è ora concentrata sui compagni di gioco dei suoi figli. Definisce due di loro “leader”, si facevano chiamare così anche perché più grandi. E continuando a indagar in forma privata, Rosa ha scoperto che a Gravina era consuetudine sottoporsi a prove di coraggio nella casa delle “cento stanze”, la stessa dove furono ritrovati morti i fratellini. Insomma, in paese qualcuno potrebbe conoscere la verità e continuare a negarla. “Alcuni compagni di gioco di Ciccio e Tore sono caduti in contraddizione quando furono ascoltati dal magistrato – conclude Ciocia – A Gravina c’è un’omertà dilagante. A volte sembra di entrare in un paesino della Sicilia o della Calabria”.
Da un atto dell’inchiesta sulla morte dei fratellini di Gravina di Puglia Ciccio e Tore, spunta una telefonata che il padre Filippo Pappalardi fece alla questura di Bari chiedendo di verificare circostanze della scomparsa dei figli. Al commissario Barbara Strappato, Pappalardi descrive con dovizia di dettagli circostanze e protagonisti di un’assurda sfida infantile che ha portato alla scomparsa dei suoi figli il 5 giugno 2006. L’uomo parla del luogo dove sono poi stati ritrovati i corpi dei bambini, di un altro bambino che giocava con loro quel pomeriggio. Cita nomi, cognomi, numeri di telefono, prove indiziarie che avrebbero potuto condurre ad una puntuale risoluzione del caso della scomparsa, se verificati subito. Grazie alla determinazione della madre dei bambini, ex- moglie di Pappalardi, che ha portato avanti con convinzione la sua battaglia per la verità in questa storia, finalmente, emerge un quadro chiaro di ciò che potrebbe essere accaduto. Una puerile ed incosciente sfida di coraggio proposta ad uno dei due ragazzini, si è sviluppata in una tragedia che ha commosso tutto il paese.
Ciccio e Tore, la verità in una registrazione? A Tgcom24 la telefonata del papà alla questura Filippo Pappalardi la sera del 14 agosto 2006 chiamò il commissario capo della Polizia di Stato Barbara Strappato fornendo dettagli sull'ultima sera in cui furono visti i suoi figli E' la sera del 14 agosto 2006: Filippo Pappalardi, il papà di Ciccio e Tore i due fratellini di 11 e 13 anni, morti nel 2006 dopo esser precipitati nella cisterna di un palazzo abbandonato a Gravina di Puglia, chiama la questura di Bari e chiede di verificare una testimonianza. Filippo parla in maniera dettagliata con il commissario capo della Polizia di Stato, Barbara Strappato fornendo dettagli sulla sera del 5 giugno, giorno della scomparsa dei suoi figli. In particolare nomina un bambino che quel pomeriggio stava giocando con Ciccio e Tore: cita luoghi esatti, cognomi precisi, numeri di telefono e tutta una serie di indizi che forse avrebbero potuto svelare prima il mistero della scomparsa. Da quando si è riaperto il caso sulla morte dei fratellini, grazie alla pervicacia della mamma, l'attenzione degli investigatori si è concentrata proprio su quei bambini che forse imposero una prova di coraggio finita in tragedia. Una pista, all'inizio, forse trascurata.
La richiesta di archiviazione del pm è stata rigettata, la Procura di Bari dovrà rileggere le carte, fare ulteriori accertamenti sugli atti già a sua disposizione e, entro tre mesi, comunicare al giudice la nuova valutazione. L’inchiesta in sostanza deve andare avanti, così ha deciso il giudice Antonio Diella che era stato chiamato a decidere se porre o meno la parola fine su una vicenda legata all’indagine sulla scomparsa dei fratellini di Gravina, Salvatore e Francesco Pappalardi. A riaccendere i riflettori sull’inchiesta una data di un verbale di audizione del padre di Ciccio e Tore, Filippo Pappalardi, che sarebbe stata cambiata a penna e posticipata di circa due mesi. Il 17 giugno del 2006, dodici giorni dopo la scomparsa di Ciccio e Tore, Filippo Pappalardi venne ascoltato dagli investigatori e riferì a polizia e magistratura che una donna di Gravina le aveva confessato di aver visto i suoi figli giocare in piazza Quattro fontane prima che si perdessero le loro tracce. Quando Pappalardi fu arrestato (il 27 novembre 2007) con l’accusa di aver ucciso i ragazzini, tra gli indizi a suo carico venne inserito anche quel verbale. Ma la data dell’audizione era stata cambiata a penna, non veniva più riportato il 17 giugno 2006 bensì il 16 agosto dello stesso anno. Nell’accusare Pappalardi, gli inquirenti si chiedevano come mai l’uomo avesse riferito agli investigatori quei particolari ritenuti importanti solo due mesi dopo la scomparsa dei figli e non immediatamente. La tesi degli inquirenti era che Pappalardi stava provando a depistare le indagini. Ma la difesa dell’uomo, l’avvocato Angela Aliani, durante l’udienza davanti al Tribunale del Riesame sollevò il problema della data cambiata a mano. Il 13 dicembre 2007, però, i giudici sostennero che l’ipotesi del “falso” nella data risultava “priva di elementi di riscontro”. La Procura aprì un fascicolo senza indagati né ipotesi di reato, salvo poi chiedere al gip l’archiviazione non avendo trovato riscontri. Il giudice, però, ha rigettato la richiesta della Procura. Dopo la decisione della Procura di Bari di riaprire le indagini per la morte di Ciccio e Tore, i fratellini di Gravina di Puglia, Rosa Carlucci, la madre dei piccoli di 13 e 11 anni trovati morti venti mesi dopo la loro sparizione (i sospetti all'epoca caddero proprio sulla donna) alla trasmissione tv 'Quarto grado' del 24 febbraio 2012 ha denunciato di essere stata malmenata dagli inquirenti. A tanti mesi della tragedia, ospite nello studio per fare il punto sulle indagini, la donna dopo la proiezione di un filmato in cui si sottolineava come all'epoca (nel 2006) i sospetti per la sparizione dei bambini caddero su di lei, la signora Carlucci è sbottata dicendo:«Ho subito sedici ore di interrogatorio e sono anche stata malmenata dagli organi inquirenti». Poi:«Mi hanno messo le mani alla gola, hanno aperto una finestra minacciando di lanciarmi di sotto». E solo alla fine, ha detto, «si sono scusati affermando che era il loro metodo per arrivare ad avere informazioni».
Indizi fragili, suggestioni, false piste: i buchi neri di un'indagine che adesso rischia di sgretolarsi. Tra intercettazioni e microspie. La caccia al colpevole perfetto e l'inchiesta è finita in un pantano. L’inchiesta di Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. L'inchiesta ha tanti buchi quanti ce ne sono nel ventre di Gravina in Puglia. Il padre era il colpevole perfetto e sembra proprio un brutto pasticcio giudiziario quello che si sta per rivelare intorno alla morte di Francesco e Salvatore, i fratellini ritrovati in fondo a una caverna. Errori, passi falsi, incertezze investigative. Il "caso" è raccontato soprattutto da una frase, due righe scritte da quei magistrati di Bari che hanno deciso l'arresto del padre per l'omicidio dei suoi figli. È alla pagina 165 dell'ordinanza di custodia cautelare contro Filippo Pappalardi: "Sarà sua cura, se lo vorrà, spiegare a questa Autorità Giudiziaria dove li abbia portati e, soprattutto, dove gli stessi siano attualmente". I procuratori hanno praticamente chiesto all'imputato di fornire le prove che loro non avevano trovato. È la sintesi di un'investigazione, il riassunto di diciassette mesi di ricerche. È la fine del novembre del 2007, il padre violento è appena finito in carcere per avere ammazzato i due bimbi, l'inchiesta è chiusa e con una rapidità sorprendente - 15 minuti è il conto che fa Angela Aliani, l'avvocato di Pappalardi - il Tribunale del riesame conferma l'impianto accusatorio che indica nel violento autotrasportatore l'assassino di Salvatore e Francesco. "Filippo Pappalardi non può confessare quello che non ha fatto, è incredibile, i procuratori dicono che è stato lui a uccidere i suoi figli senza però dimostrarlo con gli atti", accusa sempre l'avvocato Aliani dopo aver letto le carte sull'arresto del padre padrone. E denuncia, dopo il Tribunale del riesame: "Quei giudici sono senza pudore, poco più di un quarto d'ora per decidere su una situazione così complessa, significa che sapevano già come sarebbe andata a finire prima di entrare in camera di consiglio: scandaloso". Bisogna cominciare dalla fine per ricostruire questa inchiesta che vacilla sempre di più dopo la scoperta dei corpicini, la loro posizione in fondo al pozzo (erano distanti uno dall'altro, segno inequivocabile che erano ancora vivi, che uno dei due si è spostato di almeno quindici metri), il luogo inaccessibile senza essere visti da qualcuno, la frattura del femore del bambino più grande. Bisogna cominciare da quell'ordinanza di custodia cautelare quando i magistrati arrivano all'assassino. Interpretando malamente parole intercettate. Credendo frettolosamente a una tardiva testimonianza. Lasciandosi trasportare da suggestioni per azzardare ipotesi che oggi sembrano smentite dai fatti. Per esempio. Nell'atto di accusa i magistrati scrivevano ancora: "Solo la perfetta conoscenza del territorio, l'indagato ha fatto anche il pastore, poteva agevolare l'occultamento dei cadaveri rendendo vane le ricerche fin qui operate in un luogo impervio come quello della Murgia ricca di gravine e pozzi". Il pozzo della morte non era così lontano, appena cinquecento metri dalla piazza Quattro Fontane, il centro di Gravina in Puglia, l'ultimo posto dove - secondo l'accusa - avevano avvistato Francesco e Salvatore. Era stato controllato quel pozzo ma distrattamente, qualcuno si era avventurato sul precipizio di quella "bocca" sul terrazzino del caseggiato abbandonato, aveva gettato un'occhiata in fondo e poi se n'era andato. Non aveva visto niente. È stato un controllo scrupoloso? E come si fa un controllo scrupoloso dentro un pozzo quando si cercano i cadaveri di due bambini? Con una torcia? Con i vigili del fuoco? Scendendo con le corde nei sotterranei? Quello che sappiamo di sicuro è che i "soccorsi" di lì sono passati, hanno lasciato una freccia di vernice rossa e se ne sono andati. Francesco e Salvatore c'erano ma non li hanno trovati. I soccorsi? Quali soccorsi? "Le ricerche sono scattate solo il giorno dopo la scomparsa dei bambini", ricorda l'avvocato Aliani. In verità la ricostruzione della polizia è un po' diversa. Alle 23,50 del 5 giugno 2006, Filippo Pappalardi e la sua compagna Rosa Ricupero si sono presentati al commissariato. Parlano con un poliziotto, raccontano che Francesco e Salvatore si sono allontanati "e comunque non sporgono una formale denuncia di scomparsa". Un paio di ore dopo, "esattamente all'1,40 del mattino del 6 giugno, il Pappalardi si portava nuovamente presso il commissariato senza entrarvi, citofonicamente, comunicava di non avere ricevuto più notizia dei suoi figli". Alle 7 il padre è contattato telefonicamente dai poliziotti del commissariato di Gravina, gli chiedono se ha trovato Francesco e Salvatore, lui risponde di no. Invitato a tornare in commissariato, dice che non può, sta lavorando. È in quel momento che, a torto o a ragione, nasce il primo sospetto sul padre "assassino". Il resto dell'indagine sono quasi due anni all'inseguimento di un indizio. La pista "romena", le sette sataniche, i pedofili. E di voci captate ai telefoni o dalle microspie. Quella del padre più di tutte. Una mattina è con suo cognato Giuseppe, sono in campagna per dar da mangiare ai cani. Filippo dice al cognato: "È da sabato o da domenica che non vengo qua, dovessero pure morire i cani qua". È una tipica espressione dialettale ma quelle sono parole che lo inchiodano, quel "pure" porta Filippo Pappalardi in galera. Anche se le ruspe scavano e scavano in quel terreno ma non trovano niente. Un'altra telefonata intercettata, un altro indizio contro il padre: "Mai successa la morte di due fratelli, eh". Filippo Pappalardi "dava per scontato" che i suoi figli non ci fossero più. Quindi sapeva, lo sapeva soltanto lui, perché lui li aveva uccisi. Il profilo dell'indiziato si adattava ai sospetti: prepotente e manesco. Anche la sua miserabile vita era quella ideale per un assassino. La sua tragica storia familiare, la sua provenienza sociale, i suoi modi selvatici, la sua strafottenza nei confronti dei magistrati che l'avevano interrogato per due volte. L'identikit di un omicida perfetto. Un colpevole "a tutti i costi". La giustizia, si sa, è uguale per tutti.
L'ITALIA DEL PREGIUDIZIO. Ora che i corpi di Salvatore e Francesco Pappalardi sono stati trovati in un pozzo, dove nessuno era andato a cercarli, emerge un volto della nostra giustizia penale a dir poco discutibile. Da un lato, il padre dei due bambini, Filippo Pappalardi, in carcere perché indiziato, sulla base solo di un’intercettazione ambientale e della fragile testimonianza (tardiva) di un bambino, di averli uccisi. Inoltre un' inchiesta che ha cercato Salvatore e Francesco nelle grotte di Matera, nelle campagne delle Murge, persino in Romania, lungo le piste delle sette sataniche e del traffico di organi. Dall'altro, il casuale ritrovamento dei loro corpi in un pozzo nel centro di Gravina, non lontano dalla piazza dove erano stati visti l'ultima volta. Da un lato, dunque, il volto di una giustizia metafisica, che cerca aprioristicamente la verità attraverso la speculazione intellettuale e gli indizi, anche i più inverosimili, costruiti nel laboratorio della mente inquirente. Dall’altra, la scoperta casuale dei corpi dei due bambini morti, ma per fame e per freddo, nella profondità di un pozzo. Qui non è in discussione la colpevolezza o l'innocenza del Pappalardi. Sono in discussione un pregiudizio giudiziario e la stretta correlazione fra il sistema giudiziario e quello mediatico che sta diventando tale da rendere sempre più difficile capire dove finisca l'uno e incominci l'altro e viceversa.
«Lo Stato ha ammazzato Ciccio e Tore»: è una delle scritte che sono state fatte nelle ultime ore su muri di Gravina in Puglia, evidentemente in polemica con le modalità con cui sono state condotte le ricerche dei due fratellini. Ricerche che hanno trascurato quel pozzo annesso alla vecchia casa in via Giovanni Consolazione, nel quale sono morti i due fratellini.
Le accuse sono contenute nella richiesta di archiviazione del procedimento presentata dal pm nei confronti del padre dei bambini, Filippo Pappalardi. Nel provvedimento, di cui oggi sono pubblicati stralci sui giornali locali, si parla tra l’altro di «pesante ombra sull'operato della polizia giudiziaria (Squadra mobile ndr) delegata per le indagini». Il magistrato accusa la polizia di avere posticipato di oltre due mesi (dal 17 giugno al 19 agosto 2006) la data di un verbale di audizione del padre che riferiva particolari sul luogo in cui i figli erano stati visti l’ultima volta. Secondo il pm, poiché questa audizione fu fondamentale per la formulazione dell’accusa nei confronti dell’uomo, il cambio di data lo avrebbe indotto in errore.
"Forti contrasti" e "conflitti accentuati" nella gestione delle ultime fasi dell'inchiesta sui fratellini di Gravina, Ciccio e Tore Pappalardi. Le audizioni al Csm del procuratore capo di Bari Emilio Marzano e del pm Antonino Lupo, titolare dell'indagine, confermerebbero quanto già circolato, ossia il sorgere di opinioni del tutto diverse tra il capo della Procura e del sostituto su come continuare l'inchiesta. Il pm Lupo, secondo quanto si è appreso al termine delle audizioni davanti alla Prima Commissione di Palazzo dei Marescialli, avrebbe voluto, subito dopo il ritrovamento dei cadaveri dei due fratellini, la pronta scarcerazione di Filippo Pappalardi, il padre finito in cella con l'accusa di omicidio e occultamento di cadavere. Il pm, però, avrebbe incontrato le resistenze del procuratore, la cui intenzione era quella di continuare il lavoro seguendo la linea più dura. Era stato proprio il pm Lupo ad inviare un esposto al Csm, lamentando il comportamento del capo della Procura, il quale, pur non essendo formalmente assegnatario dell'indagine sui bambini di Gravina, aveva delegato ad altri sostituti o alla squadra mobile l'adempimento di alcuni atti.
«ADDIO CICCIO E SALVATORE, ADDIO PICCOLI ANGELI»
Sono le parole scritte dal padre Filippo Pappalardi e lette da un nipote nella cattedrale di Gravina in Puglia al termine dei funerali dei suoi figli, Francesco e Salvatore. I due bambini vennero trovati morti in una cisterna sotterranea il 25 febbraio scorso. «Addio Ciccio, addio Salvatore». Comincia così una lettera che Filippo Pappalardi ha scritto rivolgendosi ai suoi figli scomparsi, letta in cattedrale da un nipote del papà dei fratellini. «Nei tristi giorni del buio della detenzione – ha scritto Pappalardi – un solo pensiero mi confortava: avrei potuto ancora rivedervi, stringervi, vi immaginavo in un paese lontano correre sereni verso casa. Sapevo che sareste tornati, aspettavo quel momento. Poi un bambino cadde in una cisterna. Michelino precipita lungo un cunicolo buio con lo stesso dolore di Ciccio. Grida aiuto, gli amici chiamano i soccorsi che arrivano e Michelino si salva. Starà bene. Ciccio e Salvatore hanno gridato per ore, ma nessuno ha potuto ascoltarli. Le loro grida mi tormentano, le urla di dolore di Ciccio e la disperazione del piccolo Salvatore osservare impotente spegnersi suo fratello nel buio freddo di una cisterna, lontani dalla luce della notte e sperare, pregare, implorare aiuto per lunghe, lunghissime ore che qualcuno si accorgesse che in fondo a quel pozzo un bambino lottava con la fame, il freddo, la sete, la paura, l’angoscia. Interminabili momenti di atroce dolore». «Addio Ciccio – conclude la lettera – addio Salvatore. Addio piccoli angeli che in fondo al buio hanno visto la luce di una nuova vita. Angeli che con il loro spirito hanno chiamato un altro bambino, salvando lui e me, che resto un uomo solo che può continuare a vivere libero nel ricordo di tanti giorni felici vissuti insieme. Addio piccoli angeli. Il vostro papà». L'uomo non era in condizione di leggere quelle parole: ha pianto per quasi tutta la durata del rito funebre, disperandosi. Sempre piangendo a dirotto e urlando i nomi dei figli, Ciccio e Salvatore, Filippo Pappalardi ha baciato e toccato le bare dei due bambini che sono state trasportate fuori dalla chiesa per il loro ultimo viaggio.
PER NON DIMENTICARE. STORIE DI ORDINARIA FOLLIA.
L'ESEMPLARE STORIA DI ANTONIO GIANGRANDE. PERSEGUITATO PERCHE' RACCONTA LA VERITA'.
Processato per diffamazione a mezzo stampa il presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”, perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud Africa) riporta le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia, vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti.
Si apre a Potenza il processo a carico del Dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”. L’accusa: diffamazione a mezzo stampa, su denuncia di un procuratore della Repubblica di Taranto. La difesa: aver pubblicato i dati ufficiali del Ministero della Giustizia sul Foro di Taranto, le interrogazioni parlamentari, le richieste di archiviazione e gli articoli di stampa nazionale. I dati ufficiali: Denunce penali presentate a Taranto 21.720, condanne conseguite 364. Le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito. Le motivazioni di una richiesta di archiviazione in cui si dubita della fondatezza delle accuse di una vittima di un concorso pubblico palesemente irregolare per conflitto di interessi del vincitore e, contestualmente, responsabile del procedimento concorsuale. La richiesta di una auto-archiviazione per una denuncia in cui la stessa Procura richiedente era stata palesemente denunciata. Denuncia, oltretutto, iscritta falsamente a carico di ignoti. Articoli di stampa: Giudice scriveva sentenze con gli avvocati; ritardi colossali delle sentenze; Vigili Urbani, pronto intervento per il sindaco, 50 minuti; Vigili urbani, violenza sui cittadini; insabbiamenti alla Procura; giudici, cancellieri, avvocati e consulenti accusati di corruzione; ispettore di polizia denuncia i giudici che insabbiano, lo processano in un giorno; corruzione al Palazzo di Giustizia; concorsi forensi truccati ed impedimento del ricorso al Tar. Articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc. La denuncia è stata presentata da un magistrato di Taranto, la cui procura ha già cercato, non riuscendoci, di far condannare il dr Antonio Giangrande per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farlo condannare per calunnia per la sol colpa di aver presentato per il proprio assistito opposizione provata avverso ad una richiesta di archiviazione; ovvero di farlo condannare per lesione per essersi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirgli di presenziare ad una sua udienza; ovvero farlo condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura. Sempre con impedimento alla difesa. Il processo si apre a Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti a Taranto, rimaste lettera morta. Il processo si apre a Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto. Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto sequestro per violazione della privacy (censura tuttora vigente) un intero sito dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi contro il Giudice di Milano, Clementina Forleo. Il processo si apre a Potenza, dove si è costretti a presentare istanza di ammissione al gratuito patrocinio, a causa dell’indigenza procurata dalle ritorsioni del sistema di potere, che impedisce l’esercizio di qualsivoglia attività professionale.
Il processo dura anni perchè il denunciante (magistrato) non si presenta.
Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente, non accetta di subire e di tacere.
“Taranto: non solo Scazzi, Serrano e Misseri. Quel Tribunale è il Foro dell’ingiustizia.” Libertà di stampa violata ed adozione di atti intimidatori e persecutori per chi ha il coraggio di raccontare la verità. Antonio Giangrande presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul tema dell’ambiente truccato ha scritto un libro inserito nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. Antonio Giangrande, il noto scrittore di Avetrana, accusato di violazione della Privacy, il 12 luglio 2012 è stato assolto con la formula più ampia: per non aver commesso il fatto. Una sentenza che crea un precedente nel campo della libera informazione. E’ stato assolto dal giudice onorario della sezione distaccata di Manduria, avv. Frida Mazzuti, su richiesta del Pubblico Ministero Onorario avv. Gioacchino Argentino. E’ stato disposto, altresì, il dissequestro del sito web d’informazione inopinabilmente oscurato per anni dalla magistratura brindisina e tarantina. Nulla di che, se non si trattasse dell’epilogo di un atto persecutorio da parte della magistratura tarantina. E la notizia dell’assoluzione si deve dare senza remore, così come si fa se, invece, fosse stata una condanna. «Questa è una esperienza che insegna e che va raccontata – dice il dr Antonio Giangrande, autore di 40 libri pubblicati su “Amazon” e su “Lulu” - Il fatto risale al 2006 quando improvvisamente la Procura di Brindisi chiude completamente il portale web d’informazione dell’ “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Sodalizio nazionale antimafia non allineato a sinistra. L’oscuramento del sito web effettuato con reiterati atti nulli di sequestro penale preventivo emessi dal Pubblico Ministero togato Adele Ferraro e convalidati dal GIP Katia Pinto. Lo stesso GIP che poi diventa giudice togato del dibattimento e che alla fine del processo proclamerà la sua incompetenza territoriale. Dopo anni il caso passa al competente Tribunale di Taranto. Qui il Gip Martino Rosati adotta direttamente l’atto di reiterazione del sequestro del sito web, senza che vi sia stata la richiesta del PM. Il reato ipotizzato è: violazione della Privacy. Non diffamazione a mezzo stampa, poco punitiva, ma addirittura violazione della privacy, reato con pena più grave. E dire che gli atti pubblicati non erano altro che notizie di stampa riportate dai maggiori quotidiani nazionali. Era solo un pretesto. Di fatto hanno chiuso un portale web di informazione e d’inchiesta di centinaia di pagine che riguardava fatti di malagiustizia, tra cui il caso di Clementina Forleo a Brindisi e una serie di casi giudiziari a Taranto, oggetto di interrogazioni parlamentari. Tra questi il caso di un Pubblico Ministero che archivia le accuse contro la stessa procura presso cui lavora; che archivia le accuse contro sé stesso come commissario d’esame del concorso di avvocato ed archivia le accuse contro la sua compagna avvocato, dalla cui relazione è nato un figlio. Fatti di malagiustizia conosciuti e scaturiti da esperienze vissute personalmente o raccontate dalle vittime, fino a quando mi hanno permesso di svolgere la professione di avvocato e successivamente in qualità di presidente di un’associazione antimafia. Dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, nonostante i più noti avvocati di quel foro abbiano rifiutato di difendermi e sebbene tutti i miei avvocati difensori mi abbiano abbandonato, eccetto l’avv. Pietro DeNuzzo del Foro di Brindisi. Qualcuno si è fatto addirittura pagare da me, nonostante abbia percepito i compensi per il mio patrocinio a spese dello Stato. Ed ancora dopo anni i magistrati togati di Taranto non hanno ottenuto la mia condanna, anche in virtù del fatto che il giudice naturale, Rita Romano, sia stata ricusata in questo processo, perché non si era astenuta malgrado sia stata da me denunciata. A dispetto di tutte le circostanze avverse vi è stata l’assoluzione, ma i magistrati togati hanno ottenuto comunque l’oscuramento di una voce dell’informazione. Voce che in loco è deleteria al sistema giudiziario e forense tarantino e contrastante con la verità mediatica locale. A tutti coloro, che in apparenza gridano alla libertà di stampa, direi di essere meno ipocriti, codardi, collusi e partigiani, perché i giornalisti e gli operatori dell’informazione locale, anziché esprimere solidarietà ad un collega, hanno pensato bene di trattarmi come appestato e recidere quelle collaborazioni che avevo con loro. A tutti quelli che spesso rappresentano un potere criminogeno e ciò nonostante proclamano “fuori i condannati dal Parlamento” direi: se i condannati sono coloro i quali sono perseguitati per le opinioni espresse, allora direi fuori le caste e le lobbies e le mafie e le massonerie dal Parlamento, che a quanto a pericolosità sociale non sono seconde a nessuno».
TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI ANCHE PERCHE' ANTONIO GIANGRANDE E' VITTIMA DI UN CONCORSO PUBBLICO TRUCCATO.
Da decenni partecipo al concorso di avvocato indetto dal Ministero della Giustizia, che ogni anno si svolge presso ogni Corte di Appello, le cui commissioni sono composte da magistrati, avvocati e professori universitari. Da anni i miei elaborati sono giudicati sempre con identico voto negativo e senza alcuna motivazione. Il fatto certo è che i miei pareri legali non sono corretti (mancanza di correzioni, glosse, ecc.) e sono dichiarati tali in un tempo che il Tar ha dichiarato estremamente insufficiente. Da anni il presidente, prima locale e poi nazionale, ed i componenti della commissione d’esame sono quelli che ho denunciato in questi anni per favoritismi durante e dopo le prove selettive. Da anni sono disoccupato pur capace di esercitare la professione. Ciò ha influito negativamente sulla vita di tutta la mia famiglia, condannata all’indigenza. Potevo rassegnarmi ad essere un incapace, ma sono diventato, mio malgrado, un esperto in concorsi truccati. Da anni sono destinatario come presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie della disperazione di tanti altri come me. Per dimostrare la verità, raccolgo le testimonianze da tutta Italia di centinaia di migliaia di candidati vittime dei concorsi truccati tra i più disparati. Testimoni anche autorevoli come possono essere i magistrati o i professori universitari che ambiscono a ruoli superiori. Testimonianze che si sono estese oltre che ai concorsi come la magistratura, notariato ed avvocatura. Le testimonianze denunciano i concorsi truccati in Italia come regime generale di cooptazione nel sistema della classe dirigente o di livello professionale superiore. Chi detiene una pubblica funzione, anche senza merito in virtù di un concorso truccato, è componente di quelle commissioni d’esame, che reiterano il sistema di cooptazione all’interno del regime.
La Corte Costituzionale mi dice: "siamo in Italia, il voto non va motivato e le commissioni sono arbitrarie ed insindacabili".
La Corte di Cassazione mi dice: "siamo in Italia, devi essere giudicato (sui concorsi, ma anche sui procedimenti penali a tuo carico per reati d’opinione) dai magistrati che hai denunciato alle procure e criticato sui giornali. E dato che ti sei ribellato, chiedendo la rimessione dei processi, ti condanno alla pena di 2000 euro".
Il Governo mi dice: "hai ragione facciamo le riforme". Dal 2003 fa girare i compiti in tutta Italia. Il criterio di correzione diventa razzista. Il presidente locale della commissione 1998/2000/2001 estromesso dalla riforma, diventa addirittura presidente nazionale nel 2010.
Il Tar mi dice: "siamo in Italia, ma se la Corte Costituzionale afferma che le commissioni sono insindacabili, la Cassazione mi dice che non vi può essere ricusazione, se il Ministero della Giustizia mi mette come presidente di commissione chi aveva cacciato, io rigetto il tuo ricorso". Ricorso presentato con 1000 euro tra contributo unificato, bolli e spese di notifica. Una tangente a favore di uno Stato che non ti tutela.
Le procure informate con prove e circostanze mi dicono: "è impossibile che le commissioni d’esame abusino dei loro poteri contro di te". Resta il fatto che nessun commissario denunciato e criticato mi ha mai denunciato per calunnia o diffamazione.
La mia unica speranza è la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, se non ci sono italiani di mezzo. Con Essa sono investiti il Parlamento Europeo e la Commissione Europea. Chiedo Loro se sia possibile che le autorità pubbliche da me biasimate, ad oggettiva ragione con rispondenza giuridica e con fondamento di prove accluse al ricorso, siano le stesse, impunemente e con parzialità, a valutare i miei esami ed a giudicare penalmente le mie critiche nei loro confronti in tema di malagiustizia. Mi rispondono: il tuo ricorso è irricevibile.
Fa niente se sei perseguitato dalla mafia, se essa non è ritenuta tale dai suoi commensali. Proprio vero: la Giustizia non è di questo mondo.
Strano che da anni nessun organo di stampa nazionale ha sostenuto la mia lotta. “Ballarò” di Rai3 ha fatto un servizio mai mandato in onda. “I programmi dell’accesso” della Rai hanno fatto un servizio mai mandato in onda. Soldi dei contribuenti bruciati nel nome della censura.
Per difendersi dagli attacchi della magistratura Antonio Giangrande ricorre alla Corte di Cassazione. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p. Oltre al danno vi è la beffa: rigettato e condannato anche alle spese. Si intimidisce il cittadino per disincentivarlo alla presentazione delle istanze di rimessione. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.
QUESTO E’ IL CASO ESEMPLARE DI RITORSIONE PER IL QUALE L’ITALIA MAFIOSA SI DOVREBBE VERGOGNARE. COSI' SI DIVENTA AVVOCATO O SI IMPEDISCE DI ESSERLO!!! IN UN CONCORSO PUBBLICO, (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI), I TEMI SCRITTI NON SONO CORRETTI, MA DA 14 ANNI SONO DICHIARATI TALI. DEVI SUBIRE E DEVI PURE TACERE, IN QUANTO NON VI E' RIMEDIO GIUDIZIARIO O AMMINISTRATIVO.
CONCORSI DI AVVOCATO PRESIEDUTI DA CHI E' STATO DENUNCIATO COME PRESIDENTE DI COMMISSIONE LOCALE. LA DENUNCIA E' STATA PRESENTATA ANCHE AL PARLAMENTO. SI E' CHIESTA UNA INTERROGAZIONE PARLAMENTARE. NONOSTANTE LE INTERROGAZIONI PARLAMENTARI PRESENTATE: TUTTO LETTERA MORTA. COSTUI NON HA POTUTO PIU' PRESIEDERE LA COMMISSIONE LOCALE, PERCHE' E' STATO ESTROMESSO DALLA RIFORMA DEL 2003, E NONOSTANTE CIO' POI E' STATO NOMINATO PRESIDENTE DI COMMISSIONE CENTRALE.
Queste sono le conclusioni del ricorso amministrativo presentato dall’avv. Mirko Giangrande per conto del padre dr. Antonio Giangrande. Ricorso con cui si contestano in fatto e in diritto i giudizi negativi delle prove scritte resi dalle sottocommissioni per gli esami di abilitazione alla professione di avvocato. Ricorso presentato presso il Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia, sezione distaccata di Lecce. Ricorso n. 1240/2011 che per 13 anni nessun avvocato per codardia ha mai voluto presentare. La commissione competente nel 2010 per tali conclusioni ha negato l’accesso al gratuito patrocinio. Il TAR ha rigettato l'istanza di sospensiva nonostante i vizi, mentre per altri candidati l'ha accolta, valutando l'elaborato direttamente nel merito.
CONCLUSIONI
Da quanto analiticamente già espresso e motivato si denota che violazione di legge, eccesso di potere e motivi di opportunità viziano qualsiasi valutazione negativa adottata dalla commissione d’esame giudicante, ancorchè in presenza di una capacità espositiva pregna di corretta applicazione di sintassi, grammatica ed ampia conoscenza di norme e principi di diritto dimostrata dal candidato in tutti e tre i compiti resi.
1. Qui si evince un fatto, da sempre notorio su tutti gli organi di stampa, rilevato e rilevabile in ambito nazionale: ossia la disparità di trattamento tra i candidati rispetto alla sessione d’esame temporale e riguardo alla Corte d’Appello di competenza. Diverse percentuali di idoneità, (spesso fino al doppio) per tempo e luogo d’esame, fanno sperare i candidati nella buona sorte necessaria per l’assegnazione della commissione benevola sorteggiata. Nel Nord Italia le percentuali adottate dalle locali commissioni d’esame sono del 30%, nel sud fino al 60%. Le sottocommissioni di Palermo sono come le sottocommissioni del Nord Italia. I Candidati sperano nella buona sorte dell’assegnazione. La Fortuna: requisito questo non previsto dalle norme.
2. Qui si contesta la competenza dei commissari a poter svolgere dei controlli di conformità ai criteri indicati: capacità pedagogica propria di docenti di discipline didattiche non inseriti in commissione.
3. Qui si contesta la mancanza di motivazione alle correzioni, note, glosse, ecc., tanto da essere contestate dal punto di vista oggettivo da gente esperta nella materia di riferimento.
4. Qui si evince la carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque si contesta la fondatezza dei rilievi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta mancanza di motivazione al giudizio, didattica e propedeutica al fine di conoscere e correggere gli errori, per impedirne la reiterazione.
5. Altresì qui si contesta la mancanza del voto di ciascun commissario, ovvero il voto riferito a ciascun criterio individuato per la valutazione delle prove.
6. Altresì qui si contesta l’assenza ingiustificata del presidente della Commissione d’esame centrale e si contesta contestualmente l’assenza del presidente della Iª sottocommissione di Palermo.
7. Altresì qui si contesta la correzione degli elaborati in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito.
8. Altresì qui si contesta, acclarandone la nullità, la nomina del presidente della Commissione centrale, Avv. Antonio De Giorgi, in quanto espressione del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce. Nomina vietata dalle norme.
Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza.
RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO. UNA NORMA DISATTESA.
L'imputazione di quattro avvocati nelle indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi è "sconcertante e inquietante". L’Unione delle camere penali scende in campo contro i pubblici ministeri del caso di Avetrana e chiede al ministro della Giustizia l’invio di ispettori alla procura di Taranto. Lo fa nel silenzio assordante della Camera Penale e dell'intero Consiglio dell'ordine degli avvocati di Taranto, assuefatti o collusi alle anomalie del foro tarantino. Anomalie su cui vi è una coltre di omertà forense e giudiziaria e di censura mediatica.
Per l’Ucpi è “assurdo che nel medesimo procedimento si trattino questioni riguardanti il delitto e questioni relative all’indagine sul delitto stesso”. Ma "ancora più grave è che alcune contestazioni mosse a due avvocati letteralmente s'intromettono indebitamente nelle scelte e nelle strategie difensive, le quali dovrebbero, al contrario, costituire un recinto invalicabile e coperto dal segreto professionale".
C'è dunque una "grave violazione del diritto di difesa" da parte dei pm. E in particolare è “sconcertante quanto capita all’avvocato De Cristofaro, il quale per aver sostenuto l'assunzione di responsabilità del proprio assistito, da quest’ultimo reiteratamente dichiarata, si ritrova indagato per 'infedele patrocinio dai pubblici ministeri che si prefiggono l'obiettivo di provare la responsabilità di altra e diversa persona".
Secondo i penalisti, "si è verificato un 'corto circuito all’interno del quale i pm che sostengono l'accusa hanno elevato un’imputazione, per un reato riguardante in astratto le condotte del difensore che si pongono in contrasto con l’interesse del proprio assistito, che già a una prima lettura appare addirittura paradossale, poiché‚ si fonda su fatti che dimostrano in maniera lampante il contrario, e cioè che il difensore ha viceversa dato seguito alle richieste del proprio assistito.
In realtà, i pm procedenti hanno valutato come contrastante con l’interesse dell’imputato, puramente e semplicemente, una versione dei fatti da questi offerta che confligge con l’ipotesi di accusa e lo hanno fatto sulla scorta della loro ricostruzione dei fatti".
Insomma, "oltre a ergersi arbitri della formulazione dell’accusa, i pm pretendono di determinare anche l’interesse dell’imputato a sostenere l’una o l’altra tesi, e nel far questo criminalizzano l’attività del difensore, il che appare una intollerabile violazione del diritto di difesa oltre che l'espressione di una cultura apertamente inquisitoria. Con il risultato, inquietante e certamente non ignorato, che attraverso la contestazione elevata si vorrebbe determinare, allo stato, un obbligo deontologico di astensione da parte del difensore che, in consonanza con il proprio assistito, ha sostenuto una tesi avversa rispetto a quella caldeggiata dalla Procura".
Non solo: "Nel corso dell’indagine le attività difensive - lamenta l’Ucpi - sono state costantemente oggetto di controllo da parte della autorità giudiziaria, e anche di decisioni assai stravaganti quale quella di autorizzare l’espletamento di un atto di parte, come l’assunzione di informazioni, 'alla presenza dei pm procedenti oppure di imporre il potere di segretazione nei confronti di persone sottoposte alle indagini".
Tutto ciò si riverbera nell'ipotesi di affrancarsi il diritto di poter far scegliere agli imputati i difensori che più aggradano ai Pm. L'avv. De Cristofaro, per forza di cose prenderà in considerazione la concreta possibilità di rilasciare l'incarico trovandosi in una situazione di contrasto con il suo cliente, mentre per i P.M. l'operato del suo predecessore, l'avv. Galoppa era conforme se non strumentale alle loro attività.
Tutto questo lo sa bene il dr Antonio Giangrande di Avetrana, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, che nel denunciare codeste anomalie, viene perseguitato dai magistrati criticati, con il benestare della Corte di Cassazione, che non rileva affatto il legittimo sospetto che i loro colleghi tarantini possano essere vendicativi contro chi si ribella.
29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?».
«La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa».
Intanto Sabrina Misseri si sente come Amanda Knox. Era inevitabile che la ragazza americana, assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher dopo quattro anni di carcere, sarebbe diventata il simbolo dell’accanimento giudiziario. Tutti coloro che pensano di trovarsi in prigione ingiustamente usano lei come termine di paragone. L’ha fatto Sabrina Misseri, in carcere per l’altro delitto mediatico italiano, quello di Sarah Scazzi. Sabrina, dal carcere di Taranto, ha detto: “Mi sento come Amanda“. La ragazza di Avetrana, come l’americana e come l’italiano Raffaele Sollecito, sostiene di essere innocente e di essere stata arrestata ingiustamente: “Sono in carcere da innocente, ma io quattro anni qui dentro non resisto”.
Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri.
Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:
Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.
Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.
Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.
Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.
Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.
Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri.
La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata.
Non solo. Non c'è nessuna traccia che inchioda madre e figlia: manca l'arma del delitto. Non ci sono testimoni. L'unico, il fioraio Buccolieri, ha raccontato prima informalmente di aver visto Sarah mentre veniva trascinata nell'auto di Cosima. E poi però ha smentito tutto: "Era solo un sogno". In compenso, però, c'è zio Michele, che mentre si infuria a mezzo stampa con la moglie ("quando ero in carcere ha tagliato male tutta l'uva, ha combinato un disastro"), continua ad autoaccusarsi dell'omicidio di Sarah. Ma non gli crede nessuno. "Il soffocamento avviene ora in casa Misseri, ora nel garage, ora nella macchina di Cosima" scrive la Cassazione. Ed effettivamente non è chiaro dove Sarah sia stata ammazzata, visto che le ricostruzioni si sovrappongono tra loro, ma spesso non combaciano. La mazzata è arrivata poi dai rilievi dei Ris che - seppur in alcuni casi effettuati tre mesi dopo l'omicidio - non hanno dato alcun risultato: non ci sono tracce di Sarah a casa Misseri e in nessuno dei presunti luoghi del delitto. E soprattutto non ci sono tracce della ragazza sulle armi del delitto possibili sequestrate nel corso dei mesi. Le cinquanta cinture di Sabrina, la corda di Michele, il compressore del garage: è stato tutto analizzato senza alcun esito. La procura colloca l’ora del delitto tra le 13.55 quando Sarah viene vista per strada e le 14,25 quando a casa Misseri arriva Mariangela Spagnoletti. Lo stesso fa la Cassazione ritenendo genuina la testimonianza di un uomo che è sicuro di aver visto Sarah poco prima delle 14 passeggiare verso casa Misseri. "La ragazza è arrivata lì e ha trovato la morte: Sabrina ha poi aspettato per strada l'amica Mariangela per evitare che si accorgesse dei movimenti in macchina e ha mentito alla zia Concetta, quando è andata a chiedere di Sarah, sostenendo che i genitori non erano in casa", dice in sintesi la Procura. La difesa fa notare, però, che c'è stato uno scambio di squilli e sms tra Sarah e Sabrina intorono alle 14,30 quando la ragazza secondo questa ricostruzione avrebbe già dovuto essere morta. "Ha fatto tutto Sabrina - risponde l'accusa - per depistare e avere un alibi". "Ciao mi chiamo Sarah, in questo periodo sono molto legata ad un ragazzo che ha 27 anni, io ne ho solo 15 ma lui è dolcissimo con me e mi coccola sempre, si chiama Ivano, e lui piace anche a mia cugina Sabrina". Sarah appuntava queste parole sul suo diario qualche giorno prima di essere ammazzata. Mentre Sabrina tempestava Ivano di sms e scenate di gelosia. Sono le prove inoppugnabili, secondo la procura, che sta nella gelosia il movente dell'omicidio. La tesi però non convince la Cassazione che ha chiesto al Riesame di Taranto di rimotivare meglio anche questo punto.
«Lotterò sempre per farle scagionare, ma se non riuscirò a farle uscire, la farò finita perché non riesco ad andare avanti così». Intervistato dalla trasmissione Mediaset Domenica Cinque, solitamente affollata di reduci del grande Fratello, Michele Misseri si rammarica per non aver lasciato tracce evidenti della sua colpevolezza. «Mi pento di non aver lasciato nessuna traccia del delitto. La corda l'ho buttata insieme alle scarpe nel bidone della spazzatura». E ancora: «Gli abitanti di Avetrana vogliono che io dica che sono state Sabrina e Cosima ad uccidere Sarah. Soffro per la mia famiglia perché quella poveretta di Sarah non riposerà mai in pace».
Questo è il paradosso tutto italiano: da una parte Michele Misseri, un reo confesso di omicidio in libertà che, se pur considerato inattendibile, da lui si prendono per buone solo le versioni che fanno comodo alla tesi della procura; da l’altra parte Cosima Serrano e Sabrina Misseri, che professano la loro innocenza, ma sono in carcere senza prove.
Prove che nemmeno la polizia scientifica ha trovato.
Se fosse per le serie televisive come i "Ris" o "La Squadra" l'Italia sarebbe la patria dei casi risolti. Ma purtroppo qui stiamo parlando solo di fiction e la realtà ci racconta ben altre storie. Partiamo proprio dal Reparto Investigazioni Scientifiche, i famigerati carabinieri dei Ris. La letteratura e la televisione (programmi, film, ecc..) li hanno reso imbattibili, mentre invece sul campo spesso e volentieri banali errori commessi da questo reparto compromettono l'arresto o la detenzione del colpevole.
L'omicidio Meredith Kercher, ma soprattutto l'assoluzione per non aver commesso il fatto di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, è solo l'ultimo dei casi irrisolti.
I "delitti imperfetti", da cui prendono il nome sia i libri dell'ex comandante Luciano Garofano che la famosa serie televisiva, diventano perfetti proprio a causa di grossolani errori degli inquirenti. Tutto è iniziato quando i Ris sono diventati famosi all'opinione pubblica durante il caso del duplice omicidio di Novi Ligure nel 2001. Per tutti fu un vero e proprio successo, nato dall'ottimo lavoro del reparto dei carabinieri. Ma non va dimenticato, però, che a mettere sulla pista giusta gli investigatori fu proprio Erika, che quando era ancora solo sospettata di aver ucciso madre e fratellino venne filmata in una stanza della caserma dei carabinieri mentre mimava ad Omar, fidanzatino e complice, come avesse pugnalato la donna. Quindi la chiave di volta di questo caso furono le intercettazioni ambientali. Forse possiamo considerare proprio delitto di Novi l'ultimo delitto risolto senza che ci fossero ombra di dubbi. Tracce, arma del delitto, confessioni: insomma, tutti i tasselli del mosaico al loro posto.
Lo stesso non si può dire di Cogne. Nonostante la condanna di Anna Maria Franzoni per l'omicidio del piccolo Samuele ancora oggi l'Italia è divisa in due, innocentisti e colpevolisti. Infatti, seppure ci siano degli indizi manca l'arma del delitto e l'assassina, in questo caso la madre della vittima, tutt'altro che reo confessa. Molti sono stati gli errori degli inquirenti sul caso Cogne che hanno portato a un ritardo di anni sulla verità che ancora oggi, come detto, può avere dei punti deboli e traballa.
Vi ricordate dell'omicidio di Garlasco della giovane Chiara Poggi? Tanti sospetti sul fidanzato Alberto Stasi e i pochi indizi raccolti facilmente smontati dalle perizie di parte. Anche qui errori di chi dovrebbe essere (o si considera) infallibile. Basti pensare che dopo il delitto la "scena del crimine", come ormai siamo abituati a chiamarla dopo essere stati influenzati dai Csi vari, venne addirittura inquinata da un gatto, che la scientifica chiuse dentro la villetta per un giorno intero a scorrazzare! Anche qui nessun elemento valido per trovare l'assassino. Un esempio: la prova ferrea data da una macchia di sangue della vittima sul pedale della bici di Stasi venne facilmente smontata dai difensori del ragazzo, che riuscirono a dimostrare che si poteva trattare benissimo di macchie di flusso mestruale calpestate accidentalmente giorni prima del delitto dal giovane. Ad oggi nessuno è riuscito a respingere la tesi difensiva seppur a prima vista improbabile.
L'omicidio di Perugia è ormai noto a tutti. In molti nonostante la sentenza della corte d'appello sono convinti che Raffaele e Amanda non fossero estranei all'assassinio di Meredith. Ma anche qui i Ris e affini non sono riusciti a dimostrare nulla e per i periti è stato facile evidenziare i loro errori, smontando così la tesi accusatoria. Unico colpevole Rudy Guede (difeso guarda caso dagli avvocati mediatici Gentile e Biscotti).
Nel caso della piccola Yara Gambirasio, invece, ci troviamo di fronte a una vera e propria sfida da parte dell'assassino, o assassini, agli inquirenti, i quali stanno facendo di tutto per perderla: ritardi nelle indagini, auto e furgone dell'unico sospettato, il marocchino Mohamed Fikri, non perquisito, etc, etc. Si è preferito schedare tutto il dna degli abitanti di Brembate e dintorni, ma non degli operai o di chi ha lavorato nel cantiere che potrebbe essere la vera scena del crimine, come viene suggerito dalla polvere di calce nei polmoni della piccola vittima e dalla presunta arma del delitto (un utensile da lavoro utilizzato nel campo dell'edilizia).
E arriviamo al caso del giorno. Fino a ieri tutti eravamo convinti che i magistrati avessero in mano dei saldi indizi sulla colpevolezza di Sabrina Misseri e Cosima Serrano, madre e figlia, nell'omicidio della piccola Sarah Scazzi, ad Avetrana. Invece, anche questa volta le granitiche prove appaiono argillose. Addirittura si parla di elementi inconsistenti, che potrebbero alla prossima udienza del Tribunale del Riesame portare alla scarcerazione delle uniche due accusate dell'omicidio, dopo il proscioglimento di Michele Misseri (prima reo confesso poi scagionato e ora nuovamente reo confesso, ma non creduto).
Nel caso di Melania Rea ci sono tutti gli elementi del vecchio "delitto all'italiana": lui, lei, l'altra, quattrini. Parolisi è in galera (difeso guarda caso dagli avvocati mediatici Gentile e Biscotti), ma anche qui come in quasi tutti i casi che abbiamo elencato si rischia di andare ad un processo indiziario e quindi a tenere aperte le porte del dubbio. Negli ultimi decenni nel campo investigativo la scienza ha dato una grossa mano. Però a volte è proprio la certezza scientifica o l'ossessione di trovarla che conduce, come abbiamo visto, a degli errori in cui spesso il fiuto del vecchio investigatore non incappava. Uno su tutti negli anni Settanta l'indimenticabile commissario della squadra mobile di Torino Giuseppe Montesano, uno "sbirro" alla vecchia maniera che ispirò registri e scrittori grazie ai suoi successi. Tutti veri.
PER NON DIMENTICARE. OTTAVIA DE LUISE.
“La colpa di Ottavia. La bambina che nessuno ha cercato”. Di Sarah Scazzi tanto si è parlato. Finalmente un libro dedicato alla scomparsa di Ottavia De Luise. Scomparsa a 12 anni, in un libro la ricostruzione dei fatti. Ottavia De Luise svanì nel nulla a Montemurro nel 1975. Accadde il 12 maggio 1975, Ottavia uscì da scuola e non tornò mai a casa. In un paese piccolo, dove tutti si conoscono. Sembra un nuovo caso Claps. Per 35 anni di lei non si è saputo più nulla, fino a che il ritrovamento di Elisa Claps non ha fatto tornare alla luce quest’altra storia, meno famosa, così dimenticata. Ora, la novità. In un pozzo non lontano dal paese sono stati trovati quelli che la polizia scientifica ha definito “reperti”. Il pozzo cisterna è proprio nella zona dove alcune lettere anonime, in passato, avevano suggerito di cercare Ottavia. Ed ecco la storia. A Montemurro in Basilicata, il 12 maggio del 1975 scomparve una bambina, Ottavia De Luise, di appena 12 anni. Era la più piccola di otto fratelli e da qui deriva il nome di Ottavia. Il pomeriggio del 12 maggio del 1975 Ottavia stava giocando con la cugina, a pochi metri da casa. Giunta l’ora di rincasare, la cugina racconta di averla vista incamminarsi verso casa. Solo pochi metri, ma proprio in questo breve tragitto si sono perse le tracce della bambina. Dopo qualche ora, verso le 17.00, non vedendo la figlia, la madre chiese al fratello della piccola di andare a cercarla nella piazza del paese. Quando il ragazzo tornò senza alcuna notizia della sorellina, la famiglia si mise in allerta. All’epoca, nel piccolo borgo di appena 1500 persone, c’era solo un carabiniere. In aiuto e supporto alle indagini, dopo ben più di venti giorni arrivarono dei poliziotti con dei cani: come prevedibile non emerse nulla. Le prime 48 ore sono le più importanti. Solitamente, trascorsi due giorni, le probabilità di trovare un minore in vita diminuiscono in maniera vertiginosa. La famiglia, all’epoca dei fatti, segnalò a quell’unico carabiniere, un possibile sospettato: un uomo che viveva da solo, e che già in passato aveva approcciato con Ottavia, invitandola in casa. Ma l’abitazione di questa persona non venne mai perquisita. Nel corso degli anni alla famiglia arrivarono due lettere anonime: la prima fu consegnata ai carabinieri e vennero interrogate delle persone. La seconda giunse ad uno dei fratelli della ragazza e il contenuto era chiaro: Ottavia De Luise fu violentata e uccisa. Nel corso di questi anni nessuno fu indagato, nessun magistrato si occupò di questa scomparsa, fino all’archiviazione del caso. Poi ci chiediamo perchè scompaiono così tanti ragazzi? La risposta secondo me sta nel mancato esercizio da parte della magistratura di svolgere il proprio compito in tempi brevi.
Ottavia De Luise scompare da Montemurro il 12 maggio del 1975. Era una bambina di 12 anni. Le indagini della prima ora furono condotte male e senza interesse. Qualcuno in paese ebbe il coraggio di definire la 12enne una di "facili costumi". Uno stupido pregiudizio che fece archiviare la scomparsa della ragazzina in men che non si dica. Un libro scritto a quattro mani da Fabio Amendolara, giornalista de La Gazzetta del Mezzogiorno ed Emanuela Ferrara, anch'ella giornalista, ricostruisce la vicenda nei minimi dettagli alla luce anche delle nuove indagini aperte nel 2010 dalla procura di Potenza. Indagini che però, ad oggi non hanno dato alcuna risposta ai familiari della piccola. "La colpa di Ottavia" è il titolo del libro di Amendolara e Ferrara. Ottavia De Luise ha 12 anni ed è l'ultima di otto fratelli. Scompare nel nulla il 12 maggio del 1975 in un piccolo borgo della Basilicata, Montemurro. A oltre 35 anni dalla scomparsa, questo libro, nella forma di una breve inchiesta giornalistica, presenta una serie di documenti (riportati in modo integrale), testimonianze e prove che mettono in luce tutto ciò che si poteva fare e non è stato fatto. Su questa vicenda, che ha segnato anche sul piano simbolico la Basilicata, purtroppo non ci sono ancora verità. Questo libro, presentato dalla conduttrice di "Chi l'ha visto?" Federica Sciarelli, non si limita a ricostruire la cronaca di quella scomparsa. Ma è una indagine contraria alle numerose versioni ufficiali e ufficiose, spesso diverse tra loro, se non addirittura opposte e contrastanti, presentate fino a oggi. Che fine ha fatto Ottavia De Luise, la bambina scomparsa nel 1975? Il “viggianese” poteva essere l’unico sospettato? Sono state seguite davvero tutte le piste? O forse le indagini sono state approssimate perchè Ottavia era “una poco di buono” e quindi indegna di sforzi investigativi? La tragica storia di Ottavia, scomparsa nel nulla a Montemurro nel 1975, potrebbe sembrare lontana: sono passati troppi anni e il suo mondo, paese dell’entroterra lucano, arretrato, isolato, fissato per sempre nel tempo, ci appare distante, sbiadito come la vecchia foto che la ritrae, unica traccia rimasta di quella vita spezzata. Eppure il libro di Fabio Amendolara ed Emanuela Ferrara, con sobrietà ed efficacia, ci permette di riattraversare quella vicenda, facendoci avvertire tutta l’attualità del dolore e degli interrogativi che impietosamente ci pone. Perché nessuno ha mai cercato Ottavia De Luise? Questo si chiede Stefano Nazzi.
Quando Ottavia De Luise sparì, il 12 maggio1975, l’Italia era molto diversa da quella di oggi. Il referendum sul divorzio c’era stato da un anno, di legge sull’aborto non si parlava nemmeno. C’era Paolo VI, allora, e quell’anno era Anno Santo. Ottavia aveva 12 anni, scomparve a Montemurro, in Basilicata, un vecchio villaggio proprio in mezzo alla regione. Ci vivono oggi meno di 1.500 persone. Ottavia uscì da scuola, venne vista lungo quella che chiamano strada per Armento, un paese vicino. Poi più nulla. La cercarono poco e male. Il fatto è che Ottavia, nell’Italia di allora, in quel vecchio villaggio, era vista come una poco di buono. Una che stava con i grandi, gli adulti. Oggi quegli adulti verrebbero arrestati per pedofilia, per abusi. Allora si chiudeva un occhio: era Ottavia la “mela marcia”. Dicevano che si facesse dare 100 lire per farsi toccare. Era bella, dice chi se la ricorda, bionda, e alta per la sua età. Poi, improvvisamente, 35 anni dopo, qualcuno è tornato a cercare. È stata la scoperta del corpo di Elisa Claps, poco lontano, a Potenza, a spingere il fratello di Ottavia, Settimio, a chiedere che si riaprissero le indagini. Negli anni erano anche arrivate un paio di lettere anonime: “Cercate in quella tenuta”, era scritto. Non doveva essere difficile capirci qualcosa se in pochi giorni di ricerche sono stati trovati alcuni reperti, in una cisterna proprio nella zona dove Ottavia venne vista l’ultima volta. E qualcuno ha anche iniziato a ricordare qualcosa. Perché in un paese di 1.500 abitanti è come stare seduti in un cinema grande, alla fine le facce rimangono impresse. Così a Montemurro, figuriamoci, si conoscono tutti. E volete che qualcuno non sapesse chi erano quei grandi che passavano il tempo con Ottavia? No, qualcuno sapeva. Tanti, probabilmente. Così ci si è ricordati di un uomo, lo chiamavano il “viggianese”: lui pagava un cono gelato a Ottavia per toccarla; quando fu interrogato, dopo la scomparsa della ragazzina, era pieno di graffi ma la cosa finì lì. In paese da tempo pensavano che fosse morto. Non lo è: vive a Torino, ha 87 anni, è malato. Magari lui non c’entra nulla, chissà: erano tanti gli adulti di Ottavia, uno di loro era il proprietario del terreno dove si trova la cisterna dei reperti. Intanto Settimio, il fratello della ragazzina, ha denunciato il comandante della stazione dei carabinieri di allora. Dice che non indagò affatto, che lasciò correre. Perché Ottavia era una poco di buono. Luisa, la mamma della ragazzina, oggi non vive più a Montemurro, sta al nord, anche lei a Torino. L’unica cosa che vuole, che ha sempre voluto, è seppellire sua figlia. Trovarla e seppellirla. Lei l’ha sempre pensato che Ottavia era morta. Speriamo che ci riesca, che possa farle quel funerale che sempre sognato. Le mamme di solito sognano un matrimonio per la figlia, Luisa De Luise è stata costretta a sognare un funerale. E speriamo che con Ottavia si seppellisca quell’Italietta falsa e codarda che in 35 anni non l’ha mai voluta cercare. Nulla ha però a che vedere con la vicenda il successivo arresto del fratello di Ottavia, Settimio. I Carabinieri di Marsicovetere hanno arrestato a Villa d’Agri Settimio De Luise, di 52 anni, accusato di stalking e di atti persecutori nei confronti della ex moglie, scrive “Il Giornale Lucano”. Da tempo l’uomo molestava l’ex compagna, e per questo a suo carico era stato emesso un più volte disatteso divieto di avvicinamento. La donna, a causa dell’atteggiamento dell’ex marito, delle minacce e delle ingiurie, ha subìto un perdurante stato ansioso e ha temuto per la sua incolumità, al punto da cambiare le sue abitudini di vita. De Luise, che dopo l’ennesima violazione dell’ordine restrittivo è ora ai domiciliari, è fratello di Ottavia, la bambina di Montemurro comparsa il 12 maggio 1975, a 12 anni e senza lasciare traccia, ma non vi è alcun legame tra la vicenda che pochi giorni fa ha compiuto 37 anni di mancate risposte e l’accusa di stalking.
PER NON DIMENTICARE. MAURIZIO BOLOGNETTI E GIUSEPPE DI BELLO. COLPEVOLI DI ESSERE INNOCENTI.
La domanda a Giusy Cavallo sorge spontanea: che ne pensa della giustizia in Italia? «La famosa frase "avere fiducia nella magistratura" non è universalmente valida. – risponde sul suo giornale web - Non se vivi in Basilicata e magari denunci che un lago è inquinato. E' da un po' di tempo che mi occupo di storie giudiziarie, a mio avviso, al limite del paradossale. Indagati, senza reato, o reati senza indagati. Procedure applicate a piacimento. Codici e leggi usate ad personam. O peggio ancora assassini lasciati liberi d'uccidere una seconda, terza volta. In Basilicata, più che altrove, potrebbe capitare che se commetti un reato la passi liscia, se stai dalla parte della giustizia ti fanno vedere i sorci verdi. E' il caso di Maurizio Bolognetti, segretario dei Radicali lucani, e di Giuseppe Di Bello, tenente della Polizia Provinciale. Domani, mercoledì 6 giugno, entrambi sono attesi dinanzi al gup di Potenza che, rinvii permettendo, dovrà decidere se mandarli a processo o no. Rei di aver rivelato, analisi alla mano, la presenza di inquinamento nel Lago del Pertusillo. Se i due finiranno alla sbarra si dovranno difendere per aver denunciato che l'invaso valdagrino è inquinato. Paradossale se si tiene conto del fatto che, intanto che le indagini hanno fatto il loro corso, nel lago si sono verificate diverse e consistenti morìe di pesci, sono emerse (da un'inchiesta di Basilicata24) presunte pressioni della Regione Basilicata sull'Istituto superiore di Sanità che stava svolgendo analisi dell'invaso affinchè l'istituto romano "soprassedesse". A tutto ciò va aggiunta l'ammissione dell'Arpab che il lago oltre ad essere eutrofizzato presenta tracce di idrocarburi. Ma intanto Bolognetti e Di Bello domani vanno in tribunale. Nonostante tutto. E allora mi chiedo, ancora una volta, perchè dovrei avere fiducia in una magistratura che invece di indagare sull'inquinamento del Pertusillo, indaga due persone che denunciano l'inquinamento di un invaso la cui acqua serve per uso umano oltre che la Basilicata anche la Puglia? Io in questa magistratura, non posso avere fiducia. Non posso, se mi viene il dubbio che certi magistrati o non si leggono le carte, o non hanno mai letto, in vita loro, un libro di Diritto. E soprattutto non posso avere fiducia in una magistratura/giustizia che perseguita chi ha denunciato fatti certificati e provati. Per concludere, e perchè non mi si tacci d'essere eversiva o peggio ancora berlusconiana: di magistrati che fanno bene il loro lavoro per fortuna è piena l'Italia. Così come è piena la storia di magistrati che c'hanno rimesso la vita per amore della verità e della giustizia. Ma questa è un'altra storia. Dopo che Giuseppe Di Bello, tenente della polizia Provinciale di Potenza mi ha informato che il prefetto di Potenza gli ha revocato la qualifica di agente di pubblica sicurezza, ho provato attimi di smarrimento. – continua Giusi Cavallo - Si, perchè conosco Peppe, il tenente, che "ne ha fatte di tutti i colori". Eh già. La divisa che indossa l'ha riempita d'onore e di significato. Senza guardare in faccia a nessuno. E questo probabilmente non è piaciuto granchè. Ma andiamo con ordine. Prima di tutto ricordiamo chi è Giuseppe Di Bello. Tenente della Polizia Provinciale di Potenza. E' un vero rompi balle. Se ne va in giro a far sequestrare discariche piene di rifiuti pericolosi e illeciti; denuncia truffe in agricoltura, aria inquinata da un termovalorizzatore. E' uno che anche quando non è in servizio non si fa i cavoli suoi. Tant'è che un bel giorno gli viene in mente, mentre non è in servizio, e come componente di un'associazione ambientalista, di andare a fare delle analisi alle acque del Pertusillo. Il lago artificiale della Val d'Agri, in cui si specchia il grande Centro Oli di Viggiano. Siamo nel gennaio 2010. Di Bello, in compagnia di Maurizio Bolognetti, segretario dei Radicali lucani, (che ha commissionato e pagato le analisi), apprende che le acque del Pertusillo sono inquinate. Sulla base della convenzione di Arhus quei dati vengono diffusi. Finiscono anche sulla stampa. Interviene la magistratura. Si, ma per indagare Di Bello e Bolognetti. Per la procura di Potenza i due hanno rivelato segreti d’ufficio. E cioè il “decadimento delle acque dell’invaso del Pertusillo". Insomma hanno fatto male ad informare i lucani e soprattutto i pugliesi che quell'acqua la bevono. Di Bello viene prima sospeso dal suo incarico e poi spostato ad altre mansioni. Viene mandato in servizio al museo provinciale di Potenza. Dove tutt'ora lavora. Il 6 giugno 2012, arriva la condanna per aver rivelato il cattivo stato delle acque del Pertusillo. Violazione di segreto d'ufficio. Per il tenente di Bello due mesi e venti giorni di reclusione sanciscono pubblicamente la sua colpa. Nonostante tutto Peppe, non si ferma nè si abbatte. Continua a rompere le scatole. Se ne va, in compagnia di un geologo nell'area dell'ex Liquichimica di Tito Scalo, dove insiste una vasca di fosfogessi, scarti di lavorazioni di concimi chimici e di fanghi industriali di cui non s'è mai capita la provenienza. Sono anni che il tenente Di Bello si occupa di quel cimitero industriale in cui è rimasto solo veleno. Prima se ne occupa da ufficiale della polizia provinciale, poi lo fa come libero cittadino membro dell'associazione Ehpa, che si occupa appunto di ambiente. Anche in questo caso la denuncia del cittadino Di Bello ha un effetto deflagrante. Almeno sui cittadini di quella zona. Nell'area è presente radioattività. Fermo, Di Bello non sa stare. E veniamo alla revoca della qualifica di agente di pubblica sicurezza notificata a Di Bello, giovedì 13 dicembre 2012. Ecco i passi più raccapriccianti: "Considerato il reiterato comportamento tenuto dal Di Bello che pur sottoposto al vaglio della magistratura"...Soffermiamoci sulla locuzione "reiterato comportamento". Ebbene, cosa avrebbe reiterato Di Bello? Da quasi tre anni è in servizio al Museo provinciale. Ah ma forse quel reiterato si riferisce al fatto che il cittadino Di Bello se ne va in giro a fare analisi, a denunciare inquinamento, radioattività e veleni vari? E leggete poi quest'altro passaggio della revoca: " ...la responsabilità di agente di p.s. della polizia provinciale richiede il possesso, in chi ne è investito, di requisiti di prestigio, generale stima in pubblico, trasparente condotta, anche allo scopo di mantenere inalterata la fiducia che i cittadini devono nutrire nei suoi confronti..." Ecco a questo proposito giova ricordare a sua eccellenza il prefetto Nunziante che lo stesso Di Bello è colui il quale ha denunciato il decadimento delle acque del Pertusillo; colui che ha denunciato presenza di radioattività a Tito Scalo, sempre per informare la gente. E' colui il quale nel 2005 trasmise la notizia di reato riguardante la presenza di fanghi tossici nell'area industriale di Tito Scalo all'ex pm di Potenza Woodcock. Ecco mi fermo qui per non rischiare di fare l'agiografia di una persona che mi ripete quasi come un mantra "io non ho fatto altro che il mio dovere di funzionario di polizia e di cittadino". Ecco chi è l'uomo che secondo il Prefetto di Potenza non è più degno di stima dei cittadini, perchè dalla condotta poco trasparente. Caro Prefetto, se lei vive nel mondo, deve sapere che il tenente Di Bello gode di enorme fiducia da parte dei cittadini. E dovrebbe anche sapere che sono le istituzioni a non godere ormai più della fiducia dei cittadini. Noi, giornalisti di questa testata, revochiamo la qualifica di rappresentanti delle istituzioni a tutti coloro che hanno contribuito a revocare la qualifica di agente di pubblica sicurezza a Giuseppe Di Bello.» E sulla libertà di stampa e le ritorsioni su chi racconta la verità il direttore di “Basilicata 24” dice: «“Relazioni troppo strette e poco trasparenti tra l’autorità politica e i giornalisti sono un pericolo per la società pluralista". E’ quanto ha dichiarato il segretario generale del Consiglio d’Europa, Thorbjorn Jagland, in occasione della Giornata mondiale per la Libertà di Stampa. La libertà di stampa non è un diritto che si esercita a gettoni. Questo lo dico io. E' un diritto che è tra i fondamentali di uno Stato democratico e civile. Ma è purtroppo un diritto calpestato, ancora oggi, in alcune aree del mondo. Sono ancora troppi i giornalisti uccisi o minacciati a causa del loro lavoro. Ci sono poi casi meno eclatanti, ma pur sempre gravi, di limitazione della libertà di espressione e di critica. La minaccia di "adire alle vie legali". Il modus operandi è sempre lo stesso. Ti telefonano, ti scrivono, ti diffidano. Metodo tipico di persone non abituate alla critica e che di fronte ad un giornalista che si permette di criticare, si fanno prendere dal "ci vediamo in tribunale". Ebbene con tutti i "ci vediamo in tribunale" sentiti negli ultimi tempi prevedo che la mia agenda nei prossimi mesi sarà fittissima. Vi racconto solo l'ultimo "ci vediamo nelle sedi competenti". Appena ieri. Un amministratore che non ha gradito quello che abbiamo scritto sul suo operato mi ha annunciato al telefono, di aver segnalato il caso all'ufficio legale del suo Comune. Passano meno di dieci minuti e alla telefonata del sindaco, che poi vi racconto, segue quella di un avvocato, il quale, convinto che il solo titolo legale mi farà mettere sull'attenti, "esige" di parlare con il giornalista che ha scritto quel pezzo. E "vuole" sapere chi è. "Perchè- tiene a sottolineare- quando chiama agli altri giornali parla con chi vuole". Dico che può dire a me, che sono il direttore, ma niente. Esige di parlare col fustigatore che intanto non è in redazione. Anche la telefonata con l'avvocato non si conclude bene. Seconda minaccia, nel giro di pochi minuti, di portarmi in tribunale e addirittura di farmi radiare dall'albo dei giornalisti. Lei, l'avvocato, conosce il presidente dell'ordine della Basilicata - mi dice - lo informerà di questo mio "illecito giornalistico" che senza dubbio verrà punito! Chissà perchè neanche questa minaccia mi spaventa. Ah l'oggetto del contendere qual era? Un pezzo scritto sulle lacrime di coccodrillo di un sindaco che non saprei se definire maschilista o maleducato. Il nostro infatti esordisce al telefono con un esagerato "dottoressa" per poi passare, quando gli dico che può parlare con me, ad un tono del tipo "si va bene squinzietta togliti dalle palle e passami il giornalista che ha scritto l'articolo". Inutile il mio tentativo di ricordare, anche al sindaco, che essendo io il direttore di Basilicata24 può dire a me. Mi liquida dicendomi che, stando così le cose lui non può parlare con un giornale non serio. E mi sbatte il telefono in faccia. Maleducato o banalmente maschilista? (stai a vedere che mi denuncia anche per questo! Me lo dirà il solito maresciallo dei carabinieri che ormai da qualche mese mi chiama per l'identificazione in caserma). Di sicuro c'è che il sindaco incazzato non è abituato alle critiche, ancor più se vengono da "sconosciuti giornalisti" poco interessati a far comunella (in gergo giornalistico si chiamano marchette) e così finisce che reagisce di pancia. Per tornare alle cose serie: noi di Basilicata24 festeggiamo la XIX Giornata per la libertà di stampa ricordando tutti quei colleghi che questa libertà l'hanno pagata a caro prezzo. Il resto, come diceva Totò, sono "bazzecole, quisquilie e pinzellacchere".»
Di ingiustizia a Potenza ne parla Massimo Brancati su “La Gazzetta del Mezzogiorno”: Condannato a due mesi per aver denunciato gli inquinanti negli invasi. Sospeso due mesi dal servizio per poi essere «parcheggiato» al museo restando comunque in carico alla polizia provinciale. E, dulcis in fundo, la condanna a due mesi e 20 giorni di reclusione, trattato come un comune delinquente. La colpa del tenente della polizia provinciale Giuseppe Di Bello? Aver reso noto dati coperti da «segreto d’ufficio» sulla qualità delle acque del Pertusillo, Montecotugno e Camastra, da cui emergeva la presenza di metalli pesanti e inquinanti. Sulla scia di quel monitoraggio che, secondo l’accusa, avrebbe ricevuto «sottobanco» dall’Arpab, Di Bello - con l’aiuto di un chimico e di Maurizio Bolognetti, leader dei Radicali lucani e tra i finanziatori del progetto - decise di effettuare in proprio dei prelievi dagli invasi per verificarne lo stato di salute. Un’operazione che, sempre a parere dell’accusa, il tenente avrebbe fatto durante il proprio servizio e con mezzi e risorse dell’ente. È un teorema che ha determinato la sua condanna, ma Di Bello non ci sta e parla di un complotto.
Punto primo: le analisi - dice - non le ha ricevute dall’Arpab, ma direttamente dalla direzione generale del dipartimento Ambiente della Regione.
Può dimostrarlo?
«Certo. Il giudice ha in mano la copia di quei dati da cui si evince che sono stati inviati il 5 gennaio 2010 alle 18.10 dal numero di telefono 0971.669065 che corrisponde all’utenza del dipartimento».
Ma l’accusa continua a dire che lei ha ricevuto quei documenti dall’Arpab. Perché?
«Perché così sostengono l’incriminazione di aver rivelato dati coperti da segreto d’ufficio. Una volta giunti alla Regione l’ente ha il dovere di renderli di pubblico dominio. Ad ogni modo, come dice la convenzione di Aarhus, qualsiasi notizia che riguarda la salute e l’ambiente non può essere nascosta alla cittadinanza».
Lei dice che il dipartimento, consegnandole i risultati di quel monitoraggio, le avrebbe chiesto di divulgarli. Ma c’era bisogno della sua intermediazione per farlo? La Regione poteva benissimo pubblicarli autonomamente...
«È vero. Ma sinceramente non so perché sia stato chiamato in causa proprio io. Dopo sei giorni dalla ricezione del fax è partita la denuncia nei miei confronti da quegli stessi uffici. Col senno di poi devo pensare ad una trappola».
Ricapitoliamo i fatti. Il 5 gennaio 2010 riceve i dati, il 6 compie un primo giro tra gli invasi e il 21 effettua i prelievi. Ha fatto tutto durante l’orario di servizio?
«Macché. Sono andato a fare i campionamenti a bordo della mia auto e autofinanziando l’iniziativa. Non ero in servizio».
L’accusa, però, continua a sostenere il contrario...
«Sul foglio di presenza, accanto alla data, c’è una «r» che sta per riposo e non per reperibilità come dice il giudice. Il mio cartellino orologio conferma quanto dico».
Insomma, sta dicendo che ingiustizia è fatta...
«Ingiustizia cominciata quando mi hanno sospeso dal servizio per due mesi. È stato un abuso di autorità nei miei confronti. E poi penso alla vicenda giudiziaria che riguarda Fenice. Sono coinvolti dirigenti della mia stessa amministrazione e della Regione ai quali non è stato fatto un provvedimento disciplinare, né sono stati sospesi. Chi divulga informazioni sull’inquinamento viene bastonato e perseguitato, chi «copre» e mette in cassaforte dati sulla presenza di sostanze pericolose per l’ambiente e la salute la passa franca. E, per di più, viene difeso in tribunale con i soldi pubblici».
Perché si sarebbero accaniti contro di lei?
«Sono il capro espiatorio di uno scontro politico sulla qualità delle acque, ma anche la vittima di un sistema che sull’ambiente preferisce il silenzio alla verità».
Passi il Basento, scali a ottocentodiciannove metri sul livello del mare Potenza, da due secoli il capoluogo regionale più alto d'Italia, dove come dice il proverbio "a Santa Caterina la neve sova a spina", e pensi di trovarti nel "reality show" più appassionante dell'anno. Belle "gnocche" come qui non si sono mai viste - così dice il barista che serve il caffè a giudici, avvocati e giornalisti vicino al palazzo di Giustizia - Lele Mora che sgambetta in passerella al comando di una coorte di ragazze squittenti e prorompenti. E poi il ciglioso piemme biondo che fa impazzire il mondo e tanti "Vipps", che Mina, signora un po' snob, su "La Stampa" ha ribattezzato "Pipps". E invece altro che "vallettopoli" e "puttan tour". Appena arrivi in cima alle scale di Potenza, che il sindaco Vito Santarsiero chiama la "città verticale", ti senti risucchiato in un cupo romanzo gotico: potere, politica, soldi, speculazioni, sesso e assassinii. Altro che veline. Sì, perché in questo ex borgo montanaro, voluto capoluogo regionale da Giuseppe Bonaparte nel 1806, che vide tra i suoi cittadini Giustino Fortunato, vagheggiatore della nascita di una moderna borghesia imprenditoriale nel Mezzogiorno, in questa capitalina di 69 mila abitanti, tra monti bellissimi, ma di una bruttezza palazzinara che fa male all'anima, c'è un tasso di omicidi irrisolti che dev'essere proporzionalmente il più cospicuo d'Italia. Non tanto gli omicidi di camorra, di mafia, di 'ndrangheta, che pure qui arrivano ma che altrove non si contano neanche più. Ma casi in cui s'intrecciano potere, politica, massonerie, magistratura, corruzioni, abusi, sesso e droga. Tanti misteri alla Montesi. Chi non ricorda il caso di Wilma Montesi? La ragazza fu trovata morta sulla spiaggia di Torvajanica, litorale di Roma, dopo una notte di festini. Quella morte aprì una partita all'ultimo sangue nella Democrazia cristiana, con le dimissioni del ministro degli Esteri Attilio Piccioni, per i sospetti sul figlio Piero, musicista e viveur, che in realtà quando Wilma fu uccisa si trovava in Costiera Amalfitana con Alida Valli, sua amante del momento, come poi testimoniò l'ex ministro Paolo Emilio Taviani. Lo scandalo favorì l'ascesa nel partito di Amintore Fanfani. Emilio Colombo, ex presidente del Consiglio, ex ministro in decine di governi, tuttora venerata icona cittadina e nume tutelare di Potenza, era giovane, ma di quell'epoca ha sicura memoria. Qui, oggi come allora, la partita incrocia i partiti, ma non è solo politica, coinvolge pezzi rilevanti di magistratura e di società, la nuova borghesia locale fatta soprattutto di burocrati, non quella sognata da Giustino Fortunato, né quella contadina dell'Ottocento e del Novecento dei Ricciuti, dei Lioy, dei Santangelo, dei d'Errico, dei Lacava. A incrementare le inchieste incrociate c'è un Robin Hood locale "antimagistratura corrotta". Si chiama Nicola Picenna e non ha requie da quando nel marzo 2003 il Tribunale civile di Matera, presieduto da Iside Granese, dichiarò il fallimento del consorzio Anthill, di cui era presidente, fondato dal banchiere Attilio Caruso per partecipare alla gara per la concessione delle licenze telefoniche Umts. Sali a Potenza, sulla scala mobile più lunga d'Europa, piccolo ma rivendicato orgoglio cittadino che ti porta al centro della città, e subito ti raccontano dell'omicidio dei coniugi Gianfredi, Giuseppe e Patrizia, ammazzati a fucilate anni fa davanti ai figlioletti. Un mistero irrisolto, uno dei tanti. Prendi il caffè in via Pretoria, vicino a Palazzo Biscotti, dove abitò Giovannino Russo, gloria giornalistica cittadina, e ti intrattengono sul giallo di Elisa Claps. Sedicenne, mora, carina, alta un metro e cinquantacinque, scomparve una domenica, il 12 settembre 1993. Fu sospettato Danilo Restivo, il ragazzo che aveva appuntamento con lei. Ma tutto finì nel nulla. Salvo che, trasferitosi in Inghilterra, il giovanotto di ottime relazioni familiari a Potenza, manifestò lo stesso vizietto che, a quel che disse la polizia, coltivava a casa: tagliare ciocche di capelli a signore e signorine, per strada, in autobus, ovunque gli capitasse. Scotland Yard, passati gli anni, è ancora lì a studiare il profilo psicologico dell'uomo sospettato per l'assassinio britannico di Heather Barnett, vicina di casa del sospetto potentino, trovata morta con una ciocca in mano. A Potenza si narra che il cadavere di Elisa, mai più ritrovato, fu sciolto nell'acido o incorporato nella colonna di cemento di un palazzo di undici piani. Ma soprattutto si strologa sulle connivenze, di cui "Chi l'ha visto", i giornali locali e i capannelli di via Pretoria parlano con ridondanza di nomi e cognomi. Il "parrucchiere" sarebbe stato protetto da Michele Cannizzaro, attuale direttore dell'ospedale San Carlo e marito di Felicia Genovese, magistrato di Potenza, ora trasferita dal Csm e indagata per aver archiviato una denuncia contro esponenti dei Ds e della Margherita, in cambio - questa l'accusa - della nomina del marito all'ospedale. Il pentito Gennaro Cappiello sostenne che il marito della Genovese fu anche il mandante del duplice omicidio Gianfredi. Ma l'inchiesta è stata archiviata e il pentito, considerato inattendibile dalla procura di Salerno, denunciato per calunnia. Tanti anni dopo, innescato dalle inchieste a raffica del pm anglo-napoletano Henry John Woodcock, che agiscono come una sorta di moltiplicatore d'interesse per le antiche vicende, in cima alla città delle scale, che ancora dibatte su un antico stemma raffigurante un "leone gradiente su di una scala" (ma i leoni salgono le scale? ) torna l'incubo degli omicidi insoluti. Non solo Elisa e i Gianfredi, anche i "fidanzatini di Policoro" uccisi nel 1988. Policoro, sulla costa jonica, è oggi in qualche modo l'epicentro, il luogo epitomico, dell'inestricabile "Basilicata connection", che copre come una nevicata di Santa Caterina l'intera regione e fa lacrimare nel Duomo San Gerardo, patrono di Potenza, e l'arcivescovo Agostino Superbo, indignato non solo per le vergogne locali, ma per i "modelli di vita" dell'Italia televisionara scoperchiati da Henry John. E' lì, a Policoro, che carabinieri e Guardia di Finanza hanno messo i sigilli al villaggio turistico "Marinagri", un complesso di alberghi, ville, marina, del valore di 200 milioni di euro, costruito su terreno demaniale, per il quale è indagata, anche in inchieste connesse su un "gruppo di potere" trasversale, un bel pezzo di giustizia e di politica regionale. Non solo Felicia Genovese, col marito direttore dell'ospedale, ma anche, tra gli altri, i procuratori potentini Giuseppe Galante e Giuseppe Chieco, il presidente del Tribunale di Matera Iside Granese, l'ex presidente della Regione e sottosegretario diessino nel governo Prodi Filippo Bubbico, il presidente della Regione Vito De Filippo, della Margherita, il senatore Emilio Nicola Buccico, di An, ex componente del Consiglio superiore della Magistratura e candidato a sindaco di Matera, la responsabile dell'Agenzia del Demanio Elisabetta Spiz, all'anagrafe moglie di Marco Follini, ex leader dell'Udc "scisso" dal socio Pierferdinando Casini, il cui nome ha aleggiato nei pettegolezzi fioriti ai margini delle inchieste televisionarie di Woodcock. Almeno tre, per quel che ne sappiamo, i tronconi dell'inchiesta "Basilicata connection" che pericolosamente s'intersecano: filone sanità, incentrato sulla coppia Cannizzaro - Genovese, filone banche per finanziamenti della Banca Popolare del Materano, Gruppo Popolare dell'Emilia, al presidente del tribunale di Matera, filone speculazione edilizia per "Marinagri" di Policoro. Ma, tra i tanti filoni, torna cupo dal passato, con un'inchiesta riaperta dalla procura di Catanzaro, l'assassinio dei "fidanzatini di Policoro", Luca e Mariarosa, che Carlo Vulpio ha dettagliatamente ricostruito sul "Corriere della Sera". Ventun'anni di età entrambi, trovati morti nella vasca da bagno, si disse che i due ragazzi furono folgorati per il cattivo funzionamento dello scaldabagno. Nessuno fece l'autopsia. Ma, riesumati i corpi otto anni dopo, si ebbe la quasi certezza che i fidanzati in realtà siano stati prima uccisi e poi gettati nella vasca da bagno. "La vicenda - disse in Parlamento l'allora ministro della Giustizia Piero Fassino - ha risentito in modo determinante dell'insufficienza degli accertamenti espletati". Perché furono così insufficienti gli accertamenti espletati? Perché la ragazza, Mariarosa, aveva confessato in una lettera al fidanzato Luca: "Amore mio, spero che resterai accanto a me anche quando ti confesserò una piccola parte di me, che voglio cancellare per sempre". La parte da cancellare erano festini con personaggi potenti, serate allegre di sesso e droga, ben retribuite, che facevano tremare mezza Basilicata. Quelle serate, secondo la pentita Maria Teresa Biasini, sarebbero state frequentate, tra gli altri - come hanno riferito le cronache - dal giudice del Csm Nicola Buccico, dall'avvocato Giuseppe Labriola, segretario provinciale di An, e da un giudice "dai capelli bianchi e dagli occhi di ghiaccio", l'unico di cui il nome non viene fatto esplicitamente. Chi era? Per saperlo basterebbe ascoltare le chiacchiere da bar di via Pretoria. Ma la vicenda è stata archiviata a Potenza perché priva di riscontri. Buccico, magistrato del Csm e senatore di An, per parte sua, prima difende come avvocato la famiglia dell'assassinato, poi diventa avvocato del pubblico ministero Vincenzo Autera, quello che per l'omicidio dei due ragazzi aveva chiesto l'archiviazione. Strilla il segretario diesse della Basilicata Piero Lacorazza: si complotta contro la dignità di un'intera Regione. Gli risponde sul "Riformista" Emanuele Macaluso: finiamola con la retorica, l'intreccio tra "nuova classe" e poteri locali è politico e coinvolge anche Diesse e Margherita. Il sindaco di Potenza è della Margherita ed è il più "preferenziato" d'Italia, con il 75 per cento dei voti. Lui, Vito Santarsiero, estimatore dell'antico leader Emilio Colombo, non parla di complotti. Enumera appassionatamente i lavori "cantierizzati", le mostre straordinarie aperte in città, come quella di De Chirico, perché "la cultura viene prima di tutto" in una città che ha sofferto dell'immensa "incultura urbanistica" prima e anche dopo il terremoto del 1980, che pure tanti fondi condusse qui per una ricostruzione dissennata. Ci parla dell'area industriale, della Pittini Siderurgica, delle aziende di prefabbricati, del debito che ha ereditato, 150 milioni di euro che solo di interessi gli costa 10 milioni all'anno, del "piano metropolitano" messo a punto con nove comuni vicini per lo sviluppo economico dell'area. Ma qualcosa ha da dire anche su "vallettopoli": "Sei milioni di euro di costo per le intercettazioni telefoniche a Potenza mi sembrano francamente un'enormità, basta fare il confronto con la cifra infinitesimale che si spende a Matera. Io rispetto il magistrato Woodcock, ma credo anche che la giustizia abbia delle priorità, che ci debba essere una gerarchia nel perseguimento dei reati. Allora mi piacerebbe finalmente sapere non solo quale Vip in mutande ha fotografato Corona, chi c'era sulla barca in navigazione nei pressi di Capri col transessuale, quale ragazza amministrava Lele Mora. Mi piacerebbe anche sapere che cosa si fa contro la droga, che qui dilaga, che cosa contro l'usura, contro la mafia, che incede dalle regioni limitrofe. E possibilmente che fine ha fatto Elisa Claps, perché, diciamolo, questa città è ancora scossa da quello e dagli altri omicidi impuniti. Potenza ha bisogno di serenità per poter fare ciò che le serve: lavoro, tutela dell'ambiente, qualità della vita, riqualificazione urbana". Sessantamila miliardi di vecchie lire piovvero dopo il terremoto del 1980 e 18 mila si fermarono qui in Basilicata. Il 60 per cento per un'industria mai nata o fallita, il 40 per recuperare abitazioni che hanno perpetuato uno scempio urbanistico che viene da lontano, da quando nella prima parte del secolo scorso approdarono qui invano gli architetti Piacentini e Quaroni a progettare il manicomio. E manicomio urbanistico fu. Tanto che la "riqualificazione" sembra oggi una missione impossibile anche per gli architetti Giuseppe Campos Venuti e Federico Oliva, chiamati in città dal sindaco Santarsiero. Quanto all'industria, se si tolgono la Fiat di Melfi e il polo dei salotti nel materano, ce ne sono scarse tracce in una terra strappata alla pastorizia con un profluvio di incentivi. Nonostante il fiume di denaro pubblico, il valore aggiunto per abitante è di poco più di 16 mila euro, l'ottantaduesimo posto nella classifica italiana, la disoccupazione è pari a circa un terzo della popolazione attiva residente. C'è il petrolio della Val d'Agri, ma sembra che l'oro nero lucano, che copre più o meno il dieci per cento del fabbisogno energetico nazionale, qui sia vissuto più che come un'occasione, soprattutto come un fastidio. Ne sa qualcosa l'ex presidente della Regione e sottosegretario allo Sviluppo economico Filippo Bubbico che ha dovuto difendersi anche dall'accusa di aver consentito l'estrazione nella Val d'Agri: "Le ricerche - ha spiegato - avvenivano da molto tempo, c'erano concessioni minerarie risalenti agli anni Cinquanta. Ma solo nel 1996 il governo nazionale ha autorizzato l'Eni a sfruttare i giacimenti petroliferi della Val d'Agri. In quella situazione nessuno avrebbe potuto fermare l'attività petrolifera. Noi abbiamo scelto di non perderci nella disputa nominalistica petrolio sì, petrolio no e abbiamo faticosamente trovato il modo di portare l'Eni e il governo al tavolo delle trattative per tutelare l'ambiente e creare opportunità per la Basilicata". Ciò di cui oggi la Basilicata non difetta sono i sottosegretari: oltre a Bubbico, dispone di Mario Lettieri all'Economia e di Gianpaolo D'Andrea alle Riforme, entrambi della Margherita. Altri tempi rispetto a quelli di Colombo e di Angelo Sanza, quando Potenza, borgo montanaro a ottocento e più metri sul livello del mare, comandava a Roma. Altri tempi, di pastorizia, clientele sì, quasi una patria. Ma non c'era "Potenza noir".
Il caso di Elisa Claps non è l’unico e nemmeno il più recente. La storia di Potenza è costellata di delitti misteriosi e soprattutto irrisolti. Alcuni poi portano al delitto della sedicenne scomparsa nel 1993. Uno di questi ha come vittima Pinuccio Gianfredi, malavitoso e confidente dei servizi segreti ucciso con una fucilata in bocca il 29 aprile 1997. All’inizio si parlò di regolamento di conti ma qualcuno di recente ha collegato questo delitto con la vicenda Claps: pare che Pinuccio sapesse qualcosa. Un’altra morte misteriosa riguarda una poliziotta, anche lei coinvolta in qualche modo con Elisa Claps. Anna Esposito è stata ritrovata morta in casa nel marzo 2001: un suicidio strano e anche misterioso. Avvenuto mentre conduceva indagini solitarie e parallele sulla morte di Gianfredi e sulla scomparsa di Elisa. Parla chiaro Don Marcello Cozzi, sacerdote di Libera da sempre al fianco della famiglia Claps: “Sono convito che l’omicidio Gianfredi abbia coperture di Stato e sia legato ai colpevoli ritardi nell’individuazione di Danilo Restivo come assassino di Elisa e alla morte del funzionario della Digos Anna Esposito”.
«Lontana, abituata a nascondersi, una delle città più misteriose d'Italia sta cercando di cancellare tutte le tracce che portano a un morto. In apparenza un delitto di mafia, in realtà un omicidio che nessuno vuole scoprire». Comincia così l'inchiesta che "La Repubblica" dedica al capoluogo a tutta pagina. Attilio Bolzoni, uno delle più influenti e prestigiose firme del giornalismo italiano, da anni alle prese con cronaca nera, storie di mafia, importanti casi giudiziari, ha deciso di raccontare «la città dei 21 delitti irrisolti». Quello su cui concentra l'attenzione è il caso Gianfredi. Un delitto che descrive come «uno dei tanti in questa Potenza incastrata fra le montagne, gelosissima della sua intimità, capace di ingoiare ogni segreto». Parte dal delitto Gianfredi per innestare quelli di Elisa Claps, la scomparsa di Nicola Bevilacqua (Lauria), il giallo dei fidanzatini di Policoro, Luca e Marirosa. Ancora, l'assassinio di Tiziano Fusilli nel capoluogo e la scomparsa, 35 anni fa, della piccola Ottavia De Luise a Montemurro. Tra tutti questi delitti, a guardare bene - emerge nell'impietoso ritratto - un filo c'è: è Potenza questo filo, è la città «bivio di trame e scorribande di spie, porto franco per notabili impastati con il crimine, terra avvelenata da faide e condannata a non sapere mai nulla dei suoi misfatti». Potenza ne esce a pezzi.
Potenza, lontana, abituata a nascondersi, una delle città più misteriose d’Italia, sta cercando di cancellare tutte le tracce che portano ad un morto. In apparenza un delitto di mafia. In realtà un omicidio che nessuno vuole scoprire. Uno dei tanti in questa Potenza incastrata tra le montagne, gelosissima della sua intimità, capace di ingoiare ogni segreto. Morti senza un movente, morti senza un colpevole, morti senza una tomba. Dall’alto dei suoi 819 metri sul livello del mare che le danno il primato di capoluogo di regione più in quota, Potenza – che in un'altra epoca era il reame di Emilio Colombo, per una volta capo del Governo e per altre ventuno Ministro della Repubblica – è bivio di trame e scorribande di spie, porto franco per notabili impastati con il crimine, terra avvelenata da faide e condannata a non sapere mai nulla dei suoi misfatti. Un altro record, dopo quello dell’altitudine, nella Basilicata degli almeno 21 casi insoluti degli ultimi trent’anni, come un noir senza fine con un cadavere dietro l’altro e con indagini immancabilmente destinate all’archivio. Là in cima, chiusa ed isolata come una fortezza, Potenza protegge se stessa occultando tutto. L’ultimo “cold case” ripescato è un regolamento di conti che ha troppe verità. Una fucilata in bocca a Pinuccio Gianfredi per farlo tacere. Pinuccio, malavitoso e confidente dei servizi segreti, ucciso il 29 aprile del 1997 insieme alla moglie Patrizia e sotto gli occhi di due dei tre loro bimbi. Liquidato da frettolose investigazioni come vittima di uno scontro tra bande nemiche, la sua vicenda è raccontata con quattro differenti versioni da quattro pentiti che accusano o si autoaccusano, ma che vengono reputati tutti abbastanza credibili. Due, come Gianfredi, erano anche loro informatori degli apparati di sicurezza. Pasticcio o intrigo? Comunque siano andate le cose, nella città dove niente è mai quello che sembra, qualcuno adesso dice che Pinuccio Gianfredi è stato ammazzato perché sapeva tanto sulla scomparsa di Elisa Claps, la ragazza riesumata diciassette anni dopo in un sottotetto della chiesa della Santissima Trinità. Qualcuno giura che c’entra anche con lo strano suicidio di una poliziotta, trovata soffocata nella sua casa nella primavera del 2001. «Sono convinto che l’omicidio di Gianfredi abbia coperture di Stato e sia legato ai colpevoli ritardi nell’individuazione di Danilo Restivo come assassino di Elisa Claps ed alla morte del funzionario della Digos, Anna Esposito», spiega Don Marcello Cozzi, il sacerdote di Libera che con la sua tenacia ed al fianco della famiglia Claps non ha mai mollato per avere la verità sulla sorte della ragazza. Don Marcello, che ogni tanto riceve minacciose buste con proiettili e visite di ladri che non rubano mai niente, parla di inchieste insabbiate, di informative sparite, di testimoni d’accusa pilotati. Intorno all’omicidio di Pinuccio Gianfredi è in subbuglio la Potenza delle consorterie, delle logge, dei circoli dove s’incontrano gli eredi dei “Basilischi” (l’organizzazione criminale della Basilicata legata alla “ndrangheta) con personaggi del sottobosco criminale della politica, avvocati marchiati dal famigerato “concorso esterno”, imprenditori da mucchio selvaggio. E poi ci sono le spie. Ce ne stanno dappertutto a Potenza. Chissà che ci faranno tutte queste spie fra le vette dell’Appennino? «Non l’abbiamo mai capito», risponde Fabio Amendolara, il cronista de “La Gazzetta del Mezzogiorno” che da anni segue le contorte vicende giudiziarie potentine e le ingarbugliate piste che costruiscono sopra ogni delitto. Da indagini che si rincorrono fra Potenza e Salerno dove sono approdate, le spie coprono, sviano, depistano. E’ capitato dopo la scomparsa di Elisa ed è capitato dopo l’omicidio di Pinuccio. E probabilmente anche con Anna Esposito, la poliziotta della Digos di Potenza e che un giorno di Marzo del 2001 “è stata rinvenuta impiccata” con una cintura alla maniglia di una porta. La poliziotta faceva indagini parallele e solitarie sul delitto Gianfredi e sulla scomparsa di Elisa. In quel gorgo sono scivolati perfino Felicia Genovese, il pubblico ministero che ha condotto le inchieste sulla morte di Pinuccio e sulla sparizione della Claps. E suo marito Michele Canizzaro, un ras della Sanità lucana, addirittura indicato da uno dei quattro pentiti come mandante dell’omicidio di Pinuccio. Prosciolti già in istruttoria da ogni accusa tutti e due, il pm ed il marito. Scagionati anche tutti i collaboratori di giustizia che li avevano accusati o si erano autoaccusati, scagionati i presunti mandanti. Come sempre, a Potenza, il colpevole è ignoto. E Pinuccio è morto per una guerra di mafia che non è mai scoppiata. E’ l’incubo dei casi irrisolti che ritorna sempre, qui a Potenza. Incubo che ha avuto inizio il 12 maggio del 1975 con la scomparsa a Montemurro di Ottavia De Luise, una bambina forse vittima di pedofili. Mai scoperto nulla. Come per i fidanzatini di Policoro, Luca Orioli e Marirosa Andreotta, due universitari trovati morti nel bagno di casa della ragazza il 23 marzo del 1988. Una scarica elettrica la causa ufficiale della loro morte, prima. Il monossido di carbonio, poi. Un incidente domestico dove sono state cancellate tracce di sangue e – come si legge nelle carte giudiziarie – «con lo stato dei luoghi modificato e i corpi manipolati». Mai scoperto nulla. Come per Alfonso Bisogno e Giuseppe Di Pietro, commercianti scomparsi nelle campagne di Filiano nel 1981. Come per Tiziano Fusilli, ucciso da due pallottole il 22 maggio del 1989. Tiziano era un ragazzo di 28 anni, qualche precedente per droga, ma intanto aveva cambiato vita. Mai scoperto nulla. Come per Vincenzo De Mare, un autotrasportatore ammazzato a fucilate il 26 luglio 1993. Come per Nicola Bevilacqua, scomparso a Lauria nel maggio del 1983. Due settimane dopo che il ragazzo era svanito nel nulla, a casa di Nicola è arrivata una lettera. Lui diceva che stava bene, rincuorava la sorella, annunciava che prima o poi sarebbe tornato. Non è più tornato. La lettera non l’aveva scritta Nicola. La Basilicata delle tenebre si è inghiottito pure lui.
Ottavia De Luise. A Montemurro in Basilicata, il 12 maggio del 1975 scomparve una bambina, Ottavia De Luise, di appena 12 anni. Era la più piccola di otto fratelli e da qui deriva il nome di Ottavia. Il pomeriggio del 12 maggio del 1975 Ottavia stava giocando con la cugina, a pochi metri da casa. Giunta l'ora di rincasare, la cugina racconta di averla vista incamminarsi verso casa. Solo pochi metri, ma proprio in questo breve tragitto si sono perse le tracce della bambina. Dopo qualche ora, verso le 17, non vedendola figlia, la madre chiese al fratello della piccola di andare a cercarla nella piazza del paese. Quando il ragazzo tornò senza alcuna notizia della sorellina, la famiglia si mise in allerta. All'epoca, nel piccolo borgo di appena 1500 persone, c'era solo un carabiniere. Dopo venti giorni arrivarono dei poliziotti con dei cani per agevolare le indagini: purtroppo non emerse nulla. Nel corso degli anni alla famiglia arrivarono due lettere anonime: la prima fu consegnata ai carabinieri e vennero interrogate delle persone. La seconda giunse ad uno dei fratelli della ragazza e il contenuto era chiaro: Ottavia De Luise fu violentata e uccisa. Nel corso di questi anni nessuno fu indagato, nessun magistrato si occupò di questa scomparsa, fino all'archiviazione del caso.
Dopo il caso di Elisa Claps, un nuovo «cold case» verificatosi sempre in Basilicata, sale alla ribalta delle cronache. Portando a nuovi, clamorosi, sviluppi. I vigili del fuoco, in collaborazione con gli agenti della polizia scientifica, hanno ritrovato il 4 maggio 2010 dei «reperti» all'interno di un pozzo-cisterna a Montemurro (Potenza), nell'ambito delle indagini sulla scomparsa di Ottavia De Luise, il 12 maggio 1975, quando la bambina aveva 12 anni: il ritrovamento è stato annunciato nel corso della trasmissione di Raitre di lunedì scorso «Chi l'ha visto?», che aveva «riaperto» il caso nelle puntate precedenti. Il pozzo-cisterna si trova all'esterno di una masseria ed è stato svuotato: all'interno oggetti e «reperti», forse resti umani, consegnati poi a un medico legale che dovrà analizzarli, come ha confermato all'Ansa la dirigente della squadra mobile di Potenza, Barbara Strappato. Le indagini sono cominciate con i rilievi planimetrici e la perlustrazione dei luoghi in cui Ottavia fu vista per l'ultima volta. Secondo la ricostruzione di «Chi l'ha visto?» il pozzo-cisterna, a pochi metri dal centro abitato, si trova in una delle zone indicate in alcune lettere anonime inviate alla famiglia De Luise, in cui si spiegava che la bambina «era stata violentata, uccisa, e poi nascosta». Le analisi successive condotte dal professor Franco Introna nell'Istituto di medicina legale di Bari avrebbero accertato che i reperti trovati sono resti animali. Dopo la scomparsa della De Luise, nel 1975, i primi rilievi furono effettuati dall'unico carabiniere in servizio all'epoca nel paese. Alcune settimane dopo furono inviati a Montemurro dei poliziotti con i cani. Il caso fu successivamente archiviato, per essere poi riportato alla ribalta da articoli di stampa e da «Chi l'ha visto?», nell'ambito dei servizi sull'omicidio di Elisa Claps. Nel corso degli ultimi anni ci sono state alcune lettere anonime che ipotizzano la pista del delitto ad opera di ignoti pedofili. Nel paese del resto c'è chi conosce la verità, dato che nelle lettere si afferma che la ragazza è stata violentata e uccisa. Nelle missive si dice anche che la bambina veniva abusata da anziani del paese in cambio di soldi. L'ultima persona a vedere viva la piccola Ottavia fu una signora che affermò di averla vista vicino alla parrocchia del Carmine, sulla strada per Armento, e che la piccola era diretta ad una masseria del luogo. Il caso è riaperto. Sulla scomparsa di Ottavia De Luise, 12 anni di Montemurro, avvenuta il 12 maggio del 1975, sono ripartiti gli accertamenti. E non solo sulla carta. A Montemurro c‘è stata la prima intensa giornata di lavoro su quel «mistero » che per 35 anni è rimasto nel silenzio, senza indagini e senza nemmeno gli onori della cronaca. Direttamente sui luoghi della scomparsa sono andati il pm Sergio Marotta che ha ripreso in mano quel fascicolo chiuso un anno dopo la scomparsa con dentro appena 55 pagine di accertamenti, il capo della Squadra Mobile, Barbara Strappato, e il commissario capo, Antonio Mennuti, questi ultimi reduci dai colloqui col fratello di Ottavia, Settimio De Luise. In pratica, sembra che sul caso De Luise si sia deciso di ripartire con il «metodo Claps» ossia analizzare tutto come se i fatti si fossero appena verificati. Così la folta squadra investigativa (c’erano altri sei uomini della Mobile e due della Scientifica) è arrivata di buon ora sulla «scena del delitto» per partire dalla ricognizione dei luoghi, poi si sono acquartierati nei locali del Comune di piazza Giacinto Albini dove hanno iniziato a sentire i racconti di alcuni dei testimoni dell’epoca, a partire dalle stesse persone i cui nomi compaiono negli atti di indagine datati 1975. Il magistrato e il capo della Mobile, in particolare, hanno voluto eseguire in prima persona un sopralluogo a poca distanza dagli uffici comunali, nei pressi di quella Chiesa del Carmine che da Montemurro porta verso Armento, e in particolare in un appezzamento di terreno nei pressi della chiesa. Un luogo ripreso e fotografato dagli uomini della scientifica, che sembra essere un luogo chiave del mistero di Ottavia. Lì, infatti, la ragazza è stata vista per l’ultima volta da Maria Cirigliano, una donna del paese che raccontò la cosa ai carabinieri. Pioveva e Maria le chiese dove andava. La ragazza rispose che doveva avvisare una famiglia residente in una vicina masseria che dall’abitazione che avevano in paese usciva acqua. La donna le consigliò di chiamarli gridando e avvisarli, per non bagnarsi a causa della pioggia, e la ragazza rispose che «era meglio andarci di persona». E si incamminò. Ma non è solo per questo che «la via del Carmine» è un luogo chiave della vicenda. «Ottavia - raccontò qualche giorno dopo la scomparsa sua madre - mi aveva confidato che il “viggianese” l’aveva invitata più volte ad “andare verso la strada del Carmine”». E gli stessi carabinieri, all’epoca, conclusero che la ragazzina si era avviata su quella strada «perchè doveva incontrare qualcuno». Così l’attività di ricognizione fatta dagli investigatori ha ripercorso i momenti della scomparsa, avvalendosi anche della presenza di alcuni testimoni. Si è partiti dalla piccola casa della famiglia De Luise, in paese, da dove il 12 maggio 1975 Ottavia uscì alle 16. Quel giorno niente dopo scuola, si poteva andare a giocare con gli amici in quella piazza Giacinto Albini che dista appena una settantina di metri da casa. Lì incontrò alcuni suoi coetanei, tra cui la cugina, Lucia Rotundo, che lasciò alle 16.30. «Ora io vado in campagna a trovare il “viggianese” - le avrebbe detto a quanto riportato in un verbale dell’epoca - non dire niente a papà e mamma». Così si diresse verso la strada del Carmine per non tornare più. E da lì, 35 anni dopo, ripartono le ricerche.
Luciano De Luise, fratello di Ottavia, la bambina scomparsa a Montemurro (Potenza) il 12 maggio 1975, quando aveva 12 anni, parlando durante la trasmissione di Raitre ‘Chi l’ha visto?’, ha espresso la speranza che la sorella sia “ancora viva”, anche se poco prima aveva criticato le affermazioni di una cugina sulle ultime ore conosciute della sorella, domandandosi “chi vuole ‘coprire’”. Durante la trasmissione si è parlato anche di Giuseppe Alberti, soprannominato “il viggianese”, che aveva definito Ottavia De Luise “una scostumata” e che fu interrogato e fatto visitare dall’allora pm di Potenza, Antonino De Marco. Alberti, che abitava in una casa forse meta della bambina il giorno che quest’ultima scomparve e che il 29 agosto 1975 si trasferì a Torino, aveva detto di essere stato colpito da una crisi epilettica e di essersi così procurato delle lesioni in varie parti del corpo. Il pm lo incriminò per atti di libidine ma, anche per la mancata denuncia da parte della famiglia di De Luise, allora richiesta dalla legge, non si arrivò mai al processo. ‘Chi l’ha visto?’ ha proposto anche il caso di Alfonso Bisogno, un commerciante di bestiame scomparso a Castel Lagopesole di Avigliano (Potenza) nel 1981, insieme a un suo collaboratore, Giuseppe Di Pietro. La loro automobile fu trovata bruciata il giorno dopo, sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria, e subito rottamata. L’uomo – ha raccontato il fratello, Salvatore – era andato a Lagopesole partendo da Giulianova (Teramo), dove aveva sede la sua azienda – per riscuotere 20 milioni per aver venduto capi di bestiame a una cooperativa. Alcuni dirigenti di quest’ultima raccontarono di avergli dato invece circa 75 milioni: due di loro furono arrestati per omicidio e occultamento di cadavere, ma poi, è stato detto durante la trasmissione televisiva, il processo non proseguì.
Che fine ha fatto Ottavia De Luise, la bambina scomparsa nel 1975? Il “viggianese” poteva essere l’unico sospettato? Sono state seguite davvero tutte le piste? O forse le indagini sono state approssimate perchè Ottavia era “una poco di buono” e quindi indegna di sforzi investigativi?
Testimoni mai sentiti, qualche alibi mai controllato. Le falle dell’indagine giudiziaria sulla scomparsa di Ottavia De Luise, la ragazzina di Montemurro scomparsa nel 1975, sono state ricostruite nella sala del Cestrim a Potenza dai giornalisti Fabio Amendolara ed Emanuela Ferrara durante la “prima” del libro inchiesta "La colpa di Ottavia" edito dalla Edimavi. I giornalisti, rispondendo alle domande di don Marcello Cozzi (moderatore dell’incontro), hanno spiegato perchè le indagini nei confronti del “viggianese” e di Andrea Rotundo, i due sospettati per la scomparsa della ragazzina, non hanno dato alcun esito. “Il viggianese, forse, alla fine avrebbe confessato anche gli abusi su Ottavia – hanno spiegato – ma ha un alibi all’ora della scomparsa di Ottavia”. E Rotundo? Secondo i giornalisti “è stato un abbaglio“. Sono state seguite davvero tutte le piste? O forse le indagini sono state approssimate perchè Ottavia era “una poco di buono“, così era stata definita all’epoca nel rapporto giudiziario dei carabinieri, e quindi indegna di sforzi investigativi? “36 anni fa – hanno detto i giornalisti – è andata così. Il carabiniere che si occupò dell’indagine la definì una poco di buono. Ci sorprende che la magistratura molli ancora una volta adesso. E’ troppo facile dire “è stato il viggianese”. E’ morto e non può difendersi. Noi riteniamo, e le indichiamo nel libro, che ci siano altre piste che non sono state mai approfondite. E ci sono testimoni che non sono stati convocati. Testimoni importanti. Come il ragazzo con l’automobile sportiva che osservava con insistenza Ottavia nella piazza del paese pochi istanti prima che sparisse. Perchè quell’uomo non è mai stato chiamato dagli investigatori?“.
L’avevamo detto: il caso della scomparsa di Ottavia De Luise sembra il copione di un brutto film. Ottavia sparì il 12 maggio 1975 a Montemurro, un centinaio di chilometri da Potenza. Montemurro è un paesino di 1.500 abitanti. Ora che si sono mesi a cercare sul serio il corpo di Ottavia, sulla scia del caso di Elisa Claps, non è stato difficile ritrovare alcuni reperti in un pozzo proprio nel luogo dove la ragazzina, che aveva 12 anni, fu vista per l’ultima volta. Si è scoperto poi che in paese, Ottavia attirava allora “voci e pettegolezzi” perché, si diceva, si intratteneva con adulti. E cioè, in pratica, tradotto oggi, alcuno adulti si approfittavano di lei, la molestavano. In particolare un uomo, Giuseppe Alberti, detto il “viggianese”, era stato visto speso vicino a Ottavia. Tanto che la mamma della ragazzina gli aveva intimato di non avvicinarsi più a sua figlia. Quando Ottavia scomparve il “viggianese” fu interrogato e vennero riscontrati sul suo corpo ecchimosi e lividi e in particolare un graffio sul braccio destro della lunghezza di un centimetro e mezzo. Non solo, 35 anni fa, la cugina di Ottavia, Lucia Rotundo, che ancora oggi vive in paese, testimoniò che il viggianese pagava Ottavia per farla spogliare e toccarla nelle parti intime. Oggi ritratta tutto e dice che a indurla a fare quelle dichiarazioni furono i carabinieri. Ma i colpi di scena non finiscono. Si pensava che Giuseppe Alberti fosse morto da tanti anni. Non è così: vive a Torino, ha 87 anni. La polizia segue la pista legata al suo nome, ma conduce scavi anche nella proprietà dei Rotundo, dove si trova il pozzo nel quale sono stati individuati i reperti. Intanto, Settimio De Luise, fratello di Ottavia, ha denunciato per favoreggiamento Giuseppe Nitto, allora comandante della stazione dei carabinieri di Montemurro (la polizia l’ha interrogato in un luogo segreto). Secondo Settimio, Nitto fece di tutto per insabbiare una storia la cui soluzione era a portata di mano già 35 anni fa.
In Lucania si può venire uccisi, giovanissimi e restare occultati ed ignorati, per anni.
Come funziona la “giustizia” (g minuscola non a caso) a Potenza? Dire Potenza è come dire Italia. Bene lo spiega Walter Vecellio su Notizie Radicali ripreso da “Libero Quotidiano” e tema trattato anche da “La Gazzetta del Mezzogiorno”.
Sei anni di indagini per capire che la pistola era giocattolo. Clamoroso caso di malagiustizia in provincia di Potenza: più di un lustro per capire che l'arma non avrebbe potuto nemmeno sparare.
Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Secondo i carabinieri possedevano un’arma ad avancarica prodotta prima del 1890. Una pistola non denunciata e, per questo motivo, clandestina. Un capo d’imputazione di due righe dattiloscritte proprio sotto i loro nomi e sotto il simbolo della Repubblica italiana riassume l’accusa: «Detenzione illegale di arma». Ma era un giocattolo. Loro lo hanno detto, ribadito e dimostrato. Nonostante ciò hanno subìto un lungo ed estenuante processo che si è concluso dopo sei anni con l’assoluzione. È una disavventura giudiziaria quella che racconta la sentenza di «non luogo a procedere» scritta dal giudice di Melfi Amerigo Palma. Gli imputati erano due ragazzi di Ruvo del Monte: Domenico e Sebastiano Suozzi, classe 1973, gemelli. Sul faldone che contiene i numerosi documenti (informative, note inviate dai carabinieri al pubblico ministero, notifiche) finiti tra gli atti dell’inchiesta un cancelliere ha annotato: «Processo Suozzi più uno». Da qualche settimana quel raccoglitore di fascicoli è finito nell’archivio della Procura di Melfi. Conteneva anche la consulenza di un perito balistico che il difensore dei due ragazzi, l’avvocato Giustino Donofrio del foro di Melfi, è stato costretto a chiedere per evitare che la situazione diventasse ulteriormente rischiosa per i suoi assistiti. «Si vedeva a prima vista che era un giocattolo», conferma chi ha potuto vedere l’arma. Eppure nel 2006 ci fu un sequestro. E i due ragazzi rischiarono l’arresto. La riproduzione - che non è neanche di pregio - era ben esposta sul caminetto della loro abitazione di Ruvo del Monte. I carabinieri della locale stazione la scambiarono per un’arma vera e funzionante e gliela portarono via. Cominciò così per i due ragazzi il lungo calvario giudiziario. Prima l’avviso di garanzia. Poi la convocazione per l’interrogatorio. Poi l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. E nonostante l’interrogatorio e le memorie presentate la Procura chiese di rinviare a giudizio i due indagati. È stato allora che l’avvocato ha chiesto di sottoporre il giocattolo a perizia per stabilire la sua natura e la funzionalità. Scrive il giudice nella sua sentenza: «Il perito, verificato il reperto a lui consegnato nel corso dell’udienza, ha concluso che non si tratta di un’arma ma di un mero simulacro inerte». Un giocattolo. Che i due ragazzi potranno esporre di nuovo sul camino. Dopo sei anni di processo.
ELISA CLAPS ED IL NIDO DI SERPI.
Dopo 18 anni Danilo Restivo è stato condannato a 30 anni per l'omicidio di Elisa Claps. I suoi legali annunciano che faranno appello, ma la mamma della giovane chiede ora a Restivo: "Dimmi chi ti ha coperto".
Danilo Restivo, che sta già scontando l'ergastolo in Inghilterra per l'omicidio della sarta Heather Barnet (trovata uccisa nel 2002 con modalità simili, si capirà in seguito, a quelle di Elisa Claps) è stato condannato a 30 anni, massimo della pena per un processo con rito abbreviato, per l'assassinio della giovane studentessa di 16 anni, scomparsa da Potenza il 12 settembre 1993 e ritrovata cadavere, nel sottotetto della Chiesa della Santissima Trinità del capoluogo lucano, il 17 marzo 2010. Danilo Restivo ha avuto anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e la libertà vigilata per tre anni dopo l'espiazione della pena, oltre all'obbligo di pagare 700mila euro di risarcimento provvisionale. Sollievo per i familiari di Elisa Claps, che finalmente, dopo tanti anni, ottengono "giustizia", come spiega la mamma della giovane Filomena, perché è da sempre che sono convinti della colpevolezza di Restivo. Anche per questo la mamma di Elisa Claps afferma che il magistrato "che ha condotto le prime indagini" si dovrebbe "fare un esame di coscienza". Danilo Restivo, infatti, era stato già condannato a poco più di due anni per falsa testimonianza riguardo al caso di Elisa Claps, ma circa 18 anni fa non si riuscì ad arrivare a questa verità accertata ora in ambito processuale. Per la famiglia Claps molti sono ancora i misteri che ruotano attorno alla morte di Elisa, a partire da quelli definiti come "complici morali". Mamma Filomena spiega infatti che ora non ci può essere "perdono", e si appella a Danilo Restivo: "Ora prendi carta e penna e scrivimi la verità, dimmi chi ti ha coperto". Perché la famiglia Claps è convita che qualcuno sapesse da tempo dell'omicidio della figlia, e di dove si trovasse il suo corpo. "E' la verità sulla Chiesa che voglio e che deve venire fuori a tutti i costi" precisa la mamma di Elisa Claps. La Diocesi di Potenza aveva anche chiesto di costituirsi parte civile nel processo, ma il loro legale, Antonello Cimadomo, ha spiegato che la richiesta è stata respinta "perché il giudice ha riscontrato una potenziale conflittualità con le nuove indagini in corso sul ritrovamento del cadavere". Sembra infatti che sia stato aperto un fascicolo "a latere" per capire se oltre a Danilo Restivo qualcun altro ha delle responsabilità in merito al delitto Claps. Il Mattino ricorda poi che ci sarebbero delle conferme riguardo un dossier scomparso sulla morte di Elisa Claps, dove un ex agente del Sisde, scrive il quotidiano che l'ha intervistato, afferma: "L'informativa sul delitto Claps c'era, la firmai io. E' dell'ottobre '97. C'era un prete che sapeva".
Dalla Gazzetta del mezzogiorno si scopre che sul delitto Elisa Claps spunta la massoneria.
Cercavano qualche elemento che potesse aiutarli a sbrogliare l’intricato giallo del ritrovamento dei resti di Elisa Claps nel sottotetto della chiesa della Trinità di Potenza (avvenuto il 17 marzo del 2010, a 17 anni di distanza dal delitto), quando hanno scoperto che uno dei sacerdoti intercettati era in contatto con esponenti di una loggia massonica segreta. Dalle chiacchierate telefoniche di don Pierluigi Vignola gli investigatori della Direzione investigativa antimafia di Salerno non sono riusciti a comprendere «quali siano con precisione i suoi reali interessi».
Gli investigatori della Dia di Salerno segnalano alla Procura - è quanto trapela dall’inchiesta bis del caso Claps, quella che sta cercando di accertare cosa c’è dietro al ritrovamento dei resti di Elisa e quale sia il reale coinvolgimento di appartenenti alla curia potentina - i contatti con un personaggio di Nola, in provincia di Napoli, «con precedenti per la violazione della legge Anselmi», quella che vieta la costituzione di società segrete. Ma anche con altri «appartenenti alla massoneria italiana» o comunque «legati ad ambienti massonici».
E, nonostante fino a quel momento non siano emersi «elementi attinenti alle indagini», per «acquisire ulteriori elementi» il caposezione della Dia di Salerno, Claudio De Salvo, da qualche giorno passato alla Squadra mobile, chiede ai magistrati di poter continuare a intercettare il telefono del sacerdote potentino. È il 13 aprile del 2010. Nell’informativa l’ex capo della Dia scrive anche che «da interrogazione della banca dati Sdi (un sistema informatico a cui possono accedere le forze di polizia, ndr) si rileva a carico dell’interlocutore del sacerdote una segnalazione della Squadra mobile di Benevento, all’interno della quale viene deferito anche don Vignola. Non si conosce però l’esito che hanno avuto queste indagini». Ma quando i pm Rosa Volpe e Luigi D’Alessio inoltrano al gip la richiesta di proroga qualcosa s’inceppa. Il giudice Attilio Franco Orio rileva che l’atto inviato dalla Procura è arrivato in ritardo e le attività di captazione vengono disattivate. Per gli investigatori era «evidente - si legge in un documento dell’inchiesta bis sull’omicidio Claps - quanto sia rilevante e indispensabile per la corretta e completa ricostruzione dei fatti, che non sono solo quelli relativi al giorno dell’omicidio ma anche quelli inquietanti relativi al decorso di ben 17 anni durante i quali il cadavere della ragazza si è decomposto nel sottotetto, captare ogni possibile comunicazione che possa interessare sia gli appartenenti al clero coinvolti nel ritrovamento, sia altri collegati, come don Vignola, viceparroco allorché era in vita don Mimì Sabia». Ma ormai era troppo tardi.
Ma a Potenza sembra esserci un covo di serpenti. Le inchieste di Fabio Amendolara sul "La Gazzetta del Mezzogiorno” lo confermano.
Era sorto un contenzioso tra l’Arma dei carabinieri e la Procura di Potenza. Molti ufficiali erano finiti in inchieste giudiziarie che dal comando regionale giudicavano «troppo lunghe». Il generale Emanuele Garelli, ex comandante regionale, preparò un esposto. E il ministero della Giustizia incaricò la Procura generale di effettuare un’indagine conoscitiva. Il sostituto procuratore generale Gaetano Bonomi, indicato dai magistrati di Catanzaro che hanno coordinato l’inchiesta bis sulle toghe lucane - il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e il sostituto Simona Rossi - come il promotore di una società segreta che cercava di delegittimare il lavoro della Procura di Potenza, avrebbe «usato» quell’indagine amministrativa per «cagionare - si legge in uno dei capi d’imputazione contenuti nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari notificato nei giorni scorsi ai 13 indagati - un danno ingiusto all’ex capo della Procura Giuseppe Galante».
Come? «Ha suggerito - si legge negli atti dell’inchiesta di Catanzaro - che il colonnello Nicola Improta gli richiedesse la copia di alcuni atti, facendo riferimento alla documentazione redatta dal procuratore Galante, in modo da consentire ai carabinieri di predisporre delle consapevoli ed efficaci controdeduzioni e di non “essere al buio”».
Ma Bonomi avrebbe «garantito» anche «di fornire al colonnello Improta copia della documentazione a lui giunta dal ministero della Giustizia e attinente alla relazione inviata al ministero da Galante, affinché i carabinieri potessero conoscere gli addebiti loro mossi dal procuratore di Potenza».
E ancora: «Ha garantito - scrivono i magistrati calabresi - al colonnello Improta che avrebbe ricevuto i verbali con le dichiarazioni rese da due ufficiali dei carabinieri che smentivano l’esposto del generale Emanuele Garelli».
Per «sistemare» l’indagine amministrativa, infine, Bonomi avrebbe «suggerito» al colonnello Improta «di irrobustire l’impianto accusatorio a fronte di quanto riferito dai due sottufficiali».
Secondo i magistrati di Catanzaro «suggerì» anche «le prove da preparare a sostegno delle loro accuse nei confronti di magistrati della Procura di Potenza e concordò con il comandante interregionale dei carabinieri le modalità di svolgimento degli accertamenti delegati alla Procura generale».
Il tutto per colpire l’ex capo della Procura Galante che, secondo i magistrati di Catanzaro, dopo poco si sarebbe lasciato decadere dall’incarico non presentandosi in ufficio (proprio a causa dei procedimenti disciplinari partiti con le segnalazioni della Procura generale). A quella poltrona pare mirasse proprio Bonomi.
E ancora dalla Gazzetta del Mezzogiorno si scopre che avevano «mappato» gli uffici investigativi della Questura di Potenza e spiato l’ex questore Vincenzo Mauro. «Attività di dossieraggio», la definiscono gli investigatori in un documento dell’inchiesta bis sulle toghe lucane che la Gazzetta ha potuto consultare.
C’era un «disegno prestabilito - secondo gli investigatori - contro il sostituto commissario Antonio Mennuti e l’ispettore Pasquale Di Tolla». Il primo era in servizio alla Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile. Il secondo era il braccio destro del pm Henry John Woodcock e vittima anche dell’esposto anonimo firmato dal «dottor Sicofante». Secondo i magistrati di Catanzaro - il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e il sostituto Simona Rossi - anche nel dossier sugli assetti della Questura c’è la mano di Nicheo Cervone, l’ex 007 del Sisde che avrebbe passato l’esposto calunnioso ai danni di Woodcock a Leonardo Campagna, un poliziotto di Foggia che, poi, l’avrebbe materialmente spedito. Secondo gli investigatori è «emerso un disegno criminoso verosimilmente finalizzato a delegittimare e depotenziare il lavoro della polizia giudiziaria» delegata da Woodcock per indagini molto delicate.
La poliziotta al telefono - Il vicequestore aggiunto Luisa Fasano, all’epoca capo della Squadra mobile di Potenza, si lamenta al telefono del fatto che il sostituto commissario Mennuti sia stato, «dopo il suo iniziale allontanamento», completamente «riabilitato» proprio dal questore Mauro che, a suo dire, «prima l’aveva fatto fuori e poi tirandosi indietro l’aveva fatto rientrare nei giochi». Questo comportamento, secondo Luisa Fasano, «aveva molto contrariato il procuratore generale». Spionaggio - Nel dossier sequestrato a casa dell’ex 007 vengono descritte proprio queste dinamiche. «La Questura di Potenza - si legge nel documento - nei primi mesi dell’incarico del questore aveva subìto pochi ma importanti avvicendamenti. Il principale di questi aveva interessato il passaggio di Mennuti (considerato uomo vicino al pm Vincenzo Montemurro, ndr) da responsabile dell’ufficio anticrimine ad addetto all’ufficio di gabinetto del questore». Poi, in linea con i commenti telefonici della poliziotta - ma molto probabilmente si tratta solo di una coincidenza - chi ha scritto il dossier commenta: «Da alcuni mesi Mennuti è stato ricollocato in un ufficio operativo come responsabile di una sezione della Digos. Grazie a questo incarico si occupa di tutte le tematiche relative al mondo politico e di fenomeni delinquenziali destabilizzanti connessi ad associazioni o gruppi quali, ad esempio, la massoneria».
È questo che preoccupava la società segreta che, secondo i magistrati di Catanzaro, era guidata dal sostituto procuratore generale di Potenza Gaetano Bonomi e alla quale aveva preso parte, sempre secondo l’accusa, anche Luisa Fasano? Oppure era l’ispettore Di Tolla il vero obiettivo del «dossieraggio»? Si legge nel documento sequestrato a casa dell’ex 007: «Contemporaneamente a questi accadimenti, l’ispettore principale della polizia stradale di Potenza, Di Tolla, ha chiesto e immediatamente ottenuto il passaggio alla Squadra mobile. Di Tolla è da sempre il principale fiduciario di un magistrato della Procura potentina (Woodcock, ndr). Così, oggi, di fatto, si è creato un canale diretto fra due magistrati e due uffici operativi della Questura». Nicrospie in questura - Ma chi fu a chiedere e ottenere i due trasferimenti? «Da notizie attinte da fonte inconsapevole prossima al questore - è scritto nel dossier - i due trasferimenti sono stati richiesti in modo pressante e perentorio dal procuratore Giuseppe Galante (che si lasciò decadere a seguito delle accuse di alcuni suoi colleghi. Nell’inchiesta bis sulle toghe lucane è parte offesa)».
Anche il questore era stato spiato? E chi è quella fonte inconsapevole?
È probabile che l’ufficio del questore sia stato anche intercettato. Luisa Fasano, infatti, confida al suo interlocutore telefonico che il nuovo questore, Romolo Panìco, subentrato a Vincenzo Mauro, prima di insediarsi nella sua stanza ha dovuto fare «una bonifica ambientale». Erano state installate delle microspie? E da chi? È questo che dovranno accertare gli investigatori.
Dalla “Gazzetta del Mezzogiorno” del 1 novembre 2011. Al sostituto procuratore generale Gaetano Bonomi qualcuno aveva promesso un posto all’ispettorato del ministero della Giustizia. All’ex agente del Sisde Nicheo Cervone, invece, dissero che sarebbe diventato consulente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica diretto da Massimo D’Alema.
In cambio - secondo i magistrati della Procura di Catanzaro che ritengono di aver scoperto una società segreta che si riuniva al terzo piano del palazzo di giustizia di Potenza, sede della Procura generale - avrebbero dovuto delegittimare alcuni sostituti procuratori in servizio a Potenza: Henry John Woodcock, Vincenzo Montemurro, Anna Gloria Piccininni e Laura Triassi.
Perché? Curavano alcune indagini, sostengono il procuratore aggiunto di Catanzaro Giuseppe Borrelli e il sostituto Simona Rossi, che davano fastidio agli ambienti politici.
Nel caso di Woodcock fu preparato un esposto anonimo firmato con lo pseudonimo «Sicofante» e consegnato all’ispettore della polizia di Stato Leonardo Campagna che lo spedì - secondo gli investigatori - su ordine dell’ex 007 del Sisde. L’esposto - secondo la Procura - conteneva calunnie (per i giudici del Tribunale del Riesame di Catanzaro erano notizie diffamatorie) nei confronti del magistrato anglonapoletano e del suo braccio destro, l’ispettore della polizia di Stato Pasquale Di Tolla. I due erano accusati di aver passato atti dell’inchiesta «Totalgate» al principale indagato e di intrattenere rapporti telefonici con alcuni giornalisti. Ma Bonomi e Modestino Roca, l’altro sostituto procuratore generale indagato, avrebbero «agito» anche con i «poteri ispettivi» che la Procura generale può esercitare nei confronti della Procura della Repubblica.
«Un’intimidazione», secondo gli investigatori di Catanzaro. Perché da quel momento i pm Woodcock, Montemurro, Triassi e Piccininni, hanno lavorato sotto la costante minaccia di «sanzioni».
Le notizie contenute nell’esposto anonimo, ma anche altre «riservate» che circolavano negli uffici investigativi venivano rese pubbliche al fine di rendere vane le indagini. Per la rivelazione di notizie che dovevano rimanere segrete sono indagati i carabinieri Consolato Roma e Antonio Cristiano (ex militari in servizio all’aliquota di polizia giudiziaria, poi trasferiti). E un maresciallo della Guardia di finanza, Angelo Morello. Secondo i magistrati di Catanzaro sono stati loro a fornire le informazioni (contenute in indagini di cui si stavano occupando) all’ex agente segreto. Altre notizie venivano reperite, secondo l’accusa, dal vicequestore aggiunto Luisa Fasano (all’epoca capo della Squadra mobile di Potenza) e dal colonnello Pietro Gentili (ex comandante dell’aliquota di Pg dei carabinieri di Potenza, poi responsabile della sicurezza di un villaggio turistico del Metapontino) e fornite direttamente a Bonomi e Roca.
Ma chi ha promesso a Bonomi un posto all’ispettorato del ministero? E chi disse a Cervone che sarebbe entrato al Copasir? Al centro del complotto pare ci sia un politico lucano. Gli investigatori l’hanno intercettato mentre parlava con Cervone e ritengono di aver accertato che avesse relazioni anche con Bonomi. È stato lui a promettere quelle importanti postazioni in cambio della delegittimazione dei magistrati scomodi? È quello che gli investigatori stanno cercando di accertare.
Su “Libero news” la risposta piccata di Bonomi. A Luigi De Magistris gliene hanno dette di tutti i colori, soprattutto durante la sua prima vita, quella di magistrato. Ma «viscido ectoplasma» è uno di quegli epiteti che difficilmente si dimenticano. Specie se a pronunciarlo è un altro magistrato, uno di peso, come il sostituto procuratore generale di Potenza Gaetano Bonomi. È lui l’uomo al centro dell’inchiesta Toghe Lucane bis, che avrebbe ordito - secondo la procura di Catanzaro - un complotto per screditare il pm Henry John Woodcock, organizzandosi addirittura in un’associazione segreta con altre toghe, con funzionari di polizia e servizi segreti deviati. Insomma, una riedizione (per quel che ne è dato di capire sinora) della vecchia indagine di De Magistris, l’unica che ha concluso ma non l’unica ad esser annegata nel nulla.
L’ex pm, more solito, ha visto in questa nuova inchiesta la prosecuzione del suo lavoro, parlandone pubblicamente e attaccando i suoi vecchi indagati. Chi non conosce la Toghe Lucane originale, immagina che si tratti di chissà cosa: naufragò platealmente per ragioni intrinseche all’indagine stessa, non certo per i cosiddetti «influssi esterni» per bloccare De Magistris. Ora Bonomi, in una esilarante lettera inviata al Quotidiano della Basilicata, ridicolizza sia De Magistris, sia Woodcock che l’intera indagine fotocopia partorita nelle stanze del procuratore aggiunto calabrese Borrelli. Con sprezzante ironia, affibbia alla loggia da lui creata, secondo le accuse, il nome di «PP», laddove si intenda «Propaganda Potenza». Ma è quando arriva il turno dell’ex pm che il piatto si fa forte: «Mi aspettavo da sempre che viscidi ectoplasmi di un recente passato pur raggiunti, a vario titolo, da sanzioni documentate e motivate, che oggi qualcuno tenta goffamente di far apparire come conseguenze di complotti, tentassero di rialzare la testa per riacquistare una dignità fondatamente perduta in modo irreversibile, ma sono certo che anche stavolta i loro convulsi ed agitati spasmi di avvoltoi non conseguiranno alcun risultato favorevole».
Qui c’è da giurare che finirà a carte bollate. Aspetto che non sembra preoccupare il sostituto procuratore generale di Potenza, tant’è che nella lettera al quotidiano ne ha per tutti, a partire proprio dal pm anglo-napoletano e dalla sua amica Federica Sciarelli. Eccone un passaggio significativo: «Non ho come parenti soggetti nobili (conti, principi etc), o eventualmente appartenenti alle alte gerarchie della chiesa (cardinali, vescovi) e tantomeno ho amici, più o meno intimi, nel clero locale o nella "intellighentia" lucana, disposti a cantare le mie lodi. Sono solo un magistrato che ha sempre operato e tutt’ora opera in silenzio, senza simpatie per il clamore mediatico, che, in quanto tale, non dispone di molti supporters neanche tra i giornalisti, tra i quali purtroppo non figura nessuna mia amica e nessun amico».
INSABBIAMENTI E CENSURA A POTENZA.
Ecco la Basilicata dei veleni e silenzi. Un libro dossier la cui recensione è stata fatta sul “La Gazzetta del mezzogiorno” del 6 agosto 2011.
Anni di denunce. E di silenzi imbarazzanti. Anni di proteste, di viaggi, di ricerche per portare alla luce una Basilicata nascosta, o meglio, che qualcuno vorrebbe tenere nascosta, celata dalla «copertina» patinata di una regione dall’aria buona, dall’acqua pulita, dall’atmosfera bucolica. Maurizio Bolognetti ha condensato in un libro-dossier tutto il suo lavoro d’indagine, corredato da articoli di stampa, su contraddizioni, verità nascoste e «veleni» che si annidano nel territorio lucano. Il titolo del volume è chiarificatore: «La peste italiana. Il caso Basilicata - Dossier sui veleni industriali e politici che stanno uccidendo la Lucania».
Il messaggio di fondo: siamo di fronte a uno status quo che ha l’imprimatur della politica, di quella che comanda, dirige, sentenzia. «Una regione con 131 comuni e nemmeno seicentomila abitanti, ricca di acqua, di gas, ora anche di petrolio, con le montagne innevate e il mare caldo, le campagne generose di grano, viti, ulivi e colture pregiate - scrive il giornalista Carlo Vulpio nella prefazione - è un luogo perfetto dove creare un feudo, in cui pochi signorotti comandano e tutti gli altri ubbidiscono, subiscono, o nel migliore dei casi si adeguano. Proprio quello che è accaduto in Basilicata».
LE «SPINE» - Il quadro generale che emerge dal lavoro di Bolognetti è devastante, crudo, non «addomesticato», senza edulcoranti: discariche al collasso, discariche che rilasciano nel terreno il percolato, l’inceneritore Fenice che ha inquinato la falda acquifera del fiume Ofanto, controlli ambientali carenti e dati nascosti di monitoraggi, sorgenti inquinate e siti di bonifica di interesse nazionale (Tito scalo e Ferrandina) non bonificati. E ancora: inchieste su reati ambientali che vanno in prescrizione o che scompaiono tra i faldoni in qualche Procura, società che agiscono in autocontrollo. Sullo sfondo di questo campionario di accuse l’inquietante aumento di malattie tumorali in Basilicata.
IMMONDIZIA - Occhi puntati sul ciclo di rifiuti solidi urbani. «Mentre si continua a viaggiare sul binario discariche/ inceneritori e la raccolta differenziata langue - scrive Bolognetti nel suo libro - i costi di smaltimento dei rifiuti sono passati da 103 a 170 euro a tonnellata. Chi, dunque, fa affari con la monnezzopoli lucana? Chi ne trae profitto? Perché una regione come la Basilicata, scarsamente popolata, non è riuscita in tanti anni a innescare un ciclo dei rifiuti virtuoso? Chi guadagna con la costruzione e la gestione dele discariche, con gli inceneritori e il trasporto della monnezza e con inceneritori camuffati da centrali a biomassa? ».
ACQUE - La recente denuncia di Goletta Verde sull’inquinamento a Nova Siri, in località Torre Bollita, del Canale dove sfocia il depuratore, e della foce del fiume Basento, a Bernalda, conferma che il sistema di depurazione in Basilicata è inadeguato. Un fatto storico. Acclarato. Bolognetti avrebbe senz’altro inserito questa vicenda nel suo libro, finito di stampare a giugno scorso. Così come avrebbe evidenziato la smentita, da copione, di Acquedotto Lucano che parla di valori inquinanti sotto la soglia d’allarme. È una storia che si ripete e che si inserisce nel contesto di quello che Bolognetti definisce «la politica del tutt’a posto» in cui l’assessore, il dirigente o il presidente di turno gli appioppa l’etichetta del mistificatore, del mitomane. Lo dissero quando Bolognetti denunciò l’inquinamento degli invasi lucani, sottolineando i dati di analisi effettuate da una ditta privata alla Camastra. Quella «rivelazione» ispirò un’inchiesta giudiziaria. Ma non quella che Bolognetti si augurava: fu lui stesso oggetto di una perquisizione (gli inquirenti cercarono le «carte» che avrebbero ispirato la sua denuncia) finendo iscritto nel registro degli indagati in compagnia del suo «complice», Giuseppe Di Bello, tenente della Polizia provinciale di Potenza, sospeso dal servizio. L’accusa: rivelazione del segreto d’ufficio. Chi è il criminale? Chi denuncia casi di devastazione ambientale o chi inquina?
LE COPERTURE - Interrogativo che alimenta la teoria «vulpiana » del feudo in cui tutto deve restare com’è. Compreso i veleni. Compreso i silenzi che ignorano la «Convenzione di Aarhus», applicata ovunque in Europa, che impone la trasparenza e la massima divulgazione di atti, dati e documenti su questioni ambientali. I cittadini, insomma, hanno il diritto di essere informati. Ma l’esperienza fatta sul campo da Bolognetti (i casi Fenice e Pertusillo, i siti inquinati di Tito e Val Basento, l’estrazione di petrolio in Val d’Agri) testimoniano che non è così. «La Basilicata - scrive Bolognetti - viene presentata sui depliant turistici come un Paradiso naturale. In realtà è deturpata e sventrata da crimini contro il territorio e l’ambiente di ogni tipo. Sullo sfondo, un quadro terrificante di connivenza tra chi commette i crimini e chi dovrebbe sorvegliare».
Per gli insabbiamenti giudiziari e la censura a Potenza sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 9 gennaio 2011 è uscito un editoriale del direttore Carlo Bollino.
"Dopo che per mesi il mondo dell’informazione aveva protestato, urlato e manifestato contro i rischi della legge bavaglio, riuscendo infine nell’intento di congelare in parlamento la bozza liberticida, scopriamo che la libertà di stampa rimane a rischio anche senza quella legge. Basta toccare i poteri forti o anche meno: perché se scrivi e lavori in Basilicata basta sfiorare la storia di Danilo Restivo per cacciarti nei guai. Questo giovanotto, a dispetto del numero di omicidi dei quali è accusato o anche solo sospettato, continua evidentemente a godere di ampie tutele se è stato sufficiente scandagliare un po’ nei retroscena della sua personalità deviata, per mobilitare procura di Salerno e squadra mobile e far finire sotto inchiesta il giornalista che ha osato scrivere di lui. È come se contro il desiderio collettivo di giustizia continuasse a infrangersi l’onda lunga dell’immunità che al di là di ogni ragionevole decenza ha consentito a Danilo Restivo di farla franca dal 1993 al 2010, quando finalmente l’evidenza degli indizi a suo carico (alcuni risalenti addirittura a tredici anni prima) si è trasformata in un mandato di arresto internazionale. Ecco, il nostro collega Fabio Amendolara, travolto da un impeto investigativo che in 17 anni non si era mai visto manifestarsi con altrettanta urgenza contro gli assassini di Elisa Claps, si era limitato a scrivere questo: a ricostruire, dettaglio dopo dettaglio, tutte le prove raccolte dal 1993 ad oggi nei confronti del giovane rampollo lucano. E con la logica trasparente che deve sempre ispirare il lavoro di un cronista, a chiedersi in un breve editoriale pubblicato ieri in edizione di Basilicata «cos’altro servisse per arrestare prima Danilo Restivo». Tutte le prove erano raccolte in un’informativa redatta dalla squadra mobile di Potenza nel 2008, ma che la procura di Salerno aveva ritenuto insufficienti ad incriminare Restivo, chiedendone così l’archiviazione. Salvo poi ripescare lo stesso documento due anni dopo, in seguito al ritrovamento del corpo di Elisa nel sottotetto della chiesa di Potenza, e in base a quelle stesse prove chiedere e ottenere l’arresto. Strano oltre che imbarazzante. La procura di Salerno ha così ordinato alla polizia di Potenza di rintracciare Fabio Amendolara che è stato raggiunto dagli agenti mentre come ogni giorno faceva i suoi giri in città a caccia di notizie, e insieme con lui hanno perquisito giornale, casa e auto, sequestrandogli le carte sulle quali lavorava, incluso l’intero archivio sul caso Claps, e accompagnandolo infine in questura dove per altre 4 ore lo hanno sottoposto ad interrogatorio. Senza che nel frattempo gli fosse concessa la possibilità (anzi: il diritto) di mettersi in contatto con i suoi colleghi, né con la sua giovane moglie. Ora, che un giornalista possa finire nel mirino della giustizia per una qualunque rivelazione di segreto istruttorio ci sta pure: diciamo che è un infortunio del mestiere, per nulla imbarazzante giacchè semmai è la prova-provata che stava scrivendo la verità. Ma è sul metodo che dissentiamo. Su questa sproporzionata esibizione di forza che in 17 anni – e ricordarlo oggi appare grottesco – non è mai stata usata nei confronti del presunto assassino. Al quale, tanto per dire, rientrato a casa dal suo ultimo incontro con Elisa della quale si erano appena perse le tracce, procura e polizia dell’epoca consentirono di far sparire la giacca forse macchiata proprio dal sangue della ragazzina. Ed era solo l’inizio di una imbarazzante inchiesta che infatti non approdò a nulla. Ecco, è paradossale che una vicenda giudiziaria condizionata per 17 anni da depistaggi e omertà nella quale anche il silenzio dell’informazione ha avuto un pesante ruolo colpevole, debba giungere al suo epilogo con l’incriminazione di chi invece sta tentando di contribuire alla chiarezza, e se non è sospetto è certamente inopportuno che tanto accanimento nei confronti di un giornalista si sia manifestato adesso, e proprio intorno a questo caso. Sulla tragica fine di Elisa Claps e sulle lacunose indagini che ne sono seguite sembrava finalmente strappato il bavaglio, ed è per questo che suscita stupore e indignazione scoprire che oggi qualcuno ritrovi invece il coraggio di impugnarlo. Con il corpo della disgraziata 16enne di Potenza che attende tuttora di essere sepolto. E mentre chi indaga deve ancora dar prova di saperle restituire, fino in fondo, la Giustizia che merita."
Omicidio Claps. Gildo scrive ad Elisa: «Mia cara sorellina...»
«Stai tranquilla, i tuoi cari non mollano, non temono la verità e se ne fregano di quanti imbarazzi possano ancora creare, la vergogna è solo la loro, noi siamo gente perbene»: lo ha scritto Gildo Claps il 9 aprile 2010 in una lettera alla sorella, Elisa, scomparsa il 12 settembre 1993, quando aveva 16 anni, il cui cadavere è stato trovato il 17 marzo 2010 nel sottotetto della canonica della chiesa della Santissima Trinità, a Potenza.
La lettera, affidata da Gildo Claps all’ANSA e riportata da tutta la stampa, comincia con un commovente «mia cara sorellina» e prosegue con un tono delicato: «Stavolta un rimprovero devo proprio fartelo...», ha aggiunto il fratello di Elisa, chiedendole «come ti è venuto in mente di farti ammazzare proprio in chiesa, e in quella chiesa per giunta». Subito dopo, però, la lettera assume un tono ironico e polemico, se non di aperta accusa, nei confronti di chi indagò sulla scomparsa di Elisa: «Pensa – scrive Gildo – a quel povero magistrato e ai poliziotti che hanno indagato, pensa poverini a quante cose dovranno spiegare». Non mancano riferimenti a Danilo Restivo, unico indagato nell’inchiesta, al padre, «un notabile amico di notabili», al questore che a Natale del 1993 «mise alla porta» la madre di Elisa («Tornò a casa piangendo, persa nel suo dolore dove spesso nemmeno noi riuscivamo a raggiungerla»), ai depistaggi: «E infine, ripeto, far ritrovare i tuoi miseri resti in una chiesa, questo proprio dovevi evitarlo», ha scritto Gildo alla sorella, facendo considerazioni critiche sul vescovo e sui sacerdoti della Santissima Trinità sul ritrovamento ufficiale del cadavere e sul fatto che, invece, era già stato trovato quasi due mesi prima.
IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA
«Mia cara sorellina, stavolta un rimprovero devo proprio fartelo: ma come ti è venuto in mente di farti ammazzare proprio in chiesa, e in quella chiesa per giunta; e come se non bastasse te ne sei stata lì per 17 anni invece di prendere le tue poche cose e allontanarti con garbo ed in silenzio fino farti inghiottire per sempre dalle nebbie del tempo. Ti rendi conto che così facendo hai messo in imbarazzo tutti? Capisco che ti hanno toccato il cuore le lacrime di mamma e di papà, posso comprendere che hai voluto dare a me e Luciano (altro fratello) un segno tangibile che questi anni non sono trascorsi invano, ma potevi farlo in modo diverso e soprattutto evitando di mettere tante persone che contano nelle condizioni di dover spiegare i loro comportamenti davanti ad un paese intero.
Pensa adesso a quel povero magistrato e ai poliziotti che hanno indagato, pensa poverini a quante cose dovranno spiegare; come faranno a far capire alla gente che non sono mai entrati in quella chiesa a cercarti se non dopo tanti anni e peraltro senza trovarti. Hai messo in difficoltà anche noi che dobbiamo chiarire come mai a poche ore dalla tua scomparsa, ci precipitammo in chiesa ma non riuscimmo a salire fin sopra perchè le chiavi di quella porta le aveva solo il parroco che in quel momento non era presente.
Capisci, adesso dovremo spiegare come mai due ragazzi e pochi amici avevano avuto l'intuizione di andare a guardare lì, e investigatori di provata esperienza se ne sono semplicemente dimenticati. E poi sorellina mia, dovevi incontrarti proprio con Danilo (Restivo, indagato per la morte di Elisa) quel giorno? Hai messo di nuovo in difficoltà quel bravo magistrato e ancora una volta noi stessi. Ti rendi conto che abbiamo dovuto scavare nel passato di quel povero ragazzo, far venir fuori tutta una serie di episodi spiacevoli che lo riguardavano? Ci hai costretto ad accusarlo fin dal primo giorno, ma con l’intuizione dei grandi investigatori ci diedero dei pazzi, NOI. E poi era pur sempre il figlio del direttore della Biblioteca Nazionale, un notabile amico di notabili, dico io, non potevi incontrarti con il figlio di un operaio in cassa integrazione? Sarebbe stato tutto più semplice.
Ti rendi conto sorellina – prosegue la lettera di Gildo Claps alla sorella – che ora dovranno spiegare il motivo per cui non andarono ad interrogarlo quel giorno stesso, non sequestrarono i suoi vestiti, non acquisirono i tabulati telefonici? Quale imbarazzo per persone che negli anni hanno continuato a fare il loro 'dovere' mentre noi ci si consumava piano nel vuoto della tua assenza.
E ricordi quando mamma fu messa alla porta dal questore poco prima di quel Natale del 1993, il primo senza di te, ricordi le sue parole esatte: 'signora basta, non può venire ogni giorno qui con i suoi figli a disturbare, sua figlia è scappata di casa, lo vuole capire o no?' Tornò a casa piangendo, persa nel suo dolore dove spesso nemmeno noi riuscivamo a raggiungerla. E quando gli avvocati di uno degli indagati, attingendo a fonti confidenziali, ci dissero che eri in Albania? Noi pensammo subito ad un ennesimo depistaggio, ma da lassù sono certo che avrai visto per un attimo una scintilla negli occhi di mamma, era il riflesso sepolto della segreta speranza di saperti ancora in vita.
Pensa adesso se a qualcuno venisse in mente di andare a chiedere loro quali erano queste fonti confidenziali, capisci sorellina quale imbarazzo sarebbe per due stimati professionisti dover dare spiegazioni su questa vicenda? E infine, ripeto, far ritrovare i tuoi miseri resti in una chiesa, questo proprio dovevi evitarlo. Il vescovo, il parroco, il vice e giù fino all’ultimo anello della catena sono ora costretti a spiegare come, quando, chi? E già, sarebbe stato tutto così semplice, lineare, se fosse stato vero che un’impresa edile, nell’effettuare lavori di riparazione, avesse casualmente scoperto il tuo corpo. Invece no, tutto complicato in questa maledetta faccenda e ancora una volta tutto così imbarazzante. Forse sono state prima le donne delle pulizie, no scusa, il viceparroco, no lui non ne sapeva niente, era gennaio, no febbraio, sì, ma di quale anno? Il vescovo dice di non sapere, non ammette oggi di aver saputo ma non pensava che fossi tu (come se ciò facesse la differenza), però il giorno dopo il ritrovamento, con il suo avvocato si affretta a rassicurare i fedeli che la chiesa riaprirà presto al culto (era sicuramente questa la cosa che la città sconvolta voleva sapere per prima); il parroco sfida chiunque a dimostrare che lui sapesse, il vice sapeva ma se n'era dimenticato.
Da ultimo proprio ieri ho saputo sorellina, che qualcuno circa un anno fa, nei bagni del Gran Caffè aveva scritto più volte con un pennarello, Elisa Claps è nella Trinità, un altro matto certamente. Sai sorellina, sembra quasi che nessuno volesse trovarti ma che tanti sapessero dov'eri, forse devono aver fatto un pensiero profondamente cristiano, è stata buttata lì per tanti anni, anno più anno meno che cosa cambia? Oggi sorellina rischi di mettere in imbarazzo la parte buona di questa città, quella che non si è mai arresa, quella che si è stretta intorno a te e ha pianto con noi, quella che gridava verità e giustizia, quella che ripudia i compromessi, il quieto vivere, le consorterie e gli intrallazzi, quella che ha il coraggio di chiedere conto a tutti, che siano uomini di chiesa o di potere. Ti lascio, ma solo per il momento, e stai tranquilla, i tuoi cari non mollano, non temono la verità e se ne fregano di quanti imbarazzi possano ancora creare, la vergogna è solo la loro, noi siamo gente perbene».
INSABBIAMENTI: A POTENZA UN MURO DI GOMMA.
Dalla stampa sono pubblicati gli atti processuali divenuti pubblici, da cui si rileva che Luigi De Magistris, ex sostituto Procuratore di Catanzaro e poi europarlamentare dell’IDV, è stato rinviato a giudizio davanti al Tribunale di Salerno.
De Magistris sarebbe imputato per il "delitto p. e p. dall'art. 328 co 1° CP perché, quale sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed assegnatario del procedimento penale n.2552/05/Mod.21 a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO, omettendo di procedere alle indagini ordinate ai sensi dell'art.409 co. 4° CPP dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro in udienza camerale ex art. 409 CPP celebratasi il 16-10-2007 e disposta a seguito della sua richiesta di archiviazione del 12-3-2007, indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio che per ragioni di giustizia doveva essere compiuto senza ritardo e comunque nel termine dei sei mesi fissato dal GIP. In Catanzaro dall'aprile 2008 in poi".
Non si tratterebbe di un'omissione qualunque ma, di un'omissione di indagini che gli erano state ordinate da un GIP su collusione fra magistrati di Lecce e magistrati di Potenza con ipotesi delittuose gravissime che vanno dall'associazione per delinquere, all'estorsione, al favoreggiamento. Le indagini erano state ordinate dal GIP di Catanzaro al P.M. De Magistris a seguito di camera di consiglio disposta in virtù di opposizione alla richiesta di archiviazione.
In quella opposizione si profilavano ipotesi delittuose gravi a carico di alcuni magistrati di Lecce e di Potenza ed era del seguente tenore: "… Al cospetto di notitia criminis di siffatta evidenza, l’ill.mo Giudice dovrebbe imporre, a sommesso parere dell’umile deducente, l’imputazione coatta per i reati di favoreggiamento, di associazione per delinquere o, quanto meno, di omissione di atti d’ufficio. Il deducente non può non chiedere, infine, in alternativa, le investigazioni a tutto campo per stroncare una volta per tutte quella che il deducente ritiene che sia una vera associazione per delinquere fra quei magistrati del Tribunale di Lecce che archiviano tutti i procedimenti penali a carico di……e quei magistrati della Corte di Appello di Potenza che archiviano, senza svolgere dovute ed approfondite indagini, procedimenti penali a carico dei suddetti magistrati che hanno un siffatto comportamento che il deducente ritiene “contra jus”. La legge penale dovrebbe essere uguale per tutti:….e per i magistrati. Se numerosi magistrati della Procura della Repubblica di Lecce hanno questo comportamento, che al deducente sembra criminoso, non vuol dire che i numerosi magistrati della Procura non debbano essere processati se essi non applicano la legge: un’intera Procura non forma un parlamento; un’intera Procura ha l’obbligo della tutela della legge. Sui fatti di sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di procedimenti penali a carico di …e dell’altrettanto sistematica archiviazione dei procedimenti penali a carico di quei magistrati che hanno consentito tali “facili” archiviazioni possono riferire".
Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.
"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."
TOGHE LUCANE. INCHIESTA CHE NON SA DA FARE.
Toghe lucane: spezzatino giudiziario.
Il gup di Catanzaro, Maria Rosaria Di Girolamo, accogliendo la richiesta della Procura, il 18 marzo 2011 ha archiviato la posizione di 30 persone indagate nell’ambito dell’inchiesta Toghe Lucane su un presunto comitato d’affari che avrebbe agito in Basilicata con la complicità di politici, magistrati, professionisti, imprenditori e rappresentanti delle forze dell’ordine. «Tutti gli elementi evidenziati consentono quindi di ritenere l’impianto accusatorio lacunoso e di affermare l’insussistenza della fattispecie penale ipotizzata». È quanto scrive il gup di Catanzaro, Maria Rosaria di Girolamo, nell’ordinanza di archiviazione di Toghe lucane, in relazione all’accusa di associazione a delinquere finalizzata ad una serie di reati fine ipotizzata nei confronti di 16 indagati, tra i quali magistrati, politici e appartenenti alle forze dell’ordine. Gli elementi, scrive il gup, «non consentono di sostenere adeguatamente, nei confronti di tutti gli indagati, una fattispecie associativa quale quella ipotizzata, essendo del tutto carente la prova in ordine all’esistenza di un sodalizio».«Non basta – scrive tra l’altro il gup – la prova in ordine all’esistenza di rapporti di amicizia o di frequentazione, nell’adozione di comportamenti che riflettono, al massimo, una posizione di adesione alle diverse ed opposte posizioni ed orientamenti che, durante la gestione delle attività giudiziarie, si erano venuti a creare, determinando una contrapposizione tra coloro che operavano all’interno del palazzo di giustizia». Tra gli indagati la cui posizione è stata archiviata ci sono alcuni magistrati lucani; il presidente della Regione Basilicata, Vito De Filippo; l’ex sottosegretario del governo Prodi e ora senatore del Pd, Filippo Bubbico, ed alcuni ufficiali dei carabinieri.
Ma su questa archiviazione cala un ombra. Ecco il titolo della Gazzetta del Mezzogiorno : Inchiesta toghe lucane Agente Sisde a indagato «Sarà tutto archiviato».
«Dino, a me hanno detto che lì archiviano, se non hanno già archiviato, è chiaro! Se non hanno già archiviato! Io in questo periodo non è che me ne sono stato con le mani in mano, chiaro?». A dirlo è stato l’ex agente del Sisde Nicola Cervone, arrestato il 30 2010 dalla squadra mobile di Potenza su disposizione del gip di Catanzaro nell’ambito dell’inchiesta Toghe Lucane-bis su una presunta calunnia ai danni dell’ex pm di Potenza Henry John Woodcock, attualmente in servizio alla Procura di Napoli. Cervone è stato poi scarcerato dal Tribunale del riesame di Catanzaro. Cervone parla con Leonardo Campagna, agente di polizia in servizio nel commissariato di Cerignola (Foggia), indagato nella stessa inchiesta della Procura catanzarese, che registra la conversazione dopo essere stato chiamato per essere sentito. Campagna ha ammesso di avere spedito alcune lettere anonime a giornali e uffici giudiziari per delegittimare Woodcock. Lettere, ha riferito, che gli furono date da Cervone, al quale era legato da rapporti di amicizia, e di cui lui – ha detto - non conosceva il contenuto. La registrazione, che non è recente, è contenuta nelle motivazioni con cui il tribunale del riesame ha scarcerato Cervone, che sono state depositate nelle scorse settimane (e di cui si è avuta notizia solo ora) sostenendo che il reato ipotizzato nei suoi confronti, la calunnia, non è configurabile, mentre si tratterebbe di diffamazione. Con quella frase Cervone risponde all’affermazione di Campagna che gli dice: «Mi hai detto che il problema me l'avrebbero risolto con quelli lì, mi avrebbero archiviato, intanto la comunicazione al ministero è arrivata, se avessero archiviato tutto, io non sarei stato chiamato dal Questore e trattato di me..., come un delinquente». Interrogato dalla squadra mobile di Potenza, che conduce le indagini, Campagna ha raccontato che Cervone, durante un altro colloquio gli disse: «non preoccuparti perchè la tua situazione verrà archiviata, ci sarà un’intercessione tra i vertici delle due Procure. Tra le Procure di Potenza e di Catanzaro». Campagna ha anche raccontato che, in merito alle lettere, Cervone gli disse che «siccome stanno succedendo problemi all’interno della Procura di Potenza, ci sono dei miei amici magistrati che avevano bisogno, dovevano far sì che queste cose venissero fuori, bisognava indagare su quest’attività». Le lettere furono spedite nel febbraio 2009, un periodo in cui, a Potenza, erano in corso forti contrasti tra magistrati dell’ufficio di Procura. L'inchiesta a carico di Cervone è una delle due inchieste che sono ancora aperte a Catanzaro dopo che il gup ha archiviato l’inchiesta Toghe Lucane a carico di trenta persone tra magistrati, politici e appartenenti alle forze dell’ordine. L'altra inchiesta tutt'ora aperta riguarda due magistrati della Procura generale di Potenza, Gaetano Bonomi e Modestino Roca, un autista dello stesso ufficio giudiziario ed un imprenditore.
Ma i dubbi e le ombre non mancano. Omicidio Claps. Perito: quella maglia ignorata da Pascali. Su La Gazzetta del Mezzogiorno. Una «diabolica» coincidenza di negligenze o i tasselli di un complotto? Tutto è cominciato con il mancato sequestro degli abiti sporchi di sangue di Danilo Restivo; si è proseguito lasciandosi deviare da depistaggi (tutt’altro che innocenti), fino al giallo del ritrovamento del cadavere, scoperto ufficialmente il 17 marzo del 2010, tra visioni di un «ucraino» (così inteso, in verità il prete brasiliano al suo superiore parlava di cranio ndr) nel sottotetto e ricostruzioni contraddittorie delle donne delle pulizie. L’ultima puntata del caso Claps: la scoperta dei Ris del Dna riconducibile a Restivo sulla maglia indossata da Elisa svela l’ennesimo «buco nero» dell’inchiesta. Perché il prof. Vincenzo Pascali, autore della prima perizia, ha ignorato la maglia tra i reperti da esaminare? Chiunque, anche chi non mastica «medicina legale», avrebbe preso in considerazione quell’indumento per cercare tracce biologiche. Il lavoro del genetista dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, lo ricordiamo, aveva riscontrato profili genetici isolati che non corrispondevano col Dna di Restivo, consegnando alla Procura di Salerno un dossier «impalpabile» ai fini delle indagini. La magistratura campana ha avuto il merito di non accontentarsi di quei risultati, sfiduciando, di fatto, Pascali e affidando ai Ris il compito di una nuova perizia. Ma se oggi, con la scoperta del Dna riconducibile a Restivo, si è arrivati ad una svolta dell’inchiesta lo si deve soprattutto a Patrizia Stefanoni, dirigente della sezione di genetica forense del servizio di Polizia scientifica e consulente del pubblico ministero. È lei che ha evidenziato le carenze della perizia di Pascali.
Un ex agente del Sisde, il vecchio servizio segreto civile, si occupò dell’omicidio di Elisa Claps, commesso a Potenza il 12 settembre del 1993. E firmò un dossier che nel 1997 svelava la verità sul delitto. «La ragazza era stata uccisa dalla persona verso cui venivano condotte le indagini». Questo era più o meno il contenuto di quel documento investigativo. La «Gazzetta del Mezzogiorno» - che all’epoca (il 31 ottobre del 1997) pubblicò in esclusiva alcune indiscrezioni contenute nel dossier del Sisde - è riuscita a rintracciare l’ex agente segreto in una località che, per ragioni di sicurezza, verrà omessa. L’ex «barba finta» ora svela: «Un prete sapeva dell’omicidio». Lo definisce «un personaggio a latere » dell’inchiesta. Uno che non aveva preso parte al delitto ma che, probabilmente, «sapeva». Un «prete». Giacca di pelle e lunghi baffi bianchi, l’ex agente segreto ha l’aria di uno di quei detective da serial tv americano (all’incontro era presente un inviato del Tg5). Seppure senza mai scriverne il nome, gli 007 nel 1997 puntarono il dito contro Danilo Restivo (in quel momento indagato per il reato di «false informazioni rese al Pubblico ministero»), condannato recentemente all’ergastolo in Inghilterra per il delitto della sarta Heather Barnett e da sempre il sospettato numero uno per l’omicidio Claps. Ma nel trovare conferme gli agenti del Sisde appresero anche altro. Da altri informatori e molto probabilmente all’interno della Chiesa.
Perché i servizi segreti si sono occupati della scomparsa di una ragazza? E con quali risultati? «Il succo dell’informativa è che la scomparsa della ragazza era dovuta al fatto che la Claps era stata uccisa a Potenza. E che il presunto autore era la persona sempre considerata tale. L’informativa diceva che Elisa era stata uccisa il giorno stesso della scomparsa, il 12 settembre del 1993. Ce ne occupammo perché avevamo un informatore e per dare degli input agli investigatori».
E all’epoca c’era già un’altra ipotesi: qualcuno sapeva che il delitto era avvenuto in chiesa. «Noi parlammo di un personaggio a latere. Una persona che doveva sapere dell’uccisione».
Un personaggio a latere? «Ma sì, diciamo che era un prete».
Il vecchio parroco della chiesa della Trinità (luogo del delitto, in cui 17 anni dopo la scomparsa sono stati trovati i resti di Elisa) don Mimì Sabia? «Questo non lo so».
Il suo nome comunque non era nell’informativa? «No, non c’era».
C’era qualche altro nome? «Di solito quelle note informative non contengono nomi».
In quel dossier c’era comunque quanto bastava per risolvere il mistero di Elisa e per attirare l’attenzione sulla chiesa della Trinità. Quell’informativa, però, non arrivò mai agli investigatori dell’epoca. Ed Elisa è stata ritrovata ufficialmente solo il 17 marzo del 2010. Ben 17 anni dopo il giorno dell’omicidio.
E sempre dalla Gazzetta del Mezzogiorno. «Se il rapporto sul caso Claps è stato scritto non può essere sparito». Nicheo Cervone è l’ex agente del Sisde che entrò in contatto con Gildo Claps, fratello di Elisa, qualche anno dopo la scomparsa. Dice di non aver mai lavorato al caso Claps per il vecchio servizio segreto civile ma di aver parlato con Gildo solo «per amicizia». E sostiene che il suo ex collega - che ha svelato in esclusiva alla Gazzetta e al Tg5 l’esistenza di un’informativa che nel 1997 dava indicazioni precise sul delitto (la Gazzetta ne anticipò in esclusiva alcuni contenuti) - è l’unico a poter ricostruire i contenuti di quel dossier. «Che comunque non può essere scomparso».
Agente Nicheo, lei si è mai occupato dell’omicidio Claps?
«Voglio precisare che Nicheo è il nome con cui mi chiamano parenti e amici, non quello di copertura. E non mi sono mai occupato del caso Claps».
Il delitto più intricato commesso a Potenza non l’appassionava?
«I servizi segreti di solito non si occupano di queste cose».
Lei, però, a Gildo alcune domande sulla scomparsa della sorella le ha fatte.
«Ho conosciuto Gildo in modo casuale e diventammo amici. Mi dispiace che pensi che io possa aver tradito la sua amicizia».
Glielo presentò qualcuno?
«Ricordo che fu un maresciallo dei carabinieri in servizio al Reparto operativo di Potenza».
Fu il maresciallo Vincenzo Anobile (l’unico, tra i carabinieri, che si occupò del caso Claps)?
«Francamente non ricordo se fu lui oppure un altro maresciallo che conoscevo».
E s’informò sul caso Claps?
«Gli chiesi della scomparsa della sorella e, aggiungo, non avrei perso occasione per avere anche una sola notizia sul caso Claps. E questo per l’amicizia che mi lega a lui. Purtroppo non è così. Non me ne occupai. Per il Sisde seguivo esclusivamente faccende di criminalità organizzata».
Però fu lei a dire a Gildo che quel dossier non esisteva.
«Quando uscirono le notizie sul giornale mi chiamò perché voleva incontrarmi. Lo invitai a casa dei miei genitori e lì gli dissi la verità, ovvero che per quanto ne sapevo io non c’era nessun dossier».
Quindi dell’informativa del 1997, mi pare di capire, non sa nulla?
«Io sono stato a Potenza fino al 1996, poi ho lavorato in Puglia. Con l’ufficio di Potenza in quegli anni non ho avuto contatti».
E prima del 1997 nessuno le ha mai chiesto di occuparsi del caso?
«Anche prima del 1997 mi occupavo di criminalità organizzata».
E di quel dossier non ha mai neanche sentito parlare?
«Ripeto: per quanto ne so non c’è nessun dossier».
A noi risulta il contrario.
«Se hanno scritto un rapporto quando io non c’ero non posso saperlo. Dalle foto che ho visto sulla Gazzetta mi sembra di riconoscere la persona che è stata intervistata. Non ne faccio il nome per non incorrere in una rivelazione del segreto di Stato. Per la posizione che ricopriva all’epoca nel Sisde, la persona fotografata è l’unica a sapere se era stato fatto un rapporto. Mi sembra strano, conoscendo i meccanismi del Sisde, che sia sparito».
Allora cosa è accaduto?
«Cosa è accaduto non lo so. Ma posso dire che se per uno strano caso informatico il rapporto fosse sparito, il suo contenuto non sarebbe difficile da ricostruire».
L’impressione è che qualcuno abbia voluto che non arrivasse in Procura.
«Io so solo che la persona che riconosco in foto è la stessa che dopo gli articoli della Gazzetta andò in Procura per dire che non c’era nessun rapporto dei servizi segreti. Oggi la cosa più importante sarebbe sapere chi è o chi sono gli informatori alla base di quella nota informativa. Solo così si potrebbe arrivare a capire se ci fu una reale o una eventuale volontà di depistaggio».
Qualcuno sapeva la verità su Elisa Claps, in Questura a Potenza, molto prima della terribile scoperta nel sottotetto della chiesa della città?
Così sembrerebbe, da quanto emerso da una rivelazione fatta dalla mamma di una poliziotta appunto di Potenza, morta nel 2001 in circostanze mai chiarite secondo i familiari. Proprio questo disse infatti la donna, Anna Esposito, all'epoca commissario di polizia nel capoluogo della Basilicata, poco prima di morire, parlando con sua madre, come è stato raccontato in tv alla trasmissione di Rai3 "Chi l'ha visto?".
Anna Esposito avrebbe detto che qualcuno in Questura sapeva la verità su quella ragazzina scomparsa. Le avrebbe confidato che qualcuno già sapeva che Elisa era stata uccisa e sapeva anche dove si trovava il corpo. Solo adesso però quel racconto di Anna è stato rivelato dalla mamma a Gildo Claps, fratello di Elisa, che lo ha raccontato a Rai3.
Anna Esposito morì poco dopo aver fatto questa confidenza scottante alla mamma, nel 2001. Sembrò un suicidio, ma il papà della donna, Vincenzo, è convinto che non fu Anna a togliersi la vita. Si trattò di mobbing? Un procedimento giudiziario dice che Anna aveva confidato a don Pierluigi Vignola, cappellano della Questura, di aver tentato il suicidio in passato. Perché don Pierluigi non lo disse a nessuno?, si chiede il papà di Anna, che ha incontrato più volte quel prete subito dopo la morte della figlia.
Sarebbe stato proprio don Vignola a raccontare a papà Vincenzo di atteggiamenti strani da parte dei colleghi nei confronti della commissaria, di lettere anonime, di pagine strappate dalle sue agende. E, sempre stando alle parole di Vincenzo Esposito, lo stesso prete avrebbe consigliato al padre della commissaria di mandare un esposto anonimo alla magistratura per denunciare i colleghi di Anna. A che scopo? Un nuovo tassello che si aggiunge alla già intricata vicenda di Elisa Claps, che si fa sempre più complessa.
Anna Esposito era un commissario della polizia di Stato. Lavorava a Potenza e coordinava l’ufficio della Digos. È morta in circostanze misteriose il 12 marzo del 2001. «Fu suicidio», secondo la Procura. Ma suo padre Vincenzo, da sempre, sostiene che sia stata uccisa. E ora che sono emersi sinistri collegamenti con il caso di Elisa Claps - la ragazza scomparsa il 12 settembre del 1993 a Potenza e uccisa, secondo i magistrati della Procura di Salerno, da Danilo Restivo, condannato a 30 anni di carcere per il delitto - vuole vederci chiaro. La sua ex moglie, la mamma di Anna, inoltre, ricorda che sua figlia le confidò che in Questura a Potenza c’erano poliziotti che conoscevano il luogo in cui era nascosto il corpo di Elisa (i resti della ragazza sono stati trovati il 17 marzo del 2010 nel sottotetto della chiesa della Trinità a Potenza da alcuni operai mandati lì a riparare un’infiltrazione d’acqua. Ma quella, per la famiglia Claps, è stata solo una «messinscena »).
Gildo Claps si è ricordato che qualche giorno prima di morire quella poliziotta lo chiamò chiedendogli un appuntamento. «Non ho fatto in tempo a incontrarla», dice alla Gazzetta del Mezzogiorno. E non immaginava che la triste storia di quella poliziotta potesse incrociarsi con quella di sua sorella. Poi ha saputo che uno dei sacerdoti intercettati dalla Procura di Salerno per l’inchiesta bis sul caso Claps - quella sulle coperture e i depistaggi che, secondo la Procura, avrebbero aiutato l’assassino di Elisa a eludere le indagini per 17 anni - don Pierluigi Vignola, cappellano della polizia di Stato segnalato per sinistri contatti con appartenenti a una società segreta, aveva avuto un strano ruolo anche nel caso del commissario Esposito. E si è insospettito. Don Vignola racconta al magistrato che indagava per «induzione al suicidio» che il commissario Esposito, in confessione, gli aveva detto che qualche settimana prima aveva tentato di uccidersi stringendosi una cintura al collo. Proprio la stessa modalità che avrebbe usato poi per togliersi la vita.
Ma perché don Vignola non avvisò la famiglia (con cui intratteneva anche buoni rapporti di amicizia)? Non le aveva creduto? Ecco cosa annota il magistrato: «Stupisce non poco il fatto che il cappellano, deputato alla cura spirituale del personale della polizia di Stato, non abbia manifestato, se non a un superiore, almeno alla famiglia o a qualche collega o amica della Esposito di starle vicino, di non perderla di vista in quel particolare grave momento di sofferenza».
Il sacerdote, invece, consiglia al padre di Anna di scrivere un esposto anonimo (le indagini, quando don Vignola incontra Vincenzo Esposito, erano ormai chiuse e il caso era stato archiviato come suicidio). È una strana strategia quella suggerita dal sacerdote. Chi avrebbe dovuto accusare il padre della poliziotta? Don Vignola, sentito in Procura, nega. Poi, davanti all’evidenza - e dopo le contestazioni degli investigatori che sospendono l’interrogatorio per permettere al sacerdote di consultarsi con un legale - confessa: «Rettificando quanto da me detto in precedenza - si legge nel verbale che ha firmato in Procura don Vignola – voglio rappresentare che potrei essere stato io stesso a suggerire a Vincenzo Esposito di scrivere una lettera anonima alla Procura contenente richieste che a mio avviso servivano più a confortare il mio interlocutore che a consentire di scoprire nuovi scenari».
Quegli scenari, però, subito dopo li descrive al pm: «C’erano persone (don Vignola fa anche i nomi di alcuni poliziotti) che manovravano in qualche modo la vita di questa ragazza». Era vero? Cosa aveva appreso il cappellano della polizia sul conto di queste persone? Oppure era stata Anna a riferirgli di quei minacciosi messaggi anonimi che spesso trovava sulla sua scrivania in Questura? E quanto hanno influito sulla decisione di farla finita? Sempre che sia andata davvero così. Il papà di Anna è convinto che il caso vada riaperto. E ora anche Gildo Claps sospetta che scavando in questa storia possa uscire qualche altra verità sull’omicidio di sua sorella: «In quanti sapevano che era in quel sottotetto?»”. È quello che dovranno accertare gli investigatori.
E’ una vita apparentemente felice e realizzata quella di Anna Esposito. Una donna forte, determinata e decisa. Anna era capo della Digos di Potenza e aveva due splendide figlie che vivevano con i nonni a Cava de’ Tirreni. Improvvisamente il 12 marzo del 2001 i genitori ricevettero una chiamata che li avvisa che la donna si era suicidata, impiccandosi con una cintura alla maniglia della porta del bagno della sua casa a Potenza. La famiglia però non crede assolutamente a questa versione. Il commissario di polizia intervenuto in casa di Anna aveva subito slegato la donna con “la speranza di trovarla viva”, ha riferito il padre di Anna, che però era morta ben 10 ore prima. Secondo i periti però questo sarebbe un “suicidio anomalo, ma possibile”, contrariamente alla versione di Enzo Esposito (papà di Anna) che sostiene invece che la cinghia della cintura si dovrebbe trovare nella nuca e non all’altezza della mandibola, come invece era successo per Anna. Un altro aspetto su cui è necessario fare chiarezza è il disordine che è stato trovato nella casa dell’ispettore Esposito, come se qualcuno cercasse qualcosa di preciso. Nei mesi precedenti la morte, Anna riceveva costantemente biglietti anonimi di minaccia. Anna potrebbe essere stata indotta al suicidio? C’è inoltre un’altra stranissima coincidenza che lega la vicenda di Anna alla morte di Elisa Claps. La famiglia Esposito era molto amica di Don Vignola, il parroco che forse saprebbe molte cose sull’omicidio di Elisa. Don Vignola avrebbe dichiarato di aver visto segni di una cinghia sul collo di Anna qualche mese prima della sua morte, come se la donna avesse già tentato il suicidio, senza però riuscirci. Il padre di Anna è molto contrariato dal comportamento del parroco che avrebbe notati segni del genere senza manifestare le sue preoccupazioni alla famiglia Esposito o alle amiche di Anna. Don Vignola in un incontro con Enzo Esposito ha suggerito al padre di Anna di scrivere alla Procura una lettera anonima sulla morte della figlia, e si propone pure per aiutarlo. La mamma di Anna ha nei giorni scorsi contattato Gildo Claps, il fratello di Elisa, raccontandogli le confidenze fatte dalla figlia qualche giorno prima di morire. Anna aveva detto alla mamma che in Questura qualcuno sapeva che fine avesse fatto Elisa Claps, chi l’aveva uccisa e dove si trovava il suo corpo.
Chi ha potuto vederla la descrive come una cintura di cuoio lunga poco meno di un metro. «Quasi nuova». O, comunque, che non «presentava i segni che un nodo, dopo dieci ore di tensione con un peso rilevante, avrebbe dovuto lasciare». Sulle cause del decesso, «asfissia da strozzamento», sembra che non ci siano dubbi. È la dinamica, così come ricostruita all’epoca dagli investigatori, che rende ancor più misteriosa la morte del commissario della polizia di Stato Anna Esposito, la poliziotta che forse aveva appreso dove era stato nascosto il corpo di Elisa Claps e che è morta nel 2001 in circostanze mai del tutto chiarite (l’inchiesta è stata archiviata un anno dopo). Il corpo, senza vita - stando alle ricostruzioni contenute nelle informative degli investigatori che per primi entrarono nell’alloggio del commissario - era seduto sul pavimento. La cinghia di cuoio, con la fibbia di metallo stretta alla gola della poliziotta, era attaccata, dall’altro capo, alla maniglia della porta del bagno. Sia il dottor Rocco Maglietta, sia il professor Luigi Strada, che hanno effettuato l’autopsia, definiscono l’impiccamento «atipico». Perché l’ansa di scorrimento era posta «anteriormente, sul lato destro». Un impiccamento tipico, messo in atto in modo certo dal suicida, «avrebbe portato - spiegano i medici - automaticamente l’ansa di scorrimento a disporsi nella parte posteriore del collo». Nonostante la trazione sia durata per più di dieci ore (i medici fanno risalire la morte alle 23 del 11 marzo 2001. La cintura è stata slacciata alle 9.30 del 12 marzo), e con un peso di circa 65 chilogrammi, chi ha visto la cintura ricorda che «non presentava i segni del nodo». Anche la lunghezza - poco meno di un metro - appare incompatibile con le modalità del suicidio.
«Lo sviluppo minimo del nodo (ovvero la parte della cintura impegnata dal nodo). - si legge negli atti dell’inchiesta, di cui la Gazzetta del Mezzogiorno è in possesso - doveva essere di circa 24 centimetri». La circonferenza intorno al collo «era di 41». La poliziotta si sarebbe uccisa, quindi, con meno di 30 centimetri di corda, da un’altezza - quella della maniglia - di 103 centimetri da terra. Se le cose sono davvero andate così i piedi del commissario toccavano il pavimento e, solo per pochi centimetri, non toccavano a terra anche i glutei. Ecco come i poliziotti intervenuti sul posto descrivono la posizione: «Le gambe - scrivono nella relazione di servizio - sono leggermente piegate all’altezza delle ginocchia verso sinistra, tanto che i piedi poggiano sul pavimento, rispettivamente quello destro con la parte interna del tallone, quello sinistro con la faccia esterna». La causa della morte «È dovuta a un’asfissia acuta e meccanica». Che poteva essere stata procurata solo ed esclusivamente dalla cintura? Scrive il dottor Maglietta: «Si è parlato di impiccamento incompleto in quanto il corpo non era totalmente sospeso, bensì in posizione semiseduto, con le natiche sospese». Nella casistica medico-legale, precisa il dottor Maglietta, «è chiaramente indicativa di una volontà suicida». Nonostante le mani libere e i piedi che toccano il pavimento? È un aspetto che le indagini dell’epoca non hanno chiarito completamente.
Il collega ha sentito dire che aveva tentato il suicidio; il sottoposto ha raccontato che gli aveva confidato «di aver fatto una cosa brutta di cui però si era pentita»; il sacerdote ha svelato di aver già visto sul collo della ragazza «i segni della fibbia della cintura». Testimonianze che hanno involontariamente portato gli investigatori verso un’unica conclusione: Anna Esposito - il commissario della polizia di Stato che forse sapeva di Elisa Claps e che è morta in circostanze mai chiarite - si è suicidata.
Nonostante ci fossero dubbi e aspetti oscuri. Nonostante una consulenza dei medici che effettuarono l’autopsia descrisse il suicidio - Anna Esposito fu trovata impiccata con una cintura di cuoio attaccata alla maniglia di una porta - come «atipico», perché i piedi della donna toccavano il pavimento. E nonostante quanto dichiarò in Procura il dottor Rocco Maglieta, medico-legale, che definì la possibilità che la poliziotta avesse già tentato il suicidio «inverosimile». L’inchiesta è finita in archivio.
L’ispettore Mario Paradiso lavorava all’ufficio del personale. Il 12 marzo del 2001 entrò nell’alloggio del commissario Esposito. Dice agli investigatori: «Non mi spiego questo gesto, anche perché la Esposito era sempre gentile e disponibile. Solo successivamente sono venuto a conoscenza di problemi familiari, sentimentali ed economici e ho appreso dal cappellano della Questura che la Esposito gli aveva confessato di aver tentato il suicidio già in precedenza». Ma questo particolare l’ispettore quando lo apprende? Prima del suicidio? Oppure dopo il 12 marzo? L’ispettore Paradiso verbalizza quattro giorni dopo il ritrovamento del corpo del commissario. E nessuno gli pone questa domanda.
L’ispettore Antonio Cella lavorava nell’ufficio diretto dal commissario Esposito: la Digos. L’ispettore conferma agli investigatori che il suo dirigente gli riferiva «particolari della sua famiglia» e anche delle sue relazioni amorose. E il precedente tentativo di suicidio? Dice l’ispettore: «Non mi ha detto espressamente di aver tentato il suicidio, ma mi ha riferito di aver fatto una cosa brutta di cui però si era liberata».
Don Pierluigi Vignola all’epoca era il cappellano della Questura di Potenza. Riferisce al magistrato di aver saputo che il commissario Esposito aveva confidato anche ad altre persone quello che aveva detto a lui in confessione: la poliziotta aveva già tentato il suicidio. Ma con chi si era confidata Anna Esposito? Dice il sacerdote: «Erano delle giocatrici di pallavolo di Potenza». Che, però, non risultano tra i testimoni dell’inchiesta. Poi il sacerdote aggiunge: «Il mese prima avevo io stesso visto sul collo di Anna i segni della fibbia della cintura che indossava e che aveva utilizzato per il tentativo di suicidio. Non mi riferì però perché avesse scelto quelle modalità». E lui non glielo chiese?
Il dottor Maglietta, con argomenti scientifici, smentisce al magistrato la «teoria» del precedente tentativo di suicidio. Dice: «Secondo me è inverosimile. Avrebbe dovuto avere segni di ecchimosi per almeno cinque o sei giorni abbastanza evidenti, trattandosi di una cintura larga. Segni che qualcuno avrebbe dovuto notare». Qualcuno oltre al sacerdote.
IL MISTERO DELLA MORTE DEI FIDANZATI DI POLICORO. LUCA ORIOLI E MARIROSA ANDREOTTA.
Olimpia e Filomena sono due donne toste. Anzi, sono due mamme toste. Nessuno le ha mai viste piangere. Il loro è infatti un dolore che ha superato il territorio di confine delle lacrime. Una frontiera dell'anima inesplorabile per chi non ha vissuto la stessa tragedia di Olimpia e Filomena: perdere un figlio in situazioni drammatiche. E misteriose. Un sentiero disperato lungo il quale queste due madri coraggio si sono incontrate spesso. Diventando amiche. Filomena è l'ormai «famosa» mamma di Elisa Claps; Olimpia è invece la «sconosciuta» madre di Luca Orioli. La storia di Elisa Claps la conoscono tutti. Quella di Luca pochi «addetti ai lavori». Il 23 marzo 1988 Luca Orioli e la sua fidanzata Marirosa Andreotta furono trovati morti in circostanze mai chiarite. Tra depistaggi e amnesie (che ricordano sinistramente il caso Claps) mamma Olimpia - da oltre 20 anni, quasi 30 - combatte in nome di una verità negata. Nei motori di ricerca del web questo ennesimo mistero lucano è archiviato come il «giallo dei fidanzati di Policoro».
I cadaveri di Luca e Marirosa erano nella vasca da bagno di casa. «Morti folgorati in acqua». Anzi, no, «morti per inalazione di ossido di carbonio». E se invece fosse stato un omicidio? La mamma di Luca ne è sempre stata convinta.
Ora, dalla risepoltura della salma di Luca Orioli nel cimitero di Policoro ad opera della Procura della Repubblica di Matera, la signora Olimpia chiede formalmente l'intervento dei Ris a mezzo di una lettera inviata al comandante generale dell'Arma dei Carabinieri, generale Leonardo Gallitelli, per chiarire gli ulteriori punti oscuri emersi in questi ultimissimi giorni, compreso il terrificante sospetto che la salma alla quale è riferita l'autopsia condotta dal professor Introna non sia quella di Luca Orioli.
Il Giornale è venuto in possesso del testo della lettera. Che pubblichiamo integralmente:
«Esimio Comandante Generale dell'Arma dei Carabinieri Gen. Leonardo Gallitelli, è con grande fiducia e speranza che rivolgo a Lei questo mio appello. Sono Olimpia Fuina, madre di Luca Orioli, morto nell'88 a Policoro, in situazione tuttora volutamente misteriosa. L'anno scorso sono state riesumate per la seconda volta le salme di Luca e Marirosa (cosiddetti Fidanzatini di Policoro). Oltre ai numerosissimi depistaggi e insabbiamenti che costellano il caso, ci sono perizie truccate, riconosciute reati e fatti prescrivere. Al tutto si aggiunge l'inquietante mistero della sparizione degli organi interni (visceri, fegato, polmoni, cuore, lingua, trachea, osso ioide) e dei vestiti che Luca indossava al momento della morte, conservati nel cimitero di Policoro e misteriosamente ricomparsi, non si sa quando, presso l'Istituto di Medicina Legale dell'Università La Sapienza di Roma, peraltro mai incaricato di procedere a perizia su tali reperti. Gli stessi, nel tentativo ultimo di prelevarli da Roma e consegnarli direttamente ai familiari, come se non si trattasse di preziosi elementi di indagine per una definizione certa di morte, sono risultati persino privi di un elenco. Agli atti non esiste nessun verbale che certifichi né la presa in consegna di tali reperti, né i relativi esiti. Dopo la permanenza di quasi un anno presso l'Istituto di Medicina Legale di Bari, e, con le indagini ancora in corso, la Procura di Matera decide di ritumulare frettolosamente le salme senza spiegare le ragioni di una tale scelta, noncurante della contro-perizia redatta da tre autorevoli Professori dell'Università di Siena che smontano radicalmente quella di Ufficio, argomentandola adeguatamente e documentandola con una ricca letteratura scientifico-medico-legale. Un mio timore è che in quella bara possa non esserci il corpo di mio figlio, ragione per cui non posso accettare l'invito pressante e minaccioso di prenderlo in consegna. Me lo fa pensare il fatto che dagli atti relativi all'ultima perizia di ufficio non risulta l'analisi del DNA con i confronti dei familiari che ne possano determinare l'assoluta certezza. Me lo fa pensare, inoltre, il fatto che il corpo radiografato presenta agglomerati, non meglio definiti, che sarebbero propri di un corpo di anziano. Luca aveva 20 anni. Chiedo e mi auguro, alla presenza di un'Italia intera, che con me chiede e aspetta giustizia, che Lei voglia coinvolgere gli esperti dell'Arma dei RIS, per far piena luce sui troppi punti oscuri mai affrontati seriamente, spesso banalizzati, ignorati o, alcuni, addirittura, mai presi in considerazione. Lei rappresenta la mia ultima fondata speranza. Confido nel Suo noto impegno a difesa del diritto di tutti e di ciascuno. Non è possibile accettare una perizia, dimostrata scientificamente falsa, inutile sotto il profilo tecnico, decisamente dannosa per la verità. Indubbiamente è una verità che scomoda molte poltrone. Non è possibile pensare che un PM, non volendo approfondire la parte scientifica, con la scusa di non averne la competenza, rifiuti totalmente il confronto e il riscontro oggettivo delle due perizie, così fortemente contrastanti, facendo serio riferimento alla letteratura scientifica di relativo supporto da cui invece far scaturire la dovuta competenza come io stessa, misera mortale, ho potuto maturare. Occorre solo intelligenza e volontà a farlo. E' ciò a cui io ho dovuto fare ricorso per combattere un sistema avverso alla difesa del diritto giusto. Non è possibile accettare a "scatola chiusa" una verità che avrebbe tutti i requisiti per essere considerata preconfezionata. Lo dice il fatto che la porta dichiarata grandemente aperta dalla madre della ragazza, venga poi considerata chiusa dall'ultima perizia. Lo dice inoltre il fatto che persino l'ipotesi fantasiosa della morte, avanzata dal Prof. Introna, è fallace anche sotto il profilo logico. Secondo quest'ultima ricostruzione, i due ragazzi sarebbero entrati nel bagno, avrebbero chiuso la porta per fare l'amore (un gesto superfluo poichè in casa non c'era nessuno), la ragazza si sarebbe sentita male e sarebbe caduta, Luca avrebbe cercato di aiutarla, cadendo anche lui, e, stranamente, questa volta la porta è socchiusa. Chi l'avrebbe socchiusa? Luca mentre moriva? E poteva Luca morire di monossido di carbonio con la porta semiaperta? Avrebbe potuto prima di morire, socchiudere la porta e distendersi in maniera composta millimetrando l'esiguo spazio disponibile? E' possibile che una caduta bassissima, dolce, come quella che si sarebbe verificata, a loro dire, a brevissima distanza dal rubinetto e dalla mensola, entrambi ritenuti probabili oggetti contundenti, possa aver procurato una ferita lacero-contusa di 14 cm, all'epoca? E come mai non c'è traccia di sangue? E come mai una caduta così lacerante non avrebbe fatto cadere i flaconcini sistemati sulla mensola accanto al rubinetto? Può un PM ignorare cose così gravi e giustificare quanto accaduto quella notte, e durante il corso di 24 anni, continuando ad addurre le irresponsabilità (tante) alla superficialità, alla non professionalità, all'età giovane degli inquirenti avvicendatisi nel gioco al massacro della verità? Qualora ciò fosse possibile, credo, come cittadina che paga le tasse, di poter pretendere che tali professionalità non possano continuare ad occupare quei posti. La cosa grave è che lo Stato possa continuare anch'Esso ad ignorare una vicenda così scabrosa, che calpesta il diritto del cittadino, annienta la dignità della persona oltre che del dolore, e offende pesantemente la sua stessa Costituzione. Lo Stato ha il dovere di assicurare piena efficienza ai suoi cittadini. Lo esigo. Lo pretendo. Gli italiani hanno diritto e bisogno di sapere "perché". .....Si difendono i poteri forti?.... Vorrei poterlo non pensare. Ma Qualcuno mi aiuti a farlo. E' l'Italia, quella che segue con attenzione e con forte coinvolgimento emotivo le vicende dei suoi connazionali, che vuole saperlo, con me. E' dovuto. La verità che, così convenientemente si vorrebbe difendere esclusivamente nelle aule di tribunali, se tale, non può temere la piazza né i mass media, che grande mano invece stanno dando alla ricerca della verità. La scienza non è un'opinione, ed io non posso accettare la chiusura del caso, ancora una volta, per approssimazioni gratuite e infondate non solo scientificamente ma anche oggettivamente secondo i fatti presenti agli atti. Solo chi teme il confronto e un probabile affronto alla propria professionalità, preferisce le aule di tribunale e rinuncia ad informare le folle che attendono da anni una tesi attendibile, sotto il profilo scientifico, e, condivisibile sotto il profilo logico. A chiusura del caso serve infatti una "tesi" scientifica che è ancora possibile cercare sui miseri resti (se sono quelli) sbranati finora dal potere onnipotente indiscriminato e inoppugnato dell'Istituzione preposta ad accertarne invece la verità. Confidando in un Suo intervento La saluto cordialmente».
È un giallo che dura da quasi un trentennio e che ora è diventato anche uno scontro fra periti. Fa ancora discutere il caso dei «fidanzatini di Policoro», Luca Orioli e Marirosa Andreotta, trovati morti nel marzo del 1998. Dopo due riesumazioni, dopo l'ultima autopsia che indica nel monossido di carbonio la morte dei due giovani, la madre di Luca Orioli, Olimpia Fuina, continua a non credere alle ragioni accidentali ed insiste nell'indicare agli inquirenti un'ipotesi di morte violenta. Una vicenda giudiziaria nata con un peccato originale: quando i corpi furono trovati l'autopsia non fu fatta. Da quel momento è stato tutto un susseguirsi di indagini ed accertamenti che non hanno mai placato la sete di verità della signora Fuina. L'esito dell'autopsia del professor Francesco Introna, della Medicina legale di Bari, è contrastato dalle contro-perizie di altri consulenti secondo i quali il monossido riscontrato non è in quantità letali. La mamma di Luca Orioli ha messo in atto azioni clamorose. Prima si è incatenata al cimitero di Policoro per evitare la ri-tumulazione dei resti del figlio. E adesso arriva a chiedere di verificare che quel corpo appartenga realmente al suo Luca. Non erano più ragazzini e probabilmente la loro relazione si era interrotta, ma sono diventati per tutti i ''fidanzatini di Policoro''. Luca Orioli e Marirosa Andreotta erano due ragazzi che si volevano bene, frequentavano la parrocchia e gli amici, andavano all'Università e guardavano alla vita con fiducia. Vennero trovati morti il 23 marzo 1988 in casa di Marirosa Andreotta, nudi: la ragazza giaceva nella vasca da bagno, il ragazzo era disteso per terra. A trovarli fu la madre della ragazza, la signora Giannotti, di ritorno a casa da un concerto a Matera. Il caso dei due ragazzi prende la piega che non avrebbe dovuto prendere. Si fa strada l'ipotesi del fatto accidentale. Nella stanza c'è una stufetta caldobagno. Si pensa ad un malfunzionamento dell'apparecchio da cui è partita una scarica elettrica. L'elettrocuzione - si pensò - ha dunque causato un arresto cardiocircolatorio. Il caso viene chiuso subito. Questa frettolosità indusse a non compiere l'autopsia. E' questo il punto che ha lasciato una serie di interrogativi. I mancati accertamenti post-mortem hanno infatti tolto dei punti fermi alla vicenda, facendo venir meno gli elementi di certezza sulle cause e alimentando i dubbi. Anche il governo nel 2000 lo ha confermato. Rispondendo ad un'interrogazione parlamentare del deputato Vincenzo Sica, l'allora Guardasigilli Piero Fassino dichiarava che ''la complessa vicenda ha risentito in modo determinante dell'insufficienza degli accertamenti espletati nel corso dell'esame esterno dei cadaveri''.
Così successivamente, quando l'esame della stufetta non ha dato particolari riscontri, si è fatta strada l'ipotesi di un avvelenamento da monossido di carbonio sprigionato da una caldaia. Si pensò anche ad uno scherzo finito in tragedia.
L'autopsia viene fatta a distanza di anni, con la prima riesumazione. Sui cadaveri dei due giovani ci sono dei segni che invece avrebbero dovuto far propendere per l'annegamento, anche segni di fratture. Inoltre Luca Orioli ha un testicolo lesionato. Ma anche in questo caso qualcosa non va: non funziona la tac per esami radiologici. I dubbi rimangono.
I primi sospettati escono dall'indagine e vengono prosciolti tutti coloro (medici, periti, magistrati) che sono stati indagati per negligenze o per errori nell'attività di indagine o di consulenza. E ci sono poi gli altri elementi del giallo.
Una lettera di Marirosa Andreotta alimenta altri scenari. Si parla di un segreto («una piccola parte di me che voglio cancellare per sempre») che tale resterà. Poi le foto: alcune fanno pensare ad una manomissione del luogo del ritrovamento che in effetti è stato alterato. Ma troppo tempo è trascorso.
Un'inchiesta nata male, già archiviata, poi riaperta e di nuovo destinata all'archiviazione. Così aveva deciso la Procura, che si stava orientando sull'ipotesi del soffocamento, ma su richiesta di Olimpia Fuina, che si è opposta, l'indagine non è stata chiusa ed anzi il giudice ha coattivamente stabilito di riesumare i corpi. Fatto avvenuto il 17 dicembre scorso. Poi l'autopsia. Ma la battaglia legale continua. «Non mi sento sola - afferma Olimpia Fuina - sento aumentare l'affetto delle persone. Io continuo questa battaglia perchè le contro-perizie hanno stabilito che la quantità di monossido riscontrata nell'autopsia è assolutamente non letale. Lo dicono i periti e la letteratura scientifica. Per questo mi sono opposta alla ri-tumulazione perchè voglio altri accertamenti. Ho chiesto al comandante dei carabinieri, Gallitelli, l'intervento dei Ris».
Per la madre di Luca i misteri intorno a questa vicenda non si dipanano, tutt'altro. A cominciare dall'inquietante denuncia della mancanza degli organi interni del ragazzo, tra cui l'osso ioide, forse scomparsi nella precedente riesumazione ma anche su questo non c'è certezza. E tutto questo non aiuta la ricerca della verità, anzi alimenta i sospetti. Olimpia Fuina nella lettera a Gallitelli avanza un'ipotesi ancora più inquietante. «Quel corpo - dice - potrebbe non essere quello di Luca perchè non è documentato negli atti l'esame del dna. Sembra essere quello di un anziano».
Per tenacia la signora Fuina somiglia molto ad un'altra mamma coraggio della Basilicata, Filomena Claps, che attende da 20 anni di conoscere tutta la verità sull'omicidio della figlia Elisa e non solo la condanna del responsabile, Danilo Restivo, condannato a Salerno a 30 anni. Ma, se nel caso Claps l'autopsia di Introna è stata «vangelo», nel caso-Policoro invece viene messa in dubbio. Sulle inquietanti ipotesi avanzate, il professor Introna, contattato, ha detto: «Non rispondo, perchè su questi fatti il confronto può avvenire solo nelle aule di giustizia, altrimenti si creano confusione e illazioni». «Abbiamo fatto l'autopsia sulla salma di Luca e restituito la salma di Luca. È tutto documentato. Ci sono i filmati dei carabinieri». Sono parole del prof. Franco Introna, direttore dell'Istituto di medicina legale dell'Università di Bari e perito della Procura di Matera nell'indagine sulla morte dei “fidanzatini di Policoro”. Due morti, quelle di Luca Orioli e di Marirosa Andreotta, al centro, dal 23 marzo 1988, di perizie contrapposte. Da qui l'ennesima inchiesta e le risultanze del docente barese. Risultanze oggetto di critiche cui Introna non aveva risposto. La “goccia” è stata la lettera di Olimpia Fuina, madre di Luca, inviata al comandante generale dell'Arma dei carabinieri: temo che nella bara tumulata nei giorni scorsi a Policoro possa non esserci il corpo di mio figlio, ha scritto la donna che da 23 anni insegue la verità sulla morte del suo Luca.
«Quando la salma è stata stumulata c'erano i carabinieri, i consulenti di parte - risponde ora alla Gazzetta il prof. Introna - nella bara c'era il corpo di un ragazzo che aveva già subito una riesumazione. Abbiamo fatto le indagini e conservato la salma. Attese le controdeduzioni, abbiamo risposto per cui il pm ci ha chiesto di riconsegnare i corpi. I carabinieri hanno filmato tutto».
In questa
vicenda, però, le cose inverosimili sono state tante. Ad esempio, i vestiti, i
visceri, l'osso ioide fratturato, non sono stati trovati alla seconda
riesumazione. Un mistero.
«Nessun mistero. Il
prof. Giancarlo Umani Ronchi ha scritto che l'osso ioide era sano prima della
prima riesumazione e che lo ha rotto lui nel corso delle operazioni. I vestiti,
poi, sono stati ritrovati».
La famiglia Orioli chiede di analizzarli per verificare tracce di dna. «Sono inservibili. Sono stati conservati malissimo. Troveremmo miriadi di dna. Ma non vi ho trovato lesioni da arma da taglio o da fuoco».
La sua perizia, che riconduce le due morti al monossido di carbonio (CO), è stata contestata dai nuovi periti di Olimpia Fuina. «Non so se chi ha fatto quelle critiche ha interesse a farlo. Se fossero persone preparate saprebbero che il monossido di carbonio si attacca al sangue nell’80 per cento e nel 20 per cento alle globine muscolari. Abbiamo cercato il monossido nei muscoli. E l'abbiamo trovato. Poi, nella putrefazione si forma tutto tranne il monossido. E la tecnica da noi usata è l'unica che libera il monossido distruggendo le mioglobine. Sono stupefatto dalla critiche».
Ma la porta del bagno era aperta. Come poteva concentrarsi il monossido? «La porta del bagno aperta è in una seconda testimonianza. In una prima è chiusa. I due ragazzi portano una stufetta elettrica nel bagno poiché i riscaldamenti sono chiusi. Si spogliano nudi. Perchè devono tenere la porta aperta? Poi aprono l’acqua calda. E quello scaldacqua non era a norma. Fanno scorrere l’acqua calda e si sviluppa vapore, ma anche verosimilmente monossido di carbonio».
Quella caldaia ha funzionato per altri 2-3 anni senza intossicare nessuno. «Io non faccio l’ingegnere. Può essere che tirando l’acqua calda al massimo sia andata in sovrafunzione».
E la concentrazione di CO differente in Luca e Marirosa? «Lei è morta annegata dopo aver battuto la testa. Lui ha cercato di tirarla fuori, ma non ce l’ha fatta ed è morto per avvelenamento».
Perché non fare i nuovi esami a Foggia come chiesto da Olimpia? «Non sono necessari. I dati sono chiari».
Prof. Introna, come finirà? «Non ne ho la più pallida idea. Ma non creiamo castelli in aria. Tranquillizziamo la povera madre che ha tutta la nostra comprensione, ma diciamole la verità».
I dubbi di Olimpia Fuina-Orioli e la perizia dell'anatomopatologo, Francesco Introna. Su questi due elementi si è intrecciata la disputa più recente sulla morte dei Fidanzatini di Policoro, Luca Orioli (figlio di Olimpia) e Marirosa Andreotta, trovati morti a Policoro il 23 marzo del 1988 nel bagno della casa della ragazza. La mamma di Luca, con un nuovo pool di periti, ha avanzato sospetti sulla perizia di Introna, la donna, tra gli altri aspetti, ha messo in discussione che la salma analizzata fosse quella del figlio (ipotesi respinta da Introna che ha fatto riferimento all'esistenza dei filmati dei Carabinieri che hanno documentato tutto). Nella sua perizia, l'anatomopatologo ha ricostruito i fatti, fatte le puntualizzazioni del caso, evidenziato alcune riserve e cautele, spiegate le modalità con cui è stato ricercato il monossido di carbonio, il gas killer che avrebbe ucciso Luca e indotto in Marirosa un malessere tale da determinare la caduta della ragazza, durante la quale si sarebbe verificato l'urto nucale contro la manopola del rubinetto, e l'annegamento terminale avvenuto nella vasca. Luca, stando alla perizia, avrebbe tentato di soccorrere la fidanzata, ma era astenico, anche lui aveva inalato il gas killer. Ha provato a prendere Marirosa da una gamba ma è sopravvenuto il coma: si accascia a terra fino alla morte.
LA RICOSTRUZIONE
- La madre di Marirosa quando entrò in casa trovò il riscaldamento centralizzato in funzione. Circostanza che “meravigliò” la signora: Marirosa, in casa, avrebbe dovuto spegnerlo. Nel corridoio vide il riflesso della luce proveniente dal bagno, sentì distintamente il rumore del caldobagno in funzione e, aperta la porta, notò il corpo della figlia all'interno della vasca con la testa sommersa. Istintivamente azionò la manopola per il deflusso dell'acqua dalla vasca. (Rapporto 142/2 CC Policoro, deposizione acquisita alle ore 00,30 del 24.3.1988). In altri documenti processuali (missiva del 19.5.1995 inviata al P.M.) la porta del bagno parrebbe essere stata descritta come socchiusa.
- La temperatura ambientale in casa era elevata al momento dell'arrivo di Luca Orioli e Marirosa Andreotta perché l'impianto autonomo di riscaldamento, posto in “manuale”, era in funzione.
- L'impianto autonomo di riscaldamento presentava caldaia e bruciatore in un vano tecnico esterno alla casa (Perizia Strada).
- La temperatura nel bagno al momento del rinvenimento delle salme era elevata (stimata sui 30°C perizia Lattarulo Sansotta + perizia Giordano). Al momento del rinvenimento delle salme, nel bagno vi era un termosifone in attività (connesso con l'impianto centralizzato della casa cfr perizia Lattarulo Sansotta) ed un termoventilatore elettrico (caldobagno) in funzione con l'interruttore del termostato inserito sul “Manual” a 1000 Watt e regolazione della temperatura fissata sul valore massimo possibile (valore 6) (CFR verbale dei CC, perizia Strada).
- L'impianto elettrico era funzionante e non vi era stato alcun cortocircuito.
- Le indagini successive evidenziarono una perfetta funzionalità sia dell'impianto elettrico che del Caldobagno che non mostrò alcuna potenzialità di dispersione elettrica, neanche in seguito a test esasperati. (Cfr Perizia Valecce, ctp Pugliese)
- Anche gli accertamenti sull'impianto elettrico parrebbero aver la normalità dello stesso.
- La caldaia per il solo riscaldamento dell'acqua era posizionata nel bagno, al di sopra della vasca e presentava oggettivi segni di affumicatura (documentati iconograficamente) in corrispondenza della ispezione della fiammella pilota (cfr documentazione iconografica perizia Strada, consulenza UACV 2009).
- L'impianto per il riscaldamento dell'acqua non era a norma per l'assenza nel vano ove era locata la caldaia (bagno), di alcun sistema di ventilazione esterna (cfr Consulenza Strada-Mastrantonio)
- Nessuna perizia tecnica fu mai disposta sullo stato e sul funzionamento della caldaia a gas presente nel bagno per il riscaldamento dell'acqua nell'immediatezza degli avvenimenti ovvero prima che la stessa fosse spostata.
- La giacca di Luca Orioli era appesa ad una sedia in cucina
- Non è chiaro chi posizionò i jeans di Luca sul bacino per occultare i genitali, né ci è dato sapere dove fossero locati i Jeans prima di essere posti sui genitali dell'Orioli.
- Dalla documentazione iconografica parrebbe che almeno la scarpa destra ed uno o due calzini dell'Orioli fossero nel bagno.
- Non ci è dato sapere dove fossero i vestiti di Marirosa indossati all'arrivo a casa.
- Il pigiama celeste a tuta, uno slip bianco, un paia di collant, la maglietta intima di Marirosa, le ciabatte, l'orologio, il reggiseno ed un bracciale erano variamente disposti in sostanziale ordine, nell'interno del bagno.
- Al pari del bagno oltre alla scarpa destra e a un calzino era presente la camicia e la maglietta intima dell'Orioli.
Sulla base di questi dati circostanziali e alla “luce dei seguenti paletti di riferimento medico legale: “il fungo mucoso per la salme rinvenute può essere considerato un segno fortemente indicativo per un annegamento […] Nella intossicazione da monossido di carbonio il fungo schiumoso è di raro riscontro e ove presente è connesso con l'edema polmonare dovuto, in parte, anche all'azione tossica del CO sugli alveoli polmonari; nell'intossicazione mortale da CO, il lasso di tempo intercorrente fra l'esposizione al gas e la perdita di conoscenza dipende dalla concentrazione di CO nell'aria inalata […] Dalla perizia Fedele-Mastrantonio si evince che in presenza di una caldaia a gas contraddistinta da un malfunzionamento ipotizzato lieve, sarebbero stati sufficienti 50 minuti di esposizione continuativa per indurre una sintomatologia significativa nei due giovani in assenza di particolare attività fisica. La concentrazione ambientale di CO, direttamente proporzionale ai di tempi di funzionamento de all'entità del malfunzionamento della caldaia, il tempo di esposizione e l'attività fisica espletata, rappresentano le tre principali variabili dipendenti interconnesse ne determinismo degli eventi […]. Tutto ciò supponendo comunque che la porta del bagno era chiusa o socchiusa.
Da queste premesse, Introna ha scritto che: "Luca e Marirosa si recano insieme in casa Andreatta e decidono di fare la doccia insieme. La casa è già calda, ma Marirosa non spegne il riscaldamento verosimilmente per creare una condizione confortevole anche dopo il bagno. Luca inizia a spogliarsi in cucina e sposta il caldobagno nel bagno dove lo accende a mezza potenza in posizione manual. Verosimilmente viene aperto il rubinetto dell'acqua calda e chiusa la porta sì da favorire nell'interno del bagno un piacevole ambiente caldo-umido. Marirosa verosimilmente si spoglia in camera sua ed entra nel bagno con il pigiama a mò di tuta. Entrambi i ragazzi chiudono o socchiudono la porta e iniziano a spogliarsi mentre la vasca si sta riempendo. Marirosa entra nella vasca con acqua calda e mentre sta in piedi, apre il doccino ed inizia a docciarsi. La caldaia continua ad essere in attività. Luca non entra nella vasca e dopo essersi spogliato aiuta Marirosa. Non è dato sapere né quanto tempo i due ragazzi trascorrono nel bagno con la caldaia in attività, né cosa fanno nel frattempo certo è che abbondanti schizzi d'acqua finiscono sul pavimento del bagno. La vasca continua a riempirsi. Non ci è dato sapere quando la caldaia smette di funzionare per la chiusura del rubinetto dell'acqua calda. Del tutto attendibilmente ad un certo punto Marirosa inizia a sentirsi male, verosimilmente con la doccia ancora in funzione, perde conoscenza e cade nella vasca, verosimilmente offrendo le spalle al muro su cui è locata la caldaia. In fase di caduta impatta il capo contro la manopola del rubinetto procurandosi la ferita lacera a livello occipitale. Luca cerca di aiutarla, chiude il rubinetto dell'acqua, cerca di estrarla dalla vasca tirandola per la gamba destra, altra acqua cade sul pavimento ma Luca è astenico, fiacco a causa del CO inalato e si accascia al suolo ove, in coma continua ad inalare CO fino alla morte, mentre Marirosa muore annegata nella vasca da bagno. La porta, verosimilmente socchiusa consente quindi di disperdere la concentrazione ambientale di CO negli ambienti circostanti".
LA RICERCA DEL GAS KILLER. Le salme di Luca e Marirosa presentavano strutture muscolari ancora riconoscibili sebbene mummificate. (Deciso viraggio peggiorativo con evoluzione verso la prescheletrizzazione e mummificazione dei tessuti molli residui). Per questo motivo il sistema di indagine scelto da Introna è stato quello di cercare il CO legato alla mioglobina mediante metodi di microdiffusione e fissazione. La tecnica è diversa da quella scelta da Umani Ronchi e De Zorzi nel 1996 quando fu eseguita la prima autopsia. Anche gli esiti sono diversi. Si legge nella perizia: “Alla luce della negatività delle indagini condotte dal prof Umani Ronchi e dei campioni biologici disponibili si è effettuata un'indagine mediante ricerca elettiva del CO inglobato nei tessuti muscolari profondi mediante reazione chimica con cloruro di palladio in soluzione acida. L'indagine così condotta, su ileopsoas e sul muscolo femorale, ha costantemente evidenziato nella salma di Luca Orioli la presenza di di CO in misura media di 0,702 per cento grammi di tessuto muscolare testato”. Valori più modesti sono stati ritrovati nel corpo di Marirosa: 0.06 g%. Quanto basta per “supporre concretamente che anche Andreotta Marirosa inalò monossido di carbonio prima di morire”.
Toghe lucane: Il racconto di un boss a de Magistris e il giallo sulla morte dei «fidanzatini». Da “Il Corriere della Sera”: «Policoro, il pm incontrò l' indagato».
L' inchiesta Toghe lucane, quella che non si è riusciti a togliere al pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, è come una palla di gomma. Più si cerca di spingerla sott' acqua, più l'acqua la respinge verso l'alto con la stessa forza. L' ultima clamorosa rivelazione, che riporta in primo piano il caso di Luca Orioli e Marirosa Andreotta (i «fidanzatini di Policoro» uccisi il 23 marzo 1988), è il racconto di Salvatore Scarcia, tra i più noti capiclan della mafia del Metapontino. Scarcia è stato interrogato da De Magistris nel carcere di Melfi, in cui sta scontando una condanna per associazione mafiosa. Ma non è un «pentito», quindi ciò che ha detto - e che secondo il pm ha trovato già parecchi riscontri - non gli procurerà alcuno sconto di pena. Scarcia, in rapporti molto confidenziali con il patron di Marinagri, Vincenzo Vitale (indagato a Catanzaro come tutti gli altri protagonisti del racconto di Scarcia), ha detto tante cose inquietanti. Tra queste, ha parlato dettagliatamente, descrivendo persino tipo e colore delle auto, e fotografando tutto e tutti, di un «summit» tenuto nell'estate del 2000 nell'azienda di piscicoltura Ittica Valdagri, nella foce del fiume Agri, dove poi sarebbe sorto il villaggio vacanze Marinagri, assegnatario di un contributo di 26 milioni di euro di fondi europei. Racconta Scarcia: «Era una domenica mattina. Avevo saputo che ci sarebbe stata una riunione importante. E intorno alle 10 circa mi appostai nei pressi dell'Ittica Valdagri... Vidi arrivare una Fiat Croma bianca con quattro persone a bordo: l'autista, il pm di Potenza, Felicia Genovese, suo marito Michele Cannizzaro e il colonnello dei carabinieri Pietro Gentili. Poi, con una Mercedes scura, arrivarono il pm di Matera, Vincenzo Autera, e il dottor Giuseppe Galante (capo della procura di Potenza) e una terza persona che non ho riconosciuto. Da un'altra Mercedes, di colore chiaro, scesero l'imprenditore Gino Lavieri e Walter Mazziotta, banchiere (in realtà, bancario) di Policoro. Infine, arrivarono altre due auto, una Golf bianca e una Thema Ferrari amaranto, ciascuna con due persone a bordo. Tutti entrarono nell'ufficio di Vitale». A questo punto, Scarcia esce allo scoperto e bussa alla porta dell'ufficio. Va ad aprirgli Vitale. «Gli chiesi di farmi entrare - racconta - e lui diventò pallido. Gli dissi che già sapevo chi c'era dentro, lo forzai ed entrai. Così mi feci vedere da tutti. Intuii che stavano progettando qualcosa di grosso a livello economico. Autera è socio di Marinagri attraverso un prestanome ed era tra quelli che aveva partecipato ai festini a luci rosse che si facevano da quelle parti. Lui, Galante e Genovese cercarono di calmarmi e mi dissero che mi avrebbero aiutato economicamente, se io in zona non mettevo bombe e non facevo attentati. Poi con discorsi un po' strani mi dissero se potevo far qualcosa a Mario Altieri (ex sindaco di Scanzano Jonico), perché dove ci trovavamo doveva venire un "paradiso terrestre", così mi dissero, e invece per colpa di Mario Altieri il tutto era stato bloccato». Scarcia a questo punto non ci sta, arretra, teme di poter essere prima usato e poi incastrato. E così viene anche minacciato. «Guarda che ti facciamo arrestare quando vogliamo, mi dicono». Scarcia abbozza e se ne va. Ma lì, quella domenica mattina, aveva visto, seduti intorno allo stesso tavolo, Vincenzo Autera, il pm che senza aver nemmeno disposto l'autopsia dei cadaveri dei fidanzatini chiese l'archiviazione del caso, e Walter Mazziotta, che nel 1994 finisce indagato proprio per l'omicidio di Luca e Marirosa. Negli anni successivi, Autera, imputato di aver affermato il falso sulla morte dei fidanzatini, verrà prosciolto a Salerno. Mentre il vicepretore Ferdinando Izzo, delegato di Autera, e accusato come lui, verrà assolto a Matera: grazie alla bravura di Nicola Buccico, ex sindaco di Matera ed ex membro laico del Csm, che dopo essere stato il legale della famiglia di Luca Orioli diventa il difensore del vicepretore Izzo. L' inchiesta «Toghe lucane», condotta dal pm Luigi de Magistris, ipotizza un «comitato d'affari» composto da magistrati, politici e imprenditori Le accuse L'ipotesi è il condizionamento di investimenti e nomine pubbliche. Coinvolti anche cinque magistrati.
ESCLUSIVO - IL CASO ELISA CLAPS IN TOGHE LUCANE di Rita Pennarola [29/03/2010] su La Voce delle Voci La Voce lo scriveva già a settembre 2008.
“Il ritrovamento del corpo di Elisa Claps riapre una fra le pagine più incandescenti ed inedite dell'inchiesta Toghe Lucane, condotta dall'allora pm di Catanzaro Luigi De Magistris. A settembre 2008 la Voce aveva dedicato in esclusiva un articolo di copertina alle minuziose ricostruzioni della Procura di Salerno, cui si erano rivolti De Magistris ed i magistrati oggetto delle sue indagini.
Ripubblichiamo i brani da cui emerge il collegamento fra Toghe Lucane e la scomparsa della ragazza. Con l'ombra della massoneria.
* * * * *
Una pagina inquietante si apre, nell'inchiesta Toghe Lucane, sulla misteriosa scomparsa della giovane Elisa Claps, avvenuta a Potenza il 12 settembre 1993. Il caso torna infatti alla luce su iniziativa dei pm Luigi Apicella e Gabriella Nuzzi che, per riscontrare ulteriormente la correttezza delle attività investigative condotte da Luigi De Magistris, assumono importanti riscontri in merito alle indagini condotte da quest'ultimo a carico di Felicia Genovese e del marito Michele Cannizzaro, iscritto alla Massoneria, coinvolti - secondo quanto emerge dall'inchiesta Toghe Lucane - nel caso Elisa Claps. Seguiamo la ricostruzione dei pubblici ministeri salernitani. Nel 1999 il collaboratore di giustizia Gennaro Cappiello rivela come un fiume in piena particolari sulla scomparsa della ragazza, verbalizzando dinanzi al pubblico ministero della Dda di Potenza Vincenzo Montemurro. Secondo Cappiello (il quale dichiarava di aver appreso le notizie sul caso Elisa Claps da un mercante d'arte di Potenza, Luigi Memoli), a causare la morte della ragazza era stato il giovane Danilo Restivo. Il fatto sarebbe avvenuto presso la scala mobile in costruzione a quell'epoca. Sempre stando alla versione fornita dal pentito, Maurizio Restivo, padre di Danilo, «implicato nell'indagine e poi condannato per false informazioni al pubblico ministero, aveva, per il tramite del Memoli, contattato il Cannizzaro accordandosi per la somma di 100 milioni di lire affinchè intervenisse sulla moglie, dottoressa Genovese, titolare delle indagini riguardanti il caso della scomparsa della Claps». In seguito alle verbalizzazioni di Cappiello, il caso Claps passa alla Procura di Salerno, competente ad indagare sulle presunte omissioni o violazioni della Genovese. Veniva accertato che quel 12 settembre 1993 Danilo Restivo era stato effettivamente in compagnia della giovane poco prima della scomparsa. Cosa fece il pm Genovese, che era all'epoca titolare dell'inchiesta sulla scomparsa di Elisa? «Le articolate indagini esperite dalla Procura di Salerno consentivano di ricondurre la scomparsa della giovane Elisa Claps ad una morte violenta, ma non anche ad individuare nel Restivo Danilo l'autore del fatto criminoso. Invero, si acclarava che il giorno 12 settembre 1993, Restivo Danilo, effettivamente, era stato in compagnia della giovane poco prima della scomparsa; che quel giorno stesso era stato medicato presso il locale nosocomio per alcune lesioni, prodotte, a suo dire, per un'accidentale caduta, ma, verosimilmente, frutto di una colluttazione. L'esame dell'attività investigativa svolta e coordinata dalla Procura di Potenza, in persona del pubblico ministero Dr. Genovese, evidenziava, tuttavia, che nella immediatezza della notizia della scomparsa, alcuna perquisizione era stata disposta né sulla persona del Restivo Danilo, né presso l'abitazione familiare ovvero altri luoghi nella sua diretta disponibilità». Il 27 gennaio 2000 depone dinanzi al pm di Salerno l'avvocato Giuseppe Cristiani, legale della famiglia Claps, il quale fra l'altro fornisce elementi circa la comune appartenenza alla massoneria di Cannizzaro e di Maurizio Restivo, padre di Danilo. Le indagini avviate all'epoca dalla Procura salernitana su questa vicenda non consentirono di «individuare nel Restivo Danilo l'autore del fatto criminoso» ed anche l'operato della Genovese venne considerato corretto. Strettamente collegato alla scomparsa di Elisa Claps era però quanto il pentito Cappiello verbalizzò in seguito sul duplice omicidio di stampo mafioso dei coniugi Giuseppe Gianfredi e Patrizia Santarsiero, avvenuto a Potenza il 29 aprile ‘97. Cappiello sosteneva di avere appreso quelle notizie da Saverio Riviezzi, un pregiudicato di Potenza che era stato contattato da alcuni calabresi, fra cui un certo Aldo Tripodi, uno degli esecutori dell'omicidio, per quella duplice esecuzione. Secondo il racconto del collaboratore di giustizia ai pm della Direzione Antimafia, «mandante dell'omicidio dei coniugi Gianfredi-Santarsiero era - seguiamo ancora la ricostruzione di Cappiello, così come riportata dal documento di Apicella e Nuzzi - Cannizzaro Michele, marito del sostituto procuratore dottoressa Genovese, che aveva inizialmente curato le indagini relative al duplice omicidio in questione». Quanto al movente, «il Cappiello lo riconduceva ai rapporti che il Gianfredi aveva avuto con il Cannizzaro Michele aventi natura finanziaria, assumendo che tale ultimo era un grosso giocatore d'azzardo, rapporti bilanciati da favori giudiziari di cui il Gianfredi godeva per il tramite della moglie del Cannizzaro». Comincia dunque una lunga serie di indagini che la Procura di Salerno avvia per riscontrare le dichiarazioni di Cappiello. «Gli esiti - spiegano oggi nell'ordinanza Apicella e Nuzzi - non consentivano di ritenere acquisite fonti di prova idonee a ricondurre agli indagati i gravi fatti delittuosi iscritti a loro carico. Emergevano, tuttavia, dalle investigazioni svolte alcune significative circostanze atte a delineare il particolare contesto ambientale di consumazione dei fatti delittuosi, la condotta tenuta dalla dottoressa Genovese nelle prime investigazioni, la personalità del marito dottor Cannizzaro, le frequentazioni ed i suoi legami con ambienti criminosi - in particolare, con Gianfredi Giuseppe, vittima del duplice omicidio - i contatti con esponenti della criminalità organizzata calabrese, i suoi interessi economici che, allora, come oggi, non potevano, comunque, non apparire “inquietanti” in relazione alla natura dell'attività svolta dalla moglie dottoressa Genovese, designata all'incarico di sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia di Potenza, nell'ambito, cioè, del medesimo luogo di consumazione degli accadimenti delittuosi». Dopo lunghe indagini, il pentito Cappiello sarà considerato dall'autorità giudiziaria di Salerno “inattendibile”. Eppure, ad offrire uno scenario sorprendentemente simile delle due vicende (Claps e Gianfredi), era arrivata la testimonianza di un prete-coraggio della diocesi di Potenza: don Marcello Cozzi. La giovane, quel fatale giorno del 1993, aveva battuto mortalmente la testa per sottrarsi ad un tentativo di violenza messo in atto da Danilo Restivo, il cui padre, per coprire le responsabilità del ragazzo, avrebbe contattato il dottor Cannizzaro; questi a sua volta si sarebbe rivolto a Giuseppe Gianfredi, che avrebbe fatto sparire il cadavere con l'aiuto dei fratelli Notargiacomo, titolari di un'officina meccanica, che avevano pertanto la disponibilità di acido in grado di dissolvere il cadavere. Anche stavolta le indagini furono archiviate. Si segnala intanto ancora un particolare: da alcuni accertamenti della Guardia di Finanza di Catanzaro era emerso che Luigi Grimaldi, dirigente della Squadra Mobile di Potenza all'epoca delle indagini sulla scomparsa di Elisa Claps, dopo aver ricoperto l'incarico di dirigente amministrativo presso l'Università di Salerno, svolgeva l'incarico di dirigente amministrativo presso l'Azienda Ospedaliera San Carlo di Potenza, dove Michele Cannizzaro era direttore generale. Per concludere questa vicenda va segnalato che, sentito come teste a ottobre 2007 nel corso delle indagini sull'operato di De Magistris, ai colleghi Nuzzi ed Apicella il pubblico ministero di Potenza John Woodcock ha raccontato d'aver chiesto a marzo 2007 di astenersi in un procedimento a carico, fra gli altri, di Michele Cannizzaro in ragione del contenuto di una intercettazione telefonica fra la moglie di Cannizzaro Felicia Genovese ed il procuratore generale Vincenzo Tufano, «nella quale venivano usate espressioni particolarmente volgari sulla giornalista (Federica Sciarelli, che più volte nel corso della trasmissione “Chi l'ha visto” si è occupata del caso Elisa Claps, ndr) e sul suo rapporto di amicizia con il magistrato (Woodcock, ndr)». Quest'ultimo riferiva inoltre «di altri emblematici tentativi di indebita strumentalizzazione del suo rapporto personale con la giornalista Federica Sciarelli, riconducibili al medesimo gruppo di soggetti indagati dal pubblico ministero De Magistris nel procedimento Toghe Lucane». IL CSM “AMICO”. Il 4 marzo 2008 De Magistris chiede alla Procura salernitana che indaga sul suo conto (e che poi lo proscioglierà, aggiungendo ipotesi di gravi addebiti a carico dei suoi principali denuncianti), di rendere testimonianza spontanea. Dalla lunga verbalizzazione emerge, fra l'altro, l'allucinante spaccato sul ruolo del Csm così come si evince direttamente dalla lettura dell'intercettazione telefonica intercorsa il 28 febbraio 2007 tra Felicia Genovese ed un altro noto esponente di Magistratura Indipendente, Antonio Patrono, presidente della prima Commissione del Consiglio Superiore della Magistratura, deputata a verificare l'apertura di una pratica di trasferimento per incompatibilità ambientale di De Magistris. La conversazione avviene il giorno successivo all'esecuzione delle perquisizioni nell'ambito del procedimento Toghe Lucane. Nel commentare con Patrono le sue vicende giudiziarie, Genovese sollecita l'interessamento di altri componenti del Csm tra cui Giulio Romano, della sua stessa corrente, e Cosimo Ferri. «Tra i nominativi richiamati nella conversazione - tengono a sottolineare Apicella e Nuzzi - vi è quello del dottor Giulio Romano, componente della Sezione Disciplinare del Csm e relatore della sentenza emessa nei confronti del dottor De Magistris»."
Toghe Lucane, ma anche Calabresi, ma anche Salernitane, ma anche... Insomma toghe italiane. Qualcuno si meraviglia che il sostituto procuratore a Crotone applicato a Catanzaro per prendersi cura del procedimento penale “Toghe Lucane”, abbia chiesto l'archiviazione per la maggior parte degli indagati. Oggi, non quando fu chiamato ad assumere l'incarico, possiamo finalmente dirlo: sapevamo che sarebbe finita così; e non ci voleva la scienza infusa per arrivarci. Dopo che un paio di ministri (della cosiddetta Giustizia), un paio di Procuratori Generali presso la Suprema Corte di Cassazione, il Presidente della Repubblica, il vice-Presidente del CSM, ed una pletora di magistrati, avvocati, parlamentari, indagati, associati per delinquere ed anche per altro, avevano fatto carte false per trasferire Luigi de Magistris ad altra sede proprio quando stava per definire i rinvii a giudizio di “Toghe Lucane”, beh, era così difficile immaginare che il suo sostituto sarebbe stato scelto con cura affinché risolvesse il problema? A dirlo un anno fa ci avrebbero subissato di querele, oggi è un'evidente ovvietà. Un cittadino si è recato di buonora dal PM. Da Matera a Catanzaro (300Km) ci vogliono oltre quattr'ore, superando i limiti di velocità ogni volta che la strada lo permette. Il cancelliere preposto agli atti ha subito messo le mani avanti: “il fascicolo non è ancora pronto. Torni appena dopo il ricevimento dell'avviso”. Ma un avviso, con tanto di ampi stralci virgolettati era su tanti giornali. E così insistendo e sollecitando il Procuratore Capo (Dr. Lombardo) in qualche modo l'atto di archiviazione salta fuori. Ecco svelato l'arcano. Il PM ha spezzettato l'inchiesta in tanti piccoli e piccolissimi stralci, ciascuno con un pezzo delle 200 mila pagine originarie e delle decine di capi d'imputazione. Ed il pezzo che possiamo guardare, piccolo piccolo, è sufficiente per capire tutto il resto anche senza vederlo. Mancano le prove certe del reato, dice il PM, si chiede l'archiviazione. Per forza, signor PM, le prove che nel caso specifico sono le conversazioni fra un indagato per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione in atti giudiziari e una sospettata di far parte della medesima associazione) si trovano (forse) in qualche altro pezzettino o stralcio che dir si voglia. Ammesso che, in cotanto spezzatino, non siano andate “smarrite”. Forse sarà sfortunato il PM oppure è semplicemente disattento. Dovrebbe aver letto, fra gli atti recenti, che alcune delle parti offese avevano potuto accedere a tutto il fascicolo (quando era ancora un blocco granitico) e quindi saranno in grado di produrre le “prove” mancanti in sede di opposizione alla richiesta archiviazione. Certo è che una associazione per delinquere, quale era quella fra magistrati, politici ed imprenditori ipotizzata in “Toghe Lucane”, può continuare tranquillamente a delinquere proprio perché tanti magistrati di Matera, Potenza, Catanzaro e, perché no, Salerno, continuano ad ignorare persino le denunce formalmente presentate e documentate. Ma anche...
INSABBIAMENTI: SE SUCCEDE A LORO, FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI !!!!!
Quando la legge non è uguale per tutti.
Denunce fondate presentate a Potenza contro i magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto: nessuna condanna per i denunciati, nessuna calunnia da parte dei denuncianti !!!!
Il Gip presso il Tribunale di Potenza ha disposto l’archiviazione della denunzia presentata dal ministro per gli Affari Regionali, Raffaele Fitto, contro il procuratore della Repubblica di Brindisi, Marco Dinapoli, per violazione del segreto d’ufficio. La denuncia ipotizzava una presunta divulgazione di notizie riservate compiuta da Dinapoli quando questi era procuratore aggiunto a Bari e coordinava il pool di magistrati che indagava sui reati contro la pubblica amministrazione.
L’ipotesi di violazione del segreto riguardava anche gli altri tre magistrati del pool barese (Roberto Rossi, Lorenzo Nicastro e Renato Nitti), che ha indagato su Fitto per fatti che risalgono a quando il ministro era presidente della Regione Puglia.
Già nel giugno 2010 vi furono nuovi colpi di scena nell’ambito dell’inchiesta delle Procure di Bari e Trani sulle ormai note fughe di notizie. Quattro magistrati sarebbero stati intercettati mentre parlavano con giornalisti rivelando notizie relative ad indagini in corso. Ad avere il telefono sotto controllo sono però i cronisti: scopo degli inquirenti è quello di stanare le loro fonti.
L’archiviazione, disposta con ordinanza il 23 luglio 2010. Fitto aveva lamentato che “la diffusione alla stampa di notizie riservate costituisca la regola seguita dai predetti magistrati” sostenendo inoltre la sussistenza di “una vera e propria emorragia di notizie dalla Procura di Bari verso alcuni organi di stampa".
IL LEGALE DEL MAGISTRATO: DENUNCIA INFONDATA.
L'avvocato Gorini riferisce che il Gip di Potenza, su richiesta del pm e nonostante l’opposizione della difesa del ministro, “ha ritenuto quest’ultimo non legittimato a proporre opposizione non essendo persona offesa dal reato e, nel merito, ha escluso la sussistenza del reato di violazione del segreto di ufficio, in quanto quasi tutte le notizie oggetto di pubblicazione non erano coperte da alcun segreto e, limitatamente ad un’unica notizia illecitamente divulgata, ha escluso ogni e qualsiasi coinvolgimento di Dinapoli e degli altri pm denunziati rigettando le richieste di ulteriori indagini sollecitate dal denunciante”. L'avvocato Gorini riferisce, inoltre,che Fitto “aveva presentato molteplici esposti diretti a varie autorità, nei confronti dei magistrati in servizio presso la Procura di Bari, tra cui il dott. Dinapoli, che lo avevano inquisito”. “Nel marzo 2009 aveva anche ottenuto dal ministro della giustizia l’apertura di una inchiesta amministrativa sull'operato dei predetti magistrati con l’invio a Bari di un gruppo di ispettori, fra cui il vicecapo dell’ispettorato generale”. Gorini rileva, inoltre, che nessun rilievo formale è stato mai fatto dal ministro della giustizia in seguito a quella ispezione nè nei confronti di Dinapoli nè degli altri magistrati. Nel maggio 2009 il tribunale civile di Lecce aveva rigettato una richiesta di risarcimento danni (per un milione di euro) proposta da Fitto sempre nei confronti di Dinapoli, per il contenuto dell’intervista rilasciata dal magistrato al quotidiano 'la Repubblica'. Il Tribunale aveva ritenuto “del tutto infondata” la richiesta e condannato Fitto al pagamento delle spese processuali.
LEGALE MINISTRO: MURO GOMMA.
"In seguito alla pubblicazione di notizie riservate di carattere penale, erano stati chiesti accertamenti per scoprire gli autori di tali rivelazioni. Il gip, pur individuando precise responsabilità penali per la pubblicazione non consentita di atti giudiziari, si è dovuto arrendere dinanzi alla difficoltà delle indagini e al muro di gomma innalzato dal silenzio dei giornalisti”. Lo afferma l'avv. Francesco Paolo Sisto, difensore del ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, commentando in una nota il provvedimento del gip del Tribunale di Potenza. “Come al solito, quindi – aggiunge il legale – non è stato possibile scoprire i responsabili. Un film già visto, troppe volte. I giornalisti tacciono, le indagini, se e quando effettuate, non servono allo scopo”. “In merito poi alla richiesta di risarcimento danni avanzata da Raffaele Fitto al Tribunale di Lecce per l’intervista al dott. Marco Dinapoli pubblicata il 22 giugno 2006 da 'Repubblica' - prosegue Sisto – va precisato che, singolarmente, nel corso dell’istruttoria di quel processo, il giornale non fu in grado di provare la genuinità dell’intervista, assumendosene conseguentemente tutta la responsabilità e liberando il dott. Dinapoli da ogni onere; il Tribunale di Lecce, quindi, non solo non ha rigettato la richiesta di Raffaele Fitto, ma, piuttosto, il 16 maggio 2009, l’ha accolta, condannando 'La Repubblica', a risarcire a Raffaele Fitto 63 mila euro, ritenendo diffamatorio il contenuto dell’intervista stessa”.
Lecce come Potenza.
La seconda sezione penale del Tribunale di Lecce ha assolto "perchè il fatto non sussiste" l'ex presidente aggiunto della sezione gip del Tribunale di Bari, Piero Sabatelli, dalle accuse di rivelazione del segreto d'ufficio e accesso abusivo al sistema informatico della Procura della Repubblica barese. I fatti contestati risalgono al 2004. Lo ha reso noto il difensore del magistrato, avvocato Mario Guagliani. Sabatelli, che è attualmente in servizio presso la sezione lavoro della Corte d'Appello di Bari, era imputato con due segretarie e altre quattro persone che sono state tutte assolte. Secondo l'accusa (sostenuta dalla procura di Lecce competente per i procedimenti relativi ai magistrati in servizio nel distretto della Corte d'appello di Bari), Sabatelli e le sue segretarie, dopo aver consultato il registro generale della Procura di Bari, avrebbero rivelato a terzi notizie coperte dal segreto d'ufficio in relazione all'andamento delle inchieste sulle cooperative romana e barese La Cascina (quest'ultima aveva portato nell'aprile 2003 all'esecuzione di dieci provvedimenti cautelari) e La Fiorita. L'accusa, sostenuta dal pm Valeria Mignone, aveva chiesto la condanna ad un anno di reclusione.
“Roba nostra. Storia di soldi, politica, giustizia nel sistema del malaffare” (Il Saggiatore), libro di Carlo Vulpio.
"Bisogna far sistema". Questa ricetta, con cui in genere le economie decollano e i paesi si sviluppano, trova da noi un'applicazione tipicamente all'italiana. Consiste nella capacità inesauribile di stabilire reti di complicità e connivenze tra politici, esponenti professionali e istituzionali, faccendieri e malavitosi, con un unico scopo: saccheggiare i beni e le risorse pubbliche. Anche grazie alle rivelazioni emerse dalle inchieste del pm Luigi de Magistris e alle vicende del giudice Clementina Forleo, Carlo Vulpio punta l'attenzione sul sistema meridionale del malaffare, dove i partiti-famiglia sono macchine oleatissime con cui si smistano i fondi nazionali ed europei, si assegnano gli appalti, si decide la fortuna o la sfortuna nelle carriere pubbliche, a cominciare dalla magistratura. E mette in primo piano le vere forze che "fanno girare" il paese, condannandolo all'inefficienza dei servizi, agli scempi ambientali e al declino inarrestabile della sua economia. Di queste forze, dopo le scoperte pionieristiche del pool di Milano, "Roba Nostra" offre la radiografia più aggiornata. Nuovi capibastone politici, tangentisti della prima e della seconda Repubblica, massoni riuniti in fantasiose logge, affaristi devoti della Compagnia delle Opere, clan familiari che sperimentano le tecniche più spietate per garantirsi il controllo di tutto ciò che è pubblico in intere regioni: dalla sanità all'istruzione, ai cosiddetti incentivi per lo sviluppo.
Il libro di Carlo Vulpio, “Roba Nostra” edito da “Il Saggiatore” è un vaccino, molto forte, invasivo. Come ogni medicinale ha i suoi effetti collaterali. Che nel caso di questo libro si manifestano nel 99% dei casi. Nausea, forte e inarrestabile.
Vulpio, inviato del Corriere della Sera è uno tra quelli che ha seguito passo passo le inchieste della procura di Catanzaro portate avanti dal Pm Luigi De Magistris. Le ha seguite così da vicino che è stato incriminato assieme al Pm e ad altri giornalisti per associazione a delinquere finalizzata alla diffamazione a mezzo stampa. Lui, in particolare, per concorso morale. Capi d’accusa mai ipotizzati da quando esiste la Repubblica. Ma torniamo al libro.
Vulpio parte da una premessa che poi è l’intuizione dalla quale partono le inchieste Why Not e Poseidon, le due sottratte a De Magistris: dimenticate Tangentopoli, o almeno quella delle mazzette, quelle dei soldi sporchi che passano di mano in mano, e che magari alla fine finiscono in un cesso. Storia vecchia. Oggi la nuova Tangentopoli si basa su fondi pubblici, soprattutto europei, che non arrivano in Italia e poi vengono spartiti, ma hanno già il timbro di appartenenza quando partono da Bruxelles.
Chi prova a scoperchiare questo sistema politicamente tacito e trasversale è proprio il Pm campano, che con perfetta coscienza va incontro alla “profezia Chiaravalloti” (ex presidente della regione Calabria, premiato con la presidenza dell’Authority) intercettato mentre parla con la segretaria: “Lo dobbiamo ammazzare… no… gli facciamo le cause civili per il risarcimento danni e affidiamo la gestione alla camorra… Vedrai, passerà i suoi anni a difendersi”. Chiaravalloti, lungimirante, voto 9.
Il libro è un’ottima chiave di lettura per capire su cosa davvero stava indagando De Magistris prima di essere esautorato d’ufficio, e soprattutto perché fosse fisiologica una simile fine per quelle inchieste: fare luce su questi traffici di denaro pubblico avrebbe significato far saltare i piani alti della politica e della magistratura.
Vulpio ricompone pazientemente ogni singolo tassello di un puzzle che alla fine sviluppa uno scenario da golpe: magistrati che fanno parte di comitati d’affari e acquistano proprietà da costruttori che nel frattempo stanno indagando, tecnici e funzionari che collaborano con il Pm (Gioacchino Genchi, il mago delle tecnologie investigative, il maresciallo Pasquale Zacheo, insostituibile archivio vivente, il prototipo del Bellodi di Sciascia) vengono trasferiti e viene loro revocato l’incarico, il tutto in un habitat in cui la massoneria ha gli uomini giusti nei posti strategici.
Grande spazio, naturalmente, all’inchiesta regina, Why not, che ruota attorno all’uomo del destino, Antonino Saladino, amico di tutti, di tutti quelli che stanno al potere, si intende. Vulpio non dimentica di occuparsi di Toghe Lucane, l’unica inchiesta rimasta in mano a De Magistris (ma c’è tempo anche per quella), che indaga su un comitato d'affari di politici, magistrati, avvocati, imprenditorie funzionari che avrebbe gestito grosse operazioni economiche in Basilicata.
Nel libro vengono raccontati degli episodi che a prima vista non c’entrano nulla con la storia giudiziaria che si dipana tra Lucania, una volta Felix oggi Appetix, e la Calabria. Come quella dei “fidanzatini di Policoro”, in Basilicata, apparentemente morti in un incidente poi diventato duplice omicidio, causato forse dalla paura che la ragazza raccontasse di festini hard a base di coca ai quali partecipavano magistrati e politici. Anzi, ormai è piùche un sospetto. Pagine e pagine dedicate alla “collega ideale” di Luigi DeMagistris, Clementina Forleo, l’unica scesa veramente in campo per difendere il collega dalla canea che lo stava delegittimando. E l’unica, che assieme a DeMagistris sta difendendo l’autonomia della magistratura, mentre altri colleghi sono sazi e soddisfatti del tacito accordo Mastelliano che accontenta tutti con posti al Ministero e favori amichevoli.
Carlo Vulpio racconta i fatti inediti delle devastazioni alle proprietà della famiglia Forleo in Puglia mentre Clementina si occupava di scalate a Milano: la villa demolita, il raccolto dato alle fiamme, e ultimo, lo strano incidente in cui morirono i suoi genitori. Cose che il giudice, che secondo il Csm soffre di vittimismo, non ha mai raccontato.
E’ un libro pieno di circostanze, di date e di fatti, che si leggecome un romanzo ma ha la struttura della migliore inchiesta giornalistica.
Cosa rimane alla fine? Carlo Vulpio dice che il pessimismo del libro è superato da alcuni casi di speranza concreta. E’ difficile credergli, ma lui è sincero. Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”.
E’ un libro da comprare, leggere e regalare. Perché il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.
Processato per diffamazione a mezzo stampa il presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”, perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud Africa) riporta le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia, vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti.
Si apre a Potenza il processo a carico del Dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”.
L’accusa: diffamazione a mezzo stampa, su denuncia di un procuratore della Repubblica di Taranto.
La difesa: aver pubblicato i dati ufficiali del Ministero della Giustizia sul Foro di Taranto, le interrogazioni parlamentari, le richieste di archiviazione e gli articoli di stampa nazionale.
I dati ufficiali: Denunce penali presentate a Taranto 21.720, condanne conseguite 364.
Le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito.
Le motivazioni di una richiesta di archiviazione in cui si dubita della fondatezza delle accuse di una vittima di un concorso pubblico palesemente irregolare per conflitto di interessi del vincitore e, contestualmente, responsabile del procedimento concorsuale.
La richiesta di una auto-archiviazione per una denuncia in cui la stessa Procura richiedente era stata palesemente denunciata. Denuncia, oltretutto, iscritta falsamente a carico di ignoti.
Articoli di stampa: Giudice scriveva sentenze con gli avvocati; ritardi colossali delle sentenze; Vigili Urbani, pronto intervento per il sindaco, 50 minuti; Vigili urbani, violenza sui cittadini; insabbiamenti alla Procura; giudici, cancellieri, avvocati e consulenti accusati di corruzione; ispettore di polizia denuncia i giudici che insabbiano, lo processano in un giorno; corruzione al Palazzo di Giustizia; concorsi forensi truccati ed impedimento del ricorso al Tar.
Articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.
La denuncia è stata presentata da un magistrato di Taranto, la cui procura ha già cercato, non riuscendoci, di far condannare il dr Antonio Giangrande per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farlo condannare per calunnia per la sol colpa di aver presentato per il proprio assistito opposizione provata avverso ad una richiesta di archiviazione; ovvero di farlo condannare per lesione per essersi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirgli di presenziare ad una sua udienza; ovvero farlo condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura. Sempre con impedimento alla difesa.
Il processo si apre a Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti a Taranto, rimaste lettera morta.
Il processo si apre a Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto.
Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto sequestro per violazione della privacy (censura tuttora vigente) un intero sito dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi contro il Giudice di Milano, Clementina Forleo.
Il processo si apre a Potenza, dove si è costretti a presentare istanza di ammissione al gratuito patrocinio, a causa dell’indigenza procurata dalle ritorsioni del sistema di potere, che impedisce l’esercizio di qualsivoglia attività professionale.
Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente, non accetta di subire e di tacere.
DELITTO DI MEREDITH KERCHER. AMANDA KNOX E RAFFAELE SOLLECITO. MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA?
L’ex fidanzato di Amanda Knox, Raffaele Sollecito, racconta in un libro la sua storia con la studentessa americana accusata, insieme a lui, di aver ucciso la studentessa britannica Meredith Kercher. Raffaele Sollecito, che insieme ad Amanda Knox è stato accusato e condannato in primo grado per l'omicidio di Meredith Kercher prima di essere assolto in secondo grado, ha scritto un libro, Honor bound. Sulla notte dell'omicidio Sollecito ammette di ricordarsi poco poiché lui e Amanda avevano fumato marijuana. Vi si raccontano le incomprensioni tra i due, l'effetto che gli fecero i ritratti confezionati dai tabloid. E poi Amanda che diventa 'Knoxy Foxy' dopo aver acquistato biancheria intima dopo l'uccisione dell'amica. Ricorda Sollecito di quando l'accarezzò e si baciarono, ignari che le telecamere dei notiziari televisivi li stessero riprendendo dall'altra parte della strada. Anche Amanda Knox sta scrivendo un libro, che uscirà successivamente. Ha firmato un accordo con Harper Collins per 4 milioni di dollari. Sollecito critica spesso la polizia per la gestione del caso, e secondo lui la vicenda si spiega con un furto andato male commesso da Rudy Guede, il terzo imputato condannato dopo aver patteggiato. Sollecito ricostruisce anche com'è nato il rapporto con Amanda, conosciuta dopo aver finito i suoi studi universitari in informatica ad un concerto di musica classica il 25 ottobre 2007, una settimana prima della morte della Kercher. Raffaele le ha chiese il numero di telefono e lei gli disse di tornare al bar dove lavorava più tardi, quella stessa notte. Alla fine del turno, scrive, fecero una passeggiata, si tennero per mano e ad un certo punto la baciò. Accettò l'invito a recarsi a casa sua e trascorse lì la notte. La coppia divenne inseparabile. Sollecito descrive anche la sua prima notte in carcere, dicendo che oscillava tra "grandi ondate di indignazione e un fastidioso senso di colpa". Era arrabbiato con se stesso per avere un ricordo fumoso della notte dell'uccisione, colpa della marijuana. Dopo l'assoluzione in secondo grado Sollecito ricorda di aver sentito "una gioia indescrivibile". Amanda quel giorno gli strinse la mano e gli disse che non vedeva l'ora di vedere la sua casa e gli amici. Ma la Knox, com'è noto, è subito tornata a Seattle. La coppia è stata imprigionata per la morte nel novembre 2007 ed in primo grado i due sono stati condannati rispettivamente a 26 anni e 25 anni. La corte d'appello li ha assolti il 3 ottobre 2011, data in cui sono tornati liberi. Nel libro, continua a sostenere la sua innocenza e quella della ex e cerca di ricostruire i malintesi che hanno provocato il coinvolgimento della coppia nel caso. Ma, per la prima volta, ammette di essersi comportato stranamente durante le indagini. Raffaele e Amanda, infatti, erano stati visti per le strade di Perugia mentre si scambiavano effusioni, con l’indagine della Polizia ancora in corso. La loro indifferenza aveva portato gli inquirenti sulle loro tracce. Maurizio Molinari sul “La Stampa” rendiconta da New York su un vicenda che mai in Italia si sarebbe potuta analizzare. Durante il processo di Perugia sull’assassinio di Meredith Kercher vi fu una trattativa segreta che vide il pubblico ministero Giuliano Mignini far conoscere, attraverso intermediari, alla famiglia di Raffaele Sollecito l’offerta di una pena più mite se il coimputato avesse avvalorato le accuse di omicidio nei confronti di Amanda Knox. A rivelarlo è lo stesso Sollecito nel libro «Honor Bound» che esce negli Stati Uniti per i tipi di Gallery Book, scritto assieme al giornalista inglese Andrew Gumbel, ex corrispondente dall’Italia per «Reuters» e «The Independent». Con le 270 di pagine «Honor Bound» Sollecito anticipa Amanda nella pubblicazione di un libro-verità sul processo e la maggiore novità si incontra quando racconta che dopo la conclusione del processo di primo grado «la mia famiglia venne a contatto con il mondo della giustizia di Perugia pieno di buchi e fughe di notizie» riuscendo a sapere «dietro le quinte» di «discussioni all’interno dell’ufficio del procuratore». Si resero conto che la determinazione di Mignini a far condannare Raffaele era solo tattica per tentare di far crollare Amanda Knox. Fu in tale contesto che «venne detto alla mia famiglia che Mignini non era interessato a me se non come canale per arrivare ad Amanda» fino al punto che «Mignini sarebbe stato disposto anche a riconoscere che ero innocente se gli avessi dato qualcosa in cambio, incriminando direttamente Amanda oppure semplicemente non sostenendola più» nella ricostruzione di quanto avvenuto. Si trattò di «discussioni» delle quali Sollecito, che si trovava in prigione, non venne messo al corrente mentre il protagonista fu lo zio, Giuseppe, che «venne contattato dall’avvocato di uno studio privato di Perugia a cui chiese cosa avrei potuto fare per mitigare la sentenza. L’avvocato gli disse che avrei dovuto accettare un accordo, confessando di aver avuto un ruolo minore, come ad esempio aver aiutato a ripulire la scena del delitto pur non avendovi avuto alcun ruolo» si legge a pagina 220. «Raffaele potrebbe ricevere una condanna da 6 a 12 anni - disse l'avvocato allo zio - ma poiché non ha precedenti penali avrebbe la condizionale e dunque uscirebbe senza fare altra prigione». La sorella di Raffaele, Vanessa, affermò che «non era moralmente possibile» accettare di confessare reati mai commessi ma la trattativa dietro le quinte andò avanti ed ebbe una seconda fase grazie a «un altro avvocato, che aveva rapporti stretti con Mignini che lo aveva perfino invitato al battesimo del figlio più piccolo in estate». Fu questo secondo legale che disse con franchezza alla famiglia Sollecito: «Credo che Raffaele sia innocente e Amanda colpevole». Il risultato fu di dare alla famiglia Sollecito l’impressione che il procuratore la pensava nella stessa maniera anche perché il legale si offrì di «intercedere con Mignini» pur «senza fare alcuna promessa». L’accelerazione della trattativa avvenne nell’estate del 2010 quando il padre di Raffaele sfruttò il canale informale fino al punto da ritenere possibile un incontro di Mignini e la vice Manuela Comodi con Giulia Bongiorno, difensore di Raffaele, per verificare la possibilità di un accordo. Ma quando la Bongiorno comprese di cosa si trattava «fu inorridita e minacciò di lasciare l’incarico perché una trattativa segreta costituiva la violazione della procedura legale». Fu allora che il padre di Sollecito fece marcia indietro e «si mostrò mortificato» pregando la Bongiorno di non lasciare la difesa e spiegando che non si era reso conto di cosa stava facendo. Raffaele Sollecito seppe tutto a posteriori ma la vicenda lo ha segnato molto perché, come confessa nel libro, «mi chiedo come sia possibile per un pm credere nell’innocenza dell'imputato e al tempo stesso tentare di convincere la giuria a condannarlo alla pena dell’ergastolo». La trattativa dietro le quinte viene indicata da Sollecito per dimostrare quali e quante furono le pressioni da lui ricevute per spingerlo a far crollare l’alibi di Amanda, come ad esempio avvenne durante i primi interrogatori subiti quando «mi chiesero in continuazione di ricordare i tempi della notte del delitto fino a farmi cadere in contraddizione con Amanda» o allorché l’arresto venne minacciato, schiaffeggiato e denudato. Oppure il tentativo della polizia di provare che la madre nel 2005 era morta «non di cuore ma per suicidio» per dimostrare «insanità mentale nella storia di famiglia» con l’intento di fiaccare la sua credibilità e dunque l’alibi di Amanda. Nelle ultime pagine Raffaele si sofferma sulla vacanza in America dopo l’assoluzione con l'incontro con Amanda a Seattle. «Mi sembrò di essere nella tana del Leone» scrive, facendo capire di aver preso atto che la storia d’amore era finita. Come dire, entrambi guardiamo avanti senza però dimenticare Perugia.
Intanto da Giuseppe Caporale su “La Repubblica” una denuncia: Che spreco quel video su Meredith e la Corte dei conti chiede i danni ai pm.
A Perugia, 182mila euro per la ricostruzione del delitto da mostrare in udienza. I magistrati contabili aprono un fascicolo per verificare se la spesa per il filmato sia stata congrua. I magistrati che al processo per l'omicidio Meredith Kercher avevano chiesto l'ergastolo per Amanda Knox e Raffaele Sollecito, sono ora sotto inchiesta contabile. E rischiano una condanna per danno erariale. Così, mentre i due giovani imputati - assolti in appello con formula piena "per non aver commesso il fatto" - attendono il definitivo pronunciamento della Cassazione, i loro accusatori, il sostituto procuratore di Perugia Giuliano Mignini e il pubblico ministero, Manuela Comodi, si trovano al centro di un'indagine della Corte dei conti dell'Umbria. Sotto la lente d'ingrandimento della procura contabile c'è una fattura da 182mila euro. Si tratta di una consulenza richiesta, nel corso del processo di primo grado, dai due magistrati perugini a una società specializzata nella video-grafica (la Nventa Id srl). Il risultato è stato un'animazione in 4D della dinamica del delitto, costruita in base alle tesi dell'accusa. Il filmato fu proiettato in aula durante la requisitoria della procura, ma non fu mai reso disponibile come copia agli avvocati della difesa. La scelta fu motivata dagli inquirenti che precisarono di voler "evitare le speculazioni dei media e l'utilizzo televisivo del filmato". Il video - rimasto dal primo grado in poi nei cassetti della procura di Perugia - dura circa venti minuti e ricostruisce il delitto partendo dal pomeriggio del primo novembre 2007. Il filmato inizia con alcune immagini tratte da Google Maps per poi, con il passare dei secondi, arrivare a inquadrare la casa del delitto. Mez, Amanda, Raffaele e Rudy Guede (l'ivoriano processato con rito abbreviato e, dopo l'assoluzione di Knox e Sollecito, unico condannato per l'omicidio) nel video sono mostrati in forma stilizzata, quasi da cartone animato. Meredith indossa una felpa Adidas (che sarà poi ritrovata in terra insanguinata) e un paio di jeans. Amanda compare invece con jeans e maglia a collo alto, Raffaele con una giacca sportiva. La scena dell'aggressione è stata riprodotta al rallentatore e per realizzarla sono state utilizzate anche diverse foto scattate sul luogo del delitto. Nel video si vede Mez sbattuta contro il muro e che cerca di reagire, compressa tra Amanda con il coltello in mano e Raffaele che tenta di strapparle il reggiseno. Nel filmino dell'orrore Mez, una volta aggredita, crolla sul fianco destro, subito dopo Amanda e Raffaele prendono i telefonini e fuggono, mentre resta in casa solo Rudy che, dopo la scena dell'aggressione, si porta le mani alla testa. Ed è sempre Rudy - secondo la ricostruzione - che prova ad aiutare Mez a rialzarsi e poi se ne va. Il filmato termina la mattina del 2 novembre con l'arrivo di Sollecito e Knox nella casa di via della Pergola, con le telefonate - fasulle, secondo l'accusa - di Sollecito al 112: l'audio integrale chiude il video del delitto. Ora il procuratore della Corte dei conti, Agostino Chiappiniello, con questa istruttoria sui costi del processo Meredith vuole capire se la fattura da 182mila euro per il video in 4D sia stata una spesa "congrua" e necessaria per le casse pubbliche, o se si sia trattato di spreco di denaro pubblico. Certo è che se la Cassazione dovesse confermare la sentenza d'appello il costo del video (182 mila euro) resterà a carico dello Stato, quindi dei cittadini.
Lunedì 3 ottobre 2011 Amanda e Raffaele: innocenti!!!
Da “Il Giornale”. Non ci sono vincitori, ma un solo sconfitto: la giustizia italiana. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati assolti dalla Corte d’assise d’appello di Perugia dall’accusa di aver ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher nel 2007 a Perugia. La gioia e le lacrime degli imputati, arrivati in aula visibilmente tesi. In primo grado i due erano stati condannati a 26 e 25 anni di reclusione. Ora sono stati scarcerati, dopo quattro anni di detenzione. Amanda Knox ha lasciato il carcere perugino di Capanne a bordo di una Mercedes di colore nero. La giovane americana ha passato la notte con la famiglia in un agriturismo e farà ritorno a casa a Seattle. Partirà stamani per gli Stati Uniti con un volo della British Airways. Raffaele Sollecito invece è tornato in Puglia, protetto da amici e parenti. "Rispettiamo la decisione dei giudici ma non comprendiamo come sia stato possibile modificare completamente la decisione di primo grado". Così la famiglia di Meredith Kercher, in una nota diffusa subito dopo la sentenza. "Restiamo comunque fiduciosi nel sistema giudiziario italiano sperando che la verità possa finalmente essere accertata". In carcere per il delitto, avvenuto quasi quattro anni fa, rimane quindi solo Rudy Guede, l’ivoriano che sta scontando 16 anni di reclusione. L’assoluzione degli ex "fidanzatini" era, in un certo senso, attesa, tanto che nel pomeriggio la famiglia Kercher ha tenuto una conferenza stampa in cui, pur ribadendo la propria fiducia nella magistratura italiana, ha lamentato il fatto che Meredith fosse stata "dimenticata" dai mass media. La studentessa inglese era stata uccisa nel capoluogo umbro la notte del 1 novembre 2007. In primo grado Amanda e Raffale erano stati condannati rispettivamente a 26 e 25 anni. Nel dibattimento in appello, le prove fornite dall’accusa erano state giudicate in più occasioni imprecise e non decisive. La Knox (condannata a tre anni già scontati per il reato di calunnia) e Sollecito hanno assistito in aula alla lettura della sentenza. La decisione dei giudici della corte d’Appello del tribunale di Perugia è arrivata dopo oltre 10 ore di camera di consiglio. Il presidente della Corte, Claudio Pratillo Hellmann aveva chiesto, prima di entrare in camera di consiglio, di evitare "fazioni" e "tifo da stadio". Amanda, già tesissima all’inizio della lettura della sentenza, è scoppiata in lacrime. Alla lettura della sentenza l’aula è esplosa in un boato. Amanda ha pianto e ha abbracciato la sorella, presente in aula con gli altri familiari. Grande la gioia anche di Raffaele. Entrambi si svegliano da un incubo durato 1.448 giorni. "Torniamo a casa, è finalmente finita...". Così Francesco Sollecito, il padre di Raffaele, alla domanda dell’Agi su quale sarà la prima cosa che la famiglia farà dopo questa sentenza assolutoria. "Lo ripeto, torniamo a casa. Raffaele è stato assolto per non aver commesso il fatto, non so se questo lo abbiate capito o meno. Voglio che sia chiaro, deve essere chiaro per tutti". "Amanda ha sofferto per 3 anni per un crimine che non ha commesso. Siamo grati ai legali per la loro assistenza. Loro non hanno solo difeso Amanda, ma le hanno voluto bene. Grazie a tutte le persone che si sono prese del tempo per analizzare il caso. Li ringraziamo per avere avuto il coraggio di portare alla luce la verità. Ora chiediamo che ci venga concessa la privacy per riprenderci da questo periodo che per noi è stato un incubo", ha dichiarato la sorella di Amanda Knox, Deanna, all'uscita dal tribunale di Perugia. "E' il verdetto che ci aspettavano, se la perizia fosse stata disposta anni fa non ci sarebbero stati anni di sofferenza e dolore". Così Giulia Bongiorno, avvocato di Raffaele Sollecito commenta la sentenza che ha assolto con formula piena il suo assistito e Amanda Knox. "Voglio porre l’accento sul risultato estremamente positivo- ha aggiunto - Un sentenza che non si è fermata all’apparenza e ha tolto ogni dubbio. C’è stato in questo caso un pieno e assoluto riconoscimento dell’estraneità di Raffaele Sollecito". "Gli Stati Uniti apprezzano lo scrupoloso riguardo con cui il caso (di Amanda Knox) è stato trattato dal sistema giudiziario italiano". Così il portavoce del dipartimento di Stato, Victoria Nuland ha commentato la notizia dell’assoluzione in appello di Amanda dall’accusa di omicidio della britannica Meredith Kercher. Nuland ha aggiunto che l’ambasciata a Roma continuerà a fornire assistenza consolare ad Amanda e alla sua famiglia. Il resoconto da “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 4 ottobre 2011. Non sono stati Raffaele Sollecito e Amanda Knox a uccidere Meredith Kercheril 1° novembre di quattro anni fa. Lo ha stabilito la Corte di assise di appello di Perugia che ha assolto il 27enne ingegnere di Giovinazzo e la 24enne studentessa di Seattle (Stati Uniti), che invece furono condannati rispettivamente a 25 e 26 anni in primo grado dalla Corte di assise dello stesso capoluogo umbro. Sollecito e Knox sono stati assolti per non aver commesso il fatto loro addebitato (omicidio aggravato, violenza sessuale, furto e simulazione di reato) mentre la sola Amanda è stata condannata a 3 anni di reclusione, già ampiamente scontati, per aver calunniato Patrick Lumumba, il gestore di un pub che fu arrestato, e poi rilasciato, a causa delle dichiarazioni della ragazza. La sentenza è stata letta dal presidente della Corte in un’aula nella quale il silenzio la faceva da padrone. Quando il presidente ha pronunciato la parola «assolve», Amanda è scoppiata in un pianto a dirotto mentre all'esterno del palazzo di giustizia scoppiavano liti e tafferugli tra innocentisti e colpevolisti. Quello di Perugia è stato un processo che si è giocato soprattutto sulla prova chimica legata alle tracce di Dna rilevate sui vari oggetto repertati dagli agenti della Polizia Scientifica sul luogo del delitto e in quelli frequentati dagli imputati. La Corte d'assise d'appello, accogliendo la richiesta formulata dai difensori dei due giovani, ha disposto la perizia sollecitata già in primo grado ma rifiutata allora dai giudici. Il nuovo esame, depositato lo scorso 29 giugno, ha ritenuto «non attendibili» gli accertamenti tecnici della Scientifica, per il Dna attribuito alla Kercher sul coltello considerato l'arma del delitto e a Sollecito sul gancetto di reggiseno indossato dalla studentessa inglese quando venne uccisa, su cui ci sono tracce genetiche «di più individui di sesso maschile»; ed inoltre «non si può escludere» che i risultati delle analisi possano derivare da contaminazione. Dopo aver stabilito di non poter ripetere le analisi sulle tracce, Stefano Conti e Carla Vecchiotti dell'Istituto di Medicina legale dell'Università La Sapienza di Roma hanno riassunto in 145 pagine le loro valutazioni sul lavoro della Polizia Scientifica. A loro avviso nelle indagini chimiche in via della Pergola «non sono state seguite le procedure internazionali di sopralluogo ed i protocolli di raccolta e campionamento». Riguardo al coltello i periti hanno sottolineato che «il reperto 36 è stato inserito, anche per le analisi, in un contesto ove erano già stati analizzati un numero rilevanti di campioni appartenenti alla vittima e pertanto non si può escludere che possa essersi verificata una contaminazione». Dopo avere esaminato i tracciati elettroforetici, Conti e Vecchiotti hanno concordato con la Scientifica nell'attribuire alla Knox la traccia di Dna sull'impugnatura del coltello (sequestrato in casa di Sollecito, allora suo fidanzato con il quale talvolta viveva) ma non alla Kercher quella sulla lama ritenuta indicativa di un campione «Low copy number» (rilevabile da pochissima quantità di «materia prima»). Per il gancetto di reggiseno, 165B, i periti non hanno invece condiviso la conclusione su un profilo genetico compatibile con l'ipotesi di una mistura di sostanze biologiche «solo» di Sollecito e della Kercher, parlando di «non corretta interpretazione degli elettroferogrammi ». Per gli esperti la componente maggiore è rappresentata da Dna della vittima, quella minore dal codice genetico «proveniente da più individui di sesso maschile». Conti e Vecchiotti hanno sottolineato quindi che il gancetto venne recuperato 46 giorni dopo l'omicidio. «Sul pavimento - hanno scritto -, ove era prevedibilmente a contatto con polvere ambientale composta in larga misura da cellule, peli, capelli di origine umana ». Che «in ambienti chiusi può contenere decine di microgrammi di Dna per grammo». «Un colpo secco alla prova scientifica» lo aveva definito Luciano Ghirga, uno dei difensori della Knox, ricordando che nelle 427 pagine della sentenza di primo grado, invece, si fa esplicito riferimento alla prova scientifica quando si sostiene che «i due fidanzati ferirono al collo Mez: prima Sollecito, dopo avere tagliato il reggiseno, provocando la ferita più piccola con un coltello che portava sempre con sé e quindi la Knox, che provocò la lesione maggiore con quello da cucina poi sequestrato in casa del giovane pugliese dopo un ultimo grido fortissimo di dolore». Ai difensori aveva risposto, in aula, il Pm Manuela Comodi chiedendo, senza successo, una nuova perizia, istanza poi riproposta in sede di conclusioni al termine della requisitoria (per una valutazione biostatistica del lavoro svolto dalla scientifica e per l'esame di una nuova traccia individuata sulla lama del coltello). Per il magistrato c'erano «dati oggettivi che rendono irrimediabilmente lacunosa» la perizia di Conti e Vecchiotti. E questo perché gli esperti avrebbero «omesso di riferire alla Corte» di macchinari in grado di leggere tracce anche minime di Dna sul coltello. «I periti - aveva sottolineato il magistrato - non hanno risposto ai quesiti ma lanciato dubbi».
Il processo di Perugia è un problema serio, al di là delle stesse vicende drammatiche, che hanno investito la vittima, i due giovani condannati ed un colpevole riconosciuto, che si proclama innocente.
Arriva fino a Hillary Clinton il caso di Amanda Knox, la ragazza americana giudicata “colpevole”, insieme a Raffaele Sollecito, dell’omicidio della studentessa britannica Meredith Kercher. La sentenza del tribunale di Perugia ha fatto il giro del mondo in poche ore: del caso si sono occupate testate come il Washington Post e il New York Times. L’America grida allo scandalo e proclama l’innocenza della studentessa di Seattle. La senatrice democratica Maria Cantwell cavalca l’onda: “È una sentenza oltraggiosa” dice, sostenendo che “non esistevano prove sufficienti per spingere una giuria imparziale a concludere, oltre ogni ragionevole dubbio, che Amanda fosse colpevole”. E interessa il Segretario di Stato Hillary Clinton. Che prima ammette: “Non ho un’opinione sul caso” perché “impegnata ad occuparmi di Afghanistan”. Poi apre. In una intervista al programma domenicale della rete televisiva Abc, This Week, assicura che sarà disposta a incontrare chiunque abbia dei timori riguardo al modo in cui è stato gestito il processo: “Ascolterò il senatore Cantwell, o chiunque altro abbia preoccupazioni” sulla gestione del processo.
Al di là di ogni ragionevole dubbio è chiaro come il pessimo lavoro fatto dai mezzi di informazione abbia nutrito la confusione di indagini approssimative, non solo nel caso Kercher, ma anche per quanto riguarda la signora Franzoni o Alberto Stasi.
Per tutti e tre quei processi, amatissimi dai salotti tv, dai cronisti di giornali in crisi di vendite e dagli assetati di gossip si è assistito ad un balletto di presunte prove scientifiche che cambiavano dalla mattina alla sera, di armi del delitto mai trovate, di computer analizzati in modo non sempre avveduto, di contaminazioni della scena del crimine, di plastici, biciclette e zoccoli negli studi televisivi, di ‘opinionisti’ all’oscuro dei fatti, ma messi a cercare colpevoli quasi fossero l’ispettore Derrick. Tre casi celebri, accomunati da elementi simili. Innanzitutto la confusione delle indagini: prove che vengono raccolte, poi cambiate, e mentre il processo è in corso. Coltelli, reggiseni, pigiami, biciclette, zoccoli e computer che entrano ed escono di scena come fondali intercambiabili invece che elementi certi di accusa. Oggetti totemici per il pubblico che, alla fine, mai si sono rivelati prove indiscutibili.
Anna Maria Franzoni, Amanda Konx, Raffaele Sollecito sono i casi noti di un universo molto più vasto di processi nei quali la certezza assoluta della colpevolezza non c’è. Decine di cittadini in carcere in attesa di giudizio, condannati per errore, assolti in secondo grado o in cassazione.
Invece di cercare le prove e le confessioni, le televisioni e le aule dei tribunali si sono riempite di discussioni su profili psicologici, comportamenti, preferenze sessuali, persino analisi sulle espressioni del volto o sul tipo di abbigliamento.
In mancanza di certezze, il processo italiano si è spesso rifugiato nella costruzione di teoremi: il colpevole non è colui che ha indiscutibilmente fatto il male, ma colui che avrebbe potuto o voluto farlo. Nasce qui l’uso e l’abuso dei «profili» psicologici, la depressione non ammessa di Annamaria a Cogne, le ossessioni nascoste di Alberto Stasi, e la violenza da baccanale fatta esplodere da Amanda. Tutti colpevoli in quanto «inclini ad esserlo», invece che indiscutibilmente provati tali dai fatti.
Anna Maria Franzoni doveva piangere al funerale del piccolo figlio assassinato, Alberto Stasi essere più discorsivo, Amanda Knox “morigerata” e Raffaele Sollecito “pentirsi”, secondo le bislacche valutazioni di non pochi ‘esperti’.
La sentenza del processo di Perugia per l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, che ha visto condannare la coinquilina Amanda Knox e il suo ex-fidanzato Raffaele Sollecito rispettivamente a 26 e 25 anni di carcere, non solo ha suscitato grande scalpore nel mondo anglosassone, ma ha anche acceso un dibattito su quanto i giudici italiani siano stati influenzati da fattori esterni nel trarre le proprie conclusioni e nell’esprimere il verdetto di colpevolezza.
Ne parla esplicitamente il giornale britannico della domenica “The Observer”, in un articolo di John Hooper, che scandaglia l’iter delle indagini e del dibattimento per dimostrare come la sentenza di primo grado sia, in realtà, poco risolutiva e, soprattutto, non chiarisca fino in fondo come siano andati i fatti.
Il dubbio di fondo insinuato da Hooper è che per «salvare la faccia» di chi ha condotto le indagini e, più in generale, dell’Italia come Paese in cui i delitti vengono risolti e puniti, i giudici e la giuria abbiano ignorato la sostanziale mancanza di prove decisive contro la Knox, influenzati dai racconti dei media che spesso l’hanno dipinta come una spietata assassina.
Macchie di sangue e dna, contraddizioni e omissioni sospette, non sarebbero stati, insomma, gli unici elementi a condizionare l’esame della corte e, forse, una loro analisi più approfondita sarebbe stata rimandata al processo d’appello, sempre, secondo Hooper, per salvare la reputazione del sistema di giustizia italiano. Se, infatti, la sentenza venisse rovesciata in appello, sostiene il giornalista, l’opinione pubblica non imputerebbe il fatto agli errori commessi durante le indagini o il processo, bensì alle «pressioni internazionali» che sono arrivate dagli Stati Uniti.
Del resto, l’accusa ha sì ricostruito minuziosamente le modalità dell’aggressione a Meredith Kercher (con l’ivoriano Rudy Guede che tentava di violentarla, mentre Sollecito la pungolava con un coltello con cui Amanda le avrebbe dato il colpo di grazia), ma non avrebbe accertato con precisione il movente, legato a un imprecisato odio della Knox nei confronti della coinquilina, forse scatenato dai differenti stili di vita (Meredith si sarebbe scocciata delle frequentazioni maschili dell’amica, che spesso portava uomini a casa) o da questioni economiche (dalla camera di Meredith potrebbero essere spariti dei soldi, un “furto” di cui avrebbe accusato la compagna).
Comunque sia, anche in questo caso, non sarebbe chiaro come mai Guede (peraltro giudicato con rito abbreviato, che avrebbe dovuto assicurargli uno sconto di pena) sia stato condannato a 30 anni di carcere, pur non essendo considerato il killer materiale, mentre Amanda (ritenuta la mano assassina e calunniatrice) soltanto a 26 anni.
Resta inoltre da capire come sia possibile, nel caso Sollecito e Knox siano davvero colpevoli, che nella camera dove la vittima è stata uccisa non ci siano impronte digitali dei due ragazzi, mentre abbondino quelle di Guede. Se i due ex-fidanzati avessero cancellato le proprie, infatti, inevitabilmente avrebbero fatto sparire anche quelle dell’ivoriano, mentre così non è stato. «Solo una libellula avrebbe potuto entrare in quella stanza senza lasciare impronte – ha sottolineato Giulia Bongiorno, avvocato difensore di Sollecito – e siccome i due ragazzi non sono certo libellule, bisogna concludere che siano innocenti».
In un caso ancora pieno di ombre e misteri, insomma, anche all’indomani della sentenza di primo grado, l’unica certezza che rimane è che ci sia ancora molto da scavare.
Esemplare è la presa di posizione di Fiorenza Sarzanini, giornalista del Corriere della Sera, che sul caso ha scritto un libro”Amanda e gli altri” di stampo colpevolista. “Per Amanda e Raffaele l'effetto della sentenza è stato comunque devastante. Il loro appello finale per proclamarsi ancora una volta innocenti ha commosso i giurati, però non è servito a convincerli. E questo nonostante i punti oscuri che il processo ha contribuito a evidenziare. Perché la maggior parte dei testimoni sono apparsi confusi, contraddittori. E perché gli elementi offerti dalle prove scientifiche non hanno fornito la certezza sulla presenza dei due giovani nella casa, come invece era accaduto per Rudy. Certamente hanno pesato le contraddizioni emerse nelle versioni fornite da tutti e due subito dopo l'omicidio, la mancanza di un alibi, la personalità complessa che entrambi hanno. Ora sperano nell' appello. Ma sanno bene che la strada per uscire dal carcere diventa sempre più impervia”.
«Ritengo che le cose siano andate in maniera prevedibile. Hanno avuto uno sconto della pena, la Knox è stata condannata a 26 anni, Sollecito a 25, invece che all'ergastolo. L'opinione pubblica li ha già condannati, ma spero che in appello la ragionevolezza consenta di condannare le persone che sono realmente colpevoli. Credo che la sentenza vada rispettata, ma non c'è una certezza delle prove sulle quali si basa, non c'è nulla». Lo ha detto il criminologo Francesco Bruno, commentando la sentenza. «Gli indizi che ci sono, sono dubbi. Indicano la loro presenza in quella casa, ma non indicano con certezza la loro partecipazione all'omicidio».
«Non abbandonerò mai mio figlio in carcere e lo difenderò finchè avrò forza». Francesco Sollecito, il padre di Raffaele, ha il piglio deciso e il cuore in subbuglio. «La Corte – dice il medico pugliese – ha sposato in toto la tesi dell’accusa, non si è spostata di una virgola. Come difese potevamo anche non esserci. E questo è davvero scandaloso. Hanno ragione certe posizioni americane ». Il padre di Raffale si chiede perchè i giudici non abbiano disposto le perizie alle quali avevano fatto riferimento i legali del figlio. «Sarebbero state dirimenti – afferma – perchè in questa vicenda ci sono ancora aspetti non spiegati. Perchè non abbiamo diritto a sapere cosa è successo?». Riguardo alla pena che è stata inferiore alle richieste dei pm (ergastolo con isolamento per Sollecito e per Amanda Knox), secondo Francesco Sollecito «la Corte dopo avere sposato le tesi dell’accusa ha dovuto almeno concedere le attenuanti generiche».
Quali sarebbero quindi i vostri «diritti negati»?
«L’analisi sul computer di Raffaele è stata compiuta dalla polizia postale con un software che rileva solamente l’ultima operazione effettuata. Ci è stata negata l’analisi del pc con un programma che leggesse l’intera memoria. Noi sosteniamo che all’ora del delitto Raffaele stava utilizzando il computer in casa sua. E c’è un altro computer di Raffaele, che la Corte ci ha negato di far ispezionare. Quindi ci sono stati negati esami più approfonditi sul dna trovato sulla scena del delitto, sul gancetto del reggiseno della vittima, sull’impronta e sulla compatibilità del coltello sequestrato con la ferita mortale».
OMICIDI DI STATO. IL CASO BIANZINO
L'arrivo di Rudra Bianzino al Congresso dei radicali italiani a Chianciano ha fatto riaprire un caso, almeno nella coscienza della società civile, che non ha ancora una verità giudiziaria. Rudra è il figlio più piccolo del falegname “morto di carcere” a Perugia in circostanze misteriose nell'autunno 2007, quando Aldo Bianzino fu trovato morto dopo la notte passata in carcere: presentava lesioni e un fegato “strappato”, come se avesse ricevuto un calcio. Ma dopo diversi mesi il tribunale di Perugia presentò richiesta di archiviazione: non c'era stato nessun omicidio per i magistrati e Aldo era morto per un aneurisma al cervello che i referti medici indicherebbero con chiarezza.
La prima volta però la richiesta di archiviazione – è l'ottobre del 2008 – viene respinta. Alla seconda ha fatto opposizione, con una articolata memoria, la famiglia che non si è arresa alla tesi incidentale. La famiglia di Aldo (la sua compagna Roberta è mancata qualche mese fa) non si dà per vinta e vuole che il caso continui a restare aperto anche alla luce di quanto continua ad emergere dopo la morte di Stefano Cucchi. I due casi sono infatti assai simili con la differenza che allora la vicenda di Aldo fu oscurata a Perugia dal caso di Meredith Kercher e la sua storia “minore” non registrò l'attenzione che, fortunatamente, si è ora riversata sull'oscura serie di fatti che circondano la morte di Stefano.
Tutti i media hanno parlato della terribile vicenda accorsa a Stefano Cucchi, arrestato dai carabinieri il 15 ottobre 2009 perché trovato in possesso di una modica quantità di sostanze stupefacenti e deceduto dopo una settimana in circostanze non ancora chiarite. Altrettanto scalpore hanno destato le immagini - diffuse dai mezzi d'informazione - del suo corpo e del suo volto, in cui erano ben visibili lesioni e traumi di grave entità. Mauro Casciari delle “Iene” di Italia 1 decide di occuparsi di un caso di cronaca analogo, quello di Aldo Bianzino, un falegname di 44 anni morto il 14 ottobre 2007 in circostanze ancora sconosciute. Due giorni prima del decesso, Aldo e la compagna Roberta, residenti a Capanne - nell'Appennino umbro marchigiano - vengono arrestati e portati presso il carcere di Capanne perché, in seguito ad una perquisizione, vengono trovate nella loro tenuta alcune piante di marijuana. La mattina del 14 ottobre Roberta viene scarcerata e solo in quel momento apprende della morte del marito. Tuttora non si sa niente sulle cause del decesso, quel che è certo è che al momento dell'ingresso in carcere il certificato medico dimostra che entrambi godevano di perfette condizioni di salute. Il medico legale nominato dalla famiglia assiste alla prima autopsia dichiarando che il corpo dell'uomo presentava lesioni al fegato, alla milza, al cervello e due costole rotte. Dell'argomento si era già interessato Michele Pietrelli, un collaboratore attivo sul blog di Beppe Grillo il quale aveva raccolto la testimonianza della moglie della vittima, scomparsa nel 2009, di cui le Iene mostrano il filmato. Un servizio di denuncia ma non solo; la coppia aveva un figlio che , dopo la morte della madre, vive con lo zio, tornato dalla Germania apposta per accudire il nipote e che, per questo, ha perso il suo posto di lavoro.
«In limine vitae» è scritto nella relazione finale dei due medici legali Luca Lalli e Anna Aprile. Le «evidenti lesioni viscerali di indubbia natura traumatica» che Aldo Bianzino riportava la mattina del 14 ottobre 2007, il giorno del suo oscuro decesso nel carcere di Capanne a Perugia, erano da collocarsi «in limine vitae». Letteralmente sulla soglia della vita, l’attimo tra la vita e la morte. Quelle lesioni, cioè il completo distacco del fegato, per la perizia ordinata dalla procura di Perugia sarebbero frutto di un disperato tentativo di rianimare Aldo in seguito a un aneurisma cerebrale. Per la famiglia la prova evidente di un pestaggio mortale. Nel limbo del «limine vitae» Aldo, che aveva quarantaquattro anni, pesava non più di 50 chili e faceva il falegname, è rimasto 22 minuti. Suo figlio Rudra, invece, due anni interi. Passati a combattere la morte che si è portata via, oltre al padre, anche la madre e la nonna, e a cercare la vita, la verità su Aldo.
Quando scende dall’autobus che lo riporta a casa, Rudra, per gli induisti «colui che allontana i dolori», ha una felpa bianca, un giaccone nero al braccio e due occhi che riflettono il colore del cielo. A Pietralunga sono otto gradi e piove leggero. Il paese è adagiato sopra il fianco di una collina. Dietro l’Appennino e le Marche, davanti l’Alta valle del Tevere e, sessanta chilometri più giù, Perugia. Lontana. Rudra ha sedici anni, frequenta con profitto il liceo scientifico di Umbertide ed è magro come un chiodo. Possiede un Ape 50 con il quale da casa raggiunge il paese e poi con l’autobus, dopo un’ora, la scuola. «Quel giorno ce l’ho scolpito nella mia testa» ricorda. Quel giorno, il 12 ottobre del 2007, un venerdì, arrivarono in cinque a casa dei Bianzino, un rudere ristrutturato in mezzo al nulla. Quattro poliziotti (tre uomini e una donna), un finanziere e un cane anti droga. Bussarono alle porta alle 6,30 del mattino. Cercavano 100 piante di marijuana che Aldo coltivava non distante dall’abitazione. Tra una fitta vegetazione andarono a colpo sicuro. «Mio padre si accusò subito». La polizia se lo portò via, assieme alla compagna Roberta Radici, la mamma di Rudra. Lui restò solo per tre giorni con la nonna novantenne. «La domenica sera mia madre tornò». Senza il compagno. Aldo era già morto, la mattina. Lo trovarono agonizzante nella sua cella di isolamento solo con una t-shirt bianca addosso. Colpito da un aneurisma due, forse nove, ore prima. «In verità quando lo soccorsero era già deceduto» dice l’avvocato Massimo Zaganelli, «il tentativo di rianimazione è una farsa».
Al cimitero di Pagialla, tra le querce dell’Appennino, Aldo è sepolto vicino a Roberta. L’uno di fianco all’altra, a terra, in fila. Sopra la tomba di Aldo una croce di legno, su quella di Roberta dei fiori gialli. Nonostante la venerazione per Sai Baba e l’India entrambi hanno avuto il rito cristiano per la sepoltura. «Mia madre è morta a giugno» dice Rudra. Di epatite «C». Era in lista per un trapianto. «Se non avessero ammazzato mio padre sarebbe ancora viva, di questo sono sicuro». È lei che si rivolse per la prima volta a Zaganelli, uno degli avvocati più in vista di Città di Castello, e quest’ultimo al professore Giuseppe Fortuni, docente di medicina legale all’Università di Bologna. Il quale eseguì, dopo molti giorni dalla morte, una perizia sul corpo di Aldo. Non l’unica per la verità. Aldo venne anche visionato, oltre che da Lalli e dalla Aprile, anche dal medico legale Walter Patumi incaricato dalla prima moglie Gioia Toniolo. Fu Patumi a parlare per primo di un pestaggio esperto. La perizia di Fortuni, famoso per aver seguito il caso Pantani, evidenziò un distacco totale del fegato in seguito a «pressione violenta». Dovuto a che cosa? Ai 22 minuti di massaggio cardiaco, decretò il rapporto ufficiale. Talmente violento da strappare il fegato, ma non abbastanza forte da incrinare neanche una costola. In 30mila autopsie, spiegò Fortuni, «mai visto un fegato devastato così da un massaggio cardiaco, sebbene la letteratura medica citi qualche caso». Rarissimo, tra l'altro, e riferito a persone ancora in vita.
Ma Aldo era vivo? Secondo il pubblico ministero Giuseppe Petrazzini, lo stesso che firmò gli atti di custodia cautelare proprio per Aldo e Roberta, era «in limine vitae». Tra la vita e la morte. Per questo ha avanzato ben due richieste di archiviazione. La prima è stata rigettata dal giudice per le indagini preliminari Claudia Matteini nel febbraio del 2008, la seconda l’11 dicembre 2009 davanti al gip Massimo Ricciarelli. Rudra ora abita nel rudere in mezzo al nulla con lo zio materno Ernesto tornato dalla Germania. Ernesto è in cerca di un lavoro e sta per prendere la patente. «Del civile non mi importa nulla» dice Rudra, «anche se ho bisogno di soldi» (Beppe Grillo ha raccolto 68mila euro vincolati in un conto corrente). «Però mi devono spiegare perché mio padre era nudo, perché hanno coperto le altre celle per non farlo vedere al momento del suo passaggio, perché non è stata fatta una perizia all'interno della sua cella. Lo Stato mi deve dire come ha fatto mio padre a morire». E farlo finalmente uscire dal suo limbo, dal suo «limine vitae».
Una lettera aperta del padre di Aldo Bianzino, ucciso nel carcere di Capanne, a Perugia nella notte tra il 13 e il 14 ottobre del 2007. Per chiedere ancora una volta verità e giustizia e ribadire che la morte di Aldo, come quella di Stefano Cucchi, ricade sullo stato.
“Il caso recente di Stefano Cucchi e, quello ancor più recente, di Giuseppe Saladino a Parma, hanno richiamato l’attenzione sui casi di Marcello Lanzi e di mio figlio Aldo Bianzino, anch’essi morti in carcere in circostanze tutte da chiarire (chissà quando e sopratutto se). Ora, volendo esaminare il caso di Aldo, bisogna precisare alcune cose.
Il pubblico ministero dott. Giuseppe Petrazzini, che aveva fatto arrestare Aldo e la sua compagna la sera del venerdì 12 ottobre 2007, è lo stesso magistrato che ha in carico le indagini sul suo successivo decesso avvenuto nella notte tra il 13 e il 14, Aldo era stato messo in cella di isolamento nel carcere Capanne di Perugia. Era stato visto da un medico, che l’aveva riscontrato sano e da un avvocato d’ufficio, col quale aveva parlato verso le 17 di sabato. Non sono disponibili registrazioni di telecamere su ciò che è avvenuto successivamente, né, dopo il decesso, la cella risulta sia stata isolata e sigillata, né che siano stati chiamati per un intervento i reparti speciali di indagine dei carabinieri. A detta degli altri detenuti del reparto, durante la notte Aldo aveva suonato più volte il campanello d’allarme ed aveva invocato l’assistenza di un medico, sentendosi anche, pare, mandare al diavolo dall’assistente del corridoio, la guardia carceraria poi indagata. Fatto sta che verso le 8 del mattino di domenica le due dottoresse di turno, arrivate a svolgere il loro turno di servizio, trovarono il corpo di Aldo, con indosso solo un indumento intimo (e siamo a metà ottobre, non ad agosto). I suoi vestiti si trovavano nella cella, accuratamente ripiegati (cosa che Aldo, in 44 anni, non aveva fatto mai). Le due dottoresse provarono di tutto per rianimarlo, ma alla fine dovettero desistere: Aldo era morto. L’autopsia, svoltasi il giorno dopo, diede risultati controversi: si parlò prima di due vertebre poi di due costole, rotte, poi tutto fu negato. Di certo ci fu un’emorragia celebrale e un’altra di 200 ml. al fegato. Segni esterni di percosse o violenze, nessuno (i professionisti sanno come si fa, C.I.A. insegna).
Ora, l’emorragia cerebrale è stata imputata ad un aneurisma, quella epatica ad un maldestro tentativo di respirazione artificiale, che le due dottoresse respingono nel modo più assoluto (e ci mancherebbe, si tratta di medici, mica di personale non qualificato), ma nessun altro ha affermato d’aver fatto tentativi in tal senso. Ora, può accadere quando si è nelle mani delle «forze dell’ordine», lo abbiamo purtroppo visto in molti casi, basterebbe pensare al G8 di Genova, e magari al colloquio recentemente intercettato nel carcere di Teramo (i detenuti non si massacrano in reparto, ma sotto!). L’emorragia cerebrale potrebbe benissimo essere stata la conseguenza di uno stress per colpi ricevuti in altre parti del corpo, immaginatevi l’angoscia e il terrore di una persona in quelle condizioni. In ogni caso credo proprio di poter dire in tutta coscienza che Aldo è stato assassinato in un ambiente violento e omertoso, del quale non si riesce neppure a sapere i nomi del personale presente quella notte nel carcere. Quanto al dott. Petrazzini, mi sembra che dignità gli imporrebbe di passare ad altri il suo incarico, date le omissioni, invece di insistere come sta facendo, per ottenere l’archiviazione del caso.
Ma i veri assassini sono coloro che hanno voluto ed ottenuto una legge sulle «droghe» come l’attuale, persone che nella loro profonda ignoranza, considerano in modo globale, senza distinzioni. Una legge fascista e clericale, da stato etico e peggio, da stato che manda in galera (con le conseguenze che si sono viste) il poveraccio che coltiva per uso personale qualche pianta di cannabis, mentre, se la droga (quella pesante, cocaina o altre sostanze) circola nei festini dei potenti, non succede nulla. Vorrei dire comunque che un paese che considera delitto la detenzione e l’uso di droghe, magari solo marijuana, o l’essere «clandestino», pur non avendo colpe e quasi sempre per sfuggire a condizioni di vita impossibili, uno stato che avendo preso in custodia delle persone, è responsabile a tutti gli effetti delle loro vite e della loro salute, uno stato che non riconosce come reato gravissimo la tortura, uno stato che difende i forti e i potenti e non i deboli, è uno stato che non può ritenersi civile e non può chiedere ai suoi cittadini (o sudditi?) di amare la propria patria." In fede Giuseppe Bianzino
OMICIDI DI STATO. GIUSEPPE UVA.
Varese, il caso di Giuseppe Uva "Massacrato di botte in caserma".
L'uomo fu picchiato per ore da poliziotti e carabinieri e morì: la denuncia di Manconi. Era stato fermato ubriaco alle tre del mattino del 14 giugno 2008.
Un altro dramma inquietante dopo quelli di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi.
Un ragazzo che chiama il 118 per chiedere un'ambulanza mentre sente le urla del suo amico nella stanza accanto, all'interno della caserma dei carabinieri di Varese. "Lo stanno massacrando" dice a bassa voce. Una "anomala presenza di carabinieri e poliziotti in quella caserma di via Saffi, dove per tre ore il fermato subisce violenze sistematiche e ininterrotte". Gli indumenti sporchi di sangue, le ecchimosi sul volto e su altre parti del corpo, le macchie rosse tra pube e ano. Il ricovero in ospedale alle 5 del mattino con la "somministrazione di medicinali incompatibili con lo stato di ubriachezza dell'uomo".
Dopo aver reso pubblico il caso di Stefano Cucchi, la denuncia di Luigi Manconi, presidente di "A buon diritto" ed ex sottosegretario alla Giustizia, tenta di far luce sulla storia di Giuseppe Uva, 43 anni, fermato ubriaco alle 3 del mattino il 14 giugno 2008, a Varese. Lui e un suo amico, Alberto B., vengono portati in caserma. Qui Uva, ha ricostruito Manconi, "resta in balìa di una decina di uomini tra carabinieri e poliziotti all'interno della caserma di via Saffi". Il suo amico, nella stanza accanto, sente due ore di urla incessanti, chiama il 118 per far arrivare un'ambulanza. "Stanno massacrando un ragazzo" sussurra all'operatore del 118, che chiama subito dopo in caserma e chiede se deve inviare davvero l'autoambulanza. "No guardi, sono due ubriachi che abbiamo qui - risponde un militare - ora gli togliamo i cellulari. Se abbiamo bisogno vi chiamiamo noi".
Ma è invece alle 5 del mattino che da via Saffi parte la richiesta di un Trattamento sanitario obbligatorio per Uva. Trasportato al pronto soccorso, viene poi trasferito al reparto psichiatrico dell'ospedale di Circolo, mentre il suo amico viene lasciato andare. Sono le 8.30. Poco dopo due medici - gli unici indagati dell'intera storia - gli somministrano sedativi e psicofarmaci che ne provocano il decesso, perché sarebbero incompatibili con l'alcol bevuto durante la notte.
"Un caso limpido di diritti violati nell'indifferenza più totale - denuncia ora Luigi Manconi - . Infatti, per quanto accaduto all'interno della caserma si sta procedendo ancora contro ignoti". "Al di là dei primi interrogatori nei giorni successivi di poliziotti e carabinieri, non è stato più sentito nessuno" denuncia l'avvocato Fabio Anselmo, lo stesso che ha squarciato il velo di omertà nelle istituzioni su altri casi di violenze di appartenenti alle forze dell'ordine, come quelli di Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi.
Anche nella storia di Giuseppe Uva e nella sua ultima notte di vita, c'è ancora molto da chiarire. Gli interrogativi dei suoi parenti sono ancora tanti: perché in una caserma si riuniscono carabinieri e poliziotti? Come si spiegano le ferite e i lividi sul volto, il sangue sui vestiti, la macchia rossa tra pube e regione anale? Perché l'autopsia non ha previsto esami radiologici per evidenziare eventuali fratture? "Sono passati quasi due anni e non abbiamo avuto ancora giustizia - dice in lacrime Lucia Uva, sorella di Giuseppe - . Non sappiamo ancora perché nostro fratello è morto: se per le botte o per i farmaci somministrati in ospedale. Aspettiamo che un giorno qualcuno dica la verità".
OMICIDI DI STATO. FEDERICO ALDROVANDI.
Mai dimenticare la saggezza dei proverbi! Come quello che dice «scherza coi fanti ma lascia stare i santi» e che dovrebbe mettere in guardia dalla difficoltà di raccontare (e rappresentare) adeguatamente la verità storica sui fatti di cronaca che diventeranno storia. Da piccolo mia madre mi ripeteva spesso questa massima popolare “Scherza coi fanti, ma lascia stare i santi” e come tutte le massime anche questa contiene una filosofia spicciola, ma vitale; ciò che è “Santo” deve essere rispettato.
Vuoi fare satira sul Presidente del Consiglio o sui parlamentari o sui politici eletti dal popolo? Lo puoi fare.
Vuoi offendere a piacimento il Presidente del Consiglio ed i parlamentari o i politici eletti dal popolo? Lo puoi fare.
Puoi criticare l'operato del magistrato, che palesa pecche ed illogicità, foriero di errori giudiziari, ingiuste detenzioni, omessa giustizia e comunque evidente ingiustizia, esercitato nella veste di funzionario pubblico che ha vinto un concorso all'italiana? No. E' lesa maestà!!
Per questo chi santifica i magistrati e pende dalle loro labbra o dalle loro veline, vigendo l’impunità per loro riguardo la violazione del segreto di ufficio, è immune da qualsivoglia ritorsione.
Non è così per chi, invece, decide di raccontare i fatti al di là della verità giudiziaria e della cultura ideologica imperante. Esercitare in Italia il diritto di critica e di cronaca è pericoloso.
Antonio Giangrande, scrittore ed autore della collana editoriale “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” è subissato di denunce per diffamazione a mezzo stampa e qualcuna, anche, per calunnia da parte di quei magistrati un po’ permalosi e megalomani che si sentono lesi nella loro maestà. Diffamazione attribuita al Giangrande per articoli scritti da altri e pubblicati autonomamente anche da giornali esteri (fino in Sud Africa) riferiti all'orinaria malagiustizia italiana o a risibili motivazioni di archiviazioni di denunce penali. Molti di questi magistrati sono gli stessi che hanno insabbiato le denunce di Giangrande contro i loro colleghi magistrati che insabbiano in terra di mafia. Peccato però che nessuna condanna sia conseguita, in quanto i medesimi denuncianti mai si sono presentati in udienza, causando il naturale proscioglimento.
Ma questo non è un fatto isolato e riferibile esclusivamente a chi è emarginato per il sol fatto che racconta ciò che vede e per questo accusato di mitomania o pazzia.
In giro ci sono altri mitomani o pazzi.
Dal “La Stampa”: Rinviata a giudizio per aver criticato il primo pm che indagò sulla morte violenta del figlio. Eppure, non fosse stato per la sua ostinazione di madre, forse le indagini sulla fine di Federico Aldrovandi si sarebbero impantanate in quell’incredibile versione ufficiale per cui il ragazzo era deceduto in seguito all’assunzione di droghe, durante un controllo di polizia particolarmente movimentato. Invece Patrizia Moretti non si arrese, aprì un blog che attirò l’attenzione di tutta l’Italia sulla vicenda e di fatto riuscì a imprimere una svolta decisiva all’inchiesta: quattro poliziotti furono poi condannati in primo grado per eccesso colposo in omicidio colposo del giovane 18enne, morto per le botte prese mentre era ammanettato a terra. Non solo, lo Stato ha riconosciuto alla famiglia un risarcimento danni da due milioni di euro in cambio dell’impegno a non costituirsi parte civile.
Ma ora, il gup del tribunale di Mantova ha deciso di processare la madre di Federico per diffamazione a mezzo stampa. Insieme a lei sono stati rinviati a giudizio due giornalisti e il direttore del quotidiano La Nuova Ferrara. E così, con una capriola che ha il sapore del paradosso giudiziario la donna che era riuscita a ottenere giustizia per suo figlio ora si ritrova lei a subire un processo. La frase che le è costata l’incriminazione, pronunciata nel gennaio 2006 quattro mesi dopo la morte di Federico, quando le indagini ancora languivano, è questa: «È un fascicolo ancora vuoto». Patrizia Moretti si prepara a una nuova battaglia in tribunale: «Non avrei mai immaginato di ritrovarmi imputata per aver criticato chi non aveva fatto le prime indagini sulla morte di mio figlio. I giudici hanno deciso per il processo e noi lo faremo, e così come lo avevano fatto a Ferrara a Federico ora lo faremo noi al magistrato che mi ha denunciata». Si chiama Maria Emanuela Guerra la pm che condusse la prima parte dell’inchiesta prima di rinunciare all’incarico e che ha ritenuto lesive quelle dichiarazioni. La Moretti da parte sua non si aspettava né che il magistrato andasse a fondo nella querela né, tantomeno, che ieri il gup decidesse per il rinvio a giudizio: «Abbiamo prodotto documenti che dimostrano che le mie parole sono state dette in tribunale, durante due dei processi per l’omicidio di Federico, e che sono sancite in due sentenze. Eppure il Gup ha disposto il rinvio a giudizio». E’ addolorata ma non ha perde la sua determinazione: «Non mi tiro indietro. Io della dottoressa Guerra non volevo più sentir parlare, ma se mi tira per i capelli ci sarò, e allora dovrà dire lei perché ha aperto il fascicolo solo il 16 gennaio, perché non è andata sul posto e perché non ha sequestrato i manganelli». Il legale della Moretti, Fabio Anselmo, aggiunge che la pm «sarà il nostro principale teste a discarico” e ricorda come, stranamente, il docufilm del giornalista Rai Filippo Vendemmiati – «E’ stato morto un ragazzo», che a maggio sarà anche premiato dal presidente Napolitano -, pur riportando le stesse parole non sia stato oggetto di alcuna denuncia. «Tutto ciò è pazzesco ma a questo punto non vedo l’ora di andare a processo, così verrà fuori tutto quanto – aggiunge la madre di Federico – La cosa che mi dispiace è che l’udienza è stata fissata per il 1˚ marzo 2012…».
Aldrovandi, stampa alla sbarra. Ricordate il ragazzo di 18 anni ucciso da tre poliziotti a Ferrara nel 2005? Il giornale della città aveva sostenuto quella che poi è emersa come la verità, criticando il giudice che aveva fatto le prime, inconcludenti, indagini. E ora il suo direttore è sotto processo. Ecco che cosa scrive al “L’Espresso”.
Dal direttore del quotidiano “La Nuova Ferrara” riceviamo e volentieri pubblichiamo:
Caro direttore, è sempre bello tornare nella propria città. Non sarà così, però, il primo marzo: in Tribunale a Mantova, con alcuni colleghi, sono imputato in un processo per diffamazione. Dove sta la notizia? Il fatto è che siamo alla sbarra per aver dato voce a Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi. Una donna coraggiosa che, grazie al suo blog, ha fatto emergere la verità sulla morte del figlio di 18 anni: non per un'overdose, ma per le conseguenze di un fermo di polizia. Quattro poliziotti sono stati condannati in primo e secondo grado. Ma questa è una guerra che non finisce mai, perché dall'altra parte della barricata c'è una pm, Maria Emanuela Guerra, che ci ha mitragliato di querele ogni volta che la Moretti parlava dell'inchiesta e dei suoi lati oscuri. Ne ho collezionato un pacco, che conservo sulla scrivania. Alla Guerra, prima titolare delle indagini, è stato rimproverato da più parti di non essere andata sul luogo in cui morì Federico il 25 settembre 2005 fidandosi della versione dei poliziotti. Poi abbandonò l'inchiesta, che in mano ad un altro pm, Nicola Proto, subì un'accelerazione decisiva. Nella motivazione della sentenza d'appello di Bologna, il giudice Luca Ghedini scrive tra l'altro:«...Le indagini preliminari? Iniziate nella sostanza vari mesi dopo i fatti e in seguito alla sostituzione del primo pm (la Guerra)». Ma gli aspetti oscuri sono tanti. Tanti giornali e televisioni hanno raccolto le stesse testimonianze, sul caso Aldrovandi è uscito un documentario ("E' stato morto un ragazzo", di Filippo Vendemmiati) che ha vinto il David di Donatello. Ma la Guerra ha querelato sempre e solo noi. Inoltre, in vista dell'udienza penale del primo marzo a Mantova, si è costituita parte civile chiedendo al nostro giornale almeno 300 mila euro per i gravi danni al suo onore e al suo prestigio. Somma che si aggiunge al milione e mezzo di euro che chiede nel processo civile in calendario il 21 marzo al Tribunale di Ancona. Non manca la beffa: oltre al sottoscritto sono imputati il collega Daniele Predieri e un nostro ex collaboratore, Marco Zavagli, che non è l'autore dell'articolo contestato, scritto invece dalla giornalista Alessandra Mura. Un grossolano errore che abbiamo fatto notare nell'udienza preliminare a Mantova, senza successo. Per la Procura è uno pseudonimo. Ma nel mio giornale nessuno ne fa uso, semplicemente hanno scambiato gli autori di due articoli. Il legale della Guerra ha chiesto un rinvio dell'udienza: il primo marzo l'avvocato Flora ha una lezione all'Università di Firenze. Non sappiamo ancora se sarà accolta. Mi chiedo cosa succederebbe in caso di condanna: quello che per due Tribunali (Ferrara e Bologna) è verità, per un altro (Mantova) sarebbe diffamazione. Per la giustizia e la libertà d'espressione sarebbe la fine. Paolo Boldrini, direttore della 'Nuova Ferrara'.
DELLA SERIE: SUBISCI E TACI, SIAMO IN ITALIA, TERRA DI POETI, NAVIGATORI E TIRANNI!!
Omicidi di Stato: Caso Aldrovandi. La mamma: «Io imputata dopo la morte di mio figlio».
Ci sono storie che gelano il sangue. Di solito, sono storie che non si raccontano mai fino in fondo. Per non ferire o per non disturbare il manovratore.
Questa è la storia che scrive Andrea Scanzi su “La Stampa”.
Chi scrive ha il nervo (particolarmente) scoperto per le violenze di Stato. Per il sopruso della Legge. Per il manganello facile.
Chi scrive prova imbarazzo e disgusto, se pensa alla mattanza della scuola Diaz, alle torture di Bolzaneto (tutte impunite) e alla verità ufficiali che hanno reso più "accettabile" la morte di Carlo Giuliani.
Chi scrive prova terrore se pensa a quanto accaduto a Ferrara nella notte del 25 settembre 2005.
Le storie terribili vanno raccontate con leggerezza e precisione.
E' dunque oltremodo consigliabile "Zona del silenzio", di Checchino Antonini e Alessio Spataro. La prefazione, impeccabile, è di Girolamo Di Michele. Il libro, che riecheggia per disegni il grande Maus di Art Spiegelman, è uscito per Minimum Fax. Racconta l'omicidio di Federico Aldrovandi. E' tutto vero, al di là dei nomi (ironicamente) mutati di alcuni giornalisti, politici e quotidiani. E' un libro che racconta come per alcuni il "diverso" non sia che una zecca. Qualcosa da umiliare e ridicolizzare, nel nome della legge.
"Zona del silenzio" era il cartello in Via dell'Ippodromo a Ferrara, davanti al quale il ragazzo è morto. Non si saprà mai quando tutto è cominciato. Probabilmente una signora di Ferrara ha chiamato il 113 perché disturbata dalle urla di un ragazzo nella notte.
Quel ragazzo è Federico Aldrovandi, 18 anni.
Sono, più o meno, le 5 del mattino. Federico ha passato la serata con gli amici e ha chiesto di essere sceso lì. Ha bevuto, l'esame autoptico rivelerà presenza di eroina e ketamina. E' un aspetto decisivo: la polizia dirà che il ragazzo è morto di overdose, che urlava perché eccitato dal mix di alcol e stupefacenti. E' vero che il ragazzo aveva assunto droghe. Non è vero che la quantità era tale da giustificare un overdose: la ketamina, ad esempio, era 175 volte inferiore alla dose letale. E non è neanche credibile la tesi della droga come eccitante, considerando che l'eroina (un oppiaceo) ha casomai effetto sedativo. La famiglia Aldrovandi ha sempre negato che Federico facesse uso regolare di droghe. Era solo un ragazzo di 18 anni che, quella sera, aveva esagerato un po'. Quello che è successo a lui, poteva succedere a tutti.
Federico muore poco dopo le 6 del mattino. Era disarmato e incensurato. La famiglia viene avvertita cinque ore dopo. Su youtube, e sul blog di Beppe Grillo, è presente il video della Scientifica. C'è il corpo di Aldrovandi a terra, segni di colluttazione. Si sentono i poliziotti che ridono. La comunicazione tra Centrale e poliziotti, tre uomini e una donna, riporta frasi di questo tenore: "L'abbiamo bastonato di brutto".
Il Giudice di Ferrara ha certificato come i quattro poliziotti hanno ucciso il ragazzo con sequela infinita di manganellate e calci. Sono stati condannati in primo grado a tre anni e sei mesi per eccesso colposo in omicidio colposo. La vita di un ragazzo senza colpe vale 3 anni e sei mesi. Anzi, neanche quelli, perché c'è l'indulto. La Polizia non ha radiato i quattro poliziotti.
In rete trovate di tutto. Anche nella graphic novel. Ma nulla sarebbe stato svelato senza l'eroismo della signora Patrizia, madre di Federico, che il 2 gennaio 2006 ha aperto un blog per far luce sulla morte del figlio. Da lì tutto è nato. Altri blog, l'interesse dei giornali, la vicinanza di Grillo, i libri, le meritorie inchieste di Chi l'ha visto? su RaiTre. La società civile che si muove. E una città, Ferrara, che per metà si chiude a riccio. E minacce alla famiglia, e la Polizia che fa quadrato. E un senso crescente di democrazia sospesa.
E' una storia che non ha spiegazione alcuna. Una storia sbagliata, cantava Fabrizio De André. “Un omicidio di Stato". Forse Aldrovandi urlava davvero di notte. Forse era eccitato, forse ubriaco. Non lo sapremo. Sappiamo invece, adesso, il dopo. Quattro poliziotti che spezzano i manganelli (letteralmente) a furia di picchiarlo. Calci e ginocchiate al punto da spezzargli lo scroto. Il volto tumefatto, i vestiti zuppi di sangue. Il corpo trascinato barbaramente sull'asfalto. Il ragazzo che grida aiuto, senza che nessuno si fermi o intervenga in suo soccorso. Una mattanza durata decine di minuti e poi insabbiata (o meglio: quasi insabbiata).
I poliziotti si sono difesi sostenendo tesi lisergiche: Aldrovandi era così eccitato che si faceva male da solo. Il volto tumefatto? Dava le testate contro l'auto. Il testicolo squarciato? E' saltato a cavalcioni sul tetto dello sportello aperto, manco fosse una tartaruga Ninja.
La morte? Un infarto, troppa eccitazione da overdose. No: l'autopsia ha rivelato che decisiva è risultata la pressione di uno o più poliziotti sulla schiena, che ha creato ipossia (mancanza di ossigeno) al ragazzo, peraltro ammanettato. Secondo il cardiologo, il cuore di Federico avrebbe cessato di battere dopo l'ennesimo colpo ricevuto.
E' una storia di testimoni che prima parlano e poi si nascondono, di omissioni, di prove scomparse. Dell'ex ministro Giovanardi che minimizza in tivù, di un ragazzo normale fatto passare per un tossico mezzo matto. Di una città che non si schiera. Di una madre, di una famiglia ferite a morte. Eppur vive.
E' una storia che fa molto Italia. Ma non è tutto. Patrizia Moretti sarà processata dal 1 marzo 2012 con l’accusa di diffamazione verso la pm Mariaemanuela Guerra per le critiche che fece alle prime indagini condotte dal magistrato sulla morte del figlio. A giudizio anche giornalisti e direttore della “Nuova Ferrara”, così come è riportato dallo stesso quotidiano.
Il dolore ce l'ha dentro, e se lo tiene stretto. La rabbia invece la getta fuori con le lacrime che si asciuga, uscendo dal tribunale, e con parole misurate che non vuol più tenere a freno: «Non avrei mai immaginato di ritrovarmi imputata dopo la morte di mio figlio».
«Ma come hanno voluto fare il processo a Federico indagando su di lui solo sulla droga, ora lo faremo al magistrato che mi ha denunciato, la dottoressa Guerra». A 6 anni dalla morte del figlio, dopo processi, sentenze e veleni come vittima di una delle tragedie umane e giudiziarie più impensabili, Patrizia Moretti da ieri è imputata di diffamazione a mezzo stampa nei confronti del pm Mariaemanuela Guerra. E' stato il gup Villani del tribunale di Mantova a decidere, con una udienza lampo, che lei, il direttore della Nuova Ferrara e due giornalisti (uno di loro a processo nonostante non abbia scritto nessuno degli articoli incriminati e chiamato in causa dalla procura perchè comunque avrebbe collaborato alla stesura o il suo nome potrebbe essere uno pseudonimo) dovranno presentarsi in tribunale il 1 marzo 2012.
«Sono da oggi imputata - ha spiegato la Moretti - per aver criticato il modo con cui vennero fatte le prime indagini sulla morte di mio figlio. I giudici hanno deciso per il processo, lo faremo, andando fino in fondo, senza scorciatoie e nemmeno remissioni di querele». All'udienza velocissima, il pm Fabrizio Celenza aveva rinnovato la richiesta di rinvio a giudizio, nonostante le difese della Moretti e del giornale avessero prodotto copiosa documentazione su tutte le sentenze del caso Aldrovandi, Aldrovandi bis che contengono le dichiarazioni di altri magistrati ferraresi che si sono occupati di questi casi e di atti del Csm che aveva valutato l'operato della pm Guerra sul mancato sopralluogo il giorno della morte di Federico in via Ippodromo, il 25 settembre 2005. «Il processo non ci spaventa, sarà la stessa dottoressa Guerra il nostro principale teste a discarico» ha detto l'avvocato Fabio Anselmo, difensore della Moretti.
Il legale nella sua arringa ha fatto anche un accostamento singolare: le stesse affermazioni critiche sulle indagini della pm Guerra per cui ora è a processo la Moretti - ha riferito - sono le stesse, e più dirette, riproposte nel docu-film sul caso Aldrovandi di Filippo Vendemmiati, giornalista pluri-premiato in tutta Italia e che l'8 maggio prossimo sarà premiato dal presidente della Repubblica Napolitano, per la sua opera di denuncia. «Un filmato che non è stato querelato», ha spiegato al giudice il legale: «Perchè allora la Nuova Ferrara sì e altri no?».
Il difensore della Nuova Ferrara, Arrigo Gianolio ha sottolineato al giudice «che un magistrato dovrebbe avere sempre equilibrio e che in questa vicenda purtroppo mi pare sia mancato».
«E' assurdo tutto questo - ha commentato Patrizia Moretti -. A pensarci bene non ho ancora capito per quale motivo debba sostenere un processo come imputata. Solo per aver criticato come mio diritto l'operato del magistrato che si occupò della prima parte dell'inchiesta sulla morte di mio figlio: si è trattato di critiche che ho potuto fare solo dopo aver appreso nuovi fatti da inchieste e processi condotti da altri magistrati a Ferrara». «Voglio ricordare - conclude - che questa inchiesta era stata condotta da un altro magistrato, il pm Nicola Proto che ha portato a processo e fatto condannare i quattro poliziotti per la morte di mio figlio».
IL CASO DEL DELITTO DI SIMONETTA CESARONI. RANIERO BUSCO E PIETRINO VANACORE.
UNA STORIA DI ORDINARIA INGIUSTIZIA:
Le vittime dell'omicidio Simonetta Cesaroni.
Raniero Busco è innocente. Oggi, venerdì 27 aprile 2012, la prima Corte d’assise d’appello di Roma lo ha assolto dall’accusa di aver ucciso Simonetta Cesaroni, la sua ex fidanzata. Lacrime in aula. Applausi fuori dal tribunale. È stata così ribaltata la sentenza di corte d’assise che soltanto il 26 gennaio 2011 aveva condannato l’imputato a 24 anni di reclusione per omicidio volontario. Questa è la giustizia italiana: aspetta 22 anni (il delitto di via Poma risale al 7 agosto 1990) per accusare e condannare un presunto colpevole, ma poi è capace di assolverlo appena 13 mesi dopo. E meno male!! Merito dei media e degli avvocati di chiara fama e elevata stima giudiziaria. Oneri ed onori che però non valgono per tutti. In mezzo, il sospettato ha trascorso oltre 8 mila giorni d’inferno, spesso alla gogna. E ora si vedrà se ci sarà un terzo grado di giudizio, e a che cosa mai potrà portare.
Questa incoerenza è una caratteristica purtroppo sempre più frequente della cronaca nera italiana. Perché, insieme a quella di Simonetta Cesaroni, troppe altre vicende giudiziarie restano senza un colpevole certificato. Per media e magistratura basta trovare un colpevole, non il colpevole. Fa niente se sono persone, quelle da triturare, e non semplici fascicoli giudiziaria. Troppi omicidi restano senza nemmeno un indagato. Il caso di Yara Gambirasio è aperto dal 26 novembre 2010, quando la ragazza è scomparsa per poi essere ritrovata cadavere in un campo, e da allora lo stillicidio di notizie spesso contraddittorie è insopportabile: ora si sarebbe scoperto (?) del liquido seminale sugli slip della povera ragazza. Chissà. Ma restano senza alcuna giustizia anche Chiara Poggi e, in parte, Meredith Kercher. Colpa di inquirenti inadeguati? E di chi, sennò?
La mia lunga odissea nel pianeta ingiustizia. L’intervista a Raniero Busco rilasciata il 29 aprile 2012 a Maurizio Gallo e pubblicata su “Il Tempo” di Roma: l'ex fidanzato di Simonetta Cesaroni racconta la tortura di un innocente.
C'è voglia di normalità in casa Busco. Dopo due anni da sospettato, quasi due da indagato, uno da imputato, quattordici mesi da condannato e ventiquattr'ore da innocente, il desiderio più grande è tornare alle piccole incombenze quotidiane. Un bacio ai gemellini Riccardo e Valerio, trascurati a lungo per la tensione e l'angoscia, una carezza a Mia, la gatta nera di famiglia e, soprattutto, la ritrovata spensieratezza coniugale con Roberta Milletarì, la moglie-tigre che l'ha protetto, difeso e consolato per tutto questo tempo e che dopodomani festeggerà il suo quarantatreesimo compleanno senza l'incubo di doversi separare dal marito per vederlo finire in una cella. La prima notte dopo il verdetto d'appello che l'ha fatto esplodere in un pianto liberatorio non è stata tranquilla. «Avevo un'insopportabile acidità di stomaco ed ero teso come una corda, tanto che ho dovuto prendere due Maalox e un analgesico, il Brufen. E ancora sono così frastornato che non riesco neanche ad essere felice», spiega Raniero nella sua villetta di vicolo Anagnino 35, una casetta color senape semplice e dignitosa che sorge accanto ad altre simili in una stradina stretta al centro di Morena. Il quartiere dov'è cresciuto e vissuto e dove gli abitanti lo hanno sempre protetto con un affettuoso e solidale cordone «sanitario». E il pellegrinaggio di amici e parenti è continuato anche ieri, quando lo abbiamo incontrato.
Qual è stata la cosa che l'ha fatta soffrire di più in questi anni? «A farmi più male sono state le affermazioni del pubblico ministero nel processo di primo grado, quando ha detto che non c'era un colpevole alternativo a Busco. Mi ha ferito il senso di impotenza che provavo. Tu stai lì e, per anni, ti dicono che sei un pazzo criminale. Mi hanno descritto come un assassino freddo e brutale, una persona assetata di sangue e di sesso. Ma non sapevano e non sanno nulla di me. Io non sono così...».
Il momento peggiore? «La cosa che mi è rimasta più impressa è stata il campanello che annunciava il ritorno dei giudici dalla camera di consiglio, sempre nel primo processo. Non perché pensavo di essere condannato, ma per l'angoscia tremenda che provavo in quel momento».
Uno degli elementi che ha contribuito a far addensare su di lei i sospetti, al di là delle prove scientifiche poi smentite dalla perizia superpartes nel processo d'appello, è stata la sua apparente amnesia sul giorno del delitto. Non ricordava l'alibi fornito alla polizia. Eppure avevano massacrato la sua fidanzata. Come ha potuto dimenticare? «A Fiumicino, dove lavoro come meccanico, facevo i turni. Quello di notte comincia alle 23 e finisce alle sette. Alle otto tornavo a casa e mi mettevo a dormire. Mi svegliavo verso le due di pomeriggio e facevo piccoli lavoretti, riparavo motorini e macchine agricole nel mio garage. Il venerdì smontavo la mattina e riprendevo il lunedì. Quindi vedevo Simonetta nel fine settimana. Gli altri giorni ci incontravamo con gli amici verso le 18 al bar portici per giocare a biliardino e chiacchierare. Era una routine. Quando ho detto che il 7 agosto ero stato con Simone Palombi a fare riparazioni in garage mi sono affidato alle mie abitudini, perché erano passati quindici anni e ho pensato che anche quella volta avessi fatto le stesse cose. Sarei un cretino se avessi cercato di crearmi un alibi falso con Simone sapendo che era stato ascoltato anche lui dagli investigatori».
Ma l'alibi era fondamentale per il riconoscimento della sua innocenza. Lei non ricordava neppure se glielo avevano chiesto o meno... «Mi hanno fatto pesare che quel giorno non avevano trascritto l'alibi nel verbale d'interrogatorio. Ma che è colpa mia? Sicuramente me l'hanno chiesto. Una volta che gliel'ho detto, mi sono messo l'anima in pace. Pensavo: mi hai sospettato subito, mi hai perquisito casa, mi hai torchiato e quindi hai avuto i riscontri. Poi non ho una grande memoria, tante cose non le ricordo. Forse anche perché sono innocente. E solo i colpevoli ricordano bene tutti i dettagli».
Come avete dato la notizia ai vostri figli? (Nel frattempo sono arrivati Roberta, la madre Giuseppina e il fratello Paolo. Ed è la moglie di Busco a rispondere mentre i gemellini di dieci anni giocano tra salotto e camera da letto). «Saputo dell'assoluzione, la maestra ha abbracciato Riccardo in silenzio. E lui le ha detto: ho capito. Quando sono tornata a casa e mi ha raccontato l'episodio gli ho chiesto: cosa hai capito? E lui: che è finita. Quindi non abbiamo avuto bisogno di aggiungere altro».
Questi anni sono stati un incubo, come li avete vissuti in famiglia? (A queste parole Giuseppina Busco piange. E si scusa: "Sono lacrime di gioia, stavolta", spiega). «Noi siamo lontanissimi da queste cose, non siamo come voi, non sappiamo niente di giustizia, di processi - continua Roberta - Non leggiamo gialli e neanche la cronaca nera. Lei capisce, il danno non è solo economico, è anche esistenziale. Questi anni di vita adesso chi ce li potrà restituire?».
Cosa farete adesso, come vedete il futuro? «Vogliamo tornare a fare quello che facevamo prima - risponde Busco - Una vita fatta di piccole cose, di viaggi programmati e magari mai fatti, di sogni. Sentirsi addosso gli occhi di tutti che ti riconoscono per strada è stato pesante. Ora è come fare riabilitazione. Sono stato cinque anni fermo, immobilizzato. Non posso mettermi a correre subito. Devo ricominciare lentamente. E fare un passo dopo l'altro...».
OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.
Delitto di via Poma. La mano armata della Giustizia senza un limite. Ovunque, nel mondo civile, questo sarebbe archiviato come un insuccesso delle autorità inquirenti, da noi, invece, lo si riesuma, periodicamente, per esaltare la tenacia di chi conduce le indagini. Ogni volta che il delitto di via Poma torna agli onori della cronaca, automaticamente, torna, in video e in pagina, la foto di Pietrino Vanacore.
La sua pietra al collo ce la sentiamo un po' tutti, e dovrebbe sentirsela la giustizia italiana che sa essere feroce nel punire, pur non essendo capace di giudicare. Vanacore, il portiere dello stabile, che trovò il cadavere di Simonetta, fu arrestato tre giorni dopo, il 10 agosto 1990. Le cronache si riempirono di quest'omicidio, scandagliando e scardinando la vita di quel disgraziato. Gli andò anche bene, perché fu scarcerato il 30 agosto e, meno di un anno dopo, il 26 aprile del 1991, fu accolta la richiesta d'archiviazione, presentata dalla procura stessa. Ci volle più tempo, fino al gennaio del 1995, perché la Cassazione ponesse la parola "fine" alla faccenda, rendendo definitiva l'archiviazione. Era finita, e lui si ritirò a vivere nella Puglia, a Torricella, da cui era venuto. E dove s'è ammazzato il 9 marzo 2010. Perché? Perché nonostante la Cassazione, in Italia la giustizia non sa usare la parola "fine", sicché una nuova indagine è stata archiviata. Nel maggio del 2009, e l'anno precedente, il 20 ottobre 2008, Vanacore aveva subito l'ennesima perquisizione domiciliare. Era atteso in tribunale, il 12 marzo 2010, per testimoniare. Non era neanche tenuto a rispondere, perché la giustizia lo considera ancora "indagato in procedimento connesso". Ma, statene certi Vanacore avrebbe visto ancora il suo volto, esposto alla nazione, associato all'omicidio. Ha deciso di risparmiarselo, o, più probabilmente, non ha saputo reggerlo. La domanda è: che senso ha? Quale legge ha stabilito la possibilità di condannare all'ergastolo mediatico dei cittadini riconosciuti innocenti, ma di cui l'ultimo pennivendolo può disporre, usando le immonde formule di "già indagato", "fu imputato", "a lungo sospettato", "protagonista di una storia oscura", e così via macellando? Un cittadino può accettare d'essere ingiustamente sospettato e accusato, salvo riuscire a dimostrare, in tempi brevi, la propria innocenza. Subisce un danno, comunque, talora gravissimo, ma ciascuno di noi sa che può accadere. Quel che non dovrebbe accadere è che per il resto della vita si sia un oggetto nelle mani di chi non sa che pesci prendere, non sa che storie raccontare, e, quindi, ricorre al tuo nome e alla tua faccia quando gli fa comodo. E, si badi, questo vale per la giustizia, che è incivilmente e inconcludentemente interminabile, ma vale anche per ciascuno di noi. Anzi, a un certo punto dovremo ammettere che abbiamo la peggiore giustizia del mondo civile anche perché abbiamo la peggiore politica e la peggiore cultura giuridica e il peggiore sistema informativo. Mancano, o sono flebili, le voci capaci di dire basta. Guardatevi attorno: la politica si rinfaccia questioni giudiziarie, anche se chiuse, anche se campate per aria. Le tifoserie politiche non fanno che parlare d'accuse penali, pensando che possano surrogare il giudizio morale e politico. La giustizia stessa campa d'accuse e ci lascia a digiuno di sentenze. Il tutto imbarbarisce il nostro vivere civile e seppellisce la presunzione d'innocenza. Vanacore s'è spinto oltre: ha preteso d'avere l'ultima parola. Non gli sarà riconosciuta neanche quella.
Il figlio accusa: «Mio padre condannato senza processo». È anche lui portiere, come il papà che dal vecchio mestiere non ha avuto che dispiaceri. Lavora a Torino, custode di uno stabile dell’elegante quartiere della Crocetta. «Mio padre è stato condannato senza un processo - accusa Mario Vanacore - lo hanno distrutto, lo hanno fatto a pezzi. Sono passati vent’anni, eppure tutte le volte che si è parlato della mia famiglia è stato solo per massacrarci». Anche lui, del resto, era stato sfiorato dall’inchiesta, per colpa di una visita di cortesia fatta al papà il 2 agosto del ’90, prima di partire per le vacanze con la moglie Donatella e la figlia di pochi mesi. Tanto bastò per ricevere un avviso di garanzia, assieme alla mamma Giuseppa De Luca, affinché i magistrati potessero comparare il suo sangue con quello di una traccia ematica trovata sulla porta dell’ufficio di Simonetta. «Hanno reso la vita di mio padre un inferno - continua Mario Vanacore - aveva tanti progetti, voleva comprare una casa, ma ha dovuto utilizzare tutti i risparmi che aveva per pagarsi gli avvocati. Lo hanno massacrato ingiustamente perché lui era innocente». Padre e figlio avrebbero dovuto testimoniare in aula al processo per la morte della Cesaroni. Accanto a Pietrino ci sarebbe stato il legale di sempre, Antonio De Vita. «Si sentiva braccato - racconta il penalista - vittima di una continua caccia all’uomo. Non aveva più una sua vita da tanto, troppo tempo. Si sentiva come un detenuto al 41 bis. Lui era un uomo libero, eppure non più libero. Non era la nuova chiamata dei giudici ad intimorirlo, piuttosto il fatto di doversi nuovamente sentire braccato, accerchiato dai media. Vanacore era psicologicamente stressato e si riteneva perseguitato, un uomo senza scampo, anche se su di lui non c’erano più sospetti». «Ci hanno tolto il piacere di vivere, ma noi abbiamo solo una colpa: quella di essere poveri». Pietro Vanacore scriveva così a Maurizio Costanzo in una lettera piena di dolore e di rabbia per la vicenda giudiziaria legata all’omicidio di Simonetta Cesaroni, che lo aveva segnato nel profondo. La brutta copia della missiva inviata al noto conduttore televisivo è saltata fuori dalle carte che i carabinieri hanno sequestrato a casa di Vanacore. Dopo aver trovato in mare il corpo senza vita dell’ex portiere di via Poma, infatti, i militari della compagnia di Manduria avevano perquisito la sua abitazione a Monacizzo ed avevano ritrovato un contenitore pieno di documenti. Tra le carte c’era anche la minuta della lettera inviata a Costanzo. Vanacore conosceva di persona il giornalista perché questi aveva acquistato l’appartamento in cui ad agosto del 1990 fu uccisa Simonetta Cesaroni. Per qualche anno, dopo il delitto, Pietrino Vanacore aveva continuato a fare il portiere dello stabile in cui si era trasferito Costanzo. Poi, dopo l’assoluzione dall’accusa di omicidio, nel 1995, Vanacore era tornato in provincia di Taranto, al suo paese Monacizzo, frazione di Torricella, insieme con la moglie Pina De Luca. Proprio qui, il 9 marzo 2010, è stato ritrovato senza vita, annegato, nel piccolo specchio d’acqua della baia in cui si affaccia la torre saracena di Torre Ovo.
Il corpo di Vanacore era «ancorato» alla terraferma da una lunga corda che lo cingeva alla caviglia. L’altro capo della cima era legato ad un pino marittimo posto sul ciglio della litoranea. L’ex portiere di via Poma, come aveva stabilito qualche giorno dopo l’autopsia, è affogato in un metro d’acqua. Il suo suicidio, però, resta avvolto da una pesante coltre di mistero. Vanacore, prima di morire, aveva lasciato anche alcuni biglietti che oggi sembrano ricalcare il tono della lettera indirizzata a Costanzo. «È ignobile e disumano - scriveva ancora nel 2008 l’ex portiere di via Poma -, addossarci una colpa così grande. Se io, o la mia famiglia avessimo saputo qualcosa lo avremmo detto subito e senza riguardo per nessuno ». Vanacore scrisse quella lettera dopo l'ottobre del 2008, quando i giudici della procura di Roma decisero di riaprire il caso dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, chiamando alla sbarra l’ex fidanzato della giovane Raniero Busco. A casa Vanacore, a Monacizzo, arrivarono i carabinieri per una perquisizione. L’uomo dovette credere di essere ripiombato nell’incubo. La stessa sensazione che deve aver provato a fine febbraio quando a casa ricevette l’atto di citazione. Doveva presentarsi il 12 marzo 2010 al processo, a Roma, come testimone. Forse non ha retto. Forse davvero quei venti anni di sospetti, come ha scritto prima di morire, lo avevano già ucciso.
All’udienza del 12 marzo, il pm Ilaria Calò nel suo intervento ha fatto riferimento proprio alla posizione di Vanacore: «L'importanza delle chiavi (dell'appartamento di via Poma) è enfatizzata dalla tragedia che ha colpito la famiglia Vanacore in questi giorni. La circostanza che le chiavi siano state sequestrate nella portineria e che non siano state trovate tracce di dna di Vanacore sugli abiti di Simonetta Cesaroni e sulla porta di ingresso dimostra che il portiere ha scoperto il corpo prima della sorella di Simonetta e che invece di chiamare la polizia, pensando che vi fosse stato un incontro clandestino tra Simonetta e il presidente degli ostelli della gioventù Francesco Caracciolo o il direttore Corrado Carboni o il capo della ragazza il commercialista Salvatore Volponi, ha telefonato ai tre dimenticando l'agendina rossa Lavazza sul tavolino dell'ufficio, restituita dall'ispettore Brezzi a Claudio Cesaroni un mese dopo circa». Secondo la ricostruzione del pm, Vanacore sarebbe entrato nell'appartamento dove «trovò la porta socchiusa», entrò, vide il corpo e fece le tre telefonate in questione e poi richiuse la porta «usando le chiavi di riserva appese a un gancio dietro la porta». Questa situazione, secondo il magistrato, «ha innescato dei comportamenti anomali nella portiera, che hanno depistato le indagini per oltre venti anni. Questo spiega la riluttanza della donna a dare la chiavi alla polizia, l'agitazione di Volponi che era stato informato prima, le menzogne di Caracciolo e di altre persone che saranno sentite in aula. Le chiavi sono uno snodo fondamentale». «In base a quale elemento il pm può dire che la porta era socchiusa? Da dove esce fuori? Penso che la questione delle chiavi sia stata chiarita all'epoca del proscioglimento di Vanacore. Non conosco questa nuova impostazione accusatoria. Loro avevano un mazzo di chiavi per fare le pulizie, non avevano bisogno di servirsi di un mazzo di scorta». Così il difensore della famiglia Vanacore, Antonio De Vita. «A me, come difensore della famiglia Vanacore, non è stato comunicato nulla - prosegue - Sento per la prima volta questa ricostruzione. Come si fa a dire che la porta era aperta? Se devono essere fatte nuove contestazioni, il dibattimento non è la sede opportuna. I Vanacore dopo quanto accaduto nei giorno scorsi non stanno bene e ho fatto presente alla corte il motivo della loro assenza».
Ai funerali di Pietrino Vanacore, intorno alla sua bara, assorta nel silenzio con la rabbia ed il dolore, c’era la gente che gli voleva bene. Una donna ha avuto il coraggio di dare voce alla sua comunità: «applaudite, hanno ottenuto quello che volevano!!!» La frase era rivolta a coloro, che, per deformazione professionale e culturale, non hanno una coscienza. Intanto, intorno alle sue spoglie gli sciacalli hanno continuato ad alimentare sospetti. La sua morte non è bastata a zittire una malagiustizia che non è riuscita a trovare un colpevole, ma lo ha scelto come vittima sacrificale. A zittire una informazione corrotta che lo indicava come l’orco, pur senza condanna.
Non poteva dirsi vittima di un errore giudiziario, come altri 5 milioni di italiani in 50 anni. Per venti anni è stato perseguitato da innocente acclamato. Voleva l’ultima parola per dire basta. Non l’hanno nemmeno lasciata. Pure da morto hanno continuano ad infangare il suo onore. Accuse che nessuna norma giuridica e morale può sostenere. Accanimento che nessuna società civile può accettare. La sua morte è un omicidio di Stato e di Stampa. Non si può, per venti anni, non essere capaci di trovare un colpevole e continuare a perseguitare un innocente acclamato. Non si può, per venti anni, continuare ad alimentare sospetti, giusto per sbattere un mostro in prima pagina.
Ferdinando Imposimato, il “giudice coraggio” delle grandi inchieste contro il terrorismo e la delinquenza organizzata, ha provato sulla propria pelle l’amarissima esperienza di star sul banco degli imputati. Egli conclude, come un ritornello inquietante: “E’ più difficile talvolta difendersi da innocenti che da colpevoli”. Parola di magistrato.
IL FALLIMENTO DELLO STATO DI DIRITTO
Cose allucinanti. Una condanna, che per i più va al di qua del ragionevole dubbio. Raniero Busco è stato condannato a 24 anni di carcere: nell'aula bunker di Rebibbia la sentenza di I grado sul delitto di via Poma. Dopo due decenni, la morte di Simonetta Cesaroni trova “un colpevole”, che per molti non è “il colpevole”. Nel processo per la morte della ragazza uccisa il 7 agosto 1990 con 29 coltellate, Busco, ex fidanzato della Cesaroni, era l'unico imputato. Il pm Ilaria Calò aveva chiesto l'ergastolo per omicidio volontario con l'aggravante della crudeltà. Questo dopo la morte di Pietrino Vanacore, additato dalla stampa ed accusato dai magistrati di essere coinvolto nell’omicidio. Colpevole. Dopo più di 20 anni. Ma la condanna va al sistema giudiziario. E’ il fallimento di uno stato di diritto. Quale rito si è rispettato se dopo venti anni sono venuti meno tutte le prove e tutti gli strumenti difensivi. LA PENA. E’ la sanzione prevista che lo Stato, a mezzo dell’Autorità Giudiziaria affligge all’autore di un fatto illecito. La pena svolge diverse funzioni: da un lato quella di punire il colpevole per il reato commesso mentre dall’altro lato ha funzione rieducativa che mira alla riabilitazione del reo e al suo reinserimento in società. Il cd. doppio binario della pena previsto dal Codice, risponde al principio previsto dalla Costituzione che, all’art. 27, terzo comma, stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti disumani e che debbono tendere alla rieducazione del condannato in modo da consentirgli il reinserimento nella società una volta scontata la pena. Dopo più di venti anni quale prevenzione a vantaggio della società ci può essere e quale rieducazione si può prevedere per il reo. Colpevole. Una parola che piomba nel silenzio carico di tensione dell’aula-bunker come una slavina. È Raniero Busco il mostro che ha ucciso vent’anni prima la fidanzata Simonetta Cesaroni. È lui l’assassino feroce che ha massacrato la figlia del ferrotranviere della Metro con 29 colpi di tagliacarte, affondando la lama anche all’interno della zona genitale. È il meccanico di Morena l’impassibile killer che per un ventennio ha nascosto l’orrore del suo gesto dietro la facciata del tranquillo padre di famiglia. Questa è la «verità» dei giudici, che, a fronte della richiesta di carcere a vita del pm, hanno condannato l’imputato a 24 anni di reclusione. Una «verità» che non convince. Una condanna che non si aspettava nessuno. Non Busco e il suo legale Paolo Loria, che ha annunciato il prevedibile ricorso in appello. Non i giornalisti che hanno seguito il processo a Rebibbia durante gli undici mesi abbondanti del dibattimento. E neppure l'opinione pubblica, che dalle tv e dai giornali si è fatta un'idea sulla fragilità degli scarsi indizi raccolti contro l'imputato. Ecco, tutti attendevano un verdetto che riecheggiasse la vecchia formula ormai abolita dal codice: insufficienza di prove. Anche l'annuncio che la camera di consiglio sarebbe durata appena tre ore (previsione sbagliata per difetto di trenta minuti) aveva fatto credere che si sarebbe deciso per l'assoluzione. Ma così non è stato. Entrati nella «stanza del giudizio» il 26 gennaio 2011 alle 12.30 e usciti alle 16.08, i due giudici togati e gli otto popolari hanno deciso altrimenti. È il presidente della III Corte d'assise Evelina Canale a leggere il dispositivo: «Visti gli articoli 533 e 535, dichiara Busco Raniero colpevole del delitto ascrittogli e, con le attenuanti generiche equivalenti alla contesta aggravante, lo condanna alla pena di 24 anni di reclusione». Parole che gelano l'aula. Busco e la moglie sono ammutoliti. Lo stesso il loro difensore. Solo dal fondo dello stanzone che ha accolto terroristi e mafiosi qualcuno del pubblico piange e urla «No,no!». E il fratello di Raniero, che ascolta la sentenza abbracciato a lui e alla moglie Roberta, ripete infuriato due volte: «Che state a di'!». Poi, quando fotografi e cameramen li accerchiano, trascina l'imputato fuori dall'aula. «Perché devo essere io la vittima, tutto questo è ingiusto, profondamente ingiusto - avrebbe poi detto Raniero al suo avvocato - Dire che sono deluso è poco». «Una decisione pesante che non accontenta il concetto di giustizia - dice con amarezza Paolo Loria - Contro il mio assistito c'erano solo indizi e nessuna prova». Busco è stato anche interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e, se la sentenza passerà in giudicato, non potrà più esercitare la patria potestà. Infine dovrà risarcire i danni alle parti civili «da liquidarsi in separata sede» e pagare provvisionali «immediatamente esecutive» di 100 mila euro alla sorella della vittima Paola e di 50 mila alla madre Anna di Gianbattista. Insomma, il verdetto riconosce l'aggravante della crudeltà chiesta dal pm (anche se non segue l'accusa sulla strada dell'ergastolo), e però ne annulla le conseguenze sulla pena grazie alle attenuanti. Soddisfatti il pm e i legali di parte civile. Ma anche dalle loro dichiarazioni traspaiono dubbi non fugati dal processo. Lucio Molinaro, che ha seguito la vicenda per tutti questi venti anni, spiega che «noi ora dobbiamo credere che Busco sia colpevole, perché tre ore sono sufficienti per verificare le prove e prendere una decisione». Massimo Lauro, che con Federica Mondani assiste la sorella della vittima, osserva che «Almeno in teoria, adesso la parte che rappresento sa chi ha ucciso Simonetta». E il legale che rappresenta il Comune, Andrea Magnanelli, commenta: «Domani Roma si sveglia con un mistero in meno». Ma l'impressione di tutti è esattamente quella opposta. Il processo era iniziato il 3 febbraio 2010. L'accusa, il pm Ilaria Calò, aveva chiesto la condanna all'ergastolo. I giudici della terza corte d'assise, dopo una riunione in camera di consiglio, ha concesso all'imputato le attenuanti generiche. Per venti anni si è cercato la verità su quell’efferato delitto compiuto nell'ufficio dell'Associazione alberghi della gioventù dove Simonetta lavorava. Il 7 agosto 1990 Simonetta a 21 anni venne massacrata con un tagliacarte. Il suo carnefice la colpì 29 volte in tutto il corpo, ferite profonde circa 11 centimetri. Ad ucciderla però, fu un trauma alla testa. L'ipotesi degli investigatori fu che le coltellate erano state inferte sul cadavere solo per depistare le indagini. Il corpo seminudo e senza vita della ventunenne venne scoperto alle 11 di sera. L'autopsia accertò che non aveva subito violenza carnale e che la sua morte era avvenuta tra le 17.30 e le 18.30. Il Busco, all'epoca aveva 26 anni ed era il fidanzato della vittima. Il primo ad essere stato sospettato del delitto fu il portiere dello stabile di via Poma, Pietrino Vanacore che scoprì il delitto. Poi gli inquirenti puntarono i loro sospetti su Federico Valle che era il nipote di un architetto che abitava in quel palazzo, Cesare Valle. Per il primo alcuni giorni dopo il delitto arrivò il fermo, mentre per il secondo nel 1992 un avviso di garanzia. Successivamente prima nel 1993, il Gup prosciolse dall’accusa di favoreggiamento Vanacore e Valle da quella di omicidio, e poi nel 1995 la Cassazione definitivamente emise la decisione di non rinviarli a giudizio. Le indagini ripartivano da zero. Gli inquirenti sospettarono che l’assassino fosse nella cerchia dei contatti della ragazza. Tra gli altri indagati finì anche Salvatore Volponi, il suo datore di lavoro, anche per lui il fascicolo venne archiviato. La svolta nelle indagini nel 2006. I risultati delle analisi di tracce di saliva rinvenuta sul reggiseno di Simonetta, ritrovato, dopo anni, dimenticato, e rimasto incustodito, in un armadietto del laboratorio di medicina legale, portarono al Dna dell’ex fidanzato di Simonetta, Raniero Busco. Busco venne iscritto nel registro degli indagati per omicidio volontario nel settembre del 2007. Gli investigatori, inoltre, prelevano anche l'impronta dell'arcata dentaria di Busco, al fine di confrontarla, attraverso le foto autoptiche del 1990, con il morso riscontrato sul seno di Simonetta. Il 9 novembre 2009 venne poi rinviato a giudizio e il 3 febbraio 2010 iniziò il processo. Nel corso del quale, il 9 marzo, a pochi giorni dalla sua prevista deposizione come teste, Vanacore si tolse la vita. Scompariva di scena un personaggio importante, e forse detentore di qualche segreto, di questa intricata vicenda. il 26 gennaio 2011 poi, la sentenza di primo grado. Il mistero che ha avvolto per tanti anni la morte di Simonetta Cesaroni è davvero svelato? Il difensore di Busco, Paolo Loria, ha affermato: “Non è stata fatta giustizia, andremo in appello”. “Non c'è prova alcuna che Raniero Busco abbia ucciso Simonetta Cesaroni. Non si sa nemmeno con certezza che sia mai entrato in quell'ufficio”. Sono le parole del criminologo Francesco Bruno che si è detto profondamente stupefatto della condanna a 24 anni dell'ex fidanzato della Cesaroni. “Ancora una volta si dimostra come i giudici di primo grado risentano delle ipotesi accusatorie”, ha spiegato Bruno aggiungendo che: “Busco sarà certamente assolto in appello, ma sarà ben difficile cancellare quel marchio che gli hanno appiccicato addosso. Speravo che infine si tenesse in maggiore considerazione la fragilità accusatoria e che nel dubbio si arrivasse ad una soluzione più' ragionevole. Così non è stato, tuttavia nella condanna a 24 anni c’è tutto il senso di una non certezza della sua colpevolezza”. “La sentenza di condanna a 24 anni per Raniero Busco non risolve il caso di Via Poma, lascia troppi interrogativi sospesi e irrisolti, dubbi e contraddizioni”. Ad affermarlo il criminologo Carmelo Lavorino, autore tra l’altro di un libro sul delitto di via Poma. Comunque sia per ora Busco non andrà in carcere. Nonostante la condanna a 24 anni di reclusione infatti, la corte non ha disposto alcuna misura in merito. Un fatto questo dovuto allo stato della sentenza. Quella emessa è infatti una sentenza non definitiva emessa in primo grado di giudizio. In Italia una sentenza diviene 'definitiva' solo al terzo grado, con il pronunciamento della Corte di Cassazione. Il caso in cui un condannato finisce in carcere dopo il primo grado si verifica solo se ci sono i presupposti per la custodia cautelare, che sono tre: pericolo di fuga, possibile inquinamento delle prove e possibile reiterazione del reato commesso. In questo caso il provvedimento restrittivo potrebbe essere applicato solo se ci fosse un reale pericolo di fuga. Cosa questa che sembra poco probabile che possa verificarsi. Busco ricorrerà in appello nella certezza dell’assoluzione in secondo grado di giudizio come ha anticipato il suo legale. Un ricorso in appello che invece, se non ci fosse porterebbe Busco in carcere. L’ordinamento infatti, prevedere che decorsi i 45 giorni dal deposito delle motivazioni di primo grado, la sentenza diverrebbe definitiva e il pm come 'giudice dell'esecuzione' potrebbe disporre la carcerazione del condannato.
Inaspettata dopo il 1° grado, ma attesa secondo la super perizia arriva il 27 aprile 2012 intorno alle 13 la sentenza d’appello: Raniero Busco è innocente, «assolto per non aver commesso il fatto».
Raniero Busco è stato assolto dalla prima corte d’assise d’appello di Roma per non aver commesso il fatto. L’uomo era accusato di aver ucciso Simonetta Cesaroni, assassinata il 7 agosto del 1990 in via Poma, che all’epoca era la sua fidanzata. Decisiva per l’assoluzione la perizia disposta dai giudici in appello: il segno su un seno di Simonetta non sarebbe riconducibile ad un morso di Busco e sul reggiseno della ragazza oltre al Dna dell’ex fidanzato comparirebbero altri due Dna. La sentenza di primo grado l’aveva condannato a 24 anni di reclusione per omicidio. Busco dopo la sentenza è stato colpito da un lieve malore: è stato sorretto dal fratello e dalla moglie, poi ha pianto abbracciato ai familiari. Arriva dopo 22 anni la sentenza che rivela la verità giudiziaria sull'omicidio di Simonetta Cesaroni, massacrata con 29 coltellate il 7 agosto 1990. La Prima sezione della Corte d'Assise d'Appello del Tribunale di Roma, che venerdì 27 aprile si era ritirata in camera di Consiglio intorno alle 11, ha impiegato circa due ore e mezza per decidere la conclusione del nuovo processo per il caso di via Poma. Intorno alle 13.30 la pronuncia: Busco è stato dichiarato non colpevole. E' stata così annullata la sentenza di primo grado che aveva condannato l'ex fidanzato di Simonetta a 24 anni di reclusione. La sentenza è stata accolta da un urlo di sollievo. «Da oggi ricomincio a vivere - ha detto Busco -. Quando è uscita la Corte, in un attimo, ho rivisto tutta la mia vita». La verità, l'identità del «mostro» che assassinò la giovane romana, resta un giallo. La Corte d'Assise e d'Appello ha ritenuto dunque fondati i rilievi sollevati dai consulenti nominati dalla corte stessa, gli autori della superperizia secondo la quale il segno sul seno sinistro della ragazza uccisa - considerato in primo grado la «firma» dell’assassino, ovvero il segno perfetto della dentatura anomala di Busco - non era un morso. La conferma della condanna era stata sollecitata dal procuratore generale Alberto Cozzella, insieme con gli avvocati di parte civile. Mentre la tesi dei difensori Franco Coppi e Paolo Loria era che Busco dovesse avere la piena assoluzione «per non aver commesso il fatto», così come prevede l'art. 530 del codice di procedura penale al primo comma. E così è stato. Assenti i familiari di Simonetta, l'imputato Raniero Busco era presente in aula assieme alla moglie Roberta Milletari. «Non so come sarebbe finita la nostra storia ma non ho mai pensato di farle del male - aveva detto Busco durante l'udienza del 23 aprile -. Quando ho saputo della sua morte ho provato lo stesso dolore che ho provato quando ho perso mio padre». E aveva concluso rivolto alla corte: «Da voi mi aspetto il riconoscimento della mia innocenza». Busco è stato colto da malore dopo la pronuncia di assoluzione. Sorretto dal fratello e attorniato da una gran ressa di telecamere e fotoreporter l'ex fidanzato di Simonetta è stato portato in una stanza dai carabinieri che svolgono l'ordine pubblico in Corte d'appello. Alla lettura della sentenza, Busco avrebbe prima esultato abbracciando la moglie, poi secondo alcune testimonianze sarebbe stato colto da un lieve malore. Ma uno degli avvocati ha smentito: «No, è stato composto. Ha solo pianto di gioia». Abbracci e commozione tra gli amici dell'imputato per la vittoria della linea difensiva. Il primo a parlare di morso era stato la notte dell’autopsia di Simonetta Cesaroni il medico legale Ozrem Carella Prada, proprio uno degli esperti nominati per la superperizia dal procuratore generale della Corte d’assise d’appello. L’avvocato storico della famiglia Cesaroni, Lucio Molinaro, ricorda a memoria le parole della perizia: «Si nota una deviazione del capezzolo del seno sinistro e la formazione di una crosticina che potrebbe essere stata causata da un probabile morso». «Scrisse probabile o eventuale morso» precisa Molinaro, «usò una formula dubitativa. Il pm Cavallone, una volta ritrovato il corpetto e il reggiseno di Simonetta, si rilesse per l’ennesima volta gli atti e puntò su quelle parole, su quella pista, sui Dna, su quel segno e la dentatura unica di Busco per via di un sovradente». ”E’ una sentenza emessa dall’unico organo deputato ad emettere una pronuncia in appello. Va accettata e rispettata” commenta alla stampa il procuratore generale, Alberto Cozzella. “All’esito del deposito delle motivazioni (la corte d’assise si è presa almeno 90 giorni) - ha aggiunto Cozzella – decideremo il da farsi. Non è escluso, anzi assolutamente probabile, che ricorreremo in Cassazione”. I giudici presieduti da Mario Lucio D’Andria sono entrati in Camera di Consiglio poco dopo le 11. La riunione in camera di Consiglio è stata preceduta dalle repliche delle parti che, a sostegno delle rispettive tesi accusatorie e assolutorie hanno ripercorso le tappe fondamentali della vicenda esaminando punto per punto anche gli esiti peritali che da una parte portano a scagionare l’imputato e dall’altra come sostiene la Procura generale a confermare le responsabilità di Busco. E si accende la polemica sul dna, diventato prova regina in questo processo. “L’assoluzione di Raniero Busco era attesa, perchè nel condannarlo non sono state tenute in considerazione tutte le prove ma si è data un’importanza esagerata al solo Dna” afferma alla stampa il medico legale Angelo Fiori, uno dei periti all’epoca del delitto. “Questa sentenza sottolinea come non si possa usare solo il Dna nei processi, ma vadano prese in considerazione tutte le prove” afferma Fiori. ”Già all’epoca – prosegue – era emerso che il sangue trovato sulla porta era incompatibile con il gruppo di Busco, e questo secondo me già bastava a non includerlo nei sospettati. Ci si è basati invece solo sul Dna trovata sul presunto morso sul seno, ma senza tenere conto del fatto che c’erano quelli di tre persone, e non solo di Busco”. D’accordo con l’analisi anche Vincenzo Pascali, uno dei consulenti della Procura di Roma: “C’è stata una mancanza di lucidità nella valutazione delle prove – dice – la sentenza è dovuta al fatto che si sono considerate conclusive delle evidenze che invece non lo erano”. Da considerare una cosa: se non ci fosse stata la super perizia, perché non ammessa, o perché non necessaria, cosa sarebbe successo?
MANOLO ZIONI IN CARCERE DA INNOCENTE.
Innocente in cella per 11 mesi. Tre colpi al supermarket in un mese, ma il colpevole non era Manolo Zioni. Il vero rapinatore ha già confessato da mesi, eppure il giovane è stato assolto, con formula piena, dopo mesi. Da “La Repubblica”.
Quasi un anno dietro le sbarre, urlando la propria innocenza. Undici mesi di galera, ma non era lui il rapinatore. Quello dei tre colpi al supermarket in un solo mese, protagonista di un video ribattezzato dal web "Tre rapine con affetto". Non era Manolo Zioni, il ragazzo con il casco, immortalato dalle telecamere a circuito chiuso della Sma intorno a via Mattia Battistini, mentre saluta con una pacca affettuosa il cassiere che gli ha appena consegnato i soldi. Il vero colpevole ha già confessato da mesi, eppure il giovane, un 23enne di Primavalle, è stato assolto, con formula piena, soltanto il 26 settembre 2011. Finito a processo per colpa di una perizia sbagliata e finalmente scagionato grazie a una seconda relazione dei carabinieri del Ris. Questi gli ingredienti di una follia giudiziaria che ha tenuto in cella per 350 giorni un innocente. Ad inchiodare il ragazzo, finito in manette il 21 settembre del 2010 e tornato libero il 6 settembre 2011, le immagini video girate nel supermercato dove una semplice ombra sarebbe stata scambiata con il tatuaggio che il giovane ha sul collo. A nulla sono valse le testimonianze rese dalle vittime che lo hanno indicato come innocente. Contro di lui anche le analisi dei tabulati telefonici nei tre giorni delle rapine: il suo telefonino si agganciava proprio alla cella che serve la zona del supermercato. "Il nostro assistito abita in quel quartiere", hanno chiarito gli avvocati Alberto De Luca e Fabio Menichetti. "Siamo contenti per l'esito del processo - hanno dichiarato - ma siamo rimasti meravigliati da una certa superficialità della Scientifica".
OMICIDI DI STATO. LUIGI MARINELLI.
Omicidi di Stato e di Stampa.
La morte di Luigi Marinelli. Da notare l’atteggiamento della stampa che parla subito di ordinaria violenza familiare e di tossicodipendenza e sottace le colpe degli operatori di pubblica sicurezza e di pronto soccorso sanitario. L’avv. Vittorio Marinelli, noto presidente dell’associazione “Europeanconsumers”, mai presentato come tale, denuncia le anomalie del caso su “La Repubblica”.
IL CASO. Eur, picchia la madre e poi muore "Da autopsia varie costole rotte". A riferire un primo riassunto del verbale è uno dei due avvocati del 49enne morto dopo aver aggredito la donna mentre la polizia lo bloccava: "Fratture forse provocate da pressione. Analogie con caso Aldrovandi". Pesanti le accuse del fratello.
"Varie costole rotte'': queste le prime informazioni che arrivano dall'autopsia di Luigi Marinelli, il 49enne morto lunedì 5 settembre in seguito a un malore dopo una lite con la madre mentre la polizia tentava di bloccarlo. A riferire un primo riassunto del verbale di autopsia è uno dei due avvocati della famiglia, Giuseppe Iannotta.
''Le piccole fratture - puntualizza il legale - potrebbero essere dovute a una pressione o a un massaggio cardiaco effettuato male. Dal verbale emerge anche una piccola emorragia al fegato, che però non è correlata all'episodio di lunedì. Per un quadro clinico completo - conclude Iannotta, che segue il caso insieme con l'avvocato Antonio Paparo - Per comprendere le cause della morte di Luigi, comunque, dovremo attendere il deposito della consulenza medica". E' infatti di quaranta giorni il termine assegnato dal pm Luca Tescaroli, titolare dell'inchiesta, agli esperti dell'istituito di medicina legale dell'università La Sapienza chiamati a far luce sulla morte di Marinelli. L'uomo è morto mentre lo stavano trasportando in ospedale. Il malore era sopraggiunto a seguito di una lite per motivi economici con la madre che aveva poi chiamato le forze dell'ordine. Arrivati sul posto gli agenti lo avevano immobilizzato in attesa del Tso perché l'uomo dava in escandescenza.
''Ci sono molte analogie con il caso di Federico Aldrovandi''. A sostenerlo è Antonio Paparo, l'altro legale che sta seguendo il caso di Luigi Marinelli che fa riferimento allo studente ferrarese che morì nel 2005 dopo una colluttazione con gli agenti di polizia, condannati in primo grado a tre anni e sei mesi. ''Il quadro clinico che emerge dai primi risultati dell'autopsia non è compatibile con la ricostruzione di quanto avvenuto lunedì scorso'', osserva Paparo. ''Le costole fratturate sono 12 - precisa il legale - ed inoltre dagli esami emerge una lesione alla milza con una piccola emorragia interna''. L'avvocato non nasconde che qualcosa sia andato storto nell'appartamento dell'Eur. ''C'è il rischio che gli agenti abbiano sbagliato molte cose - sottolinea - sicuramente sono andati sopra le righe nelle procedure di arresto''.
Pesanti le accuse di Vittorio Marinelli, fratello di Luigi: ''L'hanno ammazzato i poliziotti, lo dimostra anche l'autopsia: Luigi aveva alcune costole rotte''. La famiglia ha annunciato che procederà legalmente contro gli agenti. ''Vogliamo giustizia, le cose non sono andate come abbiamo letto sui giornali'', afferma Marinelli precisando più volte che il fratello Luigi ''era uscito dal giro della droga ormai da 20 anni - da quando era in cura al Sert - e che faceva uso di hashish o cocaina solo sporadicamente. Era schizofrenico ma non tossicodipendente'', afferma. ''Lunedì scorso, dopo la chiamata di mia madre, si sono presentati tre agenti di polizia - dice Marinelli, di professione avvocato - che erano riusciti a calmare Luigi conquistandosi la sua fiducia. Ma quando mio fratello voleva uscire di casa per raggiungere la fidanzata lo hanno bloccato, e direi giustamente dato che era ancora su di giri''. Proprio quel gesto ha scatenato l'ira di Luigi che ha provato a divincolarsi. ''I tre agenti non riuscivano a tenerlo così hanno chiamato rinforzi - ricorda il fratello - Poco dopo è arrivato un quarto agente, un vero energumeno, che è saltato addosso a mio fratello ammanettandolo e bloccandolo violentemente contro la porta spingendo con il ginocchio contro la sua schiena''. ''Mi sono subito accorto che qualcosa non andava e ho gridato immediatamente di togliergli le manette, ma non avevano le chiavi'', continua. ''Solo con l'arrivo di altri agenti con le chiavi, i poliziotti sono riusciti a liberare mio fratello che però era ormai esanime a terra. Inutile l'arrivo del 118. Ormai era morto - sottolinea Vittorio Marinelli - gli operatori dell'ambulanza, arrivati in ritardo di un'ora, non dovevano portare via il corpo. E pensare che gli agenti non sono stati capaci neanche di fare la respirazione bocca a bocca, l'ho dovuta fare io - conclude - Poi loro hanno provato inutilmente a fare un massaggio cardiaco''. Per il momento non c'è alcuna notizia di reato, né alcuna denuncia nei confronti degli agenti. Per avere un quadro più completo di quanto accaduto lunedì e per capire anche le cause del decesso bisognerà attendere la conclusione dell'autopsia, in particolare dell'esame del cuore, affidato ad un'equipe di esperti.
Sul Corriere della Sera, il 10 settembre 2011, è uscito questo articolo: "Picchia la madre e muore. La famiglia accusa la polizia. La denuncia. Il fratello: gli sono state rotte 12 costole, lo ha dimostrato l'autopsia. Aveva lesioni al fegato.
"Una lite tra madre e figlio esce dalle mura domestiche per concludersi con un morto. Era lunedì scorso ma solo ora, con i risultati dell' autopsia in mano, i familiari denunciano. Sostengono che Luigi Marinelli, 49 anni, malato di schizofrenia, invalido civile (con pensione d' infermità), un passato da tossicodipendente, è stato pestato «dalla polizia come Cucchi e Aldrovandi». Dice il fratello Vittorio: «Quel giorno Luigi era su di giri. Per la prima volta ha alzato le mani su nostra madre, è vero. Ma dico che contro di lui gli agenti hanno usato metodi violenti». Chiamati a spegnere la lite fra una madre di ottant' anni e un figlio di quasi cinquanta (litigio per soldi: lui aveva speso diecimila euro in tre settimane e ne chiedeva altrettanti, lei rifiutava), quattro poliziotti del commissariato di zona rischiano ora una denuncia per omicidio colposo. Vittorio Marinelli, avvocato civilista, uno dei fratelli della vittima, quel lunedì c' era. Arrivato a discussione già iniziata. Quando sua madre aveva telefonato al 113 per evitare il peggio e gli agenti erano in salotto. «Due volanti. In casa c' erano tre poliziotti parlavano con mio fratello tranquillamente. Cercavano di farlo ragionare. Ho apprezzato. Gli dicevano: "Ma come, noi guadagniamo 1.300 euro al mese e tu ne butti via diecimila in pochi giorni?" Ma poi, quando Luigi ha detto di voler uscire di casa, con in mano l' assegno che a quel punto mia madre gli aveva firmato, loro lo hanno bloccato. Sono arrivati i rinforzi. È subentrato un quarto agente dai modi bruschi. Lo hanno ammanettato con la forza spingendogli il viso contro la porta. Lui era cianotico: "Toglietegli le manette", gli abbiamo detto, ma non si trovavano le chiavi e il tempo passava. Mio fratello stava soffocando». La procura ha aperto un fascicolo, ma sarà la consulenza medica a stabilire le eventuali responsabilità. Intanto l' esito dell' autopsia, secondo il legale di famiglia, Antonio Paparo, parla di dodici costole toraciche rotte. Grossolano tentativo di rianimazione? Possibile, filtra dalla procura. «Chiedevano: "Come si fa?, come facciamo?"», racconta Marinelli. In attesa dei risultati della perizia madre e fratello dell' uomo sono stati già ascoltati dal pm Luca Tescaroli. Ma il legale Paparo dice che il verbale dell' autopsia è già di per se sufficiente: «È stato picchiato e qui c' è il referto. Lesioni al fegato e un' emorragia interna. Marinelli è stato pestato»."
Vittorio Marinelli rettifica l’articolo sul gruppo facebook “Verità per Luigi Marinelli”: «Ci sono delle imprecisioni, in questo articolo, ma, rispetto ai primi articoli, che parlavano di un tossico che aveva aggredito la madre per poche decine di euro e di una morte in ospedale, è già un passo avanti.
LUIGI FEDERICO, INFATTI, E’ DECEDUTO DURANTE LE OPERAZIONI DI IMMOBILIZZAZIONE E L’APPOSIZIONE DELLE MANETTE EFFETTUATO DAGLI AGENTI DELLA PUBBLICA SICUREZZA INTERVENUTI SUL POSTO e non MENTRE UN’AMBULANZA LO STAVA TRASPORTANDO AL SANT’EUGENIO.
Gli agenti si sono comportati in modo umano e amicale con il povero Luigi per l’intero periodo durante il quale si sono trovati all’interno della sua abitazione IN ATTESA CHE ARRIVASSE LA GUARDIA MEDICA PER UN EVENTUALE TSO.
Luigi Federico Marinelli, invero, era schizofrenico, e non tossicodipendente, pur essendolo stato in passato, in quanto assumeva stupefacenti, in particolare hascisc, e cocaina non in modo tale da essere dipendente. Non era neanche pericoloso.
NON E', INFATTI, VERO, CHE ABBIA PICCHIATO LA MADRE. E', invece, vero, che l'ha spintonata.
Allo stesso tempo, occorre precisare che Luigi aveva ottenuto un risarcimento danni da un'assicurazione per 20.000 euro e che, in 20 giorni, offrendo a destra e manca, in quanto affetto da prodigalità, aveva sperperato 10.000 euro.
Per questo, aveva chiesto alla madre, salvo poi cambiare idea, di custodirgli i 10.000 euro rimasti salvo poi cambiare idea.
Una volta ottenuto l'assegno, è andato alla porta di casa e ha preteso di uscire per recarsi a un appuntamento con la fidanza senonché, giustamente, stante lo stato comunque di ipercitazione, gli agenti gli hanno impedito di uscire, dapprima con le buone e solo dopo che Luigi si è inalberato, immobilizzandolo in tre, trattenendolo al suolo, in modo energico e con delle tecniche di immobilizzazione che sono sembrate subito essere eccessive.
A questo punto, un quarto poliziotto ha apposto le manette alla schiena di Luigi il quale si è subito arrestato, forse proprio perché è morto in quel momento divenendo subito nero in volto.
A nulla è servita l'implorazione agli agenti di chi ha assistito all'evento: “levategli le manette, non lo vedete che sta male?” ricevendo, questi, per tutta risposta, l’affermazione che sapevano come si fa o cose del genere.
Dopo pochi minuti, che in quel caso sono un'eternità, mentre, gli agenti si sono resi conto della gravità della situazione e hanno tentato di levargli le manette, inutilmente perché non trovavano le chiavi dimodoché sono stati costretti a chiedere di intervenire ai colleghi di sotto, che aspettavano davanti al citofono.
Saliti al terzo piano, non riuscivano a entrare in quanto la porta era bloccata da chiavistelli.
Solo una volta entrati, un agente aveva la chiave delle manette appesa con un laccio al collo ed è riuscito ad aprire le manette.
A quel punto, la respirazione bocca a bocca è stata praticata dal fratello mentre un agente tentava il massaggio cardiaco ma inutilmente in quanto, come detto, il povero Luigi è morto, forse proprio al momento dell’immobilizzazione, speriamo per un infarto.
SOLO ALLORA, DOPO OLTRE UN’ORA , E’ ARRIVATA LA GUARDIA MEDICA.
Forse, quella tecnica di immobilizzazione non andava fatta e, soprattutto, non andavano apposte le manette. Luigi era schiacciato addosso alla porta e non disteso a terra. Non aveva i denti, dato che portava la dentiera, e la lingua potrebbe averlo soffocato, con il che si spiegherebbe il colore nero al volto subito percepito. Le contrazioni non si sono percepite perché era immobilizzato.
Luigi era una persona simpatica, attorniata perennemente da una corte di miracoli, formata da ragazzi con analoghi problemi mentali, che, però, non avevano mai fatto male a nessuno, tranne a noi parenti che dovevamo sopportarli.
Erano conosciuti da tutto il quartiere, dove passavano il tempo a bere birre peroni e a fumare MS.
Chiediamo di conoscere la verità su quali sono le cause della morte.»
OMICIDI DI STATO. STEFANO CUCCHI.
«C'è in noi enorme tensione per quello che ci aspetta» ha detto la sorella di Stefano, Ilaria Cucchi «Da oggi in avanti sarà ancora una sofferenza, perchè tutto ci riporterà alla mente quanto accaduto». È iniziato giovedì 24 marzo 2011 il processo davanti alla terza Corte d'assise del Tribunale di Roma per la morte di Stefano Cucchi, il geometra di 32 anni arrestato il 16 ottobre del 2009 e poi deceduto il 22 ottobre nel reparto penitenziario dell'ospedale Sandro Pertini. Sul palco degli imputati tre agenti carcerari, 6 medici dell'ospedale Sandro Pertini in servizio presso il reparto detenuti e tre infermieri dello stesso reparto. In tutto dodici persone. «Ci sono diversi coni d'ombra in questa vicenda - ha detto l'avvocato di parte civile Fabio Anselmo - Ricostruiremo l'ultimo mese di vita di Stefano». Tra le richieste preliminari all'inizio del dibattimento c'è stata quella che ha sollecitato una delle difese, relativa all'effettuazione di un sopralluogo nella cella del tribunale di Roma dove fu tenuto il giovane in attesa dell'interrogatorio successivo al suo arresto.
LE ACCUSE - I tre agenti di Polizia penitenziaria - Nicola Minichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici - devono rispondere del reato di lesioni personali aggravate per aver abusato dei loro poteri. In pratica avrebbero picchiato Cucchi nelle celle del Tribunale di Roma, a piazzale Clodio, quando questo era in attesa dell'udienza di convalida dell'arresto per spaccio di sostanze stupefacenti. Ma l'accusa più grave è quella contestata ai quattro medici ed ai tre infermieri che prestavano all'epoca dei fatti servizio al Sandro Pertini. Il reato è quello di abbandono di persona incapace, aggravato dalla morte, la condanna prevista dal Codice va dai tre agli otto anni. Ne devono rispondere i medici Aldo Fierro, Stefania Corbi, Luigi Preite e Silvia Di Carlo; e gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. Un altro dottore, Rosita Caponetti, è accusata di falso e abuso d'ufficio in relazione alle condizioni di Cucchi ed al suo ricovero. È già stato condannato a due anni il dirigente del Prap - Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria -, Claudio Marchiandi, a cui è stata data una pena di due anni.
Il padre: rivendicava i suoi diritti "Stefano prima di morire rivendicava solo i suoi diritti. E' vero, ha fatto il digiuno ma solo perché voleva che venissero rispettati i suoi diritti come quello di nominare un suo avvocato. E' morto in maniera civile, e' stato ammazzato in maniera incivile". Così Giovanni, padre di Cucchi, ripercorre gli ultimi momenti di vita del figlio.
La storia Cucchi fu arrestato il 15 ottobre di due anni fa alle 23.30. Una pattuglia di carabinieri lo trovò in possesso di stupefacenti. Fu portato in carcere e, il giorno dopo, fu portato davanti al giudice monocratico per la convalida dell’arresto. Alle 13.30, dopo la convalida, Cucchi fu affidato alla polizia penitenziaria e qualche tempo dopo il medico del tribunale si accorse che aveva alcune ecchimosi sulle palpebre e altre contusioni. Alle 15.45 arrivò a Regina Coeli ma, tre ore più tardi, fu trasportato al Fatebenefratelli dove furono riscontrate ulteriori lesioni. Alle 23 venne riportato in carcere ma il giorno successivo, il 17 ottobre, fu portato all'ospedale al Pertini. La mattina del 22 ottobre Stefano morì e da lì è iniziò il procedimento penale che ha portato al rinvio a giudizio di chi, tra guardie carcerarie, medici e infermieri, era stato coinvolto.
Ferite che assomigliano a bruciature di sigarette. Croste sulle mani. Un doppio livido trasversale all’altezza dell’osso sacro, forse dovuto a un calcio. Volto tumefatto. Sono «terribili», dicono gli avvocati Fabio Anselmo e Dario Piccioni, le foto dell’autopsia di Stefano Cucchi conservate nel fascicolo della procura. Le prime due mostrano il giovane vestito «come nel giorno dell’arresto, non gli hanno mai dato un cambio».
Nelle altre il geometra è spogliato e allora saltano agli occhi «le tremende condizioni di deperimento» del suo corpo esile. E non possono non notarsi «le escoriazioni profonde, ovali o circolari», come se qualcuno gli avesse spento dei mozziconi addosso: «Su un pollice, sui gomiti, sul dorso delle mani e all’attaccatura dei capelli». Le foto avvalorano l’ipotesi del pestaggio formulata dai pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy. Una «pista» basata sulla deposizione del supertestimone che, sabato, sarà sottoposto a incidente probatorio davanti al gip Luigi Fiasconaro. Il suo racconto è contenuto in un verbale di 30 pagine piuttosto confuso, in cui i magistrati sono costretti a chiedere più volte di che colore fossero le divise dei «picchiatori ».
«L’hanno colpito a calci», ha riferito il giovane ai pm descrivendo la scena che sarebbe avvenuta nel corridoio delle celle di sicurezza del tribunale. Finita l’udienza di convalida Cucchi sarebbe stato rinchiuso con lui: «Dopo che l’hanno messo in cella — ha detto il supertestimone — ho visto che lo spingevano». E Cucchi si sarebbe confidato: «M’hanno menato quegli stronzi». Il Dap, senza aver ancora concluso l’inchiesta interna, ha spostato i tre agenti della penitenziaria indagati a Fiumicino, a Rebibbia e al carcere minorile di Casal del Marmo.
OMICIDI DI STATO. MICHELE FERRULLI.
Poliziotti indagati: Sconfitta l'omertà. Il caso Aldrovandi di Milano si chiama Michele Ferrulli, morto durante un controllo di polizia il 30 giugno 2011. La figlia di Ferrulli a Simone Bianchini su “La Repubblica” : “Non mi sono mai arresa, mio papà avrà giustizia”.
Michele è stato ammazzato, racconta “MilanoX” in quel quadrilatero di case popolari a ridosso dell’Ortomercato di Milano, tra via del Turchino e via Varsavia. “Hanno paura della polizia” ci aveva detto la figlia di Michele, Domenica Ferrulli. E infatti da quel giorno il quartiere piombò nella più totale omertà, quando non addirittura ostilità nei confronti di Domenica. “Gente che prima dell’uccisione di mio padre mi salutava, dopo si girava dall’altra parte facendo finta di non conoscermi” aveva raccontato Domenica. Il pm della Procura Gaetano Ruta, nella chiusura delle indagini, ha usato parole impietose: Michele Ferrulli venne percosso “ripetutamente” anche “con l’uso di corpi contundenti” quando era già “immobilizzato a terra, non era in grado di reagire e invocava aiuto”. Gli agenti indagati sono quattro, due del commissariato di Mecenate e due della Questura di via Fatebenefratelli: Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo. E’ stato un anno di indagini difficili, rese ancor più complicate da Prefettura e Questura che hanno fino all’ultimo cercato di coprire gli agenti, gettando fango su Michele (le solite cose, era ubriaco, aggressivo, aveva precedenti penali…). Non solo, questa è anche una vicenda di indagati non intercettati e testimoni chiave spariti.
Indagati non intercettati e un testimone chiave sparito dice "E-Il Mensile". Domenica Ferrulli ha potuto leggere nei fascicoli d’indagine sulla morte di suo padre Michele soltanto le parole che lei stessa ha pronunciato al telefono, oltre quelle dei due testimoni rumeni, dei quali, tra l’altro, uno ha fatto perdere le proprie tracce. Nessun accenno, dunque, a quello che si sono detti i quattro agenti intervenuti la sera del 30 giugno scorso in via Varsavia, a Milano, quando il 51enne è morto davanti agli uomini in divisa. Niente di niente. Cosa insolita: di solito le intercettazioni telefoniche e ambientali degli indagati abbondano nei fascicoli d’inchiesta dei casi di omicidio. Basti pensare alle principali storie di cronaca nera degli ultimi anni: giornali, televisioni, radio e siti internet hanno pubblicato e ripubblicato le frasi dei vari coinvolti, spesso buttando via inchiostro per conversazioni che nulla hanno a che fare con le varie vicende. Questa volta non è andata così, le parole dei poliziotti sono ormai disperse nell’etere. Oltre all’assenza di intercettazioni tra le divise, però, c’è un altro particolare che getta un – inquietante – alone di mistero sulla vicenda: la scomparsa di un amico rumeno di Ferrulli, presente anche lui in via Varsavia quella maledetta serata di fine giugno. “Lo hanno picchiato in tanti, e alla fine Michele è caduto a terra…”, con queste parole Emilan Nicolae, 45 anni, anche lui testimone dei fatti, ha descritto gli eventi al pm, aggiungendo di aver sentito il suo amico gridare aiuto. La testimonianza, però, non arrivò immediatamente, ci volle qualche giorno perché l’uomo si recasse in procura per parlare di quello che aveva visto. Perché non lo disse subito? “Mi sentivo confuso”, così rispose agli investigatori l’amico della vittima. L’altro testimone, però, ha fatto perdere le sue tracce. Pare sia tornato in Romania, non vuole sapere più nulla di questa storia. Ma le sue parole potrebbero rivelarsi fondamentali per risolvere il mistero. Al momento, né il pm né la famiglia Ferrulli (le cui istanze sono portate avanti dall’avvocato Fabio Anselmo) hanno sue notizie. Ad ogni modo, i fascicoli dell’indagine aiutano a ricostruire la vicenda, grazie alla combinazione delle immagini fornite da un telefonino e da una telecamera di sorveglianza della farmacia. Sono le 22 e 07 quando in via Varsavia arriva una volante: un residente della zona aveva chiamato il 113, lamentandosi per alcuni rumori molesti. Ferrulli è lì, “si pone davanti al poliziotto”, l’agente sembra non scomporsi e “si allontana dalla zona di contatto, Ferrulli lo segue e una volta fermato si mette davanti a lui”. Si avvicina un altro uomo in divisa e colpisce l’uomo con uno schiaffo. A questo punto arriva una seconda volante. Alle 23 e 30, Ferrulli è immobilizzato a terra, chiede aiuto. I poliziotti, però, non sembrano preoccupati: lo colpiscono “ripetutamente” infatti, mentre lui non aveva più alcuna possibilità di opporre resistenza. Non ci sarà più nulla da fare, l’uomo cede, inutili i tentativi di rianimazione. Quel 30 giugno, Michele Ferrulli era uscito con gli amici, ha bevuto qualche birra, ha incontrato la polizia ed è morto. L’indagine – al solito complicatissima, quando ci si imbatte in casi del genere – è condotta dal pm Gaetano Ruta che ha indagato quattro agenti (due del commissariato di Mecenate e due della Questura di via Fatebenefratelli); Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo, per omicidio colposo e falso ideologico, per aver artefatto il rapporto su quanto accaduto. Secondo l’accusa, gli agenti avrebbero ecceduto “i limiti del legittimo intervento”. Ma non sono solo i filmati a puntare il dito contro i poliziotti, c’è anche una perizia – eseguita da Gaetano Thiene dell’Università di Padova – che parla di un decesso improvviso, avvenuto “durante un’azione di contenimento e accompagnato da percosse di agenti della polizia”. A causare la morte, per Thiene, è stato “un violento attacco ipertensivo, verosimilmente precipitato dallo stress emotivo del contenimento, dall’eccitazione da intossicazione da alcool e dalle percosse con tempesta emotiva e iperattivazione adrenergica”. Ferrulli era alto un metro e ottanta, pesava 147 chili e aveva un cuore piccolo per la sua mole, appena 700 grammi. Particolari che hanno concorso ad ucciderlo.
«Per me è un grande giorno, le indagini sulla morte di mio papà sono terminate e ci sono quattro agenti di polizia indagati per omicidio colposo e falsità ideologica». La linea del pm Gaetano Ruta premia la volontà della figlia di Michele Ferrulli - Domenica, 26 anni, un marito e 2 figli - che dalla sera del 30 giugno dell' anno scorso, quando è morto suo padre, ha cominciato e portato avanti, caparbiamente con speranza e fiducia, una lotta serrata perché si stabilisca e si accerti la verità di quanto avvenuto quella sera. Il pm ha comunicato la chiusura delle indagini formalizzando le accuse ai quattro agenti. «Un passo davvero grande che arriva al termine di un percorso lungo e difficile - racconta Domenica - se io mi fossi arresa non saremmo arrivati a questo. Mi sono scontrata con l'omertà, la paura delle persone. Tanto silenzio, c' erano dei testimoni oculari che sono scappati, erano persone che pensavamo fossero nostri amici e che quella sera ci avevano sostenuto». Invece poi è successo qualcosa: «Hanno minacciato me e la mia famiglia dicendoci che loro non volevano essere interrogati, non volevano dire la verità, avevano paura della polizia e mi chiesero di tenerli fuori da questa vicenda. Io non mi sono fermata, ho raccontato al pm tutto quello che loro mi avevano raccontato. E poi sono arrivate le minacce a mio fratello: gli stessi testimoni, forse a loro volta minacciati da qualcuno, gli dicevano di riferirmi che col tempo l' avrei pagata e che non avrei dovuto dire nulla». I familiari di Ferrulli non si sono fermati, sono andati avanti, Domenica ha trovato l'aiuto della mamma di Federico Aldrovandi, Patrizia Moretti, della sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, e della sorella di Giuseppe Uva, Lucia. Parenti di supposte vittime delle forze dell' ordine: «Mie compagne di battaglia. A loro, che devono combattere anche contro i pm, va un grazie speciale perché mi hanno indirizzato verso la strada giusta». «Fondamentale» l'arrivo dell' avvocato Fabio Anselmo, già difensore proprio dei parenti di Cucchi e Uva: «Ci era stato detto, dalla procura, che stavamo andando incontro ad una archiviazione sicura del caso - spiega Domenica Ferrulli - . Il rischio era che non si parlasse più di mio padre, che tutto venisse sepolto con lui. Ma dentro di me gli avevo fatto una promessa, ancora accesa: che avrei fatto luce su quel che gli è successo. Era un padre, un marito e un grandissimo nonno che mi manca moltissimo». Le indagini difensive hanno portato alla luce nuove prove: «Le testimonianze, i video, tutto quello che siamo riusciti a raccogliere ha convinto il pubblico ministero a non archiviare ma a studiare i fatti. Così è stata rintracciata e interrogata l' autrice del video girato quella sera in via Varsavia, in cui si vedono i poliziotti che picchiano mio padre a terra, ammanettato e mentre chiede aiuto. Facendo questo ne hanno provocato la morte: io sono convinta che se loro non lo avessero picchiato, mio padre quella sera sarebbe tornato a casa. Non sarebbe morto». Per l' avvocato Anselmo, «indagare gli agenti è una decisione molto importante. Significa riuscire a portare il caso in un processo e rendere giustizia a un uomo che non era violento ma ha subito violenza dagli agenti». Quello che resta, nel cuore di Domenica e di sua mamma Caterina, è un altro dispiacere: «Il fango su mio papà. Dissero che mio padre era un pregiudicato aggressivo, un delinquente. Bugie e cattiverie, adesso avrà giustizia».
Alle 9.30 del 20 luglio 2012 - scrive Claudia su “Abuso di Polizia” - si è tenuta l'udienza preliminare per il processo di Michele Ferrulli. Di fronte al tribunale di Milano in via Manara erano presenti la figlia della vittima, Domenica Ferrulli, il fratello Francesco e la Signora Ferrulli; nei loro volti era assolutamente palpabile la tensione, occhi lucidi, ma con il cuore fermo e deciso a volere e gridare giustizia. Al loro fianco, come una vera grande famiglia allargata Lucia Uva, sorella di Giuseppe Uva pestato a morte in caserma; Massimo Uccheddu, figlio di Carrus Maria Rosanna, Luigi Vittorino Morneghini l'uomo di 63 anni aggredito il 20 maggio 2011 nella periferia di Milano da due poliziotti in borghese e Luciano isidro Diaz, massacrato di botte da degli agenti di polizia. A pochi metri di distanza dal tribunale un presidio di persone ha manifestato per chiedere giustizia per Michele, un vero atto di solidarietà civile da parte dei vicini di Michele, gli amici, ma anche gente normale, sensibile alla vicenda, scesa in piazza perchè sdegnata dall'ingiustizia subita da Michele Ferrulli; molte persone hanno parlato, ricordando che oggi è anche l'anniversario della morte di Carlo Giuliani, ragazzo ucciso dall'agente di polizia Mario Placanica nei tragici giorni del G8 di Genova nel 2001. Prima di entrare in aula riusciamo a cogliere una battuta carica di speranza dell'avvocato della famiglia Ferrulli, Fabio Anselmo, noto per aver assistito altri familiari di vittime dello stato come Aldrovandi e Cucchi; l'avvocato ha dichiarato "oggi è un giorno importante", e lo è stato. Gli avvocati dell'accusa e della difesa hanno parlato davanti ai microfoni del tribunale di Milano. L'accusa ha chiesto e ottenuto dal Gip il rinvio a giudizio dei i quattro agenti per "omicidio colposo" e "falso ideologico". E' stato anche presentato il video che mostra con sconcertante evidenza il pestaggio dell'uomo, che subisce almeno nove manganellate sul corpo, ormai riverso a terra; il video è stato rielaborato dalla procura di Milano rendendolo ancora più chiaro e nitido rispetto alla versione originale, anche se pure in quella era comunque cristallino l'abuso realizzato dagli agenti e perpetrato nei confronti di Michele Ferrulli. La difesa di tutta risposta controbatte che il video in realtà non mostra niente di assolutamente evidente, che i familiari della vittima si sono lasciati suggestionare dalle immagini, vedendo cose che non in realtà non c'erano. Il video parla chiaro: "Hai visto il cazzotto in bocca che gli danno?", dice la voce fuori campo, mentre a pochi metri Michelle Ferrulli giace sotto i colpi delle forze dell'ordine. Il video era noto, ora si conosce anche il proprietario. La figlia di Michele, Domenica Ferrulli, ha fatto tradurre le parole dei testimoni rom.
Ed alla fine la caparbietà ed il coraggio delle vittime ha trovato riscontro e ristoro, quindi corrispondenza, nel buon cuore ed illibata coscienza di un magistrato fuori dal coro. “Il Corriere della Sera” e “La Repubblica” raccontano che Il gup milanese Alfonsa Ferraro ha rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio preterintenzionale i quattro poliziotti che avrebbero percosso nel corso di un arresto Michele Ferrulli, il 30 giugno 2011 a Milano, quando era già "immobilizzato a terra". I poliziotti sono Francesco Ercoli, Michele Lucchetti, Roberto Stefano Piva e Sebastiano Cannizzo. Secondo la Procura, quando l'uomo "si trovava a terra in posizione prona, era immobilizzato e invocava aiuto", i quattro lo avrebbero colpito "ripetutamente anche con l'uso di corpi contundenti". L'uomo, un facchino, di 51 anni, quella sera morì per arresto cardiaco. Il giudice ha riqualificato l'ipotesi di reato da cooperazione in omicidio colposo a omicidio preterintenzionale, rinviando direttamente gli agenti davanti alla Corte d'assise. Il processo per loro inizierà il prossimo 4 dicembre 2012. "E' un ottimo inizio", ha commentato Domenica Ferrulli, figlia di Michele. "Siamo davvero soddisfatti. Nella sfortuna abbiamo avuto la fortuna di trovare chi ha fatto indagini veloci, pulite e senza voler nascondere nulla a nessuno". Già però il PM ha tentato di affibbiare un reato meno grave di quello che in effetti il GUP ha disposto. Magagne giudiziarie per rendere l’impunità? A richiedere il processo per gli agenti era stato il pubblico ministero Gaetano Ruta, che da un'iniziale ipotesi di omicidio preterintenzionale aveva poi chiuso le indagini nei confronti dei quattro con l'ipotesi di cooperazione in omicidio colposo. Secondo l'accusa, gli agenti avrebbero "ecceduto i limiti del legittimo intervento", concorrendo "a determinare il decesso" dell'uomo, dovuto fra le altre cose "alle percosse". Ferrulli si trovava in via Varsavia, alla periferia sud-est di Milano, vicino a un bar, dove una volante della polizia intervenne perché da una casa vicina erano arrivate lamentele per i continui schiamazzi in strada. L'uomo, con precedenti penali per resistenza a pubblico ufficiale e lesioni, stando a quanto era stato riferito in questura, quella sera era ubriaco, "aggressivo e ostile". I poliziotti, secondo il pm, avrebbero agito "con negligenza, imprudenza e imperizia, consistite nell'ingaggiare una colluttazione eccedendo i limiti del legittimo intervento, percuotendo ripetutamente la persona offesa in diverse parti del corpo (pur essendo in evidente superiorità numerica) e continuando a colpirlo anche attraverso l'uso di corpi contundenti". Il gup di Milano Alfonsa Ferraro ha rinviato a giudizio con l'accusa di omicidio preterintenzionale i 4 poliziotti che avrebbero percosso «ripetutamente» nel corso di un arresto a Milano il 30 giugno 2011 Michele Ferrulli, quando era già «immobilizzato a terra». L'uomo, manovale, di 51 anni, quella sera morì per arresto cardiaco. Il giudice ha riqualificato l'ipotesi di reato da cooperazione in omicidio colposo ad omicidio preterintenzionale, rinviando direttamente gli agenti davanti alla corte d'assise. Il processo per loro inizierà il 4 dicembre 2012. «È un ottimo inizio. Siamo davvero soddisfatti. Nella sfortuna abbiamo avuto la fortuna di trovare chi ha fatto indagini veloci, pulite e senza voler nascondere nulla a nessuno». Così Domenica Ferrulli, la figlia del 51enne morto durante un controllo di polizia in via Ferraro, ha commentato la decisione del giudice per l’udienza preliminare non solo di rinviare a giudizio i 4 poliziotti accusati di aver pestato a morte Michele Ferrulli, ma di riqualificare l’imputazione da «cooperazione in omicidio colposo per eccesso colposo dell’adempimento del dovere» nella più grave di «omicidio preterintenzionale». Luigi Manconi, presidente dell'associazione A Buon Diritto, giudica «estremamente importante» la notizia della riqualificazione del reato: « Più volte abbiamo denunciato la scarsa corrispondenza tra un atto di fermo che avviene con modalità evidentemente abnormi, tali da non escludere conseguenze mortali, e un titolo di reato palesemente inadeguato. La verità è che, anche di recente, tra Milano e Roma, si sono verificati numerosi casi di "omicidio preterintenzionale" nel corso di fermi. Nella maggior parte di queste vicende - conclude Manconi - il nesso di causalità tra violenza dell'azione di fermo e morte del fermato è stato ignorato. Questa volta, grazie alla tenacia di Domenica Ferrulli, figlia della vittima, e dell'avvocato Fabio Anselmo, si è aperto uno spiraglio di verità».
Michele il gigante e quegli scontri per le cosa occupate, scrive Gianni Santucci su "Il Corriere della Sera". Lotte e denunce per aggressione. La rabbia. La scritta Ferrulli "un mese fa aveva aggredito il prete di zona per strada accusandolo di aiutare solo gli extracomunitari". Aveva occupato un appartamento vent'anni prima. Ora lì resta una scritta: «Sanatoria a chi occupa per necessità». «Ci hanno chiamato dal bar e siamo scesi di corsa, è proprio dietro casa». Domenica Ferrulli parla dall'ospedale, è la mezzanotte di giovedì, ha seguito l'ambulanza che dopo l'arresto ha portato il padre Michele al pronto soccorso, l'uomo è già morto. La ragazza, 25 anni, dice che farà «denuncia». È scossa, la voce rotta, passa il cellulare a un familiare che racconta: «Ci siamo avvicinati e Michele era a terra. Abbiamo chiesto cosa stesse succedendo. I poliziotti ci hanno detto che aveva cercato di aggredirli e avevano dovuto immobilizzarlo». Continua la ragazza: «Ma non è andata così, l'hanno picchiato. Una donna è uscita dal bar e ha urlato "raccontate la verità"». E ancora: «Ci sono i testimoni e il video. Mio padre ha segni sui polsi a causa delle manette e altri lividi dietro l'orecchio» (nei referti dell' ospedale di San Donato, di questi segni vicino alla testa non c'è traccia). Inizia così, con questa telefonata al Corriere, la storia di una serata balorda fuori da un bar alla periferia sud-est di Milano, di fronte ai mercati generali della città. È qui che Michele Ferrulli aveva occupato un appartamento, vent'anni fa. Sul caseggiato ora campeggia una scritta: «Sanatoria a chi occupa per necessità». Lo striscione, lassù all'ingresso, l'aveva appeso lui. È firmato: «Comitato Turchino». Turchino è la via, e il comitato è uno tra i più attivi, in difesa degli abusivi storici delle case popolari milanesi. Di quel gruppo Ferrulli era un pezzo storico, un sostenitore. «Era un figlio del popolo», dicono qui. E una sorta di avvocato difensore un po' per tutti, in questo quartiere complicato. Aggiungono due particolari, i conoscenti, che sono forse utili per capire cosa è accaduto l'altra notte durante l'arresto. «Appena c'era una discussione, lui si metteva comunque in mezzo. Per aiutare, per difendere». La domanda è: difendere da chi? Da una pattuglia che sta facendo un controllo? Per qualcuno, in queste strade, il poliziotto o il carabiniere sono sempre e comunque intrusi, «rompiballe», anche se a chiamare il 113 per schiamazzi è un altro abitante. Qui molti ragazzotti dicono sbirro, e lo fanno con disprezzo. L'uomo morto dopo l'arresto di mercoledì sera era una montagna, molti chili di troppo accumulati negli ultimi anni, gli occhi chiari, origini pugliesi. Aveva avuto una piccola impresa di idraulica e riparazioni di caldaie, chiusa l'anno scorso. Teneva però ancora il furgone, con cui si arrangiava per piccoli lavoretti, edilizia e traslochi. Ma chi voleva «difendere» Ferrulli l'altra sera? E soprattutto, da cosa? In realtà gli agenti della Volante, chiamati per schiamazzi, stavano solo identificando i due uomini romeni che erano in strada vicino a lui, con la birra in mano e la musica dell'autoradio troppo alta. Di certo, non c'era niente da cui «difendersi». Era un controllo di routine, una cosa da niente, un intervento che di solito si risolve con quattro parole e nessuna conseguenza. Un controllo che però, adesso, qualcosa rivela: con uno dei due romeni, Ferrulli era stato controllato nell'ottobre dell'anno prima. Erano insieme in un bar, non volevano pagare, erano molesti e la titolare chiamò la polizia. Non è il solo precedente che aveva, negli archivi delle forze dell'ordine ce ne sono per lesioni, danneggiamento, «insolvenza fraudolenta». L'ultimo episodio è del 18 maggio: un parroco della zona ha chiamato i carabinieri denunciando di essere stato aggredito. Ai militari del Nucleo radiomobile il sacerdote ha raccontato che, mentre camminava per strada, ha incrociato Ferrulli che passava col furgone e l'ha salutato. Lui però si è fermato e, ha denunciato il parroco, «mi si è avvicinato e mi ha tirato uno schiaffo, poi mi ha detto una frase del tipo "voi preti siete delle merde, aiutate solo gli extracomunitari", alla fine mi ha colpito altre due volte». L' uomo e la sua famiglia erano entrati da anni in una sorta di spirale abbastanza comune nelle case popolari di Milano: una vecchia occupazione (auto)giustificata «per necessità»; la denuncia che pregiudica una successiva assegnazione regolare; una sorta di limbo per cui si rimane nell'appartamento anche per decenni, ma sempre col rischio di uno sgombero. In quella casa di via del Turchino, Ferrulli era entrato nel 1991 con la moglie e la figlia piccola, poi era arrivato un altro figlio, infine cinque anni fa anche un nipote. Aveva ristrutturato l'appartamento e pagava una sorta di «indennità d'occupazione». Nel 2007 aveva resistito a uno sgombero. Si era rivolto al Comitato inquilini «Molise-Calvairate-Ponti», storica associazione di cittadini che da decenni aiuta questa parte dolente di città, spesso dimenticata dalle istituzioni. Prima e dopo quello sgombero, Ferrulli aveva però difeso tante altre famiglie, come la sua «occupanti per necessità». L'aveva fatto con le manifestazioni e le mobilitazioni. Quella era la sua «battaglia giusta».
CONDANNATI PREVENTIVI. LA CONDIZIONE DEGLI INNOCENTI IN CARCERE.
La condizione di “Condannati preventivi”. Le manette facili di uno stato fuorilegge.
Quando in uno Stato, che si definisce “Culla del Diritto”, la metà dei suoi detenuti in carcere sono innocenti e nessuno dei ben pensanti liberi e criminali impuniti se ne “fotte”, allora è uno Stato che non merita rispetto. Non meritano rispetto nemmeno la massa che lo abita e che si accapiglia solo sui soldi e non sui valori civili e sulla la dignità umana.
“Parlar con il popolino non conviene, questo sa più della laurea che tieni. Su questi argomenti è sempre negazione, perché?!? Perché l’ha detto la televisione!!!” (parte di una poesia di Antonio Giangrande). Si scrive per i posteri affinchè si ridia onore a chi oggi onore non ha.
E SE UN DOMANI IL DANNATO FOSSI TU !!!
Quasi un detenuto su due è recluso nelle galere italiane in regime di custodia cautelare. In altre parole, carcere preventivo. La detenzione dietro le sbarre in assenza di una sentenza di condanna ha assunto dimensioni abnormi, che sono valse al nostro Paese la maglia nera in Europa. Se oggi in Italia è più facile andare in carcere in assenza che non a seguito di una condanna; se i processi hanno una durata elefantiaca e spesso un’estinzione quasi certa; se quintali di carcere preventivo in celle dove può succedere di tutto, e di tutto infatti vi succede, vengono dispensati senza che vi sia un meccanismo efficace per ottenere riparazione in caso di ingiusta detenzione; se oggi un magistrato può spedirti dietro le sbarre con una formuletta di rito senza che tu abbia alcun mezzo per difenderti (anzi spesso la detenzione ostacola l’articolazione di una vera difesa); se tutto questo è vero, allora esiste un problema.
Esiste un Caso Italia. Le manette strette ai polsi di presunti colpevoli ci paiono la norma. Ma di normale non c’è nulla.
“ConDANNATI preventivi”: Se il carcere preventivo è abuso.
Questo è libro di Annalisa Chirico.
Adriana è la badante romena accusata dell’omicidio di un’anziana: 3 anni di carcere e poi l’assoluzione perché il fatto non sussiste, la vecchia è morta d’infarto. Elizabeth è considerata la referente italiana di un cartello internazionale di droghe: quattro anni di galera seguiti da altri sei con obbligo di dimora, poi l’assoluzione e il ricongiungimento con la figlia salutata dieci anni prima in Colombia.
Sono alcune delle storie che racconto in “ConDANNATI preventivi”, che non è un libro sul carcere ma sulla giustizia in Italia. Attraverso casi più o meno noti (da Alfonso Papa a Raffaele Sollecito, da Lele Mora a Silvio Scaglia) si accende una luce sui nodi irrisolti della giustizia italiana, un vero manicomio dove è più facile finire in galera prima della condanna e poi uscire una volta condannati. Da strumento di cautela processuale la custodia cautelare dietro le sbarre è diventata anticipazione della pena e mezzo per estorcere confessioni. E’ l’antidoto alla irragionevole durata dei processi. Il 40% dei detenuti sono in attesa di giudizio, la metà di questi sarà dichiarata innocente. Nel 2011 lo Stato italiano ha versato 46 milioni di euro per ingiusta detenzione, 235 euro è il prezzo di un giorno di libertà negato. Dal 1988, anno dell’entrata in vigore della legge Vassalli, ad oggi le condanne irrogate nei confronti di magistrati per dolo o colpa grave sono state quattro in tutto. Avete capito bene. “Condannati preventivi – Le manette facili di uno Stato fuorilegge” di Annalisa Chirico è un pamphlet di denuncia, scritto con linguaggio battagliero e polemico, spesso esuberante, scrive Alessandro Litta Modignani su “Notizie Radicali”. L’autrice, del comitato nazionale di Radicali Italiani, scrive su “Panorama” e “Il Giornale”; ha affidato la prefazione del suo lavoro a Vittorio Feltri e la postfazione di Giorgio Mulè, attuale direttore di “Panorama”. Nella sue due paginette, Feltri si pronuncia per l’amnistia come condizione per rientrare nella legalità, definisce le carceri un “museo degli orrori” ed elogia i Radicali. Anche Annalisa Chirico utilizza l’intero armamentario lessicale tipicamente pannelliano: tortura legalizzata, Stato criminale, Corte costituzionale come “suprema cupola della mafiosità partitocratica” e via dicendo; cita di continuo Pannella, D’Elia, Bernardini, Arena, “Radio Carcere” e “Radio Radicale”. La prima parte del libro è sicuramente la più interessante e istruttiva: 70 pagine in cui scorrono molti protagonisti, noti e meno noti, delle cronache e degli orrori giudiziari italiani. Si comincia con il deputato Alfonso Papa, che sottolinea le “scorrettezze” sia del Parlamento, sia dei magistrati (a partire dagli interrogatori) per finire con le condizioni di vita nell’inferno di Poggioreale. Poi via via tutti gli altri, ognuno dei quali descrive un aspetto particolarmente scandaloso e tragico. Lele Mora che perde 35 chili e fa 400 giorni di carcere preventivo per bancarotta. I giornali si chiedono: “Quanto c’è di vero nella sua conversione morale?” invece di interrogarsi sul trattamento cui è stato sottoposto. Poi si parla di “Giancarlo” accusato di una scalata alla Lazio che non ha mai tentato, e di Silvio Scaglia, uno degli italiani più ricchi, che dalle Antille affitta un aereo privato per attraversare l’Atlantico e presentarsi al giudice e viene incarcerato per il “pericolo di fuga e inquinamento delle prove”. Si racconta di una sconosciuta Elisabeth accusata di narcotraffico, incontrata da Sergio D’Elia e difesa dagli avvocati radicali Caiazza e Rossodivita, completamente scagionata dopo 9 processi nel corso di 13 anni. Quando le dicono “Lei è libera” si chiede: “E adesso cosa faccio? Dove vado?”. Amanda Knox e Salvatore Sollecito (delitto Meredith, Perugia) totalizzano 1450 giorni di carcere in due, per poi essere assolti con grande ira popolare. Amanda accusa Patrice Lumumba (che per sua fortuna ha un alibi di ferro) ma ritratta subito: ha fatto il suo nome solo perché distrutta da un interrogatorio/tortura. In attesa di giudizio le vengono negati i domiciliari con la motivazione che non avrebbe dimostrato “rimorso” (!?!?). Adriana, badante rumena, viene accusata di avere ucciso la vecchia che assisteva: tre anni dentro, per poi scoprire che già l’autopsia aveva dimostrato la morte per infarto: il fatto non sussiste. Massimiliano Clerico si fa il carcere per calunnia (?!?!?!) mentre le lettere anonime calunniose le aveva mandate un altro: è assolto ma la sua ditta intanto fallisce. Renato Raimondi fa un giorno di carcere, il Gip non convalida l’arresto: rimborso minimo 235,82 euro. Lo Stato gliene versa 200 poi Equitalia gli chiede 136,05 euro di tassa per la registrazione della sentenza in Cassazione. Dopo l’assoluzione definitiva riceverà un rimborso di 3.000 euro. Daniela, prostituta sieropositiva, viene accusata di “tentate lesioni volontarie gravissime” per avere avuto rapporti non protetti. Ma negligenza e imprudenza non possono essere “tentate”, il reato può essere solo doloso e non colposo.
Assolta, chiede l’indennizzo ma le viene negato: la sua condotta è comunque “riprovevole”, il giudizio morale prevale sul diritto. P.O.
viene arrestato per droga, è pluri-pregiudicato ma questa volta non c’entra. Viene assolto, lo Stato è condannato a rimborsare entro 120 giorni ma inizia una guerra di carte bollate, riceve i soldi solo 6 anni e mezzo dopo. Salvatore Ferraro è un caso notissimo (delitto Marta Russo, Sapienza Roma). Chirico racconta l’interrogatorio scandaloso della testimone Alletto (tutta l’Italia lo ha visto nella videocassetta di Panorama) che dice: “Io in quell’aula non c’ero, mi prenderanno per pazza”, e il pm: “No, la prenderemo per omicida.
Lei entra in carcere e non esce più”. Così la Alletto accusa Scattone e Ferraro. Il Tribunale del riesame respinge l’istanza di scarcerazione scrivendo che “il movente sta nell’assenza di movente”. Anche Liparota, altro testimone, prima conferma la (estorta) testimonianza della Alletto, poi ritratta dicendo di essere stato costretto dalle eccessive pressioni. Ferraro sta in carcere fino alla condanna, poi appena condannato... esce: una giustizia folle, alla rovescia. Se avesse confessato il falso, accusando Scattone, sarebbe uscito subito. Dulcis in fundo, a Ferraro viene chiesto dall’Università un milione di euro di risarcimento danni. In realtà deve pagarli Scattone ma il giudice... si è sbagliato, ha confuso i due. Eh già, il giudice si è sbagliato, sorride amaro Ferraro. Aldo Scardella si impicca a 24 anni nel carcere di Cagliari nel 1986. Lo avevano sbattuto dentro perché sospettato di una rapina ma non c’entrava nulla, i veri colpevoli saranno trovati e condannati molti anni dopo. Il suo suicidio è un omicidio di Stato. Procuratore capo, giudice istruttore e Pm si rimpallano le responsabilità per la decisione dell’isolamento. Emergono i pessimi rapporti interni al Tribunale, le polemiche, le rivalità personali. A Scardella è intestata una piazza cittadina. Infine Giuliano Naria, il cui caso è notissimo, la più lunga custodia cautelare della storia d’Italia, morto di cancro a 50 anni.
La seconda parte del libro è meno interessante, più ripetitiva.
L’autrice ricorda Enzo Tortora, ma anche Clementina Forleo che nel ’94 assolve Melluso dalla querela per diffamazione perché, al di là di quanto stabilito dal processo, “i fatti potrebbero essere andati diversamente”. Si descrivono le carceri come “discarica sociale”, “fabbrica di mostri”, luoghi di pena corporale eccetera. Ci si dilunga sulle motivazioni che dovrebbero giustificare la carcerazione preventiva – gravi indizi di colpevolezza, pericolo di fuga, reiterazione e inquinamento delle prove – per dimostrarne il mancato rispetto e l’intima incongruenza con il dettato costituzionale. Si denuncia la non terzietà del giudice e la mancata separazione delle carriere, le ripetute condanne in sede europea. Si ricorda la vicenda giudiziaria di Corrado Carnevale, accusato di complicità con la mafia e poi assolto da tutto. Si denuncia la giustizia per campagne emergenziali: prima il terrorismo, poi la mafia, poi ancora la corruzione politica. Tangentopoli viene descritta come un golpe moralizzatore a opera del “partito dei magistrati” (Mellini) Un magistrato, Marcello Maddalena, parla di “momento magico” dopo l’arresto, quando “l’arrestato si preoccupa meno della solidarietà nei confronti dei correi e più della rapida conclusione della sua disavventura”.
Le ultime pagine parlano del reato di stupro e di una magistratura che opera con il fiato sul collo degli umori popolari, montati dalla televisione. Un paragrafo è dedicato al braccialetto elettronico, misura mai decollata nonostante le ingenti somme investite (100 milioni spesi, 10 braccialetti sperimentati in tutto) mentre in altri paesi funziona perfettamente: 100.000 in Usa, 60.000 nel Regno Unito. Nelle conclusioni, Chirico cita ancora Pannella: l’amnistia contro la “flagranza criminale”, le prescrizioni come amnistia strisciante e di classe. Secondo l’autrice, la carcerazione preventiva va impedita tout court, completamente e per tutti, le carriere separate, l’obbligatorietà dell’azione penale abolita, le leggi ex-Cirielli e Fini-Giovanardi abrogate (37% di detenuti in Italia per reati connessi alla droga, contro una media europea del 15%). Per contro, la legge Vassalli sulla responsabilità non è mai stata veramente applicata: dal 1988, 406 cause avviate, 34 dichiarate ammissibili e solo 4 concluse con una condanna. L’autrice propone l’istituto della sospensione della pena e messa in prova del detenuto e l’introduzione delle liste d’attesa per le carceri (come in Norvegia) con arresto domiciliare. Sicuramente l’attitudine della giovane autrice (classe 1986) di parlare in prima persona e di rivolgersi direttamente ai lettori (“Tendono le mani attraverso le sbarre, a te si aggrappano e tu ti senti così piccola, così impotente”; “Non prendetelo come un invito all’eversione ma come un monito: qui ci stanno fregando, ora lo sapete”; “Dovrebbe preoccuparci tutti. Io sono preoccupata, non so voi”) non contribuisce ad accrescerne l’autorevolezza. Piccoli peccati di presunzione che Annalisa Chirico saprà presto lasciarsi alle spalle, nel corso della brillante carriera giornalistica e politica che sicuramente l’aspetta.
«Il carcere preventivo? Una vergogna italiana», scrive Andrea Cuomo su “Il Giornale”.
«Lo Stato italiano sottrae pezzi di vita più o meno ampi a cittadini innocenti». Alfonso Papa, magistrato e deputato del Pdl, dopo essersi fatto nel 2011 ben 157 giorni di reclusione, 101 dei quali in carcere, per un presunto coinvolgimento nell'inchiesta sulla P4, si occupa a tempo pieno della condizione carceraria. E ha idee molto chiare su come la carcerazione preventiva rappresenti nel nostro Paese uno strumento di tortura.
Papa, davvero la carcerazione preventiva è una stortura tutta italiana?
«Guardi, in nessun Paese democratico vi si fa ricorso in modo così massiccio. Le statistiche ci dicono che il 43 per cento dei detenuti sono soggetti in attesa di giudizio e per cui vale quindi la presunzione di innocenza. E che di questi il 50 per cento è poi riconosciuto non colpevole già nel giudizio di primo grado. Per questo sostengo che lo Stato rubi pezzi di vita». Pezzi di vita trascorsi peraltro in condizioni disastrose. I detenuti italiani hanno a disposizione meno di 3 metri quadri l'uno, collocandosi a metà strada tra quanto la legge stabilisce per le salme (1 mq) e i maiali di allevamento (3 mq). Non a caso nelle carceri italiane c'è un morto ogni cinque giorni, quasi tutti suicidi. L'Italia ripudia la pena di morte ma non nelle proprie galere. Inoltre per chi subisce la carcerazione preventiva la tortura è doppia: difficilmente infatti esce di prigione migliore di quanto era prima».
La responsabilità di tutto ciò è soltanto della magistratura?
«Certo fa riflettere il modo in cui la magistratura metta in atto alcuni meccanismi di autodifesa. Ma anche la classe politica deve vergognarsi un po', Pdl compreso. Anche se la carcerazione preventiva può essere uno di quei temi di civiltà con il quale il Pdl potrebbe riempire un momento di vuoto politico. Sono convinto che non siano i Fiorito a uccidere la politica italiana, ma la mancanza di battaglie per gli ideali».
Lei ha costituito il comitato per la prepotente urgenza. Che cos'è?
«Intanto il nome: fu il Presidente della Repubblica a parlare un anno e mezzo fa di prepotente urgenza a proposito della situazione carceraria, salvo poi occuparsi di tutto in quest'ultimo anno e mezzo, compreso sostituire un governo scelto dal popolo con uno non eletto, tranne che di questa prepotente urgenza. Riuniamo diverse associazioni che vogliono costituire una fondazione per l'applicazione dell'articolo 27 della Costituzione. Con noi collaborano persone come Lele Mora. Personalmente ho presentato un progetto di legge contro l'abuso della carcerazione preventiva e visito un carcere all'incirca ogni dieci giorni. E sono sicuro che col tempo le coscienze si smuoveranno».
Anche il nostro (ex) direttore Alessandro Sallusti rischia di finire in galera.
«Il caso Sallusti è la punta dell'iceberg di questo gulag che è diventato l'Italia. In nessun Paese esiste il carcere per un reato intellettuale, di opinione, per di più non commesso personalmente ma in base al principio della responsabilità oggettiva. Lascia sbigottiti la volontà di emanare una condanna esemplare che va a colpire chissà perché Sallusti prevedendone niente di meno che la pericolosità sociale. Questa è una vicenda importante, che ci fa riflettere sull'assoluta mancanza di democrazia nel nostro Paese. E che soprattutto ci mostra in quale modo lugubre e medievale il carcere, la gattabuia, venga evocata come vera risposta per tutti quei comportamenti non condivisi. Anche se poi il problema vero non sono i Papa o i Sallusti, ma le migliaia di persone senza volto, senza dignità, che sono la vera carne al macero del sistema carcerario italiano».
TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA.
MICHELE MISSERI E BEN EZZEDINE SEBAI, CONFESSI OMICIDI NON CREDUTI E SULLO SFONDO L’ILVA.
Il paradosso dei rei confessi in libertà e di chi, dichiarandosi innocente, senza cedimenti e da presunti innocenti nelle more del processo, rimane per anni in carcere.
A Taranto sono troppi gli errori giudiziari ed i reo confessi che non sono creduti, in onore di una tesi accusatoria frutto di un personale modo di pensare proprio di un magistrato requirente, che non può pregiudicare anni d’indagine da lui condotte, ed in virtù di un appiattimento a questa tesi dovuto ad un libero convincimento di una persona normale, suo collega, che fa il magistrato giudicante avendo vinto un concorso pubblico. Magistrati inseriti in un ambiente dove si tifa per la colpevolezza di qualcuno sotto influenza mediatica locale e nazionale. La stampa, anziché riportare i fatti e concentrasi sul perché l’evento confessato sia avvenuto, si concentra a minare la credibilità del confessore. E meno male che la confessione nel codice di procedura penale è considerata una prova regina! E che dire dei moventi, a cercare qualcosa che si adatta si trova sempre. Per Sabrina Misseri è la gelosia.
Ivano Russo: «C’è stato un momento che io mi sono sentito come un sospettato. Anche perché soprattutto mi ricordo al primo interrogatorio c’è stata una frase di un carabiniere. Parlandomi ha detto che….siccome mi stavano tenendo per parecchie ore, io gli ho chiesto “ma perché mi tenete qua tante ore” e lui mi rispose che praticamente…siccome a me era venuto a mancare mio padre, avevo…ero arrabbiato con l’esistenza, con Dio, poi…allora sarei stato capace di fare qualche cosa di grave, E lì ho incominciato ad aver paura di un errore giudiziario.» In virtù di una giustizia che va alla rovescia (chi si dichiara colpevole sta fuori, chi si dichiara innocente sta dentro) tutta la settimana, ed in special modo la domenica, tutti i talk show pomeridiani condotti da improvvisati conduttori, parlando di Michele Misseri, si concentravano a trovare breccia nelle sue dichiarazioni per minarne la sua attendibilità, fino a tendergli delle trappole televisive. Da un lato domenica 9 dicembre 2012, mentre venivano mandate in onda le dichiarazioni che Michele Misseri aveva rilasciato a Ilaria Cavo, Barbara d’Urso su Canale 5 intervistava Anna Pisanò, supertestimone dell’accusa al processo contro Sabrina Misseri e sua madre Cosima. Lo zio di Sarah è intervenuto telefonicamente. Misseri si è scagliato contro Anna Pisanò, coinvolgendo anche la conduttrice Barbara d’Urso per quello che ha definito un programma colpevolista che influenza la gente: “Voi la verità non la conoscete. E quando questa uscirà, vedremo chi avrà ragione. Sono arrabbiato non con voi, ma con me. Tu Anna perché vai in televisione? Tu non c’eri quel giorno, sei una bugiarda, vuoi influenzare la gente così nessuno crede alla mia verità. Sarah non voleva più vederti, lo sai!”. Nel proseguo del 16 dicembre la stessa D’Urso, con la sua maschera napoletana, definendosi anch’essa figlia del popolo che conosce il modo di pensare nei paesini (sic) tendeva delle trappole a Michele per trarlo in inganno con l’intento di farlo capitolare e fargli confessare le colpe di Sabrina. Un chiaro esempio di servilismo e sottomissione ai magistrati ed uno sfregio ad una emittente televisiva, se pur privata, che arriva in tutte le case della gente. Né Michele, né sua moglie, né sua figlia da anni non capitolano e non certo perché sono dei professionisti del crimine. 11 ore di interrogatorio di Michele da aggiungere alle altre 11 precedenti e su richiesta di esame della difesa degli imputati non può conseguire per la stessa difesa una risultanza negativa, eppure per la stampa è stato così, influenzando in questo modo il popolino. Certo è che nessuno ha paventato l’ipotesi che confessando l’omicidio Michele Misseri deve essere accusato di omicidio e di calunnia e di falsa testimonianza in aggiunta agli altri reati contestatogli ovvero essere accusato di falsa testimonianza ed auto calunnia, sempre in aggiunta al resto dei reati già contestati. Ma quanto può essere attendibile un testimone ed il suo racconto? Quando si parla di testimonianza si intende il racconto di un evento, filtrato tramite l'esperienza di un narratore che ha vissuto la scena; è chiaramente implicita, dunque, la connotazione soggettiva della testimonianza. Parte proprio da questa semplice osservazione il nodo del problema che si pone a riguardo: quanto può essere attendibile una testimonianza? La testimonianza riporta sia una parte di verità oggettiva sia una costruzione soggettiva dei fatti, legata a componenti emozionali e situazionali che influenzano il ricordo, ma anche ad errori di memoria. Data la grande rilevanza della testimonianza diretta, è posta grande attenzione al testimone oculare in casi giudiziari, in particolare alle caratteristiche della testimonianza, nell'intenzione di giudicare nel miglior modo possibile l'effettiva veridicità della stessa; ma si può credere in assoluto ad un individuo che dice di ricordare esattamente un evento che “ha visto con i suoi occhi”? La memoria è un meccanismo imperfetto, dal momento che è influenzato da molteplici fattori che possono intervenire nelle tre diverse fasi precedentemente citate ed ostacolare così la modalità corretta di codifica, mantenimento e recupero di un ricordo. Molti studi ed esperimenti hanno dimostrato che nell’osservazione e nel racconto di un evento, è fondamentale l’influenza delle caratteristiche proprie di un individuo, dei suoi schemi mentali e delle sue conoscenze pregresse, nonché delle caratteristiche della situazione. Si può affermare che l'attendibilità di una testimonianza possa essere determinata da due fattori principali: Accuratezza, ovvero la corrispondenza tra realtà oggettiva e soggettiva, e Credibilità, ovvero il rapporto tra ciò che si ritiene di sapere e le motivazioni a dichiararlo. Purtroppo gli esperimenti hanno evidenziato che il giudicante non è in grado di giudicare in maniera corretta l'attendibilità del testimone ed hanno messo in luce una sorta di processo inferenziale attraverso cui sembra che le persone, per giudicare l'attendibilità di un testimone, si affiderebbero al grado di sicurezza da lui stesso mostrato nel corso di una testimonianza. Sembra, infatti, che la percezione che i giurati hanno della sicurezza di un testimone, sia responsabile per un 50% delle variazioni nel loro giudizio sulla credibilità del testimone e che, in ogni caso, la maggior parte delle giurie crede che la sicurezza e la precisione di un resoconto testimoniale siano tra loro correlate positivamente, reputando più attendibile la testimonianza resa dalle forze dell'ordine o di chi riferisce nel racconto molti dettagli marginali, sopravvaluta il tempo impiegato per commettere un crimine e la possibilità di riconoscere un volto a distanza di mesi.
Detto questo e in riferimento alle confessioni si richiama un altro caso. Il “killer delle vecchiette”. Ma ormai il “killer delle vecchiette” è morto. E se dalla stampa era venuto questo appellativo di killer qualche omicidio doveva pur averlo commesso, sì, ma per i magistrati di Taranto era colpevole solo per quell’unico delitto per il quale non erano stati capaci di accusare qualcuno. E' morto il 15 dicembre 2012 nel reparto di rianimazione dell’ospedale di Padova il detenuto tunisino 49enne Ben Mohamed Ezzedine Sebai, conosciuto come il 'serial killer delle vecchiette', trovato impiccato il giorno prima nella sua cella del carcere di Padova. Il legale di Sebai, l’avvocato veneziano Luciano Faraon, ha anche sollevato dubbi sul fatto che il suo assistito si sia effettivamente suicidato. Secondo il legale, dopo una recente sentenza della Cassazione che ha annullato con rinvio una condanna per un omicidio commesso da Sebai a Lucera, il tunisino era infatti nelle condizioni di ottenere la revisione dei suoi processi in quanto non in grado di intendere e volere a causa di una lesione cerebrale subita da piccolo. Aveva quindi, secondo il legale, molte speranze di potere tornare a casa o in un centro adatto alla sua patologia. Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. «L'ultima volta che ho incontrato in carcere Sebai, circa 10 giorni fa, mi aveva chiesto la Bibbia. Nonostante Sebai sia un musulmano – precisa il legale – mi aveva chiesto la Bibbia perchè io, da cristiano, gli ero vicino. - Secondo Faraon, che è anche presidente dell’Anveg, Associazione nazionale vittime errori giudiziari, Sebai, in carcere dal 1997, - decise di confessare altri omicidi nel 2006 per una crisi di coscienza, dopo aver appreso del suicidio in carcere di un tarantino condannato per uno degli omicidi confessati dal serial-killer». Condannato a cinque ergastoli per altrettanti omicidi di donne, Ezzedine Sebai aveva confessato di essere l’autore di 14 omicidi di anziane, avvenuti in Puglia tra il 1995 e il 1997. L'avvocato Faraon ha chiesto che venga disposta l’autopsia sul corpo. Secondo quanto riferito dal legale, quando aveva sette anni il tunisino sarebbe stato colpito alla testa dal padre con una chiave inglese. Il colpo gli aveva provocato gravi lesioni cerebrali. Ed era del serial killer delle vecchiette l’impronta digitale dimenticata per 9 anni in casa della vittima. Fu rinvenuta su una scatola di caramelle «Rossana» nell’appartamento di Anna Maria Stella, la maestra settantenne di Trinitapoli sgozzata a scopo di rapina nella sua abitazione il primo maggio del ‘97. Ma per scoprire che appartenesse al serial-killer ci sono voluti 9 anni; la riapertura dell’indagine dopo la confessione dell’imputato arrivata nel 2006; l’intuito del pm foggiano Ludovico Vaccaro; gli accertamenti dei carabinieri del Ris. Proprio l’interrogatorio di un sottufficiale del Reparto investigazioni scientifiche di Roma ha caratterizzato l’udienza in corte d’assise del processo a Ben Ezzedine Sebai, il tunisino di 45 anni in cella dal settembre ‘97, già condannato a 4 ergastoli per altrettanti omicidi di vecchiette e che nel 2006 ha confessato d’aver ucciso e/o aggredito 15 anziane negli anni Novanta in Puglia e Basilicata. Sostiene d’aver agito perchè erano le voci a ordinargli di ammazzare. «Recentemente la corte di Cassazione ha disposto l'annullamento con rinvio di una condanna a 18 anni di carcere - precisa Faraon – per un omicidio compiuto a Lucera (Foggia) per esaminare, anche sulla base della perizia del prof. Mastronardi, la sua capacità di volere». Il legale ribadisce che nelle vicende giudiziarie che hanno riguardato Sebai ha «sempre visto delle abnormità».
«Due confessi omicidi che a Taranto non sono creduti. La magistratura requirente sposa una tesi spesso sbagliata e la magistratura giudicante gli va a ruota. Non è la prima volta che succede. Non era tanto malsana l’idea di Franco Coppi di chiedere la rimessione del processo Sarah Scazzi in altro foro» spiega Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul delitto di Sarah Scazzi e su Taranto ha scritto dei libri inseriti nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare.
Basta ricordare i precedenti. «Non ha altro da aggiungere per fare chiarezza definitiva su tutto?» ha chiesto a Michele Misseri l’avv. Franco Coppi, uno dei difensori della figlia Sabrina. «Devo chiedere solamente – ha risposto zio Michele - perdono a tutti, anche alla mamma di Sarah che io non ho voluto mai contraddire perchè dopo tutto ha perso una figlia. Io sto nei panni suoi. Io non ho mai commentato contro di lei». «Non volete la verità. Solo io sto facendo la verità per quella poveretta. Io l'ho ammazzata una volta, voi chissà quante volte l'avete ammazzata». Lo ha detto Michele Misseri rivolgendosi ai pm Mariano Buccoliero e Piero Argentino in aula durante il processo sull’omicidio su Sarah Scazzi. «Lei – ha aggiunto il contadino riferendosi a Concetta Serrano – è convinta che sono state mia figlia e mia moglie, ma se erano state loro perchè io mi devo assumere ancora la responsabilità? Non ce la faccio ad andare avanti, devo parlare anche per gli innocenti che stanno in carcere». E poi la violenza sul cadavere, spiega Misseri, “era una bugia con altre bugie”. Perchè, sostiene, lui non ha mai tentato di violentarla e tantomeno ha oltraggiato il cadavere. «L’ho fatta trovare nuda nel pozzo e prima che me lo dicessero loro (gli inquirenti) l’ho detto io». Michele spiega il significato che ha per lui il luogo in cui porta il corpo della nipote. «Sotto il fico mio padre mi picchiava». Ha subito altre violenze lì? Gli chiede Coppi. Michele, in difficoltà, non smentisce: «Questo è stato sempre un segreto, che non conoscono né mia moglie né mia figlia. Non vorrei rispondere a questa domanda».
Caso Michele Misseri e caso Sebai, stessa sorte, stesso muro di gomma.
Il 13 febbraio del 2009 il giudice per l’udienza preliminare Valeria Ingenito emise sentenza di assoluzione per l’omicidio di Grazia Montemurro, la 75enne di Massafra ammazzata il 4 aprile del 1997, nei confronti del serial killer Ben Ezzedine Sebai, 43enne di Kairouan (Tunisia), reo confesso. Quella sentenza è stata impugnata dall’avv. Giorgio Faraon, difensore di Sebai, e dall’avv. Ignazio Dragone, legale di parte civile. Sebai dopo essere stato condannato in via definitiva a 4 ergastoli per l’assassinio di altrettante anziane, ha deciso di confessare altri 10 omicidi e un tentato omicidio. Autoaccusandosi, intende scagionare detenuti che a suo dire sono stati accusati ingiustamente. Il gup Valeria Ingenito lo ha condannato all’ergastolo per l’omicidio di Rosa Lucia Lapiscopia, di 90 anni, uccisa a Laterza il 21 agosto del 1997, mandandolo assolto dai delitti di Celestina Commessatti, 73 anni (Palagiano, 13 agosto 1995), Pasqua Rosa Ludovico, 86 anni (Castellaneta, 14 maggio 1997) e, appunto, Grazia Montemurro. A puntare alla condanna di Sebai è in maniera particolare l’avv. Ignazio Dragone, costituitosi parte civile per conto dei parenti della vittima ma legale anche di Cosimo Montemurro, l’ex dj di Massafra condannato a 18 anni di reclusione per l’omicidio della zia Grazia. Secondo l'accusa, Cosimo Montemurro avrebbe assassinato sua zia perchè non sopportava più di essere rimproverato. Il cadavere dell'anziana fu rinvenuto nell'abitazione di via Felice Cavallotti. Il nipote, che aveva trascorso la giornata a Mottola, dove abitava la fidanzata, rientrò a casa intorno alle 22. Fra zia e nipote, secondo le motivazioni della sentenza di condanna, scoppiò l'ennesimo diverbio. Colto da un raptus, Montemurro avrebbe afferrato un coltello da cucina con la lama zigrinata e sferrato un fendente alla gola dell'anziana zia. Poi avrebbe abbandonato l'appartamento per incontrarsi con due amici. Intorno a mezzanotte, sempre secondo la ricostruzione degli inquirenti, il presunto assassino sarebbe tornato sul luogo del delitto per allertare le forze dell'ordine. Il giovane massafrese crollò dopo quattordici ore di interrogatorio, motivando la follia omicida con la reazione ad un pesante rimprovero da parte della donna. Il caso sembrava chiuso. Poi, il presunto assassino ritrattò tutto, attaccando i carabinieri che lo avrebbero indotto, con la forza, a dichiarare il falso. Con la confessione del serial killer, Cosimo Montemurro, tornato in libertà dopo 10 anni di carcere, è tornato a sperare nella revisione del processo. La maestra sgozzata Anna Maria Stella fu sgozzata e rapinata nella sua abitazione di Trinitapoli il primo aprile del ‘97. In quel periodo in tutta la Puglia c’era la psicosi del killer delle vecchiette che aveva già colpito ripetutamente e ucciso: entrava in casa di anziane che vivevano sole, le uccideva con coltelli o punteruoli, rovistando in casa e rubando ori e soldi. All’epoca della morte della maestra trinitapolese, Ben Sebai non era stato ancora catturato: successe qualche mese dopo, il 16 settembre del ‘97, quando il tunisino fu arrestato dai carabinieri in flagranza a Palagianello, in provincia di Taranto, subito dopo aver ammazzato l’ennesima vecchietta. In seguito all’arresto di Ben Sebai, la Procura foggiana lo indagò formalmente - l’informazione di garanzia per omicidio gli venne notificata in carcere nel novembre del ‘98 - per l’omicidio della maestra trinitapolese. Fu disposto l’esame del dna su una cicca di sigaretta trovata in casa della vittima per verificare se fosse di Ben Sebai: visto l’esito negativo di quell’accertamento, le accuse contro il tunisino in relazione all’omicidio Stella furono archiviate. Nessuno pensò in quella fase investigativa di verificare se le due impronte digitali trovate su una scatola di caramelle in casa Stella fossero del serial killer. Le indagini sull’omicidio Stella (ed anche il delitto Garbetta e l’aggressione alla foggiana Assunta Aprile) si riaprirono nel 2006 con la decisione di Ben Sebai, detenuto da 9 anni, di confessare 15 delitti. Il pm Ludovico Vaccaro riaprì le indagini sui casi foggiani; rilesse il fascicolo processuale relativo al delitto Stella (non era lui il titolare dell’inchiesta nel ‘97/98); notò che su una scatola di caramelle rinvenuta in casa Stella furono trovate due impronte digitali; ordinò al Ris d’accertare se appartenessero al seriale killer. Responso positivo per una delle due impronte, il che rappresenta un fondamentale riscontro alla confessione del tunisino: basti pensare che Ben Sebai ha anche confessato l’omicidio di due anziane per le quali non è stato creduto, tant’è che sono stati condannati altri imputati. Quando Ben Sebai fu arrestato nel settembre ‘97 e poi condannato a 4 ergastoli per altrettanti omicidi si dichiarava innocente. La svolta e la confessione arrivarono 9 anni dopo nel carcere milanese: disse che le voci gli ordinavano di uccidere le vecchiette che gli ricordavano la madre e la nonna con cui da bambino aveva un rapporto di odio-amore. Il difensore, l’avv. Lucian Faraon, punta ad una perizia psichiatrica, ma Ben Sebai vi è stato già sottoposto recentemente per un altro omicidio scoperto dopo la confessione (quello della lucerina Madonna Celeste uccisa in casa il 24 aprile ‘96, per il quale è stato condannato a 18 anni) e gli esperti hanno escluso l’infermità mentale del serial killer.
La Vergogna di essere italiano. Faiuolo, Orlandi, Nardelli, Tinelli, Montemurro, Donvito sono innocenti, ma colpevoli solo per convinzione personale dei giudici? Ben Mohammed Ezzedine Sebai (il Killer delle vecchiette), che tra il 1995 e il 1997 si macchiò dell’omicidio di ben 14 anziane tra Puglia e Basilicata. Nonostante il legittimo sospetto che non vi potesse essere serenità di giudizio, ed non essendo prevista la ricusazione del PM, si è permesso di giudicare il Sebai a Taranto con il rito abbreviato per delitti di cui altri già erano già stati condannati dal quel foro e accusati, in particolare, dagli stessi PM. Nessuno delle parti in causa (pubblici ministeri, avvocati e giudice), che abbia chiesto la rimessione del processo in altro foro per legittimo sospetto di parzialità nel giudizio. I media tacciono la vergogna. Nella puntata di “Agorà” dell’8 febbraio 2011 su Rai Tre, dalle 9.00 alle 11.00, sarebbe dovuta andare in onda un’inchiesta della giornalista Angela Caponnetto sulla censurata vicenda Sebai. Nell’inchiesta si sarebbero potute ascoltare le parole di Michele Donvito, fratello di Vincenzo, suicidatosi nel carcere di Teramo nel 2005, accusato dell’omicidio di Celestina Commessatti, uccisa nella sua abitazione di Palagiano, in provincia di Taranto, il 14 agosto 1995. Eppure già nel 1999 il tunisino Ben Mohamed Ezzedine Sebai si era dichiarato colpevole dell’omicidio della stessa, confessione rafforzata di particolari e dettagli solo nel 2006. In studio era presente anche la giornalista che per cinque ore ha intervistato Donvito sulla triste vicenda, che ha coinvolto e stravolto la sua famiglia, eppure, a detta del suo conduttore, Andrea Vianello, di tempo non ce n’è stato a sufficienza e il servizio è saltato. La Caponnetto è stata liquidata con delle semplici scuse e la vicenda rimane nell’oblio. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha accolto la richiesta di revisione del processo, trasmettendo gli atti alla Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Vincenzo Faiuolo, arrestato per il delitto di Pasqua Ludovico, anziana uccisa in provincia di Taranto negli anni '90. Faiuolo è una delle otto persone arrestate per diversi omicidi di anziane uccise in Puglia in quegli anni. Omicidi dei quali poi si è confessato colpevole Ben Mohamed Ezzedine Sebai, soprannominato 'il serial killer delle vecchiette'. A darne notizia è l'avvocato Claudio Defilippi, legale dello stesso Faiuolo, condannato a 25 anni di carcere, di cui ne ha scontati 15 anni. Defilippi spiega che è stata accolta anche la richiesta di revisione del processo, con rinvio alla sezione per i minorenni della Corte d'Appello di Potenza, nei confronti di Davide Nardelli, all'epoca dei fatti minorenne, che fu condannato a 7 anni per il delitto di un'altra anziana e che ha già finito di scontare la pena. "La Cassazione dice che la revisione dei processi deve andare avanti. Chiediamo ora che siano riaperti i procedimenti per questi diversi omicidi", afferma Defilippi. Il signor Sebai viene schedato con foto ed impronte sin dal 1991, dai carabinieri di Bolzano. Egli, nel corso delle dichiarazioni rese al sostituto procuratore del tribunale di Milano, dottor Nobili, in data 10 febbraio 2006, e successivamente confermate, a dicembre 2008, davanti al sostituto procuratore del tribunale di Foggia, dottor, Ludovico Vaccaro, ha confessato i seguenti omicidi, compiuti tra il gennaio 1994 ed il settembre 1997:
gennaio 1994, presunta vittima ignota, in assenza di riscontri investigativi, poi identificata a seguito dell'interrogatorio di Sebai avanti al pubblico ministero di Foggia (avvenuto nel dicembre 2008, come citato in premessa) in Aprile Assunta, la quale è l'unica vittima sopravvissuta;
8 luglio 1995, Vernetti Petronilla, anni 83, Melfi (Potenza), assolto;
13 agosto 1995, Commessatti Celeste, anni 83, Palagiano (Taranto), per il quale delitto sono stati condannati Nardelli Davide e Tinelli Giuseppe, minorenni all'epoca del fatto, e Donvito Vincenzo, suicidatosi nel 2006 nella Casa di Reclusione di Teramo;
24 aprile 1996, Madonna Celeste, anni 81, Lucera (Foggia), omicidio irrisolto, nel 2008 Sebai condannato a 18 anni;
30 maggio 1996, Garbetta Giuseppina, anni 72, San Ferdinando di Puglia (Foggia), omicidio irrisolto fino alla confessione di Sebai;
10 agosto 1996, Stano Anna, anni 85, Ginosa (Taranto), ergastolo;
15 gennaio 1997, Totaro Maria, anni 76, Cerignola (Foggia), ergastolo;
5 aprile 1997, Montemurro Grazia, anni 76, Massafra (Taranto), per il quale delitto è stato condannato diciotto anni di reclusione Montemurro Cosimo, nipote della vittima;
1o maggio 1997, Stella Anna Maria, anni 69, Trinitapoli (Foggia), omicidio irrisolto fino alla confessione di Sebai;
9 maggio 1997, Leone Santa, anni 82, Canosa di Puglia (Bari), processato e assolto;
14 maggio 1997, Ludovico Pasqua, anni 86, Castellaneta (Taranto) per il quale delitto sono stati condannati Faiulo Vincenzo e Orlandi Francesco, rei confessi;
28 luglio 1997, Valente Maria, anni 84, Palagiano (Taranto), ergastolo per il quale delitto, oltre all'ergastolo per Sebai, sono stati condannati anche Tinelli Giuseppe e la di lui madre e sorella;
21 agosto 1997, Lapiscopa Rosa Lucia, anni 90, Laterza (Taranto), ergastolo;
27 agosto 1997, Sansone Angela, anni 84, Spinazzola (Bari), ergastolo;
15 settembre 1997, Nico Lucia, anni 75, Palagianello (Taranto), ergastolo;
per il delitto del gennaio 1994, ai danni di Aprile Assunta, unica sopravvissuta delle 15 vittime, quantunque ricoverata in prognosi riservata, gli investigatori non rilevarono le impronte digitali e, inoltre, a dispetto delle accuratissime descrizioni dell'aggressore, fornite dalla vittima, non fu esperita alcuna ricerca fra le foto schedate nel casellario centrale. Un tale accertamento avrebbe potuto impedire tutti i successivi 14 delitti, risalendo ai dati del Sebai schedati sin dal 1991;
per il delitto del 13 agosto 1995, ai danni di Commessatti Celeste, il signor Sebai viene fermato con la refurtiva sottratta alla vittima, viene fotografato, vengono rilevate le sue impronte digitali e poi rilasciato. In tale circostanza, la negligenza investigativa, manifestatasi già nel 1994, assume connotati gravi aprono la strada ai successivi 5 delitti, confessati dal Sebai;
per il delitto del 1o maggio 1997, ai danni di Stella Anna Maria, nel corso delle indagini successive, furono rilevate le tracce di Dna sulle cicche di sigaretta, rinvenute sulla scena del delitto, nonché le impronte digitali. Comparato il Dna a quello di Sebai, risultando negativo, Sebai fu rilasciato senza comparare le impronte digitali. Solo nel 2008, cioè 11 anni dopo, a seguito degli accertamenti disposti dal nuovo sostituto procuratore del tribunale di Foggia, dottor Ludovico Vaccaro, si scoprirà che Sebai aveva lasciato l'impronta sulla scena del delitto Stella. L'accertamento sulle impronte, omesso nel 1997, consente al Sebai lo stato di libertà nel corso del quale compie altri 6 omicidi. ''La procura di Taranto è spaccata sull'attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione”. Lo evidenzia l’avv. Claudio Defilippi legale di sei delle otto persone (una si è suicidata in carcere dopo la condanna) detenute da lunghi anni “pur essendo innocenti”.
Altra vergogna, altro precedente.
15 aprile 2007. Carmela volava via, dal settimo piano di un palazzo a Taranto, dopo aver subito violenze ed abusi, ma soprattutto dopo essere stata tradita proprio da quelle istituzioni a cui si era rivolta per denunciare e chiedere aiuto. «Una ragazzina di 13 anni - scrive Alfonso, il padre di Carmela - che il 15 aprile del 2007 è deceduta volando via da un settimo piano della periferia di Taranto, dopo aver subito violenze sessuali da un branco di viscidi esseri», ma poi anche le incompetenze e la malafede di quelle Istituzioni che sono state coinvolte con l’obiettivo di tutelarla», perché «invece di rinchiudere i carnefici di mia figlia hanno pensato bene di rinchiudere lei in un istituto (convincendoci con l’inganno) ed imbottendola di psicofarmaci a nostra insaputa». Carmela aveva denunciato di essere stata violentata; e nessuno, né polizia, né magistrati, né assistenti sociali le avevano creduto o l’avevano presa sul serio. Ma le istituzioni avevano anche fatto di peggio. Hanno considerato Carmela «soggetto disturbato con capacità compromesse» e, quindi, poco credibile.
Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la corte d’appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono condannate per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’assise d’appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Altro precedente: Non erano colpevoli, ora chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Per la Procura, che sostiene la tesi della colpevolezza di Sabrina e della madre Cosima per il delitto e la responsabilità di Michele Misseri solo per la soppressione del cadavere di Sarah, la ritrattazione della psicologa sono manna dal cielo, un supporto alle proprie tesi. Da tenere presente una cosa: trattare come veritiere le dichiarazioni di Dora Chiloiro rese nell’udienza preliminare e nella precedente testimonianza in Corte d’Assise o considerare quest’ultima trattazione come la vera verità? Certo che a rettificare la dichiarazione nello stesso procedimento, porta la Chiloiro a liberasi del fardello del procedimento penale per falsa testimonianza, non incorrendo così nelle conseguenze di carattere professionale. Questa cosa dà da pensare. Scegliere la propria carriera ed i propri interessi o salvare delle vite umane dal carcere?
Una scelta di carattere pratico o una strategia difensiva, oppure cedere al rimorso della coscienza? Questa è solo una considerazione di carattere logico, non una diffamazione nei confronti di chiunque. Anche perché a Taranto ogni logica, anche giuridica viene disattesa. Taranto dove i magistrati si sentono anche legislatori. I magistrati di Taranto hanno una loro ben definita contrapposizione: «Prendiamo atto che il governo, di fronte ad una situazione complessa e con gravi ripercussioni occupazionali, si è assunto la grave responsabilità di vanificare le finalità preventive dei provvedimenti di sequestro emessi dalla magistratura e volti a salvaguardare la salute di una intera collettività dal pericolo attuale e concreto di gravi danni», dice il segretario dell'Associazione magistrati (Anm), Maurizio Carbone, proprio a Taranto sostituto procuratore. Per Carbone «resta tutta da verificare la effettiva disponibilità dell'azienda ad investire i capitali necessari per mettere a norma l'impianto e ad adempiere alle prescrizioni contenute nell'Aia», tenuto conto che «sino ad ora la proprietà ha dimostrato di volersi sottrarre all'esecuzione di ogni provvedimento emesso dalla magistratura». Ed ancora non ha lesinato critiche al provvedimento d'urgenza di Palazzo Chigi: «È un'invasione di campo, dov'è finito il principio della separazione dei poteri? Il decreto legge vanifica di colpo tutti gli effetti dei provvedimenti presi dai magistrati per la tutela della salute dei cittadini. Il governo, così facendo, si è preso una grossa responsabilità». Per il gip di Taranto Patrizia Todisco la nuova Aia per l'Ilva «non si preoccupa affatto della attualità del pericolo e della attualità delle gravi conseguenze dannose per la salute e l'ambiente». L'attività produttiva dell'Ilva è «tuttora, allo stato attuale degli impianti e delle aree in sequestro, altamente pericolosa». I tempi di realizzazione della nuova Aia sono «incompatibili con le improcrastinabili esigenze di tutela della salute della popolazione locale e dei lavoratori del Siderurgico», scrive il gip. Tutela che «non può essere sospesa senza incorrere in una inammissibile violazione dei principi costituzionali» (articoli 32 e 41). Come è possibile, sulla base di quanto emerso dalle indagini, «autorizzare comunque l'Ilva alle attuali condizioni e nell'attuale stato degli impianti in sequestro, a continuare da subito l'attività produttiva», senza «prima pretendere» gli interventi di risanamento? aggiunge il gip dicendo no al dissequestro degli impianti. La partita con l'Ilva non è finita, «abbiamo ancora qualche cartuccia da sparare», sorride amaro il procuratore capo di Taranto, Franco Sebastio, che proprio non ci sta a passare per «il talebano», così come viene definito sui giornali, «il pazzo nemico di 20 mila operai», «se solo avessi cinque minuti per un caffè con il presidente Napolitano e con Mario Monti racconterei loro dei bambini che qui nascono già malati di tumore...», si sfoga il vecchio magistrato. La Procura solleva eccezioni di incostituzionalità del decreto legge di Palazzo Chigi, chiedendo l'intervento della Corte Costituzionale. Il diritto all'eguaglianza, ad esempio: la legge è uguale per tutti, no? Ma se la legge è nata per l'Ilva, dove finiscono i principi di astrattezza e generalità? Intanto, oltre al sindaco di Taranto, alcuni preti della città, alcuni giornalisti tarantini, alcuni parlamentari locali, l’inchiesta coinvolge anche la provincia. Così come per il delitto di Avetrana: nel dubbio, tutti dentro, avvocati compresi. L'inchiesta afferra il Presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido, un passato importante da sindacalista quale ex segretario regionale della Cisl e un presente da dirigente locale del Pd. Un'informativa di 182 pagine in parte mutilata da omissis e allegata all'ordinanza di custodia cautelare che aveva già bussato al palazzo della Provincia, relegando agli arresti domiciliari l'ex assessore all'ambiente Michele Conserva, lo fulmina in poche righe. "Si evidenzia - scrivono i militari della Finanza - che alla luce di quanto accertato, vanno ascritte al dottor Gianni Florido, Presidente della Provincia di Taranto, specifiche responsabilità penali per il delitto di concussione o, in subordine, di violenza privata". Certo è che qualcuno dovrebbe spiegare ai magistrati, che si lamentano quando la legge si stila senza la loro dettatura, che non vi è scontro tra poteri, proprio perché la magistratura non è un potere.
Se l’articolo 1 della Costituzione detta che “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”, ne consegue che Potere è quello Legislativo che legifera in modo ordinario e quello Esecutivo che legifera in modo straordinario. La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla. Per gli effetti l’art. 101 dichiara che “La giustizia è amministrata in nome del popolo. I giudici sono soggetti soltanto alla legge.”
Ergo: i magistrati devono applicare la legge, rispettarla e farla rispettare, non formarla, né criticarla. Non devono sentirsi portatori di una missione non loro. E nessuna risonanza mediatica può essere ammessa, in special modo quando vi sono interessi più grandi che quelli castali. E si deve ricordar loro, ai magistrati ed alla claque che li santifica, che c’è anche quella legge ambientale che prevede il dogma “chi inquina paga”. Non esiste il dettato tutto di stampo tarantino: “chi inquina, chiude i battenti e tutti a casa”, specialmente se l’industria che viene chiusa, con le tasse che paga, mantiene i suoi detrattori.»
Una cosa è certa: a Taranto non si deve dire la verità. Chi parla paga. Così come è successo al dr Antonio Giangrande: denuncia la malagiustizia a Taranto e le pratiche mafiose a Manduria, paese retto da un commissario e sotto indagine per infiltrazioni mafiose, e viene processato a Potenza per diffamazione a mezzo stampa. Processo che dura da anni e che non vede fine. Giangrande, però, non può bearsi, come per Alessandro Sallusti, della “solidarietà” dei coraggiosi colleghi giornalisti, in quanto il Giangrande non fa parte di un Ordine, come tutti gli ordini professionali, di origine normativa fascista, ma è un semplice scrittore che racconta ai posteri quello che oggi non si osa dire.
SOLO A TARANTO. ILVA, SARAH SCAZZI, BEN EZZEDINE SEBAI. AVVOCATI SUCCUBI DEI MAGISTRATI.
Nel resto d’Italia c’è una sana contrapposizione tra la funzione accusatoria e quella difensiva. Interessi diversi che portano PER FORZA a posizioni diverse.
QUESTI SIGNORI GIURANO DI RISPETTARE E FAR RISPETTARE LA LEGGE
I MAGISTRATI HANNO L'OBBLIGO DI APPLICARE LA LEGGE NON DI EMANARLA
GLI AVVOCATI HANNO L’OBBLIGO DI DIFENDERE I CITTADINI INNOCENTI ACCUSATI INGIUSTAMENTE DAI MAGISTRATI, NON ESSERE LORO SCHIAVI.
INVECE A TARANTO TUTTI FANNO TUTT’ALTRO
Il decreto legge 207 sull'Ilva ha operato un «grave vulnus ai principi di obbligatorietà dell'azione e di indipendenza del pm» (articoli 112 e 107 della Costituzione) e questo «non appare tollerabile». Così scrive la Procura della Repubblica di Taranto nel ricorso inviato alla Corte Costituzionale per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sul decreto legge salva-Ilva, convertito in legge il 20 dicembre 2012. Per i pubblici ministeri, il decreto ha fatto di peggio, ha cioè «legittimato la sicura commissione di ulteriori fatti integranti i medesimi reati» contestati, a partire ovviamente da quello di disastro ambientale. Per questi motivi la Procura chiede alla Consulta di dichiarare che «non spetta, nel caso di specie, al Governo della Repubblica autorizzare la prosecuzione dell'attività produttiva per periodo di tempo predeterminato», e che questa autorizzazione non può scavalcare gli eventuali provvedimenti di sequestro di beni dell'impresa adottati dalla magistratura. La vicenda Ilva, al di là degli aspetti processuali e penali, è di «enorme importanza da un punto di vista sociale ed etico» ha voluto chiarire il procuratore, Franco Sebastio, e per questo motivo è stato chiesto alla Corte costituzionale «un contributo di chiarezza», ma «non c'è nessuno scontro». Dubbi di costituzionalità della legge vengono affacciati anche dal presidente dell'Ordine degli avvocati di Taranto, Angelo Esposito, che parla di «problema serio di sospensione dei provvedimenti giudiziari». Per Esposito, se il provvedimento «fosse stato intrapreso da un governo di qualunque matrice politica, sarebbe scoppiata una rivoluzione», ma «è la prima volta che un governo sospende un reato a tempo» e che «assistiamo ad una intromissione così invasiva ed efficace del governo e del legislatore rispetto alla magistratura». Non solo, ma «non è serio dire che chi difende l'operato della magistratura è contro il lavoro», sottolinea Esposito, perchè «se la procura è intervenuta, è perchè aveva il dovere di farlo». Che ci sia o meno scontro istituzionale, sulla legge salva-Ilva si vanno definendo posizioni nette: da una parte magistrati e avvocati, dall'altra governo e, ovviamente, azienda.
L'INGIUSTIZIA RACCONTATA DAGLI ADDETTI AI LAVORI.
Il sindacalista delle carceri: «Vi svelo le cifre dell'orrore». In 20 anni 1.097 suicidi (16.338 sventati) e 112.844 atti di autolesionismo che potevano sfociare in tragedie. "Se solo i giudici sveltissero i processi...", scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Il primo fronte di guerra aperto da Roberto Martinelli è stato contro le fiction di Rai e Mediaset, Liberi di giocare, Un amore e una vendetta, e soprattutto Baciati dall'amore, «in cui un poliziotto penitenziario, rivolgendosi a un boss della malavita, manifestava sudditanza e disponibilità». Fino a ottenere, per Gente di mare, le scuse ufficiali di Carlo Degli Esposti, presidente della Palomar, che aveva prodotto lo sceneggiato per la Tv di Stato. Di lì a prendersela col dizionario Zingarelli il passo è stato breve: «Alla voce secondino riporta guardia carceraria. Definizioni entrambe sbagliate, così come agente di custodia, perché non tengono conto che il corpo degli agenti di custodia fu sciolto nel 1990. Abbiamo diritto a essere chiamati poliziotti penitenziari, oppure agenti penitenziari. Anche baschi azzurri, dal colore nei nostri copricapi, può andar bene». Se è così inflessibile sull'uso dei sinonimi, figurarsi la potenza di fuoco che Martinelli, segretario del Sappe (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), è capace di dispiegare quando gli toccano i suoi colleghi: «Noi siamo costretti a tradurre i detenuti da una parte all'altra della penisola su Fiat Ducato che hanno già percorso mezzo milione di chilometri, privi di aria condizionata e con i sedili sfondati. Però al ministero della Giustizia gli scortati viaggiano su Maserati, Jaguar e Bmw, anzi viaggiavano, perché dopo la mia denuncia contro questa vergogna qualcosa è cambiato. L'Amministrazione penitenziaria ha anche comprato Land Rover da 100.000 euro per i collaboratori di giustizia, usate invece dai dirigenti». Il Sappe è il più importante dei sette sindacati - inclusi quelli di Cgil, Cisl e Uil - che tutelano i poliziotti penitenziari. Rappresenta circa un terzo dei 39.000 agenti in servizio: 12.000 iscritti. Martinelli, al suo terzo mandato da segretario, è in aspettativa fino al 2016. Se non dovesse essere rieletto, tornerà a fare il sovrintendente di polizia penitenziaria. Per otto anni ha lavorato nel carcere di Marassi, a Genova, la città dov'è nato nel 1968: «Ho potuto scegliere questa sede perché mi ero classificato primo al corso». Ragioniere, studi universitari in scienze politiche interrotti, sposato con una segretaria di banca, un figlio di 3 anni, s'è arruolato nel 1992, seguendo le orme del fratello maggiore Tommaso, oggi ispettore superiore dopo quasi tre lustri passati a sorvegliare i detenuti dello stesso penitenziario. Sulla vocazione di entrambi deve aver influito il fatto che la madre, sposata con un ferroviere, ha lavorato per 40 anni nell'ufficio del giudice di sorveglianza al tribunale di Genova. Che si tratti di una particolare vocazione, è fuori discussione. Altrimenti non si spiegherebbe come mai, anziché diventare un investigatore impegnato nello scoprire i reati e nell'assicurare alla giustizia i malfattori, abbia preferito dedicarsi alla custodia dei medesimi dietro le sbarre, missione che talune menti deviate vorrebbero far coincidere col sadismo e che invece richiede un supplemento di umanità: «Siamo poliziotti due volte, perché dobbiamo far sì che il recluso non possa nuocere ancora alla società ma anche che diventi migliore. Non è un impegno facile e non è da tutti». Dario Mora, meglio noto come Lele, dopo i 408 giorni passati in isolamento nel carcere di Opera, vi ha persino dedicato un libro, "I miei angeli custodi". «Non siamo né angeli né diavoli. Rappresentiamo lo Stato, che è fatto di legalità, di regole e soprattutto di diritti». A Mora, che tentò di soffocarsi in cella, avete salvato la vita. «Non solo a Mora. Negli ultimi 20 anni sono stati 16.388 i tentativi di suicidio sventati dalla polizia penitenziaria. A fronte di 1.097 casi di detenuti che sono purtroppo riusciti a realizzare il loro insano proposito». In che modo, visto che gli sequestrate persino i lacci delle scarpe? «Inalando il gas della bomboletta da camping che gli viene consentito di tenere in cella per cucinare, per esempio. Oppure con le lenzuola annodate. O con l'accappatoio. Un solo agente deve controllare dagli 80 ai 100 detenuti sotto la doccia, non può farcela a tenerli d'occhio tutti». Si uccidono solo i reclusi? «Anche i baschi azzurri. In media una decina di colleghi l'anno. Da gennaio siamo a 8. In nessun carcere esiste uno psicologo del lavoro per il personale. L'impotenza quotidiana scava dentro. Gli agenti salvano i detenuti, ma nessuno salva gli agenti. Abbiamo strappato alla morte persino il boss dei boss, Totò Riina, colto da infarto nel supercarcere di Ascoli Piceno. Nessuno lo scrive, ma dal 1992 a oggi il nostro tempestivo intervento ha impedito che 112.844 atti di autolesionismo compiuti dai detenuti sfociassero in tragedie». Sono qui per scriverne. «Basti dire che nei 206 istituti penitenziari nel primo semestre del 2012 si sono registrati 2.322 colluttazioni e 541 ferimenti. Il sovraffollamento ha raggiunto livelli patologici: 66.685 reclusi per una capienza di 45.849 posti. Il nostro organico è sotto di 5.447 unità. La spending review ha bloccato le assunzioni per tre anni, nonostante vi siano 1.200 agenti già idonei che premono per entrare in ruolo. L'età media dei poliziotti si aggira sui 37 anni.
Altissima, considerato il lavoro usurante che svolgono, aggravato dai turni notturni, non meno di 6 al mese, e festivi. Dobbiamo confrontarci di continuo con realtà estreme: tossicomani, alcolisti, sieropositivi, transessuali, detenuti per reati infamanti. Sono forme di disagio che bruciano la funzione intellettiva degli agenti. Si torna a casa con le batterie scariche». Mi pareva d'aver letto che col governo Monti i detenuti fossero diminuiti.
«Di appena 1.236 unità e soltanto in sei regioni. Di fatto, per far entrare nelle celle i 20.836 prigionieri eccedenti, le brande vengono sovrapposte fino al soffitto. A Marassi un detenuto è morto cadendo nel sonno dal terzo piano, per così dire». Non ci sono i fondi per costruire nuove case circondariali. Allora come si risolve il problema del sovraffollamento? «I magistrati devono accelerare i processi. In questo momento vi sono dietro le sbarre 26.804 detenuti, il 40 per cento del totale, in attesa di giudizio definitivo, la metà dei quali saranno poi assolti. Significa che li stiamo privando della libertà senza motivo, e questo già è grave, solo per ingombrare le carceri. Un detenuto su 3 è tossicodipendente, ripete sempre gli stessi reati per procurarsi la droga. Se scontasse la pena in una comunità di recupero, dove lo curano, il problema sarebbe risolto alla radice.
Poi vi sono 23.789 stranieri che dovrebbero espiare nei loro Paesi d'origine. Infine il carcere non può essere un hotel con le porte girevoli». Che intende dire? «Si assiste quotidianamente a un'assurda girandola: arresto, traduzione in cella, registrazione, foto segnaletica, udienza di convalida, scarcerazione. Parliamo di 20.000 persone che intasano il sistema per tre giorni entrando in carcere e subito uscendone, con tutto il sovraccarico di lavoro che ciò comporta». I braccialetti elettronici per il controllo a distanza potrebbero rappresentare una soluzione? «Sì. Ma gli ex ministri dell'Interno, Enzo Bianco, e della Giustizia, Piero Fassino, che fecero gli accordi con la Telecom, dovrebbero spiegarci perché si sono spesi ben 110 milioni di euro per tenerli chiusi nei caveau del Viminale». L'amnistia è una via d'uscita? «No. Se non è collegata a una riforma strutturale, serve solo a sgravarsi la coscienza. Molto meglio istituire un'area penale esterna al carcere, dove i condannati fino a 2 anni possano dormire a casa propria ma di giorno siano impiegati in lavori socialmente utili». Il lavoro che redime. «Non puoi tenerli chiusi in una cella 20 ore al giorno. Escono più cattivi di quando sono entrati. È una presa in giro dell'articolo 27 della Costituzione, che prescrive la rieducazione del condannato. Chi sconta la pena in carcere ha un tasso di recidiva del 68,4%, contro il 19% di chi fruisce di misure alternative e addirittura dell'1% di chi è inserito nel circuito produttivo. In Germania i detenuti lavorano tutti. Ho appena visitato alcuni penitenziari a Berlino e nel Brandeburgo e ho visto i prigionieri impegnati a fabbricare dai componenti elettrici per auto agli oggetti natalizi. Guadagnano 80 centesimi oppure 1 euro l'ora, cioè niente, altro che la paga sindacale che va corrisposta in Italia ai pochi fortunati ammessi a frequentare i laboratori interni. Del resto questo è il Paese in cui le Brigate rosse ammazzavano solo perché a Massa Carrara i detenuti producevano i plaid per la Lanerossi e a Genova gli interruttori per la Ticino». Lei visita molte prigioni? «In media 5-6 al mese». La peggiore? «Per sovraffollamento, topi e sporcizia, direi Poggioreale a Napoli. Ma certe sezioni di Regina Coeli a Roma non sono messe meglio. Capita persino che gli agenti penitenziari arrivino in mensa e non vi sia più cibo. I detenuti mangiano, loro no. Per non parlare dello scandalo delle madri tenute in cella con i figli di età inferiore ai 3 anni: ce ne sono 57 in queste condizioni. È giusto che 60 minori muovano i primi passi in un contesto così terribile?». Che cosa ricorda dei suoi anni passati a Marassi? «Un mondo a parte. Chi ha la fortuna di non averlo mai visto da dentro, non può capire. Bisognerebbe portarci in visita le scolaresche, soprattutto quando gli studenti sono nella fase del belinismo, come diciamo a Genova. Già solo dalla puzza capirebbero tante cose». Qual è la richiesta più urgente che viene dagli agenti iscritti al Sappe? «L'umanizzazione delle condizioni di lavoro, più che l'aumento degli stipendi. Alla fine dei turni hanno i piedi che fumano e la testa che scoppia». Quanto guadagnano al mese? «Intorno ai 1.300 euro netti. Gli ispettori possono arrivare a 2.200, ma solo aggiungendo straordinari, notturni e servizi esterni». Il dissociato Arrigo Cavallina, il fondatore dei Proletari armati per il comunismo che reclutò Cesare Battisti, mi ha raccontato: «In tutte le prigioni c'erano squadrette di pestaggio, gruppi di agenti che venivano a picchiarti senza motivo. A Rebibbia ci svegliarono di notte, avevano i manganelli e i caschi con la visiera, sembravano robot. Ebbi 20 punti di sutura sulla testa. La mattina dopo il medico di turno mi cucì senza chiedermi nulla, come se fosse stata la cosa più normale di questo mondo». «Ciascun detenuto può conferire col magistrato di sorveglianza e riferirgli eventuali soprusi subiti. Siamo i primi ad allontanare le mele marce. Ma troppo spesso i racconti delle presunte vittime dei pestaggi si rivelano infondati». È un fatto che il primo a finire assassinato da Battisti fu il maresciallo Antonio Santoro, comandante del penitenziario di Udine. Non credo che fosse stato scelto per caso un bersaglio con moglie e tre figli. «Bisognerebbe interpellare Battisti, se non fosse latitante. I terroristi ci hanno sempre identificato come la mano nera dello Stato.
Santoro non fu l'unico caduto in servizio. Prima di lui le Br uccisero Lorenzo Cotugno, 31 anni, agente alle Nuove di Torino, e poi, sempre a Torino, Prima linea ammazzò Giuseppe Lorusso, 30 anni. Stessa sorte per la poliziotta penitenziaria Germana Stefanini, che lavorava a Rebibbia, sequestrata e "processata" dai Nuclei per il potere proletario». Favorevole o contrario all'ergastolo? «Per certi reati odiosi, compiuti con crudeltà o su bambini, a mio avviso va mantenuto». Il professor Umberto Veronesi sostiene che dal punto di vista scientifico non ha senso: anche l'omicida più efferato, trascorsi 20 anni, è completamente diverso dall'uomo che commise il crimine, per un semplice fatto di ricambio cellulare. «Veronesi provi a parlarne con i familiari delle vittime. Troppo facile fare i generosi sulla pelle degli altri».
Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.
Ancora oggi l’etimologia di lex è incerta; i più ricollegano effettivamente lex a legere, ma un’altra teoria la riconduce alla radice indoeuropea legh- (il cui significato è quello di “porre”), dalla quale proviene l’anglosassone lagu e, da qui, l’inglese law.
Nella Grecia antica le leggi sono il simbolo della sovranità popolare. Il loro rispetto è presupposto e garanzia di libertà per il cittadino. Ma la legge greca non è basata, come quella ebraica, su un ordine trascendente; essa è frutto di un patto fra gli uomini, di consuetudini e convenzioni. Per questo è fatta oggetto di una ininterrotta riflessione che si sviluppa dai presocratici ad Aristotele e che culmina nella crisi del V secolo: se la legge non si fonda sulla natura, ma sulla consuetudine, non è assoluta ma relativa come i costumi da cui deriva; dunque non ha valore normativo, e il diritto cede il campo all'arbitrio e alla forza. La relazione che intercorre tra il concetto di legge e il concetto di luogo è insito nell’etimologia del termine greco nomos, che significa pascolo e che, progressivamente, dietro alla necessaria consuetudine di legittimare la spartizione del “pascolo”, ha finito per assumere questo secondo significato: legge. Ma nemein significa anche abitare e nomas è il pastore, colui che abita la legge, oltre che il pascolo; la conosce e la sa abitare. E nemesis è la divinità che si accanisce inevitabilmente su coloro che non sanno abitare la legge.
Da qui il detto antico “qui la legge sono io”. Conflittuale se travalica i confini di detto pascolo. Legge e luogo sono intrinsecamente connessi. Infatti, la nemesi della legge è proprio quella libertà commerciale che esige un’economia globale, che travalica tutti i confini, che considera la terra come un unico grande spazio. Insieme ai paletti di delimitazione degli stati sradica così anche la legge che li abita.
I greci, con Platone, avevano teorizzato l’origine divina del nomos. Obbedire alle leggi della polis significava implicitamente riconoscere il dio (nomizein theos) che si nasconde dietro l’ethos originario.
La conclusione di entrambi i percorsi - quello lungo e quello breve - dovrebbe condurre a definire la politica come scienza anthroponomikè o scienza di amministrare gli esseri umani. Nómos in greco significa "norma", "legge", "convenzione"; vuol dire "pascolo" e nomeus vuol dire "pastore": il procedimento dicotomico sembra condurre lontano dal nómos nel suo primo senso, a far intendere l'antroponomia come l'arte di pascolare gli uomini.
Cicerone adotta l’etimologia di lex da legere, non perché la si legge in quanto scritta, bensì perché deriva dal verbo legere nel significato di “scegliere”.
“Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum”, Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio della celebre esposizione di Tommaso d’Aquino sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae.
Da qui il concetto di legge: “la legge è una regola o misura nell’agire, attraverso la quale qualcuno è indotto ad agire o vi è distolto. Legge, infatti, deriva da legare, poiché obbliga ad agire.”
Il termine italiano legge deriva da legem, accusativo del latino lex.
Lex significava originariamente norma, regola di pertinenza religiosa.
Queste regole furono a lungo tramandate a memoria, ma la tradizione orale - che implicava il rischio di travisamenti - fu poi sostituita da quella scritta.
Sono così giunte fino a noi testimonianze preziose come le Tavole Eugubine, una raccolta di disposizioni che riguardavano sacrifici ed altre pratiche di culto dell’antico popolo italico di Iguvium, l’attuale Gubbio.
A Roma, in età repubblicana, vennero promulgate ed esposte pubblicamente le Leggi delle Dodici Tavole, che si riferivano non più solamente a questioni religiose: il termine lex assunse così il valore di norma giuridica che regola la vita e i comportamenti sociali di un popolo.
Sul finire dell’età antica l’imperatore Giustiniano fece raccogliere tutta la tradizione legislativa e giuridica romana nel monumentale Corpus Iuris, la raccolta del diritto, che ha costituito la base della civiltà giuridica occidentale.
Dalla riscoperta del Corpus Iuris sono state costituite circa mille anni fa le Facoltà di Legge - cioè di Giurisprudenza e di Diritto - delle grandi università europee, nelle quali si sono formati i giuristi, ovvero gli uomini di legge di tutta l’Europa medievale e moderna.
La parola legge è divenuta sinonimo di diritto, con il valore di complesso degli ordinamenti giuridici e legislativi di un paese.
In questo senso oggi la Costituzione italiana sancisce che la legge è uguale per tutti, e afferma la necessità per ogni persona di una educazione al rispetto della legalità: una società civile deve fondarsi sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini che trovano nelle leggi le loro regole.
Per millenni, tuttavia, il concetto di legge è stato collegato esclusivamente ad ambiti religiosi o sacrali, e per alcuni popoli ancora oggi all’origine delle leggi vi è l’intervento divino.
Pensiamo agli ebrei, per i quali la Legge - la Thorà nella lingua ebraica - è senz’altro la legge divina, non soltanto in riferimento ai Comandamenti consegnati dal Signore a Mosè sul monte Sinai - la legge mosaica - ma in generale a tutta la Bibbia, considerata come manifestazione della volontà divina che regola i comportamenti degli uomini.
Anche i Musulmani osservano una legge - la legge coranica - contenuta in un testo sacro, il Corano, dettato da Dio, Allah, al suo profeta Maometto.
Una legalità fondata sulla giustizia è dunque l’unico possibile fondamento di una ordinata società civile, e anche una delle condizioni fondamentali perché ci sia una reale difesa della libertà dei cittadini di ogni nazione.
Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino letteralmente, significa dura legge, ma legge. Più propriamente in italiano: "La legge è dura, ma è (sempre) legge" (e quindi va rispettata comunque).
Chi vive ai margini della legge, o diventa fuorilegge, si pone al di fuori della convivenza civile e va sottoposto ai rigori della legge, cioè a una giusta punizione: in nome della legge è proprio la formula con cui i tutori dell’ordine intimano ai cittadini di obbedire agli ordini dell’autorità, emanati secondo giustizia.
Il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, "diritto di natura") è il termine generale che racchiude quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto, cioè di un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'essere umano.
Il giusnaturalismo si contrappone al cosiddetto positivismo giuridico basato sul diritto positivo, inteso quest'ultimo come corpus legislativo creato da una comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Questa contrapposizione è stata efficacemente definita "dualismo".
Secondo la formulazione di Grozio e dei teorici detti razionalisti del giusnaturalismo, che ripresero il pensiero di Tommaso d’Aquino, attualizzandolo, ogni essere umano (definibile oggi anche come ogni entità biologica in cui il patrimonio genetico non sia quello di alcun altro animale se non di quello detto appartenente alla specie umana), pur in presenza dello stato e del diritto positivo ovvero civile, resta titolare di diritti naturali, quali il diritto alla vita, ecc. , diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi. Questi diritti naturali sono tali perché ‘razionalmente giusti’, ma non sono istituiti per diritto divino; anzi, dato Dio come esistente, Dio li riconosce come diritti proprio in quanto corrispondenti alla “ragione” connessa al libero arbitrio da Dio stesso donato.
INGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.
Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera).
Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.
La MALAGIUSTIZIA è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.
L’INGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!!
A PROPOSITO DI GIUSTIZIA. QUELLO CHE LA STAMPA NON DICE
Possiamo anche passar oltre al fatto che ancora oggi vi siano leggi fasciste a regolare la nostra vita ed ai catto-comunisti vincitori della guerra civile dell'altro millennio questo va bene, ma il grado di civiltà di una nazione si misura in base alla qualità di giustizia amministrata ed alla misura di rieducazione e del recupero del reo concessa. Eppure la Costituzione prevede
Art. 101.
La giustizia è amministrata in nome del popolo (non per conto).
Art. 27.
La responsabilità penale è personale.
L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte.
L’associazione Ristretti Orizzonti passa al contrattacco e lancia l’allarme: dall’inizio del mese nelle carceri italiane sono morte ben sedici persone. L'ultimo in particolare, si è rivelato decisamente un mese nero per i decessi nelle prigioni, con guardie, detenuti e ufficiali di polizia coinvolti nello stesso atroce destino.
In Italia ad oggi si riscontra un alto grado di ingiustizia corrispondente al gran numero di cittadini detenuti illegittimamente perchè presunti innocenti ovvero non beneficianti delle pene alternative di rito. Magistrati troppo zelanti o troppo superficiali o abbastanza incapaci, ovvero diritto di difesa leso perché comunque dentro qualcuno ci deve andare e se non i più poveri ed indifesi che non possono permettersi l’adeguata difesa legale? Difesi da giovani avvocati d’ufficio che non conoscono le carte e che si attengono alla volontà del giudice!
Carcere e storie di ordinaria ingiustizia, così racconta Michele Minorita su “Notizie Radicali”. Thomas Hammarberg è un tranquillo e posato signore dall’inequivocabile aspetto nordico. E’ infatti nato a Ornskoldsvik, in Svezia, e dopo un passato di politico nel suo paese dal 5 ottobre di sei anni fa ricopre la carica di commissario europeo per i diritti umani del Consiglio d’Europa. L’altro giorno Hammarberg, con il tono amabile di chi sa dire con tranquilla serenità cose gravi ci ha ammonito che “il sovraffollamento delle carceri è un problema europeo da prendere molto sul serio e che si potrebbe alleviare riducendo la detenzione preventiva. Per esempio, in Italia il 42 per cento dei detenuti sono ancora in attesa di giudizio o della sentenza d’appello. Quindi, non essendo ancora provata la loro colpevolezza, dovrebbero essere considerati innocenti. Se le carceri sono sovraffollate è perché troppe persone vi vengono rinchiuse in detenzione provvisoria”. Analisi impietosa, schiaffo sonoro, una vera e propria requisitoria: “La carcerazione in attesa di giudizio”, prosegue Hammarberg, “può essere giustificata solo dalla necessità di un approfondimento di indagine, dal timore di inquinamento delle prove o da un reale pericolo di fuga. La detenzione provvisoria deve essere considerata una misura straordinaria. La Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo, infatti, raccomanda di ricorrervi solo in casi eccezionali e di riconsiderarne continuamente la necessità”. Accade invece che quella della detenzione preventiva sia diventata una è una pratica abituale e abusata. La media europea è del 25%: si va dall’11% nella Repubblica Ceca al 42% dell’Italia. L’eccessiva durata della carcerazione preventiva costituisce un altro gravissimo problema. “Più di una volta la Corte europea dei Diritti dell’Uomo”, dice Hammarberg, “ha esaminato ricorsi di persone rimaste in prigione per quattro, cinque e addirittura sei anni prima del giudizio e non sempre in condizioni umanamente accettabili”. Al di là degli irrisarcibili e incalcolabili costi umani, le conseguenze socio-economiche della detenzione preventiva sono a dir poco più disastrose: “Il più delle volte chi la subisce perde il posto di lavoro, è costretto a vendere i propri beni per il sostentamento della famiglia o viene sfrattato dall’alloggio che occupa. Anche se, poi, viene accertata la sua innocenza, il solo fatto di essere stato in carcere gli condiziona il resto della vita. È incredibile che i governi europei non prendano provvedimenti per prevenire questi inconvenienti e correggere un sistema carcerario che, per di più, è costosissimo, oltre che affollato. Perché non adottare soluzioni alternative più efficaci e convenienti, come arresti domiciliari o libertà sotto cauzione?”. Lo scandalo “generale” è costituito da tanti “piccole” quotidiane vicende emblematiche. Il problema del sovraffollamento delle carceri non è privilegio della sola Italia, è questione con cui devono fare i conti più o meno tutti i paesi europei. Altrove per chi si è macchiato di reati “lievi” fanno ricorso ad alternative alla cella; per esempio, il “braccialetto elettronico”. Ci abbiamo provato anche noi. Era ministro dell’Interno Enzo Bianco, governo di centro-sinistra, anno 2001. Lo Stato stipulò con la Telecom un contratto: 110 milioni per 400 braccialetti elettronici, fino al 2011. Abbiamo pagato per tutti questi anni. Quanti di questi “braccialetti” sono stati applicati? Appena una decina. Fatevi un po’ voi i conti: oltre un milione di euro a braccialetto per anno. Oggi forse non funzionano neppure quelli. La Gran Bretagna lo usa su 50mila adulti condannati o imputati, spendendo un quinto rispetto alla detenzione tradizionale. Alzi la mano chi sa spiegare perché quello che funziona a Londra, risulta inefficiente a Roma? Un’occhiata, ora alla questione dei “costi”. Per il vitto di ciascuno dei circa 70mila detenuti l’amministrazione penitenziaria spende tre euro e 70 centesimi: colazione, pranzo, cena. Non essendo la matematica un’opinione, i casi sono due: o la ditta appaltatrice ha trovato la ricetta miracolosa per sfamare con pochi centesimi e insieme ritagliarsi un margine di guadagno per il servizio che fornisce; oppure il guadagno deriva da altro. Buona la seconda, evidentemente. Non c’è infatti detenuto che, potendo, non faccia la sua “personale” spesa rivolgendosi agli “spacci” presenti in ogni carcere, per integrare il menù quotidiano che passa l’amministrazione. E qui arriva la mazzata, perché è nel servizio di "sopravvitto", fornito in regime di monopolio, che risiedono i veri utili, realizzati sulle tasche del detenuto, che ovviamente non può fare acquisti all’esterno del carcere. La vicenda è finita in Parlamento. La deputata Rita Bernardini, vera e propria pasionaria delle carceri ha denunciato la cosa, ottenendo che il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria disponesse un’indagine sui costi del sopravvitto, che, dice il capo del DAP Franco Ionta "non possono in alcun modo essere superiori a quelli che il detenuto sosterrebbe se stesse fuori dal carcere". Una circolare inoltre dispone la diversificazione dell’offerta e la costante verifica della congruità dei prezzi. Vedremo gli esiti concreti. E intanto quotidiane vicende di “ordinaria” ingiustizia. Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni racconta il caso di un detenuto olandese, si chiama Winterdaal. Deve scontare quattro anni di carcere, condannato per traffico di droga. Winterdaal chiede di poter scontare la pena nel suo paese. Niente da fare: una ritardata notifica fino a questo momento ha reso inutile il parere favorevole della Corte d'Appello di Roma. Secondo quanto ricostruisce il Garante, l'uomo era stato arrestato tre anni prima, nel 2008, come corriere per l'importazione in Italia di cocaina. All'inizio del 2010 Winterdaal chiede alle autorità italiane di poter scontare la pena in un carcere olandese, diritto che gli viene riconosciuto, nel marzo 2011, dalla IV sezione della Corte di Appello di Roma. “Nonostante ciò, per colpa di una banale disattenzione”, racconta Marroni, “l'ordinanza della Corte d'Appello è stata notificata solo a giugno, perché un ufficiale giudiziario ha erroneamente certificato che l'uomo non era recluso a Regina Coeli ma in carcere calabrese”. Un ritardo che ha avuto gravi conseguenze: “la giustizia olandese”, dice Marroni, “non consente l'estradizione per pene inferiore ai sei mesi che, guarda caso, è il residuo della pena che deve ancora scontare Winterdaal. E fino a questo momento a nulla sono valsi i solleciti e le istanze presentate dal suo avvocato per tentare di far accertare l'errore commesso”. Una vicenda emblematica della situazione in cui si trova il sistema giudiziario italiano: “Di fronte ad uno stato di crisi causato da sovraffollamento e carenza di risorse” osserva Marroni, “anziché snellire le procedure il sistema sembra arrendersi fatalmente alla burocrazia. E' così, da mesi, lo Stato continua a pagare il mantenimento in carcere di un uomo che da tempo doveva stare in un istituto olandese”. Un’altra vicenda paradossale è quella che viene raccontata da una donna di Vicenza: “Sono una madre di 30 anni e il mio compagno si chiama Franco, ha 44 anni e nel 1997, quando ancora non ci conoscevamo ha commesso reati di riciclaggio e ricettazione finendo in galera. Ora dopo 14 anni, aveva un residuo di pena di 2 anni 4 mesi e 23 giorni e così il 13 gennaio 2011 è stato portato di nuovo in carcere. Le sofferenze che ho passato e che sto passando sono quotidiane, basti pensare che il suo Denis Santiago (è il nome del nostro primo bimbo) ha soffiato la sua prima candelina senza il papà, le spese da affrontare sono molteplici, spese legali, mantenimento mio e del bimbo e mantenimento di Franco in carcere. Ora la legge dice che sotto i 2 anni uno può chiedere misure alternative al carcere e così il 6 giugno Franco si trova con quei requisiti, tramite avvocato facciamo istanza per fissare la data in cui il magistrato può valutare la situazione e concedere la detenzione domiciliare”. Bene, quando è stata fissata l'udienza? Il 6 dicembre 2011. Così Franco si deve fare 11 mesi in carcere. Dice la donna: “C'è gente che ubriaca per strada ammazza e il magistrato la fa tornare a casa dalla propria famiglia mentre Franco per aver commesso reati di riciclaggio e ricettazione 14 anni fa si trova in carcere da sette mesi con una famiglia che a casa ha bisogno di lui e del suo sostegno, con un figlio che chiama sempre "papà, papà" e bacia la sua foto e con una compagna che all'ottavo mese di gravidanza non sa ancora se potrà partorire con il proprio compagno accanto. Io so di essere impotente di fronte a questa ingiustizia, ma il mio vuole essere un appello a chi potrebbe far qualcosa perché questa situazione cambi, poi si parla di sovraffollamento delle carceri e si continua a tenere dentro chi veramente non merita. Grazie per avermi ascoltato”.
Questa la situazione, questi i fatti.
Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia di Ilaria Cavo è uno dei tanti libri scritti per il pianeta giustizia. Un mondo volutamente inesplorato per interesse politico: l'arma del giustizialismo porta voti ed i forcaioli sono sempre di più, fino a che la forca non è dedicata a loro. La trama di Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia. Un professionista dalla vita tranquilla, Ennio Paolucci, ingegnere dell'Anas, vittima di innumerevoli e interminabili processi e additato come responsabile di incidenti dovuti invece a tragiche fatalità. Un pensionato dall'esistenza irregolare, Sandro Vecchiarelli, erroneamente incriminato per la scomparsa di una giovane amica, Chiara Bariffi, nelle acque del lago di Como. Un ragazzo irreprensibile, Melchiorre Maganuco, che vive in una realtà sociale dove forte è la presenza della malavita, coinvolto in un'inchiesta per traffico di droga soltanto perché, in assoluta buona fede, aveva conoscenze e numeri di telefono "sbagliati". Un carabiniere infiltrato, Gian Mario Doneddu, accusato di complicità con i criminali che era impegnato a sgominare. Un padre incarcerato per più di tre anni per violenze mai commesse sulla figlia e assolto con un processo di revisione solo dopo aver scontato l'intera pena. Ilaria Cavo ha sottratto all'anonimato una serie di vicende kafkiane in cui cittadini innocenti finiscono per sbaglio sul banco degli imputati con accuse talora gravissime, che sfociano di frequente, oltre che in un estenuante processo, anche in un'ingiusta detenzione. Un penoso e umiliante iter giudiziario, durato a volte moltissimi anni, prima di arrivare a una sentenza di assoluzione, ma spesso fuori tempo massimo e senza un adeguato risarcimento per il danno subito. Nelle diverse inchieste, sostiene l'autrice, si riscontrano "errori non voluti ed errori invece evitabili...
Naturalmente la stampa ha tutto l'interesse a minimizzare gli errori dei magistrati ed a sminuire le mancanze amministrative. Questione di lana caprina? Dipende....da chi è là dentro ad essere recluso.
Di seguito si riporta l'interrogazione a risposta scritta dell'On. Rita Bernardini del Partito Democratico (Radicale). E' per il Carcere di Taranto, ma è come se valesse per tutte le carceri d'Italia.
"Al Ministro della Giustizia,
Lunedì 20 agosto 2012 l’interrogante ha effettuato una visita di sindacato ispettivo alla Casa Circondariale “Carmelo Magli” di Taranto accompagnata dagli esponenti radicali Maurizio Bolognetti e Maria Antonietta Ciminelli; la visita, durata molte ore, è stata guidata dalla Direttrice Stefania Baldassarri e dal Comandante Giovanni Lamarca;
l’Istituto tarantino ha in carico 595 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 200 posti, sebbene sul sito internet del ministero della giustizia sia indicata una ricettività legale di 315 posti; i detenuti in attesa di primo giudizio sono 153 mentre coloro che scontano una sentenza definitiva di condanna sono 318; in Alta sicurezza sono ristretti in 103; ben presto, con la ripresa, dopo la pausa estiva, dell’attività giudiziaria, l’istituto tornerà alla media dei 700 detenuti presenti; il 40% degli ospiti sono tossicodipendenti e, fra questi, 20 sono in trattamento metadonico;
il carcere di Taranto, entrato in funzione a metà degli anni 80, presenta molte problematiche strutturali, date le scarse risorse destinate centralmente per la manutenzione sia ordinaria che straordinaria: alcune aree risultano transennate perché pericolanti; alcune sale colloqui hanno ancora il muretto divisorio: una di esse è definita “la pescheria” per il cattivo odore che emana l’ambiente sovraffollato all’inverosimile; il percorso per i familiari (bambini e persone anziane comprese) che si appresentano ad incontrare il congiunto detenuto, è sotto il solleone (o con la pioggia, d’inverno) o con coperture, come quella della pensilina prossima all’ingresso, che dovrebbero essere coibentate essendo “roventi” d’estate e con infiltrazioni d’acqua nella stagione delle piogge; per mancanza di spazi, l’ex campo sportivo è stato diviso in due e adattato a passeggio per le ore d’aria: un deserto polveroso privo di servizi e di approvvigionamento di acqua; la casa circondariale è destinataria del piano carceri per la costruzione di un padiglione da 200 posti i cui lavori sono ancora nella fase di aggiudicazione attraverso gara; all’interno dell’area c’è però un padiglione a 48 posti inutilizzato perché per metterlo in funzione - magari per una custodia attenuata come suggerisce la direttrice - oltre al personale, occorrerebbero modifiche strutturali essendo stato concepito per ospitare detenuti malati di aids; un’altra nota dolente, riguarda la caserma degli agenti dove c’è un piano intero transennato e dove le stanze per il pernottamento degli agenti sono addirittura peggiori delle celle di detenzione; nell’istituto non c’è l’area verde per gli incontri della popolazione detenuta con i figli minori; mancano del tutto spazi per attività sportive e ricreative e il teatro non viene utilizzato a causa della carenza di personale e della mancanza di fondi da destinare alle attività trattamentali; la biblioteca, invece, è ben fornita anche grazie ad una donazione di libri effettuata un anno e mezzo fa da parte della Presidenza del Consiglio;
fra le celle visitate ci sono quelle della sezione A, ubicata al primo piano: il sovraffollamento è evidente considerato che in celle di circa 10 metri quadrati sono ospitati tre detenuti e, a volte, anche quattro;
il corpo degli agenti di Polizia Penitenziaria ha un deficit di organico pari a 40 unità; dei 357 agenti previsti dal D.M. dell’8/2/2001, ne risultano effettivamente assegnati 317 di cui 53 impiegati presso il Nucleo traduzioni e piantonamenti;
la situazione degli automezzi del Nucleo Traduzioni è disastrosa a causa della sospensione della manutenzione ordinaria per mancanza di fondi; inoltre capita che le scorte siano sottodimensionate e che a volte non si possano nemmeno rimborsare i buoni-pasto; a proposito dei vari tipi di traduzione, risulta veramente uno spreco la scorta per accompagnare i detenuti ai domiciliari: tre uomini che fanno sostanzialmente i “tassisti” per un servizio che potrebbe essere semplicemente abolito visto che il detenuto, se decide di contravvenire a quanto prescritto dalla legge, può “evadere” da casa un momento dopo essere stato accompagnato ai domiciliari; spesso queste traduzioni prevedono viaggi lunghissimi anche di centinaia di chilometri per raggiungere comunità per tossicodipendenti o domicili situati nelle regioni settentrionali;
l’area educativa risulta sottodimensionata essendo costituita da un responsabile e da 4 educatori; anche l’assistenza psicologica è carente se consideriamo che è portata avanti da 2 psicologi ex art. 80 che fanno in tutto 78 ore mensili e da una psicologa ASL che fa 60 ore e che si occupa esclusivamente dei nuovi giunti;
la prima firmataria del presente atto intende sottolineare – perché non accade quasi mai nelle altre visite ad istituti penitenziari - l’ottimo rapporto del magistrato di sorveglianza sia con la direzione e il comando dell’istituto sia con la popolazione detenuta: non è un caso che sotto ferragosto siano stati concessi circa 80 permessi premio e che la legge 199/10 abbia riscontrato un esito positivo per oltre 200 detenuti che hanno avuto la possibilità di scontare gli ultimi mesi di pena ai domiciliari;
molti dei detenuti trascorrono 20 ore della giornata in cella; 100 in media sono infatti coloro che durante l’anno frequentano un corso scolastico (medie e superiori), 85 sono i posti di lavoro disponibili a rotazione ogni sei mesi e 5 coloro che sono ammessi al lavoro esterno; a differenza di altri istituti è molto positivo il fatto che le mercedi non siano solo simboliche e che i lavoranti riescano a guadagnare intorno ai 6/700 euro al mese; buono è il rapporto con il cappellano che, gestendo una casa famiglia, è disponibile a fornire l’alloggio a quei detenuti, soprattutto stranieri, che non hanno un domicilio per poter scontare a casa il residuo periodo di pena come previsto dalla legge 199/2010 e successive modificazioni; Il volontariato è presente con due associazioni mentre il rapporto con le istituzioni – Provincia e Comune – è connotato dall’assoluta mancanza di collaborazione quasi a significare che il carcere sia un corpo estraneo inserito nella città;
ai detenuti è consentito fare la doccia a giorni alterni per contenere i consumi idrici a causa dell’ingente debito che l’Amministrazione Penitenziaria ha con l’Acquedotto Pugliese S.p.A.;
Fra i casi particolari, si segnalano:
A.S. (Antonio Savonelli), proveniente dal reparto psichiatrico dell’Ospedale Moscati di Taranto, si trova in carcere a causa di un residuo pena di un mese e 20 giorni per poi tornare presso la Comunità Il Delfino dove è assegnato;
E.D.B. (Eva Di Benedetto), ha il fine pena fra sette anni e ha fatto richiesta di trasferimento a Rebibbia o a Civitavecchia per poter fare un valido percorso riabilitativo visto che ha due figli minori ospitati in istituti; non fa colloqui da dicembre, cioè da quando è venuta via da Teramo;
G.C. (Giovanna Cavaliere), ha presentato istanza di trasferimento al Carcere di Pozzuoli; suo marito è morto suicida;
M.B. (Marina Buzdugan) è una ragazza rumena di 22 anni che scoppia in lacrime non appena le chiediamo come stia; orfana di madre, è venuta in Italia prima di Pasqua con il suo ragazzo che l’ha coinvolta in una rapina nella città di Bari; è spaventata e afferma di non essere mai stata in carcere e di non conoscere nessuno nel nostro paese né di sapere alcunché della sua posizione processuale perché ha visto il suo avvocato d’ufficio una sola volta; direttrice e comandante si occuperanno della sua vicenda soprattutto sotto l’aspetto della difesa legale:-
quale sia effettivamente la capienza regolamentare del carcere di Taranto e cosa intenda fare per urgentemente riportare la popolazione detenuta ai livelli di ricettività legali, secondo quanto previsto dall’Ordinamento Penitenziario e dalla Convenzione Europea dei diritti dell’uomo;
cosa intenda fare per rimuovere le illegalità strutturali degli edifici dell’intero complesso della casa circondariale di Taranto, tenuto presente che alcune criticità evidenziate in premessa rischiano di mettere in pericolo la salute e la vita del personale e dei detenuti;
a quando risalga e cosa vi sia scritto nell’ultima relazione della ASL di competenza in merito alle condizioni strutturali degli edifici anche sotto il profilo igienico-sanitario;
se intenda immediatamente provvedere a stanziare fondi per la manutenzione straordinaria così da fronteggiare i problemi più urgenti e se intenda ripristinare i fondi pressoché esauriti della manutenzione ordinaria;
cosa intenda fare per incrementare il budget destinato alle attività trattamentali e per ripianare il debito verso l’Acquedotto Pugliese S.p.A così che, fra l’altro, i detenuti possano farsi la doccia tutti i giorni;
quanto al Corpo degli Agenti di polizia penitenziaria, se intenda intervenire per ripristinare l’organico, per rimettere in funzione il parco macchine e furgoni del Nucleo traduzioni e per ristrutturare il piano oggi transennato e chiuso degli alloggi della caserma agenti;
se intenda raccogliere il suggerimento di evitare l’accompagnamento dei detenuti allo loro abitazione (o altro luogo specificato nei provvedimenti quale una comunità terapeutica o una casa-famiglia) quando accedano al beneficio della detenzione domiciliare;
se intenda incrementare il personale dell’area trattamentale e dell’assistenza psicologica;
se intenda valutare, per estenderle magari a livello nazionale, le buone pratiche della Magistratura di sorveglianza di Taranto;
se intenda in qualche modo intervenire per assicurare effettivamente l’assistenza legale ai detenuti, soprattutto stranieri, sprovvisti di avvocati di fiducia;
cosa intenda fare per i casi segnalati in premessa."
Naturalmente tutto questo è rimasta lettera morta.
Perché nessuno parla di carceri, si chiede Roberto Saviano su “L’Espresso. Le condizioni di vita dei detenuti e degli agenti di custodia sono ai limiti di ogni immaginabile umanità. Ma la questione viene ignorata da tutti. E viene il sospetto che creare una 'discarica della democrazia', in fondo, a qualcuno sia molto utile. Che fare per interrompere subito il crimine in corso?", vorrebbe domandarmelo la parlamentare radicale eletta nelle liste del PD Rita Bernardini. E vorrebbe farlo mentre insieme a lei – è un invito che accetto volentieri – visitiamo una delle tante carceri italiane in cui le condizioni di vita dei detenuti e di lavoro del personale sono ai limiti di ogni immaginabile umanità. Cara Rita Bernardini ciò che scrive mi è noto, anzi, per quanto io possa forse essere inviso in alcuni penitenziari per le mie origini campane, per aver "tradito" scrivendo Gomorra la mia situazione di reclusione mi porta ad avere una certa empatia di fondo per chi la propria libertà l'ha persa e magari è ancora in attesa di un giudizio. LA CONSAPEVOLEZZA che 66.500 detenuti e molta parte del personale penitenziario (ogni due mesi, in Italia, un agente di custodia si toglie la vita) vivano condizioni inumane, che il carcere non riesca a essere rieducazione e reinserimento ma solo privazione, punizione e tortura, mi porta, appena possibile, a dare voce alla nostra indignazione. Ho approfittato di qualunque spazio a mia disposizione. Ho parlato di carceri in recensioni, sui social network, in televisione e la reazione più comune è stata "Saviano, smetti di occuparti dei delinquenti, pensa alle persone per bene". Scrivo di tossicodipendenza? Mi si risponde che farei meglio a parlare di disoccupazione che di drogati. Parlo di Laogai? Sbaglio, la Cina è lontana: dovrei pensare all'Italia. Mi permetto di dire che esiste una Israele che è anche altro rispetto alle politiche dei suoi governi? Che non è solo guerra, così come per venti lunghi anni l'Italia non è stata solo Berlusconi o mafie? Mi danno del sionista. Del tuttologo. "Parla di camorra, Saviano". Ma la vita non è a compartimenti stagni. Non dovrebbero esistere temi di cui non ci si possa o debba occupare. Allora una cosa l'ho capita. Una cosa semplice e dolorosamente vera nella sua semplicità. Una cosa che non deve scoraggiare, ma solo darci la dimensione del problema, che è molto più grave di quanto non appaia. In Italia necessitiamo di una discarica dove confinare tutto ciò che la nostra democrazia crede sia il peggio che abbia prodotto e da cui costantemente desidera distogliere l'attenzione: il carcere, per intenderci, ci è utile. In carcere mettiamo tutti i problemi che non vogliamo affrontare e risolvere. Mettiamo tutta la "spazzatura indifferenziata" (delinquenti comuni, assassini, tossicodipendenti, piccoli e grandi spacciatori, già condannati o in massima parte in attesa di giudizio) con la quale non vogliamo fare i conti. "Spazzatura" che se non trattata finirà per travolgerci. E io, da campano, di emergenze rifiuti incistate, trascurate, sfruttate, ne so abbastanza. Oggi la Campania è una terra che arde di rifiuti tossici, con falde acquifere e mare inquinati. Ci sono paesi dai quali le persone, pur amandoli, se possono fuggono per non ammalarsi. Ecco cosa sta diventando l'Italia, una terra dalla quale è meglio fuggire, una terra in cui l'unica occupazione del momento sembra essere quella di ridisegnare con ogni mezzo lo scenario elettorale, le alleanze o meglio le accozzaglie, con cui dovremo fare i conti da qui a qualche mese. Giornalisti e celebri giuristi, costantemente impegnati in questo, restano indifferenti al decesso del nostro sistema giudiziario, vero problema per noi che in Italia ci viviamo e per chi in Italia potrebbe decidere di investire. LO SPERIMENTIAMO ogni giorno sulla nostra pelle e ancor più lo vivono sulla loro, le migliaia di detenuti e operatori carcerari abbandonati da tutti. Ma è evidente che i problemi non si vogliono risolti: le carceri rimarranno la cloaca che sono e senza informazione le persone continueranno a pensare e a dirmi che dovrei "piuttosto" occuparmi d'altro. La giustizia non si riformerà, perché è più utile così com'è, e all'occorrenza utilizzarla per ridisegnare gli orizzonti politici, sempre troppo angusti, del nostro Paese. Allora per una volta, questo lusso decido di prendermelo io e vi domando: ma perché non vi occupate "piuttosto" un po' tutti di carceri? Per scoprire magari che risolvere il problema dei "rifiuti", in fondo, potrebbe anche convenirvi.
Già parlarne da intellettuali liberi è una cosa, essere trattati come pezza da piedi e non alzare il dito contro i magistrati per indicare la causa di palesi ingiustizie è un'altra cosa.
Una Storia di ordinaria follia. Si può essere incarcerati da persona per bene e con salute malferma per scontare una condanna attinente la “violazione degli obblighi di assistenza familiare” e nonostante la pena sia stata già scontata con una misura alternativa? E questo dovuto essenzialmente a leggerezza e disservizi?
«In Italia per reati bagatellari e pene infime come queste sì. Per colpe ben più gravi forse no – risponde il dr Antonio Giangrande, scrittore dissidente che proprio in tema di giustizia ha scritto libri pertinenti questioni che nessuno osa affrontare e presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) sodalizio nazionale –. Innanzitutto, questa è la classica storia di una coppia che sposatasi in giovane età comincia a vivere una serie di conflitti e che “per amore dei figli”(due, un maschio e una femmina) continua a mantenere lo “status matrimoniale” pur ribadendosi che al raggiungimento della loro maggiore età la separazione sarebbe stata attuata. E così, anche su suggerimento dei figli che ormai non reggevano più la reciproca intolleranza fra i genitori, i due si separano consensualmente nel febbraio 2002 con i classici accordi che prevedevano il mantenimento “dei figli” (senza specifica in termini di limiti di tempo), di cui una all’epoca maggiorenne e lavoratrice, l’altro di 15 anni. Quando Luigi Mauro Navone (questo è il nome del malcapitato) non riesce più a pagare il mantenimento alla moglie separata, le lascia un patrimonio (quadri, lampadari i e mobili di valore, 2 auto, roulotte e veranda al mare in Liguria) tale da poterne ricavare subito con la vendita (cosa che ha fatto) un valore ben maggiore degli alimenti pattuiti. Da maggio 2003, però, iniziano ad arrivare atti di precetto per il mancato pagamento delle mensilità, pignoramenti, fino alla querela presso i CC per “violazione degli obblighi di assistenza familiare” nell’agosto del 2003. Dopo di che nel settembre del 2006 viene emessa una sentenza dal Tribunale di Torino (non viene proposto patteggiamento, né sospensione della pena e la sentenza, forse, non è opportunamente impugnata dal legale di Luigi, che viene riconfermata il 26 ottobre 2009 dalla Corte di Appello di Torino e che prevede 6 mesi di reclusione, recupero della pena pecuniaria ed euro 300 di multa. Si fa istanza per la concessione di misure alternative alla detenzione: ossia l’affidamento in prova da svolgere a Viterbo. Dunque, Luigi da “bravo ragazzo” segue tutte le prescrizioni, va ai colloqui previsti con l’assistente sociale e la psicologa e conclude il tutto pagando nei termini le pene pecuniarie e le spese di giustizia. A ciò seguono le relazioni positive della psicologa e dell’assistente sociale la quale, però, va fuori del seminato e cita il fatto che lui non ha risarcito integralmente la parte offesa, dimenticando di annotare che quanto stabilito dal Tribunale di Torino è stato pagato, comprese le spese di giudizio, e nessuna altra cifra è mai stata quantificata né richiesta sia dal Tribunale di Torino, sia dalla controparte nel frattempo ricontattata per forza di cose, in quanto nessuna azione civile era stata attivata. E su questo, come su altre discrasie ci si è appellati con il ricorso alla Corte di Cassazione depositato il 13 agosto 2012. Intanto il 2 agosto 2012 arriva una telefonata “sommessa” dalla Caserma dei CC di Valentano dove si invita il “Prof. Navone” gentilmente a presentarsi. Il Prof. Navone è noto presso la sua comunità per le innumerevoli attività e prestigiosi incarichi di carattere sociale e fondatore del periodico “Lazio Opinioni (www.lazioopinioni.it). Ed il tapino è ancora lì a scontare una pena illegittima, a prescindere dal reato se sia stato commesso o meno. Ed al disgraziato è impedita, oltretutto, come racconta la sua nuova compagna, la somministrazione di medicine essenziali per la sua salute. Miserando con l’animo lesionato, più che nel fisico e nella reputazione. I motivi del ricorso in Cassazione contro il provvedimento di carcerazione del Tribunale di sorveglianza di Roma sono: non aver inteso come adempito l’obbligo del risarcimento stabilito dal Tribunale di Torino; non aver dichiarato estinta la pena all’esito della prova eseguita; aver ritenuto erroneamente la condotta omissiva in ordine all’adempimento degli obblighi e citando altri numerosi elementi sostanziali non ben definiti che inficiavano l’esito della prova; lesione del diritto di difesa per aver nominato un difensore d’ufficio, nonostante vi fosse già la nomina dell’avvocato di fiducia. La vicenda, si spera, avrà buon esito e un cospicuo risarcimento per ingiusta detenzione. Questione mai sopita quella della responsabilità dei magistrati che ricade a danno dei cittadini e non, però, di quei magistrati con delirio di onnipotenza, che trattano le persone sol come fascicoli muti e senz’anima.»
«Nella situazione di emergenza perenne che vivono le carcere italiane accade anche questo: che ad un uomo di 54 anni con gravi problemi di salute, venga revocata la misura alternativa dell’affidamento in prova ai servizi sociali per scontare, in carcere, la pena di sei mesi. Il 54enne, affetto da diabete, cardiopatia, ipertensione e crisi respiratorie, dal 2 agosto è tornato in una cella del carcere “Mammagialla” di Viterbo a causa di una ordinanza, non conosciuta né notificata, che ha revocato la misura alternativa della messa in prova ai servizi sociali, per scontare una pena di 6 mesi. Una decisione che arriva in un momento in cui il sovraffollamento sembra essere una delle emergenze più gravi del pianeta carcere italiano: basti pensare che, alla fine di luglio, le presenze nelle carceri italiane erano di 65.860 unità, contro una capienza regolamentare di 45.590. Nel Lazio, in particolare, i detenuti presenti erano 6.960 contro una capienza di 4.839. “Casi come questo – ha commentato il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni – finiscono per mortificare sia l’umanità della pena per il detenuto, che il lavoro degli operatori sanitari, degli agenti di polizia penitenziaria e di tutti coloro che vivono e lavoro nel carcere alle prese, tutto l’anno, con le gravi lacune del sistema che, soprattutto nei mesi estivi, tendono ad acuirsi in maniera drammatica. Sarebbe il caso di individuare, per i casi come quello citato, con brevi fine pena e condizioni di salute precarie, soluzioni alternative al carcere nell’ottica di rendere più vivibile il carcere».
Un'altra storia di ordinaria follia. Il racconto di Concita Sannino su “La Repubblica”. Incensurato e disabile. in carcere per due birre. L'incredibile storia di un quarantenne nel Cilento, privo di una gamba, operatore sociale, che è finito in cella, dove ora è recluso, dopo essere stato denunciato tre anni prima per guida in stato di ebbrezza. Da allora un incubo di burocrazia e disattenzioni.
Mandato in carcere per due birre, bevute tre anni prima, prima di mettersi al volante. "Trenta giorni di pena" è il prezzo che gli ha inflitto la malagiustizia. Malgrado quell'uomo sia incensurato e abbia una protesi al posto della gamba sinistra. Anzi: quando è entrato in cella, gli hanno tolto l'arto finto. "Mi dispiace, qua dentro può essere un'arma". Una storia che fotografa la cupa inefficienza, oltreché il volto disumano, della giustizia avviene tra Vallo della Lucania e Salerno. Un vergognoso sberleffo nel Paese degli indulti e delle carceri sovraffollate. È la storia di Marco Penza, originario di Casalvelino (Salerno), onesto cittadino, operatore del sociale, quarant'anni, disabile. Lui è ancora in carcere. Si aspetta che il magistrato titolare del fascicolo "torni dalle ferie". Marco Penza è finito in carcere dieci giorni fa, prima nell'istituto di Vallo della Lucania, poi in quello di Fuorni, a Salerno, per l'incredibile evoluzione di una semplice e vecchia denuncia. Si tratta dell'alcool test a cui l'uomo è risultato positivo tre anni fa, un posto di blocco di una sera d'estate, 22 luglio del 2009. Può un semplice controllo trasformarsi in un incubo? I suoi amici, il tamtam di reazioni indignate che si è scatenato intorno alla sua vicenda, testimoniano di sì. Può diventare "una storia da paese incivile" se "alla burocratica gestione di un ufficio del pubblico ministero", si somma "la latitanza di un avvocato" e "l'indifferenza" che tanti pubblici uffici - compresi alcuni palazzi della giustizia - ostentano nel periodo delle vacanze. Marco è affetto dall'infanzia da una grave malattia che poco tempo fa, dopo pellegrinaggi sofferti in vari ospedali, non gli ha risparmiato l'amputazione della gamba. Tuttavia, ha la sua vita e le sue relazioni, si occupa di sociale e lavora nella Coop Marina Service di Casalvelino, nel cuore del Cilento, dove ha scelto di vivere. Questo giovane lavoratore, senza alcun precedente penale, viene dunque denunciato a piede libero per guida in stato di ebbrezza. È competente la Procura di Vallo della Lucania, ma sembra che il magistrato titolare del fascicolo - noto per i suoi eccessi di zelo - non conceda la "pena sospesa" a quel cittadino incensurato. E non basta: perché l'avvocato a cui si è rivolto Marco, per un caso, si dedica nello stesso periodo alla politica, si candida alle amministrative del Comune, finisce evidentemente per dimenticare la "pratica". Così quel fascicolo diventa il suo girone infernale. Tre anni dopo, ecco la vecchia denuncia diventa un ordine di carcerazione di 30 giorni. Marco se ne accorge troppo tardi, richiama quell'avvocato che ormai è un politico, il quale lo affida ad un civilista: che, a sua volta, non impugna il provvedimento, ma prova a chiedere un alleggerimento con la richiesta degli arresti domiciliari: è peggio perché così la pratica passa al Tribunale di sorveglianza. Che chiede i suoi tempi per l'esame della vicenda. Marco sta già scontando la galera da 10 giorni: prima arriva nel carcere prima di Vallo della Lucania e poi di Salerno. Intanto, lo portano in ospedale per accertarsi delle sue condizioni. Poi torna in cella, dove un operatore della penitenziaria è costretto, dalle norme, a privarlo della protesi alla gamba. "Mi dispiace, non è consentito". Dopo qualche giorno e dopo le proteste dei suoi amici, finalmente gli restituiscono non la libertà, ma almeno la sua "gamba" sinistra. La storia viene portata alla luce da Silvia Ricciardi dell'associazione Jonathan, che si occupa del recupero dei minori a rischio dell'area penale: "A volte lo sdegno non trova le parole per esprimersi - scrive -. Mi vergogno a vivere in questo paese dove la giustizia non è per i cittadini, ma per chi detiene soldi e potere. Un paese che tiene in galera una persona per un reato sanzionabile con una gradualità di risposte alternative al carcere. Un paese che non ha occhi per vedere né cervello, in alcuni casi, per amministrare pene e sanzioni".
Di questo bisogna parlare quando si parla di carceri. Sono persone spesso innocenti. E fa specie quando, nonostante le prigioni hanno ospiti illustri per lungo tempo, parlamentari e magistrati, questi nulla fanno per far cambiare le sorti ai tapini meno fortunati di loro. Teniamo in conto una cosa, non esistono due tipi di persone: la gente per bene ed i delinquenti. E noi a far parte delle persone per bene e gli altri a delinquere. Attenzione, spesso gli altri siamo noi e sì che allora non c'è nessuno che ci aiuta.
Ingiustizia: quando non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Risarcimento per ingiusta detenzione, sì ma non per tutti. Della serie: così è se vi pare. Giusto! Basta saperlo e farlo sapere. A Calogero Mannino l’ultima ingiustizia: negato il risarcimento per 23 mesi di carcere ingiusto. Così come raccontato da Maurizio Tortorella su “Panorama”.
La Corte d'appello per le Misure di prevenzione di Palermo ha respinto la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione presentata dall'ex ministro Calogero Mannino. Il collegio composto dal presidente Salvatore Di Vitale e dai consiglieri Raffaele Malizia e Gabriella Di Marco era chiamato a stabilire se i giudici che lo arrestarono avessero commesso, o meno, un errore. Il collegio ha passato in rassegna la storia processuale del deputato assolto dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, dopo aver trascorso un lungo periodo in carcere. L' ex ministro, arrestato nel 1995 dai pubblici ministeri di Palermo è rimasto in custodia cautelare per 23 mesi. Il tribunale di Palermo lo assolse con la formula dubitativa. Poi, la Corte d'appello ribaltò la sentenza e lo condannò a 5 anni e 4 mesi di carcere. Dopo l'annullamento in Cassazione e la celebrazione di un nuovo processo, Mannino fu assolto. Calogero Mannino, all'indomani della sentenza di assoluzione in Cassazione commentò: «Hanno portato via un pezzo della mia vita».
Calogero Mannino non ha diritto a essere risarcito per 23 mesi trascorsi ingiustamente in prigione tra 1995 e 1996 perché, secondo la Corte d’appello di Palermo, «per un uomo politico di primo piano accettare consapevolmente l’appoggio elettorale di un esponente di vertice dell’associazione mafiosa (…) integra gli estremi di colpa grave e costituisce, senza dubbio, condotta sinergica rispetto all’evento detenzione». Escono le motivazioni con le quali è stata respinta due settimane fa la richiesta dell’ex ministro agrigentino della Dc, assolto con sentenza definitiva da ogni accusa il 22 ottobre 2008. I giudici d’appello palermitani aggiungono che «l’unico aspetto valutabile in questa sede è costituito dai rapporti con il mafioso Antonio Vella per motivi elettorali e dall’avere in particolare accettato che costui diventasse un suo procacciatore di voti». Su questo punto, nel corso della lunghissima vicenda giudiziaria di Mannino (durata quasi 20 anni) i giudici di vario grado si sono pronunciati in modi molto diversi. I primi giudici ritennero che nei confronti di Vella non fosse dimostrata alcuna «controprestazione» di Mannino: «Non c’è la prova» scrissero «che l’accordo elettorale abbia avuto a oggetto la promessa di svolgere un’attività, anche lecita, anche sporadica, per il raggiungimento degli scopi di Cosa nostra». Nel primo processo d’appello, al contrario, i giudici ritennero che fosse provata pure la controprestazione. La Cassazione alla fine annullò la sentenza per difetto di motivazione, ma ritenne che esistessero gli elementi per un nuovo appello nel quale poi, quasi quattro anni fa, è arrivata l’assoluzione definitiva.
Il paradosso è evidente. Perché di sicuro Mannino fu arrestato il 13 febbraio 1995, e di sicuro restò per 23 lunghi mesi in carcere, tra l’Ucciardone di Palermo e Rebibbia a Roma. Altrettanto sicuro è che in cella l’uomo politico perse circa 40 chili di peso e che gli venne diagnosticato un cancro. Di quel periodo sopravvivono alcune terribili foto dell’imputato, trascinato in udienza accanto al suo avvocato di allora, Carlo Taormina: il collo di Mannino è talmente sottile che naviga letteralmente nel colletto della camicia.
Pare una cannuccia infilata nel collo di una bottiglia. Ma se tutto questo è certo, altrettanto sicuro è che Mannino alla fine del processo è stato assolto definitivamente e con formula piena da tutte le accuse, compresa quella di avere avuto un sodalizio «con il mafioso Vella».
E allora? Allora, parafrasando Luigi Pirandello (non per nulla nativo di Agrigento, come Mannino), cosi è se vi pare, ma anche se non vi pare. L’accusa nei confronti di Mannino, peraltro, non pare basarsi su grandi prove se è vero quel che aggiungono nella sentenza gli stessi giudici che gli negano il risarcimento: «Mannino aveva accettato che costui (Vella) diventasse suo procacciatore di voti, con l’effetto d’ingenerare nella mafia agrigentina la convinzione che egli fosse soggetto disponibile per gli interessi dell’organizzazione, tanto che numerosi collaboratori di giustizia hanno riferito di avere appreso che costui (Mannino) fosse politico disponibile per gli interessi dell’organizzazione mafiosa, pur non riferendo alcunché di specifico sull’argomento». Come a dire: in Cosa nostra sull’ex ministro democristiano giravano voci senza costrutto. Che non valgono né sono valse per una sua condanna.
Ma valgono per negargli un risarcimento dovuto.
CARA INGIUSTIZIA
Due processi, due assoluzioni. Due storie parallele, che accendono nuove luci sinistre sullo stato della giustizia in questo paese. Da una parte 39 “disobbedienti”, tra i quali il leader dei centri sociali veneti Luca Casarini, che erano imputati a Roma per una serie di espropri proletari compiuti nel novembre 2004. Dall’altra un ventenne di Taranto, Donato D. che nell’agosto 2004 aveva preso un ovetto Kinder in un chiosco ed era stato rinviato a giudizio. In entrambi i casi, l’accusa era furto aggravato.
Nel primo caso, le merci rubate dai disobbedienti assommavano a un totale di 54 mila euro di allora, nel secondo a meno di un euro. Nel primo caso, gli imputati erano non solo rei confessi (”È stata un’operazione mediatica” avevano dichiarato), ma erano stati immortalati da telecamere e riconosciuti dai commessi dell’ipermercato e dei negozi dove si erano svolti i furti.
Nel secondo caso, il reato era dubbio perché il ragazzo sosteneva che stava per pagare l’ovetto Kinder, mentre il proprietario al contrario lo accusava di averlo messo in tasca.
Sono stati tutti assolti.
Si sa il perché nel caso del ragazzo di Taranto: i carabinieri, accorsi al chiosco alle richieste del negoziante, avevano notato immediatamente che i jeans indossati dall’accusato erano così attillati da rendergli fisicamente impossibile il tentativo di nascondere alcunché, e che l’ovetto era perfettamente integro.
Nel secondo caso, invece, non si capisce proprio come il tribunale possa avere assolto gli imputati. Leggeremo le motivazioni della sentenza. Intanto va sottolineato che nel primo processo sono trascorsi 11 anni e 5 mesi dal fatto. Nel secondo, sono passati 2 anni e 8 mesi. E chissà quale è stata la spesa per lo Stato, per un ovetto che costava un euro!
Ha dovuto rimandare l'arruolamento in Marina perché ha subito un processo, durato tre anni, per il furto di un ovetto Kinder: reato per il quale è stato assolto dal tribunale di Taranto con la formula "perché il fatto non sussiste". Protagonista della storia, che fa riflettere sui costi e i tempi della giustizia, è un giovane di Taranto che, all'epoca dei fatti (il 4 agosto del 2009), aveva 18 anni. Il fatto avvenne a Montedarena, sulla litoranea ionico-salentina. Fu il gestore di un chiosco a chiedere l'intervento dei carabinieri e a denunciare il ragazzo sostenendo di averlo scoperto a rubare un uovo kinder, venduto al prezzo di un euro e dieci centesimi. “In caserma il padre del ragazzo propone al negoziante un risarcimento di ben 200 euro. Il negoziante accetta, ma il giorno dopo, al momento di rilasciare una liberatoria, rifiuta e qualche giorno dopo fa pervenire al ragazzo l’incredibile richiesta di 1600 euro di risarcimento”. La famiglia di Donato si oppone categoricamente e si va in tribunale. Fino all’assoluzione odierna, dove, secondo l’avvocato difensore “è stata determinante un’informativa dei carabinieri, in cui si legge che il ragazzo indossava dei jeans stretti, a vita bassa, quindi per lui sarebbe stato difficile, se non impossibile, nascondere in tasca l’ovetto”. Vicenda chiusa e tante scuse?
“Incontrerò i genitori del ragazzo, ma credo siano intenzionati a chiudere questa storia rapidamente. E’ stato un grave danno di immagine e ha fatto perdere importanti occasioni a Donato”. E, amaramente aggiunge: “A conti fatti, tra notifiche all’imputato, alla parte offesa, ognuna di 150 euro, le spese di cancelleria e i costi degli avvocati abbiamo fatto spendere allo Stato qualche migliaia di euro. Senza contare il tempo perso dai carabinieri, che avrebbero potuti essere impegnati in altre faccende, e del giudice”.
Tutto questo per un ovetto di cioccolato.
Secondo Luciana Cimino su “L’Unità” non tutti quelli che sono stati detenuti ingiustamente hanno diritto a un risarcimento dallo Stato che riconosca loro gli anni persi dietro le sbarre in attesa di giustizia. Non ne hanno diritto tutti quelli, e sono la maggior parte, a cui la sventura è capitata dal 45 al 1989, anno in cui è entrata in vigore la legge per la riparazione dell’ingiusta detenzione. Ma la legge, assurdamente, non è retroattiva. Da anni proposte di legge che vanno nella direzione di introdurre la retroattività (da ultimo quella di Rita Bernardini, dei radicali e di Pier Luigi Mantini, dell’Udc) giacciono in parlamento, senza essere mai calendarizzate. Eppure è una questione che riguarda milioni di persone. Sono infatti 4 milioni e mezzo, secondo i dati Eurispes forniti dall’Osservatorio Permanente sulle Carceri, gli errori giudiziari occorsi in Italia dal 45 al ’89. Almeno qualche centinaia di migliaia (cifra approssimata per difetto) sarebbero dunque le persone in attesa che lo Stato riconosca loro la pena inflitta erroneamente. Per questo diversi parlamentari del Pd (tra cui Paola Concia) Nicki Vendola, Rifondazione e dei Radicali assieme a giornalisti, professori universitari e al mondo dell’associazionismo delle carceri (come Patrizio Gonnella di “Antigone” e Luigi Manconi di “A Buon Diritto”) hanno firmato un appello per «introdurre il reato di retroattività nella legge sulla riparazione per l’ingiusta detenzione». «Molte vittime dell’errore giudiziario, contemplato dall’art.314 del codice di procedura penale, sono rimaste quindi prive della giusta riparazione – si legge nel testo dell’appello - e ciò è accaduto in aperta violazione degli articoli 2 e 24 della Costituzione, nonché delle norme della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Esistono tanti cittadini che hanno subito l’umiliazione del carcere, talvolta per anni e l’annichilimento del diritto inviolabile della libertà personale, consacrato dall’articolo 13 della Costituzione, ma non hanno ottenuto nessuna giusta riparazione e nemmeno quella somma di denaro che certo si direbbe meglio “conforto” che non “riparazione”. (…) E’ questa una situazione che offende la dignità del Paese e che contrasta con la concezione di salvaguardia dei diritti inviolabili dell’uomo che la Repubblica ha posto a fondamento del suo ordinamento costituzionale». «C’è da dire - spiega Marcello Pesarini, membro dell’Osservatorio Permanente sulle carceri e assieme a Giulio Petrilli promotore dell’appello - che se negli anni 70 e 80 la questione riguardava soprattutto detenuti “politici”, incarcerati in attesa di giudizio a causa del clima speciale dovuto agli anni di piombo, oggi la querelle riguarda soprattutto i migranti, che messi tra le sbarre per non aver ottemperato alla Bossi – Fini, si scopre solo dopo duri mesi di detenzione senza quasi diritti che avrebbero avuto diritto al riconoscimento dello status di rifugiato». Petrilli, responsabile diritti e garanzie del Pd della Provincia dell’Aquila, ha vissuto sulla pelle l’esperienza per la quale ora si sta battendo: «Mi sono fatto 6 anni di carcere per banda armata a 20 anni e sono stato assolto perché un pentito mi ha scagionato. Ho perso tutta la mia giovinezza, è stata un’esperienza terribile che mi ha segnato per sempre ma non ho diritto al risarcimento perché il mio processo è avvenuto tre mesi prima dell’entrata in vigore della legge. E’ una follia». «Sono esperienze dolorosissime vissute da “pesci piccoli” che non sanno come difendersi e che dopo il carcere si trovano la vita devastata», aggiunge Pesarini. L’obiettivo della petizione è costringere la stampa a occuparsi della cosa, arrivare a forme di pressione istituzionale di modo che il parlamento si attivi per discutere le due proposte di legge. Un aiuto insperato è arrivato a luglio dal Presidente della Camera Gianfranco Fini che ha sollecitato le Camere e i membri della commissione giustizia a interessarsi della questione. «Noi insistiamo perché è assurdo che per leggi sacrosante la retroattività non si applichi e per quelle ad personam si. Non stride tutto questo con i diritti dei cittadini?», si chiede Pesarini. E conclude Petrilli «fanno un gran parlare di garantismo ma la legge Fini-Giovanardi sulle droghe leggere e la Bossi- Fini sono l’antitesi del garantismo; noi chiediamo un garantismo che sia per tutti i cittadini e non solo per il ceto politico: è una battaglia di civiltà con la quale vogliamo denunciare le gli errori giudiziari che avvengono con le logiche emergenziali, ieri con il terrorismo, oggi con l’immigrazione; bisogna mantenere lo stato di diritto anche nell’emergenza».
Quando sbagliano le toghe: in un libro due avvocati ricostruiscono i casi più clamorosi del dopoguerra.
Gli innocenti in galera: non solo Tortora dice Concetto Vecchio su “La Repubblica”.
Domenico Morrone fu riconosciuto innocente dopo 15 anni, due mesi e ventitré giorni passati ad ammuffire in carcere. Il più grave errore giudiziario nella storia della Repubblica. Aveva 27 anni il giorno dell'arresto, 30 gennaio 1991, accusato del duplice omicidio di due minorenni a Taranto, la sua città. Pescatore incensurato, famiglia onesta, una fidanzata. Era un uomo di 42 anni piegato dalla malasorte quando lo fecero uscire: i capelli ingrigiti dalla sofferenza, preda di gravi depressioni, un fisico appesantito di venti chili. Nella promiscuità aveva contratto alcune malattie, tra cui l'epatite b. Inutilmente aveva gridato al vento la sua innocenza. Nessuno gli aveva creduto. In Italia dal dopoguerra - ha calcolato l'Eurispes - 4 milioni di persone sono state vittime di errori giudiziari o di ingiusta detenzione. Fino al 1989. Ad oggi bisogna aggiungerne un altro milione. L'errore giudiziario si verifica quando, dopo i tre gradi di giudizio un condannato viene riconosciuto innocente solo in seguito a un nuovo processo, detto di revisione.
Due avvocati, Claudio Defilippi e Debora Bosi, raccontano l'inferno delle ingiustizie in Toghe che sbagliano, Aliberti editore. Il caso più reclamizzato è quello di Enzo Tortora. Ma è solo il più noto. Un altro caso limite fu quello di Massimo Carlotto: sei anni di carcere, altrettanti di latitanza. Fu arrestato il 20 gennaio 1976. La grazia del presidente Scalfaro arrivò il 7 aprile 1993. Carlotto, forse non a caso, scrive fortunati noir. Daniele Barillà, condannato per traffico di droga perché con la sua auto si trovò sulla tangenziale sbagliata durante un inseguimento a un carico di 50 chili di cocaina: sette anni, cinque mesi e dieci giorni di galera. Arresto il 13 febbraio 1992. Il verdetto favorevole alla revisione del processo: il 23 luglio 1999. La sua storia è diventata un film. Ora vive all'estero. Lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di tre milioni di euro. Massimo Pisano nel '93 fu accusato per avere ucciso la moglie, Cinzia Bruno, a Riano, vicino Roma. Cadavere trovato sul greto del Tevere. A condannarlo fu la confessione dell'amante, Silvana Agresta. Movente: voleva liberarsi della moglie per potersi risposare. Il 18 aprile 1996 la Cassazione chiude il caso: ergastolo. Otto anni in carcere. Poi la revisione del processo. Cambia tutto. La mattina del delitto si trovava al catasto. Ci sono ventidue riscontri documentali e testimoniali. Ad uccidere la moglie fu l'amante. Motivo: il rapporto tra i due amanti era in crisi e la donna temeva che Pisano volesse rompere la relazione. Salvatore Gallo, accusato di aver ucciso il fratello Paolo nel 1954 ad Avola, fu scarcerato dopo sette anni perché Paolo invece che al camposanto viveva sotto mentite spoglie in un casale. Una messinscena tremenda, per far condannare il fratello all'ergastolo. Fu scarcerato, ma non ebbe una lira. All'epoca l'ingiusta detenzione non era contemplata dalla legge. Il caso Morrone è il più sconcertante di tutti. L'anziana madre è morta un anno dopo la sua liberazione, il 21 aprile 2006. Fa lo spazzino e ha chiesto allo Stato un risarcimento di 12 milioni di euro. La notte si sveglia di soprassalto, sente il rumore delle pesanti chiavi delle guardie carcerarie. Pensa di essere ancora in prigione. La sua storia mette inquietudine. Per due volte la Cassazione annullò le sentenze d'appello, ordinando nuovi processi e per altrettante volte la Corte d'assise di Bari confermò la condanna a 21 anni, una pena relativamente esigua per un delitto così efferato, segno, fanno notare gli autori, uno dei quali è il difensore del pescatore, che i giudici erano tormentati dai dubbi. La mattina del delitto aveva incontrato un amico appuntato, avevano conversato, poi aveva aggiustato l'acquario dei vicini. I vicini avevano confermato. Non bastava come alibi. I giudici trovarono il movente nel fatto che Morrone aveva denunciato i due ragazzini per un oscuro traffico di motorini, e perciò era stato vittima di un agguato. L'omicidio sarebbe stato una vendetta. Finì in cella accusato da due minorenni semianalfabeti che sostenevano di averlo riconosciuto sul teatro del delitto. Gli fecero l'esame sulla polvere da sparo: negativo. La giustizia fu celere: due anni dopo era già condannato in secondo grado. Fece lo sciopero della fame due volte. Scrisse ad Amnesty international. Interpellò il capo dello Stato. Presentò sei istanze di revisione del processo. Sette gradi di giudizio e quindici anni dopo (quindici!) due pentiti rivelarono che l'omicida era un tale Antonio Boccuni, che si era voluto vendicare dello scippo che i due minorenni avevano compiuto a danni della madre.
Sbagliare costa (allo Stato). Dal 2004 al 2007 213 milioni di risarcimenti.
I numeri della mala giustizia nel nostro Paese. Nell'ultimo decennio circa 8000 richieste di indennizzo all'anno per ingiusta detenzione. E per ogni giorno di carcere si spende 235 euro a persona. Nell'ultimo decennio sono state circa ottomila le richieste all'anno di risarcimento per ingiusta detenzione. Chi paga? Lo Stato, che nel triennio 2004-2007 ha dovuto destinare 213 milioni di euro alle vittime di errori giudiziari, reclusi o condannati a causa di false rivelazioni, indagini sbagliate o scambi di persona. Questo secondo l’inchiesta di Francesco Viviano su “La Repubblica”.
Da Enzo Tortora a Gigi Sabani. Quelle vittime della malagiustizia. False accuse, confessioni estorte e pentiti inattendibili. Così vip e cittadini comuni hanno pagato per colpe mai commesse. E solo per alcuni di loro, alla fine, sono arrivati i risarcimenti. Ecco alcune vicende tra milioni di casi.
· I sette imputati della strage di Via D'Amelio del luglio '92 che ha ucciso Paolo Borsellino e cinque membri della sua scorta. Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Giuseppe Urso detto "Franco" e Salvatore Profeta, indicati come responsabili dell'attentato e condannati all'ergastolo e Vincenzo Scarantino,18 anni di condanna perché ritenuto pentito, sono stati scarcerati nel novembre scorso dopo avere trascorso in galera 15 anni in prigione, in seguito alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza cha hanno riaperto il caso. Per loro il risarcimento è ancora da quantificare.
· Daniele Barillà, vittima di uno dei più famosi casi di mala giustizia. Viene arrestato l'11 febbraio 1992 nel comune di Nova Milanese per un grossolano scambio di persona: guidava una Fiat Tipo color amaranto con tre numeri di targa uguali a quelli di un narcotrafficante. Soprannominato l'Escobar della Brianza e condannato a 18 anni, ha passato 7 anni, 5 mesi e 25 giorni in carcere, nonostante fosse innocente. Ha ottenuto 4,6 milioni di euro di risarcimento, due già incassati in attesa del "saldo". Adesso vive in Francia.
· Patrick Lumumba, inizialmente accusato dell'omicidio di Meredith Kercher, trascorre quattordici giorni in carcere e poi viene rilasciato e prosciolto da ogni accusa. Per l'ingiusta detenzione ha ottenuto un risarcimento di 8000 euro. Dovrà essere risarcito anche da Amanda Knox, condannata per calunnia nei confronti del barista congolese. Ma la stessa Amanda e Raffaele sollecito sono stati assolti per il delitto di Meredith Kercher dopo quasi due anni di carcere.
· Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida e madre di 4 bambini. Viene arrestata nel 2005 con l'accusa di terrorismo. Su internet aveva pubblicato un volantino simile a quello delle Brigate Rosse di una fantomatica associazione con tanto di indirizzo e con il numero di telefono di casa e del cellulare di Maria Columbu. Un altro volantino spiegava come fare una bomba atomica: "procuratevi 110 chilogrammi di plutonio dal vostro "fornitore abituale" e contattare l'organizzazione terroristica del luogo". "E adesso che avete un ordigno nucleare, potete usarlo per spettacoli pirotecnici o per difesa nazionale". E poi ancora un altro volantino: " a morte lo Stato a morte Berlusconi". Condannata a 5 anni di reclusione. Nel 2010 viene assolta con formula piena. Per il giudice quelle "istruzioni" terroristiche erano "risibili" e "ridicole".
· Il presentatore televisivo Enzo Tortora, protagonista della più drammatica vicenda di mala giustizia del nostro Paese. Il 17 giugno 1983 viene arrestato a Roma con l'accusa di traffico di stupefacenti e associazione per delinquere di stampo camorristico, sulla base delle dichiarazioni di alcuni pregiudicati. Due anni più tardi viene condannato a dieci anni di carcere ma le accuse si rivelano completamente infondate nei seguenti gradi di giudizio, nei quali viene assolto. Torna in televisione nel 1987, duramente provato dalla sua vicenda giudiziaria. Morirà l'anno seguente a causa di un tumore.
· Serena Grandi, arrestata nel 2003 nell'ambito di un'operazione legata al traffico di stupefacenti, trascorre cinque mesi agli arresti domiciliari. La sua posizione verrà poi archiviata nel 2009. L'attrice verrà risarcita nel 2011 con 60mila euro.
· Il presentatore tv Gigi Sabani, arrestato nel giugno 1996 nell'ambito di un'inchiesta su presunti provini "a luci rosse". Trascorre quindici giorni in carcere poi nel luglio dello stesso anno viene rilasciato. L'anno successivo la sua posizione verrà archiviata. Nel 1999 viene risarcito con 24 milioni di lire per ingiusta detenzione.
· Karol Racz, uno dei due romeni accusati dello stupro di una ragazzina di 14 anni avvenuto nel parco della Caffarella a Roma il 14 febbraio 2009. Racz era stato accusato da un altro uomo, Alexandru Izstoika Loyos, che aveva ammesso di aver compiuto la violenza con la sua complicità. Dopo 35 giorni di carcere, gli inquirenti scoprono che la confessione dell'uomo è falsa e grazie al test del dna individuano i veri responsabili, altri due cittadini romeni.
· Raniero Busco, ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, trovata morta il 7 agosto 1990 in uno stabile di via Poma a Roma. Condannato il 26 gennaio 2011 in primo grado a 24 anni, ora, in appello, una superperizia ha smantellato le prove più pesanti a suo carico.
· Domenico Morrone, protagonista di uno degli errori giudiziari più clamorosi che abbiano coinvolto cittadini comuni. Condannato a 21 anni di carcere per l'omicidio di due ragazzi, dopo averne scontati 16 viene assolto quando viene accertato che ad uccidere era stata un'altra persona. Per l'ingiusta detenzione Morrone ha ottenuto la cifra record di 4,5 milioni di euro.
· Sandro Vecchiarelli, accusato dell'omicidio della giovane Chiara Bariffi, avvenuto nel il 1 dicembre 2002 sul lago di Como, trascorre 588 giorni in carcere poi viene assolto dalla Corte d'Appello. Viene risarcito con 170mila euro.
· Giuseppe Gulotta, accusato e condannato anche in Cassazione per l'omicidio di due Carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani) nel 1976. Trent'anni dopo un ex brigadiere, testimone delle torture che avevano indotto alla sua confessione, si è deciso a raccontare com'erano stati condotti gli interrogatori, rivelando l'innocenza di Gulotta.
Quegli errori giudiziari che costano come una manovra. Indagini approssimative. Magistrati (e legali) che sbagliano. Innocenti in cella. Enormi risarcimenti da pagare. Uno spreco umano ed economico insostenibile, che arriva a costare allo Stato diverse decine di milioni di euro ogni anno. L'ultimo, in arrivo, l'indennizzo per gli accusati della strage di via d'Amelio, ingiustamente condannati all'ergastolo e ora liberi dopo 18 anni di carcere in regime di 41bis. Ma qualcosa adesso dovrebbe cambiare. Lo ha detto anche il ministro Severino. C'è già un altro cittadino italiano pronto a entrare in una classifica "poco onorevole" per il nostro Stato: si chiama Raniero Busco e ha 46 anni. Nei prossimi mesi, se i giudici della Corte d'appello crederanno alla "verità" riscritta dalle perizie, sarà assolto dalla condanna a 24 anni per l'omicidio della sua ex fidanzata, Simonetta Cesaroni, la ragazza del "delitto di via Poma" avvenuto nella capitale il 7 agosto 1990. Se così dovesse accadere, il caso di Busco rientrerebbe nel nutrito elenco degli errori giudiziari. Una realtà che pesa, anche sotto il profilo economico, sull'amministrazione della giustizia nel nostro Paese. Parola di Guardasigilli, messa nero su bianco dal neoministro Paola Severino nella sua relazione sullo stato della Giustizia in Italia, presentata alla Camera a gennaio: "Solo nel 2011, lo Stato ha pagato 46 milioni di euro per ingiuste detenzioni o errori giudiziari".
I condannati della strage di via D'Amelio. L'ultima vicenda di questo tipo, forse la più eclatante nella storia della Repubblica, è quella dei sette uomini che erano stati condannati come autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta, il 19 luglio 1992. Nell'autunno scorso, sono stati liberati: dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi tra l'altro in regime di 41 bis. La strage non era cosa loro. Il risarcimento? È ancora da quantificare. Il 13 febbraio scorso, invece, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. La cosa sconcertante è che, nel 1977, fu ucciso a Ficuzza (Palermo) anche l'ufficiale che aveva condotto quell'inchiesta con modi tutt'altro che ortodossi, il colonnello Giuseppe Russo: l'indagine sul suo omicidio ha prodotto un altro errore. Per la sua morte, infatti, sono stati condannati tre pastori e, solo vent'anni dopo, si è scoperto che esecutori e mandanti erano stati invece i Corleonesi. Ma il caso forse più paradossale di abbaglio giudiziario risale al 2005. Ne fu vittima Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini: condannata a quattro anni con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Ma quanti sono, in Italia, gli errori giudiziari? Quante persone hanno scontato, da innocenti, anni e anni di carcere? Quante vite e quante famiglie sono state distrutte? "Una statistica ufficiale, ministeriale, ci dice che tra il 2003 e il 2007 ci sono stati circa ventimila errori giudiziari, un numero enorme del quale non si parla mai, se non nei casi che fanno notizia. Ci sono poi vicende famose, e sconcertanti, rilanciate ogni volta che si scoprono nuovi episodi: dal caso Tortora al caso Barillà". Proprio questo aveva dichiarato, nel dicembre del 2010, l'allora l'avvocato e docente universitario Paola Severino, commentando la pista falsa che, durante le indagini sul rapimento della piccola Yara Gambirasio, aveva portato in carcere il cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza.
Ottomila richieste di risarcimento negli ultimi 10 anni. Le ingiuste detenzioni e l'enorme costo economico che comportano sono ormai al centro di una battaglia politico-legale avviata dalle associazioni contro gli errori giudiziari. Analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, Eurispes e Unione delle Camere penali italiane hanno rilevato che sarebbero quattro milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. "Nell'ultimo decennio ci sono state 8 mila richieste l'anno di risarcimento per ingiusta detenzione. E ben 2.500 sono state accolte. Ma la legge attuale non consente un adeguato risarcimento perché fissa il tetto massimo in 516 mila euro" afferma l'avvocato Gabriele Magno, bolognese, fondatore dell'Associazione nazionale vittime errori giudiziari. "Noi chiediamo l'abolizione di questo tetto, così come chiediamo che sia tolto il limite di tempo entro il quale si può avviare la causa di riparazione, che oggi è fissato in due anni dalla revisione del processo e dall'assoluzione".
213 milioni di risarcimento nel triennio 2004-2007. Senza considerare che ogni detenuto costa allo Stato 235 euro al giorno (la metà se è ai domiciliari): quanto pesano in termini di soldi gli errori giudiziari? I dati per i periodo 2004- 2007, forniti dal ministero dell'Economia, in quanto ufficiale pagatore parlano di 213 milioni di euro. I risarciti sono 3.600, per il 90 per cento italiani, per il resto stranieri. Il risarcimento più alto, di 4,6 milioni, lo ha ottenuto Daniele Barillà, scambiato nel 1992 per un trafficante internazionale di droga per il semplice fatto che aveva un'auto e una targa molto simili a quelle di un narcotrafficante pedinato dai carabinieri. Per Barillà, come per molti altri, oltre all'errore giudiziario, c'era il problema dell'ingiusta detenzione: cinque anni e mezzo, nel suo caso. "La vera novità è che per la prima volta, per lui, è stato accolto il concetto di risarcire il danno esistenziale" dice l'avvocato Magno. "Un danno che va ad aggiungersi a quello morale, biologico ed economico". Ma è sempre dei magistrati la colpa? No: l'avvocato Magno se la prende anche con i suoi colleghi: "In base alla mia esperienza, la responsabilità è dei giudici nella metà dei casi, per il resto è di noi avvocati: per i ricorsi presentati in ritardo, le scelte difensive sbagliate o gli errori procedurali. I magistrati possono sbagliare, come tutti: non ci interessa punirli, ma vogliamo venga risarcita la vittima e riabilitato il suo buon nome. E di fronte al rischio indennizzo, il giudice si autolimiterebbe e farebbe molta attenzione nell'adottare certi provvedimenti. Senza nulla togliere alla sua autonomia". L'attuale normativa sull'ingiusta detenzione e sugli errori giudiziari - secondo Magno - non sarebbe sufficiente per compensare chi ha subito danni quasi irreparabili. Così, la sua associazione ha già indicato alcune proposte di riforma: "La prima questione riguarda l'ingiusta detenzione e proprio il fatto che la richiesta di indennizzo è sottoposta a un limite di prescrizione di due anni dalla sentenza definitiva. Questo limite ci sembra assurdo, perché si crea una prescrizione brevissima che incide sull'efficacia reale della tutela di chi ha subito una simile ingiustizia. Vogliamo che quel limite di due anni sia sostituito con la clausola in ogni tempo, per dare modo a chiunque di rivalersi. Altra proposta: creare una sorta di automatismo che consideri le vittime di ingiusta detenzione privilegiate nel loro reingresso nel mondo del lavoro. Penso ai concorsi pubblici, dove la condizione di chi ha subito malagiustizia dovrebbe essere equiparata a quella dei portatori di handicap".
Le statistiche confermano che, negli ultimi 15 anni, sono state completamente scagionate oltre 300 mila persone. Soltanto tra il 1990 e il 1994, sono state quasi 24.500 le sentenze definitive pronunciate con la formula assolutoria più ampia: perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non ha commesso il fatto. Ad esse vanno aggiunte altre 73.326 persone assolte con una formula altrettanto liberatoria, ma più tecnica: il fatto non costituisce reato. In base ai dati disponibili, non proprio recentissimi, però, errori giudiziari o ingiuste detenzioni si registrano soprattutto al Sud. La Corte d'appello di Napoli guida questa classifica avendo riconosciuto il maggior numero di casi: 449 risarcimenti concessi nel 1999 (e 152 nel 2000), pari al 9,53 per cento del totale nazionale. In seconda posizione, la Corte di Reggio Calabria che, sempre nel 1999, ha dato al via libera a 420 autorizzazioni. Seguono Catanzaro e Palermo, con 412 e 406 sentenze nello stesso anno. Fino al 1999, oltre la metà dei risarcimenti sono stati riconosciuti da giudici del Sud, un quarto al Nord e un quinto al Centro. Ma altri indennizzi milionari, ben più consistenti di quello di Barillà, sono in arrivo. Se infatti, per i suoi cinque anni di prigione, lo Stato ha risarcito 4,6 milioni di euro, quanto dovrà rifondere agli ex ergastolani della strage Borsellino?
Gaetano Murana ha 44 anni e ha trascorso un terzo della propria vita dietro le sbarre per le accuse di Vincenzo Scarantino, che lo indicava tra gli esecutori della strage di via D'Amelio. La nuova verità sul 19 luglio 1992 lo ha portato fuori dalla cella: "Un'esperienza che non dimenticherò mai".
"Diciotto anni da incubo in carcere. Ero giovane ora sono un vecchio". Il racconto di Gaetano Murana, 54 anni, un terzo della propria vita trascorsa dietro le sbarre con l'accusa di essere tra i responsabili della strage di via D'Amelio. Una detenzione dura, in regime di 41bis: "Non dimenticherò mai le violenze e le umiliazioni subite. Ho perso i migliori anni del mio matrimonio". E chiede: "Ora almeno ridatemi un lavoro". L'ultimo "errore giudiziario" della giustizia italiana, riconosciuto nell'ottobre scorso dalla Procura Generale di Caltanissetta, riguarda gli ex imputati della Strage di via D'Amelio del luglio del 1992. Tra di essi, c'è Gaetano Murana, 54 anni, che ne ha trascorsi 18 in cella, in regime di carcere duro (il cosiddetto "41 bis" previsto per i mafiosi). Quando, nell'ottobre scorso, ha saputo nel carcere di Voghera dov'era rinchiuso che era diventato un "liberante" (cioè scarcerato in attesa della revisione del processo che, fra alcuni anni, lo dichiarerà definitivamente innocente) ha pianto per ore ed ore. Con il "Venerdì di Repubblica" ha accettato di rievocare la sua odissea e l'inizio di quei 18 anni trascorsi in carcere, senza colpa. "Non smetto di pensarci e, in certi momenti, riesco persino a sorridere, ma con amarezza. Per capire, bisogna partire dal giorno precedente il mio arresto. Era il 17 luglio 1994 e stavo guardando in tv la finale di Italia-Brasile dei Mondiali di calcio negli Stati Uniti, abbracciato a mia moglie. Ci eravamo sposati da poco. Mio figlio, Giuseppe, era nato un anno e un mese prima. Nell'intervallo tra il primo e il secondo tempo, giunse la notizia che ha cambiato la mia vita. Il giornalista del telegiornale disse che un nuovo collaboratore di giustizia, Vincenzo Scarantino, stava raccontando fatti e misfatti sulla strage di via d'Amelio. Non dimenticherò mai la sua foto in televisione. È rimasta impressa nella mia memoria per tutti questi anni maledetti. La mattina seguente sono stato catturato mentre andavo al lavoro. Con la mia auto avevo fatto un'infrazione. Un'auto civetta mi ha subito bloccato. Credevo di ricevere una multa. I poliziotti mi dissero che avrei perso tre minuti. Ebbene, questi tre minuti sono durati 206 interminabili mesi e una manciata di ore. Quando alla squadra mobile mi hanno consegnato l'ordine di cattura per strage, ero stupefatto. Ho chiesto perché. I poliziotti mi hanno risposto: "Questo è un regalo che ci ha fatto Scarantino (il falso pentito, anche lui scarcerato, che lo aveva accusato ingiustamente)"". E gran parte di questa ingiusta detenzione per un errore giudiziario incredibile, Murana l'ha trascorsa in uno dei carceri più duri d'Italia. "Pianosa, il luogo che ha lasciato nella mia anima le ferite più profonde. Dopo l'arresto mi hanno portato nella sezione Agrippa, quella riaperta proprio per il 41 bis. Botte e sevizie, come hanno denunciato alcuni detenuti, erano all'ordine del giorno. Sono stato costretto a fare flessioni nudo per 3 anni, a subire violenza con l'uso del metal detector sui genitali. Ma non dimenticherò nemmeno i profilattici gettati nella minestra, il peperoncino nelle bevande, le sbarre battute a tutte le ore per tenerci svegli. Il 17 luglio del 1997 sono stato l'ultimo a lasciare Pianosa. Ma anche Caltanissetta è stato un altro posto da dimenticare. Mi rendo conto solo adesso, che negli anni, a tutte quelle botte mi ero quasi abituato. La sofferenza maggiore è stata la crescita di mio figlio. L'ho rivisto e l'ho potuto abbracciare solo dopo i primi 5 anni di carcere. È stato un supplizio. Così, ho anche perso i migliori anni di matrimonio. Ero un ragazzo, adesso mi sento stanco e vecchio. Ho perso una sorella, morta di tumore e che non ho potuto rivedere. E non ho più un lavoro: adesso pretendo di nuovo il mio impiego in Comune". Murana, in realtà, quel lavoro non c'è l'ha ancora ricevuto e meno che mai il risarcimento per l'errore che gli ha rubato 18 anni di vita. Bisognerà infatti attendere che si concluda il processo di revisione: in primo grado, in appello e, infine, in Cassazione. Quanti anni dovranno ancora passare?
Da 20 anni latitante in Brasile in attesa che si facesse giustizia. È stato condannato per la strage di Alcamo. Ma adesso la Corte ha riaperto il processo. Al telefono racconta come è dovuto scappare nel 1992 e come vive da 21 anni lontano dall'Italia. Fino all'ultimo secondo, fino a poco prima che la Corte di Cassazione, nel 1992, pronunciasse la sentenza che lo condannava all'ergastolo, Gaetano Santangelo era rimasto in Italia aspettando fiducioso in una decisione positiva. Solo quando seppe che non c'era nulla da fare, lasciò il nostro Paese destinazione Rio De Janeiro ("Partii con un regolare passaporto direttamente per il Brasile. Nessuna avventura, nessun giro attraverso il Paraguay come scrissero i giornali dell'epoca"). In Brasile vive tutt'ora con la moglie (che lo raggiunse dopo un po') ed un figlio che adesso ha 21 anni. Fino all'ultimo fino a quella pronuncia definitiva della Cassazione che condannava all'ergastolo lui, Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrantelli per l'uccisione di due carabinieri nella caserma di Alcamo nel 1976, Santangelo, che all'epoca dell'omicidio aveva 17 anni e, oggi, ne ha 53, aveva sperato che la giustizia facesse giustizia. Adesso, dopo 36 anni dal suo primo arresto, la giustizia sta arrivando a mettere la parola fine a un calvario che, tecnicamente, si chiama "latitanza" ("ma il Brasile ha detto no all'estradizione e io sto qui del tutto in regola"). Perché adesso, dopo che Gulotta finalmente è stato riconosciuto innocente, per Santangelo e Ferrantelli è cominciato il processo di revisione a Catania, che non si svolge davanti ad una normale Corte d'appello, ma davanti al Tribunale dei Minori perché all'epoca entrambi erano ragazzini, ingiustamente arrestati, ingiustamente torturati ed ingiustamente condannati all'ergastolo. Abbiamo raggiunto Santangelo in Brasile dove lavora nell'edilizia ("ho la mia squadra di muratori") che ha accettato di parlare con "Repubblica it" precisando però di non volere entrare nel merito della vicenda giudiziaria perché il suo processo è appena iniziato. Ecco cosa ci ha raccontato, ecco come ha vissuto fino ad ora in Brasile, le sue speranze il desiderio di tornare in Italia, il desiderio di rivedere i suoi parenti i suoi vecchi amici. E ci ritornerà quando sarà dichiarato ufficialmente innocente, quando finalmente gli toglieranno di dosso l'accusa infamante di avere ucciso due carabinieri che furono uccisi da altri.
Ventuno anni all'ergastolo, era innocente. "Chi mi ridarà la mia vita perduta?". Giuseppe Gulotta aveva 18 anni quando venne prelevato e portato nella caserma dei carabinieri di Alcamo come sospettato dell'omicidio di due militari dell'Arma. Venne picchiato e seviziato per ore finché non confessò quello che non aveva fatto. Poi ritrattò invano. Il processo nel '90 con la condanna a vita. Nel 2007, con il pentimento di uno dei carabinieri che parteciparono all'interrogatorio, il nuovo processo e, oggi, la sentenza: "Non è colpevole. Lo Stato deve restituirgli libertà e dignità". Dopo 21 anni, 2 mesi, 15 giorni e sette ore di carcere, Giuseppe Gulotta, adesso cinquantenne, ha ottenuto giustizia e dignità. Alle ore 17,35 di oggi la Corte d'Appello di Reggio Calabria dove si è celebrato il processo di revisione, ha pronunciato la sentenza. Giuseppe Gulotta è innocente, e da oggi non è più un ergastolano, non è l'assassino che il 26 gennaio del 1976 avrebbe ucciso, assieme ad altri complici, due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, in un attentato alla caserma di Alcamo Marina, un paese al confine tra le province di Palermo e Trapani. "Gulotta non c'entra nulla; abbiamo il dovere di proscioglierlo da ogni accusa e restituirgli la dignità che la giustizia gli ha indebitamente tolto" ha detto oggi la pubblica accusa prima che la corte si riunisse in camera di consiglio per emettere una sentenza di assoluzione che Giuseppe Gulotta attendeva da troppo tempo. Da quando, 35 anni fa, appena diciottenne, fu arrestato, condotto in carcere e, più tardi, dopo la durissima trafila dei diversi gradi processuali, condannato all'ergastolo definitivamente. E con lui gli altri tre suoi presunti complici: due sono ancora latitanti in Brasile; il terzo, Giuseppe Vesco, si suicidò in carcere qualche anno dopo il suo arresto. Ad accusare Gulotta della strage fu appunto Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi - in circostanze non del tutto chiare - nelle carceri di ''San Giuliano'' a Trapani, nell'ottobre del 1976. A provocare la revisione del processo che si è finalmente concluso oggi con l'assoluzione di Gulotta, sono state le dichiarazioni, molto tardive, di un ex ufficiale dei carabinieri Renato Olino che nel 2007 raccontò che le confessioni di Gulotta e degli altri erano state ottenute a seguito di terribili torture da parte dei carabinieri. Olino, che si era dimesso dal'Arma proprio in seguito alla vicenda di Alcamo, non aveva retto al rimorso e aveva deciso di dire la verità. Gli altri carabinieri, oggi quasi tutti molto anziani, hanno fatto qualche ammissione o si sono rifiutati di rispondere. Ma la giustizia ha trovato elementi sufficienti per il processo di revisione e per questa assoluzione che, inevitabilmente, dovrebbe aprire la strada a un congruo risarcimento per gli imputati. Anche per gli altri due condannati, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, fuggiti all'estero prima che la condanna diventasse esecutiva, ci sarà adesso la revisione. La notte del 27 Gennaio di quell'anno Carmine Apuzzo (19 anni) e l'appuntato Salvatore Falcetta, due militari dell'Arma, furono trucidati da alcuni uomini che avevano fatto irruzione nella piccola caserma di Alcamo Marina. L'attacco suscitò ovviamente forte impressione in Sicilia e in tutta Italia. Si puntò sulla pista politica e finirono nel mirino delle indagini alcuni giovani di sinistra. Pochi giorni dopo venne fermato un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, trovato in possesso di una pistola in dotazione ai carabinieri. La sua casa venne perquisita e saltò fuori anche l'arma utilizzata per il delitto. Il giovane, però, si dichiarò estraneo ai fatti affermando soltanto che aveva avuto il compito di consegnare delle armi. In seguito alle pressioni dei carabinieri, Giuseppe Vesco cambiò rapidamente la sua versione: condusse gli inquirenti al luogo in cui erano conservati gli indumenti e gli effetti personali dei due agenti uccisi (in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico), dichiarò di aver fatto parte del commando che aveva fatto irruzione nella casermetta e fece il nome dei suoi tre complici: Gulotta, Ferrantelli e Santangelo. Dopo poco tempo Vesco ritrattò tutto e dichiarò che quanto da lui affermato era stato ottenuto in seguito di terribili torture. Nelle sue lettere dal carcere San Giuliano di Trapani descrive minuziosamente il comportamento dei carabinieri e come erano state estorte le confessioni dei fermati. Ma pochi giorni prima di essere nuovamente ascoltato dagli inquirenti, venne trovato impiccato nella sua cella, con una corda legata alle grate della finestra, cosa resa abbastanza difficile dal fatto che a Vesco era stata amputata una mano a causa di un incidente. E proprio a questa vicenda si legano le confessioni del pentito Vincenzo Calcara, che lascia intravedere una verità fino ad ora soltanto accennata, ma resa più concreta anche da alcune rivelazioni in cui si attesta una collaborazione tra mafia e Stato. Calcara avrebbe affermato che gli venne intimato di lasciare da solo in cella Giuseppe Vesco e che lo stesso venne ucciso da un mafioso aiutato da due guardie carcerarie. Anche quanto affermato dal pentito Peppe Ferro libera i quattro dalle gravi accuse: "Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati... Erano solamente delle vittime... pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto". Dopo la chiamata di correità di Vesco, Giuseppe Gulotta fu arrestato e massacrato di botte per una notte intera. La mattina, dopo i calci, i pugni, le pistole puntate alla tempia, i colpi ai genitali e le bevute di acqua salata, avrebbe confessato qualunque cosa e firmò un documento in cui affermava di aver partecipato all'attacco alla caserma. Il giorno dopo, davanti al procuratore, Gulotta ritrattò tutto e provò a spiegare quello che gli era successo. Non venne mai creduto, neanche al processo che, nel 1990 lo condannò in via definitiva all'ergastolo. Poi, nel 2007, la confessione di Olino e la revisione chiesta e ottenuta dal suo avvocato Salvatore Lauria. Oggi l'assoluzione. Ma Giuseppe Gulotta ha trascorso gran parte della sua vita in carcere. Durante un breve periodo di soggiorno si è sposato con la donna che lo ha sempre "protetto" e che gli ha dato un figlio. Adesso, completamente libero, andrà a vivere a Certaldo, in Toscana, dove, da quando è in semilibertà, fa il muratore. "Sono felice di essere stato riconosciuto finalmente innocente. Ma chi potrà mai farmi riavere la gioventù che ho passato in carcere, chi potrà mai darmi quegli anni che ho perduto senza potere crescere mio figlio?".
SI PARTE DALL’USURA E SI ARRIVA ALLA MAFIA, ATTRAVERSO I FALLIMENTI, LA GESTIONE DELLE ASTE, LE CARTOLARIZZAZIONI E LA GARANZIA SULLA SOLVIBILITÀ.
Chissà se c'è ancora qualcuno convinto che lo tsunami finanziario non lo riguardi. Roba per élite di ricconi. O per i cervelloni di Wall Street, ma per fortuna qui è tutta un'altra storia. Perché se ancora qualcuno lo pensa si sbaglia, e di grosso. Siamo noi che abbiamo subìto i danni del grande crac. E chissà per quanto andrà avanti. Banche, assicurazioni e finanza sono nell'occhio del ciclone. In Italia, le famiglie continuano a rimetterci un mucchio di quattrini. Ora si scava tra le macerie e si vuole correre ai ripari. Ma il rischio è che, scattata una trappola, se ne prepari una nuova. C'è tutto questo in queste pagine. Non solo la vecchietta che è andata in banca con tutti i risparmi e ne è uscita con le sue belle obbligazioni Parmalat o Lehman Brothers, carta straccia. Né la famigliola che ha chiesto il mutuo per comprare casa ed è rimasta strozzata dalle rate in continua crescita. Né il professionista che si domanda come sia possibile che i fondi vadano sempre più a fondo. O l'incredulità di chi scopre che le spese sul conto corrente superano gli interessi. Ci siamo tutti noi, proprio tutti, intrappolati in un valzer di scandali, risparmi andati in fumo e inganni. La "tempesta perfetta" di questi anni, sommata a risparmi che si assottigliano, economia in ginocchio, costo della vita in continua crescita e stipendi fermi, ha mostrato che il re è nudo e la pazienza dei sudditi al limite. Ma il fatto è che il sistema finanziario ha invaso la nostra vita. Con questo mondo si ha a che fare tutti i giorni: la casa, l'auto, i risparmi, la pensione, le polizze, i finanziamenti. Tutti i giorni si scoprono costi invisibili e inganni. Uno slalom che genera disillusione, rabbia, sfiducia. Ci sono storie vere in questo libro, e ognuna descrive un pezzo di vita, tra verità non dette e truffe vere e proprie. Esempi concreti, carnefici e vittime, persone e famiglie che illuminano la freddezza dei dati. Per smascherare le trappole e scoprirsi un po' meno vulnerabili. Siamo tutti consumatori e siamo, chi più chi meno, dei potenziali debitori. Con questo mondo si ha a che fare tutti i giorni: la casa, l'auto, i risparmi, la pensione, le polizze, i finanziamenti. I giornalisti Carmelo Abbate e Sandro Mangiaterra con il libro "La trappola - Come banche e finanza mettono le mani sui nostri soldi" ci svelano questa realtà tentando di far luce su finanziamenti e rateizzazioni. Ci sono storie vere in questo libro e ognuna descrive un pezzo di vita, tra verità non dette e truffe vere e proprie. Ma c'è soprattutto un atto d'accusa ben preciso contro le banche, le assicurazioni e il mondo della finanza in generale, colpevoli di ingannare sistematicamente i propri clienti pur di far profitto.
Massimo Vallorani di Sky.tg24 chiede a Carmelo Abbate, qual è la trappola di cui parla nel suo libro?
La trappola è quella che ogni giorno le banche mettono in pratica contro i risparmi dei propri clienti, cercando di ingannarli, magari vendendo loro dei titoli non sicuri. Un esempio per tutti: Lehman Brothers. Già il 15 settembre di quest'anno si era a conoscenza della fragilità di questi titoli, della possibilità concreta di un fallimento. Eppure, le nostre banche (come quelle di tutto il mondo, del resto) vendevano tranquillamente questi titoli, li certificano come a basso rischio. Da noi, addirittura rientravano nei cosiddetti "Patti Chiari". Alla luce di quest'ennesimo episodio, dopo i crack Cirio e Parlamat, dei bond argentini, si capisce che c'è qualcosa che realmente non va nelle banche. Un sistema che deve essere radicalmente cambiato a favore dei cittadini e dei consumatori.
Il suo libro è pieno di esempi di persone che si sono trovati in difficoltà con gli Istituti di credito. Ma anche con finanziamenti stipulati e non rispettati. Emerge quasi sempre una costante: la mancanza di trasparenza. Può darci dei consigli per districarci in quella che lei descrive come una vera e propria giungla?
I consigli sono essenzialmente tre. Il primo è valutare con ponderazione qualsiasi proposta fatta dalla nostra banca. Leggere attentamente qualsiasi tipo contratto ci venga sottoposto. Magari facendosi aiutare da persone più esperte da noi. Il secondo è quello che qualsiasi sottoscrizione di fondi, gestioni patrimoniali, sia sempre e solo a capitale garantito. Il terzo consiglio è che quando si accende un finanziamento rateizzato bisogna sempre controllare il T.A.E.G. (Tasso Annuo Effettivo Globale). Si tratta di un tasso puramente virtuale. Non viene infatti utilizzato per calcolare le rate. Piuttosto è un indicatore, una cifra in grado di dichiarare il costo globale del prestito.
Lei solleva anche la questione delle carte di credito revolving? Possiamo usarle tranquillamente o dobbiamo diffidarne?
Diffidarne assolutamente. Le carte di credito revolving sono normali carte di credito che consentono di rimborsare a rate il saldo di fine mese. Peccato che sono pagate a caro prezzo, soprattutto in fatto d'interessi.
In Italia gli acquisti a rate online non sono ancora diffusi come nel resto d'Europa. Si tratta comunque di un fenomeno in forte espansione anche nel nostro Paese. Ci si può fidare?
Anche nel caso di acquisti a rate fatta su Internet vale la medesima cosa che per i finanziamenti tradizionali. Conviene scegliere sempre una finanziaria in qualche modo legate alle banche più conosciute o quanto meno sempre certificate. Anche nel mondo della rete vale sempre l'imperativo di informarsi prima di ogni acquisto.
Tutta la stampa ne parla. Il 28 maggio 2011 i giudici della seconda sezione penale del tribunale di Milano hanno condannato l’ex governatore della Banca d’Italia, Antonio Fazio, a 4 anni di reclusione e un milione e mezzo di multa per aggiotaggio nel processo sulla tentata scalata ad Antonveneta. La pena è maggiore rispetto ai tre anni che erano stati chiesti dalla Procura. E’ la prima volta che un governatore della Banca d’Italia viene condannato in un processo penale. Condanna anche per l'ex presidente di Unipol Giovanni Consorte a tre anni di reclusione, la stessa pena a cui è stato condannato il suo vice, Ivano Sacchetti, e il senatore del Pdl, Luigi Grillo (2 anni e 8 mesi). Per Giampiero Fiorani, l'ex numero uno della Banca Popolare italiana, condanna a un anno e otto mesi di reclusione in continuazione con i 3 anni e 3 mesi di carcere che aveva patteggiato nel marzo del 2008. Antonio Fazio, al telefono con i suoi legali, ha lapidariamente commentato la sentenza di condanna: "Ho operato sempre per il bene". Lo conforta sapere che, nella storia centenaria della Banca d'Italia, vi sono stati altri governatori che si sono ritrovati nei guai: alla fine però, sempre, ne sono usciti a testa alta. Nei giorni di massima tensione, per esempio, ricordava spesso le vicissitudini di Vincenzo Azzolini che, nell'Italia del fascismo e della guerra, viene "destituito e imprigionato ma senza dimettersi", con l'accusa di aver collaborato con i nazisti e consegnato loro parte dell'oro della Banca d'Italia. Sfugge per un soffio al plotone d'esecuzione, viene condannato, ma poi è assolto e completamente riabilitato. Non dimenticava di menzionare il caso di Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, pure ingiustamente accusati. Fazio è stato chiamato in causa dopo una telefonata con Fiorani, intercettata dagli inquirenti milanesi nella notte tra l'11 e il 12 luglio 2005: in quell'occasione l'ex numero uno di Palazzo Koch aveva anticipato all'ad di Bpi il via libera di Bankitalia all'Opa lanciata su Antonveneta e da parte sua Fiorani aveva replicato con la celebre frase del «bacio in fronte». I mercati avrebbero saputo del via libera all'Opa di Bpl su Antonveneta, che metteva fuori dai giochi gli olandesi dell'Abn Amro, solo la mattina successiva alla telefonata. L'ex governatore è stato condannato anche a 5 anni di interdizione dai pubblici uffici, mentre per due anni non potrà contrattare con la pubblica amministrazione. Il processo avviato contro i cosiddetti "furbetti del quartierino" (molti di loro, come Stefano Ricucci e Emilio Gnutti, avevano patteggiato la pena in sede di udienza preliminare), arriva a sentenza con una sola assoluzione: quella di Francesco Frasca, ex capo della vigilanza di Bankitalia. Per lui la procura aveva chiesto una pena di 1 anno e 8 mesi, il tribunale ha deciso di assolverlo "per non aver commesso il fatto". "Mi aspettavo di essere assolto lo dico con franchezza", ha affermato al Tg1 l'ex presidente di Unipol, Giovanni Consorte. La fallita scalata della Bpl (poi diventata Bpi) ad Antonveneta nasce il 17 gennaio 2005 quando l'istituto lodigiano annuncia di aver superato la soglia del 2% del capitale della banca veneta, di cui gli olandesi di Abn Amro erano allora i maggiori azionisti. Successivamente, la Consob chiarirà che la Bpl aveva iniziato a rastrellare azioni sin dal novembre precedente. Nel febbraio del 2005 la Bpl riceve il permesso della Banca d'Italia per salire fino al 15% in Antonveneta e successivamente fino al 29,9%. Mentre gli olandesi restano fermi al 18%. Per questo Abn presenterà esposti alla Consob e un ricorso al Tar del Lazio contro il ritardo con cui Bankitalia ha autorizzato gli olandesi a salire al 20% e poi al 30% di Antonveneta, rispetto alle "celeri" autorizzazioni concesse alla Lodi. Ad aprile Abn lancia un'opa sulla banca veneta a 25 euro per azione, un mese dopo sarà il turno della Lodi con il lancio di un'offerta pubblica di scambio a 26 euro. Il 2 maggio la procura di Milano avvia le indagini e apre un fascicolo contro ignoti per aggiotaggio sulla scalata ad Antonveneta da parte di Bpl. Qualche giorno dopo la Consob delibera che Fiorani avrebbe stretto un patto occulto per superare la soglia del 30%, obbligandoli a lanciare un'opa sul 100% del capitale. Le indagini porteranno, nel luglio dello stesso anno, al sequestro dei titoli Antonveneta detenuti dalla Banca popolare italiana (che nel frattempo aveva cambiato nome da Bpl) e da Emilio Gnutti, Stefano Ricucci, Danilo Coppola. A luglio arriveranno lo stop alle offerte Bpi da parte di Consob e Bankitalia. Nel decreto di sequestro delle azioni si fa menzione ad alcune intercettazioni che coinvolgono Fiorani e Fazio. Quest'ultimo avrebbe fornito informazioni privilegiate a Fiorani. Il 2005 si chiude con l'arresto di Fiorani e le dimissioni di Fazio da governatore della Banca d'Italia.
Lazio, Calabria, Sardegna, Piemonte e Valle d’Aosta. E poi Marche, Umbria e Toscana. Quella degli imprenditori e delle famiglie alle prese con scoperti bancari, anticipazioni, sconti è un’onda lunga che arriva a Roma, dove il Forum Antiusura Bancaria, lancia l’ultima offensiva contro quegli istituti di credito che non rispettano le regole. Il messaggio che parte dalla sede del Forum ed è diretto a Palazzo Altieri, sede dell’Abi è chiaro. Secondo gli organizzatori, guidati dal deputato Idv, On. Domenico Scilipoti, le banche “avrebbero organizzato e posto in essere un accordo associativo per l’attuazione di programmi delittuosi, finalizzati ad eludere le norme bancarie che hanno reso nulle clausole contrattuali agli usi piazza per la determinazione dei tassi d’interesse”. Più chiaramente, il Forum denuncia la possibilità che la scelta delle banche di non restituire gli interessi calcolati sulla fluttuazione dei tassi, sia una decisione presa collettivamente. E dunque, il Forum si prepara a depositare presso tutte le Procure d’Italia una denuncia con la quale chiede alla magistratura di indagare e di verificare se esista un grande fratello bancario che abbia consigliato agli istituti di non uniformarsi alle disposizione del Testo Unico bancario che ha sancito la nullità degli interessi “uso piazza”. Già al fianco del Forum Antiusura, l’associazione difesa dei consumatori SoS Utenti, ha anche presentato una classifica delle Regioni in cui la rimodulazione dei tassi d’interesse ha superato la soglia di usura. Undici le regioni nella black list con la Toscana in testa con oltre 7 milioni di euro di finanziamenti erogati a tassi oltre la soglia, seguita da Puglia e Basilicata con quasi 6 milioni di euro e dal Lazio, dove gli imprenditori in difficoltà per la crisi hanno chiesto aiuto alle banche pagando l’8,46 per cento di interesse su un totale di 5 milioni e 358 mila euro erogati. Lo studio di SoS Utenti, elaborato sul Bollettino della Banca d’Italia evidenzia che a soffrire di queste criticità sono soprattutto le piccole e medie imprese, quelle aziende a conduzione familiare che più delle altre hanno fatto ricorso al sistema bancario per garantirsi la sopravvivenza.
“Un milione e mezzo di imprese sono al limite del fallimento – denuncia il presidente del Forum, Domenico Scilipoti – e un milione e 250 hanno problemi seri che li hanno portati alla chiusura. Il forum antiusura bancaria nasce dall’esigenza di molti cittadini che sono stati trattati male dalle banche, scorrette nell’applicare tassi di interesse fuori dalla norma”. “Noi denunciamo la violazione della legge sulla trasparenza bancaria – ha aggiunto Emidio Orsini, protagonista di una personale lotta decennale per difendere le sue proprietà dai decreti ingiuntivi delle banche – leggi che hanno sancito la nullità della clausole “uso piazza”, che le banche non hanno rispettato, perché hanno ritenuto più conveniente non rispettare i correntisti. Parliamo di cifre enormi, miliardi di euro per milioni di correntisti”. Ma c’è chi come il professor Francesco Petrino, presidente del Sindacato Nazionale Antiusura Riabilitazione Protestati (Snarp) è andato oltre le banche, sostenendo che “Paghiamo interessi alle banche per 76 miliardi di euro con un tasso pari al 5 per cento – contro un tasso ufficiale europeo dell’1 per cento. Come Stato subiamo un furto del 4 per cento sul prestito per il debito pubblico dalla Banca d’Italia che dovrebbe che dovrebbe essere la banca di Stato”. E ha concluso: “La nostra banca nazionale ruba agli italiani sul debito pubblico 73 miliardi di euro”.
«L'ufficio studi Cgia di Mestre, sulla base dei dati relativi alle denunce presentate alle procure dalle vittime delle organizzazioni criminali, trascurando completamente i dati riferiti all'usura bancaria rilevati presso i bollettini della Banca d'Italia, ha elaborato e comunicato la classifica dell'usura in Italia, ponendo al primo posto la Campania ed all'ultimo posto il Trentino».
Così l'On. Scilipoti (IDV), presidente del Forum Nazionale Antiusura Bancaria, che fa invece riferimento alla classifica dell'usura ufficializzata dal Bollettino Statistico della Banca D'Italia, parte II del 2010. «Dai dati trimestralmente rilevati e pubblicati dalla Banca D'Italia si evince che a fine marzo 2010 - continua il deputato di Italia dei Valori - le famiglie produttrici italiane nell'utilizzare il credito per operazioni autoliquidanti (sconto portafoglio, anticipo fatture ecc.), hanno subìto usura in ben 11 Regioni, con tassi superiori a quello soglia. L'importo complessivamente usurato ammonta a ben 37,8 miliardi di €, coinvolgenti non meno di 302.000 famiglie svolgenti attività produttiva.
L'usura criminale a cui si riferisce il centro studi Cgia - continua l'On. Scilipoti - non rappresenta minimamente il fenomeno, e la dimensione è caratterizzata invece dall'usura bancaria che vede la stessa Campania al primo posto, con un tasso effettivo del 9,28% (ben superiore a quello soglia vigente nel primo trimestre 2010 pari al all'8,145%), ed il Trentino all'Ultimo posto con tasso effettivo al 5,07% e di molto inferiori a quello soglia. All'analisi del centro studi Cgia va aggiunto che è il fenomeno dell'Usura Bancaria che genera l'usura criminale. Quest'ultima non esisterebbe se non ci fosse la prima. I tassi usurari praticati dalle Banche per le operazioni autoliquidanti alle famiglie produttrici - precisa l'On. Scilipoti - superano di 7 volte l'inflazione che governa la dinamica dei prezzi praticabili nella produzione di beni e servizi. Inevitabilmente, prima o poi le famiglie che producono finiscono nella morsa della sospensione del credito bancario e buttate in pasto agli usurai criminali. In Campania, le famiglie che producono, pagano interessi quasi doppi, rispetto alle famiglie Trentine, per scontare portafoglio e anticipare crediti».
«Insomma - conclude l'On. Scilipoti (IDV), si vuole rendere meno efficace la "licenza di uccidere" le imprese che oggi l'Art.50 del Testo Unico Bancario mette a disposizione delle Banche».
Denunciato da una banca e assolto con formula piena Luigi di Napoli, che rinuncia anche alla prescrizione.
1988-2005: Ecco cosa è capitato a chi ha denunciato la mafia.
1988- Luigi Di Napoli, imprenditore leccese, contesta la legittimità di un appalto riconosciuto truccato. Viene minacciato e, poi, gambizzato. Dopo avere consegnato i nastri magnetici contenenti le minacce e persistendo gravi indizi di colpevolezza a carico degli indagati, si prosciolgono questi ultimi sospettandosi la non genuinità dei nastri. Dopo avere subito l’attentato, lo si incrimina per frode processuale e calunnia ma si tenta di imporgli l’amnistia e la prescrizione. Ricorre in Cassazione per rinunciare a tali benefici e potere essere processato.
1996 – Assolto per insussistenza del fatto: i nastri non erano manipolati.
2005- Non sono mai state riaperte le indagini.
1990- Pretende che le forze dell’ordine impediscano l’installazione, da parte di operai di uno stabilimento balneare, di una rete metallica che impediva il libero accesso sulla battigia.
Viene instaurato un processo penale a suo carico per minacce a pubblico ufficiale. Deposita nella cancelleria del Tribunale istanza di ricusazione del giudice e, conseguentemente, viene instaurato a suo carico un processo per “oltraggio al magistrato in udienza” ed applicata la misura cautelare (pur essendo incensurato) dell’obbligo di dimora con obbligo di presentarsi, due volte al giorno, presso i Carabinieri. Il Tribunale del riesame conferma la misura. La Corte di Cassazione l’annulla. Condannato in primo grado, assolto in appello.
1995- Titolare di un patrimonio immobiliare del valore di oltre ventimiliardi di vecchie lire, contesta i rapporti bancari in cui appariva debitore essendo, essi, viziati per vari motivi.
1996- I rappresentanti di alcune banche minacciano il fallimento delle sue due società. Presenta denunce penali per estorsione ed usura e sollecita la Procura, fino al 2000, a richiedere il sequestro preventivo della documentazione esibita dalle banche.
1999- Il Tribunale rigetta le istanze di fallimento e la Dinauto, società di Di Napoli, ottiene titoli giudiziari in suo favore e contro una delle tre banche.
2000- La Corte d’Appello, con il Presidente precedentemente ricusato e due membri con rapporti bancari con due delle tre banche reclamanti, ordina il fallimento delle società di Di Napoli.
Novembre 2000- Dopo quattro anni dalle denunce, la Procura chiede il sequestro preventivo della documentazione esibita dalle banche solo alla vigilia del decreto della Corte d’Appello.
Il Gip dispone il sequestro. La Guardia di Finanza, recatasi in cancelleria ad eseguire il provvedimento, viene informata dell’emanazione delle sentenze di fallimento.
Il Gip dispone il sequestro anche delle sentenze di fallimento che vengono sequestrate e sigillate in busta chiusa.
2000-2003- I periti della Procura accertano la richiesta di tassi d’interesse fino al 292%. Viene richiesto il rinvio a giudizio per estorsione ed usura degli istanti il fallimento.
2003- Vari giudici delegati al fallimento vengono autorizzati ad astenersi.
12 Febbraio 2003, ore 8,30: Di Napoli, a mezzo ufficiale giudiziario, notifica al giudice delegato (privo di valida nomina) atto di citazione per danni da fatto reato.
12 Febbraio 2003- Il giudice tiene l’udienza per la formazione dello stato passivo minacciando “il fallito” di espellerlo dall’aula appena avrebbe parlato (la legge fallimentare impone di ascoltare il fallito) con l’ausilio di un poliziotto presente solo per quell’udienza. Di Napoli cerca di replicare, con tono pacato, ma viene espulso dall’aula.
Maggio 2003- Di Napoli entra in possesso di una cambiale emessa dal giudice che viene protestata. Il giudice è costretto a versare una cauzione e a proporre opposizione. Malgrado le cause pendenti, il magistrato tratta le udienze della sua stessa controparte. Dispone una consulenza per la formazione dello stato passivo dettando criteri contro legge col risultato, ovvio, di un credito infondato e contrario alle perizie della Procura della Repubblica (che hanno riscontrato tassi fino al 292%).Tutte le cause in cui è coinvolto Di Napoli vengono affidate al medesimo magistrato che viene nominato anche giudice relatore nella causa di opposizione alle sentenze di fallimento. La causa, decisa, fra l’altro, anche da altro giudice precedentemente astenutosi, viene rigettata e, dunque, attualmente pende in Corte d’Appello.
2001-2005- Varie cancellerie rilasciano attestazioni del vincolo del sequestro di cui sono gravate le sentenze a tutela della persona offesa. Di Napoli denuncia penalmente vari magistrati coinvolti nella scandalosa procedura ai suoi danni. Il curatore rinuncia all’incarico per gravi incomprensioni col giudice.
Di Napoli trascrive presso la Conservatoria dei registri immobiliari il provvedimento di sequestro della sentenza di fallimento.
5 Maggio 2005- Il giudice, con l’ausilio del nuovo curatore, dopo avere pubblicizzato suoli edificatori di indiscutibile pregio come “suoli ad uso seminativo”, li aggiudica a prezzo notevolmente inferiore. Gli offerenti, nel corso dell’udienza, vengono resi edotti del sequestro delle sentenze che inficia il loro acquisto. Le aggiudicazioni sono state opposte.
12 Maggio 2005- Di Napoli, nell’inerzia dei magistrati di Potenza ad esercitare l’azione penale contro i vari soggetti e i magistrati di Lecce coinvolti, presenta denuncia penale diretta alla Procura di Catanzaro chiedendo l’arresto del giudice delegato e del curatore.
13 Maggio 2005- Due sostituti Procuratori della Repubblica di Lecce chiedono l’arresto di Di Napoli.
24 Maggio 2005- DI NAPOLI, PERSONA OFFESA, AGLI ARRESTI DOMICILIARI. E’ accusato di avere creato il sequestro delle sentenze di fallimento.
7 Giugno 2005- Il tribunale del Riesame di Lecce conferma la misura ma dichiara l’incompetenza dei giudici di Lecce in favore dei giudici di Potenza.
30 Giugno 2005- il procedimento viene assegnato alla stessa P.M. denunciata, per le sue omissioni, presso il Tribunale di Catanzaro che chiede la conferma della misura. Gliela concede un GIP diverso dal “giudice naturale precostituito per legge”. Nella richiesta viene ravvisata la pericolosità sociale del Di Napoli per le numerose denunce e ricusazioni contro i giudici.
6 Settembre 2005- La Corte di Cassazione, su ricorso avverso il rigetto del riesame da parte dei giudici leccesi, dichiara la cessazione dell’efficacia della misura cautelare disposta dai giudici di Lecce.
Atto Camera. Interrogazione a risposta scritta 4-01923. presentata da SERGIO D'ELIA lunedì 11 dicembre 2006 nella seduta n.084. D'ELIA. - Al Ministro della giustizia, al Ministro dell'interno. - Per sapere - premesso che:
Il 21 ottobre 2006, su un quotidiano nazionale (l'Avanti), è apparsa la notizia della situazione assurda e paradossale di cui è vittima Luigi Di Napoli: «Un imprenditore salentino nel tritacarne».
già il 19 ottobre 2006, nel corso di varie edizioni del telegiornale di Telenorba (emittente locale pugliese), è stato trasmesso un servizio sulla drammatica situazione che, in quelle ore, stava vivendo, a Gallipoli, la famiglia Di Napoli con intervista rilasciata dall'avvocato Roberto Di Napoli, figlio della vittima, che, disperato, lamentava la mancata tutela dello Stato e gli abusi da parte delle Forze dell'Ordine che, per eseguire il rilascio dell'unica abitazione del Di Napoli, avrebbero, perfino, invaso i locali dell'immobile impedendone l'accesso a chiunque, compresa l'emittente televisiva;
il signor Luigi DI NAPOLI, imprenditore leccese, sarebbe, dal 1988, oggetto di una vera e propria persecuzione giudiziaria che lo ha distrutto economicamente e che sta compromettendo la serenità della sua famiglia; nel 1988, mentre contestava un appalto truccato, e riconosciuto tale nelle sedi amministrative, dopo avere ricevuto minacce, ha subito un attentato che lo costringe tuttora all'uso delle stampelle;
la sua è una storia di usura ed estorsione, di denunce reciproche tra la vittima e magistrati. Egli ha subito 21 processi e per 21 volte è stato assolto; ha sempre rinunciato ad amnistia e prescrizione per farsi processare;
il signor Di Napoli, tramite il figlio avvocato Roberto Di Napoli, sin dal 15 settembre 2006, aveva sollecitato il Commissario e il Comitato di solidarietà per le vittime dell'usura e dell'estorsione ad intraprendere ogni iniziativa al fine di far rispettare la sospensione dell'esecuzione ex articolo 20 legge n. 44 del 1999, intervenuta ope legis in favore della vittima Di Napoli in seguito al conforme parere dell'autorità amministrativa (S.E. Prefetto della Provincia di Roma) ricordando, tra l'altro, la ratio della legge n. 44 del 1999, che come ribadito dalla giurisprudenza, consente l'ammissibilità ai benefici ivi previsti anche in favore delle vittime fallite in seguito ed a causa delle condotte delittuose;
il 25 settembre 2006, Di Napoli ha subito l'accesso degli ufficiali giudiziari che gli chiedevano di rilasciare l'abitazione e, soltanto verso le ore 19, veniva comunicato il rinvio dell'esecuzione al 19 ottobre 2006; in tale data il Di Napoli afferma di aver subito un trattamento da parte sia dagli ufficiali giudiziari che dalle forze dell'ordine non in conformità con le norme vigenti in materia, subendo aggressioni fisiche che hanno comportato il ricovero dello stesso presso il locale Presidio Ospedaliero. Azione esecutiva che, stante il dolore causato al Di Napoli dalle percosse subite, è culminata con il suo arresto per presenta aggressione a pubblico ufficiale (arresto che è stato revocato soltanto lo scorso 23 novembre 2006) -:
1. le motivazioni per cui non siano stati adottati i provvedimenti al fine di fare osservare la sospensione di cui all'articolo 20 legge n. 44 del 1999 considerato che il Di Napoli ha già ottenuto pareri conformi del Prefetto di Roma che lo riconoscono meritevole dei benefici di cui alla legge antiusura ed antiestorsione;
2. se, nell'esecuzione della procedura di rilascio dell'immobile del 19 ottobre 2006 gli organi preposti abbiano agito nel pieno rispetto delle normative vigenti.(4-01923)
Antonio Giangrande, Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie non è il solo a denunciare pubblicamente le anomalie IMPUNITE E SOTTACIUTE in campo forense-giudiziario. “Il volto sporco della giustizia nel Salento” (libro – dossier). Testimonianza a cura dell’Avv. Fedele Rigliaco di Lecce.
Presentazione. Questo dossier vuole costituire un piccolo saggio dei numerosi casi di mala-giustizia nel Salento, che il sottoscritto difensore ha raccolto a seguito dell’incarico ricevuto di svolgere investigazioni ai sensi della legge 7-12-2000, n. 397. Egli è a disposizione delle autorità competenti a fornire ogni ragguaglio che dovesse occorrere sui casi esposti e su quelli non riportati in esso di cui, comunque, è a conoscenza. Questo opuscolo si prefigge, altresì, lo scopo d’invitare le autorità a prendere i provvedimenti di competenza. Nella mia veste di difensore incaricato di svolgere indagini ai sensi legge 7-12-2000, n. 397 sono venuto a conoscenza di casi di pessima amministrazione della Giustizia da parte di alcuni magistrati della Corte di Appello di Lecce, di Bari, di Potenza, di Catanzaro e di Bologna e di sperpero di preziose risorse di questa: archiviazione di procedimenti penali “de plano” finalizzati a favorire alcuni soggetti in danno di altri, insabbiamenti d’indagini importanti, fallimenti di aziende o di privati cittadini in assenza dei presupposti di legge, o condotti in modo scorretto, istanze di fallimento avanzate da usurai privati o da Istituti bancari che hanno praticato tassi d’interesse elevati, decreti ingiuntivi accordati ad usurai o ad Istituti bancari privi di titolo, disintegrazione di aziende ad opera di Istituti bancari che applicano interessi ultralegali anatocistici in assenza di contratti, trattamento di favore riservato da magistrati ad Istituti Bancari, dispendiose ed inutili consulente, diniego da parte di alcuni magistrati delle indagini difensive di cui agli artt. 391-bis e 391-nonies, utilizzo dei processi per calunnia come spauracchio per disincentivare i cittadini a denunciare amici di magistrati, corruzione di alcuni magistrati, terrorismo che promana da una parte della magistratura, condizionamenti da parte di magistrati su avvocati, archiviazione di procedimenti penali per comportamenti estorsivi da parte del Concessionario esattore delle tasse e da parte di Enti impositori, ecc..
CONTINUA……….
E ancora a Lecce. Un coraggioso Salentino si ribella alle banche usuraie e ai giudici che archiviano. Luigi De Magistris ex sostituto Procuratore di Catanzaro e poi europarlamentare dell’IDV è stato rinviato a giudizio davanti al Tribunale di Salerno. De Magistris sarebbe imputato per il "delitto p. e p. dall'art. 328 co 1° CP perché, quale sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed assegnatario del procedimento penale n.2552/05/Mod.21 a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO, omettendo di procedere alle indagini ordinate ai sensi dell'art.409 co. 4° CPP dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio...". Non si tratterebbe di un'omissione qualunque ma, di un'omissione di indagini su collusione fra magistrati di Lecce e magistrati di Potenza con ipotesi delittuose gravissime che vanno dall'associazione per delinquere, all'estorsione, al favoreggiamento di banche che applicano tassi usurari disinvoltamente ed impunemente e che gli erano state ordinate da un GIP. Tutto ciò sarebbe scaturito da Luigi Stifanelli di Nardò (Lecce, Puglia), commerciante, ex senza tetto a causa dell’usura bancaria subita. Stifanelli si potrebbe definire uno degli uomini più coraggiosi e determinati d’Italia, nonostante tutte le angherie subite ha continuato a cercare giustizia. Il nostro impavido commerciante, anni fa aveva denunciato i giudici di Lecce per una brutta storia legata alla sua vicenda sulle banche, le indagini arrivarono a Potenza ma anche lì non ebbe giustizia. Allora si rivolse a Catanzaro e denunciò anche i giudici di Potenza, ma anche in questo caso i diritti di Stifanelli non furono rispettati. L’indagine era di De Magistris, una delle tante sulle toghe lucane. Alla seconda richiesta di archiviazione però, Luigi Stifanelli che è ormai più esperto di un avvocato nel parlare di articoli dei codici e di procedure, prepara una querela e la manda a Salerno. Alla Procura di Salerno dopo aver ascoltato la parte offesa hanno acquisito la documentazione dalle Procure di Potenza e Catanzaro, dopo di che i magistrati hanno richiesto il rinvio a giudizio di De Magistris davanti al Tribunale di Salerno. La prima udienza il giorno 21 Febbraio 2011.
Il seguito è cosa scontata. Trasmettiamo di seguito un esposto del commerciante di Nardò, Luigi Stifanelli, sull'assoluzione di Luigi De Magistris e pubblicata su Agenparl.it.
"Luigi De Magistris è stato assolto perché il fatto non sussiste: è la sentenza del Tribunale di Salerno nel processo per omissione in atti d'ufficio all'eurodeputato, per fatti risalenti a quando era ancora magistrato. ''Era un'accusa ingiusta e infamante - ha commentato De Magistris - ma sono stato assolto difendendomi nel processo e non dal processo, senza usare l'immunità parlamentare nè il legittimo impedimento''. Per il leader dell'Idv Antonio Di Pietro ''giustizia è stata fatta''. Questa nota dell’Ansa tace la circostanza che il Giudice che ha assolto De Magistris è la Dr.ssa Maria Teresa Belmonte, moglie dell’avv. Giocondo Santoro, fratello del Santoro famoso conduttore di Annozero. Questo Giudice costituisce il simbolo della imparzialità quando deve giudicare De Magistris. Con tale Giudice il De Magistris ha fatto certamente un grande sforzo a difendersi “nel processo”!!! E’ notoria l’attività di sponsorizzazione dell’europarlamentare dell’Idv De Magistris da parte del Santoro televisivo su di una televisione pubblica. Nessuno ha prove per dire che la decisione dell’assoluzione sia stata presa davanti al focolare dei coniugi Santoro-Belmonte allargato al noto conduttore di Annozero; è innegabile, però è che il Santoro televisivo cognato della Belmonte è il padrino dell’europarlamentare. Ciò che è certo è che la sentenza, così come formulata, getta un’ombra lugubre sulla Giustizia, quella vera. Luigi De Magistris era imputato di un grave delitto. Egli, secondo l’accusa, “...indebitamente rifiutava di compiere un atto del suo ufficio..." quando era sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Catanzaro ed aveva omesso di “procedere alle indagini ordinate…dal GIP presso il Tribunale di Catanzaro” in un “procedimento…a carico dei magistrati di Potenza IANUARIO ROBERTA e IANNUZZI ALBERTO”, che si era aperto a loro carico su denuncia del sottoscritto per ipotesi delittuose di “associazione per delinquere, favoreggiamento, falsità, concorso in estorsione ed usura” a carico di “alcuni magistrati di Lecce e di Potenza”. Nel fascicolo del Giudice certamente ci sarà stata l’ordinanza del GIP di Catanzaro che ordinava al De Magistris P.M. di proseguire le indagini nei confronti di altri magistrati di Potenza e di Lecce. Nel fascicolo del Giudice certamente vi è carenza assoluta delle indagini svolte dal De Magistris. Ci si attendeva nella ipotesi più rosea per l’europarlamentare l’assoluzione con la formula che il fatto che un P.M si rifuti di eseguire un ordine del GIP non costituisca reato; invece, l’assoluzione è stata con la formula più ampia, cioè, che il fatto non sussiste, che sta a significare che non vi è stato mai ordine di alcun GIP. Invece, l’ordine del GIP rivolto al De Magistris di proseguire le indagini era ben preciso. L’assoluzione perchè il fatto non sussiste può significare anche che il De Magistris abbia compiuto uno straccio d’indagine; invece, no; è proprio egli stesso che sul suo blog ha scritto di essersi considerato il “dominus” e di non aver inteso indagare per non fare spendere denaro. Dunque, la sentenza che ha assolto il De Magistris è smaccatamente falsa. Ciò che colpisce in questo processo è la rapidità con cui si è concluso; certamente, era necessario sgomberare le ombre sul candidato sindaco di Napoli: tre udienze velocissime a distanza di pochi giorni l’una dall’altra; con la scelta mirata del giorno dell’udienza in cui vi era lo sciopero degli avvocati, e, quindi, svolta in assenza del difensore della parte civile. Ammirevole la velocità con cui il Giudice Belmonte ha concluso questo processo; sarebbe interessante sapere se questa velocità nel concludere il processo De Magistris, abbia penalizzato qualche altro imputato vero innocente, che attende prima di lui da anni la conclusione del suo processo. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il suo rifiuto di indagare, all’epoca in cui egli era P.M. a Catanzaro, sulle sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Lecce di procedimenti penali a carico di soggetti bancari che praticavano e praticano tuttora usura ed estorsione. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati escussi i testi che avevo proposto al mio difensore, l’avv. Licia Polizio; infatti, avevo proposto come “testi i soggetti menzionati nell’opposizione alla richiesta di archiviazione”, che avrebbero dovuto riferire su sistematiche archiviazioni facili da parte di magistrati di Lecce nei confronti di banche che operano usura ed estorsione e, precisamente i seguenti soggetti: l’On. Nichi Vendola, il sig. Franco Carignani, l’Avv. Fedele Rigliaco, Il giornalista de "Il Mondo" che scrisse l’articolo dal titolo "Com'è stretta la Puglia" il12 giugno 1998 N. 24, l’ex Ministro della Giustizia, on. Diliberto, il Giudice di Lecce Dr. Pietro Baffa, l’ex P.M. Dr. Aldo Petrucci, il presidente dello SNARP, sindacato nazionale antiusura, dell’anno 1999, il Giudice Dr. Gaeta di Lecce, l’ex Gip Dr. Francesco Manzo, l’ex Gip Dr. Fersini il consulente del P.M. di Lecce, Dr. Daniele Garzia, che dovrà riferire sulla seguente circostanza: la tabella dove erano indicati i tassi praticati allo Stifanelli da parte della banca erano abbondantemente superiore a quelli consentiti dalla legge il Dr. Leonardo Rinella che è stato P.M. presso la Procura di Bari, il quale aveva accertato, per il tramite del suo consulente, che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi; il consulente della Procura di Bari, Dr. Egizio De Tullio, il quale aveva accertato che la banca aveva praticato ad un cliente interessi passivi su saldi attivi. Altro lato oscuro della vicenda è il fatto che non siano stati acquisiti dal Giudice del dibattimento alcuni fascicoli che avevo proposto al mio difensore come richieste istruttorie. Così, infatti, scrivevo al mio difensore avv. Licia Polizio: “E’ necessario chiedere al Giudice del dibattimento l’acquisizione di alcuni fascicoli che dimostrano l’attività di “protezione dell’usura nel Salento” da parte di alcuni magistrati e che sono raccolti tutti nel Dossier a firma del Sig. Franco Carignani: 3445/94 rgnr. Tribunale di Lecce, n. 8133/ 95 RGNR del Tribunale di Lecce (Capoti), n.15950/97 RGNR del Tribunale di Bari (Bisconti - Durante), n. 2011/G/96 Presso la Direzione Nazionale Antimafia, n. 508/97 RGNR del Tribunale di Lecce, n. 1885/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 800/96/21/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 6647/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 3926/96/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 9725/97/21 RGNR del Tribunale di Bari, n. 19797/97/21 RGNR”. Eppure il reato ascritto al De Magistris riguarda il rifiuto di indagare sulle altrettante sistematiche archiviazioni da parte di magistrati di Potenza di procedimenti penali a carico di quei magistrati di Lecce che consentono tali “facili” archiviazioni. La carenza delle suindicate indagini ha consentito ad alcuni magistrati criminali di Potenza e di Lecce di crearsi l’usbergo della immunità e, così, proseguire con la loro opera delinquenziale di copertura di gravi reati, come l’estorsione, il favoreggiamento, l’usura, la falsità, di Banche, di società di riscossione dei tributi e di personaggi importanti. Insomma, per De Magistris e per il Giudice cognato del Santoro di Annozero tutto questo è cosa da nulla; che i magistrati di Lecce o di Potenza consentano ad estortori o usurai bancari o ad esattori delle tasse usurai a proseguire nella loro attività criminale con conseguente distruzione di molte imprese, di molte famiglie e dell’economia salentina è una cosa di poco conto. Oggi, affrancato dal peso dell’accusa, il De Magistris - che aveva il dovere d’indagare e d’impedire la prosecuzione di questi reati - si appresta con estremo candore a governare la città di Napoli massacrata dall’usura bancaria. Con la sentenza della “Giudicessa” cognata del Santoro televisivo alcuni magistrati di Lecce possono proseguire impunemente a favorire l’usura e l’estorsione delle Banche e dell’esattore delle tasse in danno dei salentini; tali magistrati sanno che troveranno, prima o poi, una Dr.ssa Belmonte che scriverà una sentenza perché “il fatto non sussiste”. Eppure le archiviazioni di procedimenti penali a carico di soggetti che, con minacce di pregiudizi, riuscirono ad estorcere del denaro crearono disagio, malessere e sconcerto nella popolazione salentina. In particolar modo furono gl’imprenditori che esternarono - con esposti a tutte le Autorità ed a tutte le Istituzioni dello Stato, alla Direzione Nazionale Antimafia, alla Commissione antimafia, alle Cariche istituzionali più importanti dello Stato - il disagio per la mancata tutela penale della proprietà; nell’immaginario collettivo si ebbe a formare l’idea di una sorta di sodalizio fra magistrati, banchieri ed altri soggetti. A seguito di ciò in data 24/09/’98 l’on. Nichi Vendola, all’epoca vice-presidente della Commissione antimafia, ora Governatore della Puglia, pose il dito su questa piaga del Salento; e, con atto di sindacato ispettivo n. 4/19855 sollevò questioni riguardanti le numerose e facili archiviazioni da parte della Procura della Repubblica di Lecce dei procedimenti penali “per i reati di estorsione, usura, truffa ed altro commessi da rappresentanti delle banche a danno di imprenditori Salentini” per sapere come mai molti salentini non avevano avuto la tutela penale, nonostante che i magistrati della Procura di Lecce avessero constatato l’applicazione di alti tassi d’interesse da parte di Banche; la vicenda ebbe vasto clamore, scaturito dalla divulgazione delle notizie attraverso la stampa. Nel succitato atto l’onorevole interrogante faceva riferimento ad un articolo comparso sul settimanale “Il Mondo” del 12 giugno 1998, n. 49 che dettagliava numerosi casi di archiviazioni di procedimenti penali. Quell’interrogazione venne archiviata perché il Ministro della Giustizia dell’epoca, on. Diliberto, ebbe a fornire una risposta contenente notizie false che gli furono fornite dalle articolazioni ministeriali competenti. L'On.le Consiglio Superiore della Magistratura con le circolari nn° 8160/82 e 7600/85, 4° commissione, e con la delibera del plenum dell'11 dicembre 1996 ha esplicitato che "l'esigenza generale, consistente nella tutela dell'imparzialità e della libertà da condizionamenti che devono connotare anche nell'apparire, l'attività giudiziaria, si pone quale specificazione del principio di tutela del prestigio della Magistratura inteso come apprezzamento sociale della corretta amministrazione della Giustizia". Secondo la Corte di Cassazione, Sez. Unite, sentenza del 03 aprile 1988, n. 2265 "La responsabilità disciplinare del Magistrato, per comportamento pregiudizievole al prestigio suo e dell'Ordine Giudiziario, può conseguire anche da atti non illegittimi, ma meramente inopportuni od avventati”. Questo esposto pubblico è rivolto alle autorità in indirizzo per quanto di loro competenza, in particolare al Presidente della Repubblica, per valutare se vi sono gli elementi per promuovere procedimento disciplinare nei confronti della Dr.ssa Belmonte se per accelerare il procedimento a carico del De Magistris abbia trascurato qualche altro procedimento che aveva delle priorità o per valutare se la decisione di assolvere il De Magistris con la formula “perché il fatto non sussiste” sia stata avventata in presenza di un’ordinanza ineseguita di un GIP."
Ma questo non basta. Sulla lotta alla mafia ed in particolare all'usura sconvolgente è la notizia data da tutti i giornali: arrestato il prefetto Carlo Ferrigno, ex Commissario nazionale antiracket ed antiusura.
Dal “Corriere della Sera” uno dei tanti articoli. “È l'ex commissario antiracket, sfruttava la sua posizione per ottenere favori sessuali da giovani donne. Il suo nome era spuntato in un’intercettazione del caso Ruby. È stato prefetto di Napoli, poi commissario nazionale antiracket. Uno dei più alti funzionari di Stato, in prima fila nella lotta alla mafia. L'ex prefetto Carlo Ferrigno, 72 anni, è stato arrestato con l'accusa di millantato credito ed è adesso agli arresti domiciliari. È indagato anche per prostituzione minorile per due casi segnalati nell'inchiesta. Secondo la Procura di Milano, dal 2005 a pochi mesi fa avrebbe fatto avance e ottenuto favori sessuali, promettendo in cambio il suo autorevole intervento nella pubblica amministrazione. Nell'ambito dell'indagine, è finito in carcere anche l'imprenditore Massimo Abissino, titolare di un negozio di moda in via Farini a Milano, che avrebbe tra le altre cose favorito la prostituzione di una delle due minorenni che avrebbero avuto rapporti con Ferrigno. Ad Abissino vengono contestati anche fatti di droga. Una delle giovani lavorava proprio nel negozio di Abissino come commessa. In totale, le parti lese, che riguardano condotte sessuali di Ferrigno per i reati di millantato credito e prostituzione minorile, sono 4: le due minorenni e due donne maggiorenni. In particolare, l'ex Prefetto, chiedendo prestazioni sessuali, millantava agevolazioni per le donne come la possibilità in un caso di far entrare una giovane in Polizia e, in un altro caso, di risolvere la questione di un permesso di soggiorno per un'altra ragazza. L’inchiesta, condotta dal pubblico ministero Stefano Civardi, è nata dalla denuncia del presidente di Sos racket e usura Frediano Manzi, che aveva raccolto le testimonianze di alcune vittime di usura ed estorsione, secondo le quali Ferrigno avrebbe promesso di «accelerare le pratiche per accedere al fondo antiracket e antiusura, farle passare in commissione, se avesse ottenuto in cambio prestazioni sessuali». In merito Frediano Manzi era stato sentito come persona informata sui fatti, ma il pm aveva poi secretato gli atti. «Da tempo circolavano le voci nel nostro ambiente di prestazioni sessuali che erano richieste soprattutto alle vittime di usura che presso la sede del Comitato Nazionale Antiracket a Roma, in Via Cesare Balbo 37, entravano in contatto con il Prefetto Carlo Ferrigno». Così si apre la lunga nota pubblicata sul sito dell'associazione antiracket già nel febbraio del 2010. All'epoca risalgono anche le testimonianze video registrate nella sede dell'associazione. Le presunte vittime di Ferrigno raccontavano la disavventura con il funzionario che era arrivato a molestarle pesantemente. «Queste voci riferivano di una prassi consolidata e perpetrata negli anni dal Prefetto: accelerare le pratiche per accedere al fondo antiracket e antiusura. Nel caso fossero stati uomini a far domanda al fondo, era loro richiesto esplicitamente se avessero avuto una "amica" da presentargli». Secondo quanto Manzi scriveva sul sito dell’associazione «era abitudine del commissario antiracket inviare un autista (...) con la macchina in dotazione del ministero a prelevare prostitute giovani e soprattutto minorenni, per fare orge e festini presso l’abitazione del Prefetto a Roma». Il nome di Ferrigno è poi spuntato in un’intercettazione svolta nell’ambito dell’inchiesta sul caso Ruby il 29 settembre 2010, in cui Ferrigno dice a un uomo parlando delle feste del presidente del Consiglio: «C’erano orge lì dentro non con droga, non mi risulta. Ma bevevano tutte mezze discinte. Berlusconi si è messo a cantare e a raccontare barzellette. Loro tre (Berlusconi, Mora e Fede) e 28 ragazze. Tutte ragazze che poi alla fine erano senza reggipetto solo le mutandine strette...». Un racconto che all'alto funzionario era stato fatto da Maria Makdoum, ventenne danzatrice del ventre in un caso ospite a Villa San Martino. La ragazza era diventata la sua amante, e per controllarla avrebbe anche violato il sistema informatico del Ministero dell'Interno. Da quanto si è saputo, Ferrigno controllava i contatti telefonici della Makdoum, anche grazie all'aiuto di altre persone indagate. In particolare, aveva l'accesso ad alcuni account e a delle password per spiare il traffico telefonico della ragazza. Il presidente dell'associazione Sos-Racket e Usura, che ha dato il la all'inchiesta, Frediano Manzi commenta così l'arresto: «Noi siamo stati gli unici tra tutte le associazioni antiracket a denunciare questo fenomeno. Ora pretendiamo che vengano verificate le posizioni di tutti coloro che hanno ricevuto i finanziamenti disposti dal prefetto Ferrigno dal 2003 al 2006 periodo in cui è stato commissario Antiracket».”
Ma c’è di più. Sulle cronache locali di tutta Italia ci sono pagine e pagine che parlano del fenomeno: Fallimentopoli.
A Torino. Ricostruisce i fatti, confessa e si giustifica: «il sistema mi è sfuggito di mano». Giovanni Marabotto, l’ex procuratore capo di Pinerolo, in provincia di Torino, arrestato per associazione a delinquere, corruzione, truffa aggravata, non ha potuto che ammettere le sue responsabilità davanti al sostituto procuratore Maurizio Romanelli che lo ha interrogato per un paio d’ore circa. Di più: al magistrato, l’ex procuratore capo ha di fatto "consegnato" il suo tesoretto, quello che nel corso delle indagini ancora non è stato trovato, "custodito" in un conto aperto presso una Banca di Monte Carlo. Un deposito al quale gli inquirenti erano già arrivati ma solo come "sigla", senza sapere fino ad ora che proprio lì l’ex magistrato aveva fatto confluire le sue "fortune", cioè tutte le somme percepite nel tempo sulla marea di perizie disposte su indagini "inventate" su almeno 375 società. L’ex procuratore capo ha confessato di aver preso tangenti nel corso degli anni. Ma non nella percentuale del 30%, come gli contesta l’accusa, ma "solo" del 10%. Il "resto" finiva in altre tasche di quella piccola "catena" di consulenti, collettori e amici fidati creato ad hoc.
A Milano. Il Caso Maria Rosaria Grossi. A parlare negli interrogatori è Mauro Vitiello, magistrato in servizio al Tribunale di Milano, sezione fallimentare e dunque ex collega della Grossi: "Era sospettata di scambiare favori di natura economica con professionisti vari utilizzando il sistema della loro nomina nelle procedure concorsuali. Altra voce che correva sul conto della Grossi era relativa al fatto che avesse avuto relazioni sentimentali con avvocati e professionisti che lavoravano nello stesso settore dove lei svolgeva attività di giudice". Vitiello fa riferimenti espliciti: "La Grossi si occupò della vicenda lodo Mondadori (...)
A Firenze. Il giudice Sebastiano Puliga, già in servizio alla sezione fallimentare del tribunale di Firenze, e i professionisti che, secondo le accuse, avevano costituito con lui una sorta di comitato d'affari che lucrava sulle procedure fallimentari, sono stati rinviati a giudizio dal giudice dell' udienza preliminare di Genova Elena Daloiso. Sono accusati, a vario titolo, di concussione, corruzione, peculato, concorso in bancarotta. Si è chiusa così, con il rinvio a giudizio di 30 dei 36 indagati, l'inchiesta sul più grave scandalo scoperto a Firenze negli ultimi anni.
A Roma. La sezione disciplinare del Csm ha sospeso dalle funzioni e dallo stipendio e ha collocato fuori dal ruolo della magistratura Chiara Schettini, giudice del tribunale fallimentare di Roma. Il magistrato è anche sottoposto a un procedimento penale da parte della procura di Perugia. Usava una "falsa" identità, grazie a una tessera di riconoscimento che le era stata legittimamente rilasciata dalla Corte d'appello di Roma, ma sulla quale era riportata un'erronea data di nascita; e così disponeva di un codice fiscale che le permetteva di agire "al riparo da possibili responsabilità patrimoniali". E c’è di più. Sono sei i magistrati finiti sotto inchiesta. Oltre a Briasco e al suo vice Anacleto Grimaldi, le imputazioni riguardano Pierluigi Baccarini, Vincenzo Vitalone, Pierluigi Bonato e Raffaello Capozzi. Gli ispettori li accusano di essere riusciti a farsi assegnare le pratiche più importanti aggirando le disposizioni sulla rotazione degli incarichi. E soprattutto di aver affidato la gestione dei fallimenti a commercialisti e avvocati di propria fiducia. Quale fosse la contropartita dovranno accertarlo le inchieste penali, ma il sospetto è evidente. I consulenti nominati ottengono infatti un compenso percentuale rispetto all' entità del fallimento e gestiscono i beni delle società in dissesto. Due di loro sono stati indagati per peculato dai magistrati romani che hanno poi trasmesso gli atti ai colleghi di Perugia competenti a indagare sulle toghe capitoline.
Ma che fine fanno i beni pignorati di cui si chiede la vendita?
Si premette che non sempre il magistrato procedente, sentito il Prefetto e il Presidente del Tribunale, opera la sospensione del procedimento di vendita, in caso di reato di usura.
Come spesso accade, può succedere, anche, che il magistrato titolare proceda alla vendita, (per dolo o colpa) nonostante nullità procedurali o addirittura insussistenza dei motivi, per intervenuto adempimento stragiudiziale dell'obbligazione.
Un’inchiesta di Enrico Bellavia per Repubblica svela come funziona il sistema delle aste giudiziarie. I trucchi e le pratiche illecite degli affaristi e delle cosche mafiose per pilotare le aste e far scendere di prezzo degli immobili. Un sistema che sulla carta offre “garanzie e trasparenza” ma che nella realtà…
Una casa su dieci passa di mano alle aste giudiziarie. Un mercato nel grande mercato immobiliare. E in costante crescita, con il trenta per cento di transazioni in più ogni anno. Centocinquantamila gli immobili ceduti in un anno. Con previsioni di ulteriore espansione, considerando che le proprietà a rischio di procedura esecutiva sono più del doppio. Dieci miliardi sui 100 della borsa del mattone vengono già spesi così, all'interno di un sistema che, sulla carta, offre mille garanzie di trasparenza, ma che gli operatori per primi considerano una prateria per le scorribande di speculatori affaristi e mafie. I vecchi proprietari rientrano con le buone o con le cattive in possesso degli immobili perduti, i nuovi potenziali acquirenti sono indotti a mollare l'affare o a versare sostanziose tangenti per non incontrare ostacoli. Agenzie che operano alla luce del sole e faccendieri che si propongono come consulenti alle aste si infiltrano tra le pieghe delle regole che governano gli incanti, ne pilotano gli esiti e fanno incetta di immobili.
Per il cittadino qualunque avventurarsi nell'acquisto di una casa o di un terreno messi in vendita dai tribunali equivale a intraprendere spesso un percorso pieno di insidie. Per evitare le quali il ricorso all'intermediazione diventa l'unica alternativa. Ma come funziona il sistema? Dove sono le trappole? Quali i trucchi?
Un esperto di aste che conosce bene quel mondo confessa candidamente: "Per un acquirente che decida di concorrere da solo, le speranze di concludere positivamente l'affare si assottigliano e di molto e soprattutto si assottigliano le previsioni di strappare un immobile a prezzi stracciati. Quello è mestiere per chi sa tenere a bada le offerte fino a far crollare il prezzo ed entrare in gioco solo quando le decurtazioni hanno fatto precipitare il valore del bene". Un gioco di nervi, ma anche e soprattutto di astuzia. Che autorizza metodi spicci, come l'allontanamento preventivo dei concorrenti o i patti di cartello che consentono la turnazione alle aste di gruppi organizzati. Si calcola che a rischio sia almeno il venti per cento delle compravendite, in cifre due miliardi di euro all'anno. Con buona pace del fisco che vedrà volatilizzarsi parte del proprio gettito in favore di una "tassazione criminale".
Il sistema prevede che la vendita sia gestita da un giudice. Ma, con l'obiettivo di velocizzare le transazioni e smaltire l'arretrato, chiudendo in tempi ragionevoli procedure esecutive che durano anche 15 anni, dal primo marzo 2006 si è introdotta la delega ai professionisti. Avvocati, commercialisti, esperti contabili, oltre ai notai che già operavano in precedenza, possono ora procedere alla vendita. Le aste sono pubbliche, chiunque può assistervi - gli annunci compaiono sui giornali e su Internet - e chiunque, meno che il vecchio proprietario, può concorrere. Nella vendita senza incanto le offerte arrivano in busta chiusa e rimangono segrete fino alla data fissata per l'aggiudicazione. Nel sistema con incanto, invece, le offerte vengono formalizzate a voce. La procedura prevede un sistema alternato fino a sei tentativi, esauriti i quali l'immobile scende ancora di prezzo e si ricomincia.
Prima di farsi avanti, nella prassi, si seguono delle regole. "C'è da sapere intanto - spiega la fonte che opera nel mondo delle aste - a chi appartiene l'immobile. Il nome del proprietario, soprattutto in certi ambienti, può dire molto e un passaparola sotterraneo consente di sapere se non ci sono ostacoli o se ci sono interessi precisi su quella casa, su quel terreno o su quel capannone industriale. La regola, in questi casi, è starsene alla larga il più possibile. Tutto deve svolgersi nella massima segretezza sino al momento dell'asta. Nei fatti però, basta conoscere in anticipo se ci sono altri potenziali acquirenti e avvicinarli, o contattarli appena dopo l'aggiudicazione per costringerli a ritirarsi o a pagare una tangente per ottenere il via libera all'affare e il gioco cambia". Chi opera in quel mercato sa che le informazioni equivalgono a moneta sonante. Accaparrarsele è il primo obiettivo. I fascicoli delle procedure stanno nei tribunali. Hanno accesso a quelle carte giudici e cancellieri. Conoscere per tempo lo stato della pratica garantisce un indubbio vantaggio. Ma l'idea che solo attraverso un'interessata fuga di notizie sia possibile garantirsi il primato è riduttiva. L'avvento dei professionisti nel gioco delle vendite ha moltiplicato, senza risolverli, i conflitti di interesse. Capita che a occuparsi dell'incanto sia lo studio di riferimento di un legale che ha seguito la procedura in passato come avvocato della banca intenzionata a rientrare del mutuo erogato e non pagato. Capita che la stima dell'immobile che deve andare all'asta sia affidata a un tecnico che ha rapporti di parentela diretti o indiretti con chi fatalmente concorre all'acquisto. L'esperienza e l'affidabilità richiesti come requisito per l'affidamento degli incarichi, mostrano come rovescio, la concentrazione in poche mani delle procedure delegate.
Le indagini che hanno gettato luce sul mondo delle aste truccate rivelano la costante presenza di "ganci" interni che offrono su un piatto d'argento informazioni da spendere al banco di intermediari che agiscono quasi sempre in gruppo, con o senza la copertura delle cosche, a seconda dei contesti. Ma sono quasi sempre indagini nate in altri ambiti che poi svelano i meccanismi delle combine. Le intercettazioni si rivelano fonti primarie. A Milano, dove si registra il record di aste, dieci anni fa, fu un giudice a insospettirsi per la presenza costante alle aste di alcuni personaggi. Chiese e ottenne che si aprisse un'inchiesta. Furono piazzate anche delle microspie e si scoprì così che c'era un gruppo capace di scoraggiare gli acquirenti fin dietro la porta del magistrato con minacce esplicite. Da Palermo, a Lecce, passando per Reggio Calabria, tre inchieste nate intorno a vicende di mafia, hanno permesso di ascoltare in diretta come prassi e metodi si pieghino agli interessi più disparati. Ma sono scoperte, per così dire casuali, all'interno di indagini partite per altro. Ma quali sono i metodi? Chi sono i mediatori? Come agiscono? Fatalmente è dalle indagini di mafia che arrivino le informazioni più aggiornate sulle storture del sistema. Svelano l'esistenza di colletti bianchi, professionisti al servizio di cosche più o meno organizzate che mettono a disposizione informazioni ed esperienza per pilotare il sistema.
A Palermo, nel 2008, era il potente clan dei Madonia a giocare con un misterioso avvocato mai individuato per assicurarsi di rientrare in possesso degli immobili finiti in una procedura fallimentare. Beni per milioni che, riacquistati all'asta, attraverso prestanome sarebbero sfuggiti così alle misure di prevenzione patrimoniale a carico dei padrini.
In Calabria, dove periodicamente, si sono accesi i riflettori sulle aste, a giugno scorso, l'indagine del Ros dei carabinieri, Meta, coordinata dal procuratore Giuseppe Pignatone ha permesso di accertare che intorno alle aste due cosche un tempo rivali, quelle degli Imerti-Condello e quella dei De Stefano-Tegano-Libri, sotto l'egida di Cosimo Alvaro di Sinopoli avevano siglato un patto di non belligeranza in nome degli affari. Compravano come immobiliari capaci di stare sul mercato con una solvibilità immediata. Gestivano il riacquisto per conto degli affiliati ma avevano allargato il giro stimato in cento milioni di euro, proponendosi come veri intermediari. Perno fondamentale era l'avvocato Vitaliano Grillo Brancati: non uno 'ndranghetista, ma un colletto bianco molto utile, "capace di spianare la strada" per le aggiudicazioni. Un professionista, un esponente della zona grigia che "supportava", come ha spiegato il procuratore nazionale Pietro Grasso, le operazioni della criminalità organizzata. Vitaliano Grillo Brancati avrebbe mandato avanti la moglie Anna Maria Tripepi, anche lei avvocato, a fare incetta di immobili. Non solo mafia anche in Calabria. A Vibo Valentia, nel maggio 2010, in cinque sono finiti arrestati dopo la scoperta di un carico di marijuana nel capannone del responsabile delle vendite giudiziarie. Si è ricostruita da lì una combine delle aste soprattutto dei beni mobili. Il resto lo ha spiegato un imprenditore che aveva perso la propria casa a un'asta beffa.
Nella intermediazione pura erano specializzate due famiglie pugliesi, una guidata da Salvatore Padovano di Gallipoli, l'altra dai Coluccia di Galatina, i cui affari sono stati radiografati a novembre 2010 dalla procura di Lecce guidata da Cataldo Motta. Gli emissari dei clan costituivano agenzie di mediazione capaci di restituire i beni agli insolventi, dietro pagamento di una provvigione. L'indagine ha subito una brusca accelerazione per una fuga di notizie che vedeva sospettato un ufficiale dei carabinieri. Ed è stata ritrovata anche un'agenda sulla quale il mediatore alle aste, Giancarlo Carrino di Nardò, aveva annotato tutti i suoi interventi. In una intercettazione il boss gli ricordava: "Noi siamo legati da complicità".
C'è poi l'aspetto del riciclaggio del denaro. Tra cauzione e oneri, per partecipare a un'asta, bisogna disporre di denaro contante: il dieci per cento subito, il saldo dall'aggiudicazione con assegni circolari in un periodo che va dai venti ai sessanta giorni. Tempi troppo stretti se si considerano quelli medi per ottenere un mutuo. All'acquisto si arriva con assegni circolari emessi dagli istituti bancari. E qui c'è un'altra possibile falla: "Il sistema dei controlli - spiega il professionista delle aste - è assolutamente inesistente. A partire dalla provenienza dei soldi che arrivano a costituire il capitale di acquisto. Basta aggirare le norme antiriciclaggio, con la complicità di una mano amica dietro allo sportello, per trasformare il denaro contante di dubbia provenienza in assegni circolari, e trovarsi in mano soldi puliti con i quali comprare all'asta un bene che rientra nel circuito legale. Nessuno va veramente a controllare come si sia costituito quel capitale: se provenga da un mutuo, da risparmi o dalla massiccia immissione di contante ripulito in banca". La lavanderia ha così il bollo del giudice.
L’usura, secondo l’art. 644 c.p., è l’attività di chi si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari. La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari, secondo il calcolo della media dei tassi applicati ai titoli di Stato. A differenza delle vittime della mafia, a cui la legge 44/99 ha riconosciuto a tutti l’indennizzo per i danni subiti e non risarcibili dal responsabile, alle vittime dell’usura si applica una discriminazione ai fini della concessione del mutuo decennale senza interessi, per far fronte alle obbligazioni.
Secondo la legge 108/96 al "Fondo di solidarietà per le vittime dell'usura" istituito presso l'ufficio del Commissario straordinario del Governo per il coordinamento iniziative anti-racket possono accedervi solo soggetti economici.
Il Fondo provvede alla erogazione di mutui senza interesse di durata non superiore al quinquennio a favore di soggetti che esercitano attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o comunque economica, ovvero una libera arte o professione, i quali dichiarino di essere vittime dei delitto di usura e risultino parti offese nel relativo procedimento penale. Il Fondo è surrogato, quanto all'importo dell'interesse e limitatamente a questo, nei diritti della persona offesa verso l'autore del reato.
Pare chiaro che il cittadino comune, vittima dell’usuraio, in quanto costretto da circostanze avverse a rivolgersi a questi per impedimento di accesso al credito da parte delle banche, sia discriminato dalla legge.
La stessa legge 44/99 ha introdotto la possibilità di ottenere la sospensione dei termini esecutivi per 300 giorni e di tre anni per quelli fiscali, sino all'esito dei giudizi penali incardinati a seguito di denunzie delle vittime. La sospensione la concede il giudice procedente, sentito il parere del Prefetto rilasciato entro 30 giorni dalla richiesta.
Anche sulle stesse sospensioni vi era discriminazione, sanata dall’intervento del parere emesso dal Consiglio di Stato il 3 dicembre 2007, in seguito al ricorso straordinario al Presidente della Repubblica avverso il decreto del Commissario Straordinario del Governo Prefetto Lauro.
Oggetto del ricorso fu l’illegittimo orientamento seguito dal Comitato di Governo nel quantificare il danno da usura bancaria ai fini della concessione del mutuo decennale senza interessi previsto dalla L. 44/99 . Difatti pur riconoscendo lo status di usurato bancario l’ufficio Amministrativo sopra menzionato ha ritenuto di dover diversificare e penalizzare la condizione.
Il Consiglio di Stato ha accolto le critiche denunciate e ha riconosciuto che: “… Manca d’altronde, qualsivoglia precetto che legittimi una diversità di trattamento. Né può essere ravvisato nell’ordinamento attraverso una interpretazione contraria al principio di uguaglianza e ragionevolezza che struttura l’intero sistema costituzionale…”
Così argomentando il Consiglio di Stato ha dichiarato che l’atto impugnato è illegittimo e va conseguentemente annullato. Tale parere rappresenta una pietra miliare all’interno delle procedure di erogazione dei fondi e costituisce il modello interpretativo e di indirizzo al quale tutte le Prefetture d’Italia e l’ufficio del Commissario Straordinario di Governo dovranno attenersi.
Nell’intervista rilasciata a “Striscia la Notizia” il 18.12.07, il Commissario Straordinario del Governo, Prefetto Lauro, ha manifestato la volontà di costituirsi parte civile in tutti i procedimenti di usura ed estorsione bancaria.
Per la gente comune l'usura ha un significato del tutto incomprensibile, che rimane tale sino a quando accade di trovarsi nella condizione di ricorrere a un certo e oscuro amico, in apparenza benefattore. Completamente diverse sono invece le circostanze che inducono imprenditori e professionisti a ricorrere al credito alternativo a quello convenzionale. Mentre per il nucleo famigliare il ricorso all'usura avviene solo in circostanze straordinarie, per risolvere problemi che la normale redditività non consente di appianare, per gli imprenditori e i professionisti il meccanismo del ricorso all'usura scatta, quando per una qualsivoglia ragione si ritrovano incagliati verso la banca che gli ha dato credito, quando si accumulano rate insolute di mutuo o vengono revocati i crediti affidati.
In pratica si diviene potenziali vittime di usura a partire dal momento in cui il proprio nominativo viene censito dalla Banca Dati CRIF o dalla Centrale Rischi di Bankitalia o ancora nella Centrale di Allarme Interbancario, anche quando si è incorsi nel semplice caso che un proprio assegno è risultato scoperto a prima presentazione, o sia stato richiamato dal suo presentatore per accordi col debitore. La situazione di affidabilità peggiora poi se l'imprenditore o il professionista sono incorsi in protesti di assegni o cambiali.
In pratica, per il sistema bancario e finanziario del nostro paese, ai cittadini, alle imprese e ai professionisti i cui nomi finiscono nelle predette Banche Dati, indipendentemente dal loro patrimonio e dalle loro capacità reddituali, non viene data alcuna possibilità di appello, poiché sino a quando i loro nomi risultano nella lista nera sono e saranno letteralmente inibiti ad ogni operatività col sistema bancario. Fatto più grave, che, mentre per gli evasori fiscali, per coloro che incorrono in abusi edilizi e per una infinità di reati o condannati a pene detentive fino a tre anni, sono previste sanatorie, condoni e indulti che fanno sparire ogni traccia degli eventi e consentono a questi soggetti piena operatività, per i malcapitati dei protesti la situazione diviene drammatica, poiché non viene loro consentita alcuna possibilità di operare con e tramite banche, neppure volendo operare con mezzi e soldi propri, anche quando sono in grado di dimostrare di avere assolto al pagamento dei titoli finiti in protesto.
Problema per il quale, l'ABI e le banche tutte, si ostinano a negare soluzioni obiettive.
Va considerato che le banche sono gli unici soggetti abilitati dalla legge alla raccolta dei risparmi e al reimpiego con il credito. La situazione non è cambiata neppure quando nell'estate del 2006 è intervenuto il famigerato decreto Bersani n.248/2006 che col suo art.35, comma 12, obbligava gli italiani, a effettuare tutti i pagamenti tramite banca, carte di credito o bancomat, per consentire la tracciabilità e limitava sotto la soglia dei 500 euro ogni pagamento con l'utilizzo di contante.
Secondo il Centro Studi SNARP, in Italia, oltre 6 milioni di cittadini e imprese sono costretti ad operare in modo sommerso, solo perché, in modo del tutto incostituzionale, sono esclusi dalla possibilità di operare attraverso le banche. Un problema, ripetiamo, che vede coinvolti oltre 6 milioni di protestati, in aggiunta agli oltre 15 milioni censiti nella CRIF e nella Centrale Rischi.
Più di 20 milioni di cittadini dunque ai quali è preclusa l'operatività.
Il Consorzio Patti Chiari di emanazione ABI, costituito da circa 150 Banche, ha istituito sì "il conto corrente di base", si dà il caso però, che tutte le volte che lo SNARP ha trasmesso richieste in favore di soggetti per i quali tale tipo di conto sarebbe stato istituito, le banche non hanno mai ritenuto opportuno aprirlo, neppure quando si è fatto prioritariamente dichiarare agli interessati che non avrebbero richiesto il libretto degli assegni, e che avrebbero operato solo con mezzi propri.
Ma veniamo al nocciolo del problema. Con queste premesse e limitazioni, risulta inevitabile che in situazioni di bisogno, chi non può disporre di soluzioni convenzionali sia costretto a ricorrere a soluzioni estreme. E dopo essere finito nelle mani degli usurai, comincia per i malcapitati un periodo più o meno di lunga agonia, in dipendenza della durata del rapporto e soprattutto della dipendenza economica del soggetto sventurato.
Il Ministero dell'Interno anno dopo anno ha fatto costosissime campagne informative sulla legge anti-usura e anti-racket per esortare le vittime dell'usura e del racket a sporgere denuncia per essere protetti dalle istituzioni, ma tutto ciò si scontra con una dura realtà.
Il Prof. Francesco Petrino, presidente nazionale del sindacato anti-usura SNARP, ha avuto modo di istruire e seguire oltre 8 mila denunce, col risultato che, pur in presenza della documentata consistenza di ipotesi di reato, almeno la metà delle stesse, rimaste per anni insabbiate, sono state archiviate per prescrizione dei reati; per circa il 40% delle denunce è stata richiesta l'archiviazione, le cui opposizioni hanno condotto al rinvio a giudizio solo in una decina di casi; e per circa il 10% si sono ottenuti i rinvii a giudizio degli aguzzini con qualche condanna.
Di contro, il 92% delle vittime che hanno denunciato i propri aguzzini non hanno mai ottenuto l'accesso ai mutui di solidarietà, anche quando gli usurai sono stati condannati. Non è andata meglio per coloro che hanno invocato i fondi per la prevenzione, con cui viene garantito l'80% delle somme erogate; poiché gestiti dalle banche, nella maggior parte dei casi vengono concessi solo in favore di soggetti indebitati con le medesime, le quali così recuperano i loro crediti, spingendo gli altri, che hanno sofferenze con soggetti diversi dalle stesse, nelle braccia degli usurai.
Va fatto notare che, la maggior parte delle denunce sono state presentate per il reato di usura bancaria, fronte su cui la magistratura ha quasi sempre mantenuto un atteggiamento di notevole distacco, evidentemente perché considera usura, solo quella praticata da chi non espleta attività bancaria, e non invece l'usura praticata dalle banche, specialmente dopo l'uscita della contestata legge n. 24/2001 di interpretazione autentica della precedente legge n. 108/96, che autorizza il sistema creditizio ancora oggi a percepire interessi alle condizioni stipulate sui contratti antecedenti al 1996, frequentemente a tasso superiore al 40% annuo.
Ma tornando alle vittime, divengono ancor più vittime dopo la presentazione delle denunce: rimangono isolate più di prima, e tenute a debita distanza dalle banche e dagli usurai. Le richieste di accesso al fondo di solidarietà si sono rivelate un autentico fallimento, poiché la maggior parte dei soggetti ammessi, hanno richiesto 100 ed hanno ottenuto delibere per 20, e, per ottenere i 20, hanno dovuto attendere mesi, se non addirittura anni. La lungaggine burocratica è dovuta prima alle Prefetture delegate alla gestione amministrativa delle domande e poi al Comitato Consap, istituito presso il Ministero dell'Interno.
Peggio ancora l'iter per ottenere la sospensione dei termini esecutivi, che in passato hanno consentito il salvataggio di molte gravi situazioni. Difatti dopo la pronuncia della Corte Costituzionale n.457 del 14/12/2005, che ha attribuito al giudice delle esecuzioni il potere di concedere le sospensioni, si è rivelato del tutto inutile l'iter che prevedeva la domanda al Prefetto per l'emissione del decreto che autorizza la sospensione, subordinata però all'acquisizione del parere positivo del Presidente del Tribunale e di quello del pubblico ministero designato all'istruttoria delle denunce, con il risultato, che, anche in presenza di tutti e tre i pareri positivi, i giudici delle esecuzioni si ostinano a rigettare le richieste di sospensione delle esecuzioni e delle scadenze fiscali, dando così impulso a illegittime espropriazioni di interi patrimoni, calpestando ogni diritto che compete alle vittime, che si ritrovano beffate e ingannate. Tutto questo, mentre per la crisi che ha investito l'economia mondiale, nell'ultimo anno è aumentato del 27% l'indebitamento delle famiglie, è cresciuto del 32% il numero dei soggetti costretti a ricorrere agli usurai, ed è paurosamente aumentato il numero dei suicidi per debiti.
Secondo Petrino, presidente nazionale del sindacato anti-usura SNARP, “sembrerebbe esserci un patto federativo fra banche, uffici amministrativi, Prefetture, uffici giudiziari affinché i diritti dei cittadini vengano calpestati”.
Parole durissime che vengono pronunciate con la massima tranquillità, perché nascono da dati di fatto, sottolinea Petrino, docente di Diritto bancario. Una particolare forma mentis induce a pensare all’usura come a un reato commesso da nomadi, pseudo finanziarie, associazioni di falsi samaritani. In realtà “i principali usurai sono le banche”, afferma Petrino. Non è un caso che la legge anti-usura preveda anche l’usura bancaria che viene sanzionata sotto il profilo penale e civilistico.
Dal punto di vista civilistico esiste un articolo secondo cui anche le banche che superano per tasso le soglie stabilite trimestralmente dalla legge incorrono nel reato di usura. Il Consiglio di Stato ha stabilito che quando le banche si macchiano di usura sono sanzionabili penalmente e civilmente con la perdita degli interessi, “mentre la magistratura – attacca Petrino – si ostinava a far passare i tassi bancari ripristinandone il diritto”.
“In teoria la legge anti-usura ha istituito tutele per i cittadini e le imprese che denunciano il fenomeno (famoso lo slogan ‘denunciate l’usura e le estorsioni, noi vi tuteleremo’); nell’arco di dodici anni abbiamo presentato 8 mila denunce, ma nessuno di loro è stato tutelato dalla legge”.
Come se non bastasse “i Comitati di gestione dei fondi anti-usura hanno privilegiato soggetti che non avevano alcun diritto, tanto che sono partite inchieste sull’utilizzo dei fondi, chi li ha concessi, chi ne ha beneficiato; per non parlare poi – continua Petrino – del Fondo di prevenzione del fenomeno usuraio gestito da Confidi attraverso le banche che avevano concesso finanziamenti solo a soggetti che erano scoperti con quella banca. Il risultato? Imprese lasciate sole”.
Per Petrino la realtà è che le “banche si sono dimostrate istituzioni espropriative”. Il presidente nazionale punta il dito anche contro le Prefetture “responsabili di incomprensibili ritardi”.
Le anomalie sono tante, non ultima la sospensiva dei termini di esecuzione in attesa che i responsabili vengano rinviati a giudizio: “Troppe volte i giudici non tengono conto della sospensiva”. In altri casi vengono concessi i 300 giorni, ma l’istruttoria poi non viene conclusa (chissà come mai) e i beni finiscono venduti all’asta. Secondo Petrino “la banca è una società speculativa che eroga il credito dopo aver valutato l’immobile; quando il debitore diventa inadempiente e c’è un rapporto superiore al 60 per cento fra valore immobiliare e debito reale, la banca non può far vendere l’immobile da 100 a 40, ma tutt’al più prenderlo e rimborsare il debitore”.
A ingarbugliare il quadro ci si mette anche il ‘caso Banca d’Italia’: “La Banca d’Italia non è un organo dello Stato in quanto è stata venduta ad alcune banche”, spiega Argo Fedrigo, imprenditore, presidente del Comitato di sovranità monetaria. In pratica “la Banca d’Italia è privata e controllata da due Istituti che fanno capo all’estero: San Paolo Intesa e Capitalia Unicredit, queste ultime due dovrebbero essere controllate e invece controllano la Banca d’Italia; questo significa che la carta moneta non è di proprietà dello Stato, bensì delle banche”.
L’usura bancaria e l’usura comune, comunque indotta dalla banche, è solo un tassello anomalo del sistema creditizio italiano.
Altro tassello anomalo è l’impedimento della portabilità dei mutui da una banca ad un’altra. Tutti gli istituti di credito più importanti del nostro Paese sono stati condannati dall’Antitrust per pratiche commerciali scorrette per non aver applicato la legge sulla portabilità dei mutui (art. 8 della legge n. 40/2007), che non prevede spese a carico del consumatore per trasferire il mutuo a un’altra banca. L’ inchiesta aveva svelato il comportamento scorretto del 95% delle banche italiane che, nonostante il dettato della legge, facevano pagare il trasferimento del mutuo ostacolando la concorrenza e impedendo al cittadino di risparmiare. Chi è stato costretto a pagare le spese richieste dalla banca per trasferire il mutuo con la surrogazione ha diritto a chiederne il rimborso. La condanna dell’Antitrust è la conferma ulteriore che si è trattato di una richiesta illecita.
Altro tassello anomalo è la costituzione di società ad hoc per la gestione dei fallimenti. Le principali banche hanno infatti costituto apposite società denominate "Asteimmobili", nei principali Tribunali (Roma, Milano, Genova, ecc.), con la finalità di chiudere il cerchio quando i tartassati e maltrattati utenti non hanno la possibilità di adempiere alle obbligazioni, specie su mutui e prestiti.
ABI e banche si sono quindi ritrovate ben presto, con personale impiegato nella società costituita “Asteimmobili” a fare lavoro di cancelleria come altri pubblici ufficiali (con la non piccola differenza di non essere entrati per concorso e di non aver dovuto "prestare giuramento di fedeltà" allo Stato) in gangli alquanto delicati come le esecuzioni immobiliari, le procedure fallimentari, gli uffici dei giudici di pace, le corti d'appello sia civili che penali, le stesse procure.
Le precedenti società, per aver offerto un invidiabile vantaggio competitivo imbattibile, ossia la gratuità del servizio offerto, che svolgevano questo delicato lavoro, come Data Service ed Insiel, sono state sostituite dalla Asteimmobili Servizi spa con sede sociale presso l'A.B.I. (via delle Botteghe Oscure 46 di Roma) e come soci un pool di banche, quali Intesa San Paolo S. p. A., SI TE BA S. p. A., UGC Banca (Gruppo Unicredit), ICCREA Holding, Banca Monte Paschi di Siena, Credit Servicing, Banca Sella, Banco di Desio, Banca Carige, Banca Popolare di Verona e Novara, Interhol 2001 s.r.l., Banca del Piemonte, Bipielle S.G.C., Banca Popolare di Milano, Banca Popolare dell'Emilia Romagna, Banca Popolare di Puglia e Basilicata, Banca Popolare di Lajatico, Banca Popolare di Sondrio.
Come mai imprenditori taccagni e vessatori come le banche, dovrebbero offrire prestazioni di servizio gratuite allo Stato?
Per chiudere il cerchio, essendo la Asteimmobili di proprietà dell'Abi, e delle banche,che avrebbero investito 3,5 milioni di euro in questa operazione, con una generosa offerta con la finalità privatistica, come ad es. la trasformazione dei pignoramenti degli immobili (chiesti al 99% dalle stesse banche!) in vendite all'asta; oppure le procedure fallimentari di società (che devono soldi alle banche, altrettanto spesso); l'archiviazione (o no, si potrebbe anche sospettare, visto che non sempre il deposito di un atto processuale di diritto civile prevede rilascio di una ricevuta) degli atti e delle sentenze. Le banche gestiranno questi servizi con molta più efficienza, ma con minore attenzione per l'interesse pubblico, per la terzietà degli atti della pubblica amministrazione, per i diritti dei vessati cittadini sottoposti ad ogni sorta di abuso da parte degli Istituti di credito, alla stessa stregua di un “Dracula” chiamato a gestire la banca del sangue !
Per questo evidente conflitto di interessi tra gli istituti di credito, che avrebbero il dovere di salvaguardare anche il sudato risparmio investito nelle abitazioni per acquistare la prima casa per abitarci, tutelato dalla Costituzione, e la voracità di banche, non aduse a guardare mai le esigenze dei cittadini ed andare incontro a temporanee esigenze per onorare gli impegni, nel caso di specie con l’allungamento non oneroso della durata dei mutui stessi, i Senatori Di Lello, Casson (ex magistrati penali) e Bordon, hanno presentato una interrogazione parlamentare al Governo, mentre l’Adusbef, ha presentato esposti denunce alle Procure di Milano, Roma e Genova.
Il risultato delle anomalie su indicate è che da Nord a Sud, un sodalizio criminale in grado di condizionare l’attività giudiziaria, attraverso la collusione di intranei ai centri di comando della magistratura, sino alla Suprema Corte di Cassazione e al C.S.M., controlla indisturbatamente, da oltre 40 anni, le vendite giudiziarie e i fallimenti, garantendo impunità ai magistrati collusi con banche, finanziarie, usurai, speculatori, partiti e criminalità organizzata.
Era il 1998 quando la legge di riforma dava il via all'ambizioso progetto teso all'ottimizzazione delle tempistiche e della prassi legate alla vendita degli immobili da parte dei Tribunali competenti. In quel periodo il Tribunale di Milano era sommerso da una vera e propria valanga di procedure: 11.000 quelle pendenti, di cui 4.000 in attesa della fissazione della prima udienza, come dire bloccate a causa del mancato deposito dei certificati richiesti (quelli che in gergo tecnico vengono definiti "certificati ipocatastali"). Ed è stata sempre la stessa riforma a dare un "colpo d'acceleratore" all'intero comparto delle procedure esecutive, grazie alla sostituzione del certificato ipocatastale col certificato notarile ed alla sostituzione di termini più brevi per il deposito, pena l'estinzione della procedura stessa. Ma l'entrata in vigore di una normativa non sempre coincide con l'effettiva sua applicazione. Un impulso concreto, perciò, alla prassi delle esecuzioni immobiliari si è registrato grazie al lavoro sinergico promosso da un pool di magistrati di Milano unitamente all'Ordine degli avvocati ed al Consiglio notarile.
Obiettivo: coniugare garantismo ed efficienza nel pieno rispetto delle disposizioni vigenti in materia. Da qui la prassi inaugurata dal Tribunale di Milano in seno alle procedure immobiliari rappresentata dalla delega al notaio. Almeno per tutti quegli immobili di valore superiore ai 50.000 euro. Una formula, questa, che ha rappresentato un vero e proprio acceleratore. Attraverso la delega, infatti, ogni giudice riesce oggi, in ogni singola udienza, a rilasciare dalle 15 alle 20 deleghe. Potremmo dire che, considerati i tempi medi necessari all'espletamento della intera fase notarile, che vanno dai 6 ai 18 mesi, la procedura avviata dal Tribunale di Milano può, a pieno regime, garantire l'espletamento di una esecuzione immobiliare ordinaria nel giro di un anno e mezzo/due, un termine che può dirsi senza dubbio più ragionevole ed accettabile se confrontato alla media europea.
Non si può, comunque, dimenticare che il percorso dei giudici del Tribunale di Milano è stato particolarmente difficile, soprattutto nei confronti di un problema estremamente rilevante quale quello legato alla turbativa d'asta, vero e proprio tallone d' Achille per il sistema delle esecuzioni.
E' proprio su questo punto che i giudici sono intervenuti in maniera decisa denunciando alla Procura il fenomeno. I giornali allora parlarono di un "cartello" di speculatori per le “aste truccate”. Una specie di organizzazione in grado di condizione le gare per l'acquisto degli immobili pignorati. Come dire, nessuno poteva partecipare ad un'asta giudiziaria senza pagare una "commissione" che andava dal 10 al 15 percento del valore dell'immobile che intendeva acquistare. In caso contrario il "cartello" soprannominato allora "La compagnia della morte" avrebbe fatto lievitare al prezzo.
In passato, a partire dall’esperienza pilota del Tribunale di Milano, stampa ed istituzioni hanno dato grande risalto alla pretesa "innovazione" del sistema delle vendite giudiziarie, dedicando intere pagine, anche di pubblicità a pagamento, sui quotidiani nazionali, facendoci credere che con gli otto arresti di avvocati e pubblici funzionari della c.d. "compagnia della morte", si sarebbe posto fine al cartello di speculatori, in grado di condizionare le gare d’asta per l'acquisto degli immobili pignorati.
Ci hanno spiegato e confermato che per svariati anni una banda di "professionisti" ha potuto agire impunita, scoraggiando la partecipazione alle aste del pubblico, che veniva intimidito e minacciato, imponendo il pagamento di un "pizzo" pari al 10-15% del valore dell'immobile pignorato e pilotando l'assegnazione su società immobiliari vicine o su professionisti, soggetti privati e prestanome, i cui interessi spesso sono risultati riferibili agli stessi magistrati giudicanti, come nei tanti casi da noi vanamente denunciati.
Lo stesso dicasi per quanto attiene l'ambito delle procedure fallimentari, controllate da un vero e proprio racket di professionisti delle estorsioni, che con il caso del maxi-ammanco negli uffici giudiziari del Tribunale di Milano, da cui sono stati sottratti in 10 anni da una cinquantina di fallimenti, circa 35 milioni di euro, mietendo oltre 7000 vittime, ha messo a nudo una ultradecennale capacità di delinquere interna agli uffici istituzionali, in grado di resistere ad ogni denuncia-querela, forma di controllo ed ispezione ministeriale. Fatti per i quali si è cercato, anche in questo caso, di farci credere che tutto sarebbe avvenuto all'insaputa dei magistrati, dei vertici del Tribunale di Milano e degli organismi di controllo preposti (CSM, Ministero di Giustizia, Procura di Brescia, Procura Nazionale Antimafia), i quali, invero, seppure edotti di tutto, dagli anni ‘80, hanno sistematicamente insabbiato anche le stesse segnalazioni di magistrati onesti, come la dr.ssa Gandolfi, occultando solo negli ultimi anni svariate decine di migliaia di esposti a carico di avvocati, magistrati e curatori fallimentari, nei cui confronti sono rimasti del tutto inerti, giungendo, persino, a tollerare la dolosa elusione dell’obbligo di registrazione delle denunce nell’apposito Registro delle notizie di reato, tassativamente previsto dall’art. 335 c. 1° c.p.p. (26.000 procedimenti insabbiati e occultati in soffitta dalla sola Procura di Brescia).
Un fenomeno che caratterizza la vita giudiziaria in ogni parte del Paese, mettendo in evidenza, come la “mafia giudiziaria” non sia una questione legata alle sole zone del sud a forte concentrazione criminale, ma una condizione connaturata all’esercizio stesso della giurisdizione e al modo di gestire le funzioni giurisdizionali - a tutela di interessi particolaristici, corporativi e lobbistici - ovvero al modo di intendere le stesse finalità del diritto, secondo una visione deviata rispetto ai principi dello stato di diritto, ormai storicamente entrata a fare parte della cultura dominante e delle perverse logiche di amministrazione della cosa pubblica, ad esclusivo appannaggio di partiti e gruppi affaristici trasversali, che della giustizia e del suo capillare controllo hanno fatto strumento di arricchimento occulto e fonte di finanziamento illecito, in base ad un “codice non scritto”, secondo cui, indipendentemente dalle latitudini, vince chi ha le giuste aderenze ed entra a fare parte del “giro” dei comitati d’affari.
Un “codice”, imposto dalla politica e dalla cultura dominante che accomuna il nord al sud del Paese e fa di quella che possiamo con giusta causa definire “mafia giudiziaria”, un fenomeno di elevatissima pericolosità sociale e allarme per la stabilità democratica e la sicurezza nazionale, riferibile alle logiche dominanti di gestione del potere e del finanziamento illecito dei partiti, che dalla malagiustizia si alimentano, attingendo ingenti risorse, consenso e protezione, grazie ai legami con la massoneria e la criminalità organizzata e mafiosa.
Non crediate, dunque, di essere gli unici ad avere subito un'ingiustizia dallo svolgimento delle aste giudiziarie o da anomale procedure fallimentari. Si tratta di un sistema criminale istituzionalizzato, da nord a sud del Paese, voluto e alimentato dagli istituti bancari e dalle mafie locali. Un malaffare legalizzato dallo Stato, che tende a mostrare l'efficienza dei Tribunali, nascondendo ogni coinvolgimento di magistrati e infedeli funzionari.
Quattro anni di carcere e cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Da “La Repubblica”. È la condanna emessa dal tribunale di Perugia nei confronti di Pierluigi Baccarini, giudice della sezione Fallimentare del tribunale della capitale accusato di aver "pilotato" diversi procedimenti fallimentari trai quali quello della società che amministrava il tesoro immobiliare della Democrazia Cristiana. La sentenza è stata firmata dal giudice Beatrice Cristiani che ha condannato anche a 2 anni il commercialista Luciano Quadrini in relazione al crac appunto dell' Immobiliare Europa. Sotto processo oltre a Pierluigi Baccarini e Luciano Quadrini era finito anche Ercole Pugliese ( condannato a 3 anni), arrestati alla fine del 2004 e poi tornati in libertà. Tra gli imputati anche la moglie del magistrato, Luisa Fasoli (condannata a 2 anni e 4 mesi) e l'avvocato Oreste Fasano che è stato assolto. L' inchiesta, per corruzione anche in atti giudiziari è stata coordinata dai pm Sergio Sottani, Roberto Rossi e Andrea Claudiani. Secondo l' accusa il giudice Baccarini per cinque anni, dal ' 99 al 2004, il giudice avrebbe «ricevuto ingenti somme di denaro» per agevolare le procedure assegnate con «artifici» al suo ufficio. Nella distribuzione delle consulenze avrebbe «favorito costantemente» Pugliese e Quadrini e a quest' ultimo avrebbe assicurato una gestione del crack dell' Immobiliare Europa, ex immobili Dc, «atta a garantire gli interessi» curati dal commercialista. L' inchiesta era scattata a Roma dalle indagini dei pm Giuseppe Cascini e Stefano Pesci che nel 2005 avevano scoperto una sorta di "comitato d' affari" che gestiva l'attività fallimentari degli uffici di viale Giulio Cesare.
Dalle cronache dei giornali si apprende che una ispezione amministrativa a Lecce «negli uffici interessati dalle esecuzioni giudiziarie», in particolare a proposito dell’espletamento delle aste giudiziarie, è stata annunciata dal sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano in conseguenza di quanto emerso dopo l’uccisione di un salentino, Giorgio Romano, che avrebbe fatto affari frequentando appunto le aste giudiziarie. Mantovano lo ha spiegato, parlando a Lecce con i giornalisti. Romano è stato ucciso – a quanto è stato accertato poche ore dopo l’omicidio – da un uomo che, per gravi difficoltà economiche, aveva perso la sua casa e la sua macelleria e sperava di rientrarne in possesso tramite un accordo proprio con Romano, abituale frequentatore di aste giudiziarie.
“Un procedimento disciplinare per tutti gli avvocati coinvolti nella vicenda delle aste giudiziarie sottoposte all’indagine della Procura”. È quanto ha annunciato il presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Lecce Luigi Rella. “Ancora non c’è nulla di certo – ha dichiarato il presidente – ma non appena riceveremo notizie ufficiali da parte della Magistratura, avvieremo un procedimento disciplinare nei confronti di chi è coinvolto”. Nel giorno in cui la categoria degli avvocati fa sentire la sua voce nell’ambito dell’omicidio Romano, che ha visto prendere di mira gli avvocati per lo svolgimento non trasparente di alcune aste giudiziarie, il presidente Rella avverte: “Abbiamo sentito l’esigenza di intervenire in questa vicenda che si è poi dilatata. Se ci sono avvocati coinvolti non si può genericamente dire che lo sia tutta la categoria”. Rella continua dicendo che il fenomeno di cui si è parlato in queste settimane riguardante le aste sospette, esiste indubbiamente e conferma la volontà, da parte dei giudici, di eliminare tutte quelle influenze negative che ci sono sulle aste. “A Lecce la giustizia è al collasso – conclude il presidente – ma non ancora al fallimento”.
Su “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 novembre 2011 Giovanni Longo racconta la Fallimentopoli barese. C’è voluto un camion per trasportare tutte le carte da Bari a Lecce. E quando i faldoni sono giunti a destinazione, pare che nella stanza del procuratore di Lecce Cataldo Motta non ci fosse spazio sufficiente. L’inchiesta della Procura di Bari sulle procedure fallimentari si allarga e trasloca: oltre a curatori, consulenti, professionisti, bancari e cancellieri, nel mirino del nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza sono finiti anche magistrati in servizio presso il Tribunale del capoluogo pugliese. E dunque il Pm ha passato la mano.
I primi particolari dell’inchiesta sono emersi nella primavera del 2011, con numerose perquisizioni e l’arresto dell’avvocato barese M. V.. Dopo che l’indagine ha toccato alcuni giudici le carte sono passate a Lecce, ufficio competente a indagare sui magistrati in servizio nel distretto di Corte d’Appello di Bari. Quattro i filoni d’indagine. In tre sarebbero stati individuati comportamenti penalmente rilevanti da parte di toghe baresi, in merito, sembra, alle modalità con cui per anni sarebbero stati gestiti i mandati di pagamento delle curatele. È il tema toccato in due informative che gli investigatori hanno depositato a fine settembre e fine ottobre ipotizzando, sembra, anche la corruzione in atti giudiziari. Che le indagini potessero allargarsi lo si era intuito leggendo la richiesta di misura cautelare nei confronti di V., indagato per falso, peculato, truffa e omesso versamento delle imposte. «Occorre capire - scriveva tra l’altro il Pm barese Ciro Angelillis, ormai ex titolare di tutti i fascicoli - se e come sia stato possibile operare nel modo contestato senza che altri soggetti (cancellieri, creditori, giudici, bancari, ecc.) operanti all’interno di uffici in vario modo al controllo se non proprio alla gestione congiunta (col curatore) del patrimonio fallimentare se ne siano avveduti; occorre capire se vi siano state connivenze o, addirittura, forme di concorrenza nei reati commessi».
L’indagine era partita dalla presunta falsificazione dei mandati di pagamento per oltre sette milioni di euro che sarebbe stata commessa dall’avvocato G. V., padre di M., curatore fallimentare da almeno un ventennio. Ma ora l’inchiesta si è allargata: in uno solo dei quattro filoni passati a Lecce sarebbero analizzate otto procedure. Più recente invece il fascicolo su M. V., indagato nella veste di curatore della procedura fallimentare «Nova Tessile Srl». I fatti contestati al giovane legale - che ha assistito Alessandro Mannarini, uno dei tre «moschettieri» del caso Tarantini - si riferiscono agli anni 2000-2008 e riguardano presunti falsi mandati di pagamento e l’appropriazione di 1,6 milioni dai conti del fallimento. Soldi che il professionista sta restituendo alla nuova curatela.
Ora tocca a Lecce iniziare la fase degli accertamenti su alcuni magistrati baresi.
"Basta fallimenti truccati promossi dal sistema di potere, che distruggono aziende sane. Basta caste professionali, che gestiscono con arbitrio la svendita dei beni per arricchirsi alle spalle dell’indifeso cittadino imprenditore. Da anni denuncio al mondo l’anomalia dei fallimenti, su segnalazione dei miei associati locali, spesso vittime di racket ed usura e rappresentanti di comitati territoriali. Lo denuncio pubblicamente da Presidente nazionale di una associazione antimafia riconosciuta dal Ministero degli Interni. Il fenomeno copre tutta la penisola, ma le note stampa vengono ignorate e le mie denunce penali vengono insabbiate. Per il sistema devi subire e tacere”.
Il dr Antonio Giangrande nella sua inchiesta elenca una serie di casi eclatanti.
Esemplare è il fallimento della Federconsorzi. Caposaldo dello scandalo, la liquidazione di un ente che possedeva beni immobili e mobili valutabili oltre quattordicimila miliardi di lire per ripagare debiti di duemila miliardi. L’enormità della differenza avrebbe costituito la ragione di due processi, uno aperto a Perugia uno a Roma. La singolarità dello scandalo è costituita dall’assoluto silenzio della grande stampa, che ha ignorato entrambi i processi, favorendo, palesemente, chi ne disponeva l’insabbiamento.
E che dire del caso Cirio. Ci furono accertamenti su presunte irregolarità avvenute nella sezione fallimentare del Tribunale di Roma, che hanno visto coinvolti giudici accusati di aver “pilotato” alcuni fallimenti e che vede una procedura di trasferimento d’ ufficio per incompatibilità, avviata nei confronti di un giudice arrestato per corruzione in atti giudiziari.
E che dire delle aste truccate in Lombardia. Al Tribunale di Milano i magistrati hanno denunciato una loro collega: tentata concussione e abuso d'ufficio nelle nomine dei consulenti, al fine di suddividerne i compensi. A Brescia si è archiviato un procedimento penale per usura, pur essendo stato accertato dal perito della Procura un tasso applicato del 446% annuo.
E che dire dell’intrigo che lega il Piemonte e la Toscana. Un Giudice condannato per tangenti per il fallimento Aiazzone e legato con un esponente della P2 in altri processi in Toscana. All’indomani di una udienza a Prato contro di questo, il suo difensore, noto avvocato e professore milanese, fu trovato morto a causa di uno strano suicidio. Nell’ambito di quei processi si denunciano casi di violazione del diritto di difesa. Sempre in Toscana, si chiede il processo ad un giudice: al magistrato vengono contestati corruzione, concussione, peculato, falso, abuso di ufficio e concorso in bancarotta.
Anche in Emilia Romagna si denunciano casi di lesione del diritto di difesa e del contraddittorio a danno dei falliti.
Nelle Marche l'inchiesta sul crack delle aziende dell'imprenditore sambenedettese ha coinvolto ben 18 personaggi. Fra essi numerosi magistrati, avvocati, curatori fallimentari e dirigenti di banca.
In Abruzzo, l’ex gip teramano, poi giudice a Giulianova e oggi magistrato di Corte d’Appello a L’Aquila e l’attuale presidente del Tribunale di Teramo sono stati coinvolti in un’inchiesta sulle vendite giudiziarie immobiliari partita da un esposto presentato da un cancelliere.
A Lecce, per la prima volta in Europa, è stato dichiarato il fallimento del creditore su richiesta del debitore. L’imprenditore è stato sbattuto fuori di casa, nonostante sia stato assolto dai reati di truffa e falso denunciati dal direttore generale di un noto istituto di credito spacciatosi per suo creditore, mentre era, in realtà debitore dell’imprenditore di cui ha provocato il fallimento. Una vittima spara e uccide il suo aguzzino: solo allora danno il via alle indagini, rimaste da tempo insabbiate.
Ciliegina sulla torta è il caso Palermo e Catania. A Palermo per il fallimento con il trucco, tre giudici rischiano il processo. A denunciare le illegalità un comitato antiracket ed antiusura. La competenza è passata alla Procura di Reggio Calabria. Nei suoi uffici è scoppiato lo scandalo “cimici”. A Catania, con atto ispettivo al Ministro della Giustizia n. 4-29179, l'interrogante On. Angela Napoli, ha denunziato la triplice reciprocità d'indagine tra le procure di Messina, Reggio Calabria e Catania con chiari e vicendevoli condizionamenti su una denuncia di un imprenditore dichiarato, ingiustamente, fallito.
Il sistema lobbistico di potere delle banche usufruisce di altri favoritismi: lo scandaloso meccanismo delle cartolarizzazioni che non ha risparmiato le casse dello Stato, la piccola e media impresa e i cittadini.
E’ doveroso spiegare in che cosa consiste di fatto la cartolarizzazione e quali sono le ragioni per cui la definisco, la più grande truffa organizzata dal sistema bancario in danno degli italiani.
Nel 1999, quando alla guida del governo italiano in barba a Prodi si era insediato D’Alema, il quale all’insegna del partito della coalizione della solidarietà ebbe a propinare agli italiani il grande evento rappresentato dalla promulgazione della legge n. 130/99, che soltanto gli esperti non allineati compresero subito essere una legge istituita per salvare le banche. Difatti di li a poco sono esplose le tre principali vicende cui si allude, conseguenti al mancato rimborso in misura adeguata delle obbligazioni emesse dallo Stato argentino, nonché da società riconducibili al gruppo Cirio e al gruppo Parmalat, titoli di cui le banche italiane hanno infestato i nostri poveri risparmiatori allettandoli con prospettive di lauti facili guadagni, per la sola finalità di scaricare quelle che si sarebbero presto rivelate perdite sulla pelle della povera gente. Va ricordato che in Italia sono stati sottoscritti circa 12 miliardi di euro di obbligazioni argentine, 1 miliardo di obbligazioni Cirio e 4,8 miliardi di obbligazioni Parmalat. Nel complesso si tratta dunque di quasi 18 miliardi di euro, ossia l’equivalente di tre finanziarie, che in massima parte si sono tradotti in consistenti perdite per varie centinaia di migliaia di investitori. E non sono stati gli unici casi purtroppo.
«Non è con le suggestioni» o «con il vibrato richiamo enunciato dal pm Francesco Greco» ai «tremendi guasti della finanza 'tossica' che si ricostruiscono i reati nelle aule di tribunale», qui «non si tratta di un convegno ma di accertamento penale»: e «l’enfasi » dei pm, «esibita» per sostenere «una sorta di aggiotaggio immanente» (tipo «la vicenda Parmalat è talmente grave, i fatti così macroscopici che qui tutti sono responsabili di tutto... »), avrebbe meritato «impegno degno di miglior causa» verso «ben altri responsabili certi del default, usciti» invece «per strategia inquirente con pene irrisorie» in patteggiamenti «già oggetto di indulto».
Trecento pagine di motivazione non argomentano solo la condanna a 10 anni di Calisto Tanzi per aggiotaggio e le molte assoluzioni decise invece il 18 dicembre 2008 per amministratori di Parmalat e funzionari di Bank of America: i giudici Luisa Ponti (processo Sme), Giuseppe Gennari (inchiesta Telecom) e Silvia Baldi vi formulano anche inedite critiche all’«errore di fondo» dei pm «i cui effetti deleteri hanno attraversato tutto il processo»; alla Consob «priva di curiosità» sui debiti Parmalat; e alle «scarse (a essere benevoli) capacità mnemoniche» del testimone Enrico Bondi, commissario Parmalat. Il Tribunale esprime «notevole imbarazzo» per un’accusa che «soffre di quei medesimi gravi difetti già segnalati dal Gip che respinse la richiesta di giudizio immediato (Piffer nel 2004,)». «Non emendati» dai pm. Ad esempio, Bank of America (BofA) o i consiglieri non esecutivi di Parmalat «per quale ragione avrebbero dovuto scandalizzarsi», se nel 2003 «Consob con poteri ben più ampi al termine di un’accurata attività ispettiva non solo non contestava alcun addebito, ma attestava l’attendibilità dei saldi contabili? Sia chiaro, questa domanda non vuole suonare come una critica alla Consob», tanto più che «i suoi accertamenti sono stati ostacolati in ogni modo da Tanzi », e «poi vale sempre il principio che meglio tardi che mai».
Ma «neppure si può alzare il dito contro» la banca BofA «pretendendo, come sostiene la consulente del pm, che dalla mera lettura dei bilanci si scoprisse l’arcano mistero celato dietro le scritture Parmalat». Altrimenti bisognerebbe ripensare alle «curiosità che Consob non aveva nutrito in precedenza pur visionando i bilanci»: su Epicurum, l’asserito fondo d’investimenti da 7 miliardi di dollari e in realtà inesistente, «neppure Consob ha consultato Internet e non si è resa conto che doveva essere falso perché sarebbe stato, pur sconosciuto, uno dei dieci più consistenti al mondo». E Bondi? «Imposto — ritiene di scrivere il Tribunale — come sempre e come in altre note vicende italiane da Mediobanca, neanche a lui, che pure conosceva almeno superficialmente i conti Parmalat al momento di accettare l’incarico, è parso così sospetto il rapporto tra indebitamento e liquidità, altrimenti non si sarebbe adoperato così apertamente» per provare a pagare il bond del dicembre 2003, «operazione che ha indotto più di un investitore a tornare sul titolo, convinto che il gruppo si sarebbe salvato».
Il Tribunale, poi, «avrebbe avuto interesse a conoscere» anche «il contenuto degli accordi riservati» tra Bondi e il capo (Lagro) del team di suoi consulenti PwC, perché, «se i compensi fossero legati al successo delle iniziative giudiziarie intraprese da Bondi in base al lavoro di verifica del team, ciò non potrebbe non avere una ricaduta sulla valutazione del teste Lagro, che tanto più guadagnerebbe quanto più sostenesse tesi funzionali al commissario». E la tesi di Tanzi, io vittima delle banche voraci? «Se il Collegio non esclude che alcuni istituti possano aver lucrato illecitamente dal rapporto con Parmalat, non per questo il ruolo di Tanzi non può essere ridimensionato, visto che il 'sostegno' bancario è servito a mantenere un sistema di cui era ideatore e primo avvantaggiato». Delusi dalla sentenza erano stati i 42mila risparmiatori rinviati dai giudici penali a una futura quantificazione dei danni in sede civile. Nel rifiutare il ricatto morale di «insostenibili generalizzazioni in nome della generica tutela del risparmiatore o della 'enormità' della vicenda Parmalat», i giudici rivendicano l’impietosa «verità: accertare il nesso causale tra condotta e danno avrebbe richiesto un’istruttoria su ciascuna delle 42mila parti civili che, va detto senza infingimenti, era impossibile da svolgere», pena «tempi intollerabili e sicura prescrizione». Se mai, proprio questo fallimento «dovrebbe fare riflettere sull’idoneità stessa del processo penale a fornire adeguato strumento di ristoro in caso di violazioni di massa che interessano migliaia di persone».
Ma torniamo alla sindrome della cartolarizzazione. Le banche italiane nel 1999, tirando le somme del contenzioso maturato dopo la crisi del 1992, si sono accorte che avevano crediti ipotecari con difficili probabilità di recupero per parecchie migliaia di miliardi, oltre a decine di migliaia di miliardi di crediti chirografi. Avendo i rappresentanti del sistema bancario mantenuto sempre buoni rapporti con i sinistri “governi della solidarietà”, sin da quando l’ex governatore Carli è stato ministro del tesoro, Ciampi, presidente della Repubblica, Dini e Prodi presidenti del Consiglio, hanno caldeggiato al suo successore una legge che permettesse lo sgravio dei bilanci delle partite difficili e l’abbattimento dell’importo dei crediti.
Col bene placido dell’allora presidente della Repubblica, è stata approvata una legge tutta italiana per la cartolarizzazione dei crediti, concepita per permettere alle banche una evasione legalizzata. Da quel momento si evince che nei soli primi due anni, 2000-2001, si è concretizzata in un buco di oltre 90.000 miliardi di lire per i conti dello Stato, danno ricaduto poi sui contribuenti.
Il 30 aprile 1999, con la legge n.130 intitolata “disposizioni per la cartolarizzazione dei crediti”, il governo presieduto da Massimo D’Alema, proseguendo nel suo progetto di sostegno alle povere banche italiane, dopo il decreto salva anatocismo del 1998, si è sentito in dovere di concedere alle banche un ulteriore strumento idoneo a distruggere la media e piccola imprenditoria del nostro paese, accattivandosi la riconoscenza del medioevale sistema bancario italiano.
Non appena questa legge è stata pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, le banche più furbe, sempre pronte all’arrembaggio, avevano già costituito delle banali s.r.l. con capitale di 20 milioni di lire, ovviamente sottoscritto da esse stesse. S.r.l. alle quali hanno venduto crediti miliardari in cambio di obbligazioni (derivati - hedge found) di durata anche ventennale. Ma la vera astuzia degli scaltri manager delle grandi banche è consistita nel vendere in blocco (a se stesse), in cambio della promessa di pagamento del 40% del loro valore iscritto a bilancio, i crediti assistiti da garanzie ipotecarie, con perdite dichiarate del 60%. A questo si aggiungano anche i crediti chirografi per svariate centinaia di miliardi, svenduti a se stessi al 10% del loro valore a bilancio, partite per le quali le banche hanno dichiarato perdite del 90%.
Così che per conseguenza del metodo legalizzato delle elusioni fiscali e delle compensazioni per le presunte perdite subite a far data dall’anno 1999, le pseudo istituzioni creditizie, si sono sottratte al pagamento di molte migliaia di miliardi di vecchie lire di tributi, pari all’equivalente delle perdite multimiliardarie derivanti dalle cartolarizzazioni alle loro società controllate.
Ma non è tutto qui, le cause e gli effetti della cartolarizzazione derivante dalla legge D’Alema, si sono rivelati devastanti non solo per i conti dello Stato, ma anche per i debitori del sistema bancario, i quali si sono ritrovati a fare i conti con una nuova forma di usura e di estorsioni, attuata delle società di recupero crediti e delle immobiliari, in prevalenza di emanazione bancaria.
Veniamo al nocciolo del problema. Cartolarizzazione, significa “cessione dei propri crediti” ad altra azienda finanziaria, la quale, a fronte di posizioni creditorie ipotecarie contenziose paga con obbligazioni di durata anche ventennale, in media il 40% del valore dichiarato dalla banca venditrice dei crediti.
Così stando le cose, si è portati subito a pensare che la povera banca che si trova costretta a cedere i sui crediti, per esempio di un miliardo di euro, per effetto della cessione, incassa in 5/10/20 anni soltanto 400 milioni e perde di fatto l’importo di ben 600 milioni. Anche se i dati contabili portano in questa direzione, il risultato reale è ben diverso, poiché con l’operazione di cartolarizzazione, la banca venditrice, anziché perdere il 60%, in realtà realizza un duplice magnifico affare. Analizziamo insieme come e perché.
In dipendenza della cessione del credito, sul bilancio di esercizio, la banca consegue nello stesso anno dell’avvenuta cessione, l’immediato pareggio contabile dell’intero ammontare del credito ceduto. Il pareggio è costituito in parte dal controvalore incamerato con la percentuale pattuita per la cessione ed in parte per l’elusione fiscale conseguente alla perdita patrimoniale derivata dalla cessione del credito.
La prima «truffa» deriva dal fatto che per la perdita registrata, la Banca è esonerata dal versamento delle imposte dovute per pari ammontare delle presunte perdite dichiarate in bilancio.
La seconda operazione consiste nel fatto che la banca, per i medesimi crediti ceduti, con la formula della cartolarizzazione al momento della cessione, aveva già praticamente ammortizzato ognuno dei crediti vantati, poiché aveva già conseguito il beneficio degli ammortamenti attraverso il dispositivo degli accantonamenti annuali al fondo di svalutazione crediti e al fondo di rischio.
Questo graverà per il 50% circa sul debitore reale e per l’altro 50% sugli ignari cittadini contribuenti, costretti a pagare quelle tasse che gli istituti di credito sistematicamente eludono. Le operazioni di cartolarizzazione a partire dal 1999 sono state attuate dalle maggiori banche nazionali, per un ammontare stimato di oltre 300 miliardi di euro, pari a circa 580.000 miliardi di lire, con elusione fiscale derivata che ha aperto una voragine nei conti pubblici di almeno 150 miliardi di euro, pari a 290.000 milioni di lire.
La realtà che emerge è che le banche col meccanismo della creazione di società costituite, alle quali conferiscono mandato per la gestione dei crediti, fanno la parte del leone nei confronti degli sprovveduti cittadini e titolari di imprese, i quali si ritrovano di fronte ad autentici automi che discutono solo di rapporto tra credito preteso – benché infarcito di mostruosi interessi – e valore degli immobili in espropriazione, rapporto logico tra credito erogato e somme già rimborsate.
La conseguenza derivata è la assoluta impossibilità dei debitori a trovare soluzioni, se non quella di ricorrere al credito usuraio, per chi riesce a ottenerlo. In tale situazione i malcapitati delle cartolarizzazioni, vengono sottoposti ad una autentica aggressione psicologica e costretti a vivere in uno stato di totale insicurezza per l’imminenza della perdita della casa e per la triste sorte a cui si ritroverà esposto il proprio nucleo famigliare. Lo stato di stress emotivo–psico-fisico, in una gran percentuale di soggetti potrebbe portare alla graduale perdita delle difese immunitarie, e di conseguenza a gravissime patologie cardiache e tumorali senza scampo, come purtroppo è accaduto in moltissimi casi descritti sul dossier SNARP.
La drammatica situazione, è ignorata dal governo, oltre che dalla magistratura penale e tributaria.
Anzi, dopo il vertice di Parigi del 12 ottobre 2008 l'Esecutivo completa gli strumenti messi in campo con il decreto 9 ottobre 2008 n. 155 per far fronte alla crisi dei mercati finanziari.
Il nuovo decreto legge (13 ottobre 2008 n. 157, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 13 ottobre 2008 n. 240) introduce alcune misure per riattivare il funzionamento del mercato di prestiti interbancari. Le soluzioni adottate, attivabili fino al 31 dicembre 2009, vogliono favorire la liquidità, la capacità di finanziamento e la solvibilità delle banche con lo scopo di garantire il flusso di finanziamento all'economia reale.
Insomma, a garantire le Banche in sofferenza ci pensa lo Stato, ossia i cittadini vessati dalle stesse banche.
La crisi mondiale delle banche e del mondo della finanza ha scatenato una miriade incontrollata di opinioni. Sono spuntati opinionisti economici ovunque, tutti pronti a condannare il libero mercato indicandolo come la causa principale del finimondo finanziario a cui stiamo assistendo. Credere nel libero mercato, significa credere nella libertà dell’uomo di agire e a volte anche di sbagliare. Crederci non significa in ogni modo che chi sbaglia non debba pagare le conseguenze dei propri errori.
Il “diritto” o il rischio di fallire non deve rimanere appannaggio di pochi ma è il freno che regola il libero mercato che, se tolto o eluso, può provocare molti sconquassi.
Dove sta scritto che le banche non possano fallire? Dove sta scritto che non è giusto che una banca, grande o piccola che sia, finisca con dichiarare fallimento? Certo, le ripercussioni per il crollo di un grande istituto sono ingenti, con migliaia di posti di lavoro persi, piccoli risparmiatori coinvolti, azionisti che vedrebbero trasformarsi in carta straccia i loro investimenti (come del resto anche senza il fallimento dichiarato lo sono già). Lo spauracchio del fallimento, conseguenza logica di cattiva gestione, di perdita della clientela, di spese che superano le entrate, di mancanza di liquidità, è il vero regolatore del libero mercato. Crudele che sia, a volte cinico ma garanzia che richiama gli operatori alle proprie responsabilità.
D'altronde lo stesso metodo del fallimento è adottato per il clienti inadempienti delle stesse banche.
Allora, perché si chiede il fallimento delle imprese e viceversa si salvano le banche??
Oggi, nella stragrande maggioranza dei casi gli istituti bancari raccolgono i soldi dei risparmiatori e li investono in attività di carattere finanziario. Direttamente. Per le grandi banche, ad esempio, oltre il 50% dei loro ricavi viene da questi strumenti finanziari. In questo modo, le banche da anni hanno perso il ruolo di intermediario del credito e stanno svolgendo un altro mestiere. Dopo i casi di Cirio e Parmalat, da allora centinaia di testimonianze di dipendenti del settore bancario raccontano come prodotti ad alto rischio siano stati venduti a massaie, pensionati e a chi ci metteva tutti i risparmi. Se all'inizio le banche hanno teso solo a massimizzare gli interessi degli azionisti, con profitti davvero notevoli anche negli ultimi anni, di recente hanno usato questo procedimento anche per scaricarsi delle insolvenze, sui clienti. E adesso i tassi interbancari sono alle stelle, le banche non si fidano più di prestarsi soldi tra loro.
Le banche non si prestano tra loro denaro perché hanno una crisi di liquidità e sono preoccupate di non essere in grado di soddisfare le eventuali richieste di rimborso che potrebbero arrivar loro dai risparmiatori. E poi c'è il problema enorme della montagna di titoli spazzatura dentro le loro tesorerie. Di fatto i bilanci dell'intero sistema globale sono falsati. D'altronde la massa di carta finanziaria che gira è 25 volte l'economia reale.
La distanza tra economia finanziaria e reale non c'è più.
Alla base di questa crisi vi è quindi il mancato ritorno di denaro alle banche che l’hanno prestato, ma che hanno agito come se quel denaro fosse comunque immediatamente disponibile per altre operazioni finanziarie. Vi è quindi un enorme mercato bancario parallelo, fatto di debiti non coperti.
Ed è su questo mercato parallelo, da cui non c'è praticamente nulla da recuperare, che i governi cercano di intervenire cercando di mettere in atto provvedimenti volti a sgonfiare la bolla prima che esploda: trasferire masse di denaro fresco dalle casse dello Stato alle casse delle banche ed elargire ulteriore denaro alle imprese che non saranno in grado di ottenere finanziamenti attraverso i canali del credito. Nessuna operazione di ingegneria finanziaria, solo un gigantesco passaggio di risorse dal pubblico al privato in nome della salvezza del sistema economico e finanziario, con conseguenti lacrime e dolori per i lavoratori e i pensionati.
Non solo le banche fanno ciò che vogliono in economia, ma “le banche rappresentano la rete più estesa della connivenza con gli interessi finanziari della mafia. I soldi vengono ripuliti lì”. Ne è convinto Francesco Forgione, presidente della commissione Antimafia, in una intervista a Sintesi Dialettica.
"La politica - spiega Forgione - non ha avuto la forza di approvare una buona legge come quella sull'anagrafe dei conti correnti - legge Mancino del 1993, mai applicata. Da qui, quando si arresta un mafioso e gli si vogliono congelare subito i conti correnti, il mafioso, o l'amministratore del mafioso, ha tutto il tempo per svuotarli e movimentarli via internet in uno dei tanti paradisi fiscali del pianeta. Noi non abbiamo neanche la possibilità, attraverso l'anagrafe dei conti correnti e l'anagrafe degli immobili, di capire anche gli spostamenti di proprietà e le movimentazioni catastali. Manca, quindi, la possibilità di intervenire proprio lì dove si concentra il potere mafioso".
Insomma, per il presidente della commissione Antimafia il ruolo delle banche è centrale. Per Forgione, dunque, è necessario aggredire "il santuario del mercato", altrimenti non si possono sconfiggere le mafie. "100.000 milioni di euro all'anno è l'ammontare di movimentazione delle mafie di cui almeno il 60% entra nell'economia legale - dice ancora -. Da qui si apre il problema della rintracciabilità dei flussi e dei patrimoni. Le mafie non hanno più la coppola e la lupara dei film in bianco e nero. Hanno capito che investire in patrimoni è rischioso per cui "finanziarizzano" le loro attività. E per colpire questo livello di "finanziarizzazione" e intercettarne i flussi, bisogna aggredire il sistema bancario".
IL CERCHIO SI È CHIUSO. SI È PARTITI DALL’USURA E SI È ARRIVATI ALLA MAFIA, ATTRAVERSO I FALLIMENTI, LA GESTIONE DELLE ASTE, LE CARTOLARIZZAZIONI E LA GARANZIA SULLA SOLVIBILITÀ.
PARLIAMO DI GIUSTIZIA E GIUSTIZIERI. L'ITALIA IN MANO AI MAGISTRATI.
“TINTINNAR DI VENDETTE”. Manette facili, voglia di riflettori e vendette della politica. Ecco come è stata minata la fiducia nella giustizia. Nel volume il giornalista Guido Dell’Aquila riordina tutti i discorsi ufficiali in tema di giustizia di Oscar Luigi Scalfaro, un giurista che è stato giudice, un uomo politico che ha scritto la Costituzione e infine Presidente della Repubblica e del CSM dal 1992 al 1999 in un settennato di scontri politici acutissimi, che non hanno risparmiato né la sua persona né l’istituzione da lui rappresentata. Ne emerge sia la denuncia senza mezzi termini e in tempi non sospetti degli errori e dei vizi di certa magistratura troppo disinvolta con l’uso delle manette e davanti ai riflettori delle tv; sia l’incapacità dell’organo di autogoverno della categoria di perseguire dall’interno abusi e sbagli.
Quando toccò al lui essere sfiorato dal sospetto eccoti il discorso di Oscar Luigi Scalfaro del 3 dicembre 1993 trasmesso a reti unificate, che passò alla storia per la celebre frase «Non ci sto». In quell'occasione respinse le accuse di aver usufruito di fondi neri nel periodo in cui era stato ministro dell'Interno.
Chi è il cattivo magistrato? Quello che vince un concorso truccato, quello che si sente il tenente Colombo, quello che come Torquemada sbatte la gente in carcere per farla confessare, quello che racconta tutto ai giornali, quello che fa politica, quello che fa la star, quello che ha il dente avvelenato, quello che qualche volta pensa di essere Dio. Il cattivo magistrato esiste? Secondo il magistrato Oscar Luigi Scalfaro sì, basta riascoltare quello che diceva da presidente della Repubblica.
Una cosa che non ti aspetti. Eppure è Oscar Luigi che parla. E ricorda: «Ho vissuto da ministro dell’Interno il periodo in cui Craxi si è intestardito sulla responsabilità civile e penale del magistrato. Con lui ho avuto un rapporto ottimo, ma l’avevo messo in guardia dell’inutilità di una norma del genere. Ancora oggi questa legge è in vigore. C’è qualcuno che lo sa? Nessuno, e non sarà mai applicata nei millenni. Il problema è che i magistrati l’hanno vissuta come un calcio nei denti. E quando è stato il momento, siccome siamo sempre condizionati dall’Antico Testamento, questo calcio l’hanno ridato, e l’hanno ridato sui denti, sui piedi, sullo stomaco, fino ad arrivare all’alluce».
Tintinnar di vendette, appunto. Molti magistrati si sentono un «noi». Ragionano come gruppo, corporazione, casta, classe. Il guaio maggiore arriva quando pensano come partito e si muovono nella politica condizionando tempi, temi e ribaltoni. Il 27 luglio 1994 Scalfaro dice: «Nessun potere deve sconfinare, pena il danno per i cittadini».
Così anche per il presidente della Repubblica Giorgio Napoletano con nota del 27 novembre 2009. “Va ribadito che nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggia sulla coesione della coalizione, che ha ottenuto dai cittadini elettori il consenso necessario per governare. E' indispensabile che venga uno sforzo di autocontrollo nelle dichiarazioni pubbliche e che quanti appartengono alla istituzione preposta all'esercizio della giurisdizione si attengano rigorosamente allo svolgimento di tale funzione. E spetta al Parlamento esaminare di riforma volte a definire corretti equilibri tra politica e giustizia".
Il libro è una lunga condanna, ad ampio raggio. L’avviso di garanzia? «Questo istituto nato come atto di grande garbo nei confronti del singolo, per proteggere la persona, a volte la uccide». Il carcere preventivo? «Dovrebbe essere un’eccezione». La separazione delle carriere? «Non è un dramma». Le luci della ribalta? «Sporcano la toga». Nel luglio del 1996 si riunisce il Csm e Scalfaro invita i giudici a liberarsi dei lavativi: «Il tema della operosità dei giudici volete lasciarlo ai politici? Volete lasciare che siano i politici a fare questo pelo e contropelo o è giusto che la prima riflessione parta da qui?».
C’è una cosa che il vecchio presidente fa fatica a capire. È possibile che le procure funzionino più o meno come l’Ansa? Lì, sotto la bilancia della giustizia, c’è una delle più grosse fabbriche della notizia. «Oggi abbiamo una pioggia di intercettazioni telefoniche. Non dubito della loro legittimità, ma è normale che un cittadino venga spiato giorno e notte? Non credo che questi eccessi siano il linea con la Costituzione. Ma a questo si aggiunge il contagocce delle notizie sulla stampa. È grave che escano tutte le intercettazioni, ma è incredibile che escano goccia a goccia, con infrazione del diritto alla vita privata di ciascun cittadino». Se un vecchio conservatore come Scalfaro dice queste cose, allora la Giustizia è davvero da rifare.
Eppure nell’estate 1945, a guerra finita, l’allora 27settenne Oscar Luigi Scalfaro, futuro presidente della Repubblica italiana, sostenne con altri due colleghi la pubblica accusa al processo che vedeva imputati per «collaborazione con il tedesco invasore» l’ex prefetto di Novara Enrico Vezzalini e i fascisti Arturo Missiato, Salvatore Santoro, Giovanni Zeno, Raffaele Infante e Domenico Ricci. Dopo tre giorni di dibattimento fu chiesta per i sei la condanna a morte, eseguita il 23 settembre al poligono di tiro di Novara (in veste di pubblico ministero Scalfaro ottenne un’altra condanna capitale, che tuttavia non fu eseguita a causa dell’accoglimento del ricorso in cassazione del condannato Stefano Zurlo, ricorso suggerito, a quanto sostenne Scalfaro, da lui stesso).
La vicenda è nota: la fucilazione «firmata» da Scalfaro venne raccontata nei dettagli da "Il Giornale" nel 1996. Ed è anche noto che, successivamente alla rivelazione del "Il Giornale", Scalfaro stesso iniziò a manifestare dubbi sulla fondatezza dei processi, definendoli influenzati dal clima incandescente dell’epoca e dall’emozione popolare: in un’intervista rilasciata a Pierangelo Maurizio per Kosmos nell’ottobre 2006, Oscar Luigi Scalfaro ammise di «non aver elementi per rispondere» alla figlia di uno dei condannati, Domenico Ricci, che gli chiedeva di esprimersi sulla innocenza o colpevolezza del padre: «Lo interrogai - disse Scalfaro -. Era colpevole? Non so». Da notare che Scalfaro conosceva bene la famiglia Ricci, abitando nella stessa palazzina al piano di sopra, in corso Torino, a Novara. Domenico Ricci, brigadiere di pubblica sicurezza, quando venne fucilato aveva 48 anni. Lasciò la moglie e quattro figli, tutti minorenni. Lui e gli altri cinque non vennero uccisi alla prima maldestra raffica dell’inesperto plotone di esecuzione e sui corpi si accanì poi un gruppo di donne.
Fino a qui è (quasi) tutto noto. Ora, però, la cronaca ci riconsegna un’altra tessera di Storia. Dopo la morte di Scalfaro, la figlia Anna Maria (che oggi ha 78 anni) e il nipote Douglas Ruffini (40 anni) hanno deciso di rendere note le lettere inviate alla famiglia dal carcere di Novara da Domenico Ricci. Il quale, nell’ultima straziante pagina, scritta un’ora prima dell’esecuzione capitale, giurava di morire «innocente».
SONO STATO CONDANNATO A MORTE. NON HO PIÙ FORZA, IL PIANTO MI ASSALE.
Novara 29.6.1945
Cara Moglie. Con il cuore straziato debbo darti la dolorosa notizia, l’esito del mio processo è stato doloroso per me e per voi tutti, sono stato condannato alla pena di morte ciò che non mi sarei mai aspettato e che non meritavo [...]. Io ho fato ricorso in cassazione e mi auguro che venga accettato e così con l’aiuto di iddio che io prego sempre mi venga tramutata la pena se vi è possibile fatelo sapere anche a Francesco a Firenze se anche lui può fare qualcosa di bene, ti raccomando nel dare notizia a mia madre, se è ancora in vita, di essere prudente. Cara moglie ti chiedo di inoltrare domanda di grazia presso il Luogo Tenente del Re Principe di Piemonte esponendo tutti i casi pietosi e le condizioni della nostra famiglia e i quattro figli che noi abbiamo e la nostra casa sinistrata e che per quello fui costretto a trasferirmi nell’Italia settentrionale su ordine per mezzo di una circolare del ministero d’interno e anche per la fame che si soffriva mia e i nostri bambini, insomma pensate voi. Nella domanda mettete anche che nei quattro giorni del dibattito nessuna accusa specifica è stata fatta a carico mio né di omicidio né di rapina e ne di furto solo perché ero brigadiere e dicevano che avrei comandato io dopo Martino ciò che non è nulla vero. Cara moglie fatti coraggio che iddio aiuterà gli innocenti quello che ti raccomando i nostri quattro figli, per me più nulla ti dico tanto tu immagini quello che io soffro, però pregando iddio e sperando nella sua bontà divina mi sorreggo ancora per qualche giorno, se qualcuno di voi potesse venire a trovarmi potrei sorreggermi qualche ora di più, non ho più forza di scrivere il pianto mi assale. Vi bacio affettuosamente a tutti, tanti, tanti a Gina, Anna, vostro marito e padre. Domenico. Pregate per me addio.
TI RACCOMANDO LE BAMBINE. SONO LE COSE PIÙ CARE PER ME.
Novara 23.7.1945
Moglie carissima questa è la terza lettera che scrivo senza avere ancora una tua risposta perché? Scrivi subito e dammi tue notizie e dei bambini, fammi sapere anche se hai fatto qualcosa a Roma, per me, domanda di grazia per me a S.A.R. o al Vaticano. Io attendo vostre notizie, anche di mamma è ancora in vita mi auguro di si è digli che preghi per me. Ti raccomando le bambine guardale e tienile di conto che sono le cose più care per me, anche te fatti coraggio e spera nella grazia d’iddio perché solo lui è giusto, solo in questo luogo ho imparato a conoscere gli uomini e per questo che da questo momento ammiro le bestie. Cara moglie tutto quello che sta passando la nostra famiglia la sventura più grande di questo mondo lo dobbiamo al Sig. Lucchini l’uomo più cinico di questo mondo in tutta Novara non ho avuto nessuna imputazione a carico mio, solo quella di lui, spero che il nostro buon Gesù pregherà secondo il merito, vedi se puoi fare una capatina qui a novara insieme con qualcuno dei parenti il mio desiderio di rivedervi è tanto che qualche giorno finirò al manicomio. Vanda che cosa fa si è impiegata? Scrivetemi subito perché io non ho più forza a resistere. Vi bacio a tutti caramente, tanti, tanti a Ginotta, Vanda, Anna, più a tutti i parenti tuo affezionatissimo marito. Domenico Ricci. Scrivi, scrivi, baci.
SPERIAMO IN DIO CHE UN GIORNO. IO POSSA TORNARE DA VOI.
Novara 3.8.1945
Moglie Carissima, ho ricevuto una lettera scritta da Renzo, la quale mi da vostre buone notizie, assicurandomi che godete tutti ottima salute, medesimo posso dirvi di me fino ad oggi e speriamo in Dio che prosegua anche per l’avvenire, e venuta a trovarmi mia sorella Aurelia anche loro stanno bene. Osvaldo non è ancora tornato dalla Germania e non sanno notizie speriamo che presto anche lui possa tornare fra i suoi cari. Cara Assunta fammi sapere se Romolo e arrivato a Roma essendo che il collegio non c’è più a Gallarate e si è trasferito a Roma. Lui è partito quindici giorni indietro quindi spero che sia fra voi ti prego di stargli attenta come pure alle altre e speriamo in Dio che anche io un giorno, potrò ritornare fra voi. Ho fatto la domanda di grazia vedila anche voi a Roma di fare qualche cosa presso il ministero di Grazia giustizia. Cara Moglie fammi sapere qualche cosadei miei parenti e di mamma se è ancora viva oppure no scrivi spesso e fammi sapere tutto.
LA MIA SALUTE È BUONA. E COSÌ VOGLIO AUGURARMI PER VOI.
Novara 3.8.1945
cara sorella e cognato La mia salute è buona e così voglio Caugurarmi anche per voi, oggi ho scritto anche a mia moglie, non so come mai che loro non mi danno notizie scrivete anche voi a loro e ditegli che mi scrivano e mi danno loro notizie, io dubito che assunta non stà bene dato che lei era già stata operata per il fegato e adesso che aveva bisogno di tranquillità invece tutto al contrario,ma la bontà d’iddio aiuterà anche lei, come spero che aiuterà anche a me e tutti i miei cari [...]. Inviovi tanti baci a tutti tuo affezionato fratello e cognato.
MI MANTENGONO LE PREGHIERE. CHE FACCIO TUTTO IL GIORNO.
Novara 6.8.1945
Carissimi tutti, ho ricevuto la vostra in data 1˚ agosto sono lieto nel sentirvi che godete buona salute, anche io fino a questo momento non posso lamentarmi fin quando dura, speriamo Iddio e preghiamolo di cuore che la faccia durare sempre. Cara sorella vi ringrazio che avete dato comunicazione alla mia famiglia di quanto io desideravo, sarà solo difficile che potranno venire per mezzo che le comunicazioni sono poco comode, e poi credo, anzi sono convinto che assunta è molto malata tu sai che è stata operata per il male di fegato e quindi avrebbe avuto bisogno di tranquillità, pazienza il destino ha voluto così, però iddio vede e provvede anche per lei. Mi dite fra una quindicina di giorni verrete a trovarmi, puoi immaginare quale gioia è per me, speriamo però che sarò ancora in vita, poi mi dici di aiutarmi per far si che non vengo malato come vuoi che mi tiro su qui dentro? Mi mantengono le preghiere che faccio tutto il giorno, state tranquilli e coraggio.
Spero di rivedervi ancora.
QUANDO VIENI, PORTA UN PO’ DI TABACCO.
Novara 31.8.1945
Carissimi tutti, la mia salute fino ad oggi è discreta, mentre per voi voglio augurarmi che sia ottima. Carissimi non potete immaginare quale e quanto sia stato il dispiacere sapervi a Novara e non potervi vedere, potete immaginare con quale ansia attendevo per poter abbracciare Osvaldo dopo lunghi anni che non sapevo più notizie. Cara sorella adesso i colloqui sono ogni quindici giorni perciò puoi venire quando vuoi, se vieni non dimenticare la carta d’identità se no non ti rilasciano il colloquio. Cara sorella, io non ho notizie da casa, ti prego se tu sai qualche cosa di farmelo sapere, poi ti prego anche di scrivere a mia moglie edirgli che mi rimandano un po di soldi, perché io sono senza e debbo vivere con il solo vitto del carcere, e digli pure che scriva io non ho ancora ricevuto una lettera scritta da assunta quindi pensate. Cara sorella i soldi fatteli spedire te e poi quando vieni me li porti tu stessa. Quando vieni vedi se puoi portare un po di sigarette o tabacco con cartine e qualche scatola di fiammiferi. Saluti e baci a tutti arrivederci a presto.
QUI COMINCIA A FARE FREDDO. E IO NON Ò ROBBA INVERNALE.
Novara 19.9.1945
Carissimi tutti. Rispondo alla vostra lettera sono lieto nel sentire che godete ottima salute, anche di me posso assicurarvi medesimo fino ad ora, quando venite a trovarmi? Cara sorella questa lettera fammi la cortesia di darla a mia moglie. Cara Moglie. Ho ricevuto la tua lettera tramite mia sorella il primo scritto che ricevo da te, da quando sei partita da Novara, io di salute sto bene grazie iddio, così voglio augurarmi di te e i nostri bambini e tutti i nostri parenti. Cara moglie sono dispiaciuto che ti si è molto abbassata la vista e che ti sei molto sciupata, non prendertela di nulla coraggio e mangia e bevi e cerca di mantenerti bene, prega S. Rita che certamente ci fa la grazia da noi desiderata, io la prego sempre e con fede. Cara moglie quando venite? Qui incomincia a fare freddo e io nonò robba invernale, ora potete venire i treni ci sono tanti Roma Milano come pure Roma Torino quindi vedete un po’ fra te e Vanda chi vuole venire io preferisco che vieni te, ma se non sei in condizioni di viaggiare allora fai venire Vanda, Romolo, Anna, Gina come stanno? Annarella già mi ha scritto due volte mentre quel birbone di Romolo vuoi dirgli un po’ perché non mi scrive? Non avrà tempo, quando scrivete anche che scrive Vanda a me non minteressa basta che tu la firmi. La signora-Ines mi lava la biancheria tutte le settimane e mi porta anche qualche cosa ma tu sai che non fanno perché sono poveri. Vi bacio tanti a tutti tuo affezionatissimo marito.
MUOIO SI’, MA INNOCENTE. NON DA TRADITORE.
Novara 23.9.1945
Famiglia mia carissima. È tuo marito che ti scrive e per i bambini è il papà, non piangete fra un’ora non ci sono più in questo mondo con santa rassegnazione passo all’altro. Coraggio iddio e S. Rita pregherà per voi. Salutatemi tutti i miei amici. Baciatemi tutti i miei parenti. Muoio sì, ma muoio innocente, è bene che tutti lo sappiano, la grande ingiustizia che stanno commettendo. Voi lo farete sapere perché nessuno deve mai dire che io sia stato un traditore, ho sempre servito la mia Patria con fede ed onore e con fede ed onore muoio. Viva l’Italia. Vi bacio a tutti caramente e dal cielo vi guarderò a tutti iddio vi aiuti e vi benedica tuo affezionatissimo marito e padre. Arrivederci in paradiso, addio. Addio.
Roma 6.8.1945.
Al Sig. Capo della Polizia del Ministero dell’Interno Io sottoscritta Assunta Tenchini moglie del Brigadiere di P.S. Ricci Domenico fu Romolo condannato alla pena capitale dal tribunale di Novara, rivolgo alla S.V.I. supplichevole domanda di grazia e prego che mi ascoltiate. Mio marito è stato nella Pubblica Sicurezza per molti anni, senza mai meritare una punizione, entrato a far parte di essa dopo che il corpo dei Vigili Urbani, a cui apparteneva dal 1924, fu disciolto, egli prestò servizio prima come motociclista poi come autista. Dal 1940 prestò servizio a Rieti come capo degli automezzi della Questura e qui ebbe la promozione al grado di brigadiere. Quando Roma era già stata occupata, nel 1944, dopo che aveva avuto la casa sinistrata dai bombardamenti, il Questore di Rieti lo obbligò a seguirlo in Alta Italia. Qui fu assegnato alla questura di Novara, dove svolse da principio mansioni di carattere esclusivamente burocratico. Dopo un po’ di tempo fu iscritto d’ufficio e contro la sua volontà,alla squadra di Novara. E questa è l’imputazione per cui si condanna a morte. Ma egli non prese mai parte ad azioni di carattere vessatorio contro chi che sia e la cosa risulta anche dagli atti del suo processo. Però mio marito non ha mai avuto la facoltà di difendersi, non è stato mai ascoltato obbiettivamente. Si può condannare così a morte un uomo? Egli non è mai stato un fascista, e nel 1933 fu obbligato ad iscriversi al defunto partito. Se in questo periodo caotico egli ha seguito chi lo comandava, tenete presente, però, che è padre di quattro figli tutti minori e che non poteva lasciarli morire di fame. Il suo può essere stato un atto di grave debolezza, non giustifica però una condanna capitale. Nessuno ha avuto niente da rimproverargli, non ha fatto male a nessuno. Solo un uomo in tutta Novara l’accusa un certo Lucchini, addetto sotto i nazi-fascisti alla mensa degli agenti, e ora nominato Vice Questore della città per meriti che noi non conosciamo. Essendo egli, per caso sfortunato, il più elevato di grado presente al processo, è stata applicata nei riguardi di mio marito la sanzione più grave, benché le azioni da lui svolte nella squadra suddetta siano state nulle. Vogliate ascoltarmi, e siate giusto con lui. Non vi chiedo di assolverlo, vi chiedo di rivedere il processo alla luce di una più obbiettiva giustizia. Ascoltate la supplica di cinque innocenti che stanno per essere travolti in una sventura senza rimedio, e che solo un vostro atto di clemenza può salvare. Se ritenete mio marito colpevole, condannatelo, ma non potete condannarlo a morte così; quando solo un uomo l’accusa. Siate clemente, ascoltatemi.
(Per gentile concessione della famiglia Ricci al quotidiano “Il Giornale”)
IMPUNITOPOLI PER I MAGISTRATI. LA IRRESPONSABILITA’ DEI MAGISTRATI.
Tanto fumo per niente. Il problema vero e taciuto non è chi paga per l’errore commesso dal magistrato (se solo lo Stato od anche il magistrato), ma se e quando la responsabilità è acclamata.
Per i poveri mortali il principio di responsabilità afferma che chi per dolo o colpa semplice arreca danno ingiusto ad altri: paga. Per i magistrati questo non vale. Sempre al di la ed al di fuori della legge. La normativa a cui tutti vogliono mettere mano, da sempre ed a parole, prevede che se il magistrato sbaglia, ma solo con colpa grave, quindi mai, non è lui a pagare, ma lo Stato, ossia noi cittadini.
Scherzi della politica e dell’informazione. Fanno apparire un cataclisma, quello che è una piccola toccatina. Dal 1987, con l’approvazione del referendum, si cerca di mettere argine all’abuso di potere della magistratura, ma niente: nonostante lodi e progetti di legge, non si muove foglia. Ogni tentativo va a sbattere sulla casta delle toghe e sui loro alleati politici e mediatici, che hanno il comune obiettivo di abbattere il nemico politico. Toccare i giudici è considerato un attentato alla Costituzione. Insomma nulla è cambiato confronto a prima, solo l’eventualità di chiamare in causa direttamente il magistrato che, con la statuizione vivente, mai sarà chiamato a rispondere per i suoi errori.
Basti ricordare che da gennaio 2001 a febbraio 2010 lo Stato ha sborsato 423 milioni di euro di risarcimenti per custodie cautelari e arresti preventivi illegittimi, oltre che per errori giudiziari.
Responsabilità dei magistrati: solo 4 condanne - «Dal 1988 ad oggi, su 400 cause avviate, ci sono state solo 4 condanne di giudici - ha spiegato Enrico Costa (Pdl) dopo il sì dell'Aula alla responsabilità civile dei magistrati oltre i casi di dolo e colpa grave - Di queste 400 - aggiunge Costa - 253 sono state dichiarate inammissibili, 49 attendono pronuncia di ammissibilità e 70 attendono l'impugnazione per la decisione di inammissibilità. 34 risultano ammissibili, ma di queste 16 sono pendenti e 14 respinte».
Qualcuno dice, va bè, ma lo Stato poi si rifà sul responsabile fino ad un terzo del suo stipendio.
Bene. Bisogna sapere che oggi per un magistrato la vita e la reputazione di una persona vale la stipula di una polizza assicurativa. E basta poco a tacitare le coscienze.
Nota: il premio viene stabilito in Euro 145,50= complessivi (polizza di Responsabilità Civile e polizza di Tutela Legale -non è possibile sottoscrivere le polizze separatamente) per le adesioni che avverranno nel periodo 15/04-15/10 di ogni anno, mentre è pari ad Euro 72,75= per le adesioni che avverranno nel periodo 16/10-14/04 di ogni anno. La Copertura assicurativa decorre dalla data del versamento.
I magistrati, specie di sinistra, si ribellano alla norma votata alla Camera: “attentato alla Costituzione!!!”
E c’è qualcuno di loro, noti rappresentanti della categoria che, intervistati, hanno il coraggio di dire: “è in contrasto con la normativa europea e la Costituzione Italiana” (Giuseppe Cascini, segretario ANM); ovvero “è difficile rispondere a chi non sa nemmeno di cosa si sta parlando” (Luca Palamara, presidente ANM).
A questi risponde il dr Antonio Giangrande, scrittore, autore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie: «La sentenza 13 giugno 2006 della grande sezione della Corte di Giustizia del Lussemburgo afferma che la Legge 117/88 viola i principi dell’Ordinamento Comunitario nella parte in cui la norma limita arbitrariamente l’ambito della responsabilità civile dei Magistrati. Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave ""inescusabile"" del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi (semplice colpa) in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto.»
I Magistrati dovrebbero solo applicare la legge, e dai risultati che appaiono sotto gli occhi di tutti spesso non ci riescono, ma questi vorrebbero anche emanarla.
E questo sì che è un attentato alla Costituzione!!!
Tanto fumo per niente. Il problema vero e taciuto non è chi paga per l’errore commesso dal magistrato (se solo lo Stato od anche il magistrato), ma se e quando la responsabilità è acclamata. Per i poveri mortali il principio di responsabilità afferma che chi per dolo o colpa semplice arreca danno ingiusto ad altri: paga. Per i magistrati questo non vale. Sempre al di la ed al di fuori della legge. La normativa a cui tutti vogliono mettere mano, da sempre ed a parole, prevede che se il magistrato sbaglia, ma solo con colpa grave, quindi mai, non è lui a pagare, ma lo Stato, ossia noi cittadini.
Scherzi della politica e dell’informazione: ipocriti e codardi. Fanno apparire un cataclisma, quello che è una piccola toccatina. Dal 1987, con l’approvazione del referendum, si cerca di mettere argine all’abuso di potere della magistratura, ma niente: nonostante lodi e progetti di legge, non si era mossa foglia. Ogni tentativo era andato a sbattere sulla casta delle toghe e sui loro alleati politici e mediatici, che avevano il comune obiettivo di abbattere Berlusconi. Ricordate? Toccare i giudici era considerato un attentato alla Costituzione. Poi all’improvviso, quando meno te lo aspetti, cioè il 2 febbraio 2012, ecco arrivare un voto segreto che introduce la responsabilità civile dei magistrati: chi sbaglia pagherà di persona, come avviene per qualsiasi cittadino lavoratore. L’idea, cioè l’emendamento alla legge comunitari 2011, è della Lega, ma coperti dal segreto l’hanno sostenuta in massa a destra come a sinistra, come probabilmente addirittura da alcuni esponenti dell’IDV. Quei furbetti del governo Monti, per bocca del Guardasigilli, hanno fatto la parte degli indignati perché anche a loro i pm fanno un po’ paura. Prima hanno chiesto al parlamento di votare contro.
Poi, smentiti dalla loro maggioranza Pd-Pdl, si sono augurati, sempre per bocca della ministra della Giustizia Severino, che il Senato bocci la legge. I magistrati sono furenti, ovviamente. Traditi pilatescamente dal governo dei professori e da una parte della sinistra che dopo averli usati in chiave antiberlusconiana adesso li scarica. Ma hanno poco da urlare, le toghe. Non si capisce perché possano essere toccati presunti privilegi di tassisti, benzinai, farmacisti, pensionandi e non i loro. Del resto la Camera non ha fatto altro che accogliere, con 25 anni di ritardo, la volontà degli italiani che in un referendum del 1987 avevano (invano) deciso che i magistrati dovevano pagare personalmente per i loro errori e per dolo o colpa semplice. Sulla responsabilità civile la Camera vota in linea con l'Europa, facendo passare un emendamento della Lega che prevede la possibilità di fare ricorso contro giudici solo nel caso agiscano con dolo o colpa grave. Una posizione sacrosanta, che garantisce il giusto processo e tutela i cittadini e, questa l'indicazione dei vertici Ue, può sanare un grave difetto di sistema della giustizia italiana che allontana gli investitori stranieri. Ecco perché migliorare il processo civile può significare più competitività e non solo più "civiltà" (basti ricordare che da gennaio 2001 a febbraio 2010 lo Stato ha sborsato 423 milioni di euro di risarcimenti per custodie cautelari e arresti preventivi illegittimi, senza contare gli errori giudiziari.
Sì alla responsabilità civile dei magistrati. La Camera ha approvato l'emendamento presentato dal leghista Gianluca Pini votando contro il parere del Governo. A scrutinio segreto voluto dalla Lega, l'emendamento è passato con 264 sì e 211 no. Immediata la reazione delle opposizioni. Il leader Idv Antonio Di Pietro ha invocato il ricorso ai "forconi" da parte degli italiani, mentre il futurista Italo Bocchino ha definito il voto di Montecitorio "la vendetta della Casta" nei confronti della magistratura. Anche l'Associazione Nazionale Magistrati ha usato toni assai aspri criticando la decisione dei deputati.
Si sa. In Italia i magistrati dovrebbero applicare la legge, e spesso non ci riescono, ma vorrebbero anche emanarla.
Cosa dice l'emendamento - La norma prevede che "chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato in violazione manifesta del diritto o con dolo o colpa grave (non semplice colpa come per i comuni mortali, compresi i medici, gli ingegneri, ecc.) nell'esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato e contro il soggetto riconosciuto colpevole per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale. Costituisce dolo il carattere intenzionale della violazione del diritto". "Ai fini della determinazione dei casi in cui sussiste una violazione manifesta del diritto - si legge nel testo presentato dal deputato Pini - deve essere valutato se il giudice abbia tenuto conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato con particolare riferimento al grado di chiarezza e di precisione della norma violata, al carattere intenzionale della violazione, alla scusabilità o inescusabilità dell’errore di diritto. In caso di violazione del diritto dell'Unione europea, si deve tener conto se il giudice abbia ignorato la posizione adottata eventualmente da un'istituzione dell'Unione europea, non abbia osservato l'obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'articolo 267, terzo paragrafo, del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, nonchè se abbia ignorato manifestamente la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea".
Insomma nulla è cambiato confronto a prima, solo l’eventualità di chiamare in causa direttamente il magistrato che, con la statuizione vivente, semmai si acclamerà l'errore da parte di un suo collega (sic), mai sarà chiamato a rispondere per i suoi errori.
Solo 4 condanne - "Dal 1988 ad oggi, su 400 cause avviate, ci sono state solo 4 condanne di giudici", ha spiegato Enrico Costa (Pdl) dopo il sì dell'Aula alla responsabilità civile dei magistrati oltre i casi di dolo e colpa grave. "Di queste 400 - aggiunge Costa - 253 sono state dichiarate inammissibili, 49 attendono pronuncia di ammissibilità e 70 attendono l'impugnazione per la decisione di inammissibilità. 34 risultano ammissibili, ma di queste 16 sono pendenti e 14 respinte".
La posizione del governo - Il governo, come scritto, si era detto contrario all'emendamento leghista ribadendo però "l'impegno ad affrontare il tema della responsabilità dei magistrati nel quadro di una discussione organica ed in tempi rapidi, in una logica di insieme nella debita sede e in maniera organica". Lo ha ribadito il ministro per le Politiche comunitarie Enzo Moavero prima del voto, spiegando che "la legge comunitaria mal si presta ad affrontare tematiche di respiro più ampio rispetto al mero recepimento di normative. La sentenza della Corte di Giustizia Ue richiamata dall'emendamento - ha aggiunto - si riferisce a questioni di diritto europeo".
Con l’approvazione dell’emendamento è finita con Antonio Di Pietro a gridare contro una «maggioranza trasversale piduista» e l’Associazione nazionale magistrati a denunciare una «norma incostituzionale» contro la quale il sindacato delle toghe è pronto alle «più estreme forme di protesta». A partire dallo sciopero. A far infuriare l’ex pm e l’Anm, il via libera dell’Aula di Montecitorio all’emendamento del leghista Gianluca Pini che introduce la responsabilità civile dei magistrati modificando la “legge Vassalli” del 1988, che finora ha consentito al cittadino, in caso di errore grave delle toghe, di rivalersi esclusivamente sullo Stato. I sì sono stati 264, i voti contrari si sono fermati a 211. Uno l’astenuto: l’ex ministro prodiano Giulio Santagata (Pd). Un esito che ha scatenato la caccia al franco tiratore con accuse incrociate tra Pdl e Pd. In mezzo il governo, in realtà il vero sconfitto: in Aula Enzo Moavero, ministro per gli Affari europei, aveva espresso parere contrario al provvedimento. Moavero prende la parola perché Pini presenta l’emendamento all’interno della legge comunitaria 2011. Motivazione: la sentenza della Corte di giustizia europea del 24 settembre 2011 che ha condannato l’Italia, «uno dei pochissimi Stati occidentali che non permette ad un cittadino che ha subìto un’ingiustizia o un danno» di ricorrere contro le toghe. Moavero, però, commette l’errore di schierare l’esecutivo contro l’emendamento. Meglio affrontare la materia, spiega, «in una logica di insieme, nella debita sede e in maniera organica». Un autogol perché di lì a poco Gianfranco Fini accoglierà la proposta della Lega di votare a scrutinio segreto: si tratta, spiega il presidente della Camera, di un tema che «incide sull’articolo 24 della Costituzione». Protetti dal segreto, i deputati si liberano dal vincolo dell’obbedienza al governo e l’emendamento passa addirittura con 26 voti in più della maggioranza richiesta. È il finimondo: Dario Franceschini, capogruppo del Pd, accusa il Pdl di aver disatteso gli impegni. «Non possiamo veder rispuntare la vecchia maggioranza», rincara la dose il segretario, Pier Luigi Bersani. Attacchi che Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl, bolla come «ingiustificati». I numeri gli danno ragione: sulla carta l’ex maggioranza (più i Radicali e l’intero gruppo Misto) disponeva di 227 voti. Lo stesso Pdl, inoltre, scontava 55 deputati assenti e 12 in missione. Conclusione: il testo non sarebbe potuto passare senza i franchi tiratori di Pd e Terzo polo. Una ricostruzione sposata da Di Pietro, che infatti denuncia l’esistenza di «cinquanta traditori che hanno votato in modo difforme dai loro gruppi. E cinquanta è un numero troppo grosso perché siano tutti di un solo gruppo: vanno cercati tra quanti si erano dichiarati contro l’emendamento Pini. Ovvero Pd, Udc, Fli e Idv». Fatto sta che il governo, incalzato dall’Anm che parla di «ritorsione contro la magistratura», non ci sta e invoca un intervento del Senato per correggere la norma. «Prendo atto della volontà del Parlamento. Confido però che in seconda lettura si possa discutere qualche miglioramento», avverte Paola Severino, ministro della Giustizia, che dice no a «interventi spot». E Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc, risponde all’appello: «La norma si potrà correggere. I magistrati aspettino a scioperare». Parole che non piacciono ad Alfredo Mantovano, ex sottosegretario all’Interno, che in Aula ha difeso l’emendamento: «Non vogliono questa norma? Ne scrivano una migliore. Ad esempio un disegno di legge organico al quale possa essere assicurata una corsia preferenziale. Il governo dia seguito alla pronuncia di una larga parte della maggioranza che sostiene l’esecutivo». Il Guardasigilli è nel mirino del Pdl, dove non sono passate inosservate le sue ultime nomine. Dopo la scelta di due esponenti di Magistratura democratica, la corrente più a sinistra dell’Anm, per le poltrone di capo di gabinetto e capo degli ispettori di via Arenula, Filippo Grisolia e Stefania Di Tomassi, il consiglio dei Ministri potrebbe rimuovere Franco Ionta dal vertice del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Al suo posto, Severino è pronta a proporre la nomina di Giovanni Tamburino, presidente del tribunale di sorveglianza del Lazio. Negli anni Ottanta, Tamburino è stato tra i fondatori del “Movimento per la giustizia”, altra corrente di sinistra delle toghe.
LA STORIA
Il Partito Radicale, il Partito liberale italiano e il Partito socialista italiano, presentavano nel 1987 la richiesta di tre referendum per ottenere la responsabilità civile dei magistrati, come risposta ai sempre più frequenti problemi della giustizia.
Tra i principali protagonisti che in quegli anni si battevano per la riforma della giustizia vi era Enzo Tortora, conduttore televisivo accusato sulla base di alcune dichiarazioni di pentiti di essere colluso con la camorra e il traffico di stupefacenti, rivelatesi successivamente false. La lunga detenzione del conduttore, e la successiva elezione nelle liste Radicali che sosteneva le sue battaglie politiche, contribuiva ad alimentare la discussione pubblica nel paese e nei mezzi di comunicazione circa la situazione della giustizia italiana.
L'appello radicale per la riforma della giustizia veniva sottoscritto anche da molti magistrati: «L’otto novembre gli italiani sono chiamati ad esprimersi su due aspetti particolarmente rilevanti della crisi della giustizia. Di fronte a insensibilità politiche e a resistenza corporative, i referendum sulla giustizia rappresentano un’occasione unica offerta ai cittadini per riaffermare fondamentali principi dello stato di diritto, abolire anacronistici privilegi e irresponsabilità e rivendicare improrogabili riforme. Lo strumento referendario restituisce così la parola ai cittadini. Non è più accettabile che i magistrati che, per colpa grave, abbiano danneggiato un cittadino non siano chiamati a risponderne dinnanzi ad un loro collega. Introducendo la responsabilità civile dei magistrati per colpa grave (grave negligenza, grave imperizia, gravi omissioni) non si intacca ma si riafferma la loro autonomia ed indipendenza. Abrogando i poteri istruttori della commissione inquirente per i reati dei ministri si eliminano inammissibili impunità. Noi voteremo SI ed invitiamo a votare SI perché anche politici e magistrati rispondano, come ogni cittadino, di fronte alla legge».
I referendum abrogativi dell'8 novembre 1987 si conclusero con una netta affermazione dei «si».
Dopo la scelta degli italiani circa la responsabilità civile dei giudici, il Parlamento approvava la cosiddetta «legge Vassalli» (votata da Pci, Psi, Dc), che, secondo i Radicali, si allontanava decisamente dalla decisione presa dagli italiani nel referendum, facendo ricadere la responsabilità di eventuali errori non sul magistrato ma sullo Stato, che successivamente poteva rivalersi sullo stesso, ma solo entro il limite di un terzo di annualità dello stipendio.
|
totale |
percentuale (%) |
|
||||
Iscritti alle liste |
45 870 931 |
|
|
||||
Votanti |
29 866 249 |
65,10 |
(su n. elettori) |
Quorum raggiunto |
|||
Voti validi |
25 896 355 |
86,70 |
(su n. votanti) |
|
|||
Voti nulli o schede bianche |
3 969 894 |
13,30 |
(su n. votanti) |
|
|||
Astenuti |
16 004 682 |
34,90 |
(su n. iscritti) |
|
|||
|
|
Voti |
% |
|
|
||
RISPOSTA AFFERMATIVA |
SÌ |
20 770 334 |
80,20% |
|
|
||
RISPOSTA NEGATIVA |
NO |
5 126 021 |
19,00% |
|
|
||
bianche/nulle |
|
3 969 894 |
|
|
|
||
Totale voti validi |
|
25 896 355 |
100% |
|
|
||
|
|
|
|
|
|
|
|
LA LEGGE
"Art. 11 C.P.P. (Competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati).
1. I procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, che secondo le norme di questo capo sarebbero attribuiti alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni o le esercitava al momento del fatto, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge.
2. Se nel distretto determinato ai sensi del comma 1 il magistrato stesso é venuto ad esercitare le proprie funzioni in un momento successivo a quello del fatto, é competente il giudice che ha sede nel capoluogo del diverso distretto di corte d'appello determinato ai sensi del medesimo comma 1.
3. I procedimenti connessi a quelli in cui un magistrato assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato sono di competenza del medesimo giudice individuato a norma del comma 1".
"Art. 30-bis C.P.C. (Foro per le cause in cui sono parti i magistrati). Le cause in cui sono comunque parti magistrati, che secondo le norme del presente capo sarebbero attribuite alla competenza di un ufficio giudiziario compreso nel distretto di corte d'appello in cui il magistrato esercita le proprie funzioni, sono di competenza del giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello determinato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale.
Se nel distretto
determinato ai sensi del primo comma il magistrato è venuto ad esercitare le
proprie funzioni successivamente alla sua chiamata in giudizio, é competente il
giudice che ha sede nel capoluogo del diverso distretto di corte d'appello
individuato ai sensi dell'articolo 11 del codice di procedura penale con
riferimento alla nuova destinazione".
"Spostamenti di competenza per i procedimenti penali nei quali un magistrato
assume la qualità di persona sottoposta ad indagini, di imputato ovvero di
persona offesa o danneggiata dal reato.
Dal distretto di |
Al distretto di |
ROMA |
PERUGIA |
PERUGIA |
FIRENZE |
FIRENZE |
GENOVA |
GENOVA |
TORINO |
TORINO |
MILANO |
MILANO |
BRESCIA |
BRESCIA |
VENEZIA |
VENEZIA |
TRENTO |
TRENTO |
TRIESTE |
TRIESTE |
BOLOGNA |
BOLOGNA |
ANCONA |
ANCONA |
L'AQUILA |
L'AQUILA |
CAMPOBASSO |
CAMPOBASSO |
BARI |
BARI |
LECCE |
LECCE |
POTENZA |
POTENZA |
CATANZARO |
CAGLIARI |
ROMA |
PALERMO |
CALTANISSETTA |
CALTANISSETTA |
CATANIA |
CATANIA |
MESSINA |
MESSINA |
REGGIO CALABRIA |
REGGIO CALABRIA |
CATANZARO |
CATANZARO |
SALERNO |
SALERNO |
NAPOLI |
NAPOLI |
ROMA |
Il testo vigente dell'art. 4 della legge 13 aprile 1988, n. 117, recante: "Risarcimento di danni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati", come modificato dalla legge 420/98 , é il seguente: "Art. 4 (Competenza e termini).
1. L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato deve essere esercitata nei confronti del Presidente del Consiglio dei Ministri. Competente é il tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'art. 11 del codice di procedura penale e dell'art. 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.
2. L'azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell'ambito del quale si é verificato il fatto che ha cagionato il danno. La domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro due anni che decorrono dal momento in cui l'azione é esperibile.
3. L'azione può essere esercitata decorsi tre anni dalla data del fatto che ha cagionato il danno se in tal termine non si é concluso il grado del procedimento nell'ambito del quale il fatto stesso si é verificato.
4. Nei casi previsti dall'art. 3 l'azione deve essere promossa entro due anni dalla scadenza del termine entro il quale il magistrato avrebbe dovuto provvedere sull'istanza.
5. In nessun caso il termine decorre nei confronti della parte che, a causa del segreto istruttorio non abbia avuto conoscenza del fatto".
Il testo vigente dell'art. 8 della citata legge 13 aprile 1988, n. 117, come modificato dalla legge 420/98, é il seguente: "Art. 8 (Competenza per l'azione di rivalsa e misura della rivalsa).
1. L'azione di rivalsa deve essere promossa dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
2. L'azione di rivalsa deve essere proposta davanti al tribunale del capoluogo del distretto della corte d'appello, da determinarsi a norma dell'art. 11 del codice di procedura penale e dell'art. 1 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271.
3. La misura della rivalsa non può superare una somma pari al terzo di una annualità dello stipendio, al netto delle trattenute fiscali, percepito dal magistrato al tempo in cui l'azione di risarcimento é proposta, anche se dal fatto é derivato danno a più persone e queste hanno agito con distinte azioni di responsabilità. Tale limite non si applica al fatto commesso con dolo. L'esecuzione della rivalsa quando viene effettuata mediante trattenuta sullo stipendio, non può comportare complessivamente il pagamento per rate mensili in misura superiore al quinto dello stipendio netto.
4. Le disposizioni del comma 3 si applicano anche agli estranei che partecipano all'esercizio delle funzioni giudiziarie. Per essi la misura della rivalsa é calcolata In rapporto allo stipendio iniziale annuo, al netto delle trattenute fiscali, che compete al magistrato di tribunale; se l'estraneo che partecipa all'esercizio delle funzioni giudiziarie percepisce uno stipendio annuo netto o reddito di lavoro autonomo netto inferiore allo stipendio iniziale del magistrato di tribunale, la misura della rivalsa é calcolata in rapporto a tale stipendio o reddito al tempo in cui l'azione di risarcimento é proposta".
LA POLIZZA ASSICURATIVA DI 145, 50 EURO ANNUE
ASSOCIAZIONE NAZIONALE MAGISTRATI
Palazzo di Giustizia - Piazza Cavour - Roma
Dichiarazione da sottoscrivere da parte di chi aderisce all'assicurazione
Responsabilità Civile e Tutela Legale
(si prega di scrivere in stampatello)
Il sottoscritto_________________________________________________________________________________
Nato a __________________________ il _________________ Residente in ______________________________
Prov._______ Via __________________________________________________ n° ________ C.a.p. __________
Eventuale recapito per l'invio della corrispondenza, se diverso dalla residenza:
Città ____________________________________________________ Prov. __________ C.a.p. _______________
Via _____________________________________________________________________ Numero Civ. ________
Nota: si raccomanda di aggiornare ad ogni variazione sia la residenza sia il recapito della corrispondenza
Lo scrivente, dichiara di aderire ai contratti di assicurazione unici e collettivi stipulati dalla A.N.M. per la Responsabilità Civile del Magistrato (Legge 117/88), per la Responsabilità Amministrativa e Contabile e per la Legge 24/03/01 n° 89 e per la Legge 626/94, nonché per la Tutela Legale e si impegna a corrispondere i relativi premi annuali:
a) quanto al periodo intercorrente dalla data del versamento alla prima scadenza anniversario di polizza, prende atto che la stessa scadrà il 15/04 di ogni anno. Dichiara che ha provveduto a versare il relativo premio a mezzo di c/c postale n° xxxxxxxx intestato all'Associazione Nazionale Magistrati – Gestione Assicurazione Responsabilità Civile - Palazzo di Giustizia - Piazza Cavour – Roma.
Nota: il premio viene stabilito in Euro 145,50= complessivi (polizza di Responsabilità Civile e polizza di Tutela Legale -non è possibile sottoscrivere le polizze separatamente) per le adesioni che avverranno nel periodo 15/04-15/10 di ogni anno, mentre è pari ad Euro 72,75= per le adesioni che avverranno nel periodo 16/10-14/04 di ogni anno. La Copertura assicurativa decorre dalla data del versamento.
b) quanto alle annualità successive corrisponderà il premio il cui importo e le cui modalità di versamento verranno comunicati ad ogni scadenza anniversaria.
Il Sottoscritto dichiara altresì di aver ricevuto il testo delle condizioni tutte di assicurazione e di accettare il contenuto delle medesime.
_______________________ , li _____________________ ______________________________ firma
CORTE DI GIUSTIZIA EUROPEA: I MAGISTRATI RESPONSABILI ANCHE PER COLPA SEMPLICE
Sussiste la responsabilità dei magistrati per colpa semplice secondo la Corte di Giustizia europea.
Il rapporto tra i cittadini e tra i cittadini e gli organi dello Stato è regolato dalla legge.
L’art. 3 della Costituzione esplicita che tutti hanno pari obblighi e diritti di fronte alla legge, senza che vi siano immunità ed impunità per nessuno. Solo al Presidente della Repubblica è riconosciuta la mancata responsabilità dei suoi atti.
Analizzando l’ambito del rapporto di prestazione di servizi manuali o intellettuali si denota che il lavoratore subordinato, che con colpa reca danno a qualcuno, è sottoposto alla legge penale, civile e disciplinare. Lo stesso dicasi per il lavoratore autonomo o il professionista. Il medico che sbaglia diagnosi o cura, risponde di omicidio o lesioni colpose e ne paga le conseguenze civili e deontologiche. L’ingegnere, l’architetto, il geometra, che per colpa sbaglia i progetti e causa dei crolli, risponde di omicidio o lesioni o disastro colposo e ne paga le conseguenze civili, ecc. ecc.
L’avvocato, il commercialista, il notaio, l’assicuratore ecc, che per colpa reca danno al suo cliente, paga le conseguenze civili e deontologiche.
Al dirigente pubblico, o al funzionario pubblico, o all'amministratore pubblico, o addirittura al Presidente del Consiglio dei Ministri, o ai singoli Ministri e sottosegretari, che per colpa recano danno ai cittadini, la Corte dei Conti chiede la rivalsa per il risarcimento del danno riconosciuto.
Da quanto detto pare che la legge sia uguale per tutti. Ad una attenta analisi della realtà ci si accorge, però, che la legge è uguale per tutti, meno che per i magistrati.
I magistrati sono liberi di incarcerare i cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per ingiusta detenzione, pagato dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo rivalsa, ma non sono perseguiti per sequestro di persona.
I magistrati sono liberi di condannare i cittadini innocenti, tanto c’è l’indennizzo per l’errore giudiziario, pagato dallo Stato, ma a carico dei cittadini, salvo rivalsa, ma non sono perseguiti per calunnia e diffamazione.
Al cittadino, che per anni ha subito ingiustamente e per accanimento un procedimento penale che lo ha visto prosciolto, ovvero da vittima del reato ha visto il reato prescritto per inerzia, non c’è risarcimento riconosciuto, ne vi è abuso od omissione d’atti d’ufficio a carico dei magistrati. Lo stesso dicasi per il cittadino che è impedito alla giustizia civile per l’annosità dei processi.
C’è stato un referendum, approvato dalla quasi totalità dei cittadini italiani, che formalmente ha stabilito la responsabilità civile dei magistrati. Ossia: i magistrati che sbagliano devono risarcire i danni.
Invece, il rappresentante eletto dal popolo, ma lontano dagli interessi dei cittadini, con l’art. 2 della legge n. 117/88 ha previsto:
«1. Chi ha subito un danno ingiusto per effetto di un comportamento, di un atto o di un provvedimento giudiziario posto in essere dal magistrato con dolo o colpa grave nell’esercizio delle sue funzioni ovvero per diniego di giustizia può agire contro lo Stato per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e anche di quelli non patrimoniali che derivino da privazione della libertà personale.
2. Nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme di diritto né quella di valutazione del fatto e delle prove.
3. Costituiscono colpa grave:
a) la grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
b) l’affermazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza è incontrastabilmente esclusa dagli atti del procedimento;
b) la negazione, determinata da negligenza inescusabile, di un fatto la cui esistenza risulta incontrastabilmente dagli atti del procedimento;
c) l’emissione di provvedimento concernente la libertà della persona fuori dei casi consentiti dalla legge oppure senza motivazione».
Ai sensi dell’art. 3, n. 1, prima frase, della legge n. 117/88, costituisce peraltro un diniego di giustizia «il rifiuto, l’omissione o il ritardo del magistrato nel compimento di atti del suo ufficio quando, trascorso il termine di legge per il compimento dell’atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono decorsi inutilmente, senza giustificato motivo, trenta giorni dalla data di deposito in cancelleria».
Ad una lettura attenta della norma si palesa la volontà di non perseguire alcun Magistrato, specie se a decidere sul comportamento del singolo è la stessa corporazione di cui esso fa parte.
Se, come da molti è considerato, il magistrato è dio in terra, infallibile e perfetto nelle sue azioni, mai incorrerà nel dolo o colpa grave, tanto meno sarà ammissibile la semplice colpa, dalla legge esclusa, così come è per i comuni mortali. Secondo la conformità del pensiero dominante, l’appello accolto o il ricorso cassato non sono frutto di errori giudiziari penali risarcibili, ma oneri a carico dell’innocente, perseguito ingiustamente.
Per il diniego di giustizia, poi, secondo il modo di pensare conforme di gente codarda e collusa, l'impedimento è oggettivo. Non è responsabilità di chi amministra la giustizia, ma è colpa dello Stato, quindi del cittadino, che fa mancare all’apparato la sussistenza economica, ovvero è colpa degli utenti, che in massa, si rivolgono alla magistratura per chiedere giustizia.
I magistrati devono meritarlo il rispetto e non pretenderlo. L’art. 3 della costituzione non prevede cittadini unti dal signore, al di sopra della legge. Non è certo l’azione di rivalsa del Presidente del Consiglio dei Ministri, non superiore ad un terzo dello stipendio del responsabile, di cui all’art 13 della stessa legge, ad equilibrare gli interessi in campo.
L’azione di rivalsa opera solo in caso di indennizzo per ingiusta detenzione ed errore giudiziario, casi in cui rientra l’operatività della legge. Per tutto il resto non opera l’indennizzabilità dello Stato e ricade sulle spalle del cittadino.
La Corte di giustizia Europea censura la disciplina italiana della responsabilità dei magistrati, e, con essa, il mancato utilizzo dell’art. 234 CE, attraverso la SENTENZA DELLA CORTE (Grande Sezione) del 13 giugno 2006:
«Responsabilità extracontrattuale degli Stati membri – Danni arrecati ai singoli da violazioni del diritto comunitario imputabili ad un organo giurisdizionale di ultimo grado – Limitazione, da parte del legislatore nazionale, della responsabilità dello Stato ai soli casi di dolo e colpa grave del giudice – Esclusione di ogni responsabilità connessa all’interpretazione delle norme giuridiche e alla valutazione degli elementi di fatto e di prova compiute nell’ambito dell’esercizio dell’attività giurisdizionale»
Nel procedimento C-173/03, avente ad oggetto la domanda di pronuncia pregiudiziale proposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dal Tribunale di Genova con ordinanza 20 marzo 2003, pervenuta in cancelleria il 14 aprile 2003, nella causa
Traghetti del Mediterraneo SpA, in liquidazione, contro Repubblica italiana.
La sentenza, di seguito acclusa, si inquadra in un risalente filone nell’ambito del quale il giudice comunitario da decenni ribadisce la responsabilità degli Stati per mancato rispetto del diritto comunitario da parte di tutte le loro istituzioni, in qualsiasi forma perpetrata. In questo caso la Cassazione italiana aveva dato torto alla società Traghetti del Mediterraneo, ricorrente per il risarcimento nei confronti della Tirrenia, non avendo tenuto conto della disciplina comunitaria relativa agli aiuti di Stato. Nel fare ciò la Cassazione aveva inoltre rifiutato di sollevare questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 234. Ed è questo forse un punto rilevantissimo nella sentenza pur densa di motivi interessanti (tra cui quello del colpo inferto alla disciplina della responsabilità civile dei magistrati.
Per questi motivi, la Corte (Grande Sezione) dichiara:
<Il diritto comunitario osta ad una legislazione nazionale che escluda, in maniera generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto comunitario imputabile a un organo giurisdizionale di ultimo grado per il motivo che la violazione controversa risulta da un’interpretazione delle norme giuridiche o da una valutazione dei fatti e delle prove operate da tale organo giurisdizionale.
Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della sentenza 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler>
A questo punto non si può pretendere che il cittadino, già tartassato, debba subire e tacere. Almeno che ci rimanga il diritto di lamentarci, se non, addirittura, di ribellarci.
LA RESPONSABILITA’ DISCIPLINARE E CIVILE DEI MAGISTRATI
LA SENTENZA 13 GIUGNO 2006 DELLA GRANDE SEZIONE DELLA CORTE DI GIUSTIZIA DEL LUSSEMBURGO: LA LEGGE 117/88 VIOLA I PRINCIPI DELL'ORDINAMENTO COMUNITARIO, NELLA PARTE IN CUI LIMITA ARBITRARIAMENTE L'AMBITO DELLA RESPONSABILITA' CIVILE DEI MAGISTRATI.
CONVINTA ADESIONE DEI PRIMI AUTORI DELLA DOTTRINA.
La più autorevole, fra le conferme alle nostre tesi, non può che provenire dalla recentissima Sentenza 13 giugno 2006 resa dalla più alta magistratura esistente nell'ordinamento comunitario europeo, vale a dire dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia U.E. del Lussemburgo.
La pronunzia, integralmente pubblicata su www.aziendalex.kataweb.it/, oltre che (sempre integralmente) sui settimanali giuridici ""Diritto e Giustizia"" fasc. 29/2006, pagg. 105 segg., e ""Guida al Diritto"", fasc. nr. 4 / 2006 <>, pagg.30 - 39, si caratterizza per l'affermazione, netta e categorica, dei seguenti principi di diritto, assolutamente dirimenti a favore della dimostrazione della fondatezza delle tesi qui sostenute:
I. Gli Stati membri dell'U.E. rispondono a titolo extracontrattuale del danno patito dai singoli, in conseguenza di violazioni manifeste del diritto comunitario compiute dagli organi giurisdizionali, quand'anche tali violazioni derivino dall'attività di interpretazione delle norme o di valutazione dei fatti e delle prove;
II. Per stabilire quando una violazione del diritto comunitario debba ritenersi manifesta "" si valuta, in particolare, alla luce di un certo numero di criteri quali il grado di chiarezza e precisione della norma violata, il carattere scusabile o inescusabile dell'errore di diritto commesso, o la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art.234, terzo comma, del Trattato C.E., ed è presunta, in ogni caso, quando la decisione interessata interviene ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in materia "" (così il punto 43. della sentenza 13 giugno 2006); su questo punto, inoltre, il massimo giudice europeo conferma le precedenti sue statuizioni, rese a partire dalla sentenza 19 novembre 1991, cause riunite C - 6 / 90 e C - 9 / 90 ricorrenti ""Francovich ed altri"", e poi dalla sentenza 5 marzo 1996 cause riunite C - 46 / 93 e C - 48 / 93, e in ultimo dalla la sentenza 30 settembre 2003 causa C - / 224 / 01 ricorrente ""Kobler"";
III. Il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave ""inescusabile"" del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto comunitario.
I primi commenti della dottrina si registrano in termini di grande interesse ed enfasi.
IMPUNITOPOLI PER I FUNZIONARI PUBBLICI. FUNZIONARI PUBBLICI: IMPUNITA' ED IMMUNITA'.
Le persone in carcere per droga sono il 15%; quelli per reati contro il patrimonio il 31; quelli per i reati contro la persona il 15%. Marginali sono le aliquote riguardanti delitti come l' associazione mafiosa (3%) e infinitesimali quelli per i reati dei 'colletti bianchi', conferma della compresenza di due codici distinti.
C'era una volta la lotta alla corruzione. Lotta dura, simboleggiata da Mani pulite.
Lotta che ha sconvolto l'Italia della politica e dell'impresa nella metà degli anni Novanta.
Memorabile l'immagine di quell'industriale che usciva dal carcere milanese di San Vittore, borsa Vuitton in alto, simbolo di ricchezza e del suo potere. Aveva resistito poche ore alle manette. E giù una confessione-fiume sulle mazzette da lui girate a questo o quell'uomo politico. Purché si aprissero dietro lui le porte della prigione, in vista del processo.
Ma, dopo le sentenze, quanti corruttori o corrotti hanno veramente pagato?
Quanti gironi infernali hanno dovuto attraversare prima di riavere la libertà definitiva?
La sensazione che pochissimi fossero gli sfortunati era diffusa. Ora c'è la certezza. La legge non è uguale per tutti.
Nell'arco di vent'anni, dal 1983 al 2002, compreso quindi il periodo di Tangentopoli, solo il 2 per cento ha scontato pene in carcere, mentre il 98 per cento l'ha fatta franca. O perché è scattata la sospensione condizionale (sotto i due anni) o perché sono state riconosciute misure alternative (servizi sociali: tra due e tre anni). E soprattutto perché nell'87 per cento dei casi la sentenza è stata mite: sempre meno di due anni.
Sono cifre rese pubbliche da una ricerca condotta dall'ex pm Piercamillo Davigo, uno dei protagonisti di Mani pulite, ora giudice di Cassazione, e Grazia Mannozzi, docente di diritto penale all'Università dell'Insubria (Como e Varese). Ricerca riversata nel libro "La corruzione in Italia", editore Laterza. Due anni per un lavoro tutto sui numeri, tratti dal Casellario giudiziale centrale. Una miniera di dati che inizialmente dovevano dar vita a una smilza analisi destinata a una rivista specializzata di diritto. Ne è venuto fuori invece un volume di 373 pagine, ricco di grafici e tabelle. Dentro, un inedito censimento sulle tangenti "made in Italy". Con risultati choc.
Ad esempio, solo due condanne a Reggio Calabria (in vent'anni!). Ancora. Nessuno riesce a immaginare che la Finlandia, il paese più "virtuoso" in Europa, secondo le statistiche di Transparency International, possa registrare condanne per corruzione quasi uguali a quelle dell'Italia. Che invece, sempre secondo Transparency International (classifiche elaborate sulla base di indici di "percezione"), è al penultimo posto, davanti al fanalino di coda Grecia, la più corrotta.
A proposito di risultati. I due autori bacchettano i corpi di polizia che «tendono a privilegiare l'attività di sicurezza pubblica rispetto a quella di polizia giudiziaria», ossia trascurano le indagini delle procure. Per questo annotano: «Non riteniamo di poter correlare alla (loro) attività la massiccia emersione della corruzione negli anni '92-94».
Un'altra delle sorprese che balzano all'occhio leggendo "La corruzione in Italia" riguarda la distribuzione del sistema mazzettaro sul territorio: «Intere aree geografiche del nostro paese, almeno stando al numero delle condanne per corruzione e concussione (l'estorsione del pubblico ufficiale, ndr) passate in giudicato, non sembrano essere state neppure sfiorate dal fenomeno Tangentopoli».
Partiamo dai più bravi. Al primo posto, l'area della Corte d'appello di Milano (882 casi), seguita da quella di Torino (568), Napoli (538) e Lecce (poco meno di 500). Stupiscono Genova (137) e, soprattutto, Firenze, «interessata a malapena da Mani pulite». Nel Meridione c'è invece atmosfera da "grande freddo", con l'eccezione, come si è visto, di Lecce e Napoli, dove «la macchina giudiziaria sembra aver funzionato efficacemente». Se a Reggio Calabria, però, quanto a condanne, c'è il deserto, non meglio se la cavano altri distretti meridionali. Come L'Aquila, Potenza, Salerno e Campobasso, per nulla toccati dalle «inchieste per corruzione». Stesso clima dal fronte di altre città della Sicilia e della Sardegna: Catania, Caltanissetta e Cagliari. Ma come, tutto lo Stivale è pervaso da un'atmosfera tale da «rovesciare un intero sistema politico con una risonanza mediatica senza precedenti» e laggiù non succede nulla? Secco il commento di Davigo-Mannozzi: «La repressione della corruzione in Italia tra il 1983 e il 2002 è avvenuta a macchia di leopardo». Colpendo solo alcuni distretti e «lasciando completamente indenni altri».
Andiamo allora a vedere che cosa succede nel profondo Sud. Come si spiega la vicenda di Reggio? Non si può certo credere che quella fosse una zona franca. Tanto più che l'ex sindaco Agatino Licandro, dimessosi nel '92, quindi nel pieno di Mani pulite, ha raccontato nel libro "La città dolente" «i particolari del patto del disonore con nomi, fatti, circostanze, e citando tutti i documenti necessari per trovare riscontri e prove». Come mai ci si imbatte in un numero così modesto di fatti di corruzione? Non solo in Calabria, ovviamente, ma anche nelle altre regioni appena nominate.
Cerchiamo allora di capire, dati alla mano, se vi è uno stretto intreccio tra corruzione e criminalità organizzata. Con una premessa. Quello della corruzione è un "mercato illegale", come gli altri tipici mercati illegali, dal traffico di droga al gioco d'azzardo. Nelle zone ad alta densità mafiosa è anch'esso sotto il controllo delle singole associazioni espressione del territorio, vale a dire la 'ndrangheta in Calabria, Cosa nostra in Sicilia e così via. Pertanto non è un caso se ci sono funzionari pubblici a libro paga delle organizzazioni.
Insomma, pochi casi vengono accertati. Rappresentano la punta dell'iceberg, quella che spunta dall'acqua. Ma il grosso continua a rimanere sotto, nella montagna sommersa.
FUNZIONARI PUBBLICI: NON LICENZIATI PUR CONDANNATI.
Sintesi delle osservazioni sulla gestione disciplinare prodotte dalla Corte dei Conti con Delibera n. 7/2006/G, da cui si evince una palese immunità ed impunità.
In questo paragrafo vengono sintetizzate le valutazioni, inerenti ai profili gestionali critici e a problematiche situazioni consolidatesi negli uffici controllati:
a) i continui mutamenti organizzativi, originati da prescrizioni normative e/o amministrative e caratterizzati da un sostanziale disinteresse per le sorti di una funzione naturalmente “tipizzata”, come quella disciplinare, pregiudicano il principio di continuità della azione disciplinare e tendono a disperdere specializzazioni professionali nella difficile materia;
b) analoghi effetti produce la forte mobilità di dipendenti nel settore disciplinare;
c) nelle istituzioni scolastiche questi fenomeni si accentuano perché la nuova organizzazione, basata su criteri autonomistici, convive con l’arcaica e disefficiente struttura consultiva “piramidale”. Quest’ultima è titolare di un anomalo potere di codecisione, che viene implementato da una frequente utilizzazione interdittiva di sanzioni proporzionate all’illecito;
d) risulta ancor più lenta e difficoltosa, rispetto alle precedenti indagini compiute da questa Corte, la capacità di evadere le notizie istruttorie. Il fenomeno riguarda soprattutto i casi più problematici, ove si intuisce una tendenziale riottosità ad illustrare compiutamente le disfunzioni amministrative e le loro conseguenze;
e) la tempistica delle vicende penali permane ipertrofica e allontana nel tempo la definizione disciplinare dei reati;
f) la tempistica dei procedimenti disciplinari - sia pure con le eccezioni e particolarità evidenziate in relazione – presenta margini di miglioramento rispetto ai valori rilevati nelle precedenti indagini. Essa rimane tuttavia assolutamente problematica se rapportata ai tempi tassativi previsti dalla legge, il cui mancato rispetto invalida la legittimità formale delle sanzioni disciplinari. Il fenomeno si acuisce e tende a concentrarsi nelle istituzioni scolastiche;
g) tendono ad accentuarsi – soprattutto nelle istituzioni scolastiche – i problematici rapporti, già accertati nelle precedenti indagini, tra le cancellerie penali e gli uffici disciplinari, da ascriversi prevalentemente al comportamento delle prime ma - talvolta – anche alla inadeguatezza dei funzionari degli uffici disciplinari ad interagire con procure e tribunali;
h) si sono verificate situazioni di mancata applicazione delle pene accessorie inerenti al rapporto di impiego;
i) sono state intercettate alcune situazioni di mancata apertura del procedimento disciplinare, con conseguente impunità del soggetto condannato in sede penale per reati rilevanti;
j) le situazioni di ritardo e le disfunzioni amministrative, inficianti la regolarità formale dei procedimenti, induce i funzionari responsabili a minimizzare le sanzioni, in modo da prevenire i ricorsi degli interessati e gli esborsi pecuniari conseguenti;
k) anche per le sospensioni cautelari il complesso “diritto vivente”, risultante dalle eterogenee disposizioni, normative e dagli andamenti giurisprudenziali, produce l’effetto secondo cui, al centro delle valutazioni della amministrazione più che la esigenza cautelare rimane la preoccupazione degli effetti economici della sospensione stessa;
l) quanto alla tempistica della funzione cautelare emerge che tra la data del fatto illecito e l’adozione del provvedimento decorre un tempo medio superiore a due anni;
m) i complessi meccanismi giurisdizionali e amministrativi illustrati nella relazione provocano la frequente permanenza in servizio di condannati per reati gravissimi. Queste situazioni sono talvolta accentuate dagli apparati amministrativi competenti;
n) alcune pronunce, soprattutto di carattere arbitrale, presentano notevoli profili problematici, aggravando situazioni di disparità ed effetti, anche patrimoniali, negativi per l’amministrazione;
o) emerge una sensibile dissonanza tra le pronunzie penali e quelle dei giudici del lavoro anche in termini ermeneutici della legge n. 97/01. Su tale fenomeno si riverbera, probabilmente, la natura del rapporto di lavoro pubblico “privatizzato”, dietro la cui controversa connotazione semantica si nasconde un coacervo di interessi concreti diversi da quelli del rapporto di lavoro privato;
p) permane, rispetto alle precedenti indagini, la eterogeneità delle sanzioni disciplinari in ordine ad analoghe tipologie criminose. Su tale fenomeno incidono, tra l’altro, la presenza di irregolarità formali nel procedimento disciplinare ed i condizionamenti ambientali;
q) si consolidano fenomeni elusivi della funzione disciplinare, quali i passaggi ad altra amministrazione, alcuni dei quali con esiti di recidiva particolarmente gravi;
r) nell’esercizio della mobilità non risultano prassi di verifica, da parte della amministrazione ricevente, dei requisiti di moralità del dipendente trasferito;
s) le procedure di arbitrato e conciliazione, applicate alle condanne più gravi, consentono di negoziare interessi ontologicamente indisponibili, privando i reati più gravi di appropriate sanzioni.
MAGISTRATURA: FORTE CON I DEBOLI E DEBOLE CON I FORTI ???
PARLIAMO DELLO STATO DELLA GIUSTIZIA.
Pubblichiamo la relazione del guardasigilli avv. prof.ssa Paola Severino sull'amministrazione della Giustizia nell'anno 2011 nel testo ufficiale depositato alle Camere. 17 gennaio 2012. Esemplare ed importante perché fatta da un tecnico e non da un politico, quindi riporta la cruda realtà.
RELAZIONE SULL'AMMINISTRAZIONE DELLA GIUSTIZIA NELL'ANNO 2011
INTRODUZIONE
“Sig. Presidente, Onorevoli Deputati,…….Al termine del mio intervento depositerò una completa documentazione sullo stato della giustizia, anche su supporto informatico, in modo da garantire il massimo della trasparenza e dell’accessibilità dei dati, mentre concentrerò l’esposizione sui punti di maggiore criticità del sistema giudiziario italiano…….. Si tratta di emergenze ben note che riguardano:
a) l’attuale stato delle carceri e le problematiche condizioni dei 66.897 detenuti che, salvo poche virtuose eccezioni, soffrono modalità di custodia francamente inaccettabili per un Paese come l’Italia;
b) il deficit di efficienza degli uffici giudiziari rispetto ad una domanda di giustizia che, in termini quantitativi, appare nettamente sovradimensionata nel confronto con le altre democrazie occidentali (il rapporto CEPEJ 2010 ci dice che, nel civile, con 4.768 contenziosi ogni 100.000 abitanti, l’Italia è al quarto posto in Europa per tasso di litigiosità, dietro Russia, Belgio e Lituania su 38 paesi censiti). Anche su questo ci si dovrebbe forse interrogare maggiormente: questo elevato tasso di litigiosità da cosa deriva? Da una propensione socio-culturale italiana alla conflittualità? Da una scarsa fiducia nella possibilità di affrontare a monte la controversia e di trovare soluzioni ragionevoli nel dialogo tra cittadini? Da una eccessiva complessità del tessuto normativo, tale da generare essa stessa un proliferare di contrasti interpretativi, la cui soluzione va devoluta al giudice? Ognuna di queste domande richiederebbe una approfondita analisi, perché la risposta ad esse potrebbe segnare un cambiamento di politica legislativa, volto ad incidere sulle cause di una domanda di giustizia così diffusa;
c) la problematica individuazione degli strumenti attraverso i quali, soprattutto nel settore civile, sia possibile procedere alla rapida eliminazione dell’arretrato accumulatosi negli ultimi trent’anni, senza stravolgere i nostri principi fondamentali, senza deludere le aspettative di quanti hanno già da tempo intrapreso il cammino processuale e senza limitare eccessivamente l’accesso del cittadino al sistema giudiziario per nuove istanze;
d) l’indifferibile razionalizzazione organizzativa e tecnologica dell’intera struttura amministrativa dei servizi giudiziari, in modo da utilizzare al meglio le risorse umane e finanziarie disponibili, realizzando risparmi di spesa che siano il frutto di interventi strutturali e non di semplici tagli alle dotazioni di bilancio. Vedete, in questi primissimi mesi di Governo mi sono resa conto di come i risparmi più razionali si potrebbero realizzare anche sulle spese “minori”, sol che si modificasse l’erronea attitudine mentale a pensare che il denaro e le risorse pubbliche siano “di nessuno”, convertendola nella corretta concezione che il denaro pubblico è “di noi tutti”, perché proviene dalle nostre tasse, dalla nostra fatica quotidiana, dal nostro lavoro, dal nostro impegno per contribuire alla crescita del Paese. Allora vedremmo come dalla somma dei piccoli-grandi sprechi e dalla loro eliminazione si potrebbe ottenere un ammontare molto più rilevante di quanto si pensi, ma soprattutto un cambiamento culturale, idoneo a garantire risparmi di spesa strutturali e non episodici.
Queste, dunque, le quattro principali criticità da affrontare che, di certo, non rappresentano una sorpresa se è vero che se ne parla da molti lustri.
Il quadro generale è, infatti, rappresentativo di una situazione che desta forti preoccupazioni sia in ordine all’enorme mole dell’arretrato da smaltire che, al 30 giugno del 2011, è pari a quasi 9 milioni di processi (5,5 milioni per il civile e 3,4 milioni per il penale), sia con riferimento ai tempi medi di definizione che nel civile sono pari a 7 anni e tre mesi (2.645 giorni) e nel penale a 4 anni e nove mesi (1.753 giorni). Peraltro nel settore civile l’inefficienza nella definizione dell’arretrato ha dato luogo a costose e talvolta paradossali conseguenze. Si è già detto che il ritardo nella definizione dei giudizi dipende, in larga misura, dal numero davvero esorbitante di questioni per le quali si richiede l’intervento del giudice. Con oltre 2,8 milioni di nuove cause in ingresso in primo grado l’Italia è seconda soltanto alla Russia nella speciale classifica stilata nel citato rapporto CEPEJ. Ebbene, proprio questo fenomeno determina un ulteriore intasamento del sistema conseguente al numero progressivamente crescente di cause intraprese dai cittadini per ottenere un indennizzo conseguente alla ritardata giustizia. Al riguardo i numeri non ammettono equivoci.
Approvata la legge (n. 89 del 2001 a tutti nota come legge Pinto) che consente di indennizzare l’irragionevole durata del processo si è verificata una vera e propria esplosione di questo contenzioso passato dalle 3.580 richieste del 2003 alle 49.596 del 2010. Un secondo effetto negativo indotto da tale contenzioso è quello dell’ulteriore dilatazione dei tempi di definizione dei giudizi presso le Corti di Appello (cui è assegnata la competenza a decidere nella specifica materia) che si aggiunge all’entità ormai stratosferica e sempre crescente degli indennizzi liquidati (si è passati dai 5 milioni di euro del 2003, ai 40 del 2008 per giungere ai circa 84 del 2011). Il dato di maggiore rilievo mi pare, però, quello fornito nel 2011 dalla Banca d’Italia, secondo cui l’inefficienza della giustizia civile italiana può essere misurata in termini economici come pari all’1% del PIL. Se a questo si aggiunge che nella categoria “Enforcing Contracts” del rapporto Doing Business 2010 l’Italia si classifica al 157° posto su 183 paesi censiti, con una durata stimata per il recupero del credito commerciale pari a 1210 giorni, mentre in Germania ne bastano 394, si coglie la misura di quanto ciò incida negativamente sulle nostre imprese segnando, anche sotto tale aspetto, una divaricazione di efficienza con i migliori sistemi dei Paesi dell’Unione Europea che frena, ineluttabilmente, le possibilità di sviluppo ed anche gli investimenti stranieri.
……Non meno rilevanti risultano le conseguenze dell’eccessiva durata del processo penale. E non inganni la circostanza che la durata media del processo penale è inferiore rispetto a quella del processo civile (4,9 anni rispetto agli oltre 7 del civile) poiché occorre tener conto che essa incide in modo sensibile anche sulla sorte degli oltre 28.000 detenuti in attesa di giudizio, che rappresentano il 42% dell’intera popolazione carceraria (altra anomalia tutta italiana). E se è vero che la libertà personale può e deve essere limitata per tutelare la collettività è parimenti incontestabile che una dilatazione eccessiva della durata del processo a carico di imputati o indagati detenuti pregiudica questo delicato equilibrio tra valori di rango costituzionale ed aumenta, talvolta in modo intollerabile, la sofferenza di chi, ad onta della presunzione di innocenza, è costretto ad attendere, da recluso, una sentenza che ne accerti le responsabilità. Con la possibilità, non del tutto remota, che alla carcerazione preventiva segua una sentenza assolutoria.
La durata del processo penale incide, infatti, anche sul numero dei procedimenti (in media 2369 ogni anno) per ingiusta detenzione ed errore giudiziario e, in ogni caso, aggrava la misura dei pur doverosi risarcimenti a tale titolo erogati (nel solo 2011, lo Stato ha subito un esborso pari ad oltre 46 milioni di euro).
Se mi è consentita una digressione, senza alcun intento polemico, credo che i dati oggettivi che ho appena illustrato consentano di riflettere sull’effettività del sacrosanto principio di civiltà giuridica sancito dal terzo comma dell’art. 275 del codice di procedura penale secondo cui “la custodia cautelare in carcere può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata”. Quel che è certo è che un uso, per così dire, meglio calibrato della custodia cautelare in carcere sarebbe sotto più aspetti benefico per l’amministrazione giudiziaria e per il sistema carcerario, senza alcuna controindicazione per la collettività, se è vero che le esigenze di sicurezza possono essere alternativamente garantite da un ventaglio davvero ricco di opzioni di cui oggi il giudice dispone e che, se possibile, proveremo a migliorare ed incrementare. Detto questo, ho già manifestato in più occasioni la mia personale preoccupazione, anzi, la mia angoscia per lo stato delle carceri italiane e degli ospedali psichiatrici giudiziari e sento fortissima, insieme a tutto il Governo, la necessità di agire in via prioritaria e senza tentennamenti per garantire un concreto miglioramento delle condizioni dei detenuti (ma anche degli agenti della polizia penitenziaria che negli stessi luoghi ne condividono la realtà e, spesso, le sofferenze). Si tratta, ancora una volta, di questioni di difficile soluzione a causa di complicazioni burocratiche e di difetti strutturali e logistici che si sono stratificati nel corso del tempo. Non intendo, però, soffermarmi sul numero e la composizione della popolazione carceraria, sulla vetustà e le condizioni delle strutture, sugli spazi che competono e su quelli effettivamente assegnati e su tutte le altre questioni fatte di freddi dati e numeri (che facilmente troverete nei documenti ufficiali). Tutto questo, infatti, dice poco della vera questione in ballo: siamo di fronte ad una emergenza che rischia di travolgere il senso stesso della nostra civiltà giuridica, poiché il detenuto è privato delle libertà soltanto per scontare la sua pena e non può essergli negata la sua dignità di persona umana. Le innegabili difficoltà non possono costituire un alibi né per il Ministro della Giustizia né per tutte le altre istituzioni interessate. Qualunque giustificazione è infatti destinata a crollare miseramente non appena si varca la soglia di una delle strutture a rischio e si verifica personalmente la realtà. Lo dico da Ministro, ma anche e soprattutto da cittadino: questa situazione va migliorata subito, pur nella piena consapevolezza che non esista alcuna formula magica per risolvere questo annoso e doloroso problema, se è vero, come è vero, che anche in altri paesi la piaga del sovraffollamento carcerario è segnalata da numeri che parlano da soli (ad esempio: 80.000 detenuti nel Regno Unito e più di 2 milioni negli Stati Uniti). Solo un equilibrato insieme di misure, idonee a coniugare sicurezza sociale e trattamento umanitariamente adeguato del custodito o del condannato, potrà fornire un serio contributo alla soluzione del problema. Edificazione di nuove carceri, ma anche manutenzione e migliore utilizzo di quelle esistenti; misure alternative alla detenzione, ma anche lavoro carcerario; deflazione giudiziaria attraverso depenalizzazione di reati bagatellari e non punibilità per irrilevanza del fatto, ma anche effettività della pena. Sono solo alcuni esempi che dimostrano come il campionario delle possibili soluzioni sia molto ampio, ma che l’aspetto più difficile è quello di un corretto equilibrio tra aspetto afflittivo ed aspetto rieducativo della pena, tra carattere umanitario del trattamento del condannato e tutela del diritto dei cittadini alla sicurezza, tra riconoscimento dei più elementari principi di civiltà anche a chi è detenuto e pieno soddisfacimento dei diritti delle vittime e dei loro familiari.
§ La mediazione.
Con il decreto legislativo n. 28 del 4 marzo 2010 il Governo diede attuazione alla delega relativa all’introduzione in via generalizzata della mediazione come strumento di risoluzione alternativa delle controversie civili e commerciali. Si tratta di un’importante riforma che mira a ridurre in modo sensibile il numero di giudizi dinanzi al magistrato, offrendo alle parti uno strumento generale alternativo alla via giudiziale per risolvere le controversie dei cittadini. Questa importante riforma legislativa, completata con l’emanazione della normativa regolamentare di dettaglio è operativa dal 20 marzo 2011, con l’entrata in vigore delle norme sulla obbligatorietà della mediazione nelle materie tassativamente indicate dalla legge. Poiché l’analisi dei dati statistici riguarda soltanto il primo semestre dell’anno appena trascorso è certamente prematuro tentare una valutazione degli effetti della riforma sulla domanda di giustizia. Bisogna inoltre tener conto che è stata differita di un anno l’obbligatorietà della mediazione in materia di condominio e risarcimento del danno derivante da circolazione stradale. Nondimeno, rispetto alle 33.808 mediazioni iscritte nel primo semestre del 2011 si può cogliere un trend in crescita se si considera che a novembre 2011 le mediazioni registrate hanno superato la soglia delle 53.000 unità. Sorprendono, invece, i dati relativi allo scarso utilizzo della mediazione delegata dal giudice e l’elevato numero di mancate comparizioni dinanzi al mediatore. Vorrei però sottolineare due dati che mi sembrano rilevanti:
a) nell’80% dei casi le parti partecipano alla mediazione con l’assistenza di un legale di fiducia (e ciò vale a scongiurare almeno in parte le preoccupazioni della classe forense in ordine ad una possibile minorata tutela tecnica dei diritti dei cittadini);
b) in presenza delle parti il tentativo di mediazione si conclude con successo nel 60% dei casi, fatto che testimonia le grandi potenzialità deflattive dell’istituto.
§ Gli interventi in materia di organici della magistratura.
Al momento risultano presenti in organico 8.834 magistrati togati, con una scopertura di 1.317 posti.
§ L’Attività Ispettiva e di Gabinetto.
Nell’anno 2011 il Ministro ha dato il proprio concerto in ordine al conferimento di 72 Uffici Direttivi, mentre nel quadro della programmazione predisposta l’Ispettorato generale ha eseguito 42 ispezioni ordinarie e 14 inchieste. Risulta altresì esercitata l’azione disciplinare nei confronti di 46 magistrati per violazioni dei doveri di diligenza, correttezza e laboriosità, relativi a diverse ipotesi, tra le quali spiccano quelle relative a gravi e reiterati ritardi nel deposito delle motivazioni delle sentenze che, talvolta, hanno determinato inaccettabili scarcerazioni di pericolosi criminali per decorrenza dei termini massimi di custodia cautelare. L’Ispettorato Generale ha svolto anche 234 ispezioni ordinarie presso uffici giudiziari di ogni ordine e grado.
§ La Giustizia Minorile.
Con riguardo alla Giustizia Minorile, nel corso del 2011 l’esame delle statistiche ha confermato l’aumento generale della presenza di minori di nazionalità italiana, già iniziato negli anni immediatamente precedenti, anche nei Servizi residenziali, come i Centri di prima accoglienza e gli Istituti penali per i minorenni, che per molti anni hanno visto prevalere numericamente i minori stranieri. Attualmente la presenza straniera proviene prevalentemente dall’Est europeo (principalmente dalla Romania) e dal Nord Africa (Marocco soprattutto). In generale i reati contestati sono prevalentemente contro il patrimonio (60%), pur se non sono trascurabili le violazioni delle disposizioni in materia di sostanze stupefacenti (10%).
……È possibile applicare questo modello virtuoso anche al sistema giudiziario? Certamente sì, purché tutti i protagonisti: magistrati, avvocati, personale amministrativo, cittadini utenti, e non soltanto le istituzioni competenti (Governo, Parlamento e C.S.M.) siano disposti ad accettare che un altro modello di servizio giudiziario, più snello, più rapido, meno costoso e meno intasato, non soltanto è possibile, ma è oggi assolutamente necessario e non più rinviabile. Ciascuno di noi sarà magari chiamato a rinunciare a qualche privilegio o a qualche abitudine consolidata e rassicurante, ma così facendo consegneremo al Paese, cioè a tutti noi, un sistema giudiziario migliore e più giusto. Vi ringrazio.”
Galere da terzo mondo
L’inchiesta - denuncia su “La Repubblica”. Ogni 100 detenuti, 47 sono di troppo, ma uno su cinque ha un lavoro. Sono 67510 i reclusi in Italia, 45572 i posti disponibili. Un tasso di sovraffollamento del 149% contro il 99% della media europea. Resta alto il numero dei suicidi: 684 nel 2011. E dal 2000 sono 85 gli agenti di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita.
I numeri:
67.510 I detenuti nelle carceri
45572 I posti disponibili
28457 I detenuti in carcerazione preventiva
47 I detenuti eccedenti ogni 100 posti disponibili
684 I suicidi in carcere nel 2011
85 I suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria dal 2000 ad oggi
99% L'indice di sovraffollamento nelle carceri europee
149% In Italia
1491 I condannati all'ergastolo
7311 I detenuti con meno di 25 anni
20,68% La percentuale di detenuti che lavora
3, 95 miliardi di € Le risorse a disposizione nel 2007
2, 77 miliardi di € Nel 2010
134 milioni di € La situazione debitoria dell'amministrazione penitenziaria
25mila I detenuti di origine straniera, pari circa al 30%
7000 Di questi, di origine balcanica
5200 I marocchini
3500 I romeni
675 milioni di € La cifra promessa in tre anni dal piano carceri di Alfano
9150 I posti previsti in più
20 I nuovi padiglioni previsti
Sessantottomila detenuti intrappolati in un sistema fatto per poco più di 45 mila. Strutture vecchie, condizioni igieniche disperate, cibo degno di canili, salute a rischio anche per le guardie, tasso di suicidi altissimo. E' la foto impietosa del nostro sistema penitenziario. Riuscirà il governo a porvi rimedio?Sporche, fredde, sovraffollate e invivibili. L'"inconcepibile orrore" delle carceri raccontata da Alberto Custodero. Una situazione ormai insostenibile, stigmatizzata anche da Napolitano: oltre 68mila detenuti rinchiusi in edifici destinati a non più di 45.654 persone. Una qualità della vita indegna di un paese civile. Il ministro della Giustizia, Severino ne riferisce alla Camera: "Le difficoltà non possono essere un alibi". E promette interventi per cominciare a svuotarle almeno parzialmente. A San Vittore, carcere milanese, in celle di sette metri quadrati respirano a fatica sei detenuti per 20 ore al giorno. Nel partenopeo Poggioreale per ogni gabbia ne ammassano anche una dozzina: a Natale mancava il riscaldamento e "centinaia di persone - racconta il deputato pd Guglielmo Vaccaro - stavano accalcate attorno a stufe di fortuna". Nell'anconetano Montacuto, teatro di una recente rivolta, alcuni reclusi sono costretti a orinare in appositi "pappagalli". I bagni sono sufficienti per 178 ospiti, non per i 448 che ci sono. A Monza (900 detenuti per 400 posti) la prigione si allaga quando piove ed è in atto un piano di parziale evacuazione. Nel supercarcere Torinese delle Vallette a giugno venti detenuti hanno dormito in palestra, su materassi buttati a terra. Nel carcere di massima sicurezza di Paliano, nel Frosinate, che ospita un quarto dei pentiti d'Italia, la direttrice fa la guardia in portineria: manca il personale. Ma "l'estremo orrore inconcepibile in un Paese civile", per usare le parole del presidente della Repubblica Napolitano, i Nas lo hanno trovato in 21 celle dell'ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino, in Toscana. E in altre 28 in Sicilia a Barcellona Pozzo di Gotto: in quei luoghi di detenzione per condannati definitivi malati di mente, i bagni a disposizione per pazienti con la diarrea erano senz'acqua. Alcune persone erano legate al letto nude, altri malati privi di farmaci. Il presidente del Dap, Franco Ionta, non ha esitato a definire "un'emergenza nell'emergenza carceri" il problema dell'opg siciliano, dove 200 detenuti potrebbero uscire, ma restano reclusi perché nessuno sa dove piazzarli. Le 206 carceri italiane stanno scoppiando, riempite come sono all'inverosimile: in 45mila e 654 posti, sono stipati più di 68 mila detenuti, il 30 per cento stranieri (e di questo, un terzo di origine balcanica). La qualità della vita s'è abbassata anche perché - lo denuncia il Gruppo Abele - dal 2007 al 2010 è stata ridotta la spesa annua, passata da 13170 euro pro-capite a 6275. "Ventottomila detenuti - dichiara il ministro della Giustizia Paola Severino nella sua relazione sullo stato della giustizia che presenta oggi alla Camera - sono in attesa di giudizio, il 42% dell'intera popolazione carceraria (anomalia tutta italiana)". Ventitremila sono comunque di troppo e creano la cosiddetta emergenza sovraffollamento. "Che emergenza non è - osserva la deputata radicale Rita Bernardini - perché è una situazione diventata cronica". "Siamo di fronte ad una emergenza che rischia di travolgere il senso stesso della nostra civiltà giuridica - ammonisce il ministro - poiché il detenuto è privato delle libertà soltanto per scontare la sua pena e non può essergli negata la sua dignità di persona umana". Tre anni fa l'allora ministro della Giustizia Alfano aveva annunciato e promesso un faraonico piano-carceri triennale: 1800 assunzioni di agenti. E 670 milioni stanziati per costruire, entro il 2012, undici nuovi istituti e venti padiglioni in strutture già esistenti, per un totale di 9150 posti. Cosa sia stato realizzato di quel piano è mistero. La realtà è sotto gli occhi di tutti. Compresi quelli del Papa che il 18 dicembre, durante la visita nel carcere romano di Rebibbia, ha detto che "il sovraffollamento e il degrado possono trasformare il carcere in una doppia pena". Anziché, come previsto dall'articolo 27 della Costituzione, in un luogo di detenzione "finalizzato alla rieducazione". Se per l'ex ministro dell'Interno Giuliano Amato "il carcere è lo specchio della civiltà di un Paese", i 66 suicidi di detenuti del 2011 riflettono la gravità dello stato di salute del "pianeta carceri". "Le condizioni in cui si trovano i detenuti nelle celle italiane - aggiunge Amato - gli animalisti le ritengono intollerabili per i polli in batteria". Il presidente del consiglio regionale pugliese parla di "un'autentica emergenza sociale e umanitaria". Le Asl lanciano l'allarme sanitario, con il rischio (è il caso del carcere "le Sughere"di Livorno) di epidemie di Tbc e di diffusione di scabbia.
Ma è davvero costituzionalmente rieducativo un mondo carcerario nel quale il rischio suicidio è venti volte superiore a quello della popolazione "libera"? Dove l'indice di sovraffollamento medio è del 149 per cento contro il 99 per cento europeo? Dove fino a qualche mese fa c'erano 57 bambini sotto i 3 anni in prigione con le mamme-detenute? La realtà è nell'ammissione della stessa Severino: "Le innegabili difficoltà - dice a Montecitorio - non possono costituire un alibi né per il Ministro della Giustizia né per tutte le altre istituzioni interessate". La drammatica realtà è pure nella denuncia del garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, che chiede lo stop dei nuovi ingressi a Regina Coeli "perché si rischia la catastrofe umanitaria". Nelle ordinanze dei giudici di Sorveglianza che scrivono che nel carcere romano "ci sono condizioni di criticità". Nelle parole del commissario del piano carceri e presidente del Dap, Ionta, secondo cui "con l'ingresso di mille unità al mese e 68 mila detenuti il sistema penitenziario vive le difficoltà maggiori dal Dopoguerra ad oggi". Nell'annuncio della Comitato per la prevenzione della tortura di Strasburgo che ha annunciato per il 2012 una ispezione nelle carceri italiane dopo la condanna del nostro Paese della Commissione europea dei diritti dell'uomo perché un detenuto bosniaco viveva in condizioni disumane di sovraffollamento. Nella proposta di legge del deputato pdl Rocco Girlanda che - unico ad accorgersene - chiede di vietare l'uso di bombolette del gas per cucina da cella in quanto alcuni detenuti le usano per suicidarsi. Altri, tossicomani, per sballarsi inalando il gas.
Il carcere è un mondo nel quale "guardie e ladri", detenuti e agenti, sono accomunati da un'unica tragica disperazione. Ai 66 suicidi dei carcerati (si impiccano coi lacci delle scarpe, inalando gas, tagliandosi i polsi, ingoiando lamette), si contrappongono quelli dei poliziotti, diciotto negli ultimi 5 anni. Troppi, tanto che lo stesso Ionta ad ottobre ha deciso di istituire una Commissione ad hoc per "indagare" sul fenomeno dei suicidi fra agenti della polizia penitenziaria. A questo proposito, però, il sindacato Sappe ha denunciato che i punti di ascolto psicologico per il personale vittima di disagio istituiti dal Dap nel 2008 sono rimasti un progetto non realizzato per mancanza di fondi. "I 50 psicologi che avevano vinto il concorso - sostengono i sindacati - non sono mai stati assunti". Alle rivolte dei detenuti (Ancona, Parma, Bologna, Cagliari, Prato), si contrappongono le manifestazioi dei poliziotti che, per protesta, si mettono in "autoconsegna". Una recente denuncia della Uil svela la crisi che attraversa lo stesso dipartimento dell'amministrazione penitenziaria: "Il Dap - dicono i sindacati - è sull'orlo del fallimento con un debito di 150 milioni che mette a rischio l'acquisto del vitto per i detenuti. E che costringe direttori e provveditori a mediare con i creditori per garantire l'erogazione di acqua, luce e riscaldamento".
Il governo Monti annuncia le sue contromisure per svuotare le carceri. "Edificazione di nuove carceri", annuncia il ministro Severino che però non dice con quali risorse. "Manutenzione di quelle esistenti". "Ma anche lavoro per i detenuti. E deflazione giudiziaria attraverso la depenalizzazione di reati bagatellari. Sono stati dimezzati i tempi massimi per la convalida dell'arresto (48 ore anziché 96), lasciando 21mila detenuti nelle camere di sicurezza delle forze dell'ordine o agli arresti domiciliari. Inoltre s'è innalzato da 12 a 18 mesi la soglia della pena detentiva residua per l'accesso alla detenzione domiciliare. Con questa norma agli oltre 3800 detenuti fino a oggi scarcerati se ne aggiungeranno altri 3327 con un risparmio di spesa di 375mila euro ogni giorno.
In questo mondo di drammi e sofferenza non può mancare anche una storia al contrario. Come quella del cinquatunesimo detenuto suicidatosi nel 2011: l'uomo s'è tolto la vita a tre giorni dalla fine pena. Per dirla con Erich Fromm, "aveva paura della libertà". Pazzi di solitudine o malati terminali. Ma il 41-bis non si può toccare. Il regime di assoluto isolamento applicato a condannati particolarmente pericolosi e ai boss della criminalità organizzata non sembra poter avere attenuazioni. Così persone sono morte, stanno morendo o sono andate fuori di testa senza che sia stato possibile curarle in condizioni dignitose. Lo discrezionalità dei giudici di sorveglianza. Il 19 maggio un detenuto, infettato dall'Hiv e allo stadio terminale di un tumore ai polmoni, s'è visto negare dai magistrati di Sorveglianza il diritto di trascorrere gli ultimi istanti di vita da cittadino libero. Ed è morto dietro le sbarre. Il garante del detenuto per la Toscana, Andrea Callaioli, ha gridato allo scandalo: "Un uomo nelle sue condizioni non doveva morire in prigione per questioni etiche". Ma esiste un'etica della morte in cella? E quanto grave deve essere una malattia per rendere incompatibile la detenzione? Un confine certo non esiste. Tutto è affidato alla discrezionalità dei singoli magistrati. "Quot capita, tot sententiae". Tanti giudici, tante sentenze.
E così può capitare che un detenuto possa impazzire perché seppellito vivo da 20 anni al 41-bis, il regime carcerario duro riservato a mafiosi e terroristi che li isola dal resto del mondo. È la morte civile che ha forse un senso quando un boss - o un terrorista - ha ancora il potere di comandare dalla cella. Ma che diventa una tortura, una crudeltà o un accanimento quando il regime duro viene reiterato nei confronti di boss nel tempo invecchiati, malati e non più pericolosi. Al 41-bis è vietato guardare la tv, parlare con altri detenuti, leggere, scrivere, uscire dalla cella. Una sola visita al mese per i familiari che, però, si possono contattare solo attraverso un vetro. E coi quali si può parlare solo con un telefono.
Vincenzo Stranieri si trova ininterrottamente al 41-bis dal 1984, all'epoca poco più che ventenne. Quel prolungato isolamento dal mondo ha nuociuto alla sua psiche, devastandola. Stranieri ha subito già diversi trattamenti sanitari obbligatori (Tso) con ricoveri in reparti psichiatrici. Ha perso 45 chili in pochi mesi. Periodicamente si ferisce in tutto il corpo. Ma secondo i giudici "merita" ancora il 41-bis e non, invece, una condizione carceraria "normale". Ma è rieducativo, dal punto di vista costituzionale, mantenere un detenuto malato di mente al regime 41-bis? Ed è etico negargli la possibilità di stare in carcere insieme agli altri detenuti? La vicenda di Stranieri è oggetto di un'interrogazione parlamentare di sei deputati radicali, e per la sua liberazione si batte disperatamente la figlia Anna, che non ha mai potuto abbracciare il papà. Un caso analogo riguarda un altro detenuto sottoposto al regime carcerario duro nel carcere di Parma. Si tratta di Gaetano Fidanzati, anziano boss mafioso (ha 76 anni) dell'Arenella Acquasanta che si trova dal dicembre 2009 al 41-bis. La deputata radicale Rita Bernardini s'è rivolta con una interrogazione al ministro della Giustizia per sapere se le gravi condizioni di salute in cui versa il detenuto siano compatibili col carcere duro. Una perizia medico legale, afferma la parlamentare, pur rilevando diverse malattie, ipertensione, diabete, disturbi cardiaci e cancro, sostiene la compatibilità con il 41-bis. Ma - chiede la Bernardini al Guardasiguilli - nel regime 41-bis è veramente garantita a Fidanzati e a tutti i detenuti che si trovano in analoghe gravi condizioni la tutela dei propri di diritti alla salute prevista dalla Costituzione? Cibo da cani e zero in igiene.
Così ci si ammala di carcere e ce lo dice Vittoria Iacovella. Solo dal 2008 esistono criteri nazionali per dare omogeneità alla tutela della salute dei detenuti. Ma la crisi e la mancanza di soldi hanno peggiorato la situazione: per i pasti di ciascun carcerato si spendono 3,8 euro al giorno; nei canili si arriva a 4,5. Il carcere intercetta e riflette la grande fragilità di questo Paese. Così, come aumenta il disagio psichico tra la gente comune (ne è colpito un quinto della popolazione italiana) scopriamo, nelle celle sovraffollate, che più del 15 per cento soffre di disturbi legati alla salute mentale, spesso associati a tossicodipendenza o alcolismo.
Gli stranieri rappresentano il 30-40% a seconda delle regioni, fino ad arrivare al carcere di Civitavecchia in cui sono presenti più di 100 nazionalità. Per i pochi medici, non sempre supportati dai necessari mediatori culturali, si rivela una Babele. La salute è strettamente legata all'alimentazione. Secondo il "Forum per il diritto della salute in carcere", il costo del cibo per un detenuto è di 3,8 euro al giorno e comprende colazione, pranzo e cena. Il comune di Roma ne spende 4,5 per ciascun ospite dei canili. Senza cure efficaci, i 5.200 malati di epatite B e C, i 2.500 sieropositivi (quasi certamente sottostimati), e la recrudescenza della tubercolosi sono un pericolo per tutti. Fino alla riforma del 2008, la salute in carcere era gestita da ogni singolo istituto penitenziario, in modo autonomo. Ciascun sistema rimaneva chiuso in se stesso con un'enorme disomogeneità nella gestione fra diverse città. Il Forum Nazionale per la salute in carcere ha lottato a lungo per riuscire a ottenere che i criteri fossero omogenei in tutto il territorio nazionale. Oggi la sanità penitenziaria è gestita dalle Asl competenti per territorio. "In teoria è una cosa giusta, una riforma che andava fatta - spiega Fabio Gui, operatore dell'ufficio del garante della regione Lazio per la salute in carcere - In pratica è difficilissimo attuarla a causa di anni di tagli ai budget delle Asl". Tuttavia, come sottolinea Roberto Di Giovan Paolo, senatore Pd e Presidente del Forum per la salute in carcere "non esiste un censimento delle emergenze sanitarie, le Asl non sanno con chi e con quanti pazienti detenuti devono lavorare. E' una cosa necessaria per la quale stiamo preparando un'interrogazione parlamentare".
La riforma ha aperto le porte del carcere ai medici esterni, ha reso tutto più trasparente, facendo emergere, però, anche tutte le criticità. Con la crisi economica gli operatori del settore testimoniano che la qualità del cibo è sempre più scarsa, le lenzuola sempre più sporche. "Spesso si parla di carcere per i suicidi o gli atti autolesionistici - racconta Gui - ma difficilmente si riesce a raccontare cosa porti a tali gesti. Qui il disagio psichico è fortissimo ed è in aumento sia per i detenuti che per la polizia penitenziaria. Si entra sani e si esce malati. A Bari ci sono letti a quattro piani. Scabbia, pidocchi, tubercolosi si diffondono velocemente fra i detenuti ma anche fra la polizia, gli operatori e le loro famiglie. Il sistema delle carceri italiane è una bomba in continuo procinto di esplodere, se finora non lo ha fatto è grazie agli operatori interni che continuano a fare i salti mortali, ma quanto potrà durare?"
Il pacchetto del neoministro Severino è stato accolto positivamente dalle associazioni del settore penitenziario. "Perché finalmente si preoccupa di guardare da dentro il carcere e di capire le differenze che ci sono fra i vari detenuti - sottolinea Gui -. Ad esempio è assolutamente positivo spostare i tossicodipendenti nelle comunità terapeutiche in modo che possano essere curati e recuperati. Abbiamo verificato che la recidiva di solito è del 70% mentre per chi è stato in strutture alternative cala al 30%".
Nelle carceri italiane i tossicodipendenti sono circa 21mila, le strutture che dovrebbero accoglierli, però, non sono abbastanza e non hanno i fondi sufficienti a farlo. La riforma in atto prevede anche la chiusura degli Opg, ospedali psichiatrici giudiziari, o manicomi criminali (che la legge Basaglia non cancellò). All'interno di questi, oggi, si trovano circa 1400 persone malate e socialmente pericolose per le quali sono necessarie terapie psichiatriche e misure di sicurezza particolari che dovranno essere gestite dai dipartimenti di salute mentale competenti per territorio. Ma le regioni hanno dimostrato di non avere le risorse necessarie a pagare le equipe che devono occuparsi di questi internati. Che fine faranno, in pratica, non si sa. Chi è positivo all'Hiv e fa una terapia antiretrovirale spesso ha difficoltà a reperire i farmaci. Chi si ammala di cancro lo scopre troppo tardi a causa delle attese di mesi per poter fare le visite e le analisi necessarie. "Alcuni pazienti detenuti vengono operati dopo 18-20 mesi dal momento in cui è stato diagnosticato loro il cancro - testimonia Gui -. Abbiamo portato alla Procura della Repubblica storie di persone che non si sono salvate a causa di questi colpevoli ritardi. A volte mancano le autorizzazioni alle visite, banalmente, perché il fax in tribunale è rotto e non ci sono i soldi per ripararlo".
PARLIAMO DI LESIONE DEL DIRITTO DI DIFESA.
Custodia cautelare: richiesta del PM e verifica di sussistenza delle esigenze e controllo di legittimità da parte del GIP ?!?
La riprova che il GIP non è altro che la longa manus del PM la dà “Il Corriere della Sera”. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». Gaetano Riina rimane in carcere perchè arrestato nel luglio 2011 per associazione mafiosa in quanto considerato nuovo capo del mandamento di Corleone. I magistrati della Dda partenopea stanno esaminando gli atti relativi all'inchiesta per valutare una eventuale nuova richiesta di misure cautelari dopo l'annullamento dei provvedimenti restrittivi. Il Riesame di Napoli (presieduto da Angela Paolelli) ha infatti annullato le ordinanze nei confronti non solo di Gaetano Riina, ma di altri otto indagati (tra cui Nicola Schiavone, fratello del capo del clan Casalesi Francesco Schiavone detto Sandokan) motivando la scarcerazione col fatto che il gip di Napoli Pasqualina Paola Laviano, che aveva emesso le ordinanza di custodia cautelare, si era limitato a copiare o riassumere la tesi accusatoria della procura. L'indagine della procura di Napoli - coordinata dal procuratore aggiunto Federico Cafiero de Raho e dai pm della Dda Francesco Curcio e Cesare Sirignano - ha accertato l'esistenza di una spartizione degli affari all'interno dei mercati ortofrutticoli da parte delle principali organizzazioni criminose del nostro Paese e il monopolio del settore dei trasporti su gomma da parte del clan dei Casalesi, alleato con la mafia siciliana.
"Totale testuale trasposizione del richiesta del pubblico ministero" e carenza di "qualsiasi accenno di autonoma valutazione in ordine agli elementi indiziari emersi nel corso delle indagini preliminari": con questa motivazione il Tribunale del Riesame di Napoli ha annullato l'ordinanza di custodia cautelare a carico di Gaetano Riina, fratello del padrino di Cosa nostra, accusato di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip campano, sostiene il Riesame, si sarebbe limitato a riproporre la richiesta d'arresto della procura, non sostituendo neanche le parole "questo pm" con "questo gip". Il provvedimento annullato risale al 14 novembre scorso: secondo la Procura di Napoli Gaetano Riina avrebbe preso accordi con il clan dei Casalesi per la gestione del trasporto su gomma di frutta e verdura verso i mercati del centro e nord Italia. Un'ordinanza successiva all'arresto eseguito il primo luglio a Mazara del Vallo, su richiesta della procura di Palermo che aveva portato in carcere Riina con l'accusa di essere il boss di Corleone.
Il Commento di Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Un episodio imbarazzante. Un gip appiattito, come si dice in questi casi, sulle tesi del pm tanto da copiare in buona sostanza la sua richiesta di arresto e trasformarla paro paro in un ordine di custodia. Sembra di essere tornati ai tempi di Mani pulite: allora alcuni gip dicevano sempre sì, senza se e senza ma, a tutto quello che le procure volevano. Invece siamo a Napoli e lo scivolone tocca incidentalmente una delle famiglie più note dell'Italia criminale: quella dei Riina. Il tribunale del riesame ha infatti annullato l'ordine d'arresto-fotocopia che riguardava Gaetano Riina, il fratello di Totò, il capo dei capi seppellito in cella sotto una valanga di condanne. Gaetano Riina, meno celebre di Totò, avrebbe fatto affari con i Casalesi mettendo insieme due business: quello dei mercati ortofrutticoli e quello del trasporto su gomma. Ora si dà il caso che il gip valuti le prove raccolte dal pm e decida, se il ragionamento dell'accusa gli è parso convincente, l'arresto, ma qui il gip di Napoli non avrebbe raggiunto nemmeno il minimo sindacale. Il tribunale del riesame, impietoso, parla di «totale, testuale trasposizione della richiesta del pubblico ministero» e carenza di «qualsiasi accenno di autonoma valutazione in ordine agli elementi indiziari emersi nel corso delle indagini preliminari, omettendo», così, «ogni controllo e ogni valutazione sul risultato delle indagini preliminari». Addirittura, secondo il riesame il giudice si sarebbe dimenticato perfino di sostituire le parole, «questo pm» con «questo gip». Risultato: l'ordine di arresto per concorso esterno in associazione camorristica è finito nel cestino. Gaetano Riina non è stato scarcerato perchè a luglio era già stato ammanettato: questa volta su input della procura di Palermo che lo considera il nuovo boss di Corleone. Dunque, l'aspirante padrino resta dentro. Ma questo nulla toglie alla gravità dell'episodio che conferma un vecchio vizio di parte della magistratura italiana: la sciatteria e insieme la sudditanza culturale dei gip ai pm. Non è sempre così, naturalmente, ma da Mani pulite in poi l'allarmante fenomeno è stato denunciato infine volte dagli avvocati che dovrebbero essere sullo stesso piano dei pm e invece si trovano spesso spalle al muro. Incalzati dai pm e anche dai gip che sembrano ufficiali di complemento dell'accusa. È questa una delle ragioni da pesare a favore della separazione delle carriere, argomento di cui si parla a vuoto da quasi vent'anni. Ma la prima rivoluzione è quella che dovrebbe avvenire nelle teste dei giudici, non di tutti, ci mancherebbe, perchè proprio l'epilogo della vicenda napoletana insegna che molti giudici fanno, e bene, il loro mestiere. Il riesame esclude addirittura che il gip «abbia realmente preso cognizione del contenuto delle ragioni esposte nella richiesta del pm». Un disastro. I giudici hanno annullato l'arresto di Riina ma anche quelli di altri otto indagati, compreso il fratello di un altro celebre padrino: Nicola Schiavone che sta a Francesco detto Sandokan come Gaetano sta a Totò Riina. La girandola si è chiusa con la giustizia rossa di vergogna, ma in concreto poco è cambiato: solo tre indagati, quelli con le posizioni meno pesanti, sono stati scarcerati. Gli altri restano in cella, raggiunti da altri provvedimenti. E la procura corre ai ripari: la Direzione distrettuale antimafia di Napoli sta valutando se chiedere un nuovo arresto per Riina. L'indagine ha scoperchiato un accordo fra Cosa nostra e i Casalesi: alleati di ferro nel riscuotere il pizzo sul commercio di frutta e verdura fra la Sicilia e il resto d'Italia.
Va giù pesante anche Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Si è comportato come lo studente scansafatiche che copia il compito in classe del secchione di turno. Ma il gip del tribunale di Napoli ha fatto di più: ha pure copiato male, facendosi beccare. Il tema in aula non aveva come oggetto la vacanza estiva, bensì l'accusa di concorso esterno in associazione camorristica nei confronti di Gaetano Riina, fratello del capo dei capi di Cosa nostra, Totò. Insomma, un cognome di quelli che pesano e che enfatizza la scarsa attenzione posta dal giudice per le indagini preliminari, il quale si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto formulata dai pm della procura napoletana. Ma più che riassumere, il tribunale del Riesame parla di un vero e proprio copia e incolla, di errori grossolani e clamorosi. Un esempio? Nello scritto il gip non ha sostituito nemmeno le parole "questo pm" con "questo gip", mantenendo inoltre l'espressione "presente richiesta di misura cautelare". Come riporta il Giornale di Sicilia, "il mandato di cattura era stato emesso a novembre 2011 e il gip riteneva Gaetano Riina in combutta con i clan dei Casalesi nella gestione del trasporto su gomma di frutta e verdura verso i mercati del centro e nord Italia". Provvedimento annullato, appunto, dal Riesame campano per "inesistenza della motivazione". La decisione che ha portato al rigetto delle richieste del gip è spiegata molto chiaramente: "Il provvedimento impugnato consiste nella totale testuale trasposizione della richiesta del pubblico ministero, con il solo inserimento di una breve parte introduttiva di carattere meramente giuridico", si legge sul quotidiano siciliano. E come se non bastasse i giudici del Riesame continuano: "Manca il riferimento espresso al provvedimento o all'atto richiamato...così come è del tutto carente qualsiasi accenno di autonoma valutazione in ordine agli elementi indiziari emersi nel corso delle indagini preliminari". Non è farina del suo sacco, sentenzierebbe un insegnante. La sentenza nei confronti dello stesso gip l'hanno fornita gli stessi giudici del Riesame: "Ha dimostrato di essere venuto meno al suo ruolo, omettendo ogni controllo e ogni valutazione sul risultato delle indagini preliminari, si esclude che abbia preso cognizione del contenuto delle ragioni esposte nella richiesta del pm". Una bocciatura senza appello. Chiamatela negligenza o imperizia. Magari il gip sarà stato oberato di lavoro da non potere dedicare tanto tempo al fratello del boss mafioso. Oppure la sua fiducia nel lavoro del pm di turno era tale da non rendere opportuna nessuna valutazione nel merito. Comunque sia ha copiato (pure male) e si è anche fatto beccare. E non siamo a scuola, ma in un'aula di tribunale.
Gli strumenti di difesa. Gli interrogatori di garanzia??
In Italia ogni giorno
c’è un innocente che viene incolpato ingiustamente ed un colpevole che riesce a
farla franca. E’ in questo dilemma che si opera. In virtù di esso, chi conosce
bene la Giustizia in Italia, è abituato a conoscere l’uomo nei momenti più
tristi della sua vita: o perché è accusato di aver commesso un crimine o perché
lo ha subito. In entrambi i casi, l’uomo della strada deve difendersi in
giudizio e quindi si prepara ad andare incontro al calvario giudiziario, che
comporta il rischio di un crollo non solo economico, ma anche sociale, familiare
e psicologico.
Quanti dicono: “Se sei innocente non hai nulla da temere” sono, a dir poco,
ingenui o ignoranti, se non addirittura in malafede, perché la realtà nei nostri
tribunali è ben diversa, posto che non basta avere ragione, ma occorre
ottenerla. Sorprende l’incredulità o l’indifferenza di quei politici che prima
fanno compiere la riforma del codice penale e di procedura penale ai penalisti,
senza il supporto di veri esperti, e poi s’indignano quando le storture della
procedura penale li colpisce direttamente o da vicino. Consideriamo un attimo lo
strumento tecnico del cosiddetto “interrogatorio di garanzia” davanti al
Gip (ma un’analoga riflessione la possiamo fare, ancor prima, tra l’avviso di
garanzia e l’interrogatorio davanti al Pm). L’arresto in flagranza o il fermo,
tecnicamente misure temporanee e precautelari, sono richieste dalla Pg e dal Pm
e convalidate dal Gip, ovvero la custodia cautelare è disposta dal Gip su
richiesta del Pm. Per questi istituti fa seguito il cosiddetto “interrogatorio
di garanzia”, ma garanzia di cosa? Per chi?
L’arresto è la cosa più grave che può capitare ad una persona, perché lo priva della sua libertà personale e gli fa crollare addosso, in un attimo, tutte le certezze di una vita. Ora, una riforma penale dotata di senso umanitario e disposta secondo una giustizia amministrata in conto del popolo (non solo in nome), disporrebbe l’interrogatorio di garanzia prima dell’arresto, non dopo. Difatti, se il Gip dispone l’arresto oggi, ben motivandolo a pena di invalidità, come può il giorno dopo fare marcia indietro? Non sarà invece psicologicamente interessato (perché predisposto, anche in perfetta buona fede) a cogliere di più gli elementi di colpevolezza che quelli d’innocenza?
Il risultato di chi entra dal Gip con una situazione penalmente rilevante e ne esce con un aggravio di responsabilità (secondo il Gip, ovviamente), può essere causato: uno, dal meccanismo bizzarro dell’interrogatorio di garanzia, come suddetto; due, dalla psicologia del reo, ove questi non è consapevole (anche in buona fede) che determinate condotte corrispondono a determinate fattispecie di reato; tre, dalla “devastazione psicologica” del reo, il quale, tratto in arresto e finito sulla gogna mediatica deve fare i conti con lo stigma della colpevolezza (anziché dell’innocenza) fino a prova contraria. Per la persona accusata ingiustamente di un crimine, non contano tanto i provvedimenti giudiziari (se pur gravi e devastanti), quanto il fatto che nessuno sembra più disposto a credergli, da qui il rischio psicopatologico che col tempo tende ad accettare lo stigma della colpevolezza (ed a comportarsi di conseguenza), pur essendo innocente. Questo fattore trae in inganno molti periti psichiatri e giudici, se non sono esperti di criminologia. Togliere la credibilità al reo è il principale indizio del complotto. Ora, capita spesso che una persona quando è raggiunta da un avviso di garanzia grida al complotto; ma chiunque volesse incastrarlo, come primo atto, farebbe di tutto per togliergli l’attendibilità anche e, soprattutto, sui giornali, con articoli telecomandati.
Nei nostri tribunali, periodicamente, si lede, nei confronti dei più deboli, il diritto costituzionale dell’art. 24 al diritto di agire e di difendersi.
Si dichiara nullo il mandato dato dagli analfabeti con crocesegno autenticato dal proprio avvocato.
L’autentica del difensore vale per tutti, meno che per loro.
E’ stato sostenuto che “è inesistente, per difetto di forma, la procura alle liti con crocesegno in calce al posto della firma” (Cass. civ., II, 14 maggio 1994, n. 4718).
In questo caso la Corte di Cassazione dà interpretazione incostituzionale degli art.83 c.p.c., 110 c.p.p. e 39 att. c.p.p., che, violando l’art 3 (diritto di uguaglianza), differenzia l’autenticazione della sottoscrizione data dal difensore tra scolarizzati e analfabeti.
A questo si aggiunge l’impedimento ai soggetti con disabilità motorie di essere parti o testimoni in processi in cui hanno interesse.
Molti dei nostri uffici ed aule giudiziarie hanno delle barriere architettoniche insormontabili per i portatori di handicap. Questi soggetti deboli non possono stanziare o accedere in luoghi di giustizia aperti al pubblico, in quanto mancanti di accessi, bagni e panche idonei a loro.
A tutto questo si aggiunge la vergogna del "Patrocinio a spese dello Stato" ( legge 217/90 - 134/2001 – T.U. 115/2002)
Cos’è ?
Al fine di essere rappresentate in giudizio nei processi penali, civili ed amministrativi, sia per agire che per difendersi, le persone non abbienti possono chiedere la nomina di un avvocato e la sua assistenza a spese dello Stato, usufruendo dell’istituto del “Patrocinio a spese dello Stato”.
A quali condizioni di reddito può essere richiesto?
Per essere ammessi al Patrocinio a spese dello Stato è necessario che il richiedente sia titolare di un reddito annuo imponibile, risultante dall'ultima dichiarazione, non superiore a euro 9.723,84, rivalutati annualmente secondo dato Istat. Se l'interessato convive con il coniuge o con altri familiari, il reddito è costituito dalla somma dei redditi conseguiti nel medesimo periodo da ogni componente della famiglia, compreso l'istante. Eccezione: si tiene conto del solo reddito personale quando sono oggetto della causa diritti della personalità, ovvero nei processi in cui gli interessi del richiedente sono in conflitto con quelli degli altri componenti il nucleo familiare con lui conviventi. Nel solo ambito dei procedimenti penali, la regola che impone la somma di tutti i redditi prodotti dai componenti della famiglia è contemperata dalla previsione di un aumento del limite di reddito che, a norma dell'art.92 del T.U., è elevato ad euro 1.032,91 per ognuno dei familiari conviventi.
La norma al fine di rendere immediato il diritto di difesa, a nullità assoluta prevede il riscontro all’istanza di ammissione a gratuito patrocinio, notificato all’interessato, entro 10 giorni dalla richiesta. La domanda contiene altresì, in autocertificazione a pena di reità, la dichiarazione di essere in possesso dei requisiti richiesti, quindi non devono essere allegati i documenti che ne attestino la veridicità, come per esempio la dichiarazione dei redditi.
La nomina del difensore, secondo la legge, avviene dopo l’ammissione al gratuito patrocinio.
Invece nella prassi i termini non sono rispettati, si impone l’illegittima allegazione di documenti e l’illegale nomina preventiva del difensore d’ufficio, iscritto nell’apposito elenco. La nullità palese, nonostante le nullità assolute, è sempre respinta. Inoltre, per impedire l’accesso, nei requisiti di ammissione si indicano limiti di reddito inferiori a quelli previsti dalla norma. Non solo delle citazioni a giudizio presso il Giudice di Pace si omette ogni riferimento al diritto di accesso al beneficio. Nel processo amministrativo si rigettano le istanze per mancanza di fumus: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.
Il gratuito patrocinio dovrebbe essere la tutela per il diritto di difesa dei più poveri e per questo motivo la parte politica di riferimento, secondo le loro enunciazioni, dovrebbe essere la “sinistra”.
Guarda caso, però, fu proprio il governo “D’Alema” con la legge del 2001 a prevedere l’obbligatorietà della scelta del difensore iscritto nell’elenco tenuto dal Consiglio dell’Ordine.
In questo modo il povero non può più scegliersi l’avvocato di fiducia pagato dallo Stato, quant’anche non sia iscritto nell’elenco, com’era prima, ma gli viene imposto un avvocato che a tutti gli effetti è un avvocato di ufficio.
Impedimenti all’accesso e scarse affinità elettive con i “difensori di ufficio” sono le cause delle soccombenze dei poveri nei giudizi in cui sono parti o imputati.
Gli effetti della lesione del diritto di difesa si appalesano dai dati del Ministero della Giustizia: la maggior parte dei detenuti è “E' PRESUNTA INNOCENTE”, IGNORANTE, INDIGENTE.
PARLIAMO DI ERRORI GIUDIZIARI ED INGIUSTA DETENZIONE.
(IN)GIUSTIZIA: 5 MILIONI GLI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
Secondo un calcolo compiuto dall’Eurispes nell’arco degli ultimi cinquant’anni sarebbero 5 milioni gli italiani vittime di svarioni giudiziari: dichiarati colpevoli, arrestati e solo dopo un tempo più o meno lungo, rilasciati perché innocenti. Un dato che al ministero dl Giustizia non confermano, e che è stato ricavato da un’analisi delle sentenze e delle scarcerazioni per ingiusta detenzione nel corso di cinque decenni.
Ci si arriva con un’interpretazione ampia ma corretta di "errore giudiziario", che in senso stretto si verifica quando, dopo i tre gradi di giudizio, un condannato viene riconosciuto innocente in seguito a un nuovo processo, detto di revisione.
Sui giornali si parla di storie di uomini detenuti per molti anni ma innocenti. Gente del sud, dove l’errore giudiziario è più frequente del doppio rispetto al resto d’Italia (statistica evinta dai risarcimenti, riconosciuti nel 54% dei casi da giudici delle procure del Meridione). Ma la macchina della giustizia s’inceppa a ogni curva della penisola: i dati "freschi" dell’ultimo rapporto Eurispes sul processo penale diagnosticano una crisi strutturale del sistema: il 75% dei procedimenti fissati per il dibattimento vengono rinviati. Così si dilata il tempo d’attesa per la giustizia, producendo un altro pericolo per la tenuta dello Stato di diritto: in carcere abitano più presunti innocenti che detenuti condannati con pena definitiva. Per la Costituzione, la presunzione d’innocenza accompagna l’imputato fino alla sentenza definitiva.
"Quando si è chiusi dentro per cose che non hai mai fatto, il tempo ti mangia lo stomaco. Provi a fare una vita normale, ma ci vuole forza. Sai di essere innocente, e aspetti convinto che prima o poi qualcosa accada".
Dal ‘92 c’è la possibilità per gli innocenti ritenuti colpevoli e poi rimessi in libertà, di chiedere e ottenere un risarcimento per ingiusta detenzione.
L’uomo innocente ha una speranza da coltivare, che il tempo consuma giorno dopo giorno come il moccolo di una candela. E se la storia dell'errore giudiziario potrà essere risarcita in sede civile, questo finale è vietato a chi è ingiustamente incolpato e poi prosciolto. Nel nostro ordinamento non esiste una norma che "indennizza l’ingiusta imputazione. Al contrario andrà risarcito chi è stato detenuto per errore, anche nel caso di custodia cautelare". Lo ha confermato la sentenza della Cassazione del 13 marzo 2008, sollecitata dalla richiesta di risarcimento di un professionista accusato di bancarotta fraudolenta e poi assolto. Nel "giro" si seppe dell’incriminazione, e gli affari del tizio andarono in malora.
Giusta pena in giusto processo, ma dai resoconti giornalistici sul caso Stroppiana, il delitto della logopedista Marina di Modica, qualcosa non quadra. Nessuno osa criticare la sentenza. La Cassazione ha condannato Paolo Stroppiana per un delitto in cui si nota: niente arma, niente corpo, niente movente.
La Cassazione ha condannato un imputato per omicidio preterintenzionale che: o doveva essere assolto con formula piena; o doveva essere condannato per omicidio volontario e soppressione od occultamento di cadavere. Non esiste in diritto una via di mezzo !!!
Altro che "Le Iene portano bene". Al procuratore capo della Repubblica di Modica hanno portato solo un po' di fastidio. Il programma cult di Italia 1 si è occupato di un errore giudiziario scaturito da un caso, di cui si occupò Francesco Puleio ai tempi in cui lavorava alla procura del tribunale di Catania. Si tratta di errore giudiziario: la vicenda di Maria Columbu, una donna accusata di terrorismo per colpa di un volantino dai toni minacciosi palesemente risibili. Columbu ha trascorso 6 mesi in carcere e altri 6 agli arresti domiciliari, prima di essere prosciolta. Maria Columbu viene indagata per terrorismo, perchè in un volantino di stampo brigatista c'era il suo numero di cellulare.
Il servizio di Luigi Pelazza inizia con la presentazione di Maria Columbu che nel 2005 in Sardegna, a 39 anni, madre di 4 bambini, viene arrestata. L’accusa è pesante: terrorismo. In video si presenta una signora disabile su una sedia a rotelle. Secondo gli inquirenti avrebbe conosciuto un uomo su internet e con questo avrebbe incitato i visitatori della rete a compiere attentati alle più alte cariche dello Stato. Maria Columbu viene condannata a 4 anni carcere. Nel 2010, però è assolta con formula piena.
Maria racconta la storia: «anno 2002, bussano alla porta alle 6 di mattina. Era la Finanza. Mi dicono che sono indagata per terrorismo. Alla fine della perquisizione sequestrano i miei due computers, materiale cartaceo e questo volantino.» Mostrandolo a Luigi Pelazza.
Gli inquirenti lo considerano sovversivo, in quanto contiene una stella a 5 punte che rievoca le brigate rosse degli anni 70, ma a differenza di quei manifesti, su questo vi è anche il numero di Maria da contattare per informazioni. E’ un volantino anomalo.
«Ma vi pare – dice Pelazza - che se uno vuole fare un attentato mette il suo numero di telefono così lo possono rintracciare». Infatti il giudice che assolve Maria, nella sentenza, fa notare proprio questo. Un’altra prova che ha portato all’arresto della donna sono alcuni documenti trovati sul suo computer. Maria spiega che sul computer vi era un file scaricato da internet in cui si parlava di politica con opinioni personali, ove probabilmente si è sfogata "un pochino in modo più colorito del solito per la rabbia che avevo in corpo perché non mi sento protetta o garantita: a morte lo Stato; a morte Berlusconi". Ma non è detto che una cosa si dice e poi si faccia. Anche in questo caso il giudice che l’ha assolta l’ha creduta, tanto che nella sentenza scrive: "non è emerso durante l’attività investigativa l’esistenza di nessuna banda, neanche allo stato rudimentale". Pelazza spiega che tra i file sequestrati vi erano le istruzioni per costruire una bomba e ne spiega le indicazioni: "per prima cosa procuratevi 110 kg di plutonio dal vostro fornitore locale; suggeriamo di contattare l’organizzazione terroristica del luogo". Pelazza dice: è inverosimile, le bizzarre istruzioni terminano con un consiglio: "adesso che avete un ordigno nucleare, potete usarlo per spettacoli pirotecnici o per difesa nazionale". Il giudice che ha assolto Maria ha considerato le istruzioni: risibili, cioè ridicole ed in prigione non ci doveva proprio andare.
Luigi Pelazza spiega che le persone che finiscono in carcere ingiustamente c’è ne sono tante ogni anno.
A questo punto del servizio vi è l’intervista all’avv. Gabriele Magno dell’Associazione vittime degli errori giudiziari che spiega che secondo le statistiche dell’Eurispes negli ultimi 10 anni sono state depositate 8 mila richieste di indennizzo per ingiusta detenzione.
Ci si chiede, però, al di là dei soldi che poi paga il cittadino e non i magistrati, perché si fanno errori così grossolani.
Per questo motivo Luigi Pelazza si reca dal sostituto procuratore che ha chiesto ed ottenuto la condanna di Maria. Appunto Francesco Puleio.
Il procuratore Puleio, ha ricevuto nel suo ufficio del tribunale di Modica la "Iena" Luigi Pelazza, con cui si è intrattenuto pochi minuti.
Pelazza: «l’intervista riguarda questa donna, non so se lei se la ricorda, si chiama Columbu Maria Antonia».
Puleio infastidito chiede che all’interolcutore: «cosa vuole».
Pelazza: «abbiamo chiesto che indagini ha fatto la Procura per chiedere la condanna di queste persone. Quando ho letto le istruzioni per fare la bomba nucleare (per prima cosa procuratevi 110 kg di plutonio), la domanda che mi son fatto è come ha fatto a credere una cosa del genere».
Puleio in palese difficoltà risponde: «guardi sono passati 7 anni».
Pelazza «Ho capito, ma l’indagine è sempre quella».
Puleio: «non credo che le cose che lei mi mostra corrispondano a verità».
Pelazza: «sono atti processuali…».
Puleio: «me li lasci guardare con attenzione e le darò una risposta esauriente».
Pelazza: «se è stato fatto un errore così gigantesco».
Puleio: «lo dice lei, questo lo dice lei…ma quale errore».
Pelazza: «la Cassazione, lo dice la Cassazione».
Poi Puleio ha messo alla porta Luigi Pelazza a causa del tono a lui poco gradito che stava assumendo l'intervista: «maresciallo li accompagna i signori? Grazie ed arrivederci».
Pelazza: «però mi scusi».
Puleio: «mi faccia avere le sue domande, le darò le risposte. Poi rimanda l’intervista ed io vorrei parlare….conoscendo le cose. Ripeto sono cose di 7 anni fa. Mio figlio andava alla seconda elementare, adesso è al liceo».
Pelazza: «un bambino di 7 anni avrebbe capito che si trattava di una bufala, no?»
Pelazza poi spiega che esce dalla Procura ed invia al procuratore capo di Modica le domande per e-mail e questi dopo circa un’ora risponde che si rende disponibile ad un’intervista, ma solo se si firma un documento (e lo mostra): spiegando che il documento contiene delle condizioni, ossia: «se l’intervista non dovesse uscire come piace a lui – dice Pelazza - questo magistrato, non sappiamo con quale potere, non ci darebbe modo di darvene conto (rivolto ai telespettatori)».
Il giorno dopo Pelazza torna in Tribunale, ma un addetto alla sicurezza ferma il cameraman all’entrata, spiegano che non può entrare su disposizione del procuratore.
Pelazza sale da solo con in tasca solo un registratore e fa presente al procuratore che: «la donna si è fatta 1 anno di carcere, lei lo sa che è così…»
Puleio: «non è così….»
Pelazza: «non ci dà la possibilità di far vedere…»
Puleio: «lei sta registrando tutto…»
Pelazza: «io sto registrando. Lei mi può anche far arrestare, peggio ancora.. »
Puleio: «no, no, non è il caso. Vede le cose vanno inserite nel loro contesto, vanno contestualizzate. Se lei si presenta normalmente così…vestito da beccamorto, può sembrare un tipo balzano. Grazie ed arrivederci».
A questo punto Puleio spinge fuori dall’ufficio Pelazza che dice: «visto che però parla, perché mi spinge? perché mi spinge? Visto che però parla solo lei….questa è la democrazia come la interpreta lei, comunque noi abbiamo registrato e questo andrà in onda. Io glielo sto dicendo, arrivederci».
Pelazza a chiusura del servizio spiega che ogni anno in Italia 8000 persone finiscono in carcere ingiustamente.
Tutto documentato dalle "Iene" con la solita telecamera nascosta, dal momento che al cameraman era stato fatto divieto di entrare in tribunale.
E così Pelazza ha documentato l'intervista (o meglio, la tentata intervista) con tanto di reazione stizzita del procuratore, che poi fa accomodare la "Iena" fuori dal suo ufficio. Il servizio, andato in onda nella puntata de "Le Iene" di mercoledì 26 ottobre 2011, è stato visto praticamente da milioni di italiani e migliaia di modicani, curiosi di capire su cosa verteva l'intervista al procuratore. Puleio non ha rilasciato queste dichiarazioni all’inviato delle Iene perché, a suo avviso, trattasi di una trasmissione irriverente e burlesca.
A tutto ciò è conseguito solo indifferenza ed insensibilità al problema: nella società civile e sui media. Anzi, proprio sulla stampa, specialmente locale, si è ossequiosamente dato risalto alla piccata rimostranza del procuratore, omettendo il contenuto del servizio. Della nota del procuratore qui si da conto in calce al resoconto del servizio, per non essere tacciati di partigianeria anti magistrati e per rendere chiaro ed asettico quanto è successo. Nota che il procuratore ha distribuito ai media. lo stesso procuratore si è sentito in dovere di giustificare l'accaduto, sottraendo tempo al suo lavoro, e perchè ha deciso di mettere alla porta Pelazza, senza rilasciare dichiarazioni sul caso in oggetto, di cui lo stesso procuratore capo di Modica scrive diffusamente nella sua nota che riportiamo di seguito in versione integrale.
"Facendo seguito a delle notizie di stampa, desidero brevemente fare chiarezza su quanto avvenuto a proposito di un servizio della trasmissione televisiva «Le Iene» e concernente un processo da me trattato quale sostituto procuratore della Repubblica a Catania.
La scorsa settimana, un inviato della trasmissione si è presentato presso il mio ufficio, chiedendomi una intervista in ordine al processo celebrato a Catania nei confronti, tra gli altri, della signora C.M.A.
Mi sono dichiarato disponibile all’intervista, chiedendo a tale inviato – trattandosi di una trasmissione di intrattenimento e non già di informazione – un impegno a trasmettere l’intervista senza interruzioni o cesure e senza tagli o manipolazioni delle dichiarazioni rese che stravolgessero o modificassero il mio pensiero.
L’inviato mi ha risposto di non essere in grado di garantire il rispetto di tali richieste.
Ho allora riferito al mio interlocutore che non avrei rilasciato l’intervista e che non consentivo alla diffusione televisiva di immagini o dichiarazioni che mi riguardassero, accettando soltanto, per puro spirito di cortesia, di rendergli alcune dichiarazioni informali, al fine di esporre il mio punto di vista sul reale svolgimento delle vicende processuali.
Ho così chiarito quanto segue:
La signora C.M.A. è stata processata e sottoposta alla misura degli arresti domiciliari per i delitti di associazione con finalità di terrorismo ed eversione e di propaganda sovversiva per avere, tra l’altro, diffuso via internet (attraverso i siti, nella sua disponibilità, anarchyboom, amortelostato, morteaberlusconi) materiale teso a fomentare il sovvertimento delle istituzioni e lo scontro violento con le forze dell’ordine, nonché per aver diffuso istruzioni per il confezionamento, con modalità artigianali ed utilizzando materiali di facile reperimento, di ordigni esplosivi di vario genere (bomba acida, lampadina esplosiva, pipe bomb ecc.);
Nel corso del processo, la responsabilità della signora C.M.A. per i fatti sopra ricordati è stata valutata dapprima dai tre componenti della Sezione reati contro l’ordine pubblico e l’eversione della Procura di Catania, quindi è stata affermata dal G.i.p. e dal Tribunale del riesame di Catania, ed ancora dal G.u.p. e dalla Corte di appello di Catania;
Avverso le sentenze di condanna la signora non ha mai presentato ricorso, dimostrando con ciò di riconoscersi colpevole, ovvero di non riconoscere l’autorità dello Stato;
Nel corso del processo, l’ipotesi delittuosa di propaganda sovversiva è stata abrogata con legge n. 85 del 2006;
Solo dopo diversi anni, e su ricorso di un altro imputato, la Corte di cassazione ha annullato con rinvio la sentenza della Corte di appello di Catania;
La Corte di cassazione non ha posto in dubbio le condotte ascritte all’imputata, ritenute certe nella loro materialità, ma ha osservato che mancava la prova della esistenza di una struttura organizzativa di reale pericolosità. In esito al rinvio, la Corte di appello di Catania, nel corso di un nuovo giudizio, ha assolto l’imputata.
Non mi risulta che questi dati, da me esposti all’inviato, siano stati riportati nel corso della trasmissione, la quale, come anticipavo, è una trasmissione di intrattenimento, con finalità irridenti e burlesche che nulla hanno a che vedere con la corretta informazione giornalistica".
Il procuratore capo di Modica Francesco Puleio.
Una premessa ed una considerazione va fatta: in Italia solo i programmi di intrattenimento fanno informazione (vedi Striscia la Notizia e Le Iene), poi nell’errore giudiziario o nell’ingiusta detenzione la responsabilità va sempre ripartita tra chi chiede la condanna o la misura cautelare e chi dispone l’accoglimento dell’istanza. E’ risaputo che i magistrati giudicanti spesso sono dei passacarte, proprio perché sono colleghi dei magistrati inquirenti. La colleganza non permette sgarbi. Per questo i PM sono maggiormente responsabili e non si devono coprire con le manchevolezze dei colleghi. Se poi gli imputati preferiscono, pur innocenti, di agevolarsi della prescrizione, di adottare riti alternativi e patteggiativi o di non avvalersi dell’impugnazione, un motivo ci deve pur essere. Spesso si ritiene vano il tentativo di affermare una realtà storica tanto palese da non essere attestata con una verità giudiziaria.
“Cento Volte Ingiustizia” di Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone (Mursia). Cento casi di errori giudiziari, ricostruiti con l'unico intento di sollevare una riflessione approfondita su una delle più attuali e delicate questioni della giustizia. La prefazione è affidata a Roberto Martinelli. L'opera vede anche l'intervento di altri quattro addetti ai lavori: il giudice Ferdinando Imposimato; l'avvocato Carlo Taormina, docente di procedura penale presso l'Università di Tor Vergata di Roma; Severino Santiapichi, per anni presidente della Corte d'Assise di Roma, ex procuratore generale presso la Corte d'Appello di Perugia; Renato Borruso, ex magistrato della Corte di Cassazione.
Dopo 18 anni di carcere nei penitenziari più duri e difficili d’Italia, lo Stato si è accorto che sei uomini erano estranei alla strage di Via D’Amelio in cui perse la vita Paolo Borsellino e la sua scorta, e li rimette in libertà senza neanche una parola di scuse. Sei uomini, alcuni comunque vicini alle cosche, altri totalmente estranei, che entrarono in carcere ragazzi e ne escono, dopo 18 lunghi anni, vecchi nell’anima e privi di ogni speranza. Uomini che, nel frattempo, hanno perso la famiglia, il lavoro e persino la dignità; uomini cui lo Stato ha chiesto di pagare un prezzo altissimo per un delitto che non solo non hanno commesso ma che, addirittura, con ogni probabilità, è stato lo stesso Stato ad ordinare. Vittime sacrificali di un sistema perverso, in cui la giustizia si trasforma sempre più in ingiustizia. Vittime di un sistema giudiziario che non paga mai per i propri errori, anche per i più gravi, e che per le proprie decisioni affrettate ed ingiuste ha prodotto, solo nel 2010, come ci dice Eurispes, ben 8000 richieste di risarcimento per ingiusta detenzione. 8000 richieste che, al di là degli aridi numeri, equivalgono ad 8000 persone che hanno visto rovinata la propria vita per errori giudiziari per i quali nessun giudice o pubblico ministero pagherà mai il conto. Come nascondere l’indignazione per uno Stato che non difende i suoi cittadini e li lascia in balia delle Procure? Fa rabbrividire il giustizialismo di chi, come fosse una partita di calcio, fa il tifo per le procure a prescindere, o per chi teorizza il “meglio un innocente in galera che dieci colpevoli liberi”; cari tifosi questa bella storia raccontatela alle famiglie, ai figli, agli amici di quell’uno finito in galera ed imprimetevi bene in mente la loro risposta. Se poi vi resta tempo andate a vedere cosa è accaduto alla procura di Taranto ed alla Procura di Potenza: scoprirete un mondo diverso in cui non sempre i buoni, come nei film, indossano toghe ed ermellini. E ricordatevi che gli altri siamo anche noi.
Non c'è colore politico o condizione economica e sociale che tenga, quando si è subìto un errore giudiziario o un'ingiusta detenzione. Dal dopoguerra al 2003 quattro milioni di persone sono state vittime di errori giudiziari o ingiusta detenzione o prosciolti perché il fatto non sussiste. Questo enorme numero è già vicino ai cinque milioni, se esteso al tempo odierno. Per quantità si tratta dell’intera popolazione di Toscana e Umbria assieme. Ci si arriva con un’interpretazione ampia ma corretta di "errore giudiziario", che in senso stretto si verifica quando, dopo i tre gradi di giudizio, un condannato viene riconosciuto innocente in seguito a un nuovo processo, detto di revisione.
La macchina della giustizia s’inceppa a ogni curva della penisola: i dati "freschi" dell’ultimo rapporto Eurispes sul processo penale diagnosticano una crisi strutturale del sistema: il 75% dei procedimenti fissati per il dibattimento vengono rinviati. Così si dilata il tempo d’attesa per la giustizia, producendo un altro pericolo per la tenuta dello Stato di diritto: in carcere abitano più presunti innocenti che detenuti condannati con pena definitiva. Per la Costituzione, la presunzione d’innocenza accompagna l’imputato fino alla sentenza definitiva. Meno male.
Secondo un rapporto del ministero della Giustizia, su 53 mila detenuti complessivi 16.740 sono in attesa del primo giudizio, 9.600 dell’appello, 3.200 del giudizio della Cassazione: il totale di questa popolazione carceraria "sospesa" è assai maggiore dei 22 mila detenuti perché condannati in via definitiva.
Questo succede: l’Italia è lo Stato maggiormente sanzionato dalla Corte europea. I capi d’accusa di Strasburgo: lentezza nei processi e nei risarcimenti. Ma quanto costa al “Bel Paese” la sua fatale distrazione? Parliamo in termini economici innanzitutto.
Le statistiche del ministero parlano di una media di 8000 richieste di riparazione per ingiusta detenzione l'anno, di cui ne vengono risarcite 2000. Ogni giorno di ingiusta detenzione costa allo Stato 235 euro che vengono ridotti della metà in caso di arresti domiciliari, in vista della minore afflittività. Il numero dei risarcimenti si eleva esponenzialmente a 36mila casi l'anno per l'irragionevole durata del processo (legge Pinto). Infine i casi di errore giudiziario, con revisione processuale, sono circa 100 l'anno. Ci sono molte storie limite, ma a nostro avviso è peggiore l'abuso che si fa della custodia cautelare, spesso inflitta per pericolo di fuga o di reiterazione del reato, o di inquinamento delle prove quando non ce ne sarebbe spesso bisogno. E sono molte le Corti d'Appello che condannano il Ministero dell'Economia, quindi gli stessi contribuenti, a riparare il danno.
Esempio eclatante di parte di quegli sprechi per cui il nostro Ministro dell’Economia si mette le mani nei capelli, nella ricerca costante di trovare una quadra al deficit nazionale prima che la falla nella carena diventi irreparabile e il veliero italiano inizi a sprofondare tra i pesci nelle profondità marine.
Parliamo adesso dei costi umani: per tutti la storia va sempre allo stesso modo. Alle 7 del mattino ti suonano alla porta di casa, con un mandato di perquisizione, e non puoi fare nulla. La vita ti cambia in un istante e non sei più padrone di nulla: sei entrato all’interno di un complesso sistema, che è la procedura, che è il diritto, che ti travolge e ti guida. Diventi un elemento passivo e il tuo destino viene affidato al giudizio, alle parole e all’intelletto di altre persone, spesso incapaci a ricoprire quel ruolo, nessuna di queste che ti conosce, a nessuno importa chi tu sia se non nella circostanza per cui sei imputato. Sei solo un fascicolo.
Ma sarà vero che tra le cause dei numerosi suicidi che avvengono dietro le sbarre ci sia proprio l'errore giudiziario? Molte volte è così. Il carcere fa la sua parte nelle persone psicologicamente deboli. Gente che non sa darsi una spiegazione per quello che le è accaduto, che pensa continuamente alla famiglia, agli amici. Sono questioni che toccano tutti gli esseri umani; perché l'argomento non è strumentalizzabile a livello politico e non può non unire. E' per questo si è deciso di offrirvi un'analisi dettagliata, precisa e puntuale sugli errori commessi dalla macchina della giustizia negli ultimi anni, dal più famoso di Enzo Tortora ai tanti ragazzi messi dietro le sbarre ingiustamente. Per troverete pubblicata una storia, delle vite e dei sentimenti distrutti dalla giustizia ingiusta per cercare di dar voce, accanto ai tanti urlatori forcaioli, a chi non può parlare.
TROPPI ERRORI GIUDIZIARI: CHI PROTEGGE GLI INNOCENTI?
Da "Il Secolo d'Italia" di mercoledì 8 giugno 2011
TROPPI ERRORI GIUDIZIARI: CHI PROTEGGE GLI INNOCENTI? Da "Articolo 643" lo stop al carcere ingiusto e all'abuso della custodia cautelare. Anche un solo giorno di carcere può cambiare la vita di un uomo. Ricco o povero, famoso o nell'ombra, di destra o di sinistra. Non c'è colore politico o condizione economica e sociale che tenga, quando si è subìto un errore giudiziario o un'ingiusta detenzione. Lo slogan è "tutti vittime di fronte alla legge": sono oltre duemila le persone che ogni anno vengono risarcite dallo Stato per essere finite dietro le sbarre senza colpa. È di qualche tempo fa la proposta di legge targata Pdl, presentata alla Camera da Giuliano Cazzola, di istituire una Giornata della memoria per le vittime di errori giudiziari. Dal 2012, ogni 18 maggio, giorno emblematico della morte di Enzo Tortora, dovrebbero essere protagoniste quelle persone, note e meno note, le cui storie sono accomunate dallo stesso identico dramma. Perché quella perquisizione in casa alle 7 del mattino, quell'ordinanza di custodia cautelare e quei giorni da detenuto hanno cambiato per sempre la loro vita. Lo sa bene l'avvocato bolognese Gabriele Magno, presidente dal 2000 di "Articolo 643".
Dopo la Giornata della memoria per le vittime del terrorismo dedicata alle toghe, il Pdl chiede che sia istituita anche una Giornata della memoria per le vittime degli errori giudiziari. Promotore dell'iniziativa, Giuliano Cazzola. La data scelta è emblematica, il 18 maggio, giorno della morte di Enzo Tortora. Cosa ne pensa?
Magno: «Ovviamente con noi la proposta sfonda una porta aperta. Le statistiche del ministero parlano di una media di 8000 richieste di riparazione per ingiusta detenzione l'anno, di cui ne vengono risarcite 2000. Ogni giorno di ingiusta detenzione costa allo Stato 235 euro che vengono ridotti della metà in caso di arresti domiciliari, in vista della minore afflittività. Il numero dei risarcimenti si eleva esponenzialmente a 36mila casi l'anno per l'irragionevole durata del processo (legge Pinto). Infine i casi di errore giudiziario, con revisione processuale, sono circa 100 l'anno. Ci sono molte storie limite, ma a nostro avviso è peggiore l'abuso che si fa della custodia cautelare, spesso inflitta per pericolo di fuga o di reiterazione del reato, o di inquinamento delle prove quando non ce ne sarebbe spesso bisogno. E sono molte le Corti d'Appello che condannano il ministero dell'Economia, quindi gli stessi contribuenti, a riparare il danno.»
Quando e come nasce "Articolo 643", quali i casi più significativi a cui si è ispirata e qual è l'attività di intervento dell'associazione?
Magno: «L'associazione, che prende il nome dall'articolo 643 del codice di procedura penale sulla riparazione dell'errore giudiziario, nasce undici anni fa. L'occasione è stato uno studio dell'Eurispes, dove venivano fuori cifre spaventose: dal `48 al `99 erano state 4 milioni le persone che avevano subìto il carcere ingiustamente. E non c'era nessuna associazione che si occupasse del fenomeno. Certamente il caso emblematico che tutti conoscono è quello del giornalista Enzo Tortora, ma i casi sono troppi e tanti. Ma nel tempo, tappa dopo tappa, qualcosa è cambiato, in meglio, per fortuna. Prima del `99, data dell'entrata in vigore della legge Carotti, il risarcimento massimo era di 100 milioni delle vecchie lire, anche per vent'anni di carcere. E solo una persona ebbe l`indennizzo massimo: Clelio Darida, ex sindaco di Roma, guardasigilli e sottosegretario in varie fasi di governo, rappresentò il caso limite, per 90 giorni di carcere ingiusto. Con la legge Carotti, invece, si è passati dalla cifra massima di 100 milioni a 1 miliardo, quindi 500mila euro attuali, in caso di abuso della custodia cautelare. Altra data importante, per l'errore giudiziario, è stata il 2003, quando si è stabilito che non esiste un limite massimo di indennizzo, perché è entrata in auge la nuova figura giuridica del danno esistenziale. Caso emblematico è quello di Daniele Barillà, protagonista di uno scambio di persona e per questo accusato ingiustamente di essere un narcotrafficante. Dopo che l'Escobar della Brianza, così fu soprannominato dopo l'arresto, era stato condannato a 15 anni, la Corte d'Appello di Genova gli ha riconosciuto, per i sette anni e mezzo di carcere patito da innocente, il maxi-risarcimento di 4 milioni e 600mila euro per il danno esistenziale oltre a quello materiale.»
Dopo tanti anni di attività c'è un caso che l'ha maggiormente colpita?
Magno: «In realtà sono molti i casi a cui siamo affezionati. Fra i più noti a livello mediatico quello che ha coinvolto Gigi Sabani, che dopo la sua disavventura giudiziaria disse: «Ora rido, ma il dolore per quell'ingiustizia mi è rimasto. La spina riguarda il mio caso giudiziario. Un terribile errore che può capitare a tutti». Penso al musicista e compositore Lelio Luttazzi, che proprio mentre si trovava all'apice del suo successo, nel giugno del`70, fu arrestato con l'accusa di detenzione e spaccio di stupefacenti assieme all'attore Walter Chiari. Dopo circa un mese di carcere fu libero di uscire, completamente scagionato. E ancora, tra i casi più noti, quello del portiere di via Poma Pietrino Vanacore: il suo ultimo biglietto, lasciato in macchina, parlava abbastanza chiaro. Ma ci sono anche storie di gente comune, che prendiamo ugualmente a cuore, soprattutto quelle legate a episodi di violenza sessuale su donne e minori, perché in questi casi, oltre all'onta, c`è un discorso dei problemi che sorgono in carcere con gli altri detenuti. La vita di un uomo cambia anche con un solo giorno di carcere: per tutti la storia va sempre allo stesso modo. Alle 7 del mattino ti suonano alla porta di casa, con un mandato di perquisizione, e non puoi fare nulla. Per me fare questo lavoro è ormai una questione etica. Per un avvocato difendere gli innocenti è un enorme privilegio.»
E Pensa che tra le cause dei numerosi suicidi che avvengono dietro le sbarre ci sia proprio l'errore giudiziario?
Magno: «Molte volte è così, non posso escluderlo. Il carcere fa la sua parte nelle persone psicologicamente deboli. Gente che non sa darsi una spiegazione per quello che le è accaduto, che pensa continuamente alla famiglia, agli amici. Sono questioni che toccano tutti gli esseri umani, ricchi e poveri, uomini di destra e di sinistra. Perché l'argomento non è strumentalizzatile a livello politico e non può non unire.»
E Come associazione attiva sul tema, avete mai presentato delle proposte per leggi "ad hoc" che migliorino la condizione delle vittime della malagiustizia?
Magno: «Sono due le proposte legislative più rilevanti di cui ci facciamo promotori. La prima questione riguarda l'ingiusta detenzione: la richiesta di indennizzo, differentemente dall'errore giudiziario, subisce un limite di prescrizione di due anni dalla sentenza definitiva. Questo limite ci sembra assurdo, perché si crea una prescrizione brevissima su un errore di questo o quel magistrato. E, se passano i due anni, lo Stato non pagherà più. Vogliamo che i due anni vengano sostituiti con l'inciso "in ogni tempo", per dare modo a chiunque di rivalersi. Dall'anno `89 al 2011 sono stati una sessantina i casi di magistrati "responsabili" di errore, e una metà sono stati stralciati. Altra proposta, creare una sorta di automatismo che consideri le vittime di ingiusta detenzione privilegiate nel loro reingresso nel mondo del lavoro, perché vengano riabilitate. Ad esempio, penso ai concorsi pubblici, dove la condizione delle vittime della malagiustizia dovrebbe essere equiparata, in un certo senso, a quella dei portatori di handicap. E` una questione di riabilitazione, di tornare alla vita prima di quelle.
E ancora Magno Da "Famiglia Cristiana" di martedì 1 novembre 2011.
«Negli ultimi dieci anni ci sono state 8.000 richieste di risarcimento per ingiusta detenzione. E ben 2.500 sono state accolte. È un numero enorme. Ma la legge attuale non consente un adeguato risarcimento perché fissa il tetto massimo in 516 mila euro. Noi chiediamo l’abolizione di questo tetto, così come chiediamo, nel caso di errore giudiziario, che sia tolto il limite di tempo entro il quale si può avviare la causa di equa riparazione, che oggi è fissato in due anni dalla revisione del processo e dall’assoluzione».
A parlare è l’avvocato Gabriele Magno, fondatore dell’Associazione Nazionale Vittime Errori Giudiziari. L’associazione, spiega, è nata dieci anni fa, quando lui e altri avvocati e giuristi si sono resi conto che non esisteva alcuna realtà che tutelasse le vittime della giustizia. E, oltre all’errore giudiziario e all’ingiusta detenzione, si occupa anche di una terza tipologia di problemi: l’eccessiva lunghezza dei processi. Naturalmente tutte queste associazioni tematiche che aspirano alla prima genitura ed all'esclusiva, molto attente ad non urtare la suscettibilità dei magistrati, causa del male, non fanno mai riferimento all'Associazione Contro Tutte le Mafie, colpevole di non santificare i magistrati, colpevole di non essere di sinistra e colpevole di non guardare in faccia nessuno e di dire sempre la verità, dando spazio anche a chi la ignora o la emargina.
«La lunghezza ingiustificata dei procedimenti italiani ha già portato a 38 mila ricorsi», aggiunge l’avvocato Magno. «Se il processo è troppo lungo non è più giustizia. In giurisprudenza è cosa nota: un processo deve avvenire in aula e non solo sulle carte; dev’essere immediato, cioè a ridosso dei fatti; dev’essere ragionevolmente rapido. Se no è un processo ingiusto».
Avvocato,
perché l’Italia soffre da sempre di una giustizia lenta e inceppata?
«Perché, pur avendo inventato il diritto, ci siamo dimenticati di un suo
caposaldo, che era già chiaro all’epoca dei romani: il precedente giudiziario è
vincolante. È il principio su cui si basa la giustizia americana: la Corte
Suprema emette 120 sentenze l’anno, ma tutti i tribunali e in tutti i gradi di
giudizio vi si devono uniformare».
E in Italia, invece?
«I nostri riferimenti di giurisprudenza provengono dalle leggi. Il Parlamento legifera e il giudice deve applicare. Per farlo deve interpretare la legge. Le sentenze della Corte di Cassazione non sono vincolanti. Fanno giurisprudenza, ma ogni magistrato, ogni avvocato e ogni giudice trovano nella storia giurisprudenziale tutto e il contrario di tutto. La legge, poi, arriva spesso molto tardi rispetto al fenomeno che deve normare, e talvolta risulta inefficace già fin dal suo nascere. Ammesso che si faccia la legge...».
Che cosa intende dire?
«Che il Parlamento spesso agisce in base a ragioni di maggioranze, di opportunità del momento politico, di convenienza di una parte o dell’altra».
Come dev’essere la durata di un “processo giusto”?
«I tempi sono noti: 3 anni per il primo grado, due anni per il secondo, e 1 anno per la Cassazione, l’ultimo livello di giudizio».
E invece?
«E invece basta guardare ai ricorsi alla casistica di condanne dell’Italia alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per vedere quanti processi, specie civili, durano quindici, venti, o anche oltre 25 anni. In Italia è diventato quasi normale che si fissi l’udienza successiva di un processo civile due anno dopo, talvolta anche tre. Come si può aver fiducia in una giustizia che lavora con questi tempi?»
Negli
ultimi anni ci sono stati alcuni casi di risarcimenti clamorosi, di milioni di
euro…
«È vero. Riguardano processi di equa riparazione per errori giudiziari (il
risarcimento nel caso del vero e proprio errore si chiama così). Ad esempio, il
“caso-Barillà”, uno dei casi storici di cui si è occupata l’associazione, ha
ottenuto il risarcimento di 4,6 milioni di euro. In quella vicenda, oltre
all’errore giudiziario, c’era il problema di 5 anni e mezzo di ingiusta
detenzione. Ma la vera novità è che per la prima volta era stato accolto dal
giudice il concetto di risarcire il danno esistenziale, ossia le conseguenze
pesantissime subite dalla vittima dell’errore che ne peggiorano definitivamente
la qualità della vita. Il danno esistenziale va ad aggiungersi agli altri: danno
morale, biologico, e via dicendo».
Qual è la vostra posizione? Che siano i magistrati in prima persona a pagare l’errore?
«No, noi non siamo del “partito anti-magistrati”. Anzi, pensiamo che la contrapposizione non aiuti affatto la giustizia. La nostra posizione è equilibrata: i magistrati possono sbagliare, come tutti; non ci interessa di punire i magistrati, ma che venga risarcita la vittima e riabilitato il suo buon nome. Pensiamo, tra l’altro, che di fronte al rischio dell’indennizzo, il magistrato si autolimiterebbe e porrebbe molta attenzione nel prendere certi provvedimenti».
Non c’è il rischio di limitare l’autonomia della magistratura?
«L’ultima cosa che vogliamo è limitarne l’autonomia, che è uno dei capisaldi della giustizia. Il magistrato è e deve rimanere autonomo».
È sempre del giudice la colpa dell’errore?
«Per la mia esperienza no. Lo è nel 50 per cento dei casi, l’altro 50 è di noi avvocati. Sapesse quanti ne vediamo commessi dai colleghi: ricorsi dimenticati, scelte difensive sbagliate, errori procedurali. Tanta giustizia ingiusta viene anche da scarsa preparazione di una parte della nostra categoria».
EURISPES: RAPPORTO SUL PROCESSO PENALE. La verità che mancava sul funzionamento del processo penale in Italia.
Nell’aprile del 2007 l’Eurispes e la Camera Penale di Roma, a suggello di un accordo operativo e scientifico, organizzavano e realizzavano una indagine – la prima del suo genere – volta a verificare, secondo i criteri rigorosi della scienza statistica, che cosa accadesse davvero nelle aule giudiziarie della Capitale impegnate nella celebrazione dei processi penali ordinari. L’idea della ricerca nasceva dalla constatazione, pur tuttavia non documentata fino a quel momento, che l’esperienza quotidiana nelle aule di giustizia offrisse indicatori sul processo penale non espressi dai dati generali raccolti ufficialmente, che non spiegano in definitiva quali siano le vere ragioni del malfunzionamento del sistema. Si è, insomma, in grado di misurare con esattezza la temperatura febbrile del paziente, ma non si ha la minima idea delle cause della malattia.
È nata così l’idea di una ricerca destinata a costituire un punto di non ritorno nelle annose dispute sulle cause della durata irragionevole dei processi penali in Italia.
Ad un anno di distanza la stessa indagine è stata ripetuta con un ambizioso obiettivo: monitorare i procedimenti attraverso l’analisi di un campione statistico nazionale e comparare i risultati con quelli già ottenuti su Roma. Si è trattato di un impegno organizzativo davvero straordinario, che ha coinvolto ben 27 Camere Penali territoriali secondo le indicazioni di natura statistica elaborate dall’Eurispes, e con la conseguente analisi di un numero imponente di dati da analizzare: 12.918 schede, ciascuna corrispondente ad un processo penale monitorato. Una indagine innovativa, realizzata sul campo con l’obiettivo di far emergere i veri problemi che attanagliano il nostro sistema giudiziario, attraverso il monitoraggio dei processi che si sono svolti nei Tribunali di: Ancona, Bari, Bologna, Brescia, Cagliari, Catania, Catanzaro, Firenze, Lucca, Macerata, Melfi, Milano, Modena, Modica, Monza, Napoli, Padova, Palermo, Parma, Piacenza, Roma, Salerno, Sassari, Torino, Trani, Trieste, Varese e Venezia.
Le giornate di rilevamento sono state organizzate con lo specifico obiettivo di ricostruire e rispettare nel modo più fedele l’organizzazione delle udienze nei singoli Fori considerati. Il monitoraggio ha rigorosamente seguito l’intero arco temporale delle singole udienze: tutti i rilevamenti sono iniziati con l’apertura della udienza, e si sono conclusi con la chiusura della udienza stessa. Le proporzioni tra udienze collegiali (8%) e monocratiche (92%) monitorate sono sostanzialmente rispettose del rapporto percentuale tra processi monocratici e collegiali quotidianamente celebrati in Italia.
Quanto incide, nel normale corso di un processo penale, l’impedimento a comparire del difensore perché impegnato in altro processo, e quanto la mancata citazione dei testimoni per l’udienza da parte del Pubblico Ministero? Quanto incide la nullità dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari, con conseguente regressione della fase processuale, e quanto l’assenza del Giudice titolare? E quanto gli errori nella notifica degli atti, o le assenze dell’interprete o dei periti, o la mancata comparizione dei testimoni pur regolarmente citati per l’udienza, a cominciare da agenti o ufficiali di Polizia giudiziaria?
Queste le domande alle quali l’indagine svolta dall’Eurispes in collaborazione con l’Unione Camere Penali Italiane ha voluto dare risposta. L’analisi comparata di alcuni dei dati principali di questa ricerca, se da un lato offre in qualche caso la conferma di una Italia “a due velocità”, sembra in realtà indicare piuttosto che la crisi strutturale del processo penale, nei suoi quasi esclusivi profili organizzativi ed amministrativi, non salva alla fine dei conti nessuna area del Paese, restituendoci una inconsueta unità del Paese nel segno di un naufragio della giustizia penale.
La scarcerazione di sei condannati all'ergastolo per la strage di via D'Amelio, a diciannove anni dall'eccidio che uccise Paolo Borsellino e gli agenti della scorta, per lo Stato italiano che nel 1992 fu dilaniato dalle bombe mafiose rappresenta allo stesso tempo un successo, una sconfitta e un mistero ancora aperto. È un successo, perché dimostra che le istituzioni (in questo caso la Procura e la Procura generale di Caltanissetta) hanno la capacità e la forza di ritornare sui passi sbagliati, e di tirare fuori di galera chi stava scontando una pena ingiusta. Anche quando i condannati sbagliati non hanno nomi importanti, ma anzi fanno parte di un girone sociale molto vicino a quello dei reietti. È però anche una sconfitta, perché per arrivare al riconoscimento dell'errore (che probabilmente poteva essere individuato anche nel corso dei processi) ci sono voluti troppi anni e soprattutto un mafioso, Gaspare Spatuzza, che dopo un decennio di prigione s'è «fatto pentito» e ha deciso di raccontare una nuova verità, decisamente più credibile di quella giudiziaria, nonché definitiva, ricostruita fino a quel momento. Fosse rimasto in silenzio, gli innocenti avrebbero finito i loro giorni in cella e l'Italia sarebbe rimasta con una falsa verità sulla fine di Paolo Borsellino. Una fine sulla quale la riapertura del processo aggiunge un ulteriore, inquietante mistero. Perché a questo punto non si tratta più soltanto di scoprire come mai l'erede di Giovanni Falcone fu ucciso con tempi, modalità e conseguenze che facevano e fanno sospettare interessi e regie che vanno oltre gli esecutori e mandanti mafiosi. Ora bisognerebbe scoprire perché le indagini dell'epoca, basate fra l'altro su tre falsi pentiti che fecero arrestare e condannare almeno sette innocenti, presero quella direzione. Fu solo un clamoroso errore investigativo oppure un depistaggio orchestrato ad arte? E in questo secondo caso, per conto di chi? Per coprire che cosa? Domande rimaste senza risposta, anche dopo la liberazione di chi è stato condannato ingiustamente.
Dal 18 luglio 1994 e fino al 28 ottobre 2011 è stato uno degli ergastolani accusati della strage di via d'Amelio. Ha attraversato l'inferno di Pianosa, che lui chiama la discoteca perché "si ballava dalla mattina alla sera per le sevizie", è rimasto in isolamento al 41 bis, ha perso il suo lavoro al Comune come spazzino, portando addosso il marchio di essere uno dei mafiosi che ha preparato l'attentato al giudice Borsellino. Gaetano Murana, scarcerato con altri cinque, compie 54 anni il 4 novembre: il suo primo compleanno da uomo libero dopo 18 anni in cella. Si racconta nella sua prima intervista a “La Repubblica”. Ha il viso scavato, adesso porta gli occhiali e ha le mani gonfie e rosse di chi ha maneggiato tanti detersivi per tirare a lucido le troppe celle in cui ha vissuto. Al polso l'unico "souvenir" che gli ricorda gli anni trascorsi in galera: un orologio Swatch di plastica, l'unico ammesso.
Da dove cominciamo signor Murana, dall'inizio o dalla fine?
«La conclusione dei miei giorni in carcere è assolutamente la parte più bella. A Voghera ho lasciato l'infinita tristezza per una falsa verità che non mi apparteneva e una pentola con il sugo di carne fatto con le mie mani, che, senza offesa, è uno dei migliori che si siano mai assaggiati nelle celle italiane. E io di carceri ne ho girate ben 8 in diciotto anni. È andata così: stavo arriminannu il sugo per non farlo appigghiare quando un agente è entrato nella mia cella di Voghera. Mi ha portato in infermeria dal capoposto che mi ha chiesto quale fosse la mia residenza. Lì ho capito e mentre già piangevo è stato il capoposto a dirmi: "Lei è liberante". A quel punto i miei compagni mi hanno aiutato a fare le valigie. Anche loro piangevano. I vestiti, le scarpe, le tute da lavoro li ho donati ai più bisognosi. Quando la porta carraia si è chiusa alle mie spalle ho cominciato a tremare. Mi sono guardato attorno, ero confuso. Mi sono seduto su un gradino e ho cominciato a piangere tutte le mie lacrime».
Andiamo indietro di 18 anni, al giorno dell'arresto. Come andò?
«Ancora ci penso e in certi momenti sorrido amaramente. Bisogna partire dal giorno prima per capire. Era il 17 luglio. Stavo guardando la finale Italia-Brasile del campionato mondiale di calcio Usa 94, abbracciato a mia moglie. Eravamo sposini. Mio figlio, Giuseppe, era nato un anno e un mese prima. Nell'intervallo tra il primo e il secondo tempo l'annuncio che ha cambiato la mia vita. Il giornalista del tg diceva che un nuovo collaboratore di giustizia, Vincenzo Scarantino, stava raccontando fatti e misfatti sulla strage di via d'Amelio. Non dimenticherò mai la sua foto in televisione. È rimasta impressa nella mia memoria per tutti questi anni maledetti. Conosco Scarantino, abitava a 50 metri da casa mia. La mattina seguente sono stato arrestato mentre andavo al lavoro. Con la mia auto avevo fatto un'infrazione. Un'auto civetta mi ha subito bloccato. Credevo di ricevere una multa. I poliziotti mi dissero che avrei perso tre minuti. Ebbene, questi tre minuti sono durati 206 interminabili mesi e una manciata di ore. Quando alla squadra mobile mi hanno consegnato l'ordine di cattura per strage, ero stupefatto. Ho chiesto perché. I poliziotti mi hanno risposto: "Questo è un regalo che ci ha fatto Scarantino"».
Lei è stato accusato di avere "bonificato e sorvegliato" il luogo dell'attentato a Borsellino. Ed è finito al 41 bis, il carcere duro. Come ha resistito?
«Pianosa è quello che ha lasciato nella mia anima le ferite più profonde. Dopo l'arresto mi hanno portato nella sezione Agrippa, quella riaperta proprio per il 41 bis. Botte e sevizie, come hanno denunciato alcuni detenuti, erano all'ordine del giorno. Sono stato costretto a fare flessioni nudo per 3 anni, a subire violenza con l'uso del metal detector sui genitali. Ma non dimenticherò nemmeno i profilattici dentro alle minestre, il peperoncino nelle bevande, le sbarre battute a tutte le ore per tenerci svegli. Il 17 luglio del 1997 sono stato l'ultimo a lasciare Pianosa. Ma anche Caltanissetta è stato un altro posto da dimenticare. Mi rendo conto, adesso, che negli anni a tutte quelle botte mi ero quasi abituato».
Nel "Borsellino I" lei è stato assolto, e dal 2002 al 2005 è tornato in libertà. In appello poi è stato condannato all'ergastolo, pena confermata in Cassazione. Libertà a parte, cos'altro ha perduto in questi anni?
«La crescita di mio figlio: l'ho rivisto e l'ho potuto toccare dopo i primi 5 anni di carcere. È stato un supplizio. Poi ho perso i migliori anni di matrimonio. Ero un ragazzo, adesso mi sento stanco e vecchio. Ho perso una sorella, morta di tumore e che non ho potuto salutare. E ho perso il lavoro. Adesso pretendo di nuovo il mio impiego al Comune. Credo mi spetti, no?».
C'è stato qualcosa di buono, nonostante tutto, nella sua lunga carcerazione?
«Nel 2009, finalmente, dopo una lunga battaglia con l'avvocato Rosalba Di Gregorio, ho ottenuto la revoca del carcere duro. Ho potuto riprendere gli studi. Mi sono iscritto a ragioneria: andrò al terzo anno. Poi ho approfondito la mia fede. Ho letto e riletto i libri su San Francesco. Sono diventato anche un uomo più riflessivo e vorrei dedicarmi al volontariato».
Qual è il primo desiderio esaudito da uomo libero?
«Mi sono fatto preparare un piatto di pasta con le sarde, la mia preferita».
Se avesse Scarantino davanti cosa gli direbbe?
«Nulla, lo saluterei. È una vittima come me. Credo che le sue false dichiarazioni sono il frutto dei terribili anni a Pianosa. Vorrei solo chiedergli una cosa: Chi ti ha detto di fare il mio nome?»
Lasciando il carcere di Voghera Gaetano Murana confessa: «Sono felice e confuso. Non so neppure come pagare... con questi soldi nuovi non sono pratico. Io sono rimasto alla lira». In effetti sono trascorsi 18 anni da quando assieme ad altri sette imputati, tre dei quali incensurati, venne arrestato e poi ingiustamente condannato all' ergastolo per la strage di Via D'Amelio. Lui, Giuseppe Urso, Giuseppe La Mattina e Cosimo Vernengo, detenuti rispettivamente a Milano, L' Aquila e nelle Marche, sono già tornati in libertà. Usciranno dopo anche Salvatore Profeta e Natale Gambino. Resta detenuto solo Gaetano Scotto, che deve scontare un residuo di pena. Molti torneranno nelle loro case del quartiere Guadagna a Palermo dove dovranno rispettare un precedente obbligo di firma in commissariato. Sono tutti liberi grazie alla decisione della Corte d'Appello di Catania che ha sospeso 8 delle condanne all'ergastolo per la strage in cui fu ucciso il giudice Borsellino. È l'attesa conseguenza della richiesta di revisione del processo avanzata dal procuratore generale di Caltanissetta Scarpinato. Ma torna libero anche Vincenzo Scarantino, il falso pentito sul quale sono stati costruiti i processi che hanno portato a quelle sentenze all'ergastolo. Vista la sua storia e il ruolo che ha avuto in questa vicenda giudiziaria tanti farebbero a gara per eliminarlo. Per questo ci sono stati frenetici contatti tra polizia, magistrati e il carcere dov'è detenuto per far scattare misure di protezione anche se non ne avrebbe alcun diritto. La Corte d'Appello di Catania non ha invece accolto, «allo stato degli atti», l'istanza di revisione del processo Borsellino. Una scelta tecnica, ampiamente messa in conto dalla stessa Procura generale di Caltanissetta. «Allo stato - argomentano i giudici - l'istanza di revisione fondata sull'asserita responsabilità di un terzo è inammissibile qualora la responsabilità non sia stata accertata giudizialmente in modo definitivo». In altre parole non ci può essere una revisione fino a quando le responsabilità alternative non vengano accertate con sentenza passata in giudicato. Come può essere una condanna su Scarantino per calunnia, ovvero una condanna per i responsabili della strage. Su questo punto l'avvocato Rosalba Di Gregorio che assiste 4 degli otto scarcerati, fornisce una diversa lettura ritenendo che per avviare la revisione basta una sentenza che accerti il falso commesso dal pentito Scarantino. «Comunque - aggiunge - l'importante è che degli innocenti abbiano potuto lasciare il carcere dopo tanti anni di ingiusta detenzione. Meglio tardi che mai». Il legale attende ora che si completi l'iter di revisione per presentare il conto allo Stato. Sarebbe opportuno anche che si procedesse con un inchiesta sui trattamenti riservati ai carcerati. Soddisfatti anche i magistrati di Caltanissetta che da anni cercano di venire a capo di quello che è stato definito un «colossale depistaggio» per il quale presto potrebbero scattare nuovi arresti. «La Corte d'Appello - afferma il procuratore Sergio Lari - ha ritenuto valida la nostra impostazione per la richiesta di revisione e lo dimostra la sospensione della pena per gli 8 imputati. Non ci sorprende invece l'inammissibilità della revisione perché i giudici hanno aderito ad un orientamento della Cassazione». È stato il pentito Gaspare Spatuzza, che si è autoaccusato, a far crollare il castello di accuse di Scarantino raccontando di aver rubato lui l'auto utilizzata per l'attentato su mandato del boss Giuseppe Graviano.
Da ricordare la vicenda dell'attentato. Il 19 luglio 1992 in via D'Amelio muoiono in un attentato il giudice Paolo Borsellino e cinque uomini della sua scorta. Il processo di primo grado si conclude il 26 settembre 1997 con gli ergastoli a 24 boss. Il processo bis nel 2002, la Corte d' Assise d'appello di Caltanissetta infligge 13 ergastoli ai mandanti ed esecutori della strage. A far riaprire le indagini le dichiarazioni del neopentito Gaspare Spatuzza (2008) che si autoaccusa di aver rubato la 126 utilizzata come autobomba nell'attentato.
Altro fatto eclatante e mediaticamente seguito è un altro fatto giudiziario. Il processo di Perugia per l’omicidio di Meredith Kercher diventa terreno di scontro politico sul fronte della Giustizia. Ad accendere le polveri della polemica è stato l’ex ministro Angelino Alfano: «La sentenza di assoluzione per Amanda Knox e Raffaele Sollecito fa pensare che in Italia per gli errori giudiziari nessuno paga». Nel merito della sentenza Alfano ha osservato che «i tre gradi di giudizio sono fatti proprio per consentire ripensamenti. Il tema che mi viene in mente, e che è giusto, è che - ha continuato Alfano - se la detenzione di Amanda è stata ingiusta, chi la risarcirà? Chi pagherà mai per una detenzione ingiusta sua e di Raffaele Sollecito?». «Io - ha concluso Alfano - mi attengo all’esito del giudizio della Corte, che ha dichiarato innocenti i due, con ciò affermando implicitamente che la detenzione non doveva esserci. In Italia il tema è che per gli errori giudiziari nessuno paga».
Una sponda immediata arriva da Marco Pannella, convinto che «tutto sommato, Amanda e Raffaele sono stati fortunati», perchè sia la pressione internazionale che il fatto di avere alle spalle famiglie economicamente solide ha consentito di accorciare i tempi di solito «lentissimi» dei giudizi. In caso contrario, assicura il leader radicale «avrebbero scontato 6 o 7 anni da innocenti». Il problema, afferma, sono le «migliaia di persone rinchiuse per reati mai commessi». E’ la conferma di una giustizia ingiusta, assicura l’associazione radicale ‘Nessuno tocchi Caino’. Il Codacons si rivolgerà alla Corte dei Conti per evitare che il risarcimento per l’errore giudiziario lo debbano pagare i cittadini.
Il tema è sempre quello degli errori giudiziari: in tv domenica 30 ottobre 2011 su Rai 1 con Lorella Cuccarini si parla di Raffaele Sollecito e Amanda Knox, rimasti 4 anni in carcere per via di un'indagine errata. In studio la sorella di Raffaele, Vanessa. Con molta amarezza la ragazza racconta il suo passato da ufficiale dei Carabinieri e il licenziamento avvenuto, secondo lei, per via delle ripercussioni derivate dal processo. Nel frattempo, in studio sono arrivati Irene Pivetti e Pierluigi Diaco. Le vittime si devono scontrare poi con coloro che negano sempre e comunque l'evidenza, trovando giustificazioni al potere, spesso per codardia o per collusione. Pierluigi attacca in maniera veemente Vanessa sulla questione dei Carabinieri, e quest'ultima insiste: "E' un dato di fatto che 2 anni dopo la vicenda, io sia stata licenziata dai Carabinieri. Il resto lo chiarirà il processo, poichè ho fatto ricorso". Poi, Irene Pivetti puntualizza: "non è un vero e proprio errore giudiziario, ma un iter coi suoi tempi". Farei provare a lei cosa significa stare dentro per 4 anni. Si dice che il sazio non crede il digiuno.
In studio, dopo la pausa, si parla della vicenda di Gennaro Scarcello. Un controllo dei Carabinieri lo trae in stato d'arresto nel carcere di Terni, in regime 41 bis. L'accusa è riciclaggio, per via di un assegno ricevuto in passato, peraltro denunciato alle autorità in quanto scoperto. Assieme agli ospiti, sono ora presenti il cappellano Don Sandro Spiano, del carcere di Rebibbia, e il magistrato Rosario Priore. Quest'ultimo spiega che tali errori, a volte, sono derivati da organi quali il pubblico ministero, definiti da lui "a caccia di prove" per via delle pressioni derivate da media e altri fattori. Don Sandro dibatte il problema etico della colpevolezza. Continua la storia di Gennaro, messa in piedi mediante un mini film. Gennaro infatti, dopo essere stato scarcerato, si trova di fronte a un diniego delle banche di liquidità e all'estromissione dall'azienda da parte del fratello. Di seguito, nel prosieguo del confronto televisivo, si pone la questione della sovraesposizione televisiva nei protagonisti di vicende giudiziarie. Persone come Amanda Knox, racconta un video, hanno ricevuto proposte per libri, video, film, mentre invece altre, come Gigi Sabani, Enzo Tortora e Luttazzi, sono stati rovinati da errori della giustizia.
In studio compare Isabella Sabani, sorella di Gigi, accusato di induzione alla prostituzione. Il caos mediatico creato dalla vicenda ha creato un vuoto nella sua carriera, nonostante fosse stato poi scagionato. Il conduttore è stato infatti tre anni senza contratti. Il dibattito è coadiuvato dal giudice Priore, che spiega come, già da allora, le pressioni che volevano portare il caso in TV erano altissime.
Viene presentato l'ultimo segmento della storia di Gennaro: tentando di riprendere un'attività, egli va incontro al fallimento, in preda a problemi di salute mentale. Tenta quindi di farla finita, ma viene aiutato dagli stessi Carabinieri, ricevendo un risarcimento per l'errore. Rimane comunque invalido per via della sua debole salute mentale, percependo un sussidio e vivendo, oltre che con quei soldi, grazie ai lavori di parcheggiatore e fattorino.
Tornati in studio, Gennaro viene intervistato, spiegando il suo riavvicinamento, nonostante tutto, col fratello. L'ultima considerazione viene affidata al giudice Priore, il quale dichiara: "bisogna educare i magistrati a un maggior senso di responsabilità".
«Certo che andrò a trovare Amanda a Seattle. - dice Raffaele Sollecito - È stata lei a invitarmi. Io ho accertato con gioia. E non è detto che aspetti Natale. Potrei farlo anche prima. In qualunque momento. Ho voglia di rivederla, di parlare, di guardarla negli occhi. Ci telefoniamo o ci scriviamo tutti i giorni, abbiamo bisogno ‘uno dell’altro sia per tentare di capire cosa è successo sia per guardare avanti, verso un futuro che sembrava spezzato per sempre e che invece possiamo ancora costruire. Abbiamo tante cose da dirci, dopo aver passato quattro anni in un girone infernale che ci ha stritolato, ci ha procurato sofferenze indicibili, ci ha rovinato la vita. Abbiamo rischiato l’ergastolo per un’accusa ingiusta, tanto assurda da apparire inverosimile. Anche lei, come me, chissà quante volte si sarà chiesta: “Ma cosa mi sta capitando?”. E non c’è stata risposta. Ecco perché, a quasi un mese dalla sentenza che ci ha assolto, ho la sensazione che la mia sia una vita sospesa. Mi pare tutto così irrazionale quel che è successo! Una settimana dopo avrei dovuto discutete la tesi di laurea e mi sono ritrovato in carcere con l’accusa di avere assassinato Meredith», Brillano gli occhi a Raffaele Sollecito quando parla d Amanda e lo fa, per la prima volta dopo la scarcerazione, in esclusiva con Oggi.
Ma sembra lontano, quasi assente. Chissà cosa insegue con la mente. Chissà quali fantasmi si annidano nei pensieri di questo ragazzo timido e garbato che l’avvocato Giulia Bongiorno ha definito «il signor nessuno in un processo “amandocentrico” ». Se veramente Raffaele è solo «un allegato» di Amanda (la definizione è sempre della Bongiorno), non lo sapremo mai e non sarà lui a rivelarlo, riservato com’è. Ma certo Amanda, malgrado tutto , è più che mai nei suoi pensieri. Quattro anni di carcere, di angoscia e di paura non hanno mandato in frantumi quel tenero legame che era nato improvvisamente nell’autunno del 2007 fra la ragazza di Seattle e lo studente di Giovinazzo. Quei quattro anni che nessuno dei due ha vissuto, chiusi com’erano fra quattro mura, senza speranze e senza futuro, schiacciati da una condanna a 25 e 26 anni e dalla prospettiva dell’ergastolo. Oltre 1.400 giorni che hanno lasciato segni dolorosi e incancellabili. Raffaele cerca di nasconderli ma appaiono evidenti. Impossibile capirne e saperne di più da lui. Non ha certo metabolizzato il macigno che gli è cascato addosso. Il peso lo opprime e le conseguenze chissà quando svaniranno anche se i familiari e un bel gruppo di amici gli sono ” premurosamente vicini nella bella casa di Bisceglie. Gli fanno compagnia, lo portano in barca o nei locali, la sera. «Deve ricominciare a vivere dal punto in cui aveva smesso. Deve riprendere a fare tutto quello che faceva prima. E deve riprendere a studiare per il corso universitario di realtà virtuale che aveva iniziato in carcere. Non sarà facile», dice Francesco Sollecito, il padre di Raffaele, un uomo che non riesce a nascondere amarezza e rancori, convinto che suo figlio non sia stato solo vittima di una grande ingiustizia ma di qualcosa di peggio.«Agli errori, se si è in buona fede, si può sempre porre rimedio», dice con un tono di voce che rivela astio e desiderio di ulteriore giustizia, «ma a Perugia è successo qualcosa di peggio, qualcosa e qualcuno che hanno rovinato la vita non solo a Raffaele. Una ottusa ostinazione, inspiegabile quando la realtà dei fatti, le prove, i testimoni inattendibili dimostravano tutto il contrario. Quegli interrogatori prima dell’arresto, fatti per entrambi senza l’assistenza di un avvocato, quell’interprete di Amanda che, anziché limitarsi a tradurre, visto che la ragazza non capiva e non parlava una parola di italiano, aveva la pretesa di fare la psicologa, aiutandola a ricordare, a rimuovere presunti traumi psichici che, secondo lei, bloccavano il ricordo doloroso dell’omicidio. La Corte di Cassazione ha giudicato quegli interrogatori inutilizzabili sia contro Lumumba sia contea se stessa. Un abominio giudiziario che non è servito certo a dare giustizia alla povera Meredich». «Inseguirò la verità fino alla fine» «Non voglio ripercorrere le tappe dell’inchiesta e dei due processi», aggiunge Francesco Sollecito, «lo farò in altra sede quando verrà il giorno nel quale a qualcuno chiederò conto di tutto questo. Ma una cosa la voglio dire: Raffaele è rimasto in carcere e ha rischiato di restarci per sempre per una impronta plantare, quella scoperta accanto al corpo di Meredirh, che non era la sua ma di Guede. La polizia scientifica ha ammesso l’errore dopo cinque mesi. Guede l’ha confessato al Pm Giuliano Mignini dopo serre mesi. Contro mio figlio Raffaele non c’era altro. E non parlatemi più del gancetto del reggiseno di Meredith. L’avvocato Bongiorno l’ha detto chiaro e tondo: “II vero giallo in questo dramma è il gancetto. La sua scomparsa e il suo ritrovamento”, riferendosi alla incredibile spiegazione data da Patrizia Stefanoni, responsabile della polizia scientifica: “Quel gancetto è traslato”. Avete capito? “E traslato”, ha detto. Ma un giorno conosceremo la verità e vuole sapere perché? Perché io la inseguirò per tutta la vita.
Visibilmente soddisfatta anche l’avvocato Giulia Bongiorno, uno dei legali di Raffaele Sollecito che rivela: «Nel corso del processo di primo grado, dopo che la perizia ci fu negata dissi al padre di Raffaele: “Suo figlio verrà condannato”. Dopo i risultati dell’ultima perizia gli ho invece detto: “Assolveranno suo figlio”. E’ il verdetto che ci aspettavamo – prosegue il noto legale -: dopo la nuova perizia l’estraneità di Raffaele è parsa inconfutabile. Una sentenza che non si è fermata alle apparenze, mentre in primo grado ci sono stati sospetti e illazioni. Peccato solo che la perizia non ci sia stata concessa prima, non ci sarebbero stati quattro anni di sofferenza e dolore».
E ancora sugli errori giudiziari. Luttazzi inedito e spietato. Ecco il film perduto contro la casta dei giudici. Arriva al festival di Roma 2011 l’opera scritta e girata nel 1972 dal musicista, vittima di un clamoroso errore giudiziario. La pellicola si chiama "Illazione" ed è stata ritrovata dalla moglie.
Un film contro lo strapotere dei giudici. Contro la loro impunità. Una pellicola di denuncia che, eravamo nel 1972, la Rai rifiutò di trasmettere. Una lacuna che viene colmata ora, 40 anni dopo. Domenica sera 30 ottobre 2011 Rai5 si trasmette "L’illazione", film scritto diretto e interpretato da Lelio Luttazzi, dopo che nel pomeriggio il Festival Internazionale del Film di Roma gli si è reso omaggio proiettandolo come evento speciale.
Girato con pochi mezzi in gran parte in una villa nella campagna romana dove un gruppo di persone si ritrova a cena, "L’illazione" è un’opera di appena 60 minuti che risente del clima e delle mode dell’epoca, con molti dialoghi e qualche digressione onirica. Il cuore della storia invece - gli errori dei giudici - è di un’attualità sconvolgente. E conserva la forza di un pamphlet, sebbene girato nel 1972, un anno dopo il proscioglimento di Luttazzi dalle accuse di detenzione e spaccio di droga nate da un’intercettazione tra Walter Chiari e uno spacciatore. Accuse che lo costrinsero a 27 giorni di carcere quand’era uno dei personaggi più amati dal pubblico, musicista sopraffino, presentatore di rara eleganza, simbolo della tv in bianco e nero. Finalmente ora vedremo "L’illazione", grazie alla dedizione della vedova Rossana Luttazzi e al restauro realizzato da «L’immagine ritrovata» di Bologna con la supervisione di Cesare Bastelli.
Con tanto di barba anticonformista, Luttazzi è uno scrittore deciso ad aiutare l’amico medico (Mario Valdemarin) caduto in depressione a causa delle lettere anonime che lo accusano di aver praticato l’eutanasia sul figlio neonato e sub-normale. Tra un bicchiere di vino e un disco jazz, lo scrittore sottopone la vicenda a un ambiguo magistrato (Alessandro Sperlì), acquirente del terreno adiacente la villa. Le cose però non vanno per il verso giusto e il giudice imbastisce a sorpresa una sorta di processo kafkiano in cui le vittime, in un susseguirsi di dialoghi acuminati, si trasformano in indiziati. «Tra noi intellettualoidi e voi magistrati c’è una differenza», osserva lo scrittore Luttazzi. «Mentre voi presumete di conoscere di volta in volta la verità noi viviamo nel dubbio perenne, come Socrate. Un brindisi alla cicuta!».
Il magistrato: «Lei è un artista, il nostro mestiere lo lasci a noi. Il popolo ha bisogno di essere rassicurato da una giustizia energica, severa, dura se serve». E così, in attesa di un caffè anti-abbiocco, il giudice severo e duro mette nel mirino il medico taciturno. «Di che cosa dubita», gli chiede lo scrittore. «Di niente, non sono un socratico. Focalizzo dei concetti». «O dei preconcetti», precisa Luttazzi prima di condensare la sua denuncia: «Quindi, lei che ha il potere di decidere della libertà e della vita di tutti noi si abbandona all’illazione come fanno quelli che stanno massacrando il mio povero amico. E magari a questo sistema si abbandona anche nella sua professione. Eh già, tanto anche se sbaglia, a chi deve rispondere, eh?». Le battute di Luttazzi fanno pensare anche oggi: «In una società ben organizzata chi ha responsabilità sociali andrebbe psicanalizzato prima di essere immesso nella professione. Certe tendenze negative che fanno parte della nostra natura, sadismo, volontà di potenza, narcisismo, esibizionismo ... possono spingerci a scegliere professioni dove possiamo meglio soddisfarci rimanendo al coperto». «E perché io dovrei psicanalizzarmi e lei che è scrittore no?», chiede il magistrato. «Perché io non ho il potere di mandare in galera la gente».
Fu Rossana Luttazzi a ritrovare nel ’78 durante un trasloco la pizza della pellicola: «“E questa cos’è?”, chiesi a mio marito. “È un film di qualche anno fa. L’ho scritto, girato, interpretato. Ma non se n’è mai parlato perché è contro un giudice”, tagliò corto lui». Tempo dopo, pur di vederlo, la moglie lo fece riversare in una cassetta vhs. «Ma Lelio non volle rivederlo. “Mi fa male... Lo sai che cosa mi ricorda... Non parlarmene più”, protestò. Così lasciai perdere», ricorda ancora la signora Rossana. Che un anno fa, pochi mesi dopo la morte del marito, nel luglio 2010, diede vita alla Fondazione Lelio Luttazzi. «Era il modo per continuare a occuparmi di lui, come avevo fatto per 36 anni. Mostrai L’illazione a un amico critico cinematografico, che mi spronò assolutamente a fare qualcosa perché il film di Lelio lo meritava».
Ilaria Cavo ha scritto “Il cortocircuito”. I casi di errori giudiziari sono un fenomeno reale e in forte crescita nelle aule dei tribunali italiani. Imprenditori, politici, star dello spettacolo e molto più spesso comuni cittadini sono vittime di frequenti errori, omissioni o banali equivoci con conseguenze però tragiche per le loro vite: nella maggior parte dei casi, per la lentezza della burocrazia italiana, saranno costretti a un calvario di anni o addirittura decenni alla fine del quale in molti casi saranno riconosciuti innocenti. Ilaria Cavo ci racconta le storie di alcune di queste persone, vicende spesso drammatiche, a volte tanto assurde da apparire grottesche, come quella di Elvio Zornitta, sospettato ingiustamente per anni di essere il famigerato Una bomber, o quella di Carlo Rossi, un normale responsabile amministrativo, arrestato per corruzione e poi assolto dopo una via crucis durata quindici anni.
“Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”, di Ilaria Cavo. In carcere da innocenti. Dal dj arrestato per un’intercettazione male interpretata al carabiniere infiltrato tra i pusher e accusato di spaccio. Marcello parla al telefono. Dice: “Vengo, prima passo a prendere Maria”. Si riferisce a un’amica che si chiama Maria, ma chi intercetta la conversazione si convince che stia parlando di marijuana. E, quando Marcello parla di “bibite”, pensa stia discutendo di dosi di stupefacenti. Peggio ancora quando informa un amico di stare trasportando delle “casse”: si tratta di altoparlanti per una serata musicale, ma chi intercetta collega la frase allo spaccio, immaginando che stia trasportando casse di droga. Per colpa di quelle telefonate, di quelle parole normalissime diventate segnali di colpevolezza, Marcello Maganuco ha passato due anni in galera. Prima nel carcere Malaspina di Caltanissetta, dove è entrato il 6 giugno 2001, poi ad Agrigento, da cui è uscito soltanto il 13 maggio 2003.
Troppe assurdità.
Questa storia assurda di mala-giustizia la racconta Ilaria Cavo, brava giornalista di Mediaset che per conto del programma Matrix si è occupata di celebri casi di cronaca nera. È contenuta, assieme a un’altra decina di simili situazioni, nel libro “Il cortocircuito. Storie di ordinaria ingiustizia”. Le vicende contenute nel volume riguardano per lo più casi che non hanno attirato su di sé l’attenzione dei media. Sono passati abbastanza in sordina. E forse per questo sono ancora più sconcertanti. Così come fa restare allibiti ciò che è capitato a Marcello Maganuco. Tutto succede perché i carabinieri di Gela, durante un’indagine su un traffico di droga in città, s’imbattono in una telefonata che G.M., presunto spacciatore, ha fatto a Marcello. Gli chiede un numero di telefono, quello di S.G., considerato dalle forze dell’ordine uno dei personaggi di spicco dell’organizzazione criminale su cui stanno indagando. Perché G.M. chiama Marcello? Perché Marcello lavora nelle discoteche, fa il deejay e il pr, incontra tantissima gente, organizza serate, trasferte in pullman, liste per entrare nei locali. Ha la sola responsabilità di conoscere due sospetti. Si limita a fornire un numero di cellulare, scandito cifra dopo cifra come emerge dall’intercettazione. Da quel momento, però, le sue parole al telefono sono ascoltate con attenzione e alcune conversazioni vengono considerate equivoche. Così Marcello viene arrestato e sconta due anni di custodia cautelare in attesa del processo. Che lo assolve da ogni accusa. Il suo calvario giudiziario, però, non è terminato. A causa della galera, Marcello - oltre a perdere due anni di vita - ha ritardato la maturità. Nei giorni dell’arresto avrebbe dovuto sostenere l’esame. A patto che entrasse in aula, davanti a tutti i compagni, con le manette ai polsi. L’umiliazione era troppo grande, ha rifiutato di sostenere il colloquio. Per guai come questi e per 24 mesi di ingiusta detenzione, ha chiesto un risarcimento allo Stato: 516 mila euro. La prima volta li ha richiesti nel 2005, ma la Corte di appello di Caltanissetta glieli ha negati. Motivo? Se l’hanno tenuto due anni in gabbia per niente è colpa sua. Colpa delle telefonate “ambigue”, considerate un “comportamento gravemente colposo”. Dunque uno telefona e anche se sono gli investigatori a capire male, la responsabilità è tutta sua. Marcello ha fatto ricorso, nel febbraio 2009 la Corte di cassazione gli ha dato ragione. Ma niente: nel dicembre dello stesso anno la Corte d’appello di Caltanissetta si è opposta di nuovo il risarcimento. Contando che la sua trafila è iniziata nel 2001, Maganuco è in ballo da circa 9 anni.
Nessun risarcimento.
Succede a quasi tutti i protagonisti del libro della Cavo. Finiscono in galera ingiustamente, qualche giudice riconosce gli errori dei suoi colleghi - dopo tempi d’attesa lunghissimi - ma poi lo Stato, per i motivi più vari, rifiuta di pagare dazio. Intanto, la vita di queste persone ne esce a pezzi. Altro caso stupefacente è quello di Carlo Rossi, geometra di Feltre. Lui ha scontato solo 4 giorni di carcere - comunque troppi, visto che immotivati - ma la sua vicenda processuale è durata dal 1995 al 2005, anno in cui è stato riconosciuto innocente. Vanno poi aggiunti ulteriori tre anni di visite al tribunale per farsi riconoscere un risarcimento, negato. Che ha fatto Carlo Rossi? Ha cercato di far risparmiare soldi alla Ulss (unità sanitaria locale) di Belluno, per la quale lavorava. “Con la fusione delle unità sanitarie locali di Agordo, Cadore e Belluno in un’unica Ulss, come responsabile dell’economato, mi sono reso conto che uno stesso prodotto (in questo caso le strisce per l’esame del diabete) veniva acquistato a prezzi differenti, a pochi chilometri di distanza”, spiega Rossi. Il quale decide di svolgere un’asta tra fornitori per abbassare il prezzo. E ci riesce: spunta una cifra che dimezza la spesa a carico della struttura sanitaria. Ad aggiudicarsi la fornitura è la ditta Boehringer, e qui cominciano i guai. M.S., referente commerciale dell’azienda, è intercettato mentre parla con Rossi di prezzi e offerte. Poi, mentre spiega ad altri di conoscerlo. Chi ascolta i nastri ne deduce che il geometra sia colpevole di abuso d’ufficio. O di corruzione (il capo d’imputazione viene cambiato tre volte, cosa che non favorisce certo la difesa). Non c’è traccia di soldi che provino la corruzione. L’azienda che Rossi avrebbe favorito ne risulta danneggiata - aveva già contratti a cifre molto più alte, non si capisce perché avrebbe dovuto farseli cancellare - e non si riscontrano reati. Eppure il geometra prima finisce dentro per quattro giorni. Poi deve affrontare un iter impressionante, fino ad essere scagionato. Dopo oltre dieci anni di caos, sapete che ha ottenuto Rossi? Un risarcimento? Macché. Una richiesta di 38 euro da pagare per i diritti di cancelleria da parte del Tribunale di Belluno. Altra storia allucinante è quella di Gian Mario Doneddu. Sessanta anni, maresciallo dei carabinieri, ha ottenuto notevoli riconoscimenti internazionali (uno pure dal generale Dalla Chiesa) dopo una sfolgorante carriera da infiltrato. Sembrava destinato a un grande successo professionale, finché nel 1997 viene condotto in carcere. Si trova all’estero, per un incarico prestigioso. Rientra immediatamente, dunque non c’è dubbio che voglia scappare, ma viene richiesta la custodia cautelare (poi revocata). Accade che un collaboratore di giustizia, ex spacciatore, lo accusa di aver approfittato del suo ruolo di infiltrato per intascare droga. L’indagine riguarda vari colleghi, alcuni dei quali effettivamente colpevoli. Ma lui non c’entra. Viene coinvolto perché il suo nome è erroneamente inserito nel verbale d’interrogatorio del pentito. Una trascrizione sbagliata. Doneddu affronta un iter giudiziario durato 11 anni: nel 2009 viene scagionato. Gli serve un tempo infinito per dimostrare che non c’entrava, per ottenere le registrazioni degli interrogatori in cui il suo nome non compare e la sua posizione appare chiara: è innocente. Farà ricorso per chiedere un risarcimento, ma nel frattempo gli hanno stroncato la carriera. Leggendo le storie come la sua, e come le altre raccontate da Ilaria Cavo, viene da pensare una cosa sola: la riforma della giustizia è da fare. Subito.
“Cento volte Ingiustizia”, libro di Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone.
Cento casi di errori giudiziari, ricostruiti con l'unico intento di sollevare una riflessione approfondita su una delle più attuali e delicate questioni della giustizia. La prefazione è affidata a Roberto Martinelli.
L'opera vede anche l'intervento di altri quattro addetti ai lavori: il giudice Ferdinando Imposimato; l'avvocato Carlo Taormina, docente di procedura penale presso l'Università di Tor Vergata di Roma; Severino Santiapichi, per anni presidente della Corte d'Assise di Roma, ex procuratore generale presso la Corte d'Appello di Perugia; Renato Borruso, ex magistrato della Corte di Cassazione.
L’idea di raccogliere in un volume cento storie di cittadini travolti dalla macchina della giustizia, nasce dal caso della piccola Miriam Schillaci, la bambina uccisa da un tumore che un medico aveva scambiato per violenza sessuale commessa dal padre. L’errore diagnostico indusse il giudice a sbagliare nel ritenere il genitore colpevole, e il giornalista a sbattere in prima pagina un “mostro” innocente.
Medico, magistrato e giornalista sono i rappresentanti delle tre corporazioni alle quali il cittadino affida la tutela della salute, della libertà e dell’onore. Per questo, quando queste categorie professionali cadono in errore, le conseguenze finiscono per avere un’incidenza maggiore sulla vita della gente.
Nel processo penale vige il libero convincimento del magistrato. Il suo giudizio è sovrano, prescinde dall'imponderabilità delle prove e degli indizi, dalle opinioni contrastanti dell'accusa e della difesa. Quel principio consente un'interpretazione dei fatti il più delle volte attendibile e verosimile, ma mai veritiera al punto di essere considerata del tutto aderente alla realtà storica. Il tentativo di far coincidere verità giudiziaria e realtà storica è la causa di molti errori giudiziari. Obiettivo del giudice è far emergere l’effettivo svolgimento dei fatti, affinché tra questo e il giudizio finale vi sia una perfetta coincidenza. In caso di conflitto tra le due verità (storica e processuale) il giudice è tenuto comunque a seguire soltanto quella processuale. Anche se intuisce la verità reale, il magistrato deve tener conto delle risultanze del processo che possono anche portare lontano dall'effettivo svolgimento dei fatti. Di qui la possibilità di cadere in errore. Trasformando un pronunciamento di giustizia in una chiave che apre le porte a un vero e proprio dramma.
Nell'emettere la sentenza, il giudice fonda il suo convincimento su elementi che gli provengono comunque da altri soggetti: i verbali, le sensazioni personali del testimone, i vuoti di memoria, l'interesse inconscio dell'imputato a nascondere uno spicchio, anche infinitesimale, di verità. Si arriva così alla formulazione di un verdetto che si allontana dalla verità, intesa come ricostruzione asettica dell'evento che ha dato origine al processo. Quando questo divario assume proporzioni macroscopiche e irreversibili, si finisce per commettere un errore giudiziario: un innocente si ritrova in carcere, condannato da una sentenza che lascia in libertà il vero colpevole del reato.
Le cronache riferiscono che l’errore è un’ipotesi che si verifica sempre più frequentemente. Le statistiche confermano che in carcere finisce un gran numero di innocenti. Le assoluzioni hanno toccato punte altissime. Si è tentato di creare una legge che regolasse la responsabilità del giudice che sbaglia. Ma il Parlamento ha approvato norme che prevedono la responsabilità dello Stato-giudice e non del singolo magistrato.
Fortemente voluta da un largo schieramento politico, nata da un referendum che provocò tante lacerazioni nel tessuto sociale del paese, la legge sulla responsabilità del magistrato ha finito per tradire le aspettative di coloro che credevano di poter ottenere una giustizia più sollecita, più corretta, più efficiente.
Fu il caso Tortora a mettere in moto il meccanismo della consultazione popolare. La vicenda umana del popolare presentatore, accusato di essere un camorrista e uno spacciatore di droga e poi scagionato, fu la bandiera che i promotori del referendum usarono per far cadere la barriera che il codice civile poneva alla chiamata in giudizio del magistrato responsabile di gravi errori commessi nella gestione del suo potere. Anni dopo l’entrata in vigore della legge, si rivelano esatte le previsioni di coloro i quali avevano manifestato scetticismo sull’effetto deterrente che le nuove norme avrebbero potuto avere sulla corporazione dei giudici. Il legislatore ha voluto salvaguardare l’autonomia del giudice, la sua libertà di applicare la legge, la sua indipendenza. Probabilmente c’è riuscito e lo ha fatto in un momento in cui tutti questi valori sono posti in discussione. Ma non ha realizzato quel regime di tutela del danneggiato pari a quella che altri paesi europei hanno introdotto nei loro ordinamenti.
E la gente lo ha capito: la giustizia continua a funzionare male come nel passato; i giudici continuano a sbagliare, senza curarsi troppo dei loro errori. Anche perché sanno che nel peggiore dei casi c’è un assicurazione che paga. Alcuni sbagliano in buona fede, altri meno. Alcuni perché non hanno strumenti adeguati e strutture idonee, altri perché si ritengono baciati dal dogma dell’infallibilità.
Ogni anno il gran numero di assoluzioni ripropone il tema della “giustizia-ingiusta”. La percentuale degli imputati assolti si aggira di media intorno al 40 per cento. Ma perché solo una piccola parte di questi si rivolge allo Stato per essere risarcita? Paura, sfiducia nelle istituzioni, voglia di dimenticare? Difficile rispondere. Ogni storia ha un suo risvolto che non consente interpretazioni generalizzate.
Non tutti gli assolti erano innocenti. Molti, forse, erano colpevoli e la giustizia li ha scagionati perché non è riuscita a dimostrarne la colpevolezza. Non tutte le assoluzioni presuppongono errori dei magistrati. Di certo la stragrande maggioranza di queste persone aveva probabilmente diritto a un risarcimento del danno subìto per essere stata ingiustamente sottoposta a un procedimento penale. Ma ha taciuto, si è tirata in disparte, ha preferito chiudere i suoi conti in perdita con la giustizia e mettere una pietra su un’esperienza triste e disarmante.
Luciano Rapotez - una delle più celebri vittime di errori giudiziari - sostiene che dal giorno in cui è nata l’Italia repubblicana, gli innocenti perseguitati dalla giustizia sono stati cinque milioni. Non tutti hanno subìto il carcere, ma tutti sono stati coinvolti in vicende che non li riguardavano. Da oltre quarant’anni Rapotez combatte per far valere il proprio diritto a essere risarcito. Fu accusato, innocente, di aver assassinato un orefice, la sua amante e la cameriera. Diventò “il mostro di san Bartolomeo” e scontò tre anni di carcere. Assolto, ha fatto causa allo Stato, ma i tempi della giustizia sembrano eterni: “Aspettano la mia morte - dice - ma non intendo dargliela vinta”.
Non tutti hanno la sua tenacia e la sua forza d’animo: i dati più recenti rilevati nelle corti d’appello e relativi ai procedimenti in corso sono disarmanti per la loro esiguità. le cause promosse contro lo Stato per responsabilità civile del giudice, ingiusta detenzione ed errore giudiziario sono state poche. Come dire che solo una persona su cento ha avuto il coraggio di farsi avanti per avere giustizia. Se da una parte la legge sulla responsabilità del giudice ha fallito il suo scopo, se non si è dimostrata uno strumento valido a garanzia del cittadino, dall’altra c’è una qualche resistenza anche nel chiedere l’indennizzo per ingiusta detenzione. L’istituto è stato introdotto dal nuovo processo penale e consente all’imputato che ha subìto un periodo di carcerazione preventiva ingiusta, di ottenere un risarcimento.
L’indennizzo prescinde dalla responsabilità del magistrato che ha convalidato il provvedimento restrittivo della libertà. È una sorta di riparazione dell’errore fisiologico, del rischio imprevedibile di ogni processo. Al momento dell’entrata in vigore del nuovo rito penale, rappresentò una novità assoluta della nostra legislazione, che conosceva fino ad allora soltanto l’istituto dell’errore giudiziario. Quest’ultimo presupponeva invece una sentenza di condanna e una successiva revisione del processo. Il caso più clamoroso è rimasto quello di Salvatore Gallo, condannato all’ergastolo per aver ucciso il fratello che si scoprì, dopo qualche anno, essere vivo e vegeto.
Di certo la giustizia che sbaglia non paga. Non pagava prima del referendum, non ha pagato dopo la legge sulla responsabilità civile dei giudici, non paga ora. È una realtà che Enzo Tortora aveva intuito prima di morire. Per il suo calvario di presunto colpevole nel processo alla Nuova camorra organizzata, aveva citato in giudizio lo Stato per ottenere un risarcimento di cento miliardi. Una richiesta assurda, pensarono in tanti. In realtà, la sua fu solo una provocazione, un modo per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica su un problema reale che tanti anni dopo resta ancora irrisolto.
Proprio Tortora fu una delle prime vittime di errore giudiziario provocato dalla testimonianza di alcuni pentiti. Erano ancora gli anni Ottanta e i collaboratori di giustizia non erano riconosciuti come fonte di prova nel processo penale. Dopo le testimonianze dei Buscetta, dei Mutolo, dei Contorno, il Parlamento ha riconosciuto lo status di collaboratore di giustizia e la quasi immunità per tutti i delitti commessi prima di quello che i giudici definiscono “ravvedimento operoso”. La nuova legge è stata interpretata da due sentenze della Suprema Corte, che hanno di fatto scardinato il sistema garantista che proteggeva l’imputato dalle possibili verità di comodo, imponendo al magistrato un controllo diretto e puntuale su ogni affermazione del collaborante. Fino al 1992 la Cassazione aveva sempre sostenuto l’esigenza che ogni affermazione di un pentito dovesse trovare riscontro nei fatti. Tutto ciò comportava un impegno assai gravoso per la pubblica accusa. Trovare riscontri su storie di mafia lunghe decenni e raccontate “a puntate” risultò impossibile. Di qui il nuovo corso della giurisprudenza che ha facilitato il compito dei magistrati, introducendo il principio secondo il quale la concordanza tra due testimonianze parallele equivaleva al riscontro. Un’assurdità bella e buona, che la giurisprudenza riconoscerà cambiando di nuovo il corso della giustizia, quando si accorgerà che i pentiti parlano tra loro, studiano le carte dei processi, hanno avvocati in comune, al dibattimento danno prova di capacità mnemonica fuori dall’ordinario.
Uno degli ultimi casi in cui si è parlato di errore è il processo Pacciani. La pubblica accusa, dopo aver sostenuto con ostinazione e fermezza - e poi ottenuto - la condanna dell’imputato, ha fatto macchina indietro e ne ha chiesto l’assoluzione. Il processo era durato sette mesi e trenta udienze dibattimentali e si era concluso con una condanna all’ergastolo per quattordici dei sedici omicidi commessi dal “mostro di Firenze”. Senza disporre nuove indagini e basandosi solo sulla lettura della sentenza di condanna, la procura generale ha rimesso in discussione il castello probatorio costruito a carico dell’imputato. A questo punto si è verificato un fatto senza precedenti: nel momento stesso in cui la corte d’assise d'appello stava per decidere, la procura della Repubblica - che aveva sostenuto la colpevolezza di Pacciani - ha disposto e annunciato pubblicamente l’arresto di un presunto complice del principale imputato. Per tutta risposta, la corte ha assolto Pietro Pacciani dando vita a un mostro giuridico a due teste, in cui il nuovo arrestato rischia di diventare complice di un innocente. Un mese dopo la stessa procura ha annunciato l'arresto di un terzo complice, reo confesso. A questo punto si apre uno scenario nuovo e dagli sviluppi imprevedibili. Resta il fatto che all'interno della vicenda si sia insinuato un tipo di errore assolutamente inedito, su cui giuristi e addetti ai lavori disserteranno a lungo.
“Toghe che sbagliano”, libro di Claudio Defilippi e Debora Bosi, propone le storie di innocenti reclusi, abbandonati e mai risarciti, con la beffa finale data dal fatto che nessuno ha mai pagato per questi errori giudiziari. Claudio Defilippi, avvocato del foro di Milano, già procuratore onorario presso la Procura di Reggio Emilia, è patrocinante presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. Professore presso la Scuola di specializzazione dell’Università di Pisa, è autore di varie pubblicazioni in materia di diritti umani e responsabilità dello Stato. Debora Bosi, avvocato del foro di Parma, è autrice di testi giuridici in materia di ricorsi alla Corte europea dei diritti dell’uomo e al Comitato per la prevenzione della tortura di Strasburgo.
Un libro che apre uno squarcio nel sistema giudiziario italiano, confermando che la sintesi dei mali della giustizia italiana è tutta qui, nei casi proposti. Casi per i quali nessun pubblico ministero ha mai pagato. Casi per i quali nessun giudice ha mai pagato. Casi sui quali, dopo, segue spesso il silenzio delle istituzioni. Casi che rasentano l’assurdo giuridico. Sono casi di mala-giustizia sconvolgenti, per i quali gli autori pongono una domanda retorica: «Quale risarcimento lo Stato dovrebbe concedere al cittadino vittima di un errore giudiziario e sottoposto al 41 bis, ossia il carcere duro?».
Da Enzo Tortora a Daniele Barillà fino a Domenico Morrone, quindici anni in galera da innocente e una causa allo Stato lunga e ingarbugliata per essere finalmente e degnamente risarcito. Ingiuste detenzioni mostruose per le quali l’Italia è il Paese più condannato in Europa, ed errori giudiziari grotteschi. Questo è un libro che narra devastanti abbagli, vite stroncate e mai riparate. Ma è anche un libro che racconta gli ingranaggi rotti della macchina giudiziaria, contro cui gli autori, tra i pochi avvocati esperti in processi di revisione, si sono scontrati per anni: «I giudici possono rigettare, de plano, senza alcun contraddittorio, le richieste di revisione, pertanto il sistema impedisce, come oggi prevede la legge, il diritto pieno alla prova». Se sei innocente e finalmente, dopo anni, hai le prove, resti dentro. Grottesco, ma tutto dannatamente vero.
Una società civile che permette di tenere in carcere degli innocenti, per essere genuflessa ai poteri forti, è una società collusa e codarda.
Dove c’è l’errore giudiziario, lì vi è un’omissione o un abuso d’atti di ufficio da parte del magistrato che non ha saputo o voluto cercare prove a discarico, così come la legge lo obbliga a fare.
Dove c’è l’errore giudiziario, lì vi è un infedele patrocinio da parte del difensore che non ha saputo o voluto difendere il proprio cliente, spesso dovuto allo stato d’indigenza dell’indagato/imputato.
Eppure la Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, (Sent. 13 marzo 2008 n. 11251/08), ha stabilito che non ha diritto al risarcimento dei danni il cittadino che è stato ingiustamente imputato poi assolto. I Giudici del Palazzaccio hanno infatti precisato che "in tema di danni provocati dall'attività giudiziaria, l'ordinamento vigente prevede la riparazione del danno, patrimoniale e non patrimoniale, patito per: a) custodia cautelare ingiusta (art. 314 c.p.p.); b) irragionevole durata del processo, (legge 24.3.2001 n. 89, c.d. legge Pinto); c) condanna ingiusta accertata in sede di revisione, ovverosia errore giudiziario (art. 643 c.p.p.)". Aggiunge poi la Corte che "non prevede invece alcun indennizzo per una imputazione ingiusta, cioè per una imputazione rivelatasi infondata a seguito di sentenza di assoluzione. Così come ovviamente non consente di duplicare, in sedi processuali diverse, la riparazione dello stesso danno".
Secondo un calcolo compiuto dall’Eurispes sarebbero quasi 5 milioni gli italiani vittime di svarioni giudiziari: dichiarati colpevoli, arrestati e solo dopo un tempo più o meno lungo, rilasciati perché innocenti. Un dato che al ministero della Giustizia non confermano, e che è stato ricavato da un’analisi delle sentenze e delle scarcerazioni per ingiusta detenzione nel corso di cinque decenni. Dal dopoguerra al 1995. Questo enorme numero è già vicino ai 5 milioni, se esteso al tempo odierno. Per quantità si tratta dell’intera popolazione di Toscana e Umbria assieme.
Dal 1945 al 1995 in cella vi sono stati 4 milioni di innocenti. Dal 1980 al 1994 vi è stata assoluzione per metà dei reclusi vittime di detenzioni ingiuste. La percentuale di persone prosciolte è risultata pari al 43,94 per cento di quelle sottoposte a giudizio. In cifre assolute, più di un milione e mezzo di cittadini è stato giudicato non colpevole, degli oltre 3,5 milioni finiti di fronte ad un giudice. E ancora: di questo milione e mezzo sono più di 313.000 quelli prosciolti con formula piena. Tradotti in cifre, i mali della giustizia fanno rabbrividire. Si chiamano errori giudiziari e in 50 anni di storia repubblicana hanno travolto 4 milioni di italiani. Per omonimia, perizie errate, calcoli approssimativi sulla permanenza in carcere. Errori o distrazioni che hanno avuto costi altissimi per le casse dello Stato. Non per niente il rapporto che l'Eurispes ha preparato e che è stato presentato a gennaio del 2006, si intitola: "Un popolo a rischio. Gli italiani e la macchina della giustizia".
Ad oggi non vi sono a riguardo dati statistici ufficiali da parte del Ministero della Giustizia, per ovvie ragioni, ma ormai siamo vicini ai 5 milioni di vittime del sistema. Adesso quasi ogni giorno, sostiene il rapporto dell'Eurispes, "lo Stato si vede costretto a riconoscere i propri errori e a rifondere cittadini innocenti".
Più in generale, l'Eurispes sostiene che il fenomeno degli "errori giudiziari" in Italia è in ogni caso soltanto "la punta di un iceberg". Infatti, "per una piccola parte di situazioni accertate e riparate, c'è comunque un numero altissimo di realtà che restano senza soluzione: sul totale delle richieste di risarcimento per ingiusta detenzione o responsabilità civile dei giudici, quelle che vanno a buon fine rappresentano la minoranza". La ricerca riporta anche alcune considerazioni di "addetti ai lavori", come il senatore Ferdinando Imposimato, ex giudice istruttore, e l'avvocato Carlo Taormina. Imposimato sostiene che "i procedimenti sono ormai quasi tutti indiziari, basati cioè su fatti desunti dall'esistenza di altri fatti. In pratica, il risultato di una deduzione logica: terreno ideale per l'errore; troppo spesso l'indizio non è altro che un sospetto che si è trasformato in un indizio, prima di tramutarsi ulteriormente in prova". Per Taormina, invece, esiste "una condizione di squilibrio" in particolare a vantaggio del pm e come conseguenza si verificano "errori giudiziari che incidono sull'impostazione dell'accusa".
La vittima di un ingiustizia è vittima, sì, si un errore giudiziario, ma spesso è anche vittima di un'ingiusta detenzione.
L'errore giudiziario consiste nella scoperta, mediante l'impugnazione straordinaria della revisione (cfr. artt. 629 ss c.p.p.), dell'ingiustizia sostanziale di una sentenza irrevocabile di condanna.
E' importante ricordare che è la stessa Costituzione a richiedere che il legislatore determini le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari (cfr. art. 24, comma 4, Cost.).
I presupposti necessari alla riparazione dell'errore giudiziario sono sia positivi, sia negativi (art. 643 c.p.p.).
Il presupposto positivo è il proscioglimento in sede di revisione; i casi di revisione del processo sono essenzialmente il contrasto tra giudicati penali, il contrasto tra giudicato penale e civile o amministrativo, la scoperta di nuove prove (cfr. art.630 c.p.p.).
I presupposti negativi sono i seguenti: innanzitutto chi è stato prosciolto in sede di revisione non deve aver dato causa per dolo o colpa grave all'errore giudiziario; in secondo luogo, il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della pena detentiva che sia computata nella determinazione della pena da espiare per un reato diverso.
La quantificazione del danno esistenziale da errore giudiziario è legato fondamentalmente ad un duplice ordine di fattori: anzitutto alla genericità dell’espressione utilizzata dal legislatore nella indicazione dei parametri di riferimento per la commisurazione dell’entità della riparazione e, in secondo luogo, alla considerazione che, in realtà, stando anche al dato letterale, non si può parlare tecnicamente di risarcimento del danno da errore giudiziario, ma di indennità o indennizzo.
E’ in quest’ottica che si pone la ricorrente massima giurisprudenziale in base alla quale "la riparazione dell’errore giudiziario, come quella per l’ingiusta detenzione, non ha natura di risarcimento del danno ma di semplice indennità o indennizzo in base a principi di solidarietà sociale per chi sia stato ingiustamente privato della libertà personale o ingiustamente condannato".
La ricostruzione in questi termini della riparazione per l’errore giudiziario (avente, dunque, natura indennitaria e non risarcitoria) risponde alla precisa finalità di evitare che il danneggiato debba fornire la prova sia dell’esistenza dell’elemento soggettivo (dolo o colpa) delle persone fisiche che hanno agito, sia la prova dell’entità dei danni subiti.
Per quanto riguarda l'ingiusta detenzione, all'imputato è riconosciuto un vero e proprio diritto soggettivo ad ottenere un'equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente (artt. 314 e 315 c.p.p.).
Questo diritto è stato introdotto con il codice di procedura penale del 1988 ed è in adempimento di un preciso obbligo posto dalla Convenzione dei diritti dell'uomo (cfr. art 5, comma 5, C.E.D.U.).
La domanda di riparazione è presentata dall'imputato dopo che la sentenza di assoluzione è divenuta irrevocabile e sulla richiesta decide la Corte di Appello con un procedimento in camera di consiglio.
Il presupposto del diritto ad ottenere l'equa riparazione consiste nella ingiustizia sostanziale o nell'ingiustizia formale della custodia cautelare subita.
L'ingiustizia sostanziale è prevista dall'art. 314, comma 1, c.p.p. e ricorre quando vi è proscioglimento con sentenza irrevocabile perchè il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato.
E' importante tenere presente che, ai sensi del successivo comma 3 dell'art. 314 c.p.p., alla sentenza di assoluzione sono parificati la sentenza di non luogo a procedere e il provvedimento di archiviazione.
L'ingiustizia formale è disciplinata dal comma 2 dell'art. 314 c.p.p. e ricorre quando la custodia cautelare è stata applicata illegittimamente, cioè senza che ricorressero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., a prescindere dalla sentenza di assoluzione o di condanna.
In materia rilevanti novità sono state apportate dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, cosiddetta "Legge Carotti", il cui articolo 15 ha apportato modifiche all’art.315 del codice di procedura penale.
In particolare, è aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un’ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire ad un miliardo (oggi € 516.456,90), ed è altresì aumentato il termine ultimo per proporre, a pena di inammissibilità, domanda di riparazione: da 18 a 24 mesi.
Sui giornali si parla di storie di uomini detenuti per molti anni ma innocenti. Gente del sud, dove l’errore giudiziario è più frequente del doppio rispetto al resto d’Italia (statistica evinta dai risarcimenti, riconosciuti nel 54% dei casi da giudici delle procure del Meridione). Ma la macchina della giustizia s’inceppa a ogni curva della penisola: i dati "freschi" dell’ultimo rapporto Eurispes sul processo penale diagnosticano una crisi strutturale del sistema: il 75% dei procedimenti fissati per il dibattimento vengono rinviati. Così si dilata il tempo d’attesa per la giustizia, producendo un altro pericolo per la tenuta dello Stato di diritto: in carcere abitano più presunti innocenti che detenuti condannati con pena definitiva. Per la Costituzione, la presunzione d’innocenza accompagna l’imputato fino alla sentenza definitiva.
Secondo un rapporto del ministero della Giustizia, su 53 mila detenuti complessivi 16.740 sono in attesa del primo giudizio, 9.600 dell’appello, 3.200 del giudizio della Cassazione: il totale di questa popolazione carceraria "sospesa" è assai maggiore dei 22 mila detenuti perché condannati in via definitiva. "Quando si è chiusi dentro per cose che non hai mai fatto, il tempo ti mangia lo stomaco. Provi a fare una vita normale, ma ci vuole forza. Sai di essere innocente, e aspetti convinto che prima o poi qualcosa accada".
Dal ‘92 c’è la possibilità per gli innocenti ritenuti colpevoli e poi rimessi in libertà, di chiedere e ottenere un risarcimento per ingiusta detenzione. Ogni tanto lo Stato paga: il ministero dell’Economia conteggia in 213 milioni di euro i soldi sborsati nel periodo 2004-2007 per risarcire le vittime di errore giudiziario e per custodia cautelare ingiusta (il grosso del malloppo). I risarciti sono 3.600: il 90% italiani, il 10% stranieri, perché si difende chi può.
L’uomo innocente ha una speranza da coltivare, che il tempo consuma giorno dopo giorno come il moccolo di una candela. E se la storia dell'errore giudiziario potrà essere risarcita in sede civile, questo finale è vietato a chi è ingiustamente incolpato e poi prosciolto. Nel nostro ordinamento non esiste una norma che "indennizza l’ingiusta imputazione. Al contrario andrà risarcito chi è stato detenuto per errore, anche nel caso di custodia cautelare". Lo ha confermato la sentenza della Cassazione del 13 marzo 2008, sollecitata dalla richiesta di risarcimento di un professionista accusato di bancarotta fraudolenta e poi assolto. Nel "giro" si seppe dell’incriminazione, e gli affari del tizio andarono in malora.
Sono uomini bagnati. Con il freddo nelle ossa, per sempre. "Sa come si dice dalle mie partì? Chi è stato bruciato dall’acqua calda ha paura dell’acqua fredda". Le "parti" di Francesco Masala sono la Calabria e una stanza muta dove ha soggiornato per dieci armi, scontando una pena più lunga (16 anni) per un omicidio compiuto da un altro, un criminale con tanto di pedigree. Lui, Masala, nel novembre del 1985 era un ragazzo che sei mesi prima aveva messo un mattone nella costruzione del suo futuro, prendendo la Maturità. Quel mattone divenne cemento, a destra, sinistra, sopra, sotto. Una porta blindata era il diversivo di quest’orizzonte negato. Non sono storie di denaro, ma sono storie d’amore. Francesco Masala era un ragazzino, dunque. E il futuro già dietro le spalle. Lei sapeva che Francesco era innocente, il suo Francesco, che cresceva e restava un bell’uomo, un metro e 85, spalle larghe, viso dolce, occhi inarcati e castani, capello lungo, barba che va e viene. Lei c’è anche 23 anni dopo. E mo, cosentino come i protagonisti, che da vent’anni ha "questo tarlo: far capire ai giudici che Francesco è innocente". Quella sera di novembre aveva la colpa di essere sul marciapiede di piazza Kennedy accanto a Sergio Palmieri, impiegato comunale. Si riparavano dalla pioggia. Un killer conosciuto e sanguinario freddò Palmieri, due colpi precisi. Molti i testimoni, nessuno fece il nome dell’assassino. I poliziotti torchiarono un coetaneo e conoscente di Masala, finché non gli fecero ammettere di aver visto sparare l’amico. Il "falso" testimone affermerà 23 anni dopo: "Non ho mai detto di aver visto Masala con la pistola in mano. Lo interpretarono gli inquirenti". Vi furono dubbi, una prima scarcerazione di un anno, nel 1989 (e Masala fu chiamato al servizio di leva!). Indefesso, il procuratore generale fece ricorso e la Cassazione lo accolse, rispedendo il calabrese in carcere. Il presidente della Suprema Corte era Corrado Carnevale, quello che semmai scarcerava i mafiosi. Il tarlo rode ancora l’avvocato: "Il processo di revisione è cominciato otto anni fa, a Salerno. Le procure sono oberate di carichi, e dilatano nel tempo la conclusione di un processo che deve certificare un loro errore. E per la causa civile serviranno altri dieci anni". Questo succede: l’Italia è lo Stato maggiormente sanzionato dalla Corte europea. I capi d’accusa di Strasburgo: lentezza nei processi e nei risarcimenti. Masala oggi è sposato e fa il manovale in una ditta di telefoni. Ha una figlia, "volevo che sapesse che sono innocente".
Gela, in carcere 11 anni per due omicidi: assolto dopo 17 anni. Era stato accusato da sette pentiti. Torna libero definitivamente, scrive “Il Corriere della Sera”. Undici anni in carcere per due omicidi che non aveva commesso. Dopo 17 anni di guai giudiziari, diventa definitiva la sentenza di assoluzione per Mirko Eros Felice Turco, 35 anni, di Gela, che dopo essere stato condannato all’ergastolo per due omicidi e aver scontato quasi 11 anni di carcere, adesso è tornato libero. La sentenza è stata emessa dalla Corte d’appello di Messina che ha rigettato il ricorso della procura generale contro la revisione del processo che aveva scagionato Turco. «È finito un lungo calvario. Alla fine è stata fatta giustizia», dice il suo avvocato, Flavio Sinatra. E dopo averlo assistito per 17 anni in diverse aule giudiziarie, «ora sono contento per lui». Turco, vittima di un clamoroso errore giudiziario, condannato all'ergastolo per due omicidi, tra cui quello di un ragazzino, adesso è stato definitivamente prosciolto da ogni accusa, dopo la revisione dei processi. Ma quasi 11 anni della sua vita, li ha trascorsi in carcere da innocente. Anni bui, che adesso può lasciarsi definitivamente alle spalle. «Un incubo». Fu accusato da sette pentiti di aver ucciso, all’età di 17 anni, un sedicenne di Gela, Fortunato Belladonna, il cui corpo venne ritrovato bruciato in un canneto sul lungomare, solamente nel 2008 (due esponenti del clan Emmanuello, Carmelo Massimo Billizzi e Gianluca Gammino, da boss a pentiti, si autoaccusarono del delitto) Turco fu rimesso in libertà. Ora la sua assoluzione è definitiva. Turco era stato ingiustamente accusato anche di un altro omicidio, quello di Orazio Sciascio, un salumiere di 67 anni, ucciso sempre nel ‘98. Nel 2012 si scoprì che anche in qual caso non c’entrava nulla e dopo una prima condanna fu assolto dalla Corte d’appello di Catania. Il salumiere, infatti, era stato ucciso da due mafiosi, Salvatore Rinella e Salvatore Collura, perché non pagava il pizzo.
Gela, giovane assolto dopo 11 anni di carcere: era stato condannato all'ergastolo per due omicidi, scrive “Il Messaggero”. Undici anni in carcere per due omicidi che non aveva commesso. Per Mirko Felice Eros Turco, 35 anni, di Gela, «è finito un lungo calvario. Alla fine è stata fatta giustizia», dice il suo avvocato, Flavio Sinatra. E dopo averlo assistito per 17 anni in diverse aule giudiziarie, «ora sono contento per lui». Turco, vittima di un clamoroso errore giudiziario, condannato all'ergastolo per due omicidi, tra cui quello di un ragazzino, adesso è stato definitivamente prosciolto da ogni accusa, dopo la revisione dei processi. Ma quasi 11 anni della sua vita, li ha trascorsi in carcere da innocente. Anni bui, che adesso può lasciarsi definitivamente alle spalle. «Un incubo». Ad accusarlo, ben sette pentiti. Secondo il loro racconto, Turco nell'estate del '98, avrebbe prima strangolato e massacrato, prima di bruciare il suo corpo ormai senza vita, un ragazzo di soli 16 anni, Fortunato Belladonna, ritrovato in un canneto del lungomare di Gela. Incriminato per quel delitto, finì in galera. Nel frattempo, dopo circa un mese, per lui arrivò un'altra dura accusa e un altro ergastolo per l'uccisione di Orazio Sciascio, un salumiere di 66 anni, ammazzato durante una rapina per essersi rifiutato di pagare il pizzo. Turco ha sempre sostenuto di essere innocente, che con quei delitti non c'entrava niente. La svolta arrivò nel 2008, quando due esponenti del clan Emmanuello, Carmelo Massimo Billizzi e Gianluca Gammino, da boss a pentiti, si autoaccusarono del delitto Belladonna, il ragazzino. La Corte d'appello di Messina, sempre nel 2008, accolse la richiesta di revisione del processo di Turco, disponendone la scarcerazione. Iniziò così a sbriciolarsi anche il castello accusatorio che era stato costruito per l'omicidio del commerciante, per il quale nel frattempo vennero arrestate due persone, Salvatore Rinella e Salvatore Collura. Nel 2012 la Corte d'Appello di Catania revocò la precedente condanna in primo grado assolvendo definitivamente Turco dall'accusa di omicidio. Adesso per Turco, diventa definitiva anche la sentenza di assoluzione per il delitto Belladonna. La sentenza è stata emessa dalla Corte d'Appello di Messina, dopo aver accolto la richiesta avanzata dal legale Sinatra, di procedere alla revisione del processo. La Procura Generale, che non ha mai creduto all'innocenza di Turco, aveva invece chiesto il rigetto dell'istanza di revisione e la conferma dell'ergastolo.
Nella storia di Felice Turco, siciliano di Gela, ci sono otto processi e un’ammissione di colpa che abbrevierà i tempi del processo di revisione: è la stessa procura di Caltanissetta che ha rinnegato la soluzione ai delitti del 1998. Morirono un commerciante e un ragazzo (Fortunato Belladonna, 16enne) accusato di essere l’esecutore dell’altro omicidio. La coinquilina di Belladonna era la testimone del delitto del commerciante: per questo i due episodi furono collegati. Il nome di Felice Turco fu un depistaggio dei pentiti di mafia. Prese l’ergastolo, la pena massima, con sentenza definitiva. Adesso sono sette i collaboratori di giustizia che lo scagionano, "Turco non c’entra niente". Colui che lo accusò con più vigore si è suicidato dopo aver ammesso la menzogna.
Melchiorre Contena ha occhi sorridenti, umidi. Andò a trovarlo nel suo appartamento nel senese perfino il Tg1, nel podere dove nel 1977 viveva di pastorizia. Il 31 gennaio di quell’anno, poche colline più a sud, l’imprenditore milanese Marzio Ostini venne rapito. La famiglia pagò, i rapitori sparirono. Di Ostini non si saprà più niente. Sono gli anni dell’Anonima sequestri, sono terre dove lavorano molti pastori emigrati dall’isola. Gli inquirenti picchiarono subito nel mondo dei pastori sardi. Uno di loro, Andrea Curreli, venne fermato che vagava senz’arte né parte con due targhe in tasca di auto rubate. Interrogato, snocciolò una fantasiosa verità, risolvendo d’un colpo il caso-Ostini: "Il sequestro è stato pianificato al podere dei Contena". È un racconto lardellato di evidenti rancori e bugie. Si scoprì che Curreli aveva lavorato come servo pastore per Contena e fu allontanato perché inaffidabile. Non era una confessione ma una vendetta. Eppure quelle parole inchioderanno Contena nella sua cella. Il pastore di Orune ha oggi un filo di voce, ancor meno memoria. Un maledetto ictus gli ha complicato i ricordi. Sarebbero serviti a raccontare una vita intera passata nel posto sbagliato, per colpa d’altri, senza sapore, a rimbalzare fra muri spessi e grigi e cancelli di ferro. Con la lucida consapevolezza di essere vittima del furto più atroce, quello della libertà. Derubata in nome del popolo italiano: 31 anni di carcere, e altri 10 passati nel limbo di una parvenza di libertà ritrovata, ma l’onore ancora no, per quello ha dovuto attendere il 18 luglio 2008, quando la corte d’assise dell’Aquila scrive: "Contena è innocente". Ha gli occhi felici perché adesso, con i capelli bianchi e la stanchezza della vecchiaia, si fa compagnia con la dignità e l’onore che i giudici gli avevano tolto. Per lui, parla la moglie, Miracolosa Goddi. C’è sempre stata, nella buona e nella cattiva sorte: "Non c’interessano i soldi. Hanno detto che i Contena sono persone perbene. Questo volevamo".
Angelo Rizzoli, una storia tra carcere e malattia. Dieci mesi trascorsi in carcere e tre agli arresti domiciliari. Poi, Angelo Rizzoli, nipote del re dell’editoria arrestato nel 1983, è stato prosciolto. Ospite a "Niente di personale", il magazine condotto da Antonello Piroso in onda il 27 febbraio 2007, alle 21.30 su LA7, riportato su “Il Giorno” in pari data, Rizzoli ci tiene però a precisare durante la sua intervista un "particolare" che ha reso ancora più dolorosa la sua vicenda: "Io ho la sclerosi multipla, una malattia che secondo me è incompatibile con la vita carceraria e che, purtroppo, girando cinque istituti di pena, si è notevolmente aggravata". Angelo Rizzoli parla poi di quanto gli sia costato essere l’erede di una famiglia così illustre. "Purtroppo, portare un nome altisonante comporta anche delle negatività. Nel carcere di Bergamo, dove tra l’altro ero assieme a Enzo Tortora, sono stato anche estorto dal direttore. L’ho denunciato, sono stato rimesso in libertà, ma quando sono stato nuovamente arrestato, mi hanno rimandato lì". Eppure Rizzoli spiega al conduttore di aver detto esplicitamente: "Portatemi in tutti i carceri che volete, meno che a Bergamo". Niente da fare. Il Direttore è stato poi condannato a 5 anni per estorsione. "E a Bergamo - prosegue - il direttore mi ha messo 45 giorni in cella di punizione, dal 10 novembre fino al giorno di Natale. Quando sono uscito, ero in uno stato di disperazione, ma anche in una condizione di grandissima prostrazione fisica". "Essere nato con un nome fortunato e in una famiglia baciata dal successo - commenta poi - non garantisce nella vita che queste condizioni di privilegio durino, anzi.
In qualche modo, io ho subito una legge di compensazione, perché, ai tanti benefici che ho avuto nella nascita, sono seguite poi altrettante sofferenze. E non parlo solo per me. Ho visto amici morire della mia stessa malattia, andare in galera mio fratello e morire mio padre, mentre mia sorella, indagata per lo stesso reato, non ha resistito e si è gettata fuori dalla finestra. Per queste vicende giudiziarie e per salvare la mia società sono finito nelle braccia della P.2.. Nessuno mi voleva aiutare, perché c’era la politica in mezzo".
Quando si parla delle vicissitudini giudiziarie di Berlusconi, l'argomento dovrebbe essere vagliato senza paraocchi ideologici, ma basterebbero solo rudimenti di diritto per farsi una propria opinione sul sistema giustizia in Italia. Il caso Berlusconi è esemplare. Per un premier non basta personalizzare gli accanimenti, perchè se capita a lui, figuriamoci ai poveri cristi.
Esemplare è il caso Ruby. A Milano i pm chiedono il rito immediato per i reati di concussione e prostituzione minorile. Bruti Liberati parla di prove evidenti, ma poi ammette: le telefonate del premier sono irrilevanti. E dice: "Non c'è reato ministeriale". Ruby indagata per false generalità. Berlusconi: "Accuse infondatissime, c'è una finalità eversiva". Il Csm: "Magistrati denigrati". Bossi: "Vogliono lo scontro fra istituzioni". Davanti al palazzo di giustizia di Milano la protesta dei sostenitori del Pdl: "Silvio resisti".
Berlusconi: "Sono dei processi farsa, accuse infondatissime". E ancora: "Queste pratiche violano la legge, vanno contro il Parlamento, la procura di Milano non ha competenza territoriale, nè funzionale. La concussione non c’è, è risibile, non esiste. Sono cose pretestuose, a me spiace che queste cose abbiano offeso la dignità del Paese e hanno portato fango all’Italia", Silvio Berlusconi risponde a stretto giro di posta ai magistrati di Milano. I pm "hanno una finalità eversiva", ha detto il Cavaliere. "È una vergogna, uno schifo", dice il premier. "Alla fine nessuno pagherà, alla fine come al solito pagherà lo Stato. Farò una causa allo Stato visto che non c’è responsabilità dei giudici", ha aggiunto il presidente del Consiglio. Le indagini dei giudici milanesi "hanno solo una finalità di disinformazione mediatica. Io non sono preoccupato per me, sono un ricco signore che può passare la sua vita a fare ospedali per i bambini del mondo...", ha concluso Berlusconi. Intervistato da Belpietro, il direttore di “Libero”, il premier è poi tornato sull'accanimento giudiziario nei suoi confronti: un record mondiale, ha sostenuto ironizzando. "Una persecuzione politica da parte dei magistrati di sinistra" che si è espressa in "più di cento indagini" e "28 processi, un record assoluto nella storia dell’uomo in tutto il mondo". Poi ha snocciolato i numeri record della "persecuzione": "Ci sono state 2.560 udienze. Se avessi dovuto presenziare a tutte avrei avuto un’udienza al giorno". Il premier ha inoltre ricordato che sono stati impegnati "più di mille magistrati" con "un costo da parte mia di 300 milioni di euro in avvocati e consulenti". Il Cavaliere ha infine ricordato di aver avuto 10 assoluzioni, 13 archiviazioni e 4 processi ancora in corso "assolutamente inventati, ridicoli, grotteschi".
Ma non è solo la fondatezza delle accuse a far pensare. Si parla anche della velocità.
A tal proposito, si riporta il pensiero di Filippo Facci, che racchiude il pensiero di molti commentatori. "Eccolo il processo breve, anzi immediato, anzi esclusivo: è quello organizzato da un’intera procura che per mandare alla sbarra Berlusconi si è fatta prestare gente anche da altri uffici, così da macinare tutte le fotocopie necessarie. Eccolo il processo brevissimo, quel giudizio immediato addirittura preannunciato all’Ansa e che dovrebbe presupporre «l’evidenza della prova» anche se la prova non è evidente manco per niente, perché abbiamo una concussione senza concussi (la questura di Milano non si ritiene vittima) e poi abbiamo dei fatti di prostituzione minorile (con Ruby, anche qui, presunta parte offesa), la cui effettività e consapevolezza del reo sarebbero tutte da ricostruire, come tuttavia un’udienza preliminare non ricostruirà: il rito alternativo, infatti, la salterà di netto. Ha vinto la scuola di Ilda Boccassini, ha vinto la linea dura che mira alla guerra lampo e alla torsione della giurisprudenza ai diktat della Procura di Milano, come ai vecchi tempi: un rito immediato per prostituzione minorile è fuori dal Codice? Non sta in piedi neanche con lo sputo? Staremo a vedere. Già si sapeva che la priorità dell’azione penale, qui in Italia, era notoriamente rivolta a problemi fondamentali quali sono appunto la prostituzione minorile e la concussione telefonica: ora sappiamo che non è così, la priorità infatti è generica e ad personam (altri indagati come Nicole Minetti, Emilio Fede e Lele Mora saranno giudicati con rito ordinario, senza fretta) e riguarda specificamente, questa priorità, il presidente del consiglio: una forma di ennesimo privilegio. Eccoli i processi brevi, che ci sono già e che funzionano benissimo: quelli a Berlusconi. Ben lo sanno quei giudici che a Milano hanno sbrigato l’Appello del caso Mills in un solo mese e mezzo, per fare un esempio a caso. Il processo lungo, invece, a Milano continua a impiegare almeno sette anni per mandare in primo grado un processo per usura. Lo stesso processo lungo, nel resto d’Italia, impiega un minimo di cinque anni per un penale in primo grado, da otto a trent’anni per un civile, sette anni e mezzo per un divorzio, quattro anni per un’esecuzione immobiliare. Il processo breve, invece, quello cioè ad personam, ha fatto filare il primo grado del processo Mills per la bellezza di 47 udienze in meno di due anni: hanno lavorato talvolta sino al tardo pomeriggio, talvolta anche nei weekend. È lo stesso processo breve che ha visto depositare le motivazioni della sentenza d’Appello in soli 15 giorni anziché in 90: così il ricorso in Cassazione è stato velocizzato. Ma non c’è soltanto il solito caso Berlusconi. Il processo breve, inteso come discrezionalità della magistratura nel dare impulso ai processi che preferisce, ha chiuso il caso Cogne in tre anni, e, in generale, corre come un treno ogni volta che i giornali ne scrivono. Mentre altri procedimenti dormono, e come mai? Forse è perché manca la carta per le fotocopie - l’hanno usata tutta a Milano - o perché qualche cancelliere era in malattia, la segretaria è in maternità, insomma le solite cose che secondo l’Associazione nazionale magistrati costituiscono i veri e soli problemi «strutturali» che ci vedono in coda a tutte le classifiche sulla giustizia. Problemi nei quali la magistratura, resta inteso, non ha né arte né parte."
Sullo sfondo del nuovo processo sul cosiddetto Rubygate c’è un dato numerico che nel blog "In-Giustizia" di Maurizio Tortorella su “Panorama” si è considerato. Gli antiberlusconiani lo considerano un tema insieme ridicolo e irrisorio. Anzi, a volte se ne appropriano proprio per dimostrare la pericolosità sociale dell’uomo. Invece pare un dato impressionante e incontrovertibile, che dimostra solo un accanimento giudiziario mai visto: Silvio Berlusconi, da quando è sceso in campo nel 1994, è stato messo sotto processo 29 volte in Italia (per la stragrande maggioranza dei casi a Milano) e una in Spagna. A Madrid fu Balthasar Garzon, il giudice più internazionale d’Europa, a indagarlo nel 1997 per presunte malversazioni su Telecinco, l’emittente televisiva. Risultato: procedimento archiviato in istruttoria nel dicembre 2008, 11 anni più tardi. In Italia, dei 29 procedimenti aperti dal 1994 al 2010, due hanno riguardato reati gravissimi come la strage e uno l’associazione mafiosa; altri hanno avuto come ipotesi di reato la corruzione, l’appropriazione indebita, il falso in bilancio, la concussione, la frode fiscale, la ricettazione… Sono stati tutti, com’è noto, processi durissimi dal punto di vista mediatico e spesso anche lunghi. Di questi procedimenti, però, 12 sono terminati con un’archiviazione in istruttoria, e questo significa che lo stesso pubblico ministero ha ritenuto non doversi procedere, o per mancanza di prove o per insussistenza dell’ipotesi di reato; altri cinque sono finiti in prescrizione, e due sono stati cancellati per intervenute modifiche legislative (sono questi i cosiddetti casi delle «leggi ad personam»). Altri sei sono ancora in corso (tra loro il nuovo processo sul Rubygate), ma per tre il pm ha già chiesto l’archiviazione. Restano infine quattro assoluzioni piene. Il computo dice che Berlusconi è stato processato quasi due volte l’anno, dal 1994. Non da sottovalutare sono anche i processi-scandalo mediatici. Prima: Patrizia D'Addario, la escort barese che ha aperto la strada alle indagini sugli scandali sessuali di Silvio. Lo ha incastrato registrando le serate trascorse con il premier tra Villa Certosa e Palazzo Grazioli, cercando di dimostrare anche le notti di sesso con il presidente del Consiglio sul "lettone di Putin". Poi, nel 2009, Noemi Letizia, "colpevole" di aver scattato troppe immagini con il premier per il suo 18esimo compleanno a Napoli. Foto che fecero il giro del mondo e misero di nuovo in imbarazzo Berlusconi. Senza dimenticare che furono la rovina matrimoniale del premier. Noemi è la causa del divorzio con Veronica Lario, stanca di "un marito che frequenta minorenni". Ultima ma non ultima Ruby Rubacuori. La 18enne che si è finta nipote di Mubarak e ha diverse volte partecipato alle feste del bunga bunga a villa di Arcore, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Da Ruby è partita l'inchiesta che vede Berlusconi di fronte a un giudizio immediato per concussione e prostituzione minorile. Nessun capo di stato o di governo aveva mai ricevuto una così grave accusa.
Di Berlusconi e i suoi processi parla Bruno Vespa su l'Unità del 11 ottobre 2008, rispondendo a Marco Travaglio.
“Scrivo nel mio libro che Berlusconi dopo l’ingresso in politica ha avuto 22 processi e non 15 o 17 come scrive Travaglio, è perché ho i numeri di protocollo che sono costretto ad esibire: 1) N° 842/95 (Falso in bilancio Fininvest per libretti al portatore. Archiviato). 2) N° 6081/95 (Edilnord commerciale. Archviato). 3) N° 6031/94 (Palermo associazione mafiosa, archiviato nel ’97; riciclaggio, archiviato nel ’98). 4) N° 1370/98 (Caltanissetta su stragi Falcone e Borsellino, archiviato). 5) N° 3197/96 (Firenze su strage via dei Georgofili, archiviato) 6) N° 3000/96 (Progetto Botticelli, archiviato) 7) N° 11343/99 (Lodo Mondadori, prosciolto dal Gup perché il fatto non sussiste, amnistiato in appello e in Cassazione). 8) N° 11262/94 (Tangenti Guardia di Finanza, assolto per non aver commesso il fatto per tutti i capi d’imputazione tranne uno in cui c’è stata assoluzione per insufficienza probatoria). 9) N° 9811/93 (All Iberian, assolto per intervenuta prescrizione). 10) N° 10594/95 (Medusa, assolto per non aver commesso il fatto). 11) N° 4262/95 (Macherio, assolto da tre imputazione perché il fatto non sussiste e da una per amnistia). 12) N° 11747/97 + 12193/98 (Corruzione Ariosto Sme, assolto per non aver commesso il fatto e perché il reato non sussiste). 13) N° 5888/02 (Falso in bilancio Ariosto Sme, assolto perché il fatto non costituisce reato). 14) N° 735/96 (“Consolidato, falso in bilancio”, assolto perché il reato si è estinto per prescrizione). 15) N° 2569/99 (All Iberian 2, assolto perché il fatto non è più prevista dalla legge come reato). 16) N° 2569/99 (Lentini. Estinto per prescrizione). Altri tre procedimenti (“Diritti”, “Mills”, “Mediatrade”) sono in corso come il processo Telecinco in attesa di archiviazione dopo che il tribunale ha assolto tutti gli otto imputati per i quali è stato celebrato il processo. E siamo a quota ventuno. Il 22esimo processo, il più vecchio (N° 5746/93 Viganò Verzellesi ha visto Berlusconi inscritto nel registro degli indagati il 28 gennaio del ’95. L’archiviazione è avvenuta cinque anni dopo. Nessuna indagine è stata dunque avviata su Berlusconi prima del suo ingresso in politica. Ho sempre sostenuto che il Cavaliere non è entrato in politica solo per “salvare l’Italia dai comunisti”, ma anche per proteggere le sue aziende. I Poteri Forti gli avrebbero fatto fare la fine di Angelo Rizzoli, depredato di tutto. Enrico Cuccia gli aveva fatto revocare dalla sera alla mattina fidi importanti. Glieli mantenne soltanto Cesare Geronzi, l’uomo che avrebbe salvato il Pds dai debiti. Due parole, infine, sul caso Travaglio – Schifani – Ciuro. A chiunque può capitare di avere in buona fede rapporti con una persona che poi si scopre più che discutibile. Ma occorre un bel coraggio per crocifiggere il presidente del Senato per aver avuto un rapporto con una persona condannata per mafia 14 anni dopo, mentre si trascorrevano ripetutamente le vacanze e si accoglievano le amichevoli segnalazioni di una persona come il maresciallo Ciuro arrestato tre mesi dopo l’ultimo soggiorno con il giornalista Travaglio e definito “figura estremamente compromessa con il sistema criminale” prima della condanna in Corte d’Appello a 4 anni e 8 mesi per favoreggiamento. Ma Ciuro aveva una grande benemerenza. Come scrivono Marco Travaglio e Saverio Lodato nel loro libro “Intoccabili”, il maresciallo era stato impiegato dal Pubblico Ministero Ingroia (anche lui partecipe delle stesse vacanze) “nell’ultima fase delle indagini su Dell’Utri e sui finanziamenti Fininvest”.
Da Panorama l’elenco dei procedimenti penali a carico di Silvio Berlusconi aggiornati al 19 aprile 2012:
1. Proc. Pen n. 5746/93 R.G.N.R. “Viganò Verzellesi” (si segnala che il dott. Berlusconi è stato iscritto nel registro degli indagati il 28/01/1995) Reati contestati: corruzione archiviato l’8/08/2000;
2. Proc. Pen. n. 842/95 R.G.N.R. “Falso in bilancio Fininvest libretti al portatore” Reati contestati: falso in bilancio archiviato il 21/09/2004;
3. Proc. Pen. n. 6081/95 R.G.N.R. “Edilnord Commerciale” Reati contestati: falso in bilancio archiviato il 21/09/2004;
4. Proc. Pen. n. 6031/94 R.G.N.R. “Palermo riciclaggio” Reati contestati: concorso esterno in associazione mafiosa – riciclaggio concorso esterno in associazione mafiosa: archiviato il 19/02/1997 riciclaggio: archiviato il 25 – 27/11/1998;
5. Proc. Pen. n. 1370/98 “Stragi Caltanissetta” Reati contestati: concorso in stragi archiviato il 3/05/2002;
6. Proc. Pen. n. 3197/96 R.G.N.R. “Stragi Firenze” Reati contestati: concorso in stragi archiviato il 14/11/1998;
7. Proc. Pen. n. 3000/96 R.G.N.R. “Progetto Botticelli” Reati contestati: falso in bilancio – frode fiscale archiviato il 16/02/1998;
8. Proc. Pen. n. 11343/99 R.G.N.R. “Lodo Mondadori” Reati contestati: corruzione giudiziaria assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 12/05/2001 ha dichiarato di “non doversi procedere perché il reato si è estinto per intervenuta prescrizione” (concesse le attenuanti generiche), sentenza confermata in Cassazione;
9. Proc. Pen. n. 11262/94 R.G.N.R. “Tangenti GDF” Reati contestati: corruzione assolto. La sentenza della Corte di Cassazione del 19/10/2001 ha “assolto in ordine a tutti i capi di imputazione per non aver commesso il fatto”. Solo per il capo D) l’assoluzione è ai sensi dell’art. 530 co 2 (insufficienza probatoria), dichiarata dalla Corte d’Appello e confermata dalla Cassazione;
10. Proc. Pen. n. 9811/93 R.G.N.R. “All Iberian 1” (si segnala che il dott. Berlusconi è stato iscritto nel registro degli indagati il 23/11/1995) Reati contestati: finanziamento illecito ai partiti assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 26/10/1999 ha dichiarato di “non doversi procedere perché i reati si sono estinti per prescrizione”, sentenza confermata in Cassazione;
11. Proc. Pen. n. 10594/95 R.G.N.R. “Medusa” Reati contestati: falso in bilancio – appropriazione indebita assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 13/06/2000 ha “assolto dal reato ascritto per non aver commesso il fatto”, sentenza confermata in Cassazione;
12. Proc. Pen. n. 4262/95 R.G.N.R. “Macherio” Reati contestati: falso in bilancio – appropriazione indebita – frode fiscale assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 28/10/1999 (sentenza definitiva) ha “assolto dal reato di falso in bilancio perchè il fatto non sussiste, dichiarato non doversi procedere per il reato di appropriazione indebita per intervenuta amnistia e confermata la sentenza del Tribunale per la frode fiscale perché il fatto non sussiste”;
13. Proc. Pen. n. 11749/97 + 12193/98 R.G.N.R. “Corruzione Ariosto SME” Reati contestati: corruzione assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 27/04/2007 ha “assolto dal reato per l’episodio di cui al capo A) per non aver commesso il fatto ai sensi dell’art. 530 co 2 cpp e per l’episodio di cui al capo B) perchè il fatto non sussiste ai sensi dell’art. 530 co 1 cpp” sentenza confermata in Cassazione;
14. Proc. Pen. n. 5888/02 R.G.Trib.(stralcio del n. 11749/97 + 12193/98) “Falso in bilancio Ariosto SME” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza del Tribunale del 30/01/2008 (sentenza definitiva) ha “dichiarato il non doversi procedere in ordine al reato ascrittogli perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”;
15. Proc. Pen. n. 735/96 R.G.N.R. “Consolidato” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza del GIP del 13/02/2003 ha “dichiarato il non doversi procedere in ordine al reato di falso in bilancio ascritto perché gli stessi sono estinti per prescrizione”, sentenza confermata in Cassazione;
16. Proc. Pen. n. 2569/99 R.G.N.R. (stralcio del n. 9811/93) “All Iberian 2” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza del Tribunale del 26/09/2005 ha “assolto perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato”;
17. Proc. Pen. n. 2601/94 R.G.N.R. “Lentini” Reati contestati: falso in bilancio assolto. La sentenza della Corte d’Appello del 13/12/2005 ha confermato la sentenza del Tribunale “di non doversi procedere perché il reato si è estinto per prescrizione”;
18. Proc. Pen. n. 262/97Y R.G.N.R. - Tribunale di Madrid “Telecinco” Reati contestati: reati societari – reati contro la Pubblica Amministrazione (diritto spagnolo) archiviato il 13/10/2008;
19. Proc. Pen. n. 22694/01 R.G.N.R. “Diritti” Reati contestati: falso in bilancio – appropriazione indebita – frode fiscale con sentenze del 7/07/2006 e 28/05/2007 il Tribunale di Milano ha dichiarato il non doversi procedere per i reati di falso in bilancio e di appropriazione indebita in quanto estinti per prescrizione. Per il reato di frode fiscale è in corso il dibattimento;
20. Proc. Pen. n. 6859/05 R.G.N.R. “Mills” Reati contestati: corruzione giudiziaria Assolto: 25/02/2012 il Tribunale ha dichiarato il non doversi procedere per intervenuta prescrizione;
21. Proc. Pen. n. 40382/05 R.G.N.R. “Mediatrade Milano” Reati contestati: appropriazione indebita – frode fiscale Prosciolto: Il GUP di Milano ha “prosciolto per non aver commesso il fatto”; in data 01/12/2011 il PM ha depositato ricorso in Cassazione;
22. Proc. Pen. n. 31358/10 R.G.N.R. “Mediatrade Roma” Reati contestati: frode fiscale In corso l’udienza preliminare;
23. Proc. Pen. “Santa Margherita Alitalia (convegno del giugno 2009)” Reati contestati: aggiotaggio e insider trading Archiviato il 18/11/2011;
24. (*) Proc. Pen. n. 58833/07 R.G.N.R. “Intercettazioni Saccà” Reati contestati: corruzione archiviato il 17/04/2009;
25. (*) Proc. Pen. n. 1349/08 R.G.N.R. “Corruzione Senatori” Reati contestati: corruzione archiviato;
26. (*) Proc. Pen. Trib. Ministri “Saint Just” archiviato il 26/01/2009;
27. (*) Proc. Pen. Trib. Ministri “Voli di Stato” archiviato l’8/10/2009;
28. (*) Proc. Pen. n. 41895/09 “UNIPOL - Intercettazioni Fassino Consorte” Reati contestati: rivelazioni segreto d’ufficio. Disposto il rinvio a giudizio il 7/02/2012. In corso il dibattimento(richiesta di archiviazione del 16/12/2010 - 15/09/2011 il G.i.p. ha disposto l’imputazione coatta per Berlusconi - 22/09/2011 chiesto il rinvio a giudizio);
29. (*) Proc. Pen. n. 55781/2010 + 5657/11 R.G.N.R. “Caso Ruby” Reati contestati: concussione – favoreggiamento prostituzione minorile il 15/02/2011 il g.i.p. ha disposto con decreto il giudizio immediato (prima udienza dibattimentale: 6/4/2011);
30. (*) Proc. Pen. “Innocenzi – Anno Zero” Reati contestati: abuso d’ufficio Chiesta l’archiviazione;
31. (*) Proc. Pen. “Minzolini – De Scalzi” Reati contestati: abuso d’ufficio. In corso le indagini preliminari;
32. (*) Proc. Pen. “vilipendio alla magistratura” Reati contestati: vilipendio all’ordine giudiziario. In corso le indagini preliminari;
33. (*) Proc.
Pen. Tribunale di Bari Reati contestati:
induzione a rendere false dichiarazioni all’Autorità Giudiziaria
In corso le indagini preliminari.
(*) trattasi di procedimenti personali e quindi non riguardanti il Gruppo Fininvest. I dati relativi non rientrano tra quelli della c.d. “sintesi”.
Indagini per stragi a Firenze, Palermo e Caltanissetta: si tratta di tre indagini riguardanti le stragi di mafia degli anni 1992/1993, indagini già archiviate in passato (v. n. 5 e 6). Ad oggi non disponiamo di dati ufficiali, ma solo di notizie di stampa. Negli ultimi mesi ci sono state sia smentite (Firenze), sia conferme (Palermo), circa l’iscrizione di Silvio Berlusconi nel registro degli indagati.
Quando ci sono, le condanne di Silvio Berlusconi per corruzione e altro, non arrivano mai al giudizio definitivo: o per assoluzione o per prescrizione. E le sentenze e le motivazioni delle sentenze sono tutte postmoderne, nel senso che non stabiliscono una verità giuridica, introvabile nei processi politicizzati, ma si limitano a fungere da interpretazione tra le interpretazioni.
Il caso Mills è indicativo: il condannato non è Berlusconi, perché il lodo Alfano lo tiene fuori dal processo, ma nelle motivazioni della condanna di I grado a Mills il premier è tirato in ballo pesantemente come corruttore di un testimone. Giudicato senza essere processato. Giudizio arbitrario brandito dalle opposizioni a fini politici che, oltre ad aizzare le folle all’odio, danno un’immagine meschina dell’Italia all’estero: il Presidente del Consiglio italiano è un corruttore e un pregiudicato. Che fare? Credere o non credere? E a che cosa credere, a una sentenza che non c’è, o alle motivazioni che invece ci sono? Credere a un giudice che ha vinto un concorso (come si vince in Italia), o a un politico che ha vinto le elezioni (come si vincono in Italia)?
Vorrei vivere, come la maggioranza assoluta degli italiani, in un paese in cui la legge fosse uguale per tutti e tutti fossero uguali davanti alla legge. Vorrei un paese in cui i giudici applicano la legge dello Stato, rispettandola essi stessi, e non attuando un programma di risanamento e di salvezza politica della Repubblica deciso nei loro club e nelle loro correnti politiche, perché hanno sentore di poter perdere i loro privilegi ed impunità. Un paese in cui le decisioni dei tribunali hanno delle conseguenze veloci e certe, perché promanano da una sede autorevole e indiscussa, e un cittadino difeso e giudicato da un sistema di giustizia imparziale (e riconosciuto tale dalla totalità dei cittadini e non solo di sinistra). Ma questo paese non è il mio, non è il nostro.
Lelio Luttazzi, scomparso l’8 luglio 2010, ad 87 anni, nella sua abitazione di Trieste, in questo momento, è l’attualità. Perché Luttazzi è una delle tante vittime (naturalmente innocenti) delle intercettazioni telefoniche e delle libere interpretazioni del loro contenuto. Quelle stesse intercettazioni, usate dai media come gogna, che sono al centro del dibattito politico nazionale. Raccontava l’artista a Gian Antonio Stella, il 28 agosto del 1995: «Abitavo a Roma, davanti alla fontana di Trevi. La sera prima avevo fatto tardi. Mi sveglio e la donna di servizio mi fa: "Ha chiamato Walter Chiari, chiede di essere richiamato all'albergo Baglioni di Bologna. Prima però dovrebbe telefonare qui a Roma a un certo Lelio Bettarelli, a un numero che le ha lasciato, per dirgli di mettersi in contatto con il signor Chiari a Bologna perchè lui non riesce a prendere la linea". Non ebbi sospetti. E vero che nel giro si diceva che Walter sniffava, ma io non l'avevo mai visto farlo. Non mi passava per la testa che quel Bettarelli fosse uno spacciatore e che io potessi essere usato come ponte. Si figuri poi se potevo immaginare che la telefonata era intercettata. Fatto sta che chiamo 'sto Bettarelli e gli giro il messaggio. Stiamo per chiudere e lui mi fa: "A lei serve qualcosa?". E io come un baccalà : "Qualcosa cosa?". E lui, che aveva capito di essersi sbagliato pensando che anch'io fossi un cocainomane: "Ah, niente, niente, buongiorno". E mette giù. Fine». Qualche giorno dopo quella telefonata, Luttazzi si ritrovò a casa due finanzieri che, dopo una perquisizione (senza risultati) dell’appartamento, lo condussero nel carcere romano di Regina Coeli ove rimase, da innocente, per ben 27 giorni. Qualcuno, evidentemente, dopo un affrettato “2+2”, aveva deciso che anche «il maestro» fosse immischiato nel traffico di sostanze stupefacenti. Quella detenzione, quell’errore giudiziario, lasciarono su Luttazzi delle cicatrici indelebili. Una bellissima presenza in una TV monolitica, confessionale, ma attraverso la quale delle persone eccezionali, riuscivano a far passare la propria genialità, in modo anche sofferto. All’apice della fama, nel 1970 viene arrestato per detenzione e spaccio di stupefacenti. Era innocente e fu assolto. Diceva: “ormai la gente rimarrà sempre con il dubbio”. Sentiva di aver subito un ingiusto marchio. Solo radio, un poco di “Hit parade”. e poi il lungo isolamento con qualche brevissima interruzione, fino alla partecipazione a San Remo 2009 con Alisa. La ferita del 1970, lo aveva segnato per tutto il resto della vita, soffrendo di ricorrenti crisi depressive, rimanendo sempre lucido e schietto.
La tv piange la prematura scomparsa di Gigi Sabani. Faceva l'imitatore, il suo umorismo era facile e popolare, una risata la strappava sempre. Gigi Sabani è stato uno di quei conduttori davanti a cui si aprivano tutte le porte, cui non mancavano le occasioni per inseguire un successo che pareva senza fine. Poi un bel giorno qualcosa si è rotto. Nell'estate del 1996 finisce in manette... si inaugura la prima grande inchiesta di Vallettopoli. La storia finisce in niente, viene prosciolto senza nemmeno arrivare al processo. Ancora, di fronte allo scandalo della seconda Vallettopoli, Sabani non riusciva a darsi pace: “Quando io e altri fummo sbattuti violentemente in prima pagina, senza certezze sulle eventuali responsabilità, nessuno, a parte pochi, si impegnò per difendere la nostra dignità”.
Tagliato fuori dalla tv, sbalzato dal trono, Sabani subì anche la beffa del risarcimento. Tredici giorni di ingiusta detenzione patiti dal presentatore dal 18 giugno all'1 luglio del 1996 gli valsero 24 milioni di lire (più un milione e rotti per le spese processuali). In tribunale avevano fatto i conti della serva: gli arresti domiciliari sono meno 'afflittivi' della gattabuia, il contratto con Sotto a chi tocca di Canale 5 non era ancora firmato, nel 1997 Sabani ci aveva rimesso 'solo' 250 milioni rispetto all'anno precedente e così via. Probabilmente, 24 milioni Sabani li guadagnava in una o due serate e la Corte d'appello di Roma non aveva tenuto conto che per un presentatore l'immagine è tutto e l'immagine di Sabani aveva subito un brutto colpo. Dal quale, con ogni probabilità, non si è mai più ripreso.
Non bisogna dimenticare il caso di Simonetta Cesaroni. Cose allucinanti. Una condanna, che per i più va al di qua del ragionevole dubbio. Raniero Busco è stato condannato a 24 anni di carcere: nell'aula bunker di Rebibbia la sentenza di I grado sul delitto di via Poma. Dopo due decenni, la morte di Simonetta Cesaroni trova “un colpevole”, che per molti non è “il colpevole”. Nel processo per la morte della ragazza uccisa il 7 agosto 1990 con 29 coltellate, Busco, ex fidanzato della Cesaroni, era l'unico imputato. Il pm Ilaria Calò aveva chiesto l'ergastolo per omicidio volontario con l'aggravante della crudeltà. Questo dopo la morte di Pietrino Vanacore, additato dalla stampa ed accusato dai magistrati di essere coinvolto nell’omicidio. Colpevole. Dopo più di 20 anni. Ma la condanna va al sistema giudiziario. E’ il fallimento di uno stato di diritto. Quale rito si è rispettato se dopo venti anni sono venuti meno tutte le prove e tutti gli strumenti difensivi. LA PENA. E’ la sanzione prevista che lo Stato, a mezzo dell’Autorità Giudiziaria affligge all’autore di un fatto illecito. La pena svolge diverse funzioni: da un lato quella di punire il colpevole per il reato commesso mentre dall’altro lato ha funzione rieducativa che mira alla riabilitazione del reo e al suo reinserimento in società. Il cd. doppio binario della pena previsto dal Codice, risponde al principio previsto dalla Costituzione che, all’art. 27, terzo comma, stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti disumani e che debbono tendere alla rieducazione del condannato in modo da consentirgli il reinserimento nella società una volta scontata la pena. Dopo più di venti anni quale prevenzione a vantaggio della società ci può essere e quale rieducazione si può prevedere per il reo. Colpevole. Una parola che piomba nel silenzio carico di tensione dell’aula-bunker come una slavina. È Raniero Busco il mostro che ha ucciso vent’anni prima la fidanzata Simonetta Cesaroni. È lui l’assassino feroce che ha massacrato la figlia del ferrotranviere della Metro con 29 colpi di tagliacarte, affondando la lama anche all’interno della zona genitale. È il meccanico di Morena l’impassibile killer che per un ventennio ha nascosto l’orrore del suo gesto dietro la facciata del tranquillo padre di famiglia. Questa è la «verità» dei giudici, che, a fronte della richiesta di carcere a vita del pm, hanno condannato l’imputato a 24 anni di reclusione. Una «verità» che non convince. Una condanna che non si aspettava nessuno. Non Busco e il suo legale Paolo Loria, che ha annunciato il prevedibile ricorso in appello. Non i giornalisti che hanno seguito il processo a Rebibbia durante gli undici mesi abbondanti del dibattimento. E neppure l'opinione pubblica, che dalle tv e dai giornali si è fatta un'idea sulla fragilità degli scarsi indizi raccolti contro l'imputato. Ecco, tutti attendevano un verdetto che riecheggiasse la vecchia formula ormai abolita dal codice: insufficienza di prove. Anche l'annuncio che la camera di consiglio sarebbe durata appena tre ore (previsione sbagliata per difetto di trenta minuti) aveva fatto credere che si sarebbe deciso per l'assoluzione. Ma così non è stato. Entrati nella «stanza del giudizio» il 26 gennaio 2011 alle 12.30 e usciti alle 16.08, i due giudici togati e gli otto popolari hanno deciso altrimenti. È il presidente della III Corte d'assise Evelina Canale a leggere il dispositivo: «Visti gli articoli 533 e 535, dichiara Busco Raniero colpevole del delitto ascrittogli e, con le attenuanti generiche equivalenti alla contesta aggravante, lo condanna alla pena di 24 anni di reclusione». Parole che gelano l'aula. Busco e la moglie sono ammutoliti. Lo stesso il loro difensore. Solo dal fondo dello stanzone che ha accolto terroristi e mafiosi qualcuno del pubblico piange e urla «No,no!». E il fratello di Raniero, che ascolta la sentenza abbracciato a lui e alla moglie Roberta, ripete infuriato due volte: «Che state a di'!». Poi, quando fotografi e cameramen li accerchiano, trascina l'imputato fuori dall'aula. «Perché devo essere io la vittima, tutto questo è ingiusto, profondamente ingiusto - avrebbe poi detto Raniero al suo avvocato - Dire che sono deluso è poco». «Una decisione pesante che non accontenta il concetto di giustizia - dice con amarezza Paolo Loria - Contro il mio assistito c'erano solo indizi e nessuna prova». Busco è stato anche interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e, se la sentenza passerà in giudicato, non potrà più esercitare la patria potestà. Infine dovrà risarcire i danni alle parti civili «da liquidarsi in separata sede» e pagare provvisionali «immediatamente esecutive» di 100 mila euro alla sorella della vittima Paola e di 50 mila alla madre Anna di Gianbattista. Insomma, il verdetto riconosce l'aggravante della crudeltà chiesta dal pm (anche se non segue l'accusa sulla strada dell'ergastolo), e però ne annulla le conseguenze sulla pena grazie alle attenuanti. Soddisfatti il pm e i legali di parte civile. Ma anche dalle loro dichiarazioni traspaiono dubbi non fugati dal processo. Lucio Molinaro, che ha seguito la vicenda per tutti questi venti anni, spiega che «noi ora dobbiamo credere che Busco sia colpevole, perché tre ore sono sufficienti per verificare le prove e prendere una decisione». Massimo Lauro, che con Federica Mondani assiste la sorella della vittima, osserva che «Almeno in teoria, adesso la parte che rappresento sa chi ha ucciso Simonetta». E il legale che rappresenta il Comune, Andrea Magnanelli, commenta: «Domani Roma si sveglia con un mistero in meno». Ma l'impressione di tutti è esattamente quella opposta. Il processo era iniziato il 3 febbraio 2010. L'accusa, il pm Ilaria Calò, aveva chiesto la condanna all'ergastolo. I giudici della terza corte d'assise, dopo una riunione in camera di consiglio, ha concesso all'imputato le attenuanti generiche. Per venti anni si è cercato la verità su quell’efferato delitto compiuto nell'ufficio dell'Associazione alberghi della gioventù dove Simonetta lavorava. Il 7 agosto 1990 Simonetta a 21 anni venne massacrata con un tagliacarte. Il suo carnefice la colpì 29 volte in tutto il corpo, ferite profonde circa 11 centimetri. Ad ucciderla però, fu un trauma alla testa. L'ipotesi degli investigatori fu che le coltellate erano state inferte sul cadavere solo per depistare le indagini. Il corpo seminudo e senza vita della ventunenne venne scoperto alle 11 di sera. L'autopsia accertò che non aveva subito violenza carnale e che la sua morte era avvenuta tra le 17.30 e le 18.30. Il Busco, all'epoca aveva 26 anni ed era il fidanzato della vittima. Il primo ad essere stato sospettato del delitto fu il portiere dello stabile di via Poma, Pietrino Vanacore che scoprì il delitto. Poi gli inquirenti puntarono i loro sospetti su Federico Valle che era il nipote di un architetto che abitava in quel palazzo, Cesare Valle. Per il primo alcuni giorni dopo il delitto arrivò il fermo, mentre per il secondo nel 1992 un avviso di garanzia. Successivamente prima nel 1993, il Gup prosciolse dall’accusa di favoreggiamento Vanacore e Valle da quella di omicidio, e poi nel 1995 la Cassazione definitivamente emise la decisione di non rinviarli a giudizio. Le indagini ripartivano da zero. Gli inquirenti sospettarono che l’assassino fosse nella cerchia dei contatti della ragazza. Tra gli altri indagati finì anche Salvatore Volponi, il suo datore di lavoro, anche per lui il fascicolo venne archiviato. La svolta nelle indagini nel 2006. I risultati delle analisi di tracce di saliva rinvenuta sul reggiseno di Simonetta, ritrovato, dopo anni, dimenticato, e rimasto incustodito, in un armadietto del laboratorio di medicina legale, portarono al Dna dell’ex fidanzato di Simonetta, Raniero Busco. Busco venne iscritto nel registro degli indagati per omicidio volontario nel settembre del 2007. Gli investigatori, inoltre, prelevano anche l'impronta dell'arcata dentaria di Busco, al fine di confrontarla, attraverso le foto autoptiche del 1990, con il morso riscontrato sul seno di Simonetta. Il 9 novembre 2009 venne poi rinviato a giudizio e il 3 febbraio 2010 iniziò il processo. Nel corso del quale, il 9 marzo, a pochi giorni dalla sua prevista deposizione come teste, Vanacore si tolse la vita. Scompariva di scena un personaggio importante, e forse detentore di qualche segreto, di questa intricata vicenda. il 26 gennaio 2011 poi, la sentenza di primo grado. Il mistero che ha avvolto per tanti anni la morte di Simonetta Cesaroni è davvero svelato? Il difensore di Busco, Paolo Loria, ha affermato: “Non è stata fatta giustizia, andremo in appello”. “Non c'è prova alcuna che Raniero Busco abbia ucciso Simonetta Cesaroni. Non si sa nemmeno con certezza che sia mai entrato in quell'ufficio”. Sono le parole del criminologo Francesco Bruno che si è detto profondamente stupefatto della condanna a 24 anni dell'ex fidanzato della Cesaroni. “Ancora una volta si dimostra come i giudici di primo grado risentano delle ipotesi accusatorie”, ha spiegato Bruno aggiungendo che: “Busco sarà certamente assolto in appello, ma sarà ben difficile cancellare quel marchio che gli hanno appiccicato addosso. Speravo che infine si tenesse in maggiore considerazione la fragilità accusatoria e che nel dubbio si arrivasse ad una soluzione più' ragionevole. Così non è stato, tuttavia nella condanna a 24 anni c’è tutto il senso di una non certezza della sua colpevolezza”. “La sentenza di condanna a 24 anni per Raniero Busco non risolve il caso di Via Poma, lascia troppi interrogativi sospesi e irrisolti, dubbi e contraddizioni”. Ad affermarlo il criminologo Carmelo Lavorino, autore tra l’altro di un libro sul delitto di via Poma. Comunque sia per ora Busco non andrà in carcere. Nonostante la condanna a 24 anni di reclusione infatti, la corte non ha disposto alcuna misura in merito. Un fatto questo dovuto allo stato della sentenza. Quella emessa è infatti una sentenza non definitiva emessa in primo grado di giudizio. In Italia una sentenza diviene 'definitiva' solo al terzo grado, con il pronunciamento della Corte di Cassazione. Il caso in cui un condannato finisce in carcere dopo il primo grado si verifica solo se ci sono i presupposti per la custodia cautelare, che sono tre: pericolo di fuga, possibile inquinamento delle prove e possibile reiterazione del reato commesso. In questo caso il provvedimento restrittivo potrebbe essere applicato solo se ci fosse un reale pericolo di fuga. Cosa questa che sembra poco probabile che possa verificarsi. Busco ricorrerà in appello nella certezza dell’assoluzione in secondo grado di giudizio come ha anticipato il suo legale. Un ricorso in appello che invece, se non ci fosse porterebbe Busco in carcere. L’ordinamento infatti, prevedere che decorsi i 45 giorni dal deposito delle motivazioni di primo grado, la sentenza diverrebbe definitiva e il pm come 'giudice dell'esecuzione' potrebbe disporre la carcerazione del condannato.
Inaspettata dopo il 1° grado, ma attesa secondo la super perizia arriva il 27 aprile 2012 intorno alle 13 la sentenza d’appello: Raniero Busco è innocente, «assolto per non aver commesso il fatto».
Raniero Busco è stato assolto dalla prima corte d’assise d’appello di Roma per non aver commesso il fatto. L’uomo era accusato di aver ucciso Simonetta Cesaroni, assassinata il 7 agosto del 1990 in via Poma, che all’epoca era la sua fidanzata. Decisiva per l’assoluzione la perizia disposta dai giudici in appello: il segno su un seno di Simonetta non sarebbe riconducibile ad un morso di Busco e sul reggiseno della ragazza oltre al Dna dell’ex fidanzato comparirebbero altri due Dna. La sentenza di primo grado l’aveva condannato a 24 anni di reclusione per omicidio. Busco dopo la sentenza è stato colpito da un lieve malore: è stato sorretto dal fratello e dalla moglie, poi ha pianto abbracciato ai familiari. Arriva dopo 22 anni la sentenza che rivela la verità giudiziaria sull'omicidio di Simonetta Cesaroni, massacrata con 29 coltellate il 7 agosto 1990. La Prima sezione della Corte d'Assise d'Appello del Tribunale di Roma, che venerdì 27 aprile si era ritirata in camera di Consiglio intorno alle 11, ha impiegato circa due ore e mezza per decidere la conclusione del nuovo processo per il caso di via Poma. Intorno alle 13.30 la pronuncia: Busco è stato dichiarato non colpevole. E' stata così annullata la sentenza di primo grado che aveva condannato l'ex fidanzato di Simonetta a 24 anni di reclusione. La sentenza è stata accolta da un urlo di sollievo. «Da oggi ricomincio a vivere - ha detto Busco -. Quando è uscita la Corte, in un attimo, ho rivisto tutta la mia vita». La verità, l'identità del «mostro» che assassinò la giovane romana, resta un giallo. La Corte d'Assise e d'Appello ha ritenuto dunque fondati i rilievi sollevati dai consulenti nominati dalla corte stessa, gli autori della superperizia secondo la quale il segno sul seno sinistro della ragazza uccisa - considerato in primo grado la «firma» dell’assassino, ovvero il segno perfetto della dentatura anomala di Busco - non era un morso. La conferma della condanna era stata sollecitata dal procuratore generale Alberto Cozzella, insieme con gli avvocati di parte civile. Mentre la tesi dei difensori Franco Coppi e Paolo Loria era che Busco dovesse avere la piena assoluzione «per non aver commesso il fatto», così come prevede l'art. 530 del codice di procedura penale al primo comma. E così è stato. Assenti i familiari di Simonetta, l'imputato Raniero Busco era presente in aula assieme alla moglie Roberta Milletari. «Non so come sarebbe finita la nostra storia ma non ho mai pensato di farle del male - aveva detto Busco durante l'udienza del 23 aprile -.
Quando ho saputo della sua morte ho provato lo stesso dolore che ho provato quando ho perso mio padre». E aveva concluso rivolto alla corte: «Da voi mi aspetto il riconoscimento della mia innocenza». Busco è stato colto da malore dopo la pronuncia di assoluzione. Sorretto dal fratello e attorniato da una gran ressa di telecamere e fotoreporter l'ex fidanzato di Simonetta è stato portato in una stanza dai carabinieri che svolgono l'ordine pubblico in Corte d'appello. Alla lettura della sentenza, Busco avrebbe prima esultato abbracciando la moglie, poi secondo alcune testimonianze sarebbe stato colto da un lieve malore. Ma uno degli avvocati ha smentito: «No, è stato composto. Ha solo pianto di gioia». Abbracci e commozione tra gli amici dell'imputato per la vittoria della linea difensiva. Il primo a parlare di morso era stato la notte dell’autopsia di Simonetta Cesaroni il medico legale Ozrem Carella Prada, proprio uno degli esperti nominati per la superperizia dal procuratore generale della Corte d’assise d’appello. L’avvocato storico della famiglia Cesaroni, Lucio Molinaro, ricorda a memoria le parole della perizia: «Si nota una deviazione del capezzolo del seno sinistro e la formazione di una crosticina che potrebbe essere stata causata da un probabile morso». «Scrisse probabile o eventuale morso» precisa Molinaro, «usò una formula dubitativa. Il pm Cavallone, una volta ritrovato il corpetto e il reggiseno di Simonetta, si rilesse per l’ennesima volta gli atti e puntò su quelle parole, su quella pista, sui Dna, su quel segno e la dentatura unica di Busco per via di un sovradente». ”E’ una sentenza emessa dall’unico organo deputato ad emettere una pronuncia in appello. Va accettata e rispettata” commenta alla stampa il procuratore generale, Alberto Cozzella. “All’esito del deposito delle motivazioni (la corte d’assise si è presa almeno 90 giorni) - ha aggiunto Cozzella – decideremo il da farsi. Non è escluso, anzi assolutamente probabile, che ricorreremo in Cassazione”. I giudici presieduti da Mario Lucio D’Andria sono entrati in Camera di Consiglio poco dopo le 11. La riunione in camera di Consiglio è stata preceduta dalle repliche delle parti che, a sostegno delle rispettive tesi accusatorie e assolutorie hanno ripercorso le tappe fondamentali della vicenda esaminando punto per punto anche gli esiti peritali che da una parte portano a scagionare l’imputato e dall’altra come sostiene la Procura generale a confermare le responsabilità di Busco. E si accende la polemica sul dna, diventato prova regina in questo processo. “L’assoluzione di Raniero Busco era attesa, perchè nel condannarlo non sono state tenute in considerazione tutte le prove ma si è data un’importanza esagerata al solo Dna” afferma alla stampa il medico legale Angelo Fiori, uno dei periti all’epoca del delitto. “Questa sentenza sottolinea come non si possa usare solo il Dna nei processi, ma vadano prese in considerazione tutte le prove” afferma Fiori. ”Già all’epoca – prosegue – era emerso che il sangue trovato sulla porta era incompatibile con il gruppo di Busco, e questo secondo me già bastava a non includerlo nei sospettati. Ci si è basati invece solo sul Dna trovata sul presunto morso sul seno, ma senza tenere conto del fatto che c’erano quelli di tre persone, e non solo di Busco”. D’accordo con l’analisi anche Vincenzo Pascali, uno dei consulenti della Procura di Roma: “C’è stata una mancanza di lucidità nella valutazione delle prove – dice – la sentenza è dovuta al fatto che si sono considerate conclusive delle evidenze che invece non lo erano”. Da considerare una cosa: se non ci fosse stata la super perizia, perché non ammessa, o perché non necessaria, cosa sarebbe successo?
Non si dimentica il caso Enzo Tortora. Era un presentatore televisivo molto noto. La sua figura pubblica, certamente, non era a tutti gradita. Finì, all’improvviso, in un tritacarne allestito dalla Procura di Napoli sulla base di un manipolo di "pentiti" che prese ad accusarlo di reati ignobili: traffico di droga ed associazione mafiosa. Con lui, prima che quell’operazione si sgonfiasse come un palloncino, finiranno nel tritacarne altre 855 persone. Il suo arresto fu un evento mediatico. Prima di trasferirlo in carcere, i carabinieri lo ammanettano come il peggiore dei criminali e gli allestiscono una sorta di passerella davanti a fotografi ed operatori televisivi. L’Italia si spacca letteralmente in due tra innocentisti e colpevolisti.
E la stampa, dichiaratamente forcaiola e filo-magistratura, riesce a dare il peggio di sé.
E’ la quasi estate del 1983. Comincia il "caso di Enzo Tortora", vittima sacrificale degli isterismi e dei pressappochismi dell’antimafia. Con Tortora la giustizia italiana fa un salto indietro di qualche secolo, coprendosi letteralmente di vergogna.
Un gruppo di magistrati mostra i suoi lati più bui. Il presentatore televisivo viene tenuto in carcere per sette mesi, ottenendo appena tre colloqui con i suoi inquirenti. Gli indizi che lo accusavano sono debolissimi, praticamente inesistenti: oltre alle parole dei "pentiti", soltanto un’agendina trovata nell’abitazione di un camorrista. Un nome scritto a penna e un numero telefonico. Solo dopo lungo tempo si saprà che quel nome non era "Tortora", ma "Tortosa" e che il recapito del telefono non era quello del presentatore.
Nel giugno del 1984 Enzo Tortora, nel frattempo divenuto il simbolo delle tragedie della giustizia italiana, viene eletto deputato europeo nelle liste dei radicali che ne sosterranno sempre le battaglie libertarie.
Il 17 settembre 1985 (ad oltre due anni dall’arresto) Tortora viene condannato a dieci anni di galera. Nonostante l’evidenza, le accuse degli 11 "pentiti" (definiti da un giornale "la nazionale della menzogna") hanno retto al dibattimento.
Con un gesto nobile, l’ormai ex divo della TV, protetto dall’immunità parlamentare, si consegna. Resterà agli arresti domiciliari. Il 15 settembre 1986 (a più di tre anni dall’inizio del suo dramma) Enzo Tortora viene assolto con formula piena dalla corte d’Appello di Napoli.
Il 20 febbraio 1987 torna sugli schermi televisivi.
Il 17 marzo 1988 Tortora viene definitivamente assolto dalla Cassazione.
Il 18 maggio 1988, stroncato da un tumore, Enzo Tortora muore.
Resterà per sempre il simbolo di una giustizia ingiusta. Che di macroscopici errori, dopo di lui ne commetterà, purtroppo, ancora molti.
Nel gennaio 2002 un uomo è stato assolto per non aver commesso il fatto dopo aver trascorso 16 mesi in carcere con l’accusa di violenze carnali e lesioni. L’anno prima, a febbraio, un condannato all’ergastolo con l’accusa di aver ucciso la moglie fu lasciato libero dopo sette anni dietro le sbarre. A giugno dello stesso anno un giovane di 25 anni è stato riconosciuto innocente dopo aver trascorso 6 anni e 4 mesi in carcere, come presunto omicida. Tre casi di clamorosi errori giudiziari, citati nel rapporto Eurispes sulle storie di ingiusta detenzione. Secondo un calcolo compiuto dall’istituto di ricerca nell’arco degli ultimi cinquant’anni sarebbero 4 milioni gli italiani vittime di svarioni giudiziari: dichiarati colpevoli, arrestati e solo dopo un tempo più o meno lungo, rilasciati perché innocenti. Un dato che al Ministero dl Giustizia non confermano, e che è stato ricavato da un’analisi delle sentenze e delle scarcerazioni per ingiusta detenzione nel corso di cinque decenni. La vicenda di Filippo Pappalardi arrestato a Gravina con l’infamante accusa di aver ucciso i due figli Ciccio e Tore, poi scagionato dall'evidenza delle scoperte degli investigatori, è solo l'ultimo di tanti casi che in Italia hanno visto protagonisti genitori presunti pedofili o assassini, spesso vittime di gogna mediatica e invece poi rivelati dalle indagini non colpevoli. Il primo caso clamoroso fu quello di Lanfranco Schillaci. Insegnante di matematica a Limbiate, vicino a Milano, nell'aprile 1989 divenne un 'mostro da prima pagina': aveva portato la figlia Miriam di 2 anni all'ospedale Niguarda, perché perdeva sangue, accusato di abusi e pedofilia anche dai vicini di casa, si vide allontanare la bambina dal Tribunale dei minori fino a quando, poche settimane dopo, i medici dell'ospedale decretarono che Miriam perdeva sangue perché affetta da teratoma sacro-coccigeo. Un cancro al retto che la portò alla morte il 3 giugno dello stesso anno. Anche l'allora Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, chiese pubblicamente scusa all'insegnante per "le ingiuste sofferenze, che la terrena limitatezza delle attività dello Stato vi ha così crudelmente inferto".
Nel settembre 1996 un tassista milanese di 45 anni, Marino, sulla base delle consulenze di psicologi e periti, che poi si rivelarono incompetenti, fu accusato di abusi sessuali nei confronti della figlia di tre anni: il Tribunale dei minori del capoluogo lombardo prima decide per un allontanamento cautelativo dalla famiglia della piccola, poi riaffida la piccola ai genitori. Nel frattempo la separazione con la moglie, infine l'assoluzione.
Nello stesso anno un pensionato di 61 anni viene condannato in primo grado a sette anni e tre mesi di reclusione per presunti abusi sessuali e maltrattamenti nei confronti delle nipotine di 7 e 3 anni: queste si rivelarono poi 'suggestionate' dalle convinzioni a priori dei periti e dopo 18 mesi di carcere, nel 2001, il pensionato è stato assolto.
Alla fine degli anni '90 don Giorgio Govoni, parroco di S. Giorgio, chiesetta di Modena, è accusato di essere responsabile, con altri, di abusi nei confronti di 13 bambini tra i quattro mesi e i 13 anni negli anni 1996-1997 e 1998: si parla addirittura di un giro di pedofilia perpetrata nei cimiteri. Don Giorgio fu scagionato sia dalla sentenza in primo grado che dalla Corte d'Appello di Bologna, ma non fece in tempo a sentire la riabilitazione dei giudici perché morì, si dice di crepacuore per le accuse.
Ancora. A Torino, nel 2000, il professor P., insegnante di musica in una scuola media della città, viene indagato per violenza sessuale nei confronti di due alunni. Il professore fu prosciolto due anni dopo: i ragazzi si erano inventati tutto.
Nel 2001 è la volta di un altro caso clamoroso. Paola Mantovani, 44 anni, accusa alcuni albanesi di aver fatto irruzione nella villa di famiglia e di aver ucciso il figlio Matteo, bambino autistico di 14 anni. La donna però viene subito coinvolta nelle indagini, accusata dell'omicidio, infine è assolta nel 2006.
Nel luglio 2004, a Brescia, due suore, che si erano sempre dette innocenti, vengono assolte in secondo grado con formula piena "perché il fatto non sussiste" dall'accusa di aver commesso, tra il 1999 e il 2000, abusi sessuali nei confronti di otto bambini che frequentavano la scuola materna di un paese vicino Bergamo. Sempre a Brescia, nel 2007, dopo due anni di indagini e 120 udienze, vengono assolti dall'accusa di pedofilia e abusi sessuali nei confronti di alunni della scuola materna Sorelli sei maestre, un bidello e un sacerdote: "Il fatto non sussiste".
Nel gennaio 2005, ancora a Brescia, la Corte di appello scagiona definitivamente Giuseppe R., 48 anni, accusato di aver molestato sessualmente nel 1997 il figlio di due anni e mezzo. Oltre il danno la beffa: nonostante la verità raggiunta nel frattempo il bambino era stato dato in adozione alla mamma e al suo nuovo compagno.
Nel giugno 2005, questa volta a Bologna, un pakistano di 28 anni lascia il carcere dopo un anno di detenzione per abusi sessuali nei confronti di una bambina di 11 anni poi rivelatisi inesistenti. Due mesi più tardi Elena Romani, un'hostess di Vercelli, è accusata di omicidio preterintenzionale nei confronti della piccola Matilda, la figlia di 22 mesi. Il Tribunale di Novara la scagiona.
Qualche mese dopo, è il febbraio 2006, don Giorgio Carli, parroco della chiesa di Don Bosco a Bolzano, accusato di violenze sessuali nei confronti di una sua parrocchiana, che all'epoca dei fatti era minorenne, viene assolto e abbandona la detenzione dopo tre anni.
Arriva marzo, l'Italia è scossa dalla vicenda del piccolo Tommaso Onofri, il piccolo di 18 mesi malato di epilessia rapito a Casalbaroncolo, vicino Parma. Nei primi giorni delle indagini finisce nel registro degli indagati il padre del bambino, Paolo Onofri: gli investigatori scoprono nel pc dell'uomo centinaia di file pedopornografici. Giornali e tv lo accusano. Alcune settimane dopo il tragico epilogo: il piccolo Tommaso è stato ucciso dai rapitori la sera stessa in cui fu portato via dalla sua casa.
Infine il caso di Rignano Flaminio, piccolo paese alle porte di Roma. Nell'aprile 2007 sei persone (tre maestre, una bidella e due personaggi esterni alla scuola) vengono arrestate per violenza sessuale reiterata su bambini della scuola materna Olga Rovere, minacce, percosse, sequestro di persona, produzione e commercio di materiale pedo-pornografico. I giornali parlano di "orchi" e di "asilo degli orrori", ma già nel giro di pochi giorni, però, le prove e testimonianze contro i sei traballano e si invita alla prudenza. Il 10 maggio il Tribunale del riesame di Roma decreta la scarcerazione per tutti gli arrestati per "mancanza di gravi indizi". In ottobre, poi, la Cassazione evidenzia contro i sospettati "elementi ma non indizi gravi". Le cronache parlano anche dei bambini di Basiglio (MI), che non c’entravano nulla con quel disegno osè che ritraeva la sorella con il fratello, allontanati dai genitori per oltre due mesi. In quella vicenda furono indagati preside e maestre, che attivarono l’intervento degli assistenti sociali con la falsa accusa che il disegno l’avesse fatto la bambina.
L’elenco degli errori giudiziari è infinito.
Francesco Pagano, ex direttore di Regina Coeli. Accusato da un magistrato di Vibo Valentia di concorso in sequestro di persona. E questo avviene dopo che il sequestrato, l’armatore D’Amico, crede di riconoscere uno dei suoi rapitori in Tiberio Cason, re della mala romana. Ma Cason ha un alibi di ferro: all’epoca del sequestro era rinchiuso in carcere, a Regina Coeli, appunto. Quello che per Cason è un alibi inattaccabile diventa l‘“indizio” per accusare Pagano. In sostanza il direttore del penitenziario romano avrebbe organizzato e protetto una fuga clandestina di Cason dal carcere. Pagano viene interrogato per complessive trenta ore dal magistrato calabrese che lo indizia di reati di concorso in sequestro di persona e procurata evasione. Un’accusa fumosa, una storia che va avanti comunque per un paio di anni e dalla quale l’imputato verrà completamente scagionato al termine di una lunga istruttoria. Colpito da infarto Pagano morirà pochi mesi più tardi.
Bruno Broglia, commerciante di tessuti, viene accusato di complicità nel sequestro del suo socio di affari. Secondo il magistrato inquirente avrebbe architettato il sequestro per impadronirsi dell’azienda. Un’accusa che non resta in piedi neanche in istruttoria, tant’è che Broglia sarà completamente scagionato senza arrivare al processo. Un’accusa che il commerciante inquisito non regge: morirà poche settimane dopo per un attacco cardiaco.
Giacomo Rosapepe, direttore del manicomio di Sant’Eframo. Condannato in primo grado a cinque anni, nell’ambito di un’inchiesta su alcune telefonate fatte da un internato utilizzando l’apparecchio dell’istituto. Alla condanna viene accoppiata la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici: Rosapepe è quindi immediatamente rimosso dall’incarico e, in preda allo sconforto, tenta di togliersi la vita, ma viene salvato in tempo. Qualche mese più tardi la sentenza di appello lo manda assolto con formula piena. Ma ormai è troppo tardi. Completamente distrutto dall’esperienza patita, Rosapepe ritenta il suicidio, questa volta riuscendoci.
Alfonso Agnello arrestato per l’uccisione del cronista del Mattino Giancarlo Siani verrà rilasciato dopo pochi giorni. In “diretta” dal telegiornale il magistrato aveva comunicato che “al di là di ogni ragionevole dubbio Alfonso Agnello era da ritenersi uno dei killer del cronista Giancarlo Siani”.
Giuseppe Pecorelli viene scarcerato dopo nove mesi dal blitz anticamorra nel quale è coinvolto, tra gli altri, Enzo Tortora, per mancanza di indizi. Era finito in carcere dopo le rivelazioni di un “pentito”. Pecorelli era accusato di aver preso parte ad una esecuzione di stampo mafioso avvenuta nel carcere di Poggioreale. Le indagini rivelano che all’epoca del delitto il giovane non era in carcere, aveva solo tredici anni.
Mario D’Errico, di Succivo (Caserta), viene scarcerato perché innocente, dopo cinque anni e mezzo di custodia cautelare in carcere. Era stato accusato di aver ucciso un’insegnate del suo paese.
Antonello Demontis, pescatore, e Mauro Marangoni, marittimo, vengono riconosciuti estranei il 6 giugno 1985 dall’accusa di aver ucciso un pensionato a scopo di rapina. Hanno trascorso ventun mesi in carcere, in detenzione preventiva.
Francesco Maiorana, di Nocera Inferiore, viene scarcerato il 26 luglio 1985 per mancanza di indizi. Era stato arrestato con l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso. La denuncia era partita da un “pentito”. Ha patito una carcerazione di dieci mesi.
Mario Amoruso, di Mugnano (Napoli), accusato di omicidio, viene assolto il 18 novembre 1985 per “non aver commesso il fatto”. L’estraneità di Amoruso nella vicenda è apparsa tanto evidente nel corso del dibattimento, da indurre lo stesso Pubblico Ministero, al termine della sua requisitoria, a chiedere l’assoluzione con formula piena. Amoruso era stato arrestato tre anni prima, tutti trascorsi in carcere.
Stefano Lo Grasso, Michele Marino, Salvatore Marco, Gaspare Fiorino, Vito Mareca, accusati di estorsione continuata, vengono assolti il 29 febbraio 1986 perché il fatto non sussiste. Erano stati arrestati il 15 giugno 1984, e hanno trascorso due anni in cella prima di essere processati e prosciolti.
Domenico Zarrelli, accusato dell’assassinio degli zii e della cugina avvenuto il 30 maggio 1975, viene condannato all’ergastolo il 9 maggio 1978. Dopo tre processi d’appello e due sentenze della Cassazione, dieci anni trascorsi per la metà tra il carcere di Poggioreale e quello di Procida con un soggiorno di un mese e mezzo nel manicomio giudiziario di Sant’Eframo dove viene sottoposto a perizia psichiatrica, viene assolto con formula piena. Non è uno “sbaglio” tant’è che la Cassazione nella sentenza di assoluzione scrive “a carico di Zarrelli non esisteva nessun indizio e mai e poi mai nessuna corte avrebbe potuto condannarlo”.
Aldo Sardone amministratore di una ditta di Agrigento, trentadue anni, è rimasto in carcere per ventuno giorni a causa di una distrazione, un banale errore. Arrestato perché dichiara di aver risposto ad una telefonata ricattatoria che -visto che il telefono era sotto controllo- non risulta registrata. Dopo ventuno giorni -essendo l’avvocato difensore riuscito ad ottenere la trascrizione dei nastri- come per un prodigio la telefonata a cui fa riferimento Sardone c’è, esiste.
Giovanni Amato, muratore disoccupato di Palermo, viene arrestato nell’aprile del 1984, dopo che un rapinatore si “pente”. Dopo nove mesi, 275 giorni, viene scarcerato. E’ lo stesso giudice istruttore a spiegarne il perché, “Ho avuto la sfortuna di trovarmi tra le mani uno di quei casi in cui l’errore è inevitabile. Sì, proprio inevitabile. Succede perché deve succedere. Gli elementi coincidevano tutti”. Il fatto che abitassero nello stesso quartiere è l’elemento coincidente. Fatto salvo che si trattava di un altro Giovanni Amato.
Pietro Parracchio, presidente della Corte di Assise di Catania, viene arrestato l’1 dicembre 1984 per corruzione. A lanciare l’accusa è un “pentito”, Salvatore Parisi accusato di diciotto omicidi. Il magistrato, a detta del Parisi, l’aveva assolto in cambio di cento milioni, un gioiello per la moglie e un aiuto finanziario per la ristrutturazione della villetta. Il 22 luglio 1985, sette mesi dopo, il Tribunale della libertà annulla il mandato di cattura; scagiona il magistrato e manifestato sul merito processuale “un dissenso che non è solo marginale”.
Bino Baiamonte geologo palermitano arrestato il 3 gennaio 1984 per “associazione a delinquere di stampo mafioso”. Dopo quattro giorni di detenzione apprende che un “pentito” ha rivelato che, in un periodo di comune detenzione all’Ucciardone, da un Bino Baiamonte ha ricevuto terribili confidenze. Ma Baiamonte non era mai stato all’Ucciardone perché non era mai stato arrestato. Poteva dunque considerarsi un fortunato se in solo quattro giorni Baiamonte aveva chiarito la propria posizione, beninteso stando in carcere. Dopo due settimane viene invitato a presentarsi in Questura: vogliono consegnato il passaporto e ogni altro documento che possa consentirgli l’espatrio. Altre due settimane, altro invito; gli viene tolto il porto d’armi e gli viene ingiunto di disfarsi dei fucili che possiede. In data 7 giugno, urgente convocazione al nucleo giudiziario dei carabinieri: gli notificano tre ingiunzioni, perché indiziato di otto delitti tra i più gravi accaduti a Palermo in questi ultimi anni.
Agatino Litrico nato il 19 luglio del 1956, nel quartiere di San Birillo a Catania. Pasticciere di ventotto anni ha avuto la “disgrazia” di dividere nome, cognome e luogo e data di nascita con un criminale. Per scoprire l‘“errore” e per riconoscerlo ci sono voluti settanta giorni che Agatino Litrico ha passato nelle carceri Nuove di Torino. Ma ad Agatino Litrico era già accaduto otto anni prima di finire in cella, per un paio di giorni, sempre per “errore”.
Vito Surdo bancario del Credito italiano di Salemi, paese della provincia di Trapani, nell’estate del 1985 fu arrestato con l’imputazione di “associazione per delinquere, intimidazione ed estorsione”. Dopo sei mesi di carcere e quattro di arresti domiciliari la Procura della Repubblica di Trapani riconosce che non ci sono indizi sufficienti che giustifichino il processo.
Dante Forni bolognese, otto processi, ventidue mesi di carcerazione preventiva scontata in sette prigioni, alcune delle quali “speciali”. Infine il verdetto della Corte di Cassazione, che sancisce l’assoluzione con formula piena da tutti i reati e da tutte le accuse che via via si erano accumulate.
Adriana Avico il 19 dicembre 1984 si lasciava alle spalle il carcere romano di Rebibbia; libertà provvisoria. Aveva già scontato due mesi di carcere, di cui trentatré giorni in isolamento. L’accusa era: associazione per delinquere. Alla fine è stata assolta “per non aver commesso il fatto”.
Francesco Perrillo e Giuseppe Giordano, di San Giuseppe Vesuviano, in provincia di Napoli; scrivono il 5 ottobre 1985 una lettera pubblicata dal quotidiano `La Repubblica’: “Noi sottoscritti Perillo Francesco e Giordano Giuseppe, classe 1928 (classe sfortunata e disgraziata, anche Tortora è del ‘28), ringraziamo pubblicamente attraverso le colonne della “Repubblica” chi ci ha privato della libertà personale per circa un anno, trasferendoci con violenza dai nostri domicili di onesti e integerrimi lavoratori nel carcere più infame del mondo, a contatto con assassini, ladri, drogati, magnaccia, con malfattori della peggior specie. In una fetida cella abbiamo trascorso i primi mesi a piangere, sì abbiamo pianto e tanto, noi uomini di lavoro sessantenni abbiamo pianto come quando eravamo bambini, e come allora abbiamo tanto pregato. Molte volte, tante volte, ci siamo trovati i pantaloni impregnati di urina. Grazie a chi non ha ritenuto opportuno e necessario fare dei `riscontri oggettivi’ (signor Bocca, la Madonna, quella della sofferenza, l’aiuti e la protegga insieme alla sua famiglia), perché sarebbe bastato un usciere del Tribunale per constatare che vivendo e lavorando in un unico basso, per di più al centro del paese, non si poteva certamente ospitare per mesi i latitanti Rosetta Cutolo e Vincenzo Casillo. Alle nostre preghiere di mandare qualcuno a rilevare quanto affermavamo, i giudici ci invitavano a confessare. E siamo stati quasi tentati di farlo. Di confessare l’impossibilità pur di venire fuori da quell’incubo. E così oggi, dopo circa tre anni, ci hanno assolto con `formula piena’. Grazie, grazie a tutti. Adesso non siamo che due relitti umani con la devastazione nel cuore e nella mente. Grazie soprattutto ai signori che hanno levato voci in favore dei Tribunali meridionali, con l’augurio che un giorno anche ad essi, o magari ai loro figli, possa capitare questa sciocchezzuola che a noi è capitata”.
Ferdinando Imposimato, il “giudice coraggio” delle grandi inchieste contro il terrorismo e la delinquenza organizzata, ha provato l’amarissima esperienza di star sul banco degli imputati sulla propria pelle, accusato di interesse privato in atti di ufficio. Tutto nasce dopo la conclusione di un sequestro di persona. Il rapito e il suo avvocato, a liberazione avvenuta, vengono accusati di simulazione di reato. Imposimato, nella sua qualità di giudice istruttore, non è d’accordo, e dispone l’archiviazione del procedimento. Scatta, a questo punto, l’accusa contro di lui. Il processo ha luogo a Firenze. Si conclude con l’assoluzione piena. Dopo questa esperienza, Imposimato dichiara: “Il mio sentimento nei confronti della giustizia è di natura quasi di terrore. La mia esperienza mi conferma nella convinzione che sia ancora molto alta, e non solo per il mio caso personale, la possibilità di errori. In fondo è più facile difendersi da colpevoli che da innocenti. Un innocente è travolto dalla macchina dei sospetti. Nel mio processo fui trattato con molta durezza. Sembrava che il mio passato non avesse alcun peso. Per settimane ho dovuto leggere il mio nome a carattere cubitali, sui giornali: `Giudice accusato…’. L’assoluzione piena venne invece riportata con una breve notizia”. Imposimato ricorda quei giorni con una profonda amarezza. Tornano in mente sequenze da incubo, sottili insinuazioni, taglienti calunnie: ecco, anche lui, finalmente, il giudice irreprensibile, come gli altri, sul banco degli imputati: “Perfino un’assoluzione, dopo la condanna della pubblica opinione, non è sufficiente a riparare il danno subito”. “Mi fanno paura”, dice ancora Imposimato, “i giudici che sono o si ritengono `preparati’, perché conoscono a memoria i codici. Non è solo la preparazione, che pure occorre, e neanche il coraggio, ma l’equilibrio, la maturità, il senso delle cose. Chi afferma che anche per i giudici andrebbero fatte perizie psichiatriche, o attitudinali, non dice una sciocchezza. Andrebbero bene per evitare di commetterne, di sciocchezze, sulla pelle di gente innocente”. E conclude, come un ritornello inquietante: “E’ più difficile talvolta difendersi da innocenti che da colpevoli”. Parola di magistrato.
Non bisogna dimenticare i casi esemplari e noti come quello di Daniele Barillà, protagonista di un clamoroso caso di errore giudiziario per il quale ha scontato sette anni di carcere e affrontato tre gradi di giudizio prima che venisse riconosciuta la sua innocenza.
Barillà, nei lunghi anni passati in prigione è venuto a conoscenza di altri casi simili al suo? “Tanti, e potrei fare anche i nomi ma sarebbe una mancanza di rispetto. Il vero male è questo maledetto patteggiamento. Molti, anche se innocenti, accettano pur di tornare alle loro case e poter riabbracciare i propri cari. Io potevo uscire dopo 6 mesi ma non ho patteggiato perché ero sicuro di poter dimostrare la mia innocenza. La ‘mitica squadra’….."Già! Di loro faceva parte anche il capitano Ultimo. Seguì la macchina sbagliata, al processo fu uno dei miei accusatori e la sua testimonianza risultò determinante, chi poteva credere che un tale eroe avesse commesso un così grave errore?” Sette anni di carcere, 24 prigioni diverse. Come si può sopravvivere a tanto sapendosi innocente? “Giravo con in mano i verbali dei miei processi e dicevo a tutti che ero innocente. Qui siamo tutti innocenti – mi rispondevano – mica solo tu. Ho capito che ognuno ha i suoi guai.
Esemplare è il caso Mariani e Crosignani. Sane di mente o psichicamente disturbate? Lucide testimoni di gravissimi atti criminali o instabili mitomani da manicomio? Pezzi di giustizia asserviti a potenti poteri criminali o casuali coincidenze? A proporre il dubbio due storie. Protagoniste due donne. Di età, città, vissuti diversi, ma con un unico filo conduttore: due cause di "interdizione," che si inseriscono in vicende per nulla chiare. Piera Crosignani è la prima vittima di una delle due storie ai limiti di ordinaria follia. La vicenda è clamorosa, non fosse altro per i 150 miliardi di lire, che fanno da sfondo o, più propriamente, da protagonisti. La Crosignani, da ricchissima che era, rimane senza nulla. Si trasferisce nella provincia lucchese dove amici l'accolgono e la sostengono.
A non avere dubbio alcuno sull'esistenza di un vero racket delle interdizioni e a denunciarlo pubblicamente e in ogni sede è Claudia Mariani, un'altra vittima di quel meccanismo perverso e criminale che ha rovinato l'esistenza di Piera Crosignani e di chissà quanti come loro.
E’ allucinante il calvario dell’orunese Melchiorre Contena. Riconosciuto innocente dopo 30 anni di carcere. Accusato del sequestro-omicidio Ostini. Negli anni Novanta gli ex latitanti Soru e Mongile confessarono: «I veri colpevoli siamo noi», ma solo nel 2008 viene proclamato l’errore giudiziario.
Questa è la storia di Melchiorre Contena, pastore di Orune (NU), e di sua moglie Miracolosa Goddi.
Il 18 luglio 2008 la corte d’assise d’appello di Ancona ha messo fine a un incubo durato trent’anni, spazzando via l’accusa terribile di sequestro di persona e omicidio che aveva sprofondato Melchiorre Contena nel buio universo chiuso del carcere. E’ l’epilogo di una complicata e contraddittoria storia giudiziaria che ha visto pronunciarsi per quattro volte i giudici di merito e per due quelli di legittimità. Senza contare due pronunce in risposta alla richiesta di revisione del processo. La sentenza finale, quella che stabilisce che Melchiorre Contena è innocente, arriva però quando l’orologio del tempo ha scandito anche l’ultimo giorno della pena.
Tutto comincia alle 22,30 del 31 gennaio 1977. Marzio Ostini, imprenditore milanese di 38 anni, sposato e padre di un bambino di sei, torna nella sua villa “Le Querce”, nella tenuta di Armatello, a San Casciano Bagni, nel Senese. In casa lo attendono tre uomini armati e mascherati. Modi spicci, ruvidi, e poche parole in un inconfondibile accento sardo. Prima di andare via con l’imprenditore milanese dicono a Miscio: «Vogliamo cinque miliardi (poco meno di due milioni e mezzo di euro). E non avverta la polizia, altrimenti il riscatto raddoppia». Marzio Ostini svanisce nel buio insieme ai suoi carcerieri. Marzio Ostini non tornerà mai a casa e il suo corpo non sarà mai ritrovato.
Le indagini si orientano subito verso gli ambienti dei pastori sardi.
Il 25 marzo del 1977, quella che risulterà la svolta nelle indagini: un giovane servo pastore di Fonni, Andrea Curreli, viene trovato in possesso di due targhe appartenenti a un’auto rubata alcuni mesi prima. A fine aprile, i giornali pubblicano un messaggio della famiglia del rapito che dice di essere disposta a pagare 300 milioni di lire a chiunque sia in grado di fornire informazioni utili alla liberazione di Marzio. Dopo qualche giorno, lo stesso Curreli si presenta spontaneamente alla stazione dei carabinieri di Montefiascone e racconta di essere stato invitato, nell’ottobre del 1976, nel podere di Melchiorre Contena, a una riunione nella quale si era pianificato il sequestro di Carlo Ostini, il padre di Marzio. E fa i nomi di tutti i partecipanti a quel summit: Melchiorre, Bernardino e Battista Contena, Marco Montalto, Giacomino Baragliu e Pasquale Delogu. Di più: dice che successivamente Baragliu e Battista Contena, ubriachi, gli avrebbero confidato di aver ucciso Marzio Ostini.
I Contena, Baragliu, Delogu e Montalto finiscono in carcere e, poco dopo, vengono arrestati anche altri due sardi: Pietro Paolo De Murtas e Gianfranco Pirrone. Sconcertante il comportamento di Curreli che, con due lettere in due occasioni diverse, ritratta tutto, ma poi davanti al giudice istruttore reitera le accuse.
Non basta: le sue versioni altalenanti vengono smentite da molte verifiche degli investigatori ed emerge che Curreli in passato era stato servo-pastore dai Contena che poi lo avevano allontanato perché inaffidabile sul lavoro. E il giovane servo pastore non aveva mai nascosto il suo rancore per i tre fratelli di Orune.
Dopo qualche mese finisce in carcere anche il pastore di Paulilatino Antonio Soru, trovato con alcune banconote provenienti dal sequestro Ostini. Andrea Curreli, dunque, è l’unico vero pilastro dell’accusa. Per dire la verità, si rivela subito un pilastro molto fragile. Tanto che, nel corso del processo, celebratosi davanti alla corte d’assise di Siena, la sua versione frana clamorosamente. La difesa porta in udienza l’impressionante curriculum del “super accusatore”: 35 denunce per falsa testimonianza, simulazione di reato e furto. Melchiorre Contena e gli altri imputati il primo marzo del 1979 vengono assolti.
La corte d’assise d’appello di Firenze, il 21 febbraio del 1980, arriva alle stesse conclusioni: Curreli, che si è addirittura autoaccusato dicendo di essere stato il vivandiere della banda, è inattendibile e l’assoluzione per Melchiorre Contena viene confermata.
Sembra tutto finito. E invece la Cassazione riapre i giochi: accogliendo il ricorso della procura generale, rinvia il processo alla corte d’assise d’appello di Bologna che, senza neppure riaprire l’istruttoria dibattimentale, ribalta le sentenze di Siena e Firenze. Per Melchiorre Contena la condanna è a trent’anni di carcere. In estrema sintesi, i giudici di Bologna giudicano Curreli attendibile. Eppure sulla sua credibilità ha sempre avuto fortissimi dubbi perfino il suo avvocato, Fabio Dean, diventato famoso come difensore del gran maestro della loggia massonica P2, Licio Gelli.
Curreli, uscito di galera subito dopo il processo, sarà assassinato poco tempo dopo alla periferia di Roma. Ma il caso Ostini si evolve anche in un processo parallelo. Antonio Soru di Paulilatino, Pietrino Mongile di Ghilarza e Lussorio Salaris di Borore sono sospettati fin dall’inizio di essere coinvolti nel rapimento. Nel luglio del 1986, Salaris viene ucciso nel suo podere di San Donnino, al confine delle province di Perugia e Terni. Per questo delitto, il 5 dicembre 1989, vengono condannati Soru e Mongile a 27 anni e sei mesi. Secondo la corte d’assise d’appello di Perugia, Salaris sarebbe stato punito perché avrebbe tenuto per sè parte del riscatto proveniente da un sequestro di persona compiuto dai tre e avrebbe poi cercato di “vendere” i suoi due complici ai carabinieri. Conferme clamorose arrivano prima da Antonio Soru nel 1993 e poi da Mongile tre anni dopo. I due raccontano infatti che il sequestro era stato organizzato da loro e da Salaris e che quest’ultimo aveva ucciso l’ostaggio con un colpo di piccone in testa perché aveva paura di essere scoperto. Soru e Mongile dicono anche che loro non erano d’accordo sulla soppressione dell’ostaggio e che avevano eliminato Salaris perché questi si era tenuto parte del riscatto e li aveva poi traditi. Le loro confessioni sono suffragate da robusti riscontri.
Si arriva così a due sentenze radicalmente contraddittorie, a due verità insanabilmente incongruenti.
E’ quello che giuridicamente viene definito conflitto di giudicati. Eppure quella della revisione del processo per Melchiorre Contena è una strada ancora lunga. Infatti, nel 2002 la corte d’assise d’appello di Ancona dice no alla riapertura del processo. Ma nel maggio del 2004 la Cassazione interviene e trasmette gli atti del processo alla corte d’assise d’appello dell’Aquila che, nel luglio scorso, dice che Melchiorre Contena è innocente.
Ora, anche per gli altri sette imputati, si apre la porta della riabilitazione. Dopo trenta lunghissimi anni.
"Ci voleva il suicidio di Lombardini perché decidessero di occuparsi di quel che succede qua", commentava ieri, con sardo disincanto, un magistrato isolano. Eh sì, perché il palazzo di giustizia di Cagliari si chiama da molti anni "palazzo dei veleni". Proprio come quelli di Roma e di Palermo. Con una differenza: i veleni mafiosi palermitani e quelli politici romani sono sempre diventati, nel momento stesso della loro sintesi chimica, veleni nazionali, mentre i veleni sardi, fino al suicidio Lombardini, sono sempre rimasti sardi. Eppure con quelli nazionali avevano molti punti in comune. In alcuni casi li hanno anticipati. La Sardegna ha avuto un "caso Tortora" due anni prima di quello "vero". Si chiamava "caso Manuella", dal nome di un civilista assassinato nell' aprile del 1981. Per l' omicidio Manuella, e per traffico di droga, finirono in manette quattro avvocati: uno di loro, Aldo Marongiu, morì di tumore, proprio come Enzo Tortora, pochi anni dopo la fine della sua tragedia giudiziaria. L' inchiesta si era svolta in un cupo clima inquisitorio, con tre pentiti che adeguavano progressivamente le loro menzogne alle esigenze dell' accusa. Finì dopo due anni, con l' assoluzione dei quattro avvocati e, in seguito, con una veloce e indulgente indagine del Csm sui metodi del pm Enrico Altieri e del giudice istruttore Fernando Bova che lasciò con l' amaro in bocca l' inferocito foro di Cagliari. Luigi Lombardini era allora capo dell' ufficio istruzione. Sostenne, salvo defilarsi ai primi scricchiolii della tesi accusatoria, la sgangherata indagine dei due colleghi. Aveva altro di cui occuparsi. Risolveva a raffica tutti i sequestri di persona degli anni 77-79, i latitanti cadevano nelle sue mani come tordi, i giornali esaltavano il giudice-sceriffo. Le denunce di qualche avvocato sui suoi metodi di indagine (gli interrogatori con la pistola sulla scrivania, i testimoni accusati di concorso per indurli a parlare, etc. etc.) non trovavano ascolto da nessuna parte. Nemmeno al Csm. In quegli anni l' Anonima era arrivata a tenere contemporaneamente in ostaggio diciannove persone, tra le quali tre cittadini inglesi e i cantanti Fabrizio De André e Dori Ghezzi. Lombardini aveva risolto quella situazione. E se qualche pastore innocente era rimasto stritolato, pazienza: i garantisti, allora, erano meno, ed erano più poveri, di oggi. Le cose cominciarono a cambiare quando, a metà degli anni 80, andò in pensione il procuratore generale Giuseppe Villasanta, magistrato potentissimo, considerato una specie di viceré della Sardegna. Col pensionamento di Villasanta, Lombardini perse un grande protettore, l' uomo che ne aveva fatto il giudice unico antisequestri, e si rafforzò il fronte avverso. Si era trattato - per quanto queste categorie possono valere nel mondo giudiziario - dello scontro tra una destra (Villasanta- Lombardini) e una specie di sinistra. Sul fronte opposto a quello del giudice-sceriffo c'erano infatti Magistratura democratica (uno dei leader era il sostituto procuratore antimafia Mauro Mura), qualche altro giudice garantista, e il composito e sempre fluttuante mondo forense. Così quando alla procura generale di Cagliari fu nominato Francesco Pintus, ex senatore della Sinistra indipendente, si pensò che la partita fosse definitivamente chiusa. Nessuno poteva immaginare che sullo stagno dei veleni cagliaritani si stava per rovesciare l' autobotte dei veleni milanesi e romani. Nessuno aveva preso in considerazione l'esplosiva personalità di Pintus, uomo temerario fino all'autolesionismo, come lo strabiliante incontro con Grauso dimostra. Ex membro della sezione di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale, Pintus cominciò a entrare in conflitto con la sinistra quando, in una intervista, prese le difese dell' ammazza- sentenze. Qualche tempo dopo, nel discorso inaugurale, attaccò i metodi del pool di Borrelli. La sua domanda per la procura generale di Milano fu letta come una specie di dichiarazione di guerra. Schiacciato, come si dice, "a destra", il garantista di sinistra Pintus divenne il principale sponsor dell'ormai ex sceriffo Lombardini nella corsa, perduta, per la guida della procura della Repubblica di Cagliari. Quasi contemporaneamente perse la sua corsa per Milano. Negli ultimi due anni gli esposti e i contro esposti sardi hanno tempestato il Csm. Un giudice di Sassari, Gaetano Cau, che accusa Lombardini e Pintus di interferenze; Pintus che invia al Csm un'intervista di Cau; Lombardini che viene alle mani col pm Paolo De Angelis; l'ex procuratore Franco Melis che segnala le interferenze di Lombardini nelle indagini sui sequestri; otto sostituti che sottoscrivono un esposto contro Pintus. Sarà un caso, ma il Csm ha cominciato a occuparsi seriamente dei veleni cagliaritani quando, con Pintus, hanno varcato il Tirreno. Per la prima volta sugli uffici giudiziari sardi, con le loro miserie e le loro deviazioni, è stato acceso un grosso riflettore.
A Caserta marcire in prigione senza avere colpe. Era il destino di Alberto Ogaristi, operaio accusato di omicidio, condannato all´ergastolo. Ma, ancora prima, segnato dalla "tragedia" di essere nato a Casal di Principe. Tutto perso. Fino a quando le parole di un pentito offrono alla coscienza di un pm e alla determinazione di un avvocato il riscontro: «Non fu lui». Eppure non basta. Passeranno giorni, forse mesi, forse anni, prima che la giustizia della logica si traduca in quella delle carte. Prima che un innocente possa riprendersi la propria esistenza.
La fetta di paese che non si arrende, sorride. Senza brindisi. E in una palazzina di via Giovanni Spadolini, a Casal di Principe, la madre dell´ergastolano che non aveva colpe da espiare, Teresa Ricciardi, si tormenta le mani, aspettando che torni libero il suo Alberto. «Ce l´avevo a morte con la giustizia. Pure i cortei e la fiaccolata mi hanno impedito. I parroci, don Franco Picone e don Carlo Aversano, ci erano vicini. Ora dico: ridatemelo presto. Mio figlio esce a testa alta».
Eccolo il caso di Alberto Ogaristi, «muratore e stuccatore», dall’età di 15 anni, da Reggio Emilia in Germania. Nato a Casal di Principe, incensurato e figlio di persone incensurate, primogenito del proprietario di un bar poi ammalatosi di cirrosi epatica, Alberto viene arrestato il 6 luglio 2007 come presunto killer del pregiudicato Antonio Amato - ucciso il 18 febbraio del 2002, nella faida di Villa Literno. Ad accusarlo è il cognato della vittima del raid, un cittadino albanese, Qoqu Telat, sfuggito per miracolo (oggi tornato in Albania, irreperibile). L´albanese crede di riconoscere l´assassino nella foto segnaletica di Alberto Ogaristi. I magistrati non credono all´alibi raccontato dalla fidanzata di allora (oggi è sua moglie: ma si erano appartati in auto, lei si vergognava di farlo sapere, ed esitò nella deposizione). Lui viene assolto in primo grado, ma condannato in appello. Con sentenza passata in giudicato. Ergastolo. Invece. È un clamoroso errore giudiziario. Svelato, definitivamente, dalle indagini dei carabinieri di Caserta e dai pm Raffaello Falcone e Marco Del Gaudio, che con un´ordinanza inchiodano tre pregiudicati per quel delitto: Luigi Guida, di 59 anni, Luigi Grassia, di 36 e Gaetano Ziello, di 29 (ai quali la misura è stata notificata in carcere). E scagionano di fatto, sulla scorta del racconto del pentito Emilio Di Caterino - che a sua volta conferma quanto dichiarato dal collaboratore Massimo Iovine - l´innocente Alberto. Tuttora detenuto nel carcere di Rebibbia. E ora a Casale, la signora Teresa bacia santini e madonne. «Scrivetelo che avevamo fatto di tutto per fare venire a galla la verità. Tutto sembrava perso. Ma non ho mai smesso di pregare». È una cinquantasettenne invecchiata di colpo, famiglia di contadini, quattro figli. Prova ad assaggiare un sollievo che sa di non potere ancora abbracciare. Anche il suo avvocato, Romolo Vignola, penalista tenace del foro di Santa Maria Capua Vetere, un professionista che non ha smesso di credere che l´antidoto alla malagiustizia fosse riposto nelle pieghe più asciutte e pazienti della giustizia, suggerisce moderazione: «Ci dà conforto sapere che ormai l´innocenza di Alberto è una verità sostanzialmente acquisita. Ma tecnicamente dobbiamo superare ostacoli importanti. Impossibile dire tra quanto tempo il mio assistito lascerà il carcere. Purtroppo siamo ancora alla fase del rigetto opposto alla nostra istanza di revisione del processo. Passaggi che due genitori non capiscono. Ma si fideranno, ancora. L´avvocato Vignola dice grazie ad un magistrato, in particolare: «Con encomiabile e davvero laica capacità di ascolto il pm Falcone che aveva sostenuto la pubblica accusa è stato poi il primo a lottare con noi, quando si è reso conto, già nel dicembre 2007, che il pentito Iovine scagionava Ogaristi. La stessa Procura generale di Napoli si è attivata». Si attende solo che giustizia sia fatta.
Le nostre TV e i nostri giornali sono pieni di storie inutili di gente senza arte, né parte, riportate da giornalisti inutili senza arte, né parte. E’ doveroso da parte mia, Antonio Giangrande riportare ai posteri la vicenda di un eroe contemporaneo. Piccole e grandi storie di questa Italia alla rovescia. Tutta la Stampa ne parla. A volte non basta una confessione per essere certi di avere un colpevole di un reato. Lo dimostra la sentenza della Corte d'appello di Reggio Calabria che dopo 21 anni, due mesi e 15 giorni di detenzione ha assolto per non aver commesso il fatto Giuseppe Gulotta, 55 anni, accusato della strage alla casermetta di Alcamo Marina, in Sicilia. Il fatto avvenne il 27 gennaio 1976, quando vennero uccisi due carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, all'epoca poco più che diciottenni. Dai loro armadietti sparirono divise e armi, e altri effetti personali. Dopo la strage, il 13 febbraio, venne fermato con due armi sull'automobile Giuseppe Vesco. Una delle pistole era una Beretta calibro 9, in dotazione alle forze dell'ordine. Il ragazzo disse che doveva solo consegnarle armi sulla spiaggia, fu interrogato e fece i nomi di Giuseppe Mandalà, che venne trovato in possesso di armi, e dei presunti complici, Gaetano Santangelo, Vincenzo Ferrantelli e Gulotta, diciannovenne all'epoca dei fatti. Quest'ultimo si è sempre dichiarato innocente, ma fu condannato all'ergastolo con sentenza definitiva nel 1990. Eppure dopo diversi anni a l'ex brigadiere Renato Olino, che si occupò del caso, ha rivelato che per far confessare Vesco erano stati usati metodi persuasivi "eccessivi", scagionando di fatto il condannato. Ci sono voluti però altri nove processi, tra rinvii della Cassazione e questioni procedurali, perché la Suprema Corte concedesse la revisione del processo, iniziata finalmente nel 2009. Nel frattempo, Vesco è stato trovato impiccato nell'infermeria del carcere di Trapani, ma l'ipotesi di una sua confessione forzata è stata confermata anche dalle parole di un collaboratore di giustizia siciliano, Vincenzo Calcara.
Gulotta, 21 anni all'ergastolo da innocente.
"Ho sempre sostenuto di non avere colpe". Giuseppe Gulotta è stato condannato all'ergastolo per l'uccisione di due militari ad Alcamo, nel 1976. Ha pagato questo reato con la propria libertà. Dal 1990 è in carcere. Negli ultimi mesi del 2007, un ex brigadiere dell'Arma dei Carabinieri, Renato Olino, membro del nucleo anti-terrorismo di Napoli, che partecipò allora alle indagini, ha raccontato la sua verità: "Confessò perché lo torturammo". Assolto dopo aver trascorso ventidue anni di carcere. Giuseppe Gulotta è stato scarcerato dopo la sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria che l’ha ritenuto estraneo alla strage alla casermetta di Alcamo Marina, in Sicilia, avvenuta il 26 gennaio del 1976. «Aspettavo questo momento da 36 anni» ha detto Gulotta. L’uomo era stato accusato ingiustamente di essere l’autore della strage dove morirono due carabinieri diciottenni, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta.
La vicenda di Giuseppe Gullotta è articolata da una serie di processi. Il primo capitolo l’aveva scritto la Corte d’Assise di Trapani che aveva assolto l’imputato. La Corte d’Assise di Palermo però, ribaltò il verdetto e lo condannò all’ergastolo. I legali ricorsero in Cassazione che annullò quella condanna e trasferì gli atti nuovamente a Palermo, ad altra sezione. Nuova condanna all’ergastolo per Gulotta. Stessa decisione presero successivamente le Corti d’Appello di Caltanissetta e Catania, investite da altri rinvii trasmessi dalla Cassazione. Nel 1990 la sentenza è divenuta definitiva.
L’imputato non si è mai arreso. I suoi difensori Baldassarre Lauria e Pardo Cellini hanno cercato e trovato nuovi elementi per far riaprire il caso. Una prima istanza di revisione del processo presentata a Messina fu annullata. I legali si rivolsero ancora una volta in Cassazione che ha accolto la revisione inviando gli atti alla Corte d’Appello di Reggio Calabria. Al processo i giudici reggini hanno raccolto nuove testimonianze, tra cui quella dell’ex brigadiere Renato Olino, all’epoca in servizio al reparto antiterroristico di Napoli che si occupò dell’inchiesta sulla strage. Il brigadiere ha fatto alcune ammissioni: in particolare ha riferito che ci furono dei «metodi persuasivi eccessivi» per far «cantare» un giovane Giuseppe Vesco, che finì con accusare Gulotta. Il pentito Vincenzo Calcara, poi, sentito in videoconferenza ha dichiarato di aver appreso in carcere dell’estraneità alla strage di Gulotta. Nella sua requisitoria il procuratore generale Danilo Riva ha chiesto l’assoluzione dell’imputato. «Spero che anche per le famiglie dei due carabinieri sia fatta giustizia» ha detto Gulotta, avvicinato dai giornalisti dopo la sentenza.
Ventuno anni all'ergastolo, era innocente.
"Chi mi ridarà la mia vita perduta?".Giuseppe Gulotta aveva 18 anni quando venne prelevato e portato nella caserma dei carabinieri di Alcamo come sospettato dell'omicidio di due militari dell'Arma. Venne picchiato e seviziato per ore finché non confessò quello che non aveva fatto. Poi ritrattò invano. Il processo nel '90 con la condanna a vita. Nel 2007, con il pentimento di uno dei carabinieri che parteciparono all'interrogatorio, il nuovo processo e, oggi, la sentenza: "Non è colpevole. Lo Stato deve restituirgli libertà e dignità". Dopo 21 anni, 2 mesi, 15 giorni e sette ore di carcere, Giuseppe Gulotta, adesso cinquantenne, ha ottenuto giustizia e dignità. Alle ore 17,35 di oggi la Corte d'Appello di Reggio Calabria dove si è celebrato il processo di revisione, ha pronunciato la sentenza. Giuseppe Gulotta è innocente, e da oggi non è più un ergastolano, non è l'assassino che il 26 gennaio del 1976 avrebbe ucciso, assieme ad altri complici, due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, in un attentato alla caserma di Alcamo Marina, un paese al confine tra le province di Palermo e Trapani.
"Gulotta non c'entra nulla; abbiamo il dovere di proscioglierlo da ogni accusa e restituirgli la dignità che la giustizia gli ha indebitamente tolto" ha detto oggi la pubblica accusa prima che la corte si riunisse in camera di consiglio per emettere una sentenza di assoluzione che Giuseppe Gulotta attendeva da troppo tempo. Da quando, 35 anni fa, appena diciottenne, fu arrestato, condotto in carcere e, più tardi, dopo la durissima trafila dei diversi gradi processuali, condannato all'ergastolo definitivamente. E con lui gli altri tre suoi presunti complici: due sono ancora latitanti in Brasile; il terzo, Giuseppe Vesco, si suicidò in carcere qualche anno dopo il suo arresto.
Ad accusare Gulotta della strage fu appunto Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi - in circostanze non del tutto chiare - nelle carceri di ''San Giuliano'' a Trapani, nell'ottobre del 1976. A provocare la revisione del processo che si è finalmente concluso oggi con l'assoluzione di Gulotta, sono state le dichiarazioni, molto tardive, di un ex ufficiale dei carabinieri Renato Olino che nel 2007 raccontò che le confessioni di Gulotta e degli altri erano state ottenute a seguito di terribili torture da parte dei carabinieri. Olino, che si era dimesso dal'Arma proprio in seguito alla vicenda di Alcamo, non aveva retto al rimorso e aveva deciso di dire la verità. Gli altri carabinieri, oggi quasi tutti molto anziani, hanno fatto qualche ammissione o si sono rifiutati di rispondere. Ma la giustizia ha trovato elementi sufficienti per il processo di revisione e per questa assoluzione che, inevitabilmente, dovrebbe aprire la strada a un congruo risarcimento per gli imputati. Anche per gli altri due condannati, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, fuggiti all'estero prima che la condanna diventasse esecutiva, ci sarà adesso la revisione.
La notte del 27 Gennaio di quell'anno Carmine Apuzzo (19 anni) e l'appuntato Salvatore Falcetta, due militari dell'Arma, furono trucidati da alcuni uomini che avevano fatto irruzione nella piccola caserma di Alcamo Marina. L'attacco suscitò ovviamente forte impressione in Sicilia e in tutta Italia. Si puntò sulla pista politica e finirono nel mirino delle indagini alcuni giovani di sinistra. Pochi giorni dopo venne fermato un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, trovato in possesso di una pistola in dotazione ai carabinieri. La sua casa venne perquisita e saltò fuori anche l'arma utilizzata per il delitto. Il giovane, però, si dichiarò estraneo ai fatti affermando soltanto che aveva avuto il compito di consegnare delle armi. In seguito alle pressioni dei carabinieri, Giuseppe Vesco cambiò rapidamente la sua versione: condusse gli inquirenti al luogo in cui erano conservati gli indumenti e gli effetti personali dei due agenti uccisi (in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico), dichiarò di aver fatto parte del commando che aveva fatto irruzione nella casermetta e fece il nome dei suoi tre complici: Gulotta, Ferrantelli e Santangelo.
Dopo poco tempo Vesco ritrattò tutto e dichiarò che quanto da lui affermato era stato ottenuto in seguito di terribili torture. Nelle sue lettere dal carcere San Giuliano di Trapani descrive minuziosamente il comportamento dei carabinieri e come erano state estorte le confessioni dei fermati. Ma pochi giorni prima di essere nuovamente ascoltato dagli inquirenti, venne trovato impiccato nella sua cella, con una corda legata alle grate della finestra, cosa resa abbastanza difficile dal fatto che a Vesco era stata amputata una mano a causa di un incidente. E proprio a questa vicenda si legano le confessioni del pentito Vincenzo Calcara, che lascia intravedere una verità fino ad ora soltanto accennata, ma resa più concreta anche da alcune rivelazioni in cui si attesta una collaborazione tra mafia e Stato. Calcara avrebbe affermato che gli venne intimato di lasciare da solo in cella Giuseppe Vesco e che lo stesso venne ucciso da un mafioso aiutato da due guardie carcerarie. Anche quanto affermato dal pentito Peppe Ferro libera i quattro dalle gravi accuse: "Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati... Erano solamente delle vittime... pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto".
Dopo la chiamata di correità di Vesco, Giuseppe Gulotta fu arrestato e massacrato di botte per una notte intera. La mattina, dopo i calci, i pugni, le pistole puntate alla tempia, i colpi ai genitali e le bevute di acqua salata, avrebbe confessato qualunque cosa e firmò un documento in cui affermava di aver partecipato all'attacco alla caserma. Il giorno dopo, davanti al procuratore, Gulotta ritrattò tutto e provò a spiegare quello che gli era successo. Non venne mai creduto, neanche al processo che, nel 1990 lo condannò in via definitiva all'ergastolo. Poi, nel 2007, la confessione di Olino e la revisione chiesta e ottenuta dal suo avvocato Salvatore Lauria. Oggi l'assoluzione. Ma Giuseppe Gulotta ha trascorso gran parte della sua vita in carcere. Durante un breve periodo di soggiorno si è sposato con la donna che lo ha sempre "protetto" e che gli ha dato un figlio. Adesso, completamente libero, andrà a vivere a Certaldo, in Toscana, dove, da quando è in semilibertà, fa il muratore. "Sono felice di essere stato riconosciuto finalmente innocente. Ma chi potrà mai farmi riavere la gioventù che ho passato in carcere, chi potrà mai darmi quegli anni che ho perduto senza potere crescere mio figlio?". spettavo questo momento da 36 anni".
Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia. "Non ce l'ho con i carabinieri" - Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". "Fatta giustizia giusta" - Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". La vicenda - Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.
Venti anni in galera: Gulotta è innocente.
Le rivelazioni di un carabiniere: "Confessò perché lo torturammo". Giuseppe Gulotta è in carcere dal ’90 per l'uccisione di due militari ad Alcamo, avvenuta nel 1976: "Ho sempre detto delle sevizie. Nessuno mi ha mai creduto".
Era poco più che maggiorenne, Giuseppe Gulotta siciliano di Alcamo Marina (Trapani), quando iniziò il suo lungo calvario, che attraverso nove processi lo ha portato dietro le sbarre con l’accusa di duplice omicidio per la strage di Alcamo Marina del gennaio 1976. Condannato all’ergastolo per aver ucciso — in concorso con due complici tuttora latitanti — due carabinieri trucidati in caserma. Condannato ma innocente. Reo confesso, ma sotto tortura. L’ha gridata, la sua innocenza, attraverso 14 anni e 9 processi. Ma inutilmente: l’ergastolo lo sta scontando dal ’90, nel carcere di Ranza di San Gimignano (Siena). Una speranza si è accesa nell’autunno del 2007, quando Renato Olino, brigadiere in congedo dei carabinieri del Nucleo antiterrorismo, che indagò sul duplice omicidio, rivelò al sostituto procuratore di Trapani che la confessione di Gulotta, effettivamente, fu estorta con la violenza. Ci sono voluti tre anni di battaglie legali per ottenere la revisione del processo. Oggi, a distanza di 34 anni dai fatti, la testimonianza di Olino, sarà ascoltata dai giudici della Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria (cui è stato affidato il nuovo processo).
Gulotta, che adesso ha 53 anni, in tutto questo tempo si è sempre professato innocente. Per la sua buona condotta gli è stato concesso anche il regime di semilibertà: di giorno lavora come muratore a Poggibonsi, quando smonta raggiunge a Certaldo la sua compagna Michela (dalla quale ha avuto anche un figlio, William di 22 anni), ma a mezzanotte è costretto a tornare in cella.
«Il mio calvario — racconta — cominciò quel maledetto giorno di molti anni fa quando insieme ad altri due giovani alcamesi fummo sospettati di aver ucciso l’appuntato Salvatore Falcetta e il militare Carmine Apuzzo che dormivano in caserma. Gli inquirenti che facevano parte di un commando antiterrorismo di Napoli, mandato apposta per indagare sul caso, ci arrestarono e ci sottoposero ad un terribile interrogatorio dove ci torturarono per farci confessare». I tre giovani, tra l’altro accusati dalla testimonianza di Giuseppe Vesco, un alcamense psicolabile, conosciuto con il nomignolo di «Peppe ‘u pazzu», davanti al magistrato ritrattarono tutto, ma nessuno li credette più. Tutti colpevoli, tutti condannati all’ergastolo. L’unico, però, che ha conosciuto il carcere è stato Gulotta, perché gli altri si sono dati alla latitanza in Brasile, da dove hanno chiesto inutilmente la grazia.
A distanza di anni, però, Renato Olino è pronto a raccontare ai giudici gli sconcertanti retroscena sui metodi utilizzati durante l’interrogatorio di molti anni fa. Rivelazioni che l’ex carabiniere aveva già fatto al sostituto procuratore di Trapani nel 2007 e che hanno permesso agli avvocati, Baldassarre Lauria e Pardo Cellini, di chiedere alla Cassazione la revisione del processo a carico di Gulotta.
Giuseppe Gulotta, condannato per la strage della casermetta di Alcamo Marina del 27 Gennaio 1976, in cui furono uccisi barbaramente nel sonno i due militari Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, e furono rubate, dopo la strage, armi, munizioni e divise.
La svolta sulle indagini avvenne il 13 febbraio. A un posto di blocco fu fermato un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, su una Fiat 127 verde con una targa di cartone “Trapani 121”. Questi aveva in mano una pistola (si pensa che fosse scarica dato che il giovane aveva un arto amputato) e dopo una perquisizione ne venne trovata una seconda. Era una Beretta in dotazione ai carabinieri, probabilmente rubata durante l’omicidio della casermetta. Dopo una perquisizione a casa del ragazzo e attente analisi si dimostrò che Vesco era in possesso dell’arma del delitto. Fu dunque interrogato dai carabinieri ma questi negò in modo deciso la sua partecipazione all’agguato dicendo che doveva solo consegnare le armi a qualcuno. Dopo aver negato in tutti i modi la sua partecipazione alla strage improvvisamente il fermato Vesco cambiò versione.
Vesco fece ritrovare armi e divise in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico. Vesco confessò di aver partecipato alla strage insieme ad altri tre ragazzi: Gaetano Santangelo, Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrantelli. I tre ragazzi alcamesi più il partinicese Mandalà furono tutti tratti in arresto per omicidio e costretti a confessare firmando un verbale di riconoscimento di colpevolezza. La versione accertata dei fatti fu la seguente: Giovanni Mandalà, il bottaio di trentotto anni di Partinico, avrebbe forzato la porta della caserma con la fiamma ossidrica e a sparare invece sarebbero stati Giuseppe Gulotta e Gaetano Santangelo, due giovani alcamesi di diciannove e diciassette anni, mentre Vincenzo Ferrantelli, uno studente di sedici anni di Alcamo, avrebbe solo messo a soqquadro le stanze.
30 anni dopo, il colpo di scena. Negli ultimi mesi del 2007, un ex brigadiere dell’Arma dei Carabinieri, Renato Olino, membro del nucleo anti-terrorismo di Napoli, che partecipò allora alle indagini, ha spiegato come si sono svolti veramente i fatti. Dopo 32 anni dall’accaduto l’ex brigadiere Olino ha affermato chiaramente che sia a Vesco che agli altri ragazzi accusati, le confessioni furono estorte con violenza. Vennero messi nelle loro bocche imbuti e versati al loro interno grossi quantitativi di acqua e sale. Gli accusati furono anche picchiati e venne usato anche un “telefono da campo” in grado di produrre scariche elettriche per torturare ulteriormente i fermati. Giuseppe Vesco però aveva dichiarato già nel 1976, dopo aver firmato la sua colpevolezza, di essere stato torturato. Dopo qualche mese da quel tragico gennaio 1976 Vesco aveva provato anche a scagionare i presunti complici, purtroppo senza riuscirci. Ma il 26 ottobre del 1976, pochi giorni prima di essere ascoltato dagli inquirenti: Giuseppe Vesco, nonostante avesse un arto imputato, viene ritrovato impiccato alle sbarre della finestra della sua cella. Gli accusati da Vesco, anche loro torturati, subiscono un’odissea di condanne dopo un iter giudiziario complicato. Ergastolo per il bottaio Giovanni Mandalà, che avrebbe aperto la porta della caserma con la fiamma ossidrica e custodito le armi, ergastolo a Giuseppe Gulotta, che avrebbe sparato, 20 anni a Gaetano Santangelo, che avrebbe sparato anche lui ma allora minorenne, e 20 anni anche a Vincenzo Ferrantelli, che ha rubato armi e divise anche lui minorenne. Mandalà è deceduto di morte naturale dopo essersi fatto diversi anni di carcere, Santangelo e Ferrantelli, tra un appello e l’altro, si sono rifugiati in un paese del Sudamerica che non ha accordi di estradizione con l’Italia.
Il brigadiere Olino s’è presentato spontaneamente nel 2008 davanti al procuratore capo della Procura di Trapani e ha rivelato che furono mandati in galera degli innocenti. Gulotta ha chiesto e ottenuto la revisione del processo. Un collaboratore di giustizia, Leonardo Messina, della famiglia di San Cataldo di Caltanisetta, soltanto recentemente ha illustrato un’altra verità: quando era in carcere a Trapani venne a sapere da altri mafiosi di Alcamo che la strage della casermetta era stato un errore. Era stato stabilito di affidarla ad alcuni affiliati della famiglia di Alcamo ma poi era stato deciso di che non si sarebbe fatta più. Il contro-ordine purtroppo era arrivato troppo tardi e la mafia aveva ugualmente eseguito l’operazione. Perché la mafia doveva eseguire tale strage? Perché Cosa Nostra aveva pianificato una serie di attacchi allo Stato: era stata decisa una vera e propria strategia della tensione. Probabilmente accordi segreti tra mafia e servizi segreti deviati. Un altro mafioso della famiglia di Alcamo, Giuseppe Ferro, conferma che la strage della casermetta non fu eseguita da quei giovani accusati e che la mafia questo lo sapeva bene.
Oggi dopo le rivelazioni di Renato Olino, i magistrati indagano ancora e sono tornati sulle tracce di GLADIO. La presenza di Gladio è documentata a Trapani negli anni 90 (con l’esistenza del misterioso Centro Scorpione) ma le indagini sulla casermetta inducono a ritenere che questa a Trapani ci fosse già da molto tempo prima.
Il 26 gennaio 1976 Apuzzo e Falcetta avrebbero fermato un furgone. Danno l’alt, vogliono vedere cosa trasporta. La scoperta è incredibile: ci sono tantissime casse piene di armi e gladiatori della sede trapanese di Gladio. Tutti vengono portati nella casermetta per il verbale ma Apuzzo e Falcetta vengono uccisi. Un poliziotto del trapanese ha riferito recentemente alla magistratura che una fonte sicura gli riferì nel 1993 la vera storia della strage della casermetta: Il furgone fermato portava armi di Gladio, nella casermetta fu organizzata una messa in scena, forse i carabinieri furono portati altrove e poi riportati morti all’interno della caserma. Dagli armadi probabilmente sparì anche qualcos’altro. E per questo furono uccisi perché non venisse svelata «Gladio» che per vent’anni ancora sarebbe rimasta segreta, ma forse anche per non far svelare qualcos’altro… Le rivelazioni dell’ex brigadiere Olino hanno portato sotto inchiesta i componenti di quel gruppo: Elio Di Bona, Giovanni Provenzano, Giuseppe Scibilia, Fiorino Pignatella. Chiamati a rispondere davanti al pm nonostante la conclamata prescrizione si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Da loro nessuna conferma ma neanche alcuna smentita.
In carcere 11 anni ma era innocente scagionato grazie alla sua compagna. E' lei che non ha mai mollato. Per dieci anni ha cercato le prove per scagionare il compagno, in carcere per omicidio. è lei che non ha mai smesso di credere a quel giuramento. «Sono innocente», le disse prima di essere sbattuto in cella. Giuseppe Lastella, ragioniere di Bari accusato ingiustamente, in carcere c' è rimasto per undici anni. Avrebbe dovuto scontarne trenta se non ci fossero stati l' amore, la tenacia, la forza di Elisabetta che è riuscita a far riaprire il processo e a cambiare un destino baro. Era l'aprile del 1990, in provincia di Cosenza fu ucciso un pregiudicato coinvolto in un traffico di stupefacenti, Domenico Chionna. Prima di morire fece il nome dei suoi killer e indicò un autosalone gestito da Giuseppe Lastella. Il ragioniere fu rinviato a giudizio ma assolto in primo grado. Seguì l' appello del pubblico ministero, e il secondo processo a Catanzaro si concluse con una condanna a trent' anni. La sentenza fu impugnata in Cassazione che l' annullò, affidando il nuovo giudizio alla corte d' Assise di Reggio Calabria. La gioia durò poco, il 26 ottobre del 1994 arrivò di nuovo una condanna a trent' anni, poi confermata a piazza Cavour. Giuseppe Lastella rimase in carcere. Sembrava una situazione irrimediabile, ma Elisabetta decise di non rassegnarsi. Credeva al suo uomo, credeva a ciò che le diceva il cuore. Diventò un segugio. Fu così che si mise a fare indagini per conto suo. E riuscì a trovare nuovi indizi. Gli avvocati chiesero la revisione del processo. Domanda respinta. Elisabetta decise di insistere con l' ennesimo ricorso in Cassazione, che a sorpresa dispose un processo di revisione davanti alla corte d' Appello di Salerno: il giudizio è stato dichiarato ammissibile perché due presunti complici di Lastella dichiararono che questi era completamente estraneo all' omicidio. «Se dopo undici anni la storia è finita bene - dice l' avvocato Gregorio De Palma, del foro di Bari - lo si deve soprattutto all' amore e alla tenacia della compagna dell' imputato. Non lo ha mai abbandonato, ha partecipato a tutti i processi, non ha mai messo di sperare e di lottare».
Un’attenzione a parte merita Taranto: TARANTO: IL FORO DELL’INGIUSTIZIA. ANOMALIA SOTTACIUTA DAI MEDIA E LEGITTIMATA DALLE ISTITUZIONI.
Per gli errori giudiziari non ci sono avvocati locali che hanno il coraggio di mettersi contro i magistrati di Taranto. I Pubblici Ministeri che, presumibilmente, hanno sbagliato, intervengono in processi in cui si dovrebbe acclamare il loro errore e perseguono chi si oppone a questo stato di cose.
"Basta errori giudiziari che distruggono la vita dei cittadini. Basta impunità per i responsabili". Questo dice il dr Antonio Giangrande, Presidente della Associazione Contro Tutte le Mafie, che ha svolto una inchiesta sulla Giustizia in Italia, in generale, e a Taranto, in particolare. Una società civile che permette di tenere in carcere degli innocenti, per essere genuflessa ai poteri forti, è una società collusa e codarda. Dove c’è l’errore giudiziario, lì vi è un’omissione o un abuso d’atti di ufficio da parte del magistrato che non ha saputo o voluto cercare prove a discarico, così come la legge lo obbliga a fare. Dove c’è l’errore giudiziario, lì vi è un infedele patrocinio da parte del difensore che non ha saputo o voluto difendere il proprio cliente, spesso dovuto allo stato d’indigenza dell’indagato/imputato".
Il presidente continua: “Secondo l’Eurispes sono 5 milioni gli italiani vittime di errori giudiziari negli ultimi 50 anni, ma a noi interessano i casi concreti. E’ di questi giorni l’ennesima denuncia, riportata da alcuni giornali, contro la violazione della libertà personale presso il Tribunale di Taranto. Succede a Taranto, ma tutta Italia ne parla. E’ una cosa normale? E, soprattutto, è possibile che simili situazioni siano tollerate?
I fatti. Leggendo i giornali si viene a sapere che alcune persone sono detenute (altre, invece, hanno già scontato la pena detentiva inflitta) per una serie di reati per i quali, invece, si ha il reo confesso con tanto di ritrovamento delle prove. Ma per la giustizia italica tutto ciò non è sufficiente ed in carcere si ritrovano un po’ tutti: innocenti (presunti colpevoli) e colpevole (per sua stessa ammissione).
Il Caso Sebai: l’ingiustizia più grande d’Italia.
La vergogna. Ben Mohammed Ezzedine Sebai (il Killer delle vecchiette), che tra il 1995 e il 1997 si macchiò dell’omicidio di ben 14 anziane tra Puglia e Basilicata. Nonostante il legittimo sospetto che non vi potesse essere serenità di giudizio, ed non essendo prevista la ricusazione del PM, si è permesso di giudicare il Sebai a Taranto con il rito abbreviato per delitti di cui altri già erano stati condannati dal quel foro e accusati, in particolare, dagli stessi PM. Nessuno delle parti in causa (pubblici ministeri, avvocati e giudice), che abbia chiesto la rimessione del processo in altro foro per legittimo sospetto di parzialità nel giudizio.
L’umiliazione. I media tacciono la vergogna. Nella puntata di “Agorà” dell’8 febbraio 2011 su Rai Tre, dalle 9.00 alle 11.00, sarebbe dovuta andare in onda un’inchiesta della giornalista Angela Caponnetto sulla censurata vicenda Sebai. Nell’inchiesta si sarebbero potute ascoltare le parole di Michele Donvito, fratello di Vincenzo, suicidatosi nel carcere di Teramo nel 2005, accusato dell’omicidio di Celestina Commessatti, uccisa nella sua abitazione di Palagiano, in provincia di Taranto, il 14 agosto 1995. Eppure già nel 1999 il tunisino Ben Mohamed Ezzedine Sebai si era dichiarato colpevole dell’omicidio della stessa, confessione rafforzata di particolari e dettagli solo nel 2006. In studio era presente anche la giornalista che per cinque ore ha intervistato Donvito sulla triste vicenda, che ha coinvolto e stravolto la sua famiglia, eppure, a detta del suo conduttore, Andrea Vianello, di tempo non ce n’è stato a sufficienza e il servizio è saltato. La Caponnetto è stata liquidata con delle semplici scuse e la vicenda rimane nell’oblio.
Il 10 febbraio del 2006, Sebai Ezzedine – un 33enne immigrato tunisino - rilascia una confessione al dott. Nobile della Procura di Milano, successivamente confermata dinanzi al P.M. di Taranto Dott.ssa Montanaro, nell'ambito della quale ammette la propria responsabilità in merito all'omicidio di 15 anziane signore. Si tratta di donne sole, sgozzate nelle loro abitazioni, che ricordavano al reo confesso le donne che da bambino lo picchiavano e seviziavano. Sulla decisione del Sebai di confessare la verità e di scagionare persone che egli sapeva con sicurezza essere innocenti ha, senza alcun dubbio, influito il suicidio di Vincenzo Donvito il quale, dopo aver proclamato per anni la sua innocenza, non ha retto al regime carcerario ed al tormento di essere recluso ingiustamente e si è tolto la vita impiccandosi in carcere.
13 agosto del 1995, omicidio di Celestina Commessatti avvenuto in Palagiano (Taranto)– Condannati: Giuseppe Tinelli, Davide Nardelli, Vincenzo Donvito. La confessione del Sebai è supportata da una perquisizione locale effettuata presso un pregiudicato della zona nell'ambito della quale venivano rinvenuti gioielli di sicura appartenenza della Commessatti e che il ricettatore afferma essergli stati venduti da un tunisino rispondente al nome di Fathi Said, pseudonimo di Sebai Ezzedine. Giuseppe Tinelli è recluso presso il carcere di Ivrea da 11 anni, Davide Nardelli ha scontato 7 anni di carcere e Vincenzo Donvito in data 21 luglio 2005, si è tolto la vita all'interno del carcere di Castogno, nei pressi di Teramo, dopo aver scontato 7 anni di carcere. Donvito aveva sempre proclamato, inutilmente, la propria innocenza e si è determinato a togliersi la vita non potendo più reggere il peso di una ingiusta detenzione, nè si era tenuto conto delle testimonianze a discarico.
17 maggio del 1997, omicidio di Pasqua Rosa Ludovico avvenuto a Castellaneta – Condannati: Vincenzo Faiuolo, Francesco Orlandi. Il Sebai nella dichiarazione rilasciata all'autorità giudiziaria afferma la completa estraneità di Faiuolo ed Orlandi ai fatti di sangue per cui sono stati condannati. Uno dei punti fondamentali di questa confessione, e dalla quale si desume l'innocenza degli stessi, è l'individuazione dell'ora esatta della morte della vittima che è avvenuta in un'ora in cui i due fratellastri si recavano nei campi a lavorare e vi rimanevano per tutto il pomeriggio. Alla luce delle dichiarazioni del Sebai veniva emesso decreto di perquisizione locale dell'appartamento di cui il tunisino aveva la disponibilità fino al momento del suo arresto. In data 15.05.2006 il reparto operativo dei Carabinieri di Taranto procedeva ad ispezionare la cantina dove, all'interno di una buca, rinvenivano oggetti che le nipoti della vittima riconoscevano essere appartenuti alla loro zia. In tutti questi casi, il Sebai afferma la completa estraneità dei condannati ai delitti da lui commessi. E, soprattutto, riferisce circostanze precise e pienamente concordanti, relative sia alle modalità che ad i tempi di esecuzione degli omicidi. Le modalità di uccisione delle vittime sono state definite dai periti incaricati del “caso Totaro” come una sorta di “firma dell'autore”. Il Sebai, inoltre, descrive la scena dei crimini con dovizia di particolari dimostrando di essere a conoscenza dello stato dei luoghi in cui i delitti sono stati commessi. Vincenzo Faiuolo (che da 12 anni sconta la propria pena ed attualmente è ristretto presso il carcere di Volterra) e Francesco Orlandi (attualmente in regime di libertà vigilata, dopo aver scontato 11 anni di carcere).
29 luglio del 1997, omicidio di Maria Valente – Condannati: Giuseppe e Arcangela Tinelli, Carmina Palmisano. Il Sebai, già condannato per questo omicidio, confessa di non aver mai conosciuto i coimputati e di aver sempre agito da solo. Anche in questo caso a carico dei condannati non c'è nessuna prova. Infatti in casa della Valente venne rinvenuta solo un'impronta digitale appartenente al Sebai. La procura di Taranto ha rinviato il Sebai a giudizio per l'omicidio della signora Celeste Commesatti e della signora Pasqua Ludovico, ma non per la signora Maria Valente, per il quale il Sebai era già stato condannato unitamente a Giuseppe Tinelli, Arcangela Tinelli e Carmina Palmisano, ritenendo impossibile processare nuovamente il Sebai per lo stesso omicidio, secondo il principio del ne bis in idem. Non ha però preso in considerazione il fatto che, in relazione a detto omicidio, sono stati condannati anche Giuseppe Tinelli (ad oggi ancora ristretto presso il carcere di Ivrea), Arcangela Tinelli e Carmina Palmisano. A questo proposito preme sottolineare come la Procura generale di Taranto avrebbe potuto e, secondo lo scrivente, avrebbe dovuto chiedere la revisione penale della sentenza che vedeva condannati ingiustamente, per l'omicidio della Valente, il Sebai unitamente agli altri tre summenzionati imputati, in quanto questi sono stati scagionati dalle dichiarazioni confessorie di Sebai Ezzadine Ben Mohamed, ed alcuni di loro stanno ancora scontando un'ingiusta pena.
L'innocenza dei condannati è ulteriormente suffragata dalla sentenza emessa dal Gup di Lucera in data 15.02.2008 il quale ha rilevato che nessun dubbio è scaturito dalle emergenze processuali “in ordine alla ricostruzione del fatto ed alla sua ascrivibilità ad un'azione cosciente e volontaria del Sebai”. La confessione del serial killer delle vecchiette, Ben Mohamed Ezzedine Sebai, tunisino di 44 anni, è “pienamente attendibile”: lo scrive il gup del tribunale di Lucera (Foggia) Carlo Chiriaco motivando la sentenza con la quale, il 15 febbraio, ha condannato Sebai a 18 anni di reclusione (con rito abbreviato) per l’omicidio di Celeste Madonna, di 81 anni, uccisa a Lucera il 25 aprile 1996.
A seguito delle dichiarazioni confessorie formulate da Sebai Ezzadine Ben Mohamed, in riferimento alla posizione di Giuseppe Tinelli l'avvocato Claudio Defilippi, difensore di quest'ultimo ha proposto istanza di revisione presso la Corte d'Appello di Potenza, presentata in data 2 settembre 2008, avverso la sentenza n. 05.1998 che lo riteneva colpevole, in concorso con Davide Nardelli e Vincenzo Donvito, dell'omicidio della signora Celestina Commesatti (omicidio avvenuto in Palagiano il 13 agosto 1995) ed una successiva istanza di revisione volta ad ottenere la revoca della sentenza n. 06 del 2002 che lo riteneva colpevole, in concorso col Sebai Ezzedine, in qualità di esecutori materiali dell'omicidio di Maria Valente (omicidio avvenuto in Palagiano il 29 luglio 1997). La prima istanza di revisione è stata rigettata dalla Corte d'Appello di Potenza che ha ritenuto inesistente un contrasto di giudicati, non essendo ancora pervenuti ad una sentenza di condanna definitiva in ordine ai fatti dei quali si è autoaccusato il Sebai. Sulla seconda istanza di revisione l'esito negativo è scontato. Anche in riferimento alle posizioni di Vincenzo Faiuolo e Francesco Orlandi l'avvocato Claudio Defilippi ha presentato due istanze di revisione davanti alla Corte d'Appello di Potenza, volte ad ottenere la revoca della sentenza che li ha ritenuti responsabili, in concorso tra loro, dell'omicidio di Pasqua Ludovico. Anche queste istanze di revisione sono state rigettate. Le dichiarazioni confessorie del Sebai Ezzadine Ben Mohamed, a seguito delle quali lo stesso è stato mandato a giudizio per gli stessi fatti, evidenziano la possibilità dell'esistenza di gravi errori giudiziari. Si tenga presente, a questo proposito, che sono già stati comminati a persone presumibilmente innocenti complessivi 100 anni di carcere, con il conseguente pericolo per lo Stato italiano di dover pagare ingenti somme a titolo di risarcimento per detti errori giudiziari, pari a 100 milioni di euro, più spese processuali. Tutto a carico della collettività e non dei responsabili.
A questo punto la “logica” e i precedenti giurisprudenziali vorrebbero che – di fronte all’ammissione di colpa da parte di Sebai Ezzedine ed in base ai riscontri oggettivi – i condannati innocenti venissero scarcerati, almeno coloro che non sono già fuori dopo aver scontato una pena ingiustificata. E invece nulla, perché la giustizia (e la “g” è minuscola non a caso) prima di tirarli fuori dalle patrie galere attende che il tunisino venga condannato in via definitiva di fronte alla Cassazione per i quindici delitti commessi in terra pugliese. Si noti bene, l’attesa secondo i tempi biblici italici. Potenza, competente per il processo di revisione risponde di no. "Sebai è credibile, ma questo non basta”.
Invece a Taranto, dove il 19 dicembre 2008 e l’8 gennaio 2009 si è tenuta l’udienza contro Sebai, questo non è credibile, perché si è autoaccusato dei delitti solo per scagionare i veri responsabili, che ha conosciuto in carcere. La richiesta di assoluzione per il Sebai è giunta da parte del Pm Pina Montanaro al termine del processo con rito abbreviato per l’uccisione di Grazia Montemurro, di 75 anni (Massafra, 4 aprile 1997), e di Pasqua Rosa Ludovico, di 86, (Castellaneta 14 maggio 1997). La stessa richiesta ha fatto il Pm Vincenzo Petrocelli per l’omicidio di Celeste Commessatti, di 73, (Palagiano, 13 agosto 1995). A sorpresa, però, vi è stata una richiesta di condanna, formulata nel corso dello stesso processo con rito abbreviato, riguardante l’omicidio di Rosa Lucia Lapiscopia, di 90 anni, uccisa a Laterza (Taranto) il 21 agosto del 1997. La richiesta di condanna è stata presentata dal Pm Maurizio Carbone.
A Taranto per due magistrati su tre, dunque, Sebai non è credibile. Il tunisino è stato etichettato dalla pubblica accusa come un «mitomane» che vuole scagionare detenuti che ha conosciuto in carcere. Solo l’omicidio Lapiscopia, per il quale è stata chiesta la condanna, era ancora insoluto, quindi senza alcun condannato a scontare la pena.
Il gup Valeria Ingenito nel corso dell’udienza ha respinto la richiesta di sospensione del processo e l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 52 del Codice di procedura penale nella parte in cui prevede la facoltà e non obbligo di astensione del pubblico ministero. L'eccezione era stata sollevata dal legale di Sebai, Luciano Faraon. Secondo il difensore, i pm Montanaro e Petrocelli, che hanno chiesto l’assoluzione del tunisino per tre dei quattro omicidi confessati dall’imputato, "avrebbero dovuto astenersi per gravi ragioni di convenienza per evidenti situazioni di incompatibilità, esistente un grave conflitto d’interesse, visto che hanno sostenuto l’accusa di persone, ottenendone poi la condanna, che alla luce delle confessioni di Sebai risultano invece essere innocenti e quindi forieri di responsabilità per errore giudiziario". Non solo i pm erano incompatibili, ma incompatibile era anche il foro del giudizio, in quanto da quei procedimenti addivenivano responsabilità delle parti giudiziarie, che per competenza erano di fatto delegate al foro di Potenza. Nessuno ha presentato la ricusazione per tutti i magistrati, sia requirenti, sia giudicanti.
L’ingiustizia si evidenzia nel fatto che a decidere sulle eventuali responsabilità dei magistrati requirenti sia un collega dello stesso foro. Si palesa, altresì, dal fatto che la procura di Taranto è spaccata sull'attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione. Strano che proprio in quel caso la credibilità non dia seguito ad alcuna conseguenza per i magistrati che hanno sbagliato, non essendoci innocenti in carcere da risarcire. Da tener conto che il pm Vincenzo Petrocelli è stato coinvolto in un altro caso di grave errore giudiziario, in quanto già accusatore di Domenico Morrone, 15 anni di carcere da innocente, risarcito con 4,5 milioni di euro, senza contare che era, anche, il Pubblico Ministero procedente al caso di Carmela, la ragazza che si tolse la vita gettandosi dal 7° piano, vittima di abusi sessuali e mai creduta dal Petrocelli.
Per questi motivi l'avv. Luciano Faraon di Venezia, difensore di Sebai, si è rivolto al Premier, al Guardasigilli, al Procuratore generale presso la Cassazione, al CSM e al Procuratore generale di Lecce.
Mentre il difensore di alcuni dei condannati «per orrore», Claudio Defilippi, avvocato di Modena, legale di 6 delle otto persone (una si è suicidata in carcere dopo la condanna), ha chiesto al Guardasigilli di inviare gli ispettori per verificare l’operato della procura di Taranto. Tutto lettera morta. ''La procura di Taranto è spaccata sull'attendibilità del serial killer delle vecchiette pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai. Per due pm il tunisino non è credibile e va assolto dall’accusa di aver compiuto tre omicidi; per un altro pm è invece credibile e va condannato a 30 anni di reclusione”. Lo evidenzia l’avv.Claudio Defilippi legale di sei delle otto persone (una si è suicidata in carcere dopo la condanna) detenute da lunghi anni “pur essendo innocenti”.
Dei delitti per i quali gli otto sono stati condannati si è successivamente accusato Sebai. Defilippi chiede che il gup di Taranto Valeria Ingenito, dinanzi alla quale è a giudizio Sebai, disponga un confronto all’americana tra i suoi assistiti e il tunisino. E rilancia: “il fatto che i tre pm di Taranto non la pensino allo stesso modo sull'attendibilità di Sebai dovrebbe spingere il ministro della Giustizia a disporre un’ispezione in procura”. Per Defilippi, vi è nel processo una “situazione di incompatibilità dei pm Montanari e Petrocelli”.
“Questi – sottolinea – prima hanno chiesto ed ottenuto il rinvio a giudizio e la condanna definitiva di alcune persone che si proclamano da sempre innocenti (Vincenzo Donvito, poi suicidatosi, Francesco Orlandi e Vincenzo Faiuolo) e successivamente chiedono l’assoluzione per gli stessi omicidi per il serial killer”.
27 aprile 2010. Al contrario della Procura Generale di Potenza, la Procura Generale presso la Corte d’appello di Bari ha espresso parere favorevole al giudizio di ammissione alla revisione del processo per il detenuto Vincenzo Faiuolo, condannato alla pena definitiva di 25 anni di reclusione (13 anni e 6 mesi già scontati) per l’omicidio di un’anziana della quale si è poi accusato il serial killer di anziane donne pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai.
Faiuolo, in carcere a Volterra per il delitto di Pasqua Ludovico, di 86 anni, compiuto a Castellaneta (Taranto) il 14 maggio 1997. Egli è stato ritenuto esecutore materiale del delitto, per il quale fu processato anche il suo fratellastro, Francesco Orlandi. Questi si ritenne avesse avuto un ruolo secondario, motivo per il quale fu condannato per omicidio a 11 anni di reclusione, pena che ha interamente scontato.
Entrambi hanno confessato il delitto ma tempo dopo hanno spiegato che la confessione era stata estorta con minacce e violenza degli investigatori, tesi questa che ha portato la magistratura barese ad affermare che il caso deve essere riaperto, sia alla luce delle «prove sopravvenute», che sono ritenute «serie», sia in virtù degli elementi di riscontro forniti da Sebai negli ultimi anni: il serial killer si è infatti accusato di aver ucciso 14 anziane tra il 1995 e il 1997, compresa Ludovico.
Sebai ha così scagionato otto persone che erano state condannate negli anni per aver compiuto i diversi omicidi. I magistrati che finora hanno giudicato il serial killer non lo hanno ritenuto credibile perchè – è il ragionamento – egli si è autoaccusato degli omicidi solo per scagionare gli otto veri responsabili, che ha conosciuto in carcere. Uno di questi, Vincenzo Donvito, si è suicidato in cella a Teramo il 21 luglio 2005 dopo aver proclamato per sette anni la propria innocenza.
La richiesta di revisione è stata presentata da Defilippi sulla base di una serie di elementi. Tra l’altro Faiuolo aveva confessato di aver ucciso la donna con un coltello (recuperato) che si è poi rivelato diverso da quello usato dall’assassino; ha poi spiegato di aver colpito la vittima con fendenti sferrati personalmente con la mano sinistra (perchè è mancino), invece la donna è stata assassinata da un killer destrimano. Ancora: gli anelli che la donna possedeva sono stati trovati nella disponibilità di Sebai, così come un articolo di giornale che parlava del delitto.
"La decisione dei giudici baresi è un successo importante perchè riapre il caso Sebai. L'attenzione ora va agli otto innocenti, di cui uno si è suicidato in carcere, che sono stati condannati a complessivi 100 anni di carcere per delitti che non hanno compiuto. Il silenzio di questi otto innocenti oggi è finalmente finito”. Così l’avv.Claudio Defilippi commenta la decisione della Corte d’appello di Bari di ammettere la revisione del processo per il proprio assistito, Vincenzo Faiuolo, condannato a 25 anni di reclusione per aver ucciso un’anziana.
Del delitto si è poi accusato il serial killer delle anziane donne pugliesi, Ben Mohamed Ezzedine Sebai, tunisino di 46 anni. “Abbiamo trovato a Bari dei magistrati che hanno voluto vedere dentro le cose. Mi auguro – afferma Defilippi – che si possa al più presto verificare la responsabilità di un altro innocente, Giuseppe Tinelli, condannato all’ergastolo per gli omicidi di Celeste Commesatti (Palagiano, Taranto, 13 agosto 1995) e di Maria Valente (Palagiano, 29 luglio 1997), ma che da sempre si dice innocente”.
“Tinelli – prosegue il legale – ha tentato di suicidarsi per due volte in carcere ingerendo candeggina. Spero che, dopo 15 anni di detenzione, possa ottenere la sospensione della pena per questi due delitti che non ha commesso”. Il legale sostiene inoltre che il giudizio di revisione per Faiuolo, per attrazione, riaprirà anche la posizione processuale dell’altro concorrente nel delitto, Francesco Orlandi, condannato a 11 anni, pena che ha interamente scontato a Trani (Bari) ed è ora libero. Delle otto persone “innocenti”, sei delle quali sono difese da Defilippi, le sole detenute sono Tinelli e Faiuolo.
Dunque cosa è successo dal giorno in cui venne comunicato che la richiesta di revisione era stata accettata?
“E’ successa una cosa molto grave - dice l’avvocato De Filippi a “Il Democratico”. - Prima la Corte di Appello di Bari ha accettato la richiesta di revisione, ma poi mi è arrivato un provvedimento dalla Corte di Assise di Appello di Bari che non c’entra niente e che ha revocato tutto. Ora: cosa c’entra la Corte di Assise di Appello di Bari?! Questo si chiama provvedimento abnorme: cioè quando non c’entra niente!
Praticamente un giudice che non c’entra niente ha fatto un provvedimento che revoca quello emesso dal giudice competente. La Corte di Assise di Appello di Bari non ha nessuna competenza in merito a questo processo”.
Cioè lei sta dicendo che la Corte di Appello di Bari e la Corte di Assise di Appello di Bari sono due cose diverse e sganciate in merito a questo caso giudiziario?
“Assolutamente si. È la Corte di Appello di Bari che ha la competenza del caso, non quella di Assise”.
Ma allora come spiega questo provvedimento? Perché è stato fatto?
“Io non lo so. Non so le ragioni per le quali sia avvenuto tutto questo. Io non so più cosa pensare perché sinceramente ogni mia mossa viene cancellata. Ogni mia mossa viene bloccata: non so cosa pensare”.
Ma lei non ha nemmeno una vaga idea del perché si sia verificato questo ennesimo, improvviso intoppo al normale svolgimento del processo di Faiuolo?
“Questo è il più grosso caso di errore giudiziario della storia d’Italia. Si immagini un po’ se c’è gente che non lo vuole bloccare…Io non so chi sia e cosa faccia, so solo che tutte le cose che faccio mi vengono bloccate sistematicamente. Questo provvedimento qua è assolutamente abnorme, dato da un giudice non competente e che non doveva essere di competenza. Non si capisce perché questo giudice lo abbia fatto. Non si capisce niente!”
Ma quindi ora che ne sarà del processo? E’ stato tutto ‘chiuso’?
“Non è chiuso niente: io ho fatto ricorso in Cassazione contro questo provvedimento, perché è assolutamente abnorme. I provvedimenti abnormi sono tali per cui ci potrebbe essere una responsabilità disciplinare per il giudice che lo ha emesso. Non doveva venire fuori questo giudice, perché è assolutamente incompetente con il caso”.
Come si può commentare tutto questo?
“Dicendo che è una situazione paradossale, assolutamente strana. E il tutto nell’assoluta assenza di media, giornali e tv”.
Quello di Vincenzo Faiuolo potrebbe essere, a tutti gli effetti, un grave caso di malagiustizia. La riapertura delle indagini e la revisione del processo, infatti, potrebbero testimoniare l’esistenza di plurimi errori giudiziari fatti dal foro competente (quello di Taranto) che all’epoca condannò Vincenzo Faiuolo ed altri con l’accusa di omicidio. Qualora tali ipotetici errori giudiziari venissero dimostrati, infatti, un gran numero di giudici e magistrati verrebbe a trovarsi in seria difficoltà poiché dovrebbe rispondere e giustificare il perché di tali errori. In più c’è da considerare che questo è un caso, complessivamente, da 100 anni di carcere: risarcire 100 anni di carcere costerebbe moltissimo allo Stato.
Nonostante ciò, i Magistrati di Taranto hanno denunciato presso la Procura di Potenza il Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, dr. Antonio Giangrande, il collegio difensivo del Sebai ed altri testimoni perché questi hanno espresso dubbi di legalità riguardo il Processo Sebai, ossia il “killer delle vecchiette”. Il reato contestato: calunnia nei confronti della difesa, per essersi permessi di contestare con atti di rito le sentenze avverse; false dichiarazioni rese a difensore nei confronti dei testimoni. In quest'ultimo caso la denuncia non è stata fatta dal difensore, ma dai magistrati. Bah!!
Continua la battaglia dei Magistrati di Taranto contro l’Associazione Contro Tutte le Mafie ed il suo presidente. “Non contenti di aver archiviato tutte le mie denunce e dei miei clienti, fino a che mi hanno permesso di fare l'avvocato, compresa quella ricevuta da altra procura e nella quale gli stessi magistrati di Taranto erano denunciati, ed accolte tutte quelle contro di me, pur pretestuose, come quella di calunnia per aver proposto come avvocato di terzi opposizione ad una archiviazione - dice il dr Antonio Giangrande - alcuni Magistrati di Taranto, prima mi hanno denunciato a Potenza perché ho pubblicato sui miei siti le interrogazioni parlamentari e gli articoli di stampa, che parlavano degli insabbiamenti delle inchieste presso il foro di Taranto, poi mi hanno denunciato a Potenza, assieme al collegio difensivo del Sebai, per aver rilevato abnormi anomalie riguardo il processo al killer delle vecchiette. Le anomalie sollevate erano che il foro di Taranto, magistrati giudicanti ed inquirenti, non doveva occuparsi, per conflitto di interesse, dei delitti di cui il Sebai si dichiarava autore e per i quali i giudici di Taranto avevano già condannato altri imputati. In quel processo il Sebai si accusava di 14 delitti, dando dovuti riscontri. A Taranto è stato creduto solo per un delitto, guarda caso, per quello dove non si è mai trovato un colpevole. Gli esiti di quel processo potevano far emergere responsabilità dei magistrati che si erano prodigati a far condannare dei presunti innocenti e per questo si urla che era poco opportuno che gli stessi dovessero intervenire, più che sulle sorti dei detenuti, sulle conseguenze della loro presunta negligenza od imperizia.”
Su questi fatti, silenzio assordante da parte delle Istituzioni. Le denunce penali presentate dal presidente dell'Associazione Contro Tutte Le Mafie, Dr Antonio Giangrande, contro la Procura di Taranto, inviate a Potenza, sono rimaste lettere morta. A seguito dell'indifferenza della Procura di Potenza le denunce penali contro la Procura di Taranto sono state inviate presso altre Procure. Queste hanno reinviato a Taranto le denunce ricevute. Risultato: la Procura di Taranto da denunciata ha archiviato con abuso, in conflitto di interessi, le denunce contro se stessa.
Silenzio assordante da parte delle Istituzioni. Così come è per tutte le interrogazioni parlamentari che hanno sollevato problemi di etica giudiziaria e forense di quel foro. Interrogazioni che sono state presentate non da Parlamentari tarantini. Nemmeno l'On. Franzoso ha avuto il coraggio di ribellarsi, se non per altri, almeno per se stesso. Come molti ricorderanno, l'on. Pietro Franzoso, tarantino, all'epoca non ancora deputato ma assessore regionale ai trasporti della Giunta Fitto, a dicembre del 2004 fu arrestato come un malfattore, rinchiuso in cella per una settimana, accusato di voto di scambio che avrebbe ottenuto attraverso la concessione di non precisati favori a una cosca mafiosa. Il Tribunale di Taranto lo ha assolto dalla infamante accusa ma la stampa ha riservato alla notizia poco spazio e pochissimo risalto.
Nella problematica è da segnalare l’astensione alla lotta della classe forense tarantina contro i magistrati di quel foro per procedimenti di declaratoria di errori giudiziari.
Il presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ricorda altri casi.
Continua il dr Antonio Giangrande, parlando del caso Morrone.
“Domenico Morrone un terzo della sua vita l'ha spesa dietro le sbarre. 16 anni. Ingiustamente. Lo avevano arrestato nel 1991 e condannato a 21 anni, perché, secondo l'accusa, aveva ucciso a colpi di pistola due ragazzini davanti a una scuola media di Taranto. Non era vero. E la verità è saltata fuori. Grazie alle confessioni di due pentiti e ad una revisione del processo, la Corte d'Appello di Lecce l'ha assolto. La stessa Corte gli ha riconosciuto 4,5 milioni di euro: soldi che pagheranno i cittadini italiani e non i responsabili dell'errore.
In base agli indizi raccolti da polizia e carabinieri, coordinati dal pm del tribunale di Taranto Vincenzo Petrocelli, Morrone, poche ore dopo i fatti, fu sottoposto a fermo per duplice omicidio, detenzione e porto illegale di arma da fuoco e munizioni e spari in luogo pubblico. Ad incastrarlo - secondo l'accusa - c'erano le testimonianze di alcune persone. Sia al momento del fermo sia durante i processi a suo carico, l'imputato ha sempre detto di essere estraneo ai fatti, ma nessuno gli ha creduto.
«Questo processo è stato caratterizzato da lacune immense - denuncia l'avv. Defilippi - e i giudici di merito non hanno mai tenuto conto dell'alibi che Morrone aveva, che era stato confermato sin dal primo annullamento con rinvio della sentenza da parte della Cassazione. L'imputato ha sempre detto che al momento del delitto si trovava nell'appartamento dei coniugi Masone, che vivevano sullo stesso pianerottolo dell'abitazione della sua famiglia. I Masone hanno confermato l'alibi del giovane durante il processo ma sono stati condannati per falsa testimonianza, così come è stata condannata la mamma del giovane che aveva riferito la stessa circostanza: «Queste persone - conclude il legale - sono cadute nella fossa dell' inferno solo per aver detto la verità».
A Taranto si deve subire e si deve tacere. Potenza agevola. Processato per diffamazione a mezzo stampa il presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”, perché sul web e sulla stampa nazionale ed internazionale (La Gazzetta del sud Africa) riporta le prove che a Taranto, definito Foro dell’Ingiustizia, vi sono eccessivi errori giudiziari ed insabbiamenti impuniti.
Si apre a Potenza il processo a carico del Dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”.
L’accusa: diffamazione a mezzo stampa, su denuncia di un procuratore della Repubblica di Taranto.
La difesa: aver pubblicato i dati ufficiali del Ministero della Giustizia sul Foro di Taranto, le interrogazioni parlamentari, le richieste di archiviazione e gli articoli di stampa nazionale.
I dati ufficiali: Denunce penali presentate a Taranto 21.720, condanne conseguite 364.
Le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito.
Le motivazioni di una richiesta di archiviazione in cui si dubita della fondatezza delle accuse di una vittima di un concorso pubblico palesemente irregolare per conflitto di interessi del vincitore e, contestualmente, responsabile del procedimento concorsuale.
La richiesta di una auto-archiviazione per una denuncia in cui la stessa Procura richiedente era stata palesemente denunciata. Denuncia, oltretutto, iscritta falsamente a carico di ignoti.
Articoli di stampa: Giudice scriveva sentenze con gli avvocati; ritardi colossali delle sentenze; Vigili Urbani, pronto intervento per il sindaco, 50 minuti; Vigili urbani, violenza sui cittadini; insabbiamenti alla Procura; giudici, cancellieri, avvocati e consulenti accusati di corruzione; ispettore di polizia denuncia i giudici che insabbiano, lo processano in un giorno; corruzione al Palazzo di Giustizia; concorsi forensi truccati ed impedimento del ricorso al Tar.
Articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.
La denuncia è stata presentata da un magistrato di Taranto, la cui procura ha già cercato, non riuscendoci, di far condannare il dr Antonio Giangrande per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farlo condannare per calunnia per la sol colpa di aver presentato per il proprio assistito opposizione provata avverso ad una richiesta di archiviazione; ovvero di farlo condannare per lesione per essersi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirgli di presenziare ad una sua udienza; ovvero di farlo condannare per diffamazione per aver pubblicato le inchieste sulle consulenze o perizie false; ovvero farlo condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura. Sempre con impedimento alla difesa.
Il processo si apre a Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti a Taranto, rimaste lettera morta.
Il processo si apre a Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto.
Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto sequestro per violazione della privacy (censura tuttora vigente) un intero sito dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. La procura di Taranto, investita per competenza, ha reiterato il sequestro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi contro il Giudice di Milano, Clementina Forleo, e alla pagina di Taranto, le prove sugli insabbiamenti della Procura locale.
Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro il giudice di Manduria, che condanna sempre quando il Giangrande o un suo assistito è imputato, ovvero assolve sempre quando il Giangrande o un suo assistito è persona offesa. Questo sempre in contrasto alle prove acquisite.
Il processo si apre a Potenza, dove si è costretti a presentare istanza di ammissione al gratuito patrocinio, a causa dell’indigenza procurata dalle ritorsioni del sistema di potere, che impedisce l’esercizio di qualsivoglia attività professionale. Situazione che non assicura una adeguata difesa.
Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente, non accetta di subire e di tacere, per sè e per gli altri. Peggio è capitato ad un ispettore di polizia che è stato denunciato, condannato e trasferito in pochi giorni: la sua colpa aver denunciato i malaffari istituzionali. A Taranto si deve subire e si deve tacere !!!”
PARLIAMO DI OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.
Delitto di via Poma. La mano armata della Giustizia senza un limite.
Ovunque, nel mondo civile, questo sarebbe archiviato come un insuccesso delle autorità inquirenti, da noi, invece, lo si riesuma, periodicamente, per esaltare la tenacia di chi conduce le indagini. Ogni volta che il delitto di via Poma torna agli onori della cronaca, automaticamente, torna, in video e in pagina, la foto di Pietrino Vanacore.
La sua pietra al collo ce la sentiamo un po' tutti, e dovrebbe sentirsela la giustizia italiana che sa essere feroce nel punire, pur non essendo capace di giudicare.
Vanacore, il portiere dello stabile, che trovò il cadavere di Simonetta, fu arrestato tre giorni dopo, il 10 agosto 1990. Le cronache si riempirono di quest'omicidio, scandagliando e scardinando la vita di quel disgraziato. Gli andò anche bene, perché fu scarcerato il 30 agosto e, meno di un anno dopo, il 26 aprile del 1991, fu accolta la richiesta d'archiviazione, presentata dalla procura stessa. Ci volle più tempo, fino al gennaio del 1995, perché la Cassazione ponesse la parola "fine" alla faccenda, rendendo definitiva l'archiviazione.
Era finita, e lui si ritirò a vivere nella Puglia, a Torricella, da cui era venuto. E dove s'è ammazzato il 9 marzo 2010. Perché? Perché nonostante la Cassazione, in Italia la giustizia non sa usare la parola "fine", sicché una nuova indagine è stata archiviata. Nel maggio del 2009, e l'anno precedente, il 20 ottobre 2008, Vanacore aveva subito l'ennesima perquisizione domiciliare. Era atteso in tribunale, il 12 marzo 2010, per testimoniare. Non era neanche tenuto a rispondere, perché la giustizia lo considera ancora "indagato in procedimento connesso".
Ma, statene certi Vanacore avrebbe visto ancora il suo volto, esposto alla nazione, associato all'omicidio. Ha deciso di risparmiarselo, o, più probabilmente, non ha saputo reggerlo. La domanda è: che senso ha? Quale legge ha stabilito la possibilità di condannare all'ergastolo mediatico dei cittadini riconosciuti innocenti, ma di cui l'ultimo pennivendolo può disporre, usando le immonde formule di "già indagato", "fu imputato", "a lungo sospettato", "protagonista di una storia oscura", e così via macellando? Un cittadino può accettare d'essere ingiustamente sospettato e accusato, salvo riuscire a dimostrare, in tempi brevi, la propria innocenza. Subisce un danno, comunque, talora gravissimo, ma ciascuno di noi sa che può accadere. Quel che non dovrebbe accadere è che per il resto della vita si sia un oggetto nelle mani di chi non sa che pesci prendere, non sa che storie raccontare, e, quindi, ricorre al tuo nome e alla tua faccia quando gli fa comodo. E, si badi, questo vale per la giustizia, che è incivilmente e inconcludentemente interminabile, ma vale anche per ciascuno di noi.
Anzi, a un certo punto dovremo ammettere che abbiamo la peggiore giustizia del mondo civile anche perché abbiamo la peggiore politica e la peggiore cultura giuridica e il peggiore sistema informativo. Mancano, o sono flebili, le voci capaci di dire basta. Guardatevi attorno: la politica si rinfaccia questioni giudiziarie, anche se chiuse, anche se campate per aria. Le tifoserie politiche non fanno che parlare d'accuse penali, pensando che possano surrogare il giudizio morale e politico. La giustizia stessa campa d'accuse e ci lascia a digiuno di sentenze. Il tutto imbarbarisce il nostro vivere civile e seppellisce la presunzione d'innocenza. Vanacore s'è spinto oltre: ha preteso d'avere l'ultima parola. Non gli sarà riconosciuta neanche quella.
Il figlio accusa: «Mio padre condannato senza processo».
È anche lui portiere, come il papà che dal vecchio mestiere non ha avuto che dispiaceri. Lavora a Torino, custode di uno stabile dell’elegante quartiere della Crocetta. «Mio padre è stato condannato senza un processo - accusa Mario Vanacore - lo hanno distrutto, lo hanno fatto a pezzi. Sono passati vent’anni, eppure tutte le volte che si è parlato della mia famiglia è stato solo per massacrarci». Anche lui, del resto, era stato sfiorato dall’inchiesta, per colpa di una visita di cortesia fatta al papà il 2 agosto del ’90, prima di partire per le vacanze con la moglie Donatella e la figlia di pochi mesi. Tanto bastò per ricevere un avviso di garanzia, assieme alla mamma Giuseppa De Luca, affinché i magistrati potessero comparare il suo sangue con quello di una traccia ematica trovata sulla porta dell’ufficio di Simonetta. «Hanno reso la vita di mio padre un inferno - continua Mario Vanacore - aveva tanti progetti, voleva comprare una casa, ma ha dovuto utilizzare tutti i risparmi che aveva per pagarsi gli avvocati. Lo hanno massacrato ingiustamente perché lui era innocente».
Padre e figlio avrebbero dovuto testimoniare in aula al processo per la morte della Cesaroni. Accanto a Pietrino ci sarebbe stato il legale di sempre, Antonio De Vita. «Si sentiva braccato - racconta il penalista - vittima di una continua caccia all’uomo. Non aveva più una sua vita da tanto, troppo tempo. Si sentiva come un detenuto al 41 bis. Lui era un uomo libero, eppure non più libero. Non era la nuova chiamata dei giudici ad intimorirlo, piuttosto il fatto di doversi nuovamente sentire braccato, accerchiato dai media. Vanacore era psicologicamente stressato e si riteneva perseguitato, un uomo senza scampo, anche se su di lui non c’erano più sospetti».
«Ci hanno tolto il piacere di vivere, ma noi abbiamo solo una colpa: quella di essere poveri». Pietro Vanacore scriveva così a Maurizio Costanzo in una lettera piena di dolore e di rabbia per la vicenda giudiziaria legata all’omicidio di Simonetta Cesaroni, che lo aveva segnato nel profondo. La brutta copia della missiva inviata al noto conduttore televisivo è saltata fuori dalle carte che i carabinieri hanno sequestrato a casa di Vanacore.
Dopo aver trovato in mare il corpo senza vita dell’ex portiere di via Poma, infatti, i militari della compagnia di Manduria avevano perquisito la sua abitazione a Monacizzo ed avevano ritrovato un contenitore pieno di documenti. Tra le carte c’era anche la minuta della lettera inviata a Costanzo.
Vanacore conosceva di persona il giornalista perché questi aveva acquistato l’appartamento in cui ad agosto del 1990 fu uccisa Simonetta Cesaroni. Per qualche anno, dopo il delitto, Pietrino Vanacore aveva continuato a fare il portiere dello stabile in cui si era trasferito Costanzo. Poi, dopo l’assoluzione dall’accusa di omicidio, nel 1995, Vanacore era tornato in provincia di Taranto, al suo paese Monacizzo, frazione di Torricella, insieme con la moglie Pina De Luca. Proprio qui, il 9 marzo 2010, è stato ritrovato senza vita, annegato, nel piccolo specchio d’acqua della baia in cui si affaccia la torre saracena di Torre Ovo.
Il corpo di Vanacore era «ancorato» alla terraferma da una lunga corda che lo cingeva alla caviglia. L’altro capo della cima era legato ad un pino marittimo posto sul ciglio della litoranea.
L’ex portiere di via Poma, come aveva stabilito qualche giorno dopo l’autopsia, è affogato in un metro d’acqua. Il suo suicidio, però, resta avvolto da una pesante coltre di mistero. Vanacore, prima di morire, aveva lasciato anche alcuni biglietti che oggi sembrano ricalcare il tono della lettera indirizzata a Costanzo.
«È ignobile e disumano - scriveva ancora nel 2008 l’ex portiere di via Poma -, addossarci una colpa così grande. Se io, o la mia famiglia avessimo saputo qualcosa lo avremmo detto subito e senza riguardo per nessuno ».
Vanacore scrisse quella lettera dopo l’ottobre del 2008, quando i giudici della procura di Roma decisero di riaprire il caso dell’omicidio di Simonetta Cesaroni, chiamando alla sbarra l’ex fidanzato della giovane Raniero Busco. A casa Vanacore, a Monacizzo, arrivarono i carabinieri per una perquisizione. L’uomo dovette credere di essere ripiombato nell’incubo. La stessa sensazione che deve aver provato a fine febbraio quando a casa ricevette l’atto di citazione. Doveva presentarsi il 12 marzo 2010 al processo, a Roma, come testimone. Forse non ha retto. Forse davvero quei venti anni di sospetti, come ha scritto prima di morire, lo avevano già ucciso.
All’udienza del 12 marzo, il pm Ilaria Calò nel suo intervento ha fatto riferimento proprio alla posizione di Vanacore: «L'importanza delle chiavi (dell'appartamento di via Poma) è enfatizzata dalla tragedia che ha colpito la famiglia Vanacore in questi giorni. La circostanza che le chiavi siano state sequestrate nella portineria e che non siano state trovate tracce di dna di Vanacore sugli abiti di Simonetta Cesaroni e sulla porta di ingresso dimostra che il portiere ha scoperto il corpo prima della sorella di Simonetta e che invece di chiamare la polizia, pensando che vi fosse stato un incontro clandestino tra Simonetta e il presidente degli ostelli della gioventù Francesco Caracciolo o il direttore Corrado Carboni o il capo della ragazza il commercialista Salvatore Volponi, ha telefonato ai tre dimenticando l'agendina rossa Lavazza sul tavolino dell'ufficio, restituita dall'ispettore Brezzi a Claudio Cesaroni un mese dopo circa».
Secondo la ricostruzione del pm, Vanacore sarebbe entrato nell'appartamento dove «trovò la porta socchiusa», entrò, vide il corpo e fece le tre telefonate in questione e poi richiuse la porta «usando le chiavi di riserva appese a un gancio dietro la porta». Questa situazione, secondo il magistrato, «ha innescato dei comportamenti anomali nella portiera, che hanno depistato le indagini per oltre venti anni. Questo spiega la riluttanza della donna a dare la chiavi alla polizia, l'agitazione di Volponi che era stato informato prima, le menzogne di Caracciolo e di altre persone che saranno sentite in aula. Le chiavi sono uno snodo fondamentale».
«In base a quale elemento il pm può dire che la porta era socchiusa? Da dove esce fuori? Penso che la questione delle chiavi sia stata chiarita all'epoca del proscioglimento di Vanacore. Non conosco questa nuova impostazione accusatoria. Loro avevano un mazzo di chiavi per fare le pulizie, non avevano bisogno di servirsi di un mazzo di scorta». Così il difensore della famiglia Vanacore, Antonio De Vita. «A me, come difensore della famiglia Vanacore, non è stato comunicato nulla - prosegue - Sento per la prima volta questa ricostruzione. Come si fa a dire che la porta era aperta? Se devono essere fatte nuove contestazioni, il dibattimento non è la sede opportuna. I Vanacore dopo quanto accaduto nei giorno scorsi non stanno bene e ho fatto presente alla corte il motivo della loro assenza».
Ai funerali di Pietrino Vanacore, intorno alla sua bara, assorta nel silenzio con la rabbia ed il dolore, c’era la gente che gli voleva bene. Una donna ha avuto il coraggio di dare voce alla sua comunità: «applaudite, hanno ottenuto quello che volevano!!!»
La frase era rivolta a coloro, che, per deformazione professionale e culturale, non hanno una coscienza.
Intanto, intorno alle sue spoglie gli sciacalli hanno continuato ad alimentare sospetti. La sua morte non è bastata a zittire una malagiustizia che non è riuscita a trovare un colpevole, ma lo ha scelto come vittima sacrificale. A zittire una informazione corrotta che lo indicava come l’orco, pur senza condanna.
Non poteva dirsi vittima di un errore giudiziario, come altri 5 milioni di italiani in 50 anni. Per venti anni è stato perseguitato da innocente acclamato. Voleva l’ultima parola per dire basta. Non l’hanno nemmeno lasciata. Pure da morto hanno continuano ad infangare il suo onore. Accuse che nessuna norma giuridica e morale può sostenere. Accanimento che nessuna società civile può accettare.
La sua morte è un omicidio di Stato e di Stampa.
Non si può, per venti anni, non essere capaci di trovare un colpevole e continuare a perseguitare un innocente acclamato. Non si può, per venti anni, continuare ad alimentare sospetti, giusto per sbattere un mostro in prima pagina.
Ferdinando Imposimato, il “giudice coraggio” delle grandi inchieste contro il terrorismo e la delinquenza organizzata, ha provato sulla propria pelle l’amarissima esperienza di star sul banco degli imputati. Egli conclude, come un ritornello inquietante: “E’ più difficile talvolta difendersi da innocenti che da colpevoli”. Parola di magistrato.
PARLIAMO DI INSABBIAMENTI.
INSABBIAMENTI: SE SUCCEDE A LORO, FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI !!!!!
Quando la legge non è uguale per tutti.
Gabriella Nuzzi: Come si uccide un’inchiesta. Da Il Fatto Quotidiano del 6 Agosto 2010.
"Ho scelto di percorrere in questi mesi la strada della riflessione e del silenzio. Non certo per timore, né per rassegnazione. L’esame introspettivo degli eventi consente di trovare soluzioni, le migliori possibili, per sé e per gli altri. Di fronte all’ingiustizia, e più di tutto se gli è inflitta, un magistrato, che sia davvero tale, non cerca vie di fuga, né comodi ripari. Perciò, ho continuato a credere nella magistratura e nel suo operato. La Grande Bugia della guerra tra le procure di Salerno e Catanzaro, creata ad arte per sottrarre a me e ai colleghi salernitani le inchieste sugli uffici giudiziari calabresi e privarci delle funzioni inquirenti, non può non trovare risposte giuridiche e giudiziarie. Macigni e ostacoli sulla verità. Quando il 2 dicembre 2008 furono eseguiti il sequestro probatorio del fascicolo “Why Not” e le perquisizioni ai magistrati che l’avevano gestito a colpi di stralci e archiviazioni, si accusarono i Pubblici ministeri salernitani di aver redatto provvedimenti “abnormi” ed eversivi, manifestando in tal modo “un’eccezionale mancanza di equilibrio, un’assoluta spregiudicatezza nell’esercizio delle funzioni ed un’assenza del senso delle istituzioni e del rispetto dell’Ordine giudiziario”. Con queste motivazioni, l’8 gennaio 2009, su proposta del capo dell’Ispettorato Arcibaldo Miller (coinvolto nello scandalo P3), il ministro della Giustizia Alfano richiese, in via d’urgenza, alla Sezione Disciplinare del Csm, presieduta da Nicola Mancino, l’applicazione di “misure cautelari” disciplinari nei miei confronti, del collega Verasani e del procuratore Apicella. Intervento preannunciato in Parlamento dal sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo (coinvolto nello scandalo P3) ai suoi amici di partito On.li Amedeo Laboccetta & C., che, in difesa dei calabresi, chiedevano la testa del dott. De Magistris e di noi altri suoi “sodali”. L’intero mondo politico-giudiziario, spalleggiato dalla grande “libera” stampa, che scatenò una tempesta mediatica, condannò la nostra scelta investigativa come un atto di “terrorismo giudiziario”, un attacco “senza precedenti” alle istituzioni democratiche, ispirato al perseguimento di fini personalistici e politici, di pericolosità tale da esigere una repressione esemplare e immediata. La Prima Commissione del Csm presieduta da Ugo Bergamo avviò il trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale, poi sospeso in attesa degli esiti disciplinari. L’Associazione Nazionale Magistrati accettò di buon grado l’epurazione, nell’illusione di una futura pace dei sensi. Dopo appena dieci giorni, con un processo da Santa Inquisizione, ci strapparono le funzioni inquirenti, allontanandoci dalla nostra Regione. Una cortina di silenzio e indifferenza s’innalzò intorno al “caso Salerno”. I magistrati calabresi inquisiti, autori del contro-sequestro del “Why Not”, instaurarono un procedimento penale a nostro carico e del dott. De Magistris, trasmettendolo poi alla Procura di Roma che, con l’Aggiunto Achille Toro (indagato sullo scandalo G8 Sardegna), si mise a investigare liberamente sulle nostre vite private, senza alcun fondamento. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione presiedute dal dott. Vincenzo Carbone (coinvolto nello scandalo P3) chiusero in gran fretta il capitolo disciplinare con una pronuncia sommaria, storico esempio di come sia possibile, in tema di etica giudiziaria, affermare tutto e il contrario di tutto. Si aprirono a nostro carico ulteriori procedimenti penali e disciplinari, branditi come clave, affinché ci sentissimo sotto perenne minaccia. Il 19 ottobre 2009, la stessa Sezione Disciplinare, su relazione dell’avv. Michele Saponara, accolse l’azione disciplinare promossa dal Procuratore generale della Cassazione Esposito, infliggendo a me e al collega Verasani la sanzione della perdita di anzianità (rispettivamente, sei e quattro mesi) e del trasferimento d’ufficio di sede e funzione. Non è stato facile resistere a tanta violenza morale. Una violenza frutto di arbitrio, che ha indecentemente calpestato ogni regola, senza arretrare neppure di fronte al riconoscimento giurisdizionale della legalità e necessità dei nostri comportamenti. La delegittimazione, l’isolamento, l’eliminazione sono metodi di distruzione mafio-massonici. E noi abbiamo pagato per aver osato far luce sulla massoneria politico-giudiziaria. Da allora, pazientemente, ho atteso che a parlare fossero i fatti. E i fatti, nel tempo, come tasselli di un incomprensibile puzzle, si stanno lentamente ricomponendo. Logge, cappucci e grandi vecchi. Alcuni di coloro che hanno concorso alla nostra epurazione pare avessero incontri con presunti appartenenti ad un’associazione segreta. Dunque, di fronte a innegabili evidenze, parlare oggi di consorterie massoniche interne anche agli apparati giudiziari non è più atto eversivo o scandaloso. Ampi dibattiti si sono aperti sulla “questione morale” delle nostre istituzioni. L’Associazione Nazionale Magistrati, rimembrando proprio la nostra vicenda, ha stigmatizzato la “caduta nel vuoto” delle sue richieste di rigore, gridate a gran voce. Sicché contro l’ennesima ipocrisia del “sistema” s’infrange oggi il mio silenzio. Mi rivolgo agli illustri attivisti del correntismo giudiziario, quelli che mai sono stati sfiorati da un dubbio o da un ripensamento, trovando superfluo finanche articolare il pensiero. Esprimano, nella loro purezza, e possibilmente con cognizione di causa, una posizione precisa su ciò che di illecito è stato compiuto ai nostri danni, sull’“etica” che l’avrebbe ispirato, sulle scandalose ingiustizie di un “sistema” che, ancora oggi, incredibilmente, avalla l’impunità, lasciando che i potenti, corrotti o collusi, continuino a rimanere ai loro posti o peggio, siano premiati. Non sono i loro rappresentanti più degni a spartirsi gli scranni del nostro “autogoverno”, a decidere nomine, promozioni, trasferimenti, punizioni disciplinari? O forse l’associazionismo sta dissociandosi da se stesso? Non vi sono oggi “questioni morali” che non lo fossero anche ieri. E allora occorre ripartire da zero, passando attraverso un profondo mea culpa. Questa pericolosa caduta libera di credibilità può arrestarsi soltanto con il ripristino del primato del Diritto e il ripudio definitivo delle logiche di appartenenza e protezionismo. Solo proponendosi tali obiettivi e scegliendo figure di guida autorevoli, per integrità, indipendenza e competenza, l’Ordine giudiziario può sperare in un autentico rinnovamento morale, nell’interesse supremo del popolo e della democrazia."
Denunce fondate presentate a Potenza contro i magistrati di Bari, Brindisi, Lecce e Taranto: nessuna condanna per i denunciati, nessuna calunnia contestata ai denuncianti !!!!
Il Gip presso il Tribunale di Potenza ha disposto l’archiviazione della denunzia presentata dal ministro per gli Affari Regionali, Raffaele Fitto, contro il procuratore della Repubblica di Brindisi, Marco Dinapoli, per violazione del segreto d’ufficio. La denuncia ipotizzava una presunta divulgazione di notizie riservate compiuta da Dinapoli quando questi era procuratore aggiunto a Bari e coordinava il pool di magistrati che indagava sui reati contro la pubblica amministrazione.
L’ipotesi di violazione del segreto riguardava anche gli altri tre magistrati del pool barese (Roberto Rossi, Lorenzo Nicastro e Renato Nitti), che ha indagato su Fitto per fatti che risalgono a quando il ministro era presidente della Regione Puglia. Lorenzo Nicastro, divenuto assessore regionale dipietrista con la Giunta di Vendola, ha indagato su Fitto fino al giorno prima di candidarsi alle regionali pugliesi nel distretto in cui operava. A sollevare perplessità sulla candidatura del pm è stato il presidente dell'Anm, Luca Palamara, ribadendo che "il tema della credibilità della magistratura non può essere disgiunto da quello dell'inopportunità della partecipazione alla vita politica dei magistrati nei luoghi dove abbiano esercitato la giurisdizione, per evitare il rischio di indebite strumentalizzazioni dell'attività svolta". Roberto Rossi, è stato eletto nel Consiglio superiore della magistratura. Roberto Nitti, l’unico a essere rimasto nell’organico della Procura di Bari. Già nel giugno 2010 vi furono nuovi colpi di scena nell’ambito dell’inchiesta delle Procure di Bari e Trani sulle ormai note fughe di notizie su Berlusconi. Quattro magistrati sarebbero stati intercettati mentre parlavano con giornalisti rivelando notizie relative ad indagini in corso. Ad avere il telefono sotto controllo sono però i cronisti: scopo degli inquirenti è quello di stanare le loro fonti.
L’archiviazione, disposta con ordinanza il 23 luglio 2010. Fitto aveva lamentato che “la diffusione alla stampa di notizie riservate costituisca la regola seguita dai predetti magistrati” sostenendo inoltre la sussistenza di “una vera e propria emorragia di notizie dalla Procura di Bari a fini politici verso alcuni organi di stampa".
"In seguito alla pubblicazione di notizie riservate di carattere penale, erano stati chiesti accertamenti per scoprire gli autori di tali rivelazioni. Il gip, pur individuando precise responsabilità penali per la pubblicazione non consentita di atti giudiziari, si è dovuto arrendere dinanzi alla difficoltà delle indagini e al muro di gomma innalzato dal silenzio dei giornalisti”. Lo afferma l'avv. Francesco Paolo Sisto, difensore del ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto e al contempo deputato al Parlamento, commentando in una nota il provvedimento del gip del Tribunale di Potenza. “Come al solito, quindi – aggiunge il legale – non è stato possibile scoprire i responsabili. Un film già visto, troppe volte. I giornalisti tacciono, le indagini, se e quando effettuate, non servono allo scopo”.
Lecce come Potenza.
La seconda sezione penale del Tribunale di Lecce il 12 luglio 2010 ha assolto "perchè il fatto non sussiste" l'ex presidente aggiunto della sezione gip del Tribunale di Bari, Piero Sabatelli, dalle accuse di rivelazione del segreto d'ufficio e accesso abusivo al sistema informatico della Procura della Repubblica barese. I fatti contestati risalgono al 2004. Lo ha reso noto il difensore del magistrato, avvocato Mario Guagliani. Sabatelli, che è attualmente in servizio presso la sezione lavoro della Corte d'Appello di Bari, era imputato con due segretarie e altre quattro persone che sono state tutte assolte. Secondo l'accusa (sostenuta dalla procura di Lecce competente per i procedimenti relativi ai magistrati in servizio nel distretto della Corte d'appello di Bari), Sabatelli e le sue segretarie, dopo aver consultato il registro generale della Procura di Bari, avrebbero rivelato a terzi notizie coperte dal segreto d'ufficio in relazione all'andamento delle inchieste sulle cooperative romana e barese La Cascina (quest'ultima aveva portato nell'aprile 2003 all'esecuzione di dieci provvedimenti cautelari) e La Fiorita. L'accusa, sostenuta dal pm Valeria Mignone, aveva chiesto la condanna ad un anno di reclusione.
IL CASO GIANGRANDE. Il Dott. Antonio Giangrande, Presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie e autore del libro “L’Italia del trucco, l’Italia che siamo” ha presentato il seguente ricorso ai 950 Parlamentari italiani: nessuno si è degnato a dare riscontro.
“PREMESSO CHE
da 15 anni sono vittima di bocciature ritorsive al concorso forense;
il 16, 17, 18 dicembre 2008 ho partecipato alla prova scritta del concorso forense presso la Corte di Appello di Lecce;
il 26 marzo 2009 la commissione presso la Corte di Appello di Reggio Calabria si è riunita per la correzione dei 3 elaborati: IN FORMA ILLEGITTIMA;
il 24 giugno 2009 (dopo 3 mesi) si sono pubblicati i risultati: giudizio identico negativo, 25, 25, 24;
il 3 luglio 2009 si visionano i compiti, i verbali e i criteri di correzione: SI OTTIENE PROVA CHE I COMPITI NON SONO STATI LETTI E CORRETTI E IL GIUDIZIO RESO E’ FALSO;
l’8 luglio 2009 si presenta istanza di ammissione al gratuito patrocinio con gli allegati probatori presso la Commissione del Tar di Lecce per poter presentare ricorso al TAR per manifesta irregolarità dei giudizi;
il 7 agosto (dopo un mese e a pochi giorni dalla decadenza del ricorso) si riceve diniego dalla Commissione: MANCA IL FUMUS;
il 12 agosto 2009 si presenta esposto penale ed amministrativo con gli allegati probatori a: Presidenza della Repubblica; Presidenza del Consiglio; Ministero della Giustizia; Ministero degli Interni; Ministero della Funzione Pubblica; Ministero del lavoro; Ministero dei giovani; Ministero Pari opportunità; Presidenti di Camera e Senato; Commissioni Giustizia di Camera e Senato; Direzione Nazionale Antimafia; Antitrust; Consiglio Superiore della Magistratura; Consiglio Nazionale Forense; Consiglio di Stato; Avvocatura dello Stato; Corte dei Conti; Procura Generale ed ordinaria di Lecce, Taranto, Bari, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria; Prefettura di Lecce e Taranto; Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e Taranto
RISULTATO: TUTTO LETTERA MORTA.
DOMANDA: E’ PIU’ SCANDALOSO L’ABUSO O L’OMISSIONE ?!?!
Tanto premesso si chiede alla S.V. di intervenire in questa vicenda che tocca varie competenze amministrative ed istituzionali, per mezzo di una interrogazione ai soggetti interessati.
Giusto per sapere se merito giustizia e per non vergognarmi di essere italiano.
Il far passare la vittima per mitomane o pazzo, non disobbliga l’autorità adita ad un doveroso riscontro. Sempre che si sia in un paese civile e giuridicamente avanzato.”
Già in precedenza era stato presentato un esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, a cui nessun riscontro è seguito.
“dal 10 aprile 2001 ad oggi, ha interpellato il Ministero della Giustizia per ben 36 volte, chiedendo la verifica dell’operato degli Uffici Giudiziari di Taranto, Potenza e Bari circa gli insabbiamenti delle denunce presentate; il Sottosegretario alla Giustizia di Francavilla Fontana (BR), anziché rispondere al Dr. Antonio Giangrande come la legge gli impone, ha diffidato pubblicamente il medesimo di continuare ad “alluvionare” il suddetto parlamentare con le segnalazioni di malagiustizia; a questo si aggiunge la risposta del capo di gabinetto del Ministro che, in data 25/01/2006, prot. 201/4244 (G), gli dice di attendere l’esito istruttorio dei procedimenti ministeriali attivati molti anni prima;
dal 2 agosto 2004 ad oggi, ha interpellato il Ministero della Funzione Pubblica per ben 8 volte, chiedendo la verifica dell’operato degli Uffici Ministeriali interpellati circa gli insabbiamenti dei ricorsi presentati;
il Presidente della Repubblica, U.G. 551/2003 prot. SGPR 25/02/2003 0022081 P, UAG 197/2006 prot. SGPR 28/06/2006 0075602 P, più volte ha investito del problema il Consiglio Superiore della Magistratura, a cui è conseguito un naturale nulla di fatto;
a Strasburgo, la Corte Europea dei Diritti Umani ha aperto un procedimento, n. 11850/07, GIANGRANDE contro ITALIA, per l’insabbiamento di 15.520 (quindicimilacinquecentoventi) denunce penali e ricorsi amministrativi. La maggior parte delle lettere morte sono avvenute presso le Procure della Repubblica di tutta Italia, senza che sia conseguita l’obbligatoria azione penale, o l’obbligato perseguimento per calunnia, ovvero l’accusa di mitomania, nei confronti del Dr. Antonio Giangrande ed altri denuncianti, nonostante che alcuni esposti contenessero l’accusa di associazione mafiosa per avvocati e magistrati.”
Invece di ricevere giustizia, si è aperto a Potenza il processo a carico del Dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte Le Mafie”.
L’accusa: diffamazione a mezzo stampa, su denuncia di un procuratore della Repubblica di Taranto.
La difesa: aver pubblicato i dati ufficiali del Ministero della Giustizia sul Foro di Taranto, le interrogazioni parlamentari, le richieste di archiviazione e gli articoli di stampa nazionale.
I dati ufficiali: Denunce penali presentate a Taranto 21.720, condanne conseguite 364.
Le varie interrogazioni dei parlamentari: Patarino, Bobbio, Bucciero, Lezza, Curto e Cito.
Le motivazioni di una richiesta di archiviazione in cui si dubita della fondatezza delle accuse di una vittima di un concorso pubblico palesemente irregolare per conflitto di interessi del vincitore e, contestualmente, responsabile del procedimento concorsuale.
La richiesta di una auto-archiviazione per una denuncia in cui la stessa Procura richiedente era stata palesemente denunciata. Denuncia, oltretutto, iscritta falsamente a carico di ignoti.
Articoli di stampa: Giudice scriveva sentenze con gli avvocati; ritardi colossali delle sentenze; Vigili Urbani, pronto intervento per il sindaco, 50 minuti; Vigili urbani, violenza sui cittadini; insabbiamenti alla Procura; giudici, cancellieri, avvocati e consulenti accusati di corruzione; ispettore di polizia denuncia i giudici che insabbiano, lo processano in un giorno; corruzione al Palazzo di Giustizia; concorsi forensi truccati ed impedimento del ricorso al Tar.
Articoli di stampa sugli innumerevoli errori giudiziari: caso on. Franzoso, caso killer delle vecchiette, caso della barberia, caso Morrone, ecc.
La denuncia è stata presentata da un magistrato di Taranto, la cui procura ha già cercato, non riuscendoci, di far condannare il dr Antonio Giangrande per abusivo esercizio della professione forense, pur sapendo di essere regolarmente autorizzato a patrocinare; ovvero di farlo condannare per calunnia per la sol colpa di aver presentato per il proprio assistito opposizione provata avverso ad una richiesta di archiviazione; ovvero di farlo condannare per lesione per essersi difeso da un’aggressione subita nella propria casa al fine di impedirgli di presenziare ad una sua udienza; ovvero farlo condannare per violazione della privacy e per diffamazione per aver pubblicato atti pubblici nocivi alla reputazione della stessa procura. Sempre con impedimento alla difesa.
Il processo si apre a Potenza. Foro in cui lo stesso Presidente di quella Corte di Appello aveva più volte chiesto conto alle procure sottoposte sulle denunce degli insabbiamenti a Taranto, rimaste lettera morta.
Il processo si apre a Potenza, più volte sollecitata ad indagare sui concorsi forensi truccati, in cui vi sono coinvolti magistrati di Lecce, Brindisi e Taranto.
Il processo si apre a Potenza, foro in cui è rimasta lettera morta la denuncia contro alcuni magistrati di Brindisi, che a novembre 2007 hanno posto sotto sequestro per violazione della privacy (censura tuttora vigente) un intero sito dell’Associazione Contro Tutte Le Mafie composto da centinaia di pagine, effettuato con atti nulli e con incompetenza territoriale riconosciuta dallo stesso foro. Il sito conteneva, alla pagina di Brindisi, le notizie di stampa nazionale riguardanti il presunto complotto della medesima procura di Brindisi contro il Giudice di Milano, Clementina Forleo.
Il processo si apre a Potenza, dove si è costretti a presentare istanza di ammissione al gratuito patrocinio, a causa dell’indigenza procurata dalle ritorsioni del sistema di potere, che impedisce l’esercizio di qualsivoglia attività professionale. Istanza rimasta lettera morta, impedendo la regolare nomina di un difensore e la sua strategia difensiva.
Tutto questo, e anche peggio, succede a chi, non conforme all’ambiente, non accetta di subire e di tacere.
Non capita quasi mai. Quasi. E infatti è capitato che a Taranto la giustizia-lumaca ha preso a correre come un treno. L’eccezione che conferma la regola è nell’incredibile vicissitudine giudiziaria capitata a Franco Maccari, poliziotto-sindacalista del Coisp, denunciato per aver sollevato accuse scomode.
È capitato tutto in un giorno: la querela nei suoi confronti è approdata in procura la mattina stessa in cui è stata presentata; il suo fascicolo è stato immediatamente assegnato dal Procuratore Capo; prima del calar del sole da neoquerelato si è ritrovato iscritto nel registro degli indagati; tempo due giorni e ha subìto un sequestro preventivo prontamente autorizzato, notificato a casa e convalidato.
Roba da guinness. Da far strabuzzare gli occhi ad avvocati e magistrati di mezzo Stivale: una piccola luce di speranza per migliaia di uomini e donne in attesa di un giudizio da anni.
Non succede mai, ma è successo. A Taranto, in quella stessa Procura finita a novembre 2006 in un’inchiesta dei colleghi potentini per un sospetto «rallentamento» nelle indagini, accuse di insabbiamento con incartamenti al vetriolo su intrecci tra politica e malaffare, con Asl e Comune nel mirino.
Certi faldoni, secondo un’interrogazione parlamentare di Pino Lezza, ex deputato di Forza Italia, ora a capo di un'associazione cattolica liberale, sarebbero stati messi appositamente in sordina, con un andamento lento, molto lento.
Ecco invece che, oggi, a presentarsi in Procura per rispondere di diffamazione arriverà puntuale il poliziotto-sindacalista. Tre dei quattro procedimenti penali a suo carico sono stati aperti con velocità supersonica e abnegazione esemplare.
Il tutto nasce da un esposto dell’ex questore Eugenio Introcaso, risentitosi per certe affermazioni. Non sappiamo com’è, ma le carte contro Maccari sono arrivate a destinazione a velocità ipergalattica. «Con rapidità decisamente inusuale - commenta Giuseppe Salvatore Cutellè, legale di Maccari - tanto da averci indotto a scrivere al Csm e al Procuratore generale di Cassazione. Questo doppio passo della giustizia ci lascia quantomeno perplessi».
Nel corso dell'attività di sindacalista, Maccari prende di petto alcune scelte gestionali dell'ex numero uno della questura tarantina, lo fa riempiendo comunicati destinati all'ufficio relazioni sindacali del Viminale, poi pubblicati sul sito internet del sindacato.
La prima querela per diffamazione è del 13 gennaio 2006. Il 30 dello stesso mese la squadra mobile redige il verbale d'elezione a domicilio e nomina dell'avvocato. Il 28 febbraio scatta il sequestro preventivo del sito www.coisp.it, sequestro subito convalidato ed eseguito a Roma il 6 marzo dagli agenti della Digos appositamente inviati da Taranto. Quindi, la denuncia del 13 luglio, trasformata in avviso di garanzia nel corso di una stessa mattinata.
Procedura lampo anche per la denuncia del 17 luglio 2006. «Circostanze - afferma Maccari - che evidenziano senza ombra di dubbio una corsia preferenziale che ci lascia quantomeno perplessi. Pare incredibile che in una Procura oberata dalla mole di lavoro come quella di Taranto, tutto passi in secondo piano rispetto a una semplice querela di diffamazione. Vi sono denunce per reati ben più gravi che restano ferme nei cassetti per mesi. Eppure nel mio caso, e per più di una volta, tutto si è svolto con una celerità che ha del paradossale. Per questo chiediamo al Csm di controllare se non vi siano i presupposti di incompatibilità ambientale e, nel caso, di avviare dei procedimenti disciplinari».
Ma questo non succede solo a Taranto.
Ci sono voluti 28 anni, dal 1972 al 2000, per mettere in piedi il San Salvatore, e pochi minuti per mandarlo al tappeto: i costi sono stati nove volte più del previsto. I giornali ci parlano che il progetto dell'ospedale porta la data 1967. Spesa inizialmente prevista 11.395 milioni di lire. Costi lievitati fino a quota 214 miliardi e 222 milioni. Ma lo scandalo nello scandalo è un ospedale senza agibilità in piena zona sismica. E’ lo scandalo dell’Aquila dove la struttura è stata evacuata subito dopo il terremoto perché pericolante. Ora un ispettore di polizia rivela ai microfoni di “Studio Aperto”, il telegiornale di “Italia 1”, del 14 aprile 2009 edizione delle 12,20 che l’ospedale dopo l’inaugurazione del 2000 non ha mai ricevuto il certificato di agibilità perché mancava l’accatastamento.
“Pare che non siano stati fatti neanche gli atti di vendita dei terreni- dice il poliziotto- e quindi non stando tutti gli atti di vendita, non la possono neanche accatastare, quindi come fai ad accatastare una struttura su un terreno che comunque non è tuo?”.
L’ispettore di polizia aveva presentato una denuncia in questura il 28/12/2008. Nel documento si parla anche dei lavori alla filiale interna all’ospedale della Cassa di Risparmio dell’Aquila, spostata per fare un favore alla banca. I locali non avrebbero mai ricevuto l’agibilità.
“I poteri forti sono la banca – continua il poliziotto - la Cassa di Risparmio, che è comunque presente in tutto il territorio dell’Aquila ed anche dell’Abruzzo e fuori. E comunque c’hanno potere e l’ASL. Questi sono i poteri forti che ti tagliano le gambe. Quindi tu quando vai a toccare questi poteri………..”
La questura fa sapere che ci sono indagini in corso. La procura assicura controlleremo tutto.
Ma dopo questa denuncia per il poliziotto è iniziato l’inferno.
“Mi sono trovato il trasferimento d’ufficio in Questura. Morale della favola: alla fine hanno trasferito solo me d’ufficio. Quando ho fatto questa segnalazione, ho chiesto comunque che mi delegassero a fare le indagini e naturalmente non l’hanno fatto. Lo dico con tutto il cuore, fanno letteralmente schifo.”
La magistratura è matrigna: è pronta nel perseguire; è omissiva nell’aiutare.
Vorrebbero far passare per mitomane o pazzo chi è pronto a non essere omologo al sistema socio-mafioso italiano. Purtroppo qualcuno si arrende.
Pietro Palau Giovannetti, oltre ad essere il coraggioso Direttore Responsabile del giornale on line “La voce di Robin hood”, è tra i padri fondatori del "Movimento per la Giustizia Robin Hood" e della rete di "Avvocati senza Frontiere", organizzazioni no profit che, da oltre 20 anni, si battono per l'affermazione del principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e una giustizia pulita libera dagli interessi delle mafie e delle corporazioni, sostenendo quella parte sana e assolutamente minoritaria della magistratura, che non si presta a legittimare gli abusi che quotidianamente vengono perpetrati nelle aule di giustizia, dai poteri dominanti nei confronti dei cittadini più deboli e indifesi.
A fronte del suo impegno civile e delle sue coraggiose denunce nei confronti dei cd. "poteri forti" Pietro Palau Giovannetti ha subito oltre 750 procedimenti penali con le accuse più disparate e capziose per pseudoreati di natura ideologica, scaturenti dalle sue stesse denunce, mai esaminate, o dai suoi taglienti articoli giornalistici, i cui procedimenti nella stragrande maggioranza dei casi si sono conclusi con assoluzioni con formula piena o, con archiviazioni de plano per manifesta infondatezza delle notizie di reato.
Tra i tanti "procedimenti-farsa" sollecitamente istruiti a suo carico a tempi di giustizia scandinava dalle Procure e Corti di Appello di mezza Italia (da Torino, Treviso, Milano, Brescia, Trento, Trieste, Venezia, Alessandria, Bologna, Firenze, Roma, Palmi, Reggio Calabria), si registrano anche due singolari richieste di "perizie psichiatriche", da parte delle Procure di Milano e di Torino, nonché dalla Procura Generale di Milano, proprio come in uso nelle dittature dei Paesi dell'Est.
Per la mole di attività persecutorie a cui è stato sottoposto la sua figura è stata paragonata a quella di Danilo Dolci (pacifista nonviolento) che, come lui, dal 1952, dedicò la sua vita alla causa delle persone più deboli, in Sicilia, venendo ingiustamente arrestato e condannato per reati di opinione dalla magistratura di regime dell'epoca tutt'oggi asservita agli interessi della politica e della mafia siciliana.
La condanna venne infatti laconicamente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione, seppure in sua difesa avessero testimoniato i maggiori intellettuali e Premi Nobel dell'epoca e l'arringa fosse stata pronunciata dal grande giurista Piero Calamandrei, tra i padri della Costituzione.
Ma non sono i soli.
Questa è la trascrizione, in esclusiva sull’Espresso, dell'ultima lettera di addio del professore universitario messinese Adolfo Parmaliana, prima del suicidio avvenuto l’1 ottobre 2008, gettatosi giù da un viadotto.
"La mia ultima lettera. La Magistratura barcellonese/messinese vorrebbe mettermi alla gogna vorrebbe umiliarmi, delegittimarmi, mi sta dando la caccia perché ho osato fare il mio dovere di cittadino denunciando il malaffare, la mafia, le connivenze, le coperture e le complicità di rappresentanti dello Stato corrotti e deviati. Non posso consentire a questi soggetti di offendere la mia dignità di uomo, di padre, di marito di servitore dello Stato e docente universitario.
Non posso consentire a questi soggetti di farsi gioco di me e di sporcare la mia immagine, non posso consentire che il mio nome appaia sul giornale alla stessa stregua di quello di un delinquente. Hanno deciso di schiacciarmi, di annientarmi.
Non glielo consentirò, rivendico con forza la mia storia, il mio coraggio e la mia indipendenza. Sono un uomo libero che in maniera determinata si sottrae al massacro ed agli agguati che il sistema sopraindicato vorrebbe tendergli.
Chiedete all'Avv.to Mariella Cicero le ragioni del mio gesto, il dramma che ho vissuto nelle ultime settimane, chiedetelo al senatore Beppe Lumia chiedetelo al Maggiore Cristaldi, chiedetelo all'Avv.to Fabio Repici, chiedetelo a mio fratello Biagio. Loro hanno tutti gli elementi e tutti i documenti necessari per farvi conoscere questa storia: la genesi, le cause, gli accadimenti e le ritorsioni che sto subendo.
Mi hanno tolto la serenità, la pace, la tranquillità, la forza fisica e mentale. Mi hanno tolto la gioia di vivere. Non riesco a pensare ad altro. Chiedo perdono a tutti per un gesto che non avrei pensato mai di dover compiere.
Ai miei amati figli Gilda e Basilio, Gilduzza e Basy, luce ed orgoglio della mia vita, raccomando di essere uniti, forti, di non lasciarsi travolgere dai fatti negativi di non sconfortarsi, di studiare, di qualificarsi, di non arrendersi mai, di non essere troppo idealisti, di perdonarmi e di capire il mio stato d'animo: Vi guiderò con il pensiero, con tanto amore, pregherò per voi, gioirò e soffrirò con voi.
Alla mia amatissima compagna di vita, alla mia Cettina, donna forte, coraggiosa, dolce, bella e comprensiva: ti chiedo di fare uno sforzo in più, di non piangere, di essere ancora più forte e di guidare i ns figli ancora con più amore, di essere più buona e più tenace di quanto non lo sia stato io.
Ai miei fratelli, Biagio ed Emilio, chiedo di volersi sempre bene, di non dimenticarsi di me: vi ho voluto sempre bene, vi chiedo di assistere con cura e amore i ns genitori che ne hanno tanto bisogno. Alla mia bella mamma ed al mio straordinario papà: vi voglio tanto bene, vi mando un abbraccio forte, vi porto sempre nel mio cuore, siete una forza della natura, mi avete dato tanto di più di quanto meritavo. A tutti i miei parenti, ai miei cognati, ai miei zii, ai miei cugini, ai miei nipoti, a mia suocera: vi chiedo di stare vicini a Gilda, a Basilio ed a Cettina. Vi chiedo di sorreggerli.
Ai miei amici sarò sempre grato per la loro vicinanza, per il loro affetto, per aver trascorso tante ore felici e spensierate. Alla mia università, ai miei studenti, ai miei collaboratori ed alle mie collaboratrici sarò sempre grato per la cura e la pazienza manifestatemi ogni giorno. Grazie. Quella era 1° mia vita. Ho trascorso 30 anni bellissimi dentro l'università innamorato ed entusiasta della mia attività di docente universitario e di ricercatore.
I progetti di ricerca, la ricerca del nuovo, erano la mia vita. Quanti giovani studenti ho condotto alla laurea. Quanti bei ricordi.
Ora un clan mi ha voluto togliere le cose più belle: la felicità, la gioia di vivere, la mia famiglia, la voglia di fare, la forza per guardare avanti.
Mi sento un uomo finito, distrutto. Vi prego di ricordarmi con un sorriso, con una preghiera, con un gesto di affetto, con un fiore. Se a qualcuno ho fatto del male chiedo umilmente di volermi perdonare.
Ho avuto tanto dalla vita. Poi, a 50 anni, ho perso la serenità per scelta di una magistratura che ha deciso di gambizzarmi moralmente. Questo sistema l'ho combattuto in tutte le sedi istituzionali. Ora sono esausto, non ho più energie per farlo e me ne vado in silenzio. Alcuni dovranno avere qualche rimorso, evidentemente il rimorso di aver ingannato un uomo che ha creduto ciecamente, sbagliando, nelle istituzioni.
Un abbraccio forte, forte da un uomo che fino ad alcuni mesi addietro sorrideva alla vita.”
Omicidio Claps. Gildo scrive ad Elisa: «Mia cara sorellina...»
«Stai tranquilla, i tuoi cari non mollano, non temono la verità e se ne fregano di quanti imbarazzi possano ancora creare, la vergogna è solo la loro, noi siamo gente perbene»: lo ha scritto Gildo Claps il 9 aprile 2010 in una lettera alla sorella, Elisa, scomparsa il 12 settembre 1993, quando aveva 16 anni, il cui cadavere è stato trovato il 17 marzo 2010 nel sottotetto della canonica della chiesa della Santissima Trinità, a Potenza.
La lettera, affidata da Gildo Claps all’ANSA e riportata da tutta la stampa, comincia con un commovente «mia cara sorellina» e prosegue con un tono delicato: «Stavolta un rimprovero devo proprio fartelo...», ha aggiunto il fratello di Elisa, chiedendole «come ti è venuto in mente di farti ammazzare proprio in chiesa, e in quella chiesa per giunta». Subito dopo, però, la lettera assume un tono ironico e polemico, se non di aperta accusa, nei confronti di chi indagò sulla scomparsa di Elisa: «Pensa – scrive Gildo – a quel povero magistrato e ai poliziotti che hanno indagato, pensa poverini a quante cose dovranno spiegare». Non mancano riferimenti a Danilo Restivo, unico indagato nell’inchiesta, al padre, «un notabile amico di notabili», al questore che a Natale del 1993 «mise alla porta» la madre di Elisa («Tornò a casa piangendo, persa nel suo dolore dove spesso nemmeno noi riuscivamo a raggiungerla»), ai depistaggi: «E infine, ripeto, far ritrovare i tuoi miseri resti in una chiesa, questo proprio dovevi evitarlo», ha scritto Gildo alla sorella, facendo considerazioni critiche sul vescovo e sui sacerdoti della Santissima Trinità sul ritrovamento ufficiale del cadavere e sul fatto che, invece, era già stato trovato quasi due mesi prima.
IL TESTO INTEGRALE DELLA LETTERA
«Mia cara sorellina, stavolta un rimprovero devo proprio fartelo: ma come ti è venuto in mente di farti ammazzare proprio in chiesa, e in quella chiesa per giunta; e come se non bastasse te ne sei stata lì per 17 anni invece di prendere le tue poche cose e allontanarti con garbo ed in silenzio fino farti inghiottire per sempre dalle nebbie del tempo. Ti rendi conto che così facendo hai messo in imbarazzo tutti? Capisco che ti hanno toccato il cuore le lacrime di mamma e di papà, posso comprendere che hai voluto dare a me e Luciano (altro fratello) un segno tangibile che questi anni non sono trascorsi invano, ma potevi farlo in modo diverso e soprattutto evitando di mettere tante persone che contano nelle condizioni di dover spiegare i loro comportamenti davanti ad un paese intero.
Pensa adesso a quel povero magistrato e ai poliziotti che hanno indagato, pensa poverini a quante cose dovranno spiegare; come faranno a far capire alla gente che non sono mai entrati in quella chiesa a cercarti se non dopo tanti anni e peraltro senza trovarti. Hai messo in difficoltà anche noi che dobbiamo chiarire come mai a poche ore dalla tua scomparsa, ci precipitammo in chiesa ma non riuscimmo a salire fin sopra perchè le chiavi di quella porta le aveva solo il parroco che in quel momento non era presente.
Capisci, adesso dovremo spiegare come mai due ragazzi e pochi amici avevano avuto l'intuizione di andare a guardare lì, e investigatori di provata esperienza se ne sono semplicemente dimenticati. E poi sorellina mia, dovevi incontrarti proprio con Danilo (Restivo, indagato per la morte di Elisa) quel giorno? Hai messo di nuovo in difficoltà quel bravo magistrato e ancora una volta noi stessi. Ti rendi conto che abbiamo dovuto scavare nel passato di quel povero ragazzo, far venir fuori tutta una serie di episodi spiacevoli che lo riguardavano? Ci hai costretto ad accusarlo fin dal primo giorno, ma con l’intuizione dei grandi investigatori ci diedero dei pazzi, NOI. E poi era pur sempre il figlio del direttore della Biblioteca Nazionale, un notabile amico di notabili, dico io, non potevi incontrarti con il figlio di un operaio in cassa integrazione? Sarebbe stato tutto più semplice.
Ti rendi conto sorellina – prosegue la lettera di Gildo Claps alla sorella – che ora dovranno spiegare il motivo per cui non andarono ad interrogarlo quel giorno stesso, non sequestrarono i suoi vestiti, non acquisirono i tabulati telefonici? Quale imbarazzo per persone che negli anni hanno continuato a fare il loro 'dovere' mentre noi ci si consumava piano nel vuoto della tua assenza.
E ricordi quando mamma fu messa alla porta dal questore poco prima di quel Natale del 1993, il primo senza di te, ricordi le sue parole esatte: 'signora basta, non può venire ogni giorno qui con i suoi figli a disturbare, sua figlia è scappata di casa, lo vuole capire o no?' Tornò a casa piangendo, persa nel suo dolore dove spesso nemmeno noi riuscivamo a raggiungerla. E quando gli avvocati di uno degli indagati, attingendo a fonti confidenziali, ci dissero che eri in Albania? Noi pensammo subito ad un ennesimo depistaggio, ma da lassù sono certo che avrai visto per un attimo una scintilla negli occhi di mamma, era il riflesso sepolto della segreta speranza di saperti ancora in vita.
Pensa adesso se a qualcuno venisse in mente di andare a chiedere loro quali erano queste fonti confidenziali, capisci sorellina quale imbarazzo sarebbe per due stimati professionisti dover dare spiegazioni su questa vicenda? E infine, ripeto, far ritrovare i tuoi miseri resti in una chiesa, questo proprio dovevi evitarlo. Il vescovo, il parroco, il vice e giù fino all’ultimo anello della catena sono ora costretti a spiegare come, quando, chi? E già, sarebbe stato tutto così semplice, lineare, se fosse stato vero che un’impresa edile, nell’effettuare lavori di riparazione, avesse casualmente scoperto il tuo corpo. Invece no, tutto complicato in questa maledetta faccenda e ancora una volta tutto così imbarazzante. Forse sono state prima le donne delle pulizie, no scusa, il viceparroco, no lui non ne sapeva niente, era gennaio, no febbraio, sì, ma di quale anno? Il vescovo dice di non sapere, non ammette oggi di aver saputo ma non pensava che fossi tu (come se ciò facesse la differenza), però il giorno dopo il ritrovamento, con il suo avvocato si affretta a rassicurare i fedeli che la chiesa riaprirà presto al culto (era sicuramente questa la cosa che la città sconvolta voleva sapere per prima); il parroco sfida chiunque a dimostrare che lui sapesse, il vice sapeva ma se n'era dimenticato.
Da ultimo proprio ieri ho saputo sorellina, che qualcuno circa un anno fa, nei bagni del Gran Caffè aveva scritto più volte con un pennarello, Elisa Claps è nella Trinità, un altro matto certamente. Sai sorellina, sembra quasi che nessuno volesse trovarti ma che tanti sapessero dov'eri, forse devono aver fatto un pensiero profondamente cristiano, è stata buttata lì per tanti anni, anno più anno meno che cosa cambia? Oggi sorellina rischi di mettere in imbarazzo la parte buona di questa città, quella che non si è mai arresa, quella che si è stretta intorno a te e ha pianto con noi, quella che gridava verità e giustizia, quella che ripudia i compromessi, il quieto vivere, le consorterie e gli intrallazzi, quella che ha il coraggio di chiedere conto a tutti, che siano uomini di chiesa o di potere. Ti lascio, ma solo per il momento, e stai tranquilla, i tuoi cari non mollano, non temono la verità e se ne fregano di quanti imbarazzi possano ancora creare, la vergogna è solo la loro, noi siamo gente perbene».
IL MISTERO USTICA. Il 27 giugno 1980, alle 21 circa, i radar cessavano bruscamente di registrare la traccia dell'Itavia 870, un Dc-9 in volo tra Bologna e Palermo con a bordo 81 persone di cui 13 bambini. L'aereo sembrava scomparso, ma dopo alcune ore, spese in frenetiche quanto false ricerche, si raggiungeva la certezza che era caduto in mare a nord dell'isola di Ustica. Nessun superstite tra gli 81 passeggeri.
IL MISTERO BOLOGNA. Trenta anni di indagini e sentenze.
Ecco un riepilogo della lunga inchiesta giudiziaria, tra depistaggi di servizi deviati e colpi di scena, su quel 2 agosto 1980, quando una bomba esplose nella sala d'aspetto di seconda classe della stazione di Bologna causando 85 morti e 200 feriti. Quello di Bologna è stato l'attentato più grave della storia italiana ed è avvenuto poco più di un mese dopo la strage di Ustica sull'aereo partito da Bologna.
28 AGO 1980: arrestate diverse persone sulla base delle rivelazioni del pentito Giorgio Farina. Gli ordini di cattura sono 47 in tutto. Nella primavera del 1981 per competenza territoriale Bologna passa a Roma le indagini su 44 dei 47 indagati. Nell'aprile 1986 Roma scagiona tutti dall'accusa di associazione sovversiva.
6 FEB 1981: arrestato Giuseppe Valerio 'Giusva' Fioravanti, accusato anche di concorso nella strage di Bologna.
1 GIU 1981: si forma l'Associazione dei familiari delle vittime della strage.
5 MAR 1982: arrestata Francesca Mambro, colpita, tra le altre accuse, da un mandato di cattura per concorso nella strage. Lei e il suo compagno Fioravanti sono stati accusati da Massimo Sparti.
14 GIU 1986: 20 persone sono rinviate a giudizio per la strage.
19 GEN 1987: comincia a Bologna il processo di primo grado. L'11 luglio 1988 la seconda corte d'assise condanna all'ergastolo per il reato di strage Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco, per calunnia pluriaggravata a 10 anni di reclusione Licio Gelli (cinque anni condonati), Francesco Pazienza, il generale Pietro Musumeci e il colonnello Giuseppe Belmonte (tre anni condonati ciascuno). Otto le condanne per banda armata.
25 OTT 1989: comincia il processo d'appello. Il 18 luglio 1990 la corte d'assise d'appello annulla i quattro ergastoli inflitti in primo grado a Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco e li assolve dall'accusa di essere gli autori materiali della strage. La sentenza condanna per concorso nel reato di calunnia Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte a tre anni di reclusione ciascuno, tutti condonati. Per banda armata Valerio Fioravanti è condannato a 13 anni, Francesca Mambro a 12 anni, Gilberto Cavallini a 11 anni ed Egidio Giuliani a otto anni.
12 FEB 1992: la Corte di Cassazione a sezioni unite annulla la sentenza d'appello con rinvio ad un processo d'appello bis.
16 MAG 1994: una sentenza della prima corte d'assise d'appello di Bologna condanna all'ergastolo per la strage Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Sergio Picciafuoco, mentre assolve Massimiliano Fachini. Per il depistaggio delle indagini la corte condanna a dieci anni per calunnia aggravata da finalità di terrorismo Licio Gelli e Francesco Pazienza, a otto anni e cinque mesi Pietro Musumeci e a sette anni e 11 mesi Giuseppe Belmonte. Cinque le condanne per banda armata.
23 NOV 1995: le sezioni penali unite della corte di Cassazione confermano la sentenza d'appello che condanna all'ergastolo Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, confermate anche l'assoluzione per Massimiliano Fachini e le condanne per Licio Gelli, Francesco Pazienza, Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte. Per Sergio Picciafuoco la corte di Cassazione dispone l'annullamento della sentenza con rinvio a Firenze.
18 GIU 1996: la corte d'assise d'appello di Firenze assolve Sergio Picciafuoco ''per non aver commesso il fatto'' dall'accusa di strage. Il 15 aprile 1997 la Cassazione conferma l'assoluzione.
30 GEN 2000: una sentenza del tribunale dei minori di Bologna assolve Luigi Ciavardini, ex appartenente ai Nar, dall'accusa di aver partecipato alla strage, ma lo condanna a tre anni di reclusione per banda armata. Ciavardini all'epoca della strage aveva 17 anni.
17 NOV 2005: la procura di Bologna conferma di aver dato vita ad un'inchiesta bis sulla strage, nata dalle risultanze della commissione Mitrokhin. Al centro dei nuovi accertamenti (il fascicolo è contro ignoti) il terrorismo palestinese e due personaggi: il terrorista internazionale Carlos, conosciuto anche come 'lo sciacallo', e Tomas Kram, delle 'Revolutionaere Zellen' tedesche, esperto di esplosivi e legato a Carlos, che pernottò a Bologna nella notte tra l'1 e il 2 agosto, peraltro registrandosi in albergo col proprio nome.
11 APR 2007: la sentenza della Cassazione chiude la stagione dei processi contro Ciavardini. Per la Suprema Corte, che conferma la condanna di Ciavardini a 30 anni di carcere, l'ex Nar ha aiutato Mambro e Fioravanti nell'esecuzione della strage e vi ha partecipato materialmente. Il 24 marzo 2009 a Ciavardini è concessa la semilibertà.
APR 2009: al termine dei cinque anni di libertà condizionata che ha estinto la pena, Fioravanti torna in libertà. Il 7 ottobre 2008 il tribunale di sorveglianza di Roma aveva concesso la libertà condizionale alla Mambro fino al 2013. Mambro e Fioravanti hanno sempre negato di aver messo la bomba alla stazione di Bologna.
IL MISTERO MATTEI. Lunedì 27 ottobre 2008, nel palazzo dell'Associazione Nazionale Partigiani Cristiani di Piazza Adriana 3 in Roma, si è svolto un convegno dedicato a Enrico Mattei nel 46° anniversario della sua morte, dal titolo: La straordinaria 'vicenda Mattei' fra oblio e occultamento. Questo in occasione dell’inizio del master dell’'Istituto Enrico Mattei Alti Studi in Vicino e Medio Oriente presieduto dal prof. Moffa, che è ormai noto per la sua instancabile ricerca della verità storica di contro alle "verità storiche rivelate" del politicamente corretto, strumentalizzate a fini di controllo del pensiero.
In quella sede vi era il magistrato Enzo Calia, autore dell'inchiesta sull'attentato aereo di Bascapé in cui morì Mattei. E' la prima volta che il pubblico ministero Enzo Calia parla diffusamente della sua inchiesta, archiviata nel 2005 ma con importante risultato certo: quello in cui morì Mattei fu attentato e non "incidente", come ufficialmente ripetuto per decenni dopo il 1962.
Cominciamo dalle fondamenta, che è allo stesso tempo cronaca dei nostri giorni, l'economia mondiale in crisi, la rovina di tantissimi lavoratori e famiglie, i timidi o difficili tentativi di reazione del capitalismo industriale produttore di ricchezza reale, ai contraccolpi borsistici della finanza transnazionale. Una dialettica oggi forte e eclatante, dopo che alla svolta del secolo il rapporto fra capitale industriale e capitale finanziario ebbe raggiunto il gap di 1 a 10, ma vecchia quasi quanto il capitalismo e già esistente al tempo di Enrico Mattei: figura eccezionale – il fondatore e presidente dell'ENI - di capitalista di stato, sostenitore del sistema misto pubblico-privato, produttore come pochi capitani d'industria italiani di "ricchezza reale" per il benessere e lo sviluppo del suo paese: a cominciare, ma non solo, dalla metanizzazione dell'apparato produttivo nazionale.
IL MISTERO MORO. Sono stati - e sono destinati a restare - i 55 giorni più misteriosi dell’intera storia dell’Italia repubblicana.
Ancora oggi soltanto rievocare il caso Moro vuol dire preparasi ad entrare in un ramificato tunnel di segreti e interrogativi, di domande senza risposta e di inconfessabili trame.
Il tempo che corre non solo ci allontana dalla completa verità sulla strage di via Fani, la lunga detenzione di un uomo politico di primo piano e la sua orrenda fine, ma rende tutto più complesso.
Il trascorrere degli anni che sempre più ci fa apparire lontano quel tragico evento, anziché semplificare il quadro di insieme della vicenda, tende ad aggiungere nuovi tasselli ad un mosaico che appare ormai infinito. Aldo Moro, presidente della DC, per almeno vent’anni personaggio centrale della politica italiana, viene sequestrato da un commando delle Brigate Rosse il 16 marzo 1978, in via Fani a Roma, alla vigilia del voto parlamentare che – per la prima volta dal 1947 - sancisce l’ingresso del partito comunista nella maggioranza di governo.
Per rapirlo la sua scorta, composta da cinque uomini, viene sterminata. Il gruppo armato che s’impadronisce di Moro afferma di volerlo processare, per processare tutta la Democrazia Cristiana, forse addirittura non rendendosi conto di aver gettato sulla scena politica nazionale una bomba Cristiana, forse addirittura non rendendosi conto di aver gettato sulla scena politica nazionale una bomba ad alto potenziale. I 55 giorni in cui Moro sarà detenuto in un "carcere del popolo" apriranno infatti una serie di enormi contraddizioni in seno all’intera classe politica italiana, mentre i brigatisti finiranno col dimostrarsi – con i loro documenti miopi e vetusti - completamente avulsi dalla realtà storica del paese.
La fine di Moro è nota: il 9 maggio 1978 Mario Moretti, capo dell’organizzazione armata, lo ucciderà, "eseguendo la sentenza", così come scritto nell’ultimo comunicato delle BR. Quel colpo di pistola, con tanto di silenziatore, risulta assordante ancora oggi.
Cinque diversi procedimenti giudiziari con più di una decina di sentenze, una sesta inchiesta avviata (" Il Moro sesties"); i particolareggiati racconti dei brigatisti rossi ("pentiti" o dissociati); il lungo lavoro di una commissione parlamentare d’inchiesta (la commissione Moro); l’impegno di un altro organismo parlamentare (la commissione stragi); almeno una ventina di libri. Eppure l’ombra di Aldo Moro continua a muoversi nelle segrete stanze del potere con il suo fardello di misteri, di punti non chiariti, di dubbi ed interrogativi.
Anche se il tempo passa e ci allontana sempre più da quei tremendi 55 giorni, il caso Moro continua a rappresentare il nodo dei nodi dei misteri d’Italia.
Sommersi dallo stillicidio di notizie – spesso contraddittorie – che da quasi un quarto di secolo ci vengono propinate con ossessiva regolarità, è sempre più facile giungere ad una conclusione: nell’affaire Moro la volontà di attacco allo Stato di un manipolo di terroristi si è perfettamente intrecciata con la capacità di quello stesso Stato di gestire l’intera, tragica vicenda a proprio vantaggio.
A distanza di tanti anni ancora non sappiamo: quanti brigatisti parteciparono all’assalto di via Fani; se tra loro ci fossero elementi esterni; se quell’attacco fu, in qualche modo, teleguidato; dove Moro fu custodito; cosa effettivamente il prigioniero raccontò ai suoi secondini; chi decise effettivamente di ucciderlo e, soprattutto, perché; che fine hanno fatto "le rivelazioni integrali" (il famoso memoriale Moro).
Non sappiamo neppure se quella delle forze dell’ordine chiamate a liberare il prigioniero fu solo clamorosa inefficienza oppure occulta connivenza con i sequestratori. Sappiamo però che sia gli uomini dei servizi segreti, sia quelli della P2 nel caso Moro ebbero un ruolo per certi versi determinante.
L’eco suscitato dalle clamorose dichiarazioni rilasciate dall’On. Giovanni Galloni, Vice Segretario Vicario della DC ai tempi del rapimento di Aldo Moro, aprono squarci nuovi su cosa accadde in quella primavera del 1978.
Dice Galloni: "Moro mi disse che sapeva per certo che i servizi segreti sia americani sia israeliani avevano degli infiltrati all'interno delle Brigate Rosse. Però non erano stati avvertiti di questo".
Altre inquietanti testimonianze intervengono a a dissipare la nebbia disinformativa.
La testimonianza di Francesco Fonti raccolta da Riccardo Bocca.
Il pentito della 'ndrangheta Francesco Fonti rivela come, dietro richiesta di parte della Democrazia cristiana, cercò la prigione di Aldo Moro durante il suo rapimento: dai contatti con il Sismi a quelli con la banda della Magliana e Cosa Nostra. Fino all'incontro con il segretario Dc Benigno Zaccagnini.
Si chiama Francesco Fonti, e il suo nome rimbalza tra giornali e televisioni. Grazie al dossier che ha consegnato alla Direzione nazionale antimafia, pubblicato da "L'espresso" nel 2005, i magistrati della Procura di Paola e la regione Calabria hanno individuato il 12 settembre 2009, al largo della costa cosentina, il relitto di un mercantile carico di bidoni: il primo passo verso una verità che riguarda il traffico internazionale di scorie tossiche e radioattive. Un intreccio tra politica, servizi segreti e malavita organizzata."Soltanto un aspetto, per quanto grave, della mia attività", lo definisce Fonti (condannato a 50 anni di carcere, prima di iniziare la collaborazione con i giudici). E sempre Fonti decide di rivelare all’espresso un altro capitolo della sua vita criminale: il ruolo che avrebbe avuto nel tentativo di salvare la vita al presidente della Democrazia cristiana, Aldo Moro, rapito il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse e trovato morto nel centro di Roma il 9 maggio seguente. Un compito, dice, affidatogli dal boss Sebastiano Romeo, dietro richiesta di una parte della Dc. Ecco il drammatico racconto, in prima persona, di quelle tre settimane, pubblicato da “L’espresso” del 22 settembre 2009.
"Il mattino del 20 marzo 1978 si presenta nel mio appartamento a Bovalino, sulla costa jonica in provincia di Reggio Calabria, Giuseppe Romeo, fratello del boss Sebastiano che in quel momento è al vertice della famiglia di San Luca: "Sebastiano ti vuole incontrare immediatamente", dice Giuseppe. E sono parole che non prevedono repliche. Sebastiano non è soltanto il mio capo, ma anche uno degli uomini più potenti della 'ndrangheta. Dunque non discuto e obbedisco, ritrovandomi poco dopo seduto al tavolo ovale del suo salone. Sono preoccupato, non so cosa aspettarmi, ma lui non perde tempo: "Ciccio, hai visto questa brutta storia di Aldo Moro?", dice. "Ecco, dobbiamo intervenire. Devi salire di corsa a Roma. Devi individuare, tramite i nostri paesani e i contatti che hai con questi cazzi di servizi segreti, dove si nascondono i brigatisti che hanno rapito il presidente".
Non mi lascia aprire bocca, Sebastiano. È innervosito dall'allarme nazionale procurato dal caso Moro, un clamore che sta disturbando gli affari della nostra organizzazione. "Ho ricevuto pressioni a due livelli", spiega: "Mi hanno chiamato Riccardo Misasi e Vito Napoli (figure di spicco della Democrazia cristiana calabrese), ma anche certi personaggi da Roma...". Non precisa chi sono, queste persone. Ribadisce, invece, che la missione è di importanza straordinaria, e non avrebbe accettato un mio fallimento.
Con questa premessa parto per la Capitale il giorno dopo. Salgo sulla mia Renault 5 Alpine grigia metallizzata e scarico i bagagli all'hotel Palace di via Nazionale, dove ho già soggiornato e dove consegno documenti falsi intestati a un inesistente Michele Sità. Poi mi metto in contatto con un agente del Sismi che si fa chiamare Pino: un trentenne atletico, alto circa un metro e ottanta, con capelli corti pettinati all'indietro. L'ho conosciuto anni prima tramite Guido Giannettini, il quale ha cercato di blandirmi per ottenere informazioni sulla gerarchia interna della 'ndrangheta. Visto il solido rapporto tra me e Pino, gli chiedo cosa sappiano i servizi del caso Moro, e se abbiano scoperto dove si trovano i carcerieri delle Br. Lui risponde vago, dicendo che è una storiaccia, e che neppure lui è riuscito a capire come stiano le cose. In compenso, mi invita a parlare con il segretario della Democrazia cristiana Benigno Zaccagnini, il quale sta lavorando sotto traccia per aiutare Moro. Un'ipotesi diventata, poche ore dopo, un vero appuntamento.
Al termine di una giornata convulsa (durante un ultimo controllo alla Fiat 130 su cui viaggiava Moro, è stata trovata una terza borsa non elencata nel verbale della prima perquisizione) rivedo infatti l'agente Pino, che nel frattempo ha parlato con Zaccagnini. E mi dice di presentarmi il giorno dopo, alle 10 della mattina, al Café De Paris di via Veneto. Specificando: "In mano devi tenere la "Gazzetta del sud"", di cui mi consegna una copia. "In questo modo, il segretario ti riconoscerà facilmente".
Il mattino del 22 marzo, mentre al Viminale si riunisce il Comitato tecnico operativo gestito dal ministro dell'Interno Francesco Cossiga, arrivo puntuale all'appuntamento. Mi siedo a un tavolino nel dehors del Cafè de Paris, e aspetto circa dieci minuti. Dopodiché arriva il segretario Zaccagnini: dà un'occhiata attorno, mi individua e si accomoda di fronte a me. Forse, penso, ha qualche indicazione chiave da riferirmi. Ma non è così: "È un brutto momento per la coscienza di tutto il mondo politico", inizia senza neppure avermi detto buongiorno. Si vede che è imbarazzato, e irritato, per essere costretto a incontrare uno come me. "Mi creda", prosegue, "non avrei mai immaginato un giorno di sedermi davanti a lei in qualità di petulante. Non sono mai sceso a compromessi, ma se sono venuto a incontrarla, significa che il sistema sta cambiando. Faccia in modo che quella di oggi non sia stata una perdita di tempo, ma piuttosto una svolta decisiva. Ci dia una mano e la Dc, di cui mi faccio garante, saprà sdebitarsi". Poi sorseggia un sorso d'acqua, si alza per andarsene e aggiunge: "Noi non ci siamo mai incontrati... Se ci saranno notizie che vorrà darmi di persona, le dirà all'agente Pino".
La mia risposta, visto l'atteggiamento scostante del segretario, è gelida. Mi limito a comunicargli che mi sono attivato per recuperare le informazioni utili. E aggiungo: "Sicuramente le nostre ricerche saranno fruttuose, e le saranno comunicate da me in prima persona". Parole che pronuncio con convinzione. Non posso sapere che questa sarà la prima e unica volta che incontrerò Benigno Zaccagnini, e tantomeno che nelle settimane seguenti succederanno fatti anche per me sorprendenti.
A partire dall'incontro con un malavitoso capitolino, noto con il soprannome di "Cinese" per i baffetti alla mongola. Non so quale sia il suo vero nome, ma è certamente inserito nella celebre banda della Magliana. Me lo spiega il referente romano di Cosa nostra, Pippo Calò, il quale garantisce che può essermi utile: "Quelli sanno tutto?", dice. E aggiunge che, in quelle stesse ore, anche Cosa Nostra sta lavorando per i politici romani all'individuazione dei carcerieri di Aldo Moro. "So bene che le promesse dei politici non vengono mantenute", mi dice, "ma dobbiamo aiutarli per cercare di ottenere l'annullamento degli ergastoli inflitti ai nostri uomini". Da parte mia, ho forti perplessità a trattare con la malavita romana, perché in Calabria si dice che con i romani si può mangiare e bere, ma non fare affari. Parlano troppo. Si vantano e cacciano tutti nei guai. Così, quando incontro il Cinese tramite Bruna P., una donna con la quale ho una relazione, e che ha un negozio di biancheria intima dove ricicla soldi della Magliana, sono molto prudente. Ci vediamo il 25 marzo, giorno in cui le Br diffondono il loro secondo comunicato, in una birreria di via Merulana, a poche decine di metri da piazza San Giovanni. E il mio interlocutore non tarda a fare lo sbruffone: "Lo sanno tutti dove sono nascosti Mario Moretti e tutti gli altri!", ride. Impugna un boccale di birra da un litro, e nonostante la delicatezza del tema parla a voce alta nel locale affollatissimo: "I rapitori di Moro si trovano in un appartamento in via Gradoli, dalle parti della Cassia", dice. Non mi indica il numero esatto, ma in ogni caso non ha dubbi: "Se lo volessero trovare, Moro, non ci vorrebbe niente. Però chi lo vo' trovà, a quello?", conclude con un'altra risata.
Inutile dire che rimango perplesso: da una parte mi fa divertire, come si comporta il Cinese, dall'altra temo di buttare il mio tempo. Com'è possibile, mi domando, che tutta la malavita di Roma sia al corrente di dove si trova il covo delle Brigate rosse? Ci vogliono ben altre conferme, penso, prima di contattare Zaccagnini; e anche per questo decido di parlare con Angelo Laurendi, un 'ndranghetista di Sant'Eufemia D'Aspromonte che conosco da tempo e che spero possa darmi notizie interessanti. Una speranza, purtroppo, infondata, ma questo non significa che la nostra chiacchierata sia inutile. Angelo, infatti, mi accompagna sulla sua Lancia Appia nel comune di Ciampino, e per la precisione in un negozio di mobili il cui proprietario è Morabito di Reggio Calabria, un 'ndranghetista di cui non conosco il nome di battesimo. È comunque in quel momento un uomo tarchiato, sulla quarantina abbondante, con la barba scura e una piccola cicatrice sullo zigomo. Mi accoglie cordiale e rispettoso in ufficio, e quando domando se gli risulta di un appartamento delle Brigate rosse in via Gradoli, annuisce: "Voi potete stare sicuro che qualcosa c'è, in via Gradoli", dice. "Mi hanno detto che i brigatisti gestiscono un appartamento, lì, e probabilmente c'entra con Moro".
A questo punto, capisco che l'indicazione datami in prima battuta dalla banda della Magliana non è così improbabile. Perciò ricontatto l'agente Pino, gli faccio credere di non sapere ancora nulla, e insisto per ottenere nuovamente aiuto. Una richiesta che non può rifiutare, visto il nostro legame, tant'è che dopo avere premesso che sono in atto vari depistaggi, mi suggerisce di parlare con l'appuntato dei carabinieri Damiano Balestra, addetto all'ambasciata di Beirut sotto il comando del colonnello del Sismi Stefano Giovannone, il quale gli ha raccomandato di salvare a tutti i costi il presidente Moro (non a caso, in una sua lettera durante la prigionia, Moro invoca proprio l'intervento di Giovannone). "Balestra ha ottime fonti", dice l'agente Pino. E non sta esagerando. Ne ho la riprova quando ci vediamo tutti e tre (io, Pino e Balestra) negli ultimissimi giorni di marzo, davanti a un bar nel quartiere romano dell'Alberone, dalle parti di via Tuscolana. È pomeriggio, e parliamo a bordo della Lancia di Pino. Il discorso dell'appuntato Balestra è chiarissimo: "Io sto dando l'anima", dice, "per arrivare alla liberazione del presidente, ma continuo a sbattere contro un muro. Ogni informazione che ricevo è vera e falsa allo stesso tempo. Non distinguo più tra chi mi vuole aiutare e chi cerca di farmi girare a vuoto. In più c'è la guerra politica, con i socialisti che vogliono vivo Moro, e gran parte della Dc che finge di volerlo liberare". Poi sussurra: "In questo covo di cui si vocifera, in via Gradoli 96, non abita nessuno. O almeno, così dice chi ha verificato (un primo sopralluogo in via Gradoli 96 è avvenuto il 18 marzo: sono stati perquisiti tutti gli appartamenti tranne quello affittato dalle Br,dove l'inquilino non ha risposto al campanello e gli agenti se ne sono andati)". In ogni caso, insiste Balestra, ha la certezza che in quella casa bazzichino i brigatisti, anche se non sono stati fermati.
È qui che capisco quanto la mia trasferta romana rischi di essere inutile. Il dramma di Moro campeggia sulle prime pagine dei giornali, i partiti si mostrano formalmente costernati, ma dietro le quinte si consuma qualcosa di inconfessabile. Chi si batte veramente, con tutte le forze, per individuare i covi delle Br, non viene appoggiato. Anche se è una persona seria come il democristiano siciliano di corrente fanfaniana Benito Cazora (scomparso nel 1999); un parlamentare che cerca di incontrare chiunque possa svelargli dove si nascondano i brigatisti e dove sia segregato Moro. Tra gli altri, il deputato parla con un certo Salvatore Varone, 'ndranghetista che noi chiamavamo Turi, ma che si presenta a Cazora come Rocco, incontrandolo in varie occasioni delle quali non conosco i particolari.
Posso invece riferire, per quel che mi riguarda, che contatto l'onorevole Cazora tramite Morabito di Ciampino, il quale dice che questo parlamentare "sta impazzendo per avere informazioni sul presidente Moro". Fisso quindi un incontro con lui a Roma, nel ristorante Rupe Calpurnia, dove noi 'ndranghetisti abbiamo festeggiato il compleanno dell'affiliato Rocco Sergi. Il nostro dialogo è breve e teso, e si svolge in presenza degli 'ndranghetisti Morabito e Laurendi. Cazora è angosciato, in effetti. Mi spiega che ha già parlato con un altro calabrese, Rocco, e che è perplesso perché ha fatto lo spaccone: "Sostiene", mi dice Cazora, "che può recuperare informazioni visto che i calabresi a Roma sono 400 mila, e perciò possono controllare il territorio'. Io, dentro di me, penso che sono strane frasi, per uno come Varone che nella 'ndrangheta conta come il due di picche. In ogni caso, non faccio commenti perché non so chi frequenti Varone. Mi limito a informare il deputato che mi sto muovendo, dietro un mandato politico, per trovare il covo dei brigatisti, anche se non ho notizie certe. Al che lui risponde: "Mi auguro sinceramente che abbiate più fortuna di me, grazie alle vostre amicizie". Intanto i giorni passano, e la situazione si fa sempre più drammatica. Il 29 marzo le Brigate rosse recapitano il terzo comunicato, con allegata una lettera di Aldo Moro per il ministro dell'Interno Cossiga. Il 4 aprile tocca a un quarto comunicato, trovato con l'angosciante missiva in cui Moro si rivolge a Zaccagnini (sulla trattativa per la liberazione, il presidente scrive: "Tener duro può apparire più appropriato, ma una qualche concessione è non solo equa, ma anche politicamente utile. Come ho ricordato in questo modo civile si comportano moltissimi Stati. Se altri non ha il coraggio di farlo, lo faccia la Dc che, nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili. Se così non sarà, l'avrete voluto e, lo dico senza animosità, le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone"). È evidente, dopo simili parole, che il dramma del sequestro rischia di incanalarsi verso la peggiore conclusione, e io stesso temo di fallire la missione. Ma mentre il clima si invelenisce, e le speranze di salvare Moro diminuiscono, mi ricontatta l'agente Pino per farmi sapere che Giuseppe Sansovito, numero uno (piduista) del Sismi, ha espresso il desiderio di parlarmi. E così accade. Di lì a poco, Pino mi porta dal capo a Forte Braschi, e dopo un dialogo interlocutorio Santovito mi chiede se ho notizie precise riguardo a un appartamento in via Gradoli 96. Gli rispondo che, in effetti, ho sentito questo indirizzo da amici, e lui commenta: "Tutto vero, Fonti: è giunto il momento di liberare il presidente Moro". In ogni caso, aggiunge congedandomi, "teniamoci in contatto tramite Pino".
La mattina dopo, quella di domenica 9 aprile (o di lunedì 10, non vorrei sbagliarmi), lascio la Capitale e mi precipito a San Luca da Sebastiano Romeo. Sono soddisfatto perché non soltanto so dove probabilmente sono nascosti i brigatisti, ma c'è anche il preannuncio datomi dal colonnello Santovito della futura liberazione del presidente Moro. Quando però incontro Sebastiano, lui ascolta con attenzione il mio resoconto per una mezz'ora, dopodiché mi stronca: "Sei stato bravo", riconosce. "Peccato che da Roma i politici abbiano cambiato idea: dicono che, a questo punto, dobbiamo soltanto farci i cazzi nostri". Una frase assurda, imprevedibile, che lì per lì incasso in silenzio, ma che di fatto vanifica il mio lavoro nella Capitale. Sono stanchissimo, amareggiato. Ho indagato come si deve, a Roma, e adesso dovrei fottermene come se ne fotte l'intera classe politica. Ci provo con tutto il cuore, ma non ci riesco: sono un 'ndranghestista di primo livello con tanto di sgarro (indispensabile per accedere al massimo livello dell'organizzazione), ma sono anche una persona che sa dire di no, a volte: e questa è una di quelle volte. Dopo l'incontro con Romeo, dunque, torno a Bovalino e telefono alla Questura di Roma, presentandomi al centralinista come Rocco. "Andate a Roma, in via Gradoli al numero 96", scandisco, "e troverete i carcerieri di Aldo Moro". "Da dove sta chiamando?", domanda il centralinista allarmato. "Chi parla? Chi è lei?", insiste. Ovviamente non rispondo; abbasso la cornetta e provo a non pensarci più.
Una promessa impossibile da mantenere. Poco dopo, il 18 aprile 1978, il covo di via Gradoli 96 viene scoperto per una strana perdita d'acqua. Dei brigatisti, come logico viste le premesse, non c'è traccia. E a questo punto so bene il perché: non c'è stata la volontà di agire. C'è invece, molti anni dopo, nel 1990, il mio incontro nel carcere di Opera (provincia di Milano) con il capo delle Br Mario Moretti, colui che ha ammesso di avere ucciso il presidente Moro, assieme al quale frequento casualmente un corso di informatica. I nostri rapporti si fanno presto cordiali, piacevoli; lui sa esattamente chi sono e mi rispetta. Io pure. Finché un giorno, mentre armeggiamo al computer, una guardia gli consegna una busta e annuncia: "Moretti, c'è la solita lettera". Lui la apre senza nascondersi, estrae un assegno circolare, lo firma sul retro per girarlo all'ufficio conti correnti che permette l'incasso, e mi dice: "Questa, Ciccio, è la busta paga che arriva puntualmente dal ministero dell'Interno". Frase che all'istante scambio per una battuta, per uno scherzo tra carcerati: sbagliando. Qualche tempo dopo, un brigadiere che credo si chiami Lombardo mi confida che, per recapitare soldi a Moretti, lo hanno fatto risultare come un insegnante di informatica, e in quanto tale è stato retribuito. L'ennesimo mistero tra i misteri del caso Moro, dico a me stesso; l'ennesima zona grigia in questa storia tragica.
“Doveva morire”. Chi ha ucciso Aldo Moro. Il giudice dell'inchiesta racconta.
Libro di Ferdinando Imposimato e Sandro Provvisionato.
Il caso Moro è una tragedia per la quale non tutti hanno pagato le loro colpe. Perché il suo sacrificio e quello dei cinque uomini della scorta non sia vano, scrivono gli autori, occorrono ulteriori indagini e l'istituzione di una commissione d'inchiesta internazionale, formata da giuristi indipendenti. Dopo decenni, nonostante il tempo abbia portato a naturale declino molti dei motivi ispiratori di quella triste stagione, resta a noi la sensazione di un cammino incompiuto della democrazia nel nostro Paese. Un Paese che non sa fare i conti con il proprio passato cammina a rilento, circondato da troppe ombre e da troppi fantasmi.
«Vede, a coloro che lo hanno fatto uccidere non posso stringere la mano….perchè uno può dire li perdono e io nel profondo li ho perdonati. Ma quando li vedo, attraverso la strada e vado dall'altra parte». Nella breve intervista posta a conclusione del libro-inchiesta scritto dal giudice Ferdinando Imposimato e dal giornalista Sandro Provvisionato, Eleonora, moglie di Aldo Moro, lo statista democristiano sequestrato e assassinato dalle Br, non pronuncia mai i nomi dei "quattro stupidi mascalzoni" le cui "perverse mire" hanno causato la morte di un innocente. Ma quei nomi ricorrono nelle oltre 350 pagine di minuziosa ricostruzione di uno dei grandi misteri mai compiutamente risolti della storia italiana del dopoguerra. I nomi non sono solo "di quei poveretti" che gli hanno sparato, ma anche e soprattutto dei dirigenti DC, Andreotti e Cossiga in testa, che nulla fecero, meglio tutto misero in atto per impedire l'apertura di un canale di trattative per liberare l'amico di Partito, simbolo non solo del gruppo dirigente democristiano, ma responsabile dell'apertura al Pci, del tentativo di cancellare " il fattore K " ovvero l'esclusione pregiudiziale dei comunisti da qualsiasi ipotesi di governo o di maggioranza.
" Doveva morire ". A partire dal titolo, il libro di Imposimato e Provvisionato indica con nettezza una tesi. Aldo Moro è stato volutamente abbandonato al suo destino dal gruppo dirigente DC e non per la superiore " ragion di stato ", ovvero la volontà di non cedere al ricatto terrorista. La sua morte dopo il sequestro, a giudizio degli autori, non aveva alternative "per stabilizzare la situazione interna e salvare milioni di italiani dal comunismo". Non solo: l'allora ministro degli Esteri conosceva troppi segreti, dall'organizzazione paramilitare Gladio allo scandalo Lockheed, dai finanziamenti occulti della Dc all'affare Montedison fino ai veri burattinai di quel processo di destabilizzazione che tenne sotto scacco per troppo tempo il nostro Paese, passato sotto il nome di strategia della tensione.
Libro di parte, dunque. Imposimato è uno dei magistrati incaricati dell'indagine poi arenatasi per l'incomprensibile decisione di avocare l'inchiesta alla procura generale, togliendo ogni capacità investigativa ai giudici istruttori. E' lui "la voce narrante" dell'inchiesta, cucita dalle abili mani di un cronista di razza, Sandro Provvisionato, responsabile degli speciali del Tg 5 e con alle spalle una lunga carriera e dodici anni trascorsi all'Ansa, da praticante fino a capo della redazione politica. La tesi non è perciò frutto di un generico anatema, ma la puntigliosa ricostruzione dei cinquantacinque giorni del sequestro e dei fatti che precedettero e seguirono il tragico evento. Un'inchiesta densa di fatti, documenti, testimonianze che fanno da supporto all'ipotesi istruttoria. Il filo da dipanare si presenta con tale groviglio che non tutti i nodi si sciolgono al termine della disamina. Ci sono parti, soprattutto relative al coinvolgimento di servizi segreti di altri paesi o ai legami del terrorismo internazionale, che si fermano sulla soglia di ipotesi, sia pure plausibili. Sono invece le pagine dedicate alla ricostruzione del sequestro che si presentano con un impianto di indiscutibile robustezza.
Una particolare citazione merita il capitolo delle occasioni mancate, ovvero delle opportunità di giungere alla prigione dove era tenuto Aldo Moro o all'arresto di carcerieri e complici. Il 18 marzo 1978, solo due giorni dopo la strage di via Fani, i poliziotti bussano alla porta di via Gradoli, dove vivono il capo delle BR Mario Moretti e la sua compagna Barbara Balzerani, due dei brigatisti che componevano il commando di via Fani. Gli agenti non ottengono risposta e se ne vanno. La base brigatista verrà scoperta trentadue giorni dopo il rapimento. La prigione di via Montalcini viene ufficialmente trovata solo nel 1980. Ma l'Ucigos, struttura di servizi alle dirette dipendenze del ministro degli interni, c'era arrivata due anni prima raccogliendo significative testimonianze degli inquilini rimaste senza esito. Infine l'incredibile vicenda dell'appartamento di Via Monte Nevoso 8 a Milano, forse la ricostruzione più completa e ricca di documentazione tra le molte proposte di questi anni sul caso. Nello stabile i carabinieri fanno irruzione il primo ottobre 1978, a ridosso della nomina del generale Dalla Chiesa a capo dei reparti speciali antiterrorismo. Nel blitz vengono catturati i brigatisti Nadia Mantovani, Lauro Azzolini e Franco Bonisoli, ma soprattutto viene trovato il memoriale Moro. Tutto? No, perché a dispetto di cinque giorni di attento scandaglio, ai militari stranamente sfugge una parte dei manoscritti, celata dietro un pannello in cartongesso che verrà rimosso dodici anni dopo dai nuovi inquilini. Dietro quel fragile paravento verranno fatte trovare le carte più scottanti del memoriale, le risposte dello statista DC alle domande scritte di Moretti. Guarda caso, quelle domande riguardano proprio i misteri prima ricordati, da Gladio in poi, che rendevano crudelmente improponibile il ritorno alla libertà di Aldo Moro.
Il duro j'accuse contro i dirigenti DC alla guida del governo in quei giorni drammatici, Andreotti e Cossiga in testa, è condotto con rigore documentale. «Nella storia del delitto Moro la prudenza è d'obbligo- scrive Imposimato nelle conclusioni- Occorre evitare di passare da una verità di comodo a una scarsamente dimostrata. Ma occorre anche evitare l'errore opposto: pretendere prove matematiche e assolute, granitiche per dimostrare un fatto. La verità non è facile da scoprire, ma non è possibile chiudere gli occhi di fronte a una storia che ha nei documenti occultati e fortunosamente ritrovati il suo fondamento indiscutibile. Con l trascorrere degli anni e l'acquisizione di nuove prove – afferma Imposimato – e soprattutto dopo il lavoro di redazione di questo libro mi appare chiara una cosa: il sequestro Moro, partito come azione brigatista alla quale non è estranea l'appoggio della Raf e l'interessamento, per motivi opposti, di Cia e Kgb, è stato gestito direttamente dal Comitato di crisi costituito presso il Viminale. Il delitto Moro non ha avuto una sola causa. Ma ha rappresentato il punto di convergenza di interessi disparati. In questa operazione perfettamente riuscita, sono intervenuti la massoneria internazionale, agenti della Cia (Ferracuti, criminologo che tracciò il profilo del Moro non più Moro dentro il covo delle Br), del Kgb (l'agente Sokolov presentatosi a Moro come studente borsista), la mafia (Pippo Calò che si interessò con i suoi contatti con la Banda della Magliana per scoprire il covo) ed esponenti del governo (Cossiga ministro dell'interno ed Andreotti presidente del Consiglio), gli stessi inseriti nel comitato di crisi. Tutti questi dopo il 16 marzo 1978, hanno vanificato le opportunità emerse per salvare la vita di Moro, spingendo di fatto le Br ad ucciderlo».
IL MISTERO SULLA MASSONERIA. L’inchiesta portata avanti da De Magistris probabilmente tocca quello che a nostro parere è il problema più grosso del nostro stato, da decenni: i rapporti tra criminalità organizzata, politica e finanza. Pochi si ricordano dell’inchiesta che nel 1992 Cordova fece sulla massoneria calabrese. E pochi hanno notato le similitudini con l’attuale inchiesta di De Magistris. Vale la pena ricordarle.
IL MISTERO PEDOFILIA. Quanto ha svelato la maxi-inchiesta di Torre Annunziata sulla pedofilia via Internet, va al di là di ogni immaginazione. Centinaia, forse migliaia, di piccoli seviziati. Bambini stuprati, uccisi e filmati. L’allarme, tuttavia, era stato lanciato da tempo. Un numero incredibile di persone sparisce ogni giorno nel nulla, soprattutto giovanissimi. Molti di loro si trovano, di altri non se ne sa più niente. E’ come se si fossero volatilizzati, spariti. Nel mondo spariscono ogni anno molte migliaia di persone. Ogni anno in Italia sono dichiarati scomparsi oltre 2000 minori. Alcuni di loro tornano a casa da soli, altri vengono ritrovati dalle Forze dell'Ordine, altri ancora non hanno mai fatto ritorno.
IL MISTERO DEL MOSTRO DI FIRENZE. Il mostro di Firenze: quella piovra insinuata ai vertici dello Stato. Una strage di Stato mai chiamata come tale. Nella vicenda del mostro di Firenze è stato scritto tanto. E i dubbi sono tanti. Pacciani era davvero colpevole? C’erano veramente dei mandanti che commissionavano gli omicidi? Pochi si sono occupati invece di un aspetto particolare di questa vicenda: i depistaggi, le coperture eccellenti, le morti sospette.
IL MISTERO MOBY PRINCE. Si delineano nuovi sconcertanti scenari per la tragedia del Moby Prince, il traghetto sulla rotta Livorno - Olbia che appena uscito dal porto alle 22:27 del 10 aprile 1990, entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo, provocando la morte di 140 persone bruciate vive perché rimaste per un'ora senza il minimo soccorso.
Il legale di parte civile, avrebbe scoperto prove mai esaminate nel corso delle numerose inchieste che si sono succedute negli anni attorno alla vicenda che, per il muro di omertà che la circonda ed i suoi risvolti internazionali, è stata definita “Ustica del mare”.
PEDOFILIA. LA FABBRICA DEI MOSTRI.
La fabbrica dei mostri, scrive il 24 ottobre 1997 Vita. Inchiesta Viaggio nella giustizia che stritola. Tre storie esemplari. Una persona normale. Con una famiglia, un giro di amici, vicini di casa, la portinaia nell’androne che saluta ogni mattina. Poi, all’improvviso, tutto cambia. Un’indagine, un delitto ripugnante, una voce, un’accusa che schiaccia, l’arresto, i giornali. E la persona normale si trasforma in un mostro. La normalità si spezza, la portinaia non saluta più. E fosse solo quello. Creare mostri sembra essere diventato molto, troppo facile. Inutili i richiami al silenzio e alla discrezione; la legge sulla privacy, spesso invocata per difendere i vip dai paparazzi, è infranta da inchieste che trascinano nell’occhio del ciclone persone indagate (e quindi innocenti fino a prova contraria), esponendole alla gogna telematica di giornali e Tv, condannandole senza appello, distruggendo le loro vite. Un copione visto ormai centinaia di volte, tanto da poter essere in qualche modo codificato e descritto come un percorso a tappe, un macabro gioco dell’oca al termine del quale un cittadino si trasforma in pericolo pubblico numero uno. Sempre prima, però, che ciò possa essere dimostrato in un’aula di tribunale. Seguiremo le tappe di questo gioco prendendo in esame due casi di persone accusate di pedofilia: Lorenzo Artico, l’educatore di Milano arrestato con l’accusa di aver abusato di alcuni ragazzi a lui affidati, e Francesca E., la donna di Mirandola, in provincia di Modena, suicidatasi perché incapace di sopportare l’accusa di aver venduto la figlia a un gruppo di pedofili.
L’allarme sociale Lorenzo Artico viene arrestato il 16 maggio: lo accusa un ragazzo ospite di una comunità in cui lavorava; Francesca E. viene tirata in ballo da un’inchiesta su un gruppo di pedofili di Massa Finalese. Lorenzo avrebbe approfittato del suo ruolo di educatore per molestare sessualmente il ragazzo e alcuni suoi amici, di notte, nelle camerate; Francesca è accusata di aver venduto la figlia per dei festini sadomaso. La notizia dell’arresto di Artico, ignorata il 16 maggio, viene diffusa il 31 luglio (in coincidenza con il rinvio a giudizio). La Squadra Mobile di Milano organizza una conferenza stampa per fornire tutti i particolari, anche se la collaudata procedura vorrebbe la notizia dell’arresto diffusa con maggior risalto di quella del rinvio a giudizio. Ma a maggio non era ancora scoppiato l’allarme dei fatti di Torre Annunziata, prova a spiegare il suo avvocato, Renato Palmieri. A luglio il clima da caccia al pedofilo è al massimo, gli arresti si susseguono in tutta Italia. E il pubblico ministero Pietro Forno, su La Stampa del 1° agosto, esplicita il collegamento: «Questo caso è peggio di quello di Torre Annunziata». Un’altra pentola scoperchiata. Come a Mirandola: il teste accusatorio di Francesca ha sette anni, si confida con l’assistente sociale della Usl e parla, e rivela di essere stato vittima del padre e del fratello. Poi parla di feste a cui partecipavano vari bambini e alcuni adulti. Così salta fuori una donna così così e una bambina così così, e allora l’assistente sociale le cerca ovunque, sulle strade, nei suoi ricordi. Fino a che ci arriva. Sì, certo, esistevano una donna così così e una bambina così così.
Cercasi colpevole: l’arresto Francesca E. ha avuto un passato difficile, prostituzione, si dice, un matrimonio e una convivenza naufragati. E così l’assistente ricompone il mosaico. Non importa che il teste accusatorio, un bimbo di sette anni, non si ricordi bene, non riconosca la foto e si confonda. Tornare indietro è impossibile. Ormai in paese si parla della casa degli orrori, con tanto di messe sataniche alla presenza di un prete. Le date degli incontri non coincidono, le descrizioni neanche, ma non importa. All’alba del 16 giugno tre agenti irrompono nella casa di Francesca E. e le tolgono la bimba. A Lorenzo Artico non va meglio: dopo il rinvio a giudizio è già condannato. Innanzitutto dai giornali. Come il Corriere della Sera del 1° agosto: «Lorenzo Artico, educatore di bambini disadattati, omosessuale e pedofilo, aveva messo radici (sic!) in una casa di ringhiera al numero 46 di via Bonaventura Zumbini». Nome e cognome e indirizzo; l’etichetta di omossessuale e pedofilo? appiccicata senza condizionali. Manca solo il codice fiscale: ma forse i mostri non ne meritano neppure uno. La notizia dell’arresto del mostro esce in prima pagina. Nessun riguardo per tutelarne l’identità, la vita privata, la reputazione. La cronaca locale si concentra su di lui per giorni, e ogni volta che ne parla pubblica la sua foto segnaletica. Il capo della Squadra Mobile di Milano, Lucio Carluccio, va in Tv e avverte: attenzione, è solo la punta dell’iceberg, come lui ce ne sono tanti altri, sorvegliate i vostri bambini, denunciate episodi simili. Nelle stesse ore, centinaia di bambini che conoscevano Lorenzo come allenatore di una squadra di calcio di quartiere manifestano davanti al palazzo di giustizia per la sua liberazione, ma soltanto alcuni quotidiani ne danno conto. Per tutti gli altri, il caso è chiuso. La detenzione preventiva Il mostro è finalmente in carcere, ma nemmeno lì smette i panni del mostro. Artico è insultato dai poliziotti, che chiudendolo in cella lo scherniscono: «Ti divertivi con i ragazzini? Adesso prova con i tunisini». Perfino i compagni di detenzione non vogliono avere niente a che fare con lui. Questa, tutto sommato, è cosa nota. Gli intoccabili in carcere sono sempre esistiti, tanto che per loro - per lo più responsabili di reati sessuali - ci sono bracci riservati. Ma qui siamo sempre prima del processo. E siamo, comunque, al penultimo atto. Anche per Francesca. All’alba del 16 giugno tre agenti irrompono in casa sua con una notifica del tribunale dei Minori e un avviso di garanzia, e le tolgono la bimba. Lei si trasferisce davanti al commissariato per protestare. Disperazione, lamette e ferite ai polsi davanti agli obiettivi dei fotografi. La sua faccia stampata sui giornali che non perdonano mai. La trasformazione è ormai compiuta. Poi lei scopre dove è tenuta la figlia e la va a trovare, in un istituto religioso. Scattano le manette: inquinamento delle prove. Francesca finisce agli arresti domiciliari. Su di lei e Lorenzo cala il sipario. Nel frattempo, un accusatore di Artico ritratta, un altro - come stabilisce una visita del perito dell’accusa - non ha mai subito violenza. Ma che importa, ormai? Giustizia è fatta. Quale epilogo? Il finale, come nel gioco dell’oca, è aperto. Dipende da chi tira i dadi, e non è sempre detto che sia un giocatore leale. Il processo a Lorenzo Artico è fissato per l?11 novembre. Il suo avvocato nutre forti dubbi sul fatto che sarà un procedimento equo: troppa attenzione, troppi giornali, troppi timori. I suoi amici, i genitori, il fratello iniziano lo sciopero della fame, mentre lui, che ha perso tredici chili in carcere, sta ancora lottando per avere gli arresti domiciliari. Ma non tutti i mostri arrivano al processo. Francesca vede in televisione la fatidica fuga di notizie. La perizia medica sulla sua bambina ha dato esiti positivi: “compatibile con atti di abuso sessuale”. Corre al telefono per parlare con gli avvocati, ma in procura nessuno sa nulla. No, non è possibile che sia ancora lei, quella assistente? Francesca si sente in trappola, qualcuno la vuole punire. Perché? Non c’è più niente da fare, nessun beneficio al dubbio, la trappola si chiude, per Francesca è finita. Domenica 28 settembre interrompe la sua vita gettandosi dal balcone di casa sua, dal quinto piano. Quarantotto ore dopo, Walter Boni, procuratore capo di Modena, in un’intervista a La Stampa ammette: «L’episodio è effettivamente grave, ma non può turbare le nostre indagini. Queste cose capitano, nella vita giudiziaria. Posso dire che ho dormito tranquillo. Quelle perizie (per accertare se la figlia fosse stata vittima di abusi sessuali, ndr) ci hanno fatto venire dei dubbi... ma errori comunque se ne possono fare». Una dichiarazione che fa venire i brividi. E allora giù, a volo d’angelo, un mostro va in paradiso. L’opinione (di Nino Marazzita) Ma i magistrati quando pagheranno? Esiste una fabbrica dei mostri? Esiste un circuito perverso che coinvolge palazzi di giustizia e mass media, un circuito capace di distruggere e qualche volta uccidere innocenti? La risposta è sì: esiste. I due casi che mi avete sottoposto lo dimostrano. Occorrono un allarme sociale capace di generare accuse infamanti, che si tratti di corruzione o di pedofilia. L’allarme sociale e l’accusa infamante muovono il protagonismo dei Pubblici ministeri e fanno audience e copie. Poi basta una voce, qualcuno che dica qualcosa per far scattare la detenzione preventiva. Il più è fatto: il mostro c’è. Ce ne possiamo scordare. Come avvocato penalista, mi sono fatto l’idea che le inchieste sulla pedofilia vengono condotte esacerbando ed esasperando i meccanismi già perversi dell’indagine giudiziaria. Le fughe di notizie sono all’ordine del giorno, l’arresto equivale a un giudizio di colpevolezza e il pregiudizio è predominante. Così i presunti mostri vengono sbattuti in prima pagina in tempo reale, ma quando vengono assolti non si trova neanche un trafiletto. Bisognerebbe applicare la norma prevista dal codice penale sulla responsabilità civile del magistrato e obbligare i principali quotidiani a sbattere in prima pagina anche l’assoluzione dei mostri. Mi sembra di capire che nel caso di Francesca E. sia prevalso il pregiudizio: Francesca ha avuto una vita difficile, era un soggetto debole e, davanti alle accuse schiaccianti, non ha retto. Molta responsabilità ce l’hanno i giornali, che abbracciano una tesi a priori, ma anche i magistrati che non rispettano la sensibilità degli individui indagati. Nel secondo caso, Lorenzo Artico, un educatore volontario dalla vita irreprensibile che improvvisamente diventa mostro... be?, i magistrati hanno forse ceduto al clima di caccia alle streghe e non hanno messo in connessione la personalità (ineccepibile) alla gravità del reato. E poi, l’eccessivo accanimento dell’indagine oltre a prolungare la detenzione preventiva si ripercuote sull’intera famiglia dell’indagato. Insomma, c’è sempre qualche innocente che ci va di mezzo. Avvocato penalista Io, ex mostro. Su di me un barile di pece Un urlo sulla spiaggia. Una donna che punta l’indice e grida: «Chiamate i carabinieri», e improvvisamente la vita di Savino Perchinunno, un pensionato sessantottenne della provincia di Foggia, è sconvolta. L’estate scorsa Savino è diventato mostro per una settimana: il tempo necessario a dimostrare che le accuse di atti osceni sulla nipotina di quattro anni erano dovute solo all’eccessiva fantasia di una bagnante. Ma sufficiente anche a sconvolgere la sua vita per sempre. Ancora oggi, a mesi di distanza, e dopo l’archiviazione dell’indagine a suo carico, il signor Perchinunno non sa dimenticare. «So solo io come mi sono sentito» dice oggi al telefono dalla sua casa di Cerignola, mentre la moglie in sottofondo non smette di urlare: «Diglielo, diglielo, il male che t’hanno fatto». Savino è un uomo semplice. Per sua stessa ammissione legge poco i giornali, e dei casi di pedofilia scoperti in tutta Italia ha solo sentito dire. Ma sa benissimo come ci si sente ad essere considerato un essere spregevole, un reietto, un mostro. «E? stato come se mi fosse caduto addosso un barile di pece» dice Savino. «E io non riuscivo più a staccarla». Signor Savino, cosa ricorda del giorno in cui è stato arrestato? «Ero al mare, stavo giocando con la mia nipotina, le buttavo la sabbia sulle gambe. A un certo punto una donna, distante da me una cinquantina di metri, comincia a guardarmi con insistenza e poi si mette a urlare. Qualcuno va a chiamare i carabinieri e dopo pochi minuti mi arrestano lì, davanti a centinaia di persone sulla spiaggia, accusandomi di aver toccato mia nipote. Io non capivo, ero disorientato. Ero sicuro che quella donna fosse pazza. Comunque sono andato volentieri in caserma perché pensavo che avrei potuto dire le mie ragioni, spiegare. Invece...» Cosa è successo? «E? precipitato tutto. Mi sembrava di essere in un altro mondo. Il maresciallo non mi credeva, anzi, non mi ascoltava neanche. Continuava a ripetermi le accuse di quella signora, mi trattava come il peggior delinquente del mondo. Hanno visitato la mia nipotina e non hanno trovato tracce di violenza, hanno perquisito anche me, lì in caserma, in modo umiliante. Anche questo non dimenticherò. Eppure i carabinieri insistevano, mi ignoravano completamente. In quei momenti pensavo che non ne sarei uscito più. Prima avevo una grande ammirazione per le forze dell’ordine, pensavo che difendessero i cittadini. Adesso li disprezzo. Per fortuna davanti al giudice ho potuto chiarire tutto e sono stato subito rilasciato». Adesso come si sente? «Non sono più lo stesso. Sono ancora scioccato, voglio solo dimenticare, ma non è facile. La maggior parte dei miei compaesani mi sono stati vicini, perché mi conoscono da anni e sanno che non sarei capace di fare cose del genere. Ma certi sguardi mi fanno capire che in qualcuno il sospetto è rimasto. Sono cose che si sentono, e fanno male. La mia vita era tranquilla, e a un certo punto è stata investita da un mare di nero. In fondo, io sono stato fortunato a incontrare un giudice che ha avuto la bontà di ascoltarmi. Se fosse stato per il maresciallo, invece, a quest’ora sarei sicuramente in prigione».
Milano, scarcerato grazie a una lettera aperta dopo 13 anni. Era una condanna definitiva in un caso di violenza su minore. I giudici e le parole del compagno suicida, scrive Luigi Ferrarella l'1 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera". C’è un uomo che urla dalla tomba. E il suo grido postumo di innocenza, affidato prima di suicidarsi nel 2005 a una lettera in busta sigillata conservata a lungo in una stazione dei carabinieri e mai aperta per 13 anni, ora convince i giudici a precipitarsi a tirar fuori dal carcere un altro uomo, il suo compagno, benché questi stia scontando una condanna definitiva per concorso in violenze sessuali nel 2002 sulla nipotina di 4 anni. E così la Procura generale di Milano, competente sull’esecuzione della pena del detenuto nel carcere di Pavia, riceve dalla II Corte d’Appello di Brescia l’ordine di appunto sospendere immediatamente l’espiazione e liberare il condannato, da subito e fino a quando la Corte non avrà deciso nel merito l’istanza straordinaria presentata dal difensore Guglielmo Gulotta per un giudizio di revisione della condanna definitiva: il presidente Deantoni, la giudice relatrice Milesi e il consigliere Vacchiano, infatti, reputano «che il prudente apprezzamento» della lettera, e della proposta difensiva di nuovi test di neuroscienze oggi ancora controversi ma che 15 anni fa comunque non esistevano, «faccia apparire non infondato il rischio che il condannato protragga l’espiazione di una pena che potrebbe rivelarsi ingiusta». Andrà dunque ai (molto rari) tempi supplementari questo processo dagli esiti altalenanti, che aveva visto l’imputato assolto in primo grado con rito abbreviato a Busto Arsizio nel 2007 dall’ccusa di aver concorso (fotografandole) nelle violenze sessuali, asseritamente commesse nell’autunno 2002 dal suo compagno (poi suicida il 15 luglio 2005) sulla figlia di 4 anni della sorella. In Appello, però, nel 2009 i giudici ribaltarono l’assoluzione in condanna, a sua volta tuttavia annullata nel 2010 dalla Corte di Cassazione con rinvio a un nuovo giudizio di secondo grado. Ma nel 2014 questa Corte d’Appello bis ricondannò l’imputato, e al secondo passaggio in Cassazione nel 2016 anche gli ermellini confermarono la sentenza di colpevolezza, rendendo definitivi 4 anni di condanna (fine pena il Ferragosto 2020). Un’altalena di verdetti tutti ruotanti attorno alle differenti valutazioni dei consulenti tecnici sull’affidabilità scientifica o meno dei ricordi (sotto forma di «brutto sogno») della bimbetta, visto che per il resto la perquisizione a casa non aveva trovato alcun materiale pedopornografico, e negativo era stato anche l’esito della perizia sulla pellicola inserita nella macchina fotografica sequestrata. Ma il 6 settembre 2017 in una stazione dei carabinieri, quella dove nel 2005 erano finiti gli effetti personali del suicida, uno dei succedutisi avvocati recupera la busta chiusa che fino ad allora nessuno — né i familiari, né i legali, né gli inquirenti — aveva evidentemente voluto acquisire e aprire. Nella lettera datata 3 e 11 luglio 2005 lo zio materno della bimba, prima di uccidersi il 15 luglio, appare prostrato per «l’infamia» che da un lato scrive gli stia rovinando la vita, ma contro la quale dall’altro lato confessa di non avere più la forza di combattere: «Quello che posso dire è che non ho fatto niente di così schifoso. Sono innocente, che mi crediate o no». E prima di chiedere che «l’avvocato vada fino in fondo», l’uomo che sta per uccidersi chiede perdono al suo compagno (e coimputato) per un gesto «aberrante» che lo lascerà da solo: «Mi sento in colpa solo verso di lui, che ho tradito, solo per questo».
Il giudice dimentica la perizia che assolve il papà accusato di pedofilia. L’uomo era stato condannato per presunti abusi nei confronti della figlia di due anni, scrive Simona Musco il 9 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Una perizia sconfessata dalla comunità scientifica e prove mai analizzate. Sono questi gli elementi che hanno portato alla revisione del processo per un imprenditore di 45 anni, condannato in via definitiva a sette anni e mezzo con l’accusa infamante di aver abusato della propria figlia, all’epoca dei fatti di soli due anni. Oggi per l’uomo si terrà la prima udienza del processo di revisione davanti alla Corte d’Appello di Brescia, chiamata a decidere se analizzare o meno le nuove prove che la difesa ha presentato convinta della sua innocenza. A partire dalle dichiarazioni di Claudia Squassoni presidente del collegio di Cassazione che rigettò il ricorso presentato da quel padre mettendo in cassaforte la condanna -, pronunciate durante un convegno all’università Bicocca il 14 ottobre 2016. Durante quel dibattito, Vittorio Vezzetti, pediatra ed ex consulente del condannato, parlò del caso e delle sue incongruenze, facendo saltare sulla sedia il giudice. «Se nel ricorso in Cassazione fossero state fatte le eccezioni che ha fatto il dottore disse Squassoni -, naturalmente avrebbe avuto un risultato diverso». Ma nel fascicolo c’era tutto. E ora tutto è stato riscritto nell’articolata richiesta di revisione firmata dall’avvocato Cataldo Intrieri, «basata sull’acquisizione di decisive prove scientifiche». Una richiesta accolta a luglio scorso e che contiene, tra le altre cose, la prova che la perizia che ha inchiodato l’uomo in tribunale non era scientificamente credibile. A stabilirlo una sanzione disciplinare inflitta il 26 gennaio 2017 dall’ordine degli psicologi della Lombardia al perito nominato dal tribunale di Como, censurato proprio per il suo lavoro in questo processo. La bambina, che oggi ha 9 anni, non ha infatti confermato nessun elemento dell’accusa durante l’incidente probatorio, definito perciò dal tribunale «deludente ed al di sotto delle aspettative, un insuccesso». I magistrati, dunque, chiedono un’altra perizia. Il nuovo consulente stila una relazione che ruota attorno alla fatidica domanda «dove ti ha fatto male papà?». Ma per l’ordine degli psicologi è inaccettabile, un manuale di tutto ciò che non andrebbe fatto. E dunque punisce il perito, che con quel documento, di fatto, ha accertato un disturbo clinico nella bimba giustificabile con un abuso. Il dottore, nel corso dell’audizione davanti all’ordine, fa un passo indietro, smentisce la sua relazione, ammette di non essere riuscito a effettuare una «intervista cognitiva» della piccola. Impossibile, dunque, dire cosa sia successo tra lei e il padre. E così tenta di sminuire il peso della sua perizia nel processo. Quella stessa perizia, sostiene Intrieri, che ha invece fatto condannare l’uomo. Ma non solo: i giudici che lo hanno giudicato sono gli stessi del caso Renato Sterio, accusato dalla moglie e dalla suocera e condannato nel 2005 per i presunti abusi sulla figlia di 4 anni. Scontò l’intera condanna prima di una revisione del processo e prima di essere riconosciuto innocente. Una coincidenza strana, per Intrieri: «Molto difficilmente diversi giudici avrebbero assunto le stesse decisioni». Gli abusi si sarebbero consumati nel 2010, nel periodo in cui i genitori della bambina decidono di separarsi. La situazione è ingarbugliata e conflittuale e i due si contendono l’affidamento della piccola. A luglio 2010 madre e nonna materna riferiscono alcune frasi che sarebbero state pronunciate dalla bimba e che testimonierebbero l’orrore: gli abusi compiuti dal padre utilizzando anche delle torce elettriche, sulle quali, però, non sono mai state eseguite analisi per rintracciare residui biologici. A supportare l’orribile tesi c’è la visita della pediatra di famiglia, che dopo aver «osservato – per sua stessa ammissione – “con un’occhiata” i genitali ne constatava la tumefazione ritenendola “compatibile”» con un abuso. Un esame avvenuto senza alcun criterio scientifico, senza referti né foto e senza nessuna esperienza pregressa del genere. «L’aspetto fondamentale di questa vicenda – spiega Intrieri – è che da un lato c’è la scienza, della quale non si tiene conto, dall’altra i giudici, che decidono di valutare secondo i propri parametri, svalutando il primo perito, che aveva evidenziato l’assenza di segni di trauma, e accogliendo le deduzioni del secondo, poi sconsacrato dal suo stesso ordine, fatto di scienziati. La cosa più drammatica – conclude – è il rifiuto che si possa mettere in dubbio la credibilità della parte offesa, sacrificando le garanzie costituzionali della difesa. Ad essere negata è ogni astratta possibilità di rigettare le accuse, basate su una perizia che crollando smonta tutto. Come se le prove scientifiche, in questo tipo di processi, non contassero nulla».
«Sei pedofila!» Indizi zero. Distrutta, s’uccide. «La gente è solamente capace di giudicare. Sono innocente». È l’ultimo, drammatico messaggio di U. A., una bidella di 64 anni che ha deciso di togliersi la vita dopo l’accusa infamante di essere una pedofila, scrive Simona Musco il 10 Maggio 2018 su "Il Dubbio". «La gente è solamente capace di giudicare. Sono innocente». Poche parole su un foglietto per mettere fine alla vergogna e al sospetto. È così A. U., bidella di 64 anni, ha deciso di farla finita, uccisa dall’onta di un’accusa pesantissima: abusi sessuali su una bambina di soli 4 anni, alunna di una delle scuole in cui prestava servizio. Un gesto estremo che ha compiuto lunedì sera, nella sua casa in provincia di Cagliari, quattro giorni dopo aver ricevuto l’avviso di conclusione indagini. Si aspettava un’archiviazione, convinta che le accuse non avrebbero mai potuto trovare riscontri, ma dopo l’incidente probatorio, durante il quale la bambina ha confermato gli abusi, il pm ha deciso diversamente. Una storia dai contorni poco chiari, iniziata oltre tre anni fa, tra settembre e novembre del 2014. La bimba si trovava al secondo anno di scuola materna, il primo a contatto con la bidella, quando ha raccontato ai genitori di essere stata toccata in bagno da una collaboratrice scolastica. «Dopo le prime rivelazioni da parte della bambina – spiega al Dubbio il legale della donna, Walter Pani -, i genitori si sono rivolti ad una psicologa dell’Asl, che senza vedere la piccola ha inviato alla Procura una notizia di reato a dicembre 2014». Iniziano così le indagini, con un’accusa tanto delicata quanto pesante, tutta da verificare. I magistrati della Procura di Cagliari hanno subito sentito i genitori, che hanno raccontato agli inquirenti dei cambiamenti nel comportamento della bambina in quell’arco temporale di tre mesi, indicando nella bidella, nel frattempo andata in pensione, la responsabile di tutto. «Sono stati sentiti anche altri genitori, le maestre e i colleghi e tutti hanno difeso a spada tratta la mia assistita sottolinea Pani -, una persona specchiatissima nel lavoro, con 40 anni di esperienza, amata da genitori e collaboratori. Un po’ burbera e severa, ma stimatissima». Nemmeno le intercettazioni ambientali e telefoniche disposte dalla Procura per chiarire la situazione hanno fatto emergere nulla sul comportamento della donna. E le cose non sarebbero andate come avrebbero dovuto, secondo il legale. L’incidente probatorio, infatti, è arrivato molto tempo dotre po la denuncia: dalla segnalazione della psicologa all’esame della bambina da parte del giudice sono passati tre anni. Troppi, denuncia Pani. «Le linee guida, come ad esempio la Carta di Noto del 2011, dispongono che l’interrogatorio protetto avvenga in tempi strettissimi e senza alcuna intervista intermedia – spiega -. In questo caso, invece, la bambina è stata sentita solo a marzo 2017, all’età di 7 anni, quindi, sotto il profilo della maturazione, completamente diversa rispetto all’età dei fatti». Nel corso dell’esame la bambina ha confermato senza esitazione quanto raccontato anni prima, ma il colpo di scena è arrivato nel momento in cui le è stato chiesto di descrivere la bidella incriminata. «Ha parlato di una persona di altezza media, robusta, coi capelli “gialli” e lunghi – racconta l’avvocato -. Ma la mia assistita pesava 45 chili, era alta 1 metro e 50 e ha sempre portato i capelli corti e grigi. La bambina stava quindi parlando di un’altra persona». Una volta terminato l’incidente probatorio, a dicembre 2017, gli atti sono stati trasmessi al pm che però «non ha ritenuto opportuno eseguire ulteriori accertamenti». Così si è arrivati a giovedì scorso, quando alla donna è stato notificato l’avviso di conclusione delle indagini. «Le avevo detto che avrei svolto indagini difensive per smontare la ricostruzione fattuale operata dalla bambina, ricostruzione che non ha avuto riscontri esterni che potessero in qualche modo ricondurre alla mia assistita», dice Pani. Ma quelle rassicurazioni non sono bastate. Il declino emotivo della donna era infatti ormai irreversibile. «Prima della comunicazione dell’incidente probatorio, il 24 dicembre 2016, non sapeva nulla di questa storia – spiega ancora -. Quando ha ricevuto quella notifica ha subito il colpo e da quel momento è iniziata una vita di reclusione. Già prima di questa vicenda era una persona riservata, ma dopo questa storia ha smesso di uscire di casa. Aveva attorno a sé il grandissimo calore umano della famiglia: non aveva figli, ma dei nipoti legatissimi a lei. Speravamo fortemente in una richiesta di archiviazione e quando ha visto che non è arrivata, sebbene ciò non escludesse un’archiviazione in seguito, le è crollato il mondo addosso». Di questa scelta estrema, però, non aveva lasciato trapelare nulla. Nessun segno che avesse deciso di mollare tutto. Solo il peso della vergogna che tutto il paese, che pure di questa storia non aveva saputo niente fino al suicidio della sua protagonista, potesse condividere con la Procura quel terribile sospetto.
RIGNANO FLAMINIO E LE SUGGESTIONI. IL CASO DELLA PEDOFILIA SATANICA.
Chi ricorda le orchesse di Rignano Flaminio? Tre maestre e un bidella vennero accusate di abusi da un gruppo di bambini. Dopo la gogna furono assolte…, scrive il 30 Aprile 2016 "Il Dubbio". Chi si ricorda di Rignano Flaminio? Chi ricorda quel gruppo di maestre gettate in pasto alla fiera mediatica? Nessuno a quanto pare. Anche ieri, come oggi capita R.B, l’uomo accusato di aver violentato e ucciso la piccola Fortuna, le maestre furono incastrate dalle testimonianze di un gruppo di bambini. E anche allora i verbali di quegli interrogatori pediatrici furono consegnati ai giornali che, naturalmente, pubblicarono ogni singola virgola ed emisero la sentenza di colpevolezza. A dire la verità in quel caso fu un po’ peggio. Allora le testimonianze che travolsero tre maestre, una bidella e un autista, erano state estorte a bimbi di appena 4-5 anni. Si trattava di deposizioni filmate da genitori a caccia dell’orco e consegnate agli inflessibili pm. Eccone un esempio: «Fa vedè papà, fa vedè. E come si chiamava la maestra che te insegna queste cose?». La bimba non risponde. «E diglielo un po’ a papà. Chi ti insegna? Parla co papino. Te devi mette davanti alla telecamera. E parla. E dillo che dopo se rivedemo (nella telecamera ndr)». «Il giochino che fate a scuola come si chiama?». La bimba: «Non me lo ricordo». «Come non te lo ricordi?». La bimba: «Non mi va di dirlo». Quindi simula la masturbazione. «Lo devi fare pure agli altri bambini? A chi glielo fai? Chi te lo ha insegnato?». La bimba non risponde. «Senti, chi te lo ha insegnato il giochino a mamma? Dove spingi? Alla patatina o al sederino?». La bimba: «Al sederino». «Al sederino. E allora come si chiama questo giochino?». La bimba continua a non rispondere. «Come non lo sai? Me fai vedè? Me fai vedè?». Il video si interrompe per riprendere con le stesse insistite domande della madre. La bimba dice: «Il giochino del dottore». «Diglie un po a papà, dovè che lo facevate sto gioco?». La bimba: «Lasciami stare». «Non parla più, porco zio». Ancora un’interruzione. «Stamme a sentiì! Hai capito che me devi sta a sentì?». «Tu dovevi toccà la patatina a Patrizia». La bimba cerca il padre per giocare. «Chi è sta Patrizia?». La bimba: «Una bidella». «Sai pure come ha le sise? Come?». La bimba: «Grandi». «Come?». «Grandi». «Di che colore?». «Blu». E grazie a queste testimonianza la bidella dalle grandi zinne blu divenne una violentatrice di frugoletti. E l’inesorabile penna di Isabella Bossi Federigotti fu ospitata sulla prima del Corriere della Sera: «Quando si sentono vicende come questa di Rignano, di maestre che narcotizzano e abusano dei loro piccoli e anche piccolissimi alunni, non si può non evocare la macina di mulino che farebbero meglio a legarsi al collo e andare poi ad annegarsi coloro che approfittano di un bambino». Ma questo è il meno. Le parole del Gip, infatti, fecero ben più danni e trascinarono davanti ai giudici le povere maestre: «La credibilità delle dichiarazioni dei bambini sottoposti a violenze non è dubitabile», stabilì infatti il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Tivoli. Del resto il trauma vissuto dai bimbi era del tutto evidente. Un esempio? «Alla visita presso l’Ospedale pediatrico Bambin Gesù il bambino C.R. ha avuto una reazione di disorientamento e irrigidimento con pianto angosciato alla valutazione dei genitali». Insomma, quando i medici hanno spogliato il povero bimbo per toccargli i testicoli(ni), lui mostrava un’inspiegabile insofferenza. E tanto bastò a spedire in gattabuia preventiva gli indaganti, quali si ritrovarono tra le mani un’ordinanza condita da stravaganti analisi psichiatriche: «I fatti illegali descritti (dai bimbi) sono gravissimi ed allarmanti, ripetuti nel tempo e dotati di una carica tale – in termini di violenza e assenza di ogni remora o freno alle azioni turpi poste in essere verso bambini così piccoli che ne hanno riportato anche conseguenze irreversibili sul piano psicologico – da dimostrare la forte pericolosità degli indagati che supera il dato, questa volta meramente formale, della loro apparente incensuratezza. Il contesto scolastico e di affidamento in cui si è verificata la violenza sessuale di gruppo, in una con gli inquietanti e pericolosi aspetti di rituali satanici che l’accompagnavano e la probabile partecipazione di altri soggetti, avvalora siffatto giudizio prognostico». Risultato? Le maestre sono state tutte assolte in primo e secondo grado. Fu assolta anche la bidella dalle grandi zinne blu. Ma di tutto queste, evidentemente, non ricordiamo nulla…davì.
Rignano Flaminio e il prete satanista. Quelle vite distrutte dalle false accuse di pedofilia. Quello sulla pedofilia e, più in generale, sui casi di malagiustizia in Italia è tra i capitoli più interessanti del libro. Giovanardi indossa la toga e restituisce l'onore e la dignità a quelle..., scrive il 23 Dicembre 2013 Il Tempo. Quello sulla pedofilia e, più in generale, sui casi di malagiustizia in Italia è tra i capitoli più interessanti del libro. Giovanardi indossa la toga e restituisce l'onore e la dignità a quelle famiglie distrutte dalle false accuse di abusi sessuali sui figli. C'è la storia dell'asilo di Rignano Flaminio, ma davvero sconvolgente è l'inchiesta che porta sotto processo il povero don Giorgio. I magistrati gli contestano di essere un satanista violentatore di bambini. Un mostro che prima abusava dei piccoli nei cimiteri e poi li uccideva lanciandoli, incaprettati, nel fiume Panaro. Per questo processo-farsa (tutti assolti, alla fine) muoiono di crepacuore, prima della sentenza di non colpevolezza, lo stesso don Giorgio e un altro imputato. Una mamma, a cui è stata ingiustamente tolta la figlia, si suicida invece lanciandosi dalla finestra. Ovviamente, durante le indagini, nessuno si era preoccupato di verificare se davvero ci fossero dei cadaveri nel torrente.
Rignano Flaminio, presunti abusi alla materna: imputati assolti anche in appello, scrive RQuotidiano il 16 maggio 2014. Assolti con formula piena. La terza Corte d’Appello di Roma, presieduta da Ernesto Mineo, ha confermato le assoluzioni per i 5 imputati nel processo sulle presunte violenze avvenute tra il 2005 e il 2006 nella scuola materna Olga Rovere di Rignano Flaminio. Le maestre Marisa Pucci, Silvana Magalotti e Patrizia Del Meglio, la bidella Cristina Lunerti e l’autore televisivo Gianfranco Scancarello erano stati assolti anche in primo grado dai giudici del Tribunale di Tivoli nel 2012. Il procuratore generale Giancarlo Amato aveva chiesto la conferma dell’assoluzione per due delle maestre e per Gianfranco Scancarello, e la condanna a 7 anni di reclusione per la bidella Cristina Lunerti e 6 anni e 10 mesi per la maestra Patrizia Del Meglio, che è anche moglie di Scancarello. Quella della scuola Rovere di Rignano Flaminio, alle porte di Roma, è una storia umana e giudiziaria lunga e controversa rimasta per anni su tutti i media nazionali. Tutto ha inizio nell’estate del 2006 quando i genitori di alcuni bambini della scuola materna vanno dai carabinieri per raccontare una storia di abusi che i loro figli avrebbero subito dentro e fuori l’istituto. A quelle denunce se ne aggiungono in massa anche altre, riguardanti in tutto 21 bambini. L’inchiesta tocca il suo apice il 24 aprile 2007: i carabinieri di Bracciano, su ordine del gip Elvira Tamburelli, arrestano tre maestre dell’asilo, il marito di una di loro, una bidella e un benzinaio (la cui posizione è stata archiviata nel corso delle indagini). L’accusa per tutti è di associazione per delinquere, atti osceni in luogo pubblico, maltrattamenti in famiglia, sottrazione di minore, sequestro di persona e violenza sessuale. Secondo il pm Marco Mansi, almeno 21 bimbi di età compresa tra i 3 e i 4 anni tra il 2005 e il 2006, sia nella scuola che fuori, sarebbero stati oggetto di abusi sessuali e di “giochi erotici”. Il processo comincia il 27 maggio 2010 e si celebra a porte chiuse. Il 2 aprile 2012 il pm Mansi chiede 12 anni di reclusione per tutti gli imputati e la trasmissione degli atti al suo ufficio per poter procedere contro altre due maestre. Il 28 maggio del 2012 dopo nove ore di camera di consiglio, arriva la sentenza di primo grado del tribunale di Tivoli, che cancella tutte le accuse e alla quale i genitori reagiscono con urla contro i giudici e con calci e pugni alle porte dell’aula in cui si era appena concluso il processo. “Ci aspettiamo una spiegazione convincente. L’unica cosa che mi preoccupa è mia figlia. Il resto non conta nulla”. Così una delle mamme dei bambini della scuola materna Olga Rovere di Rignano Flaminio, ha commentato della decisione dei giudici d’Appello di confermare le assoluzioni degli imputati. “Prendiamo atto di questa sentenza”, commentano gli avvocati di parte civile, Franco Merlino, Luca Milani e Antonio Cardamone. “Aspetteremo il deposito delle motivazioni anche per valutare un eventuale ricorso in Cassazione. Dispiace, però, che ancora una volta non si è voluto credere alle parole di questi bambini, come non si è voluto credere ai risultati delle perizie che, senza margini interpretativi, hanno ricollegato le sintomatologie riscontrate sui minori a traumi di natura sessuale”.
Caso Rignano, i giudici: "I bambini furono influenzati dai genitori". Le motivazioni della sentenza con la quale il 16 maggio scorso sono state confermate le assoluzione di tre maestre, una bidella e un autore tv imputati per la vicenda dei presunti abusi sessuali nella scuola materna "Olga Rovere", scrive Repubblica il 29 luglio 2014. La scuola materna Olga Rovere di Rignano Flaminio "I minori furono influenzati dai genitori e gli stessi genitori intrecciarono le loro esperienze sino a determinare un inestricabile reticolo". Così i giudici della III Corte d'appello di Roma nelle motivazioni della sentenza con la quale il 16 maggio scorso hanno confermato le assoluzioni “perchè il fatto non sussiste” delle cinque persone - tre maestre, una bidella e un autore tv - imputate per la vicenda dei presunti abusi sessuali denunciati dai genitori dei bambini della scuola materna "Olga Rovere" di Rignano Flaminio. Nelle motivazioni i giudici sottolineano che "l'accusa non ha trovato alcuna conferma, e pur tuttavia ha proseguito nell'iter giudiziario via via ridimensionandosi nelle imputazioni, negli imputati, nelle vittime, nei luoghi della consumazione dei reati, negli episodi". I giudici spiegano che "vi siano stati contatti tra genitori, preliminari alla presentazione delle denunce"; e gli effetti di tali 'contatti' "sono misurabili attraverso la distanza esistente tra il contenuto delle denunce e le audizioni protette dei minori che testimoniano, oltre ogni ragionevole dubbio, che i minori erano influenzati dai genitori". In più, per i giudici d'appello, "le dichiarazioni dei minori spesso sono incompatibili tra loro; talvolta sono prive d'intrinseca credibilità e coerenza, facendo riferimento a fatti inverosimili, che suscitano dubbi in ordine alla capacità dei piccoli di discernere tra fantasia e realtà; da esse non è possibile ricavare alcun singolo episodio che accomuni i bambini, per l'eterogeneità dei loro racconti, nonostante che si tratti nella contestazioni di condotte riferite a una pluralità di vittime". Per i giudici, infine, "indubbiamente i fatti si collocano in un'età in cui la scoperta del proprio corpo può indurre a comportamenti e giochi con una morbosa attenzione per la sessualità, ma anche le esperienze e i condizionamenti extrascolastici, nelle relazioni con bambini più grandi o nella propria famiglia, così come pure con visioni inappropriate in televisione o via internet, anche quando li crediamo distratti, può avere innescato la miccia di un condizionamento reciproco e di un escalation incontrollata ed amplificata dagli eventi".
Cosa scrivevano nel 2007 i giornali sulla storiaccia di Rignano Flaminio, scrive Il Post il 26 maggio 2014. "Mostri", "orchi" e altre esagerazioni letterarie a cui siamo abituati: intanto gli imputati sono stati tutti assolti, di nuovo. La Corte d’appello di Roma ha confermato l’assoluzione per le cinque persone accusate di abusi sessuali a danno di alcuni bambini di Rignano Flaminio, alunni della scuola materna Olga Rovere. Era il 2007, fu una storia di cui si parlò moltissimo, eppure le accuse si basavano su elementi fragilissimi e i racconti confusi dei genitori di alcuni bambini. Nel 2012 gli imputati – tra cui quattro maestre – furono tutti assolti: “il fatto non sussiste”. Come raccontò Carlo Bonini su Repubblica, si era celebrato un processo “senza prove”, frutto di “un abbaglio da psicosi e contagio collettivi”. I ventuno bimbi che si volevano abusati o comunque “esposti” a un trauma sessuale di nessuna violenza sono mai stati vittime. E la storia di una catastrofe processuale, umana, civica, arriva così al suo inevitabile compimento. Con un’assoluzione che prende atto con coraggio e limpidezza di un vuoto probatorio macroscopico. Che mette a nudo l’ostinazione di una Procura della Repubblica e di un ufficio gip che pur di non riconoscere i propri errori, di non arrendersi all’evidenza contraria del fatto che si intendeva provare, hanno trasformato questa storia in un’interminabile ordalia che ha schiantato per sempre le vite di chi ne è stato inghiottito. […] Non una testimonianza, non una prova documentale (che sia l’oscenità di una foto, di un diario, di un file custodito in qualche computer) o un’intercettazione telefonica. Non un’evidenza medica sui corpi dei piccoli, non una traccia biologica sugli oggetti maneggiati dagli “orchi” o nei luoghi indicati come teatro dei loro indicibili riti (peluche, automobili, abitazioni degli indagati). Per giunta, non il ricordo di un genitore che pure avrebbe dovuto accorgersi delle tracce di violenza (e che violenza) sul proprio figlio. «L’istruttoria fa una indebita confusione tra indizi e prove» e «la forte pressione dei genitori sui minori» non consente di escludere «un contagio dichiarativo», scrive allora la consigliera di Cassazione Claudia Squassoni. Non un giudice qualunque, ma un’autorità in materia di diritti dei minori e tra e le autrici della “Carta di Noto” sui diritti dell’infanzia violata. Il giornalista del Foglio Claudio Cerasa, che seguì la storia delle accuse e la raccontò in un libro, ha ricordato oggi i toni con cui all’epoca i giornali raccontarono questa storia: è una lettura istruttiva, anche perché sono gli stessi toni enfatici, letterari e privi di dubbi, le stesse formule di plastica, con cui oggi si continuano a raccontare le storie di cronaca nera e gli arresti, definendo gli accusati “mostri” e “orchi”, nonostante tutto.
"Il racconto delle vittime: «Dovevamo bere il sangue e fare massaggi alle maestre»". Corriere della Sera, 25 aprile 2007
"Quei pedofili ogni domenica a messa", Il Tempo, 26 aprile 2007
I bimbi dell’asilo: «Ci violentava il Diavolo» Messaggero, 25 aprile 2007
"Spariscano per sempre", Corriere della Sera, 25 aprile 2007
"Il lungo silenzio nel paese dei «mostri»", Il Manifesto, 26 aprile 2007
"Nessuna pietà per gli orchi", La Stampa, 29 aprile 2007
"La difesa dei mostri: «Accuse incredibili»", Il Tempo, 26 aprile 2007
"Gli orchi tornano a Rignano", La Stampa, 11 maggio 2007
"Quel giorno mia figlia mi disse: 'Mamma, ho visto l’uomo nero'", Repubblica, 25 aprile, 2007
"I parenti degli arrestati in fuga dopo il lancio di monetine", Il Messaggero, Giovedì 26 aprile 2007
"I bambini dell’asilo drogati dalle maestre", La Stampa, Mercoledì 25 Aprile, 2007
IL MAESTRO E LE BUGIE DEI BAMBINI...Natalia Aspesi per "la Repubblica" 4 giugno 2012. Una meravigliosa piccina, immagine poetica dell´innocenza, rivela alla direttrice dell´asilo, con le sue confuse parole infantili, che il maestro Lucas le ha mostrato il "pipì": si convocano i genitori, tra l´altro amici del maestro, si fa una piccola riservata inchiesta, altri bambini raccontano le stesse molestie. Attorno al maestro sospettato si fa il vuoto, viene pestato, arrestato, processato: assolto, perché la piccina ha mentito per gelosia e i compagni l´hanno seguita per imitazione. Non è la storia vera di Rignano, ma il film "La caccia" del danese Vinterberg, a Cannes premio al miglior attore Mads Mikkelsen. Il film sostiene che i bambini sono naturalmente bugiardi, inventano, si piegano all´assedio persecutorio dei genitori confondendo realtà e fantasia. Gli amici riaccolgono Lucas perché credono nella giustizia: ma la sua vita sarà per sempre minacciata. Si è visto a Rignano, come per certi genitori che hanno inflitto ai loro figli anni di tormenti, sia impossibile accettare di aver drammaticamente sbagliato.
RANCORI E I DOLORI DI RIGNANO. Claudio Cerasa per "il Foglio" 4 giugno 2012. "L'ultima precondizione per una caccia alle streghe era l'esistenza di un'atmosfera che aumentasse la paura della stregoneria e spingesse la gente a combatterla. L'ansia poteva essere generata da discussioni sulla stregoneria ma anche, meno direttamente, da vicende economiche, politiche o religiose. Probabilmente, ciò che determinava più comunemente un'atmosfera favorevole alla caccia alle streghe era la discussione pubblica della stregoneria. In molti casi, i sermoni di un predicatore cacciatore di streghe preparavano gli animi dei parrocchiani a cercare le streghe fra i loro comuni conoscenti". La storia di Rignano Flaminio, almeno per questo giornale, comincia la mattina del 25 aprile di cinque anni fa. Sono le nove e trenta, l'anno è il 2007, e le agenzie battono una notizia bomba: "Sei persone sono state arrestate per presunti abusi in una scuola materna di Rignano Flaminio. L'ordinanza è stata notificata a tre maestre, il marito di una di loro, una bidella e un extracomunitario. La denuncia era partita da alcuni genitori. Le vittime, tra i tre e i cinque anni, venivano narcotizzate prima di subire gli abusi". Un'ora dopo, oltre alla notizia, arrivano anche i dettagli. Le agenzie, a poche ore dall'arresto, riportano alcuni passaggi dell'ordinanza di custodia cautelare e iniziano a offrire i primi particolari su "i mostri", "gli orchi" e "l'asilo degli orrori". Sono le dieci e trenta e le descrizioni fanno davvero paura: "A quanto si apprende da fonti della procura, gli indagati inducevano i bambini nelle loro case a praticare reciprocamente su loro stessi atti sessuali con l'uso di strumenti che venivano inseriti negli organi genitali delle bambine. In seguito, poi, dopo averli picchiati con alcuni oggetti e aver chiuso loro la bocca con lo scotch, li sottoponevano a giochi sessuali tra loro, facendosi toccare i genitali e altre zone erogene del corpo, effettuando fotografie e riprese dei giochi dei bambini, e costringendoli a tali pratiche sessuali, spesso assai cruente, valendosi anche di iniezioni o inoculazione di narcotici e sostanze varie. Infine - riferivano sempre fonti della procura - gli indagati effettuavano con i bambini riti di sangue e violenza, con chiari richiami a pericolosi rituali di sette sataniche, e terrorizzandoli anche con l'uso di cappucci, vestiti da diavolo o coniglio nero, e mostrandosi loro, spesso, completamente nudi". La notizia, naturalmente, non passa proprio inosservata: i grandi giornali inviano i loro migliori cronisti a raccontare la storia di Rignano Flaminio, e nei giorni successivi, l'inchiesta, e l'indagine sulle maestre della Olga Rovere, comincia a occupare stabilmente le prime pagine dei quotidiani. I titoli sono questi: "Violentavano i bambini e li filmavano", "Dovevamo bere il sangue e fare massaggi alle maestre", "I bambini dell'asilo, drogati dalle maestre", "La mia piccola vomitava di notte", "Quei bimbi hanno paura del mondo", "Spuntano nuovi orchi", "Quei pedofili ogni domenica a messa", "Tu scappi, io ti mangio", "Spariscano per sempre", "Bambini drogati e filmati", "Orrore a scuola: ci violentava il diavolo", "L'asilo dei mostri", "Nessuna pietà per gli orchi", "L'incubo durava da un anno", "Il lungo silenzio nel paese dei mostri", "Narcotizzavano i bimbi, poi gli abusi", "Le caramelle per farci dormire", "Quegli uomini incappucciati", "Droga e stupri sui bimbi a scuola", "Anche le donne lo fanno con i loro bimbi", "Mamma, ho visto l'uomo nero". Sono le 9,15, è lunedì mattina, i sei indagati sono in carcere ormai da tre giorni e a un certo punto della giornata il giovane cronista viene convocato dal direttore. "La storia non torna: leggiti gli articoli, studiati le carte, vai a Rignano, stai una settimana lì, e poi scrivi due pagine". "Ma...". "Non sai niente, lo so, e quindi capirai tutto". Il giovane cronista, che effettivamente all'epoca capiva di giustizia più o meno come Adriano Celentano di politica, si piazza a Rignano, recupera alcuni numeri di telefono, riceve le carte della procura, ottiene le carte della difesa, inizia a studiare, trova le sue fonti, scrive i suoi articoli; e giorno dopo giorno, cronaca dopo cronaca, a poco a poco si rende conto di quello che stava succedendo in questo piccolo paesino a trentotto chilometri da Roma. Non solo con la semplice storia dell'inchiesta giudiziaria ma anche con tutto quello che girava attorno al racconto, alla narrazione, alla descrizione e persino alla rappresentazione del mondo degli orchi. "Quando si sentono vicende come questa di Rignano, di maestre che narcotizzano e abusano dei loro piccoli e anche piccolissimi alunni, non si può non evocare la macina di mulino che farebbero meglio a legarsi al collo - e andare poi ad annegarsi - coloro che approfittano di un bambino". La storia dell'inchiesta di Rignano Flaminio - con i suoi arresti, le sue scarcerazioni, le sue indagini, i suoi incidenti probatori, le sue lacune, le sue contraddizioni e infine con le sue assoluzioni - la conoscete tutti, ormai. Tutto nasce nel luglio del 2006, quando tre famiglie, dopo aver ascoltato alcuni racconti dei propri figli, sporgono denuncia contro alcune maestre della scuola materna Olga Rovere. Di giorno in giorno, le accuse si moltiplicano: i carabinieri cominciano a installare cimici e telecamere presso la scuola, iniziano a intercettare gli indagati, poi interrogano le maestre, quindi ascoltano una bidella, pedinano un benzinaio e infine, il 25 aprile, su richiesta della procura di Tivoli, arrestano gli "orchi". Gli orchi fanno dieci giorni di galera, dopo di che una sentenza del tribunale del Riesame di Roma, confermata poi da una successiva sentenza della Cassazione, demolisce l'impianto accusatorio dell'inchiesta (e la relativa ordinanza di custodia cautelare): permettendo agli indagati di uscire di prigione, rilevando l'inesistenza di seri e robusti elementi di riscontro, mettendo in rilievo la possibilità che alcuni adulti, durante le indagini, abbiano influito con domande suggestive sulla spontaneità del racconto dei bambini, e notando, infine, oltre a una forte opera di induzione e di suggerimento nelle risposte dei bambini, la forma profondamente scorretta con cui nella prima fase delle indagini sono state raccolte le testimonianze dei bambini. Passano alcuni mesi, l'inchiesta va avanti, i bambini - che intanto naturalmente crescono - vengono interrogati dalla procura, e così, nel febbraio del 2010, dopo tre anni di indagini in cui è successo tutto e il contrario di tutto (compreso l'arresto di un benzinaio di colore identificato come "l'uomo di colore con il codino e con la macchina che avrebbe accompagnato i bambini nella casa degli orrori" in seguito alla testimonianza di un genitore, che di fronte agli inquirenti avrebbe ricordato che sua figlia aveva salutato quel benzinaio di colore "con sorrisetti e occhiate da fidanzatina"; e in seguito al racconto di un altro genitore, che ancora di fronte agli inquirenti avrebbe ricordato che di fronte alla pompa di benzina suo figlio si sarebbe rivolto all'uomo di colore urlando "Cattivo, cattivo, uomo nero"; salvo poi scoprire, dopo averlo mandato in carcere per dieci giorni, che l'uomo di colore non aveva il codino, non aveva la macchina, non aveva la patente e soprattutto non c'entrava nulla con l'inchiesta di Rignano), dopo tutto questo, insomma, il gup decide il rinvio a giudizio. L'inchiesta continua ad andare avanti, gli inquirenti continuano a non avere "robusti" elementi di riscontro e alla fine, eccoci qui, si arriva alla sentenza di primo grado; inaspettata solo fino a un certo punto: tutti assolti, il fatto non sussiste. "Ho letto i documenti, mi sembra che il comportamento della procura sia giustificato. Le accuse sono fondate, si basano su fatti seri". Al di là dell'inchiesta in sé, dunque, e al di là di un'inchiesta la cui fragilità risultava in fondo più che evidente dalla semplice lettura delle carte giudiziarie, ciò che più di ogni altra cosa colpì l'occhio del giovane e inesperto cronista fu il modo in cui in pochi giorni il caso di Rignano Flaminio si stava trasformando nella metafora perfetta di tutto ciò che fa fatica (eufemismo) a funzionare nello strano mondo della giustizia italiana. E in effetti, a ripensarci oggi, il caso della scuola Olga Rovere, con le sue indagini, le sue inchieste, le sue perizie, i suoi interrogatori, i suoi arresti, i suoi racconti e la sua relativa caccia alle streghe, conteneva, e contiene, tutti gli elementi utili a osservare da vicino quali sono gli ingredienti che mescolati uno con l'altro ogni tanto danno vita al famoso cortocircuito mediatico giudiziario. Le indagini difettose. Gli arresti spettacolari. La fragilità di un impianto accusatorio. L'abuso della carcerazione preventiva. L'ossessiva ricerca di un "sistema". Il rapporto tra i giornalisti e le procure. Il (non) rispetto dei diritti degli indagati. E soprattutto, come direbbe Brian Levack, "l'esistenza di un'atmosfera che aumentasse la paura della stregoneria e spingesse la gente a combatterla". Il giovane cronista, con occhio insieme ingenuo e stupito, si rese conto così, in quei giorni drammatici, che di fronte a un grande caso di cronaca giudiziaria i giornalisti avevano fatto una scelta precisa: osservare le notizie che arrivavano dalla procura, leggere le carte che passavano i magistrati e ascoltare la versione dei fatti dei querelanti senza se e senza ma, senza i condizionali, senza gli "avrebbe", senza i "risulterebbe" e senza quei minimi accorgimenti necessari a ricordare al proprio lettore che la versione dei fatti che emerge quando si riporta la versione dei fatti di una parte è, semplicemente, quella di una parte, e non certo la verità. Una considerazione forse banale, ok, ma una considerazione e una premessa che diede la possibilità al giovane cronista di raccontare la storia di Rignano Flaminio cercando di spiegare perché, nel paese degli orchi, gli orchi, forse, non erano orchi. "La pedofilia - raccontò in quei giorni al cronista un sociologo con la testa sulle spalle - rappresenta un terreno particolarmente scivoloso per il rapporto tra giustizia e informazione. Non si tratta di fare la morale a qualcuno, figuriamoci, si tratta solo di mettere in evidenza una dinamica giornalistica che di fronte al caso di un presunto abuso sessuale nei confronti di un minore viene particolarmente stressata. Generalmente, capita con una certa frequenza che voi giornalisti, di fronte a un'inchiesta, vi concentriate più sulla versione dell'accusa che su quella della difesa. E' evidente: un titolo di un giornale, o il tema di una bella trasmissione in prima serata, attizza di più se ci si concentra sullo scandalo e si insiste sull'accusa; mentre perde un po' di consistenza, e di interesse, se quella storia viene ridimensionata dalla versione di chi è in qualche modo oggetto dello stesso scandalo. Quando si parla però di casi drammatici come quelli che riguardano il reato di pedofilia è come se scattasse un meccanismo perverso che potremmo riassumere con una mezza formula matematica: in Italia, non si sa bene perché, ma la difesa del diritto di un indagato è inversamente proporzionale alla gravità del reato contestato. Insomma, per farla breve, più è pesante il reato per cui sei accusato e meno certezze avrai che i tuoi diritti da indagato saranno rispettati. La pedofilia, in questo senso, è uno dei reati socialmente più gravi per cui una persona può essere accusata. E in teoria, in casi come questi, considerando l'infamità delle accuse, gli indagati dovrebbero essere più tutelati del solito. In realtà, come abbiamo visto a Rignano, invece, succede esattamente il contrario: si scatena una caccia alle streghe, ci si dimentica di far notare che gli indagati potrebbero anche non essere colpevoli, e alla fine la sentenza viene in qualche modo socialmente e mediaticamente formulata prima ancora che arrivi un grado di giudizio. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: qualsiasi sarà l'esito del processo, chi è convinto che la strega sia una strega non avrà mai pace finché qualcuno non riuscirà a dimostrare che quella strega è davvero una strega". "Auguro a tutti i pedofili e ai mercanti di innocenza di sparire dalla faccia della terra subito, chiunque siano. Se poi fosse vera quella colpa, che per ora rimane letteralmente incredibile, ai responsabili auguro indifferentemente di morire, di essere ammazzati, con o senza dolore, di provare fino alla morte il senso della sua minaccia. Nessuna pietà". Gianfranco Scancarello è una delle cinque persone che a Rignano Flaminio ha passato gli ultimi sei anni della propria vita a difendersi dall'accusa di aver indotto alcuni bambini nella propria casa, "nel castello degli orrori", a praticare atti sessuali, spesso assai cruenti, con l'uso di strumenti che venivano inseriti negli organi genitali delle bambine, e di aver a lungo terrorizzato i bambini anche con l'uso di cappucci, di vestiti da diavolo o di coniglio nero. Gianfranco Scancarello ha sessantuno anni, due baffi molto folti, una faccia piuttosto lunga e due occhi piccoli incorniciati in un viso spigoloso che sarebbe stato un soggetto perfetto per uno dei volti stilizzati di Amedeo Modigliani. Prima di finire coinvolto nelle indagini e nell'inchiesta e nel processo sugli abusi della scuola materna Olga Rovere, Scancarello era un personaggio televisivo conosciuto: aveva lavorato allo Zecchino d'Oro come autore, aveva condotto alcuni programmi per bambini su RaiUno, aveva ideato un paio di format televisivi per ragazzi (Big e Solletico) ed era infine arrivato a collaborare con i conduttori di "Uno Mattina" e di "Buona Domenica". Poi, a un certo punto, inizia la storia che conoscete: Scancarello diventa uno degli orchi di Rignano; sua moglie, che si chiama Patrizia del Meglio e che fino a sei anni fa insegnava alla scuola materna Olga Rovere, diventa una delle streghe di Rignano; la loro casa, che Patrizia e Gianfranco avevano comprato vent'anni fa sulla Flaminia, a pochi passi dal bivio tra Rignano e Calcata, e dove erano andati a vivere con i loro quattro figli, diventa improvvisamente la casa dove "i bambini venivano violentati dal diavolo"; e da un giorno all'altro, così, i due prima finiscono sotto indagine, e poi, per dieci giorni, finiscono in isolamento nella sezione G-12 del carcere romano di Rebibbia. Oggi Gianfranco Scancarello, come gli altri quattro ex indagati di Rignano Flaminio assolti in primo grado quattro giorni fa dal tribunale di Tivoli, con formula piena, si sente naturalmente sollevato. Ma nonostante l'esisto per lui positivo del processo di Rignano non riesce ancora a darsi pace. Scancarello lo incontriamo giovedì mattina a Roma a pochi passi da Ponte Sisto, e con lui, per una buona mezz'ora, proviamo a ricostruire quelli che sono, in qualche modo, i danni collaterali di una caccia alle streghe. "Vedi: io credo che il mio caso, e naturalmente quello delle maestre di Rignano, a prescindere poi da come sia andato a finire, è la metafora perfetta di quale sia la conseguenza di quel cortocircuito che spesso si crea quando un'inchiesta giudiziaria viene gestita in modo non appropriato, e quando l'informazione attorno a quell'inchiesta viene gestita ancora peggio. Vi faccio un piccolo esempio; un esempio che vale per la mia storia e che mi sento di garantire che vale per tutte quelle persone accusate di qualcosa e condannate prima ancora che un giudice o un tribunale abbia emesso la sua sentenza. E' inutile che io vi dica che la mia vita, e quella di mia moglie, per non parlare di quella dei miei figli, è stata distrutta dall'oggi al domani, come si dice in questi casi. E badate bene: qui non si tratta soltanto di un'accusa che mi è arrivata addosso senza che io abbia commesso quel reato ma si tratta soprattutto di un timbro di fuoco che è stato stampato sulla mia fronte e su quella di mia moglie e che so che nessun tribunale, e nessuna sentenza, e nessuna assoluzione, potrà mai cancellare del tutto. Pedofilo, sì. Perché forse chi leggerà questo articolo non si ricorderà di quello che successe quando all'improvviso, dall'oggi al domani appunto, fummo portati in carcere, quando fummo tenuti in isolamento, quando gli altri carcerati ci minacciarono di morte, quando a me dissero ‘tu da questa cella uscirai in orizzontale e con i piedi verso la porta', quando mia moglie fu picchiata da altre carcerate, quando i secondini si ‘dimenticarono' per tre giorni di consegnare le pillole salvavita a mia moglie e quando persone che mi volevano bene mi consigliarono per un paio di giorni di non toccare il cibo in cella perché poteva essere avvelenato. Vedete, io lo so che tutti possono sbagliare, e che anche la giustizia può commettere i suoi errori (anche se sono gravi come quelli che hanno commesso con noi e anche se sono gravi come quelli commessi dagli inquirenti che sapevano perfettamente che, come si dice in gergo tecnico, il fatto non sussisteva, e che non c'erano prove, e che c'era solo un teorema, e che ogni giorno aggiuntivo di caccia alle streghe non avrebbe contribuito a fare giustizia, ma avrebbe semplicemente distrutto le vite di alcune persone che con questa storia semplicemente non c'entravano nulla). Insomma, sì, capisco tutto, ma dall'altra parte permettetemi di non trovare accettabile che un sistema che sa di essere malato non cerchi in tutti i modi di proteggersi e di sviluppare quegli anticorpi che non servono a difendere solo l'indagato in quanto tale ma che semmai servono a proteggere l'indagato come soggetto giuridico; ché oggi è successo a me, che sono stato accusato di pedofilia senza aver mai capito dove, come, quando e perché questo reato sarebbe stato commesso, ma domani naturalmente può succedere anche a chiunque altro. Vedete - dice Scancarello, riprendendo fiato e concludendo il discorso - io, tutto sommato, in questi anni sono stato fortunato perché ho continuato a lavorare qua e là, e sono riuscito a mettere da parte qualche soldino per pagare gli avvocati e tutte le spese processuali. Mia moglie però, così come le altre maestre di Rignano, ha dovuto lasciare il suo lavoro, ha dovuto abbandonare la scuola in cui lavorava da trent'anni, ha dovuto allontanarsi dal suo paese, ha dovuto spiegare ai nostri figli che non è vero che eravamo due pedofili che terrorizzavamo i bambini vestiti da diavolo o da conigli, e ha dovuto accettare, soprattutto, che tutte le istituzioni nelle quali abbiamo creduto per una vita ci chiudessero la porta in faccia. Parlo della giustizia, naturalmente, ma parlo anche della scuola. Perché io, scusate, ma certe cose non le dimentico. E chi, anche tra le istituzioni, in quei giorni, invece che fare gli interessi di tutti i cittadini, ci condannò, e gettò altro carbone nel rogo che ardeva sotto i nostri piedi, prima ancora che fossimo condannati o assolti da un tribunale, ditemi voi come diavolo faccio a dimenticarlo, o magari a giustificarlo. Ché qui non è solo questione di garantismo o innocentismo o giustizialismo: è solo, e sarebbe stata solo, questione di buon senso". "Siamo di fronte a comportamenti di gravità inaudita: gli atti non mi esimono tuttavia dal chiedere scusa a tutte le famiglie coinvolte. Sarà ovviamente tolleranza zero nei riguardi di tali ignobili crimini. E oltre ai provvedimenti di sospensione si procederà all'immediato licenziamento dei docenti coinvolti appena la magistratura avrà concluso il proprio operato". Una delle cose che in quei giorni di primavera colpì di più il giovane e inesperto cronista fu un'osservazione che alcune persone che ebbero l'occasione di interessarsi agli articoli scritti sul caso di Rignano Flaminio fecero sulla narrazione dell'inchiesta. "Ma quindi tu sei innocentista?". Di fronte a quella domanda, il giovane cronista spesso rispondeva con una formula che aveva imparato ad ascoltare da alcuni colleghi più grandi. Una formula semplice, buona per tutte le stagioni: "Non sono innocentista, sono semplicemente garantista". In un primo momento, il giovane cronista offriva ai suoi interlocutori quella risposta quasi avesse attivato la modalità default; ma più passava il tempo, e più prendeva dimestichezza con la materia dell'inchiesta, e più il giovane cronista si rendeva conto che dietro a quella domanda apparentemente banale si nascondeva forse il più grande equivoco sul quale misurare lo stato di salute della giustizia italiana. Per dirla con parole più semplici, quella domanda nascondeva, in un'unica parola, quelli che sono oggi alcuni dei riflessi più pericolosi che si attivano nella testa di molte di quelle persone che per una ragione o per un'altra si ritrovano ad avere a che fare con questa o con quell'altra inchiesta giudiziaria. "Il sei innocentista?", infatti, è una domanda che sottintende una profonda e distorta convinzione che sia l'indagato a dover dimostrare la sua innocenza, e non che sia l'accusa a dover dimostrare la colpevolezza dell'indagato (un processo, questo, detto tra parentesi, che si trova alla radice della ragione per cui alla fine di un'inchiesta resta spesso l'impressione che qualcuno l'"abbia fatta franca", che qualcuno l'"abbia scampata" e che l'imputato assolto, per il semplice fatto di essere stato imputato, non sia innocente ma semplicemente non condannato). Ma è una domanda che in un certo senso lega anche in modo perverso chi cerca di fare uno sforzo per tutelare e riconoscere i diritti e le libertà fondamentali degli indagati con l'interesse di quegli stessi indagati: col risultato che spesso il garantista che ha a cuore solo i diritti e le libertà fondamentali degli indagati finisce per essere accusato di essere dalla parte degli indagati, e in questo caso, nel caso di Rignano, di essere, oplà, semplicemente dalla parte degli orchi. "Mica sarai un pedofilo anche tu?". D'altra parte, è vero, il "garantismo" spesso è solo una parola che viene brandita come una clava da una singola parte per giustificare il malaffare della propria parte, e tutti sappiamo che non è raro che i tifosi di un partito o di una squadra abbiano un pregiudizio positivo rispetto alle inchieste che riguardano la propria parte e un pregiudizio negativo rispetto alle inchieste che riguardano la squadra o il partito avversario. In processi drammatici come quelli legati alla pedofilia, però, il discorso diventa diverso e più complicato, ma di base il meccanismo di valutazione dell'inchiesta non cambia: si tifa sempre per qualcuno; e generalmente, quando il terreno è neutrale, e non c'è nessun amico per cui tifare, si tifa e si urla sempre contro chi si ritrova a passare per primo sotto la gogna. E in questi casi, poi, in casi come quelli legati alla pedofilia, il processo riesce a raggiungere persino dinamiche ancora più perverse: perché il più delle volte ti porta a scegliere da che parte stare non seguendo semplici criteri razionali ma partendo da una domanda drammatica: e tu che fai; credi oppure no a quello che dicono i bambini? "Probabilmente le maestre d'asilo lo facevano anche per denaro, dal momento che il denaro è diventato l'unico generatore simbolico di tutti i valori e i disvalori della nostra e delle altre culture". Fabrice Burgaud è il nome di uno dei giudici diventati più noti nella storia recente della giustizia francese. Burgaud, qualche anno fa, fu protagonista di un processo sensazionale che occupò a lungo le prime pagine dei giornali transalpini. La storia del processo portato avanti dal giudice Burgaud - storia anche questa legata a un clamoroso caso di presunta pedofilia - si è sviluppata per quattro anni in un piccolo comune di 14 mila abitanti a una manciata di chilometri da Calais, nel nord della Francia. Il paesino si chiama Outreau, e dal 2001 al 2005 è stato teatro di un clamoroso processo che portò a decine di fermi, diciotto arresti, un processo di primo grado, un processo di appello, un suicidio in carcere e una assoluzione finale, in secondo grado, nel dicembre del 2005. Il processo, che decretò la condanna in primo grado di sei persone, che trascorsero tutte tre anni in galera prima di dimostrare che con quelle accuse non c'entravano nulla, si concluse con venti assoluzioni e un'accurata inchiesta parlamentare, che ai tempi venne trasmessa in prima serata su France 2. Quel processo, nel corso degli anni, diventò sempre di più il simbolo, o meglio, la metafora di tutti gli effetti perversi che può trascinare con sé un'inchiesta condotta con lo stile di una "chasse aux sorcières" - una caccia alla streghe. Una giustizia che funziona male - era il ragionamento di Florence Aubenas, la giornalista di Libération che per prima in Francia mise in luce le contraddizioni del questo processo - e che ci mette troppo tempo a trovare delle risposte produce solitamente due dinamiche surreali: chi è convinto che un reato ci sia stato, resterà sempre dell'idea che quel reato c'è stato; mentre chi è convinto che quel reato non c'è stato non potrà mai essere del tutto assolto, perché dentro le teste delle persone sarà sempre colpevole, macchiato, per il semplice fatto di essere stato coinvolto in quel tipo di reato. Il processo di Outreau, in seguito, ispirerà anche la pluripremiata pellicola del regista francese Vincent Garenq, "Présumé coupable", e offrirà materiale utile anche a un altro regista, il danese Thomas Vinterberg, che giusto quest'anno, con il suo "The Hunt", la sua versione cinematografica di una moderna caccia alle streghe, ha visto il protagonista del suo film, Mads Mikkelsen, alzare la Palma d'oro nella sezione migliore attore al Festival di Cannes. "Quando l'emozione popolare - disse anni fa Florence Aubenas al Corriere della Sera - entra nelle aule di tribunale, tutto può succedere. Nel caso Outreau mancavano prove materiali: c'erano soltanto le accuse dei bambini e degli adulti, ma tutti i riscontri erano negativi: niente nelle intercettazioni, le indicazioni di tempi e luoghi non corrispondevano, nessuna prova del Dna, nulla. Allo stesso tempo però, a Outreau tutti accusavano ‘gli orchi', e tutti avevano una storia da raccontare contro di loro. Fu un linciaggio: in tanti in paese temevano di essere arrestati, e si era creata un'atmosfera di panico tale per cui accusare gli altri diventava un modo per sottolineare la propria innocenza. Purtroppo però la lezione di Outreau non è servita a molto, e alla fine da questa vicenda non abbiamo imparato nulla; perché di fronte a qualcosa che è percepito come il male assoluto - può essere la pedofilia, il terrorismo, lo spaccio di droga - quando si creano dei ‘mostri', già per il semplice fatto di averli creati, la frittata e fatta, e tutto diventa possibile, e la storia si ripete all'infinito. Almeno però, in Francia, una scelta è stata fatta". Una scelta, già. Una scelta che con il caso Outreau portò un giudice, un pm, un ministero della Giustizia e un presidente della Repubblica a presentarsi di fronte a una telecamera e a scandire una delle tante parole che forse continueremo a non sentire ragionando intorno a casi come di Rignano Flaminio. Una parola semplice, che in francese suona più o meno così: pardon.
Rignano Flaminio, Gianfranco Scancarello: "Io, trasformato in orco pedofilo da un'inchiesta sbagliata", scrive Alessandro Dell'Orto l'1 Agosto 2014 su Libero Quotidiano. Un libro sul tavolo: Il demone della paura di Zygmunt Bauman. Lo sta leggendo lei? «È un’analisi su come la società ci fa vivere su modelli uniformati dalle paure. Glielo regalo: le piacerà. La paura va affrontata, non evitata». E lei, Gianfranco Scancarello, chissà quante ne ha combattute in questi otto anni da presunto “orco”. Accuse di pedofilia, l’arresto, il carcere, processi mediatici e giudiziari, l’assoluzione.
Il momento peggiore?
«Sera del 24 aprile 2007, cella di isolamento a Rebibbia. Sono appena stato arrestato. Buio, silenzio. Da fuori, improvvisamente, sento urlare il mio nome da più persone. Una, due volte. Insulti. Minacce. A “Scancare”, con la tua testa ce giocheremo a palla. Te veniamo ad acchiappa mostro de regazzini”. La mattina dopo - pum pum - vengo svegliato da strani rumori: sono i sassi e la terra lanciati dal campo di calcio contro la finestra a piano terra. E i miei vicini di isolamento, gente agli infettivi, urlano tra loro: Sai che fine je faranno fare a questo? Ma non solo».
Cioè?
«Oltre alla preoccupazione per la mia incolumità ho avuto paura per i miei figli. Tra il 12 ottobre 2006 e il 24 aprile 2007 via Flaminia è stata tappezzata di minacce: Morte ai pedofili. Durante l’arresto mi hanno concesso di fare una telefonata: ho chiamato Marcello, allora 23enne, e gli ho detto di prendere le sorelle e portarle via di casa».
Gianfranco, c’è invece una paura che non ha ancora superato?
«Ce ne sono due. Non sopporto le voci dei bambini: il giorno della scarcerazione sono andato a Ikea con la famiglia e sono dovuto scappare».
Nemmeno i nipoti?
«Con loro va meglio grazie a mia figlia Immacolata. Si è presentata una mattina e ha chiesto a me e mia moglie di tenere il bimbo per due settimane. È stata una buona rieducazione».
La seconda paura?
«Che capiti ad altri quanto successo a me. Ti svegli una mattina, dei bambini ti accusano di essere un pedofilo e devi essere tu a dimostrare il contrario. Capisce? È come essere ucciso da un colpo di P38 alla testa. Ci hanno radiografato tutto: casa, conti in banca, internet, telefoni. E non hanno trovato nulla. Bastava questo, forse, per immaginare che dei genitori di mezza età non potessero diventare improvvisamente pedofili e mettere su una banda criminale con tanto di bidella e cingalese. Servivano otto anni per capirlo?».
Approfondiamo. Tre giorni fa sono stati depositati i motivi della sentenza di appello che ha confermato le assoluzioni. Si legge: I minori furono influenzati dai genitori e gli stessi genitori intrecciarono le loro esperienze sino a determinare un inestricabile reticolo.
«Già, un reticolo. Bastava scorrere le denunce e saltava fuori come si era arrivati alle accuse. Con condizionamenti a catena e i genitori riuniti che interrogavano i figli. Un contagio collettivo».
E poi. L’accusa non ha trovato alcuna conferma, e pur tuttavia ha proseguito nell’iter giudiziario via via ridimensionandosi nelle imputazioni, negli imputati....
«Tuttavia. Ecco, in questa parola c’è tutto. Dovevano dimostrare a tutti i costi qualcosa. Il problema è il metodo. Se ho dei dati, li verifico e formulo un’ipotesi. Nel caso di Rignano invece si è partiti da una teoria e si è fatto qualsiasi cosa per cercare di dimostrarla».
Ancora. ...le dichiarazioni dei minori spesso sono incompatibili tra loro; talvolta sono prive d’intrinseca credibilità e coerenza, facendo riferimento a fatti inverosimili, che suscitano dubbi in ordine alla capacità dei piccoli di discernere tra fantasia e realtà.
«Mi chiedo. Se i bimbi fossero stati davvero drogati e seviziati per un anno - come si diceva nelle accuse - quando ogni giorno alle 16 tornavano a casa, i loro genitori come facevano a non accorgersene?».
Le motivazioni la soddisfano?
«Mi ridanno serenità perché sono come una pietra tombale sulla vicenda. Ma le stesse cose le avevano già dette il Tribunale del Riesame e la Cassazione (il 18 settembre 2007 la terza Sezione Penale della Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Tivoli decidendo che gli accusati restassero in libertà, ndr). Ora è stato aggiunto un “tuttavia”...».
Otto anni da incubo. Come è cambiato Gianfraco Scancarello?
«A livello umano è stato devastante. Tutto ciò che avevo costruito in 50 anni di vita e 35 di lavoro è sfumato nel nulla. Io e mia moglie siamo dovuti ripartire da capo. Però non ci hanno avuto, non siamo caduti nella passerella dell’info-spettacolo».
Gianfranco, risposta secca senza pensarci. Crede ancora nella giustizia?
«Certo. I giudici hanno detto tutti la stessa cosa: non che il reato non c’è, ma non c’è il fatto».
Per tutti però lei è stato il presunto “orco”. Perché?
«È il sonno della ragione, la caccia alle streghe. L’accusa di pedofilia va molto di moda in questi anni...».
Qualcuno avrà responsabilità.
«Se io, da autore tv, mandassi in onda una castroneria verrei licenziato. Se lei scrivesse una castroneria perderebbe il lavoro. Beh, qualcuno si dovrebbe domandare quante castronerie ha commesso in questa vicenda e poi...».
Poi?
«Dovrebbe prendersi le proprie responsabilità. A Outreau, in Francia, c’è stato un caso analogo di isteria collettiva. Sa che ha fatto il magistrato? Si è presentato in tv e ha chiesto scusa per aver sbagliato».
Lei presenterà un conto?
«Non so se lo farò. Anche se ho perso molti soldi».
Quanto?
«Prima ero in una situazione di solidità economica, ora sono in una situazione di disagio. Ho dovuto vendere la casa di Rignano. L’unico risarcimento che chiederò, però, è quello morale».
L’ha quantificato?
«Non lo voglio in euro. Mi basterebbe sapere che in una società civile come la nostra non esistano più storie di falsi abusi. E che alcune associazioni smettano di sparare nel mucchio in nome della lotta alla pedofilia. Noi di Rignano siamo la punta di un iceberg. C’è gente che ci ha lasciato le penne in carcere, c’è chi è ancora in galera da innocente».
Lei ha mai avuto istinti suicidi?
«Se li ho evitati è stato per merito dei miei figli cui ho sempre pensato che volevamo restituire la dignità del cognome. Poi per gli avvocati dello studio Coppi: fantastici professionisti, ma soprattutto persone speciali».
Gianfranco, sono passati otto anni. Chiuda gli occhi e si lasci andare. Che flash le sono rimasti di questa vicenda?
«Venti carabinieri che una mattina all’ora di colazione suonano alla porta. Mio figlio apre la porta finestra vicino all’entrata e si ritrova un mitra puntato: Lei stia fermo».
Il carcere.
«Arrivo a Rebibbia e mi si fa incontro un secondino: Prego, si accomodi, le ho preparato la suite...».
I 17 giorni di cella.
«Un piatto di presunte lenticchie e pane incelofanato. Con la mollica faccio piccole torri che diventano i miei familiari più cari».
L’odore del carcere?
«Acari, polvere».
Colori?
«Arancione sbiadito degli armadietti e il marrone delle coperte».
Ha subìto violenze fisiche o psicologiche?
«C’è stato un accanimento sul corpo di mia moglie: le hanno mappato i nei dei seni per verificare i racconti dei bambini. E ha subìto una visita ginecologica dopo che gli avvocati avevano detto di non farla. Cosa cercavano nell’utero di una donna in galera da 16 giorni? Qualcuno me lo deve spiegare».
Gianfranco, ultima domanda. Se un giorno incontrasse una delle mamme che l’hanno accusata cosa le direbbe?
«Una frase che prendo in prestito da mia moglie: Dei figli bisogna occuparsi, non preoccuparsi».
La strega delle streghe. Patrizia era maestra d'asilo a Rignano. Col marito e altri colleghi è finita in carcere per pedofilia. Ora, dopo 8 anni, sono stati tutti assolti. E qui ci raccontano la loro vita «in una prigione senza sbarre», scrive su Vanity fair il 22 giugno 2014 S. Nucini. La storia in cui hanno perso tutti inizia il 9 luglio del 2006 con una denuncia dei genitori di N, quattro anni, che da qualche tempo è strana e ossessionata dai genitali, i suoi e anche quelli del cane. Dice che a scuola giocano così, a toccarsi le patatine «come ci ha insegnato la signora». La scuola è la materna Olga Rovere, la signora, dirà poi la bambina, si chiama Patrizia. Patrizia si chiama anche la signora che mi apre la porta. Patrizia Del Meglio, ex insegnante della materna Olga Rovere. All’ingresso accanto a lei c’è anche suo marito Gianfranco Scancarello. Entrambi sono stati imputati – insieme con le maestre Marisa Pucci, Silvana Malagotti, la bidella Cristina Lunerti e nella fase iniziale anche il benzinaio del paese Kelum Weramuni – nel processo per presunti abusi sessuali a carico di 21 bambini di Rignano. È iniziato otto anni fa e si è concluso il 16 maggio di quest’anno con la sentenza della terza Corte d’Appello di Roma. Tutti assolti con formula piena «perché il fatto non sussiste». Il- fatto-non-sussiste. Lo scandisce così, mettendo i punti tra una parola e l’altra, Gianfranco Scancarello, e in ogni punto si intuisce un groviglio di sentimenti in cui però nessuno assomiglia alla gioia. «Solo al sollievo, forse», dice sua moglie. Maestra d’asilo lei, ex maestro elementare prestato alla televisione dei ragazzi lui, si trasferiscono a vivere da Roma a Rignano Flaminio nei primi anni ’80. Lui collabora con la Rai, lei comincia a insegnare subito in quella scuola dove per 22 anni crescerà generazioni di rignanesi, prima pochi e poi tantissimi, quando la città diventa un quartiere dormitorio di Roma. «Senza un piano di sviluppo, solo mattoni. E chissà che c’entri anche questa mancanza di spazi d’incontro e di cultura in tutto quello che è successo», dice Scancarello. Il 12 ottobre del 2006, alle 6 del mattino, suonano alla loro porta. Quando Patrizia apre vede una trentina di carabinieri, alcuni hanno i fucili, alcuni le tute bianche del Ris. Scancarello viene subito portato nei suoi uffici, lei e i quattro figli seduti al tavolo. La notifica della perquisizione appoggiata in mezzo a loro la leggeranno anche i ragazzi, inclusa la piccola che allora ha 11 anni. Tre giorni dopo Patrizia torna a scuola, indice una riunione coi genitori dei suoi bambini. «Gli ho detto: usate la vostra testa per decidere. Sapete chi sono. Sono innocente. Un padre mi ha chiesto di fare un passo indietro, invece ho continuato a lavorare. Per tre mesi. Poi, non ce l’ho fatta più». Il giorno dopo la classe è vuota. Piano piano ritornano, ma solo 16 dei 25 bambini che c’erano prima «e più per necessità che per convinzione», pensa lei. «Perché noi?» è una cosa che si sono chiesti quasi ogni giorno, in tutti questi anni, senza riuscire a darsi una risposta. Solo Gianfranco crede che la sua attività di autore televisivo possa fornire un appiglio: «Nelle fantasie malate c’è sempre qualcuno che usa la telecamera». «Contagio dichiarativo» è l’espressione che ripetono più spesso quando si parla dei motivi che possono aver portato 21 famiglie a sporgere denuncia. Non è la prima volta. Negli anni Ottanta la collina su cui sorgeva la scuola McMartin, a Manhattan Beach, California, fu sventrata dalle ruspe. Si cercava una grotta in cui quaranta bambini raccontavano di essere stati violentati. Si scoprì poi che quella grotta era un disegno fatto da un maestro perché i bambini ci buttassero dentro le loro paure. I bambini si erano inventati tutto, ma intanto Ray Buckey, il principale accusato, aveva fatto 5 anni di carcere. «Non mi spaventa la caccia alle streghe», dice Scancarello, «ma il sonno della ragione. Chi è preposto a controllare non può farsi trascinare nella psicosi. E certa psicologia infantile nemmeno. In udienza un perito ha detto che – siccome uno dei bambini si tappava le orecchie e tirava su con il naso e questo gesto procura un piacere spineale che arriva all’ano – questa era la prova della subita violenza». Il carcere arriva nell’aprile del 2007, dopo mesi che comunque sono un inferno. Sulla via Flaminia qualcuno scrive «morte ai pedofili», a casa arrivano lettere di minacce. La prigione è in isolamento per entrambi. Patrizia viene sottoposta a una visita ginecologica con colposcopia, Gianfranco pensa che non ce la farà: «Quando ti sussurrano che tu da lì uscirai solo con le gambe davanti, quando ti passano un piatto che preferisco non descrivere, ma solo definire immondo, pensi che impazzirai». Il motivo di questa carcerazione preventiva va ricercato nella frase che gli inquirenti a un certo punto pronunciano: «Serve per dare una smossa alle indagini». «Volevano che crollassi, e invece no», dice Patrizia. «In quei 17 giorni in prigione, rileggendo cento volte la mia istanza di carcerazione, ho capito: dovevano trovare la strega delle streghe, ed ero io». Intanto il paese si spacca: chi mette gli striscioni e chi, invece, organizza fiaccolate per dire: noi non crediamo a questa follia. Le persone che hanno lavorato con Gianfranco in Rai e Mediaset raccolgono 300 firme che lo fanno sentire meno solo. «Abbiamo vissuto tutti questi anni in una prigione senza sbarre. Abbiamo perso tutto: casa, progetti, lavoro. Sempre guardati con un punto interrogativo. Prima di venire a vivere a Milano, ci siamo trasferiti a Roma. Ma non è stato facile trovare chi ci vendesse la casa: persino a contratto già firmato, volevano tirarsi indietro, non avere problemi». Anche i figli si portano dietro il peso di un cognome e una storia pesanti: «Ci sono sempre stati vicini, ma la nostra famiglia è cambiata per sempre. Ci siamo dovuti ricostruire, perché puoi mettere in conto tante cose nella vita – che morirai, che perderai tutto –, non di diventare un pedofilo, un mostro. E neppure di diventare il figlio di un pedofilo, un mostro. Non ho sentito nessuno spendere una parola di pietà per i figli nostri e per le altre persone coinvolte». A Milano vivono da due anni, in un anonimato rassicurante. «Chissà se i vicini sanno chi siamo. Di certo non ci presentiamo raccontando la storia. Anche se certe volte penso che sarebbe più giusto e chiaro per tutti. Qui siamo entrati con la dignità di chi paga un affitto e ha la fedina penale pulita». Chiedo se essere andati via da Rignano sia stata, alla fine, una forma di sconfitta. Mi risponde Gianfranco: «Né vittoria né sconfitta. Abbiamo perso noi e hanno perso i bambini, la cui vita sarà per sempre segnata da quella storia e quel processo. Ha perso la Giustizia – lo scriva col maiuscolo – e il concetto di Giustizia – sempre col maiuscolo, la prego. Hanno perso i cittadini: in 8 anni di iter processuale sono stati spesi un mucchio di soldi. Io non ho le fatture, ma qualcuno lo ha scritto: 2 milioni e mezzo di euro. Ha perso anche il racconto della verità: pure adesso, dopo la sentenza, dopo che 12 giudici hanno riconosciuto che il fatto non sussiste, leggo ancora titoli ambigui, mi fanno male. A Outreau, in Francia, è successa una storia simile. Dopo anni il pubblico ministero è andato in televisione a dire: chiedo scusa, ho sbagliato. Servirebbe anche qui, sarebbe un atto di giustizia verso quei bambini e le istituzioni di questo Paese». A un certo punto, al paese, qualcuno ha fatto delle magliette. Sopra c’era scritto: la verità non ha paura. «È la frase che mi diceva mia madre: Gianfranchino, di’ sempre la verità, perché la verità non ha paura. Abbiamo tenuto duro pensando a questo. E in tutto il male di questa vicenda una cosa buona l’ho capita. Io, noi, tutti, siamo molto più di quanto crediamo di essere. Più forti, più capaci di reggere i colpi, più attaccati alla vita». Chiedo anche a Patrizia se c’è stato qualcosa di buono che questi 8 anni le hanno lasciato. «Ricordo il primo giorno in cui incontrai il nostro difensore, l’avvocato Coppi. Gli dissi: professore, questa è la verità, io sono innocente. Mi disse: attenta, signora. C’è la verità e poi c’è la verità giudiziaria. Non sempre coincidono. Da quel momento qualcosa dentro di me è cambiato. Mi sono chiesta come avevo vissuto fino ad allora, con quali occhi avevo guardato la vita, il mondo. Da allora ho cambiato la prospettiva sulle cose. Non lo so se, però, questa è una cosa buona».
MODENA E LE SUGGESTIONI. IL CASO DELLA PEDOFILIA SATANICA.
Non c'è solo Rignano: la tragica storia di don Govoni, scrive Dimitri Buffa su "L'Occidentale" il 12 maggio 2007. Quando si parla di inchieste sulla pedofilia l’errore giudiziario sta diventando la regola più che l’eccezione. Tanto che ormai le vittime si sono organizzate per fare conoscere le proprie terribili storie anche attraverso un sito internet (falsiabusi.it) pieno zeppo di documenti in cui vengono fuori gli assurdi metodi di induzione al ricordo dei bambini da parte di assistenti sociali e psicologi. Per non parlare del conflitto di interessi di molti operatori del settore. Che spesso fanno da consulenti per i pm e contemporaneamente dirigono le varie “case del fanciullo” in cui vengono mandati i figli minori di un genitore accusato a torto o a ragione di pedofilia. E siccome si tratta di strutture convenzionate con la regione, a pagamento, molto lauto per giunta e commisurato a ogni infante ricoverato, ci si può immaginare con che piede partano certe inchieste. I casi universalmente più famosi furono quelli del pm Forno a Milano che accusò un padre di avere violentato il figlio di un anno basandosi su perizie superficiali sull’ano del ragazzino che poi si scoprì soffrire di un tumore congenito al retto del quale morì. Il padre fu trattato da mostro e sbattuto in galera e ovviamente nessuno lo risarcì come nessun magistrato pagò. Ancora prima c’era stato il caso, con risvolti grotteschi, di Marco Dimitri, accusato di avere avuto riti satanico pedofili con bambini di un anno sulla base della testimonianza di una spogliarellista che cercava di vendere un servizio osè a un giornale per soli uomini. Caratterizzandosi come la strega dei Castelli Romani. La donna in aula venne in lacrime a dire che si era inventata tutto per farsi pubblicità. Clamoroso anche il caso di quella figlia che si inventò a otto anni una violenza subita dal padre e che poi chiese la grazia a Ciampi per il proprio genitore ingiustamente calunniato. E’ esperienza di tutti i giorni, tra gli avvocati che si occupano di queste delicate inchieste, che spesso le madri inducono i figli a denunziare violenze per ottenere l'affidamento in cause di divorzio o separazione. La storia più drammatica fu la vicenda umana di don Giorgio Govoni a Finale Emilia. Govoni era un sacerdote che morì di crepacuore il 19 maggio 2000 dopo anni di indagini che non avevano portato a nulla. E ogni 19 maggio, dopo quello in cui il cuore del povero don Giorgio Govoni non resse più alle infamanti accuse di essere un pedofilo e un “sacerdote satanico”, tutti i fedeli della Bassa Modenese, da Mirandola, a S. Felice e Finale Emilia, passando per San Biagio e Massa Finalese, celebrano una sorta di festa del santo patrono. E qualcuno ora ne sta già chiedendo la beatificazione.
Una sorta di martire della giustizia all'italiana. E delle inchieste sulla pedofilia che spesso portano i pm di provincia in prima pagina. Inchieste ed errori giudiziari tornati alla ribalta dopo i fatti di Rignano Flaminio. Episodi di isterie collettive assecondati dalla magistratura e dagli inquirenti, salvo poi piangere sul latte versato quando si verificano suicidi o morti di crepacuore. Il caso del sacerdote Giorgio Govoni è stato il precursore di questo tipo di inchieste. Per chi conosce un po' il vissuto di questi paesini del basso modenese, la loro realtà è sempre stata quella di mondi separati: nel territorio di quattro comuni adiacenti, all’epoca delle accuse di pedofilia contro questo sacerdote, esistevano ben quattro ospedali. Finale Emilia ha sempre gravitato su Ferrara, possedimento estense, mentre Mirandola, fu a lungo di proprietà della famiglia del famoso Pico. Anche dal punto di vista ecclesiastico, Mirandola e S. Felice - Finale appartengono a diocesi diverse. Le frequentazioni degli abitanti di Massa Finalese verso Mirandola sono cominciate solo quando, in quel luogo, è stato aperto un supermercato COOP, e quando sono stati accentrati i servizi sanitari a Mirandola. La vicenda di don Giorgio Govoni nasce in questo contesto: una realtà precedentemente agricola, che, negli anni 60-70, vede un notevole sviluppo anche industriale, con i primi fenomeni di immigrazione e di disagio sociale.
Don Giorgio Govoni aveva passato quasi tutta la sua vita in queste zone ed era stato per parecchi anni un camionista. Una sorta di moderno prete-operaio che aveva fondato un'associazione di volontariato, chiamata "Il Porto", e che si era interessato di centinaia di famiglie in situazioni di disagio. Tra esse quella di D. che aveva coinvolto la propria famiglia denunciando il padre per pedofilia. Nel 1994, don Giorgio Govoni iniziò ad interessarsi della famiglia di D. scontrandosi spesso con i servizi sociali. Questi ultimi gli rimproveravano persino l'aiuto che don Giorgio dava alla famiglia nella gestione della vita quotidiana: sostenevano che la famiglia dovesse gestirsi da sola.
Quando il bambino venne messo in istituto a Reggio Emilia, i volontari di Don Giorgio aiutarono la famiglia sia procurandole un'autovettura, per andare a trovare il figlio, sia per le altre necessità, cibo e alloggio. Queste circostanze diventano, per il Tribunale di Modena, non opere di carità cristiana ma il compenso alla famiglia per ciò che sarebbe accaduto nei fantomatici "cimiteri" dove si praticavano la pedofilia e il satanismo. Al Cenacolo Francescano D. rimase per quasi un anno e mezzo, finché si trovò una famiglia, cui affidarlo. Il bambino rientrava di tanto in tanto in famiglia e cominciava anche ad essere seguito da una tirocinante psicologa, la dottoressa Valeria Donati, che poi sarà assunta dall'ASL locale. Quando D. iniziò a parlare di abusi subiti in famiglia l'anno prima, era l'aprile 1997, sarà lei ad interrogarlo per decine di volte, così come avrebbe fatto poi l'affidataria a casa subito dopo gli interrogatori della strizzacervelli. Dopo un numero imprecisato di colloqui (la psicologa ha dichiarato di aver distrutto gli appunti e non è stata tenuta la cartella clinica per nessuno dei bambini, altra analogia con gli abusi di Rignano, dove non esiste traccia degli interrogatori dei bimbi con la psicologa) D. parlò un bel giorno di una persona, un "Giorgio" descritto come un "sindaco" che indossava "una tunica". L'affidataria gli chiese se questo Giorgio non fosse un "prete", visto che D. aveva detto di conoscere un prete di Massa Finalese, e D. disse che "questo Giorgio è un prete". Di suo la Donati aggiunse che "uno dei preti di Massa Finalese si chiama infatti don Giorgio ed è il sacerdote che segue (a livello assistenziale) la famiglia G. da anni". Per la cronaca don Govoni non esercitava a Massa Finalese da quasi venti anni. D. invece aveva ripetuto più volte la parola "sindaco" riferendosi a questo "Giorgio", ma dicendo che si stava confondendo e gli veniva da dire "medico", ma che nemmeno questa era la parola giusta e che forse si confondeva "perché conosceva due persone di nome Giorgio." Si orientano le ricerche su don Giorgio Govoni, di cui vengono intercettate le telefonate senza alcun esito. Intanto la psicologa e l'affidataria continuavano negli interrogatori del bambino e cominciarono ad uscire incredibili racconti di riti nei cimiteri con uccisioni di animali e violenze sui bambini. Fu anche descritto un cimitero che si cercò invano per mesi. Dopo qualche settimana, una strana fuga di notizie portò sui giornali l'indiscrezione che nei racconti di D. era coinvolto un prete e che si sarebbe trattato di don Giorgio, il quale si presentò subito al pm Claudiani per spiegare di aver solo aiutato una famiglia in difficoltà e di essersi, per questo motivo, scontrato in più occasioni con l'USL, che (dopo l'arresto del padre e del fratello di D.) aveva anche cercato di impedirgli di continuare ad aiutare la famiglia, al punto di essere convocato dal servizio che gli chiedeva un "atteggiamento di durezza". A poco a poco i racconti di quei bimbi che avrebbero partecipato alle orge sataniche nei cimiteri avrebbero assunto nel tempo aspetti macabri con l'uccisione di numerosi minori, ma senza che sia mai stato contestato a nessuno il reato di omicidio (anche perché mancavano i cadaveri), che avrebbe comportato la competenza della Corte d'Assise, forse meno incline a credere ai teoremi accusatori senza riscontri. Venne, quindi, svolto (in fretta e furia) un primo processo al termine del quale i genitori ed il fratello di D., assieme ad altre quattro persone, furono condannate per gli abusi. Nel frattempo, però, la mamma imputata di una bambina si era già suicidata e, di lì a poco, un altro imputato sarebbe morto di infarto, dopo avere attuato una specie di sciopero delle medicine in carcere. Al primo processo don Giorgio venne sentito solo come indagato per reato connesso, e fornì ancora una volta i chiarimenti sui rapporti con la famiglia G. La sentenza ritenne credibili tutti i racconti di D., condannando tutti gli imputati e sostanzialmente anche don Giorgio, senza che lo fosse ancora formalmente. L'appello invece assolse, nel luglio 2000, tutti gli imputati per i reati commessi su altri bambini, confermando solo la condanna per gli abusi in ambito familiare. La Cassazione, nel settembre 2000, confermò la sentenza. Intanto altri bambini avevano cominciato a chiamare in causa don Giorgio per i riti nei cimiteri. Uno di questi affermò che venivano uccisi cinque bambini per tre sere alla settimana. Assieme a don Giorgio furono chiamati in causa anche gli altri sacerdoti che lo difendevano.
Nell'estate 1999 iniziava nel frattempo il secondo processo, in cui don Giorgio era, finalmente, imputato. Fu subito costretto a ricusare (assieme ad altri imputati) due dei giudici che pretendevano di svolgere anche questo processo, dopo averlo sostanzialmente già condannato nella sentenza relativa al troncone di indagini precedente nel cui processo erano stati giudici. La Corte d'Appello non poté che accogliere la richiesta.
Durante il processo, solo a fatica la difesa riuscì a far effettuare una nuova perizia sulle fotografie raccolte dai consulenti del PM, Bruni e Maggioni (che diventeranno celebri per un'altra storia simile), a proposito degli abusi sui bambini. I periti non poterono che ammettere che non era stata descritta la reale situazione anatomica dei bambini visitati. Nonostante questo, il PM chiese la condanna di tutti gli imputati e per don Giorgio la pena di quattordici anni di carcere. Il giorno seguente don Giorgio, era appunto il 19 maggio 2000, dopo aver ancora una volta proclamata la sua innocenza, morì d'infarto nello studio del suo avvocato. Prima che il suo avvocato potesse pronunziare l’arringa in suo favore per dimostrarne l’innocenza. La sentenza parlava di "non luogo a procedere per morte del reo", mentre quasi tutti i coimputati vennero condannati per tutti i reati ascritti. A Mantova intanto proseguivano le indagini per fatti i denunciati da D. che aveva coinvolto anche un conte ed il Vescovo di Crema. La locale procura però chiese l'immediata archiviazione.
A quel punto anche l'avvocato dei genitori di D. chiese la revisione del primo processo. A fine giugno 2001 a Bologna si svolse il processo di appello per il secondo troncone di indagini scaturite dalle rivelazioni di D., al termine del quale più di metà degli imputati furono assolti "perché il fatto non sussiste" o per "non aver commesso il fatto". Tra essi i genitori ed il fratello di D. Agli altri condannati vennero notevolmente ridotte le pene. I racconti dei bambini sui cimiteri furono ritenuti, a quanto si lesse nel dispositivo della sentenza, inesistenti, mentre pochi giorni dopo, il 24 luglio del 2001, i genitori di D. furono scarcerati dalla Corte d'Appello di Ancona in attesa del processo di revisione. Per don Govoni i propri parrocchiani iniziarono invece a chiedere da allora la beatificazione.
Perché la giustizia italiana fa terrore, scrive Fuori dal Coro Fabio Cammalleri il 5 Dicembre 2014 su "La Voce di New York". In attesa che si “sviluppino” gli ultimi casi mediatico-giudiziari, quelli del piccolo Loris e della Mafia Romana, una storia “minore” ci ricorda perché ogni più intenso scetticismo nei confronti della giustizia italiana e della sua capacità di trovare la verità sia giustificato. La dose media settimanale di lenocinio mediatico-giudiziario, in queste ore somministra la Mafia di Roma e i sospetti per la morte del piccolo Loris. Vedremo. Prima, però, vorrei spiegare perchè nutro totale sfiducia nel processo penale italiano: senza offesa per nessuno dei suoi attori o svariati sostenitori. Lo farò con un esempio. Un padre e una madre, lui fuochista in un’azienda che produceva ceramica, lei maestra d’asilo, devono aprire la porta della loro casa a uomini che entrano con la forza: pretendono che i loro figli, quattro, siano svegliati. Dormono: sono bambini, la minore ha tre anni, la maggiore undici. E sono le cinque del mattino. Li portano via. Non li vedranno mai più. Non siamo in Cile, nei giorni immediatamente successivi al golpe di Pinochet. Né nell’Argentina dei desaparecidos. Né in Cambogia, quando il suo primo ministro Saloth Sar, in arte Pol Pot, fra le altre pregevoli iniziative, ebbe quella di sottrarre i figli ai genitori, per educarli al nuovo stato socialista. No, no. Siamo in Italia, a Bassa Finalese, frazione di Finale Emilia, provincia di Modena. Italia colta, civile e ricca. Ma, purtroppo, anche lì c’è questa magistratura. È il 16 Novembre 1998, e siamo a casa di Delfino Covezzi e Lorena Morselli. Il Tribunale per i Minorenni, con provvedimento provvisorio aveva disposto il prelievo. Qualche mese prima, i Servizi Sociali avevano ascoltato da due bambini problematici di cui una, di otto anni, formalmente psicolabile, un racconto fantastico. In questo racconto c’erano, alla lettera, “orchi”. Poi c’erano delle “messe” al cimitero, di sera o anche in pieno giorno, dirette da un prete, Don Giorgio Govoni. In queste riunioni si lanciavano “dei bambini” in aria, che poi cadevano e, “forse morivano”; si facevano delle cose nudi, i bambini venivano decapitati e gettati nel fiume Panaro dal prete stesso; i bambini affluivano da alcune famiglie povere del paese, in cambio di “utilità” (anche l’aria è utile); condotti, anzi portati, su un pulmino parrocchiale; un fotografo poi, delle messe, presto qualificate dai pubblici ministeri “riti satanici”, traeva anche un book da rivendere, per i più curiosi. Ah già, dimenticavo: perché, naturalmente, Satana vuole le orge. I bambini di Delfino e Lorena erano stati sequestrati per “omessa vigilanza”: avrebbero assistito alle orge sataniche. Non verranno mai ascoltati dal magistrato sul fatto nel quale, secondo Maria, la loro cuginetta di otto anni psicolabile, sarebbero stati coinvolti. Dopo quattro mesi, il caso arriva in Parlamento, da qui al ministro della Giustizia, che chiede al Tribunale di uscire, entro sette giorni, dalla condizione “provvisoria” in cui erano precipitati i Covezzi: che non erano nemmeno indagati. L’ultimo giorno dell’ultimatum, dopo un colloquio con la psicologa dei Servizi Sociali, la maggiore dei piccoli Covezzi afferma di esser stata violentata da Delfino, presente la madre, che osservava indifferente. Il giorno stesso, i Covezzi ricevono un avviso di garanzia. Per celebrare la puntualità del ricordo. Il Ministro Diliberto chiude soddisfatto la faccenda della provvisorietà. Ad un anno dal prelievo, i bambini più grandi cadono preda di allucinazioni: vedono papà e mamma dovunque. I genitori, a cui il particolare viene riferito, perchè loro non possono avere contatti con i loro bimbi, chiedono al Tribunale per i minorenni di sottoporli ad una visita. Il Tribunale nega. A questo punto, la bambina maggiore aggiunge anche di essere stata violentata dal nonno Morselli (padre della madre) e dagli zii, con una frasca di quaranta centimetri, in un boschetto adiacente la scuola, prima di prendere lo scuolabus. Nonno e zii, si accerta, abitano a 85 chilometri da lì, e non potevano essere presenti quando la bambina (che continuava a non essere curata) se li era immaginati. Già il GIP, durante l’indagine, aveva rilevato che le consulenze tecniche ginecologiche e psicologiche del Pubblico Ministero erano destituite di qualsiasi fondamento medico-biologico. Dei colloqui avuti con i Servizi Sociali, nessuna documentazione: né cartacea (verrà affermato che i verbali, no: gli “appunti”, erano andati “smarriti”) né video. Il fiume, dragato al costo di 280 milioni, non restituirà nessun corpicino, nè integro nè decapitato. La bambina, nel frattempo divenuta “abusata centinaia di volte”, risulterà vergine. Il boschetto del nonno e degli zii (arrestati), “inesistente”. Nonostante tutto questo, il Tribunale condannerà a 12 anni Delfino e Lorena (2002). La Corte di Appello assolverà loro e gli altri, censurando duramente sia le consulenze del Pubblico Ministero che i “colloqui” con gli psicologi dei Servizi Sociali (2010). Sono passati otto anni e una sentenza della Corte Europea per violazione dei diritti della difesa. Il Pubblico Ministero, imperterrito, impugnerà in Cassazione, che ordina (2011) un nuovo processo in Corte di Appello. Conferma dell’assoluzione (2103). Nuovo ricorso in Cassazione del Pubblico Ministero. Questa volta, oggi, dopo sedici anni, l’assoluzione è definitiva. Per tutti. Anzi no. La madre di Maria, la bambina di otto anni psicolabile, e cognata di Lorena, è morta in carcere a 36 anni. Don Govoni, è morto d’infarto, un anno dopo l’apertura dell’inchiesta. Delfino Covezzi, invece, se n’è andato l’anno scorso. Valeria, Enrico, Paolo e Agnese, i bambini prelevati quella mattina, per sette anni non hanno potuto vedere i genitori; convinti di essere stati abbandonati, non li hanno più voluti rincontrare.
Il caso. Pedofilia, assolti dopo 16 anni, scrive Lucia Bellaspiga venerdì 5 dicembre 2014 su Avvenire. Assoluzione definitiva in Cassazione, come avvenne per don Giorgio Govoni Lorena Covezzi: ci hanno portato via i nostri figli. «Lo stato si scusi». Il 12 novembre 1998, in piena notte e tra urla disperate, i loro quattro bambini erano stati portati via dalle forze dell’ordine. L’accusa per i due genitori, Lorena e Delfino Covezzi, era di far parte di una banda criminale di pedofili satanisti. Per sedici anni da quel giorno non hanno più potuto vedere i loro figli (la più piccola aveva 3 anni, la più grande 11) cui nel frattempo è stato raccontato di quei due genitori orchi, responsabili di violenze inaudite, orge nei cimiteri, profanazioni, abusi su decine di bambini, persino decapitazioni delle piccole vittime. Ieri la giustizia di questo Stato ha ammesso l’errore: assolti definitivamente per non aver commesso il fatto. Una sentenza che Lorena, 55 anni, ha potuto accogliere da sola, perché nel frattempo suo marito è morto, di infarto. Come don Giorgio Govoni, parroco amatissimo nella Bassa Modenese, presunto capo dei satanisti pedofili, assolto e riabilitato dopo il crepacuore che se l’è portato via nel maggio del 2000 nello studio del suo avvocato. E come altre sei persone di questa orrenda storia che da 17 anni sconvolge i tranquilli paesini della Bassa (un’altra delle mamme accusate si suicidò), e conta una ventina di bambini tolti all’epoca ai loro genitori. «Il mio secondo pensiero è andato a mio marito – racconta in lacrime Lorena dopo l’assoluzione –. Il primo è andato ai nostri quattro figli, che ormai hanno dai 20 ai 27 anni e che non vogliono più nemmeno sentire nominare la loro mamma». È lo stesso copione tragico nel quale ci imbattiamo ogni volta che incontriamo un caso di falso-abuso: negli anni disperati della separazione i bambini, allontanati a forza dai genitori, si convincono non solo della loro colpevolezza, ma soprattutto di essere stati abbandonati. E non perdonano. «Quando la maggiore ha compiuto i 18 anni, la zia paterna ha provato a parlarle, ma lei l’ha scacciata urlando che da 7 anni aspettava almeno una cartolina e che l’avevamo abbandonata», spiega Lorena. Ci parla per telefono dalla Francia in cui vive: «Quando i servizi sociali di Mirandola seppero che aspettavo il quinto figlio, avvertirono il Tribunale dei minori, così scappai a partorire all’estero, non certo per sottrarmi ai processi, tant’è che Delfino è rimasto in Emilia a difendersi, ma per salvare almeno Stefano», il quinto figlio, l’unico che le è rimasto. C’era infatti un precedente, un’altra delle coppie accusate aspettava un bimbo e appena nato le fu tolto... Innocenti, dunque. Ma Agnese, Enrico, Paolo e Valeria non lo sanno, non vogliono nemmeno saperlo, ormai cresciuti in famiglie affidatarie che si sono succedute al loro fianco, ma soprattutto sempre in contatto con quei servizi sociali e psicologi che combinarono il guaio: «Tutto iniziò nel 1997, quando la nostra nipotina, una bimba di 8 anni con forti disagi psichici e quindi già in carico ai servizi sociali, prese a raccontare di orchi e uccisioni. Non c’era altro che i suoi racconti, ma venne creduta e man mano la valanga si ingigantì». Il vero problema è il metodo utilizzato da psicologi e assistenti sociali, che interrogarono sempre più bambini con una tecnica americana oggi inconcepibile, allora ritenuta all’avanguardia: una suggestione progressiva del bimbo cui, a partire da sogni o da frammenti di colloqui, si suggerivano le risposte che da loro ci si aspettava. Oggi la Carta di Noto e il Protocollo di Venezia impediscono questo scempio e i periti vengono formati a raccogliere le testimonianze dei piccoli senza suggestionarli, filmando e registrando ogni colloquio. Nel caso della Bassa Modenese, invece, i video sono un’eccezione e dai pochi che restano si vede bene come si arrivò a don Giorgio Govoni: Piccolina, chi era quell’uomo? Un dottore? Risposta: sì. Ma poteva anche essere un sindaco? Sì. Anche un prete? Sì. Poteva chiamarsi Giorgio? Hai mai sentito questo nome? Ovvio che sì. La piccola raccontava di bimbi decapitati e poi buttati da don Giorgio nel fiume, così, anche se in paese nessun bambino mancava all’appello, fu dragato il Panaro, un’operazione da 280 milioni di lire...La psicosi si diffuse, decine di bambini aggiunsero racconti a racconti, sempre interrogati col metodo "americano", e 17 adulti finirono inquisiti, oltre a 7 preti poi risultati del tutto estranei. Sette persone morirono di crepacuore (la cognata di Lorena, madre della bimba psicolabile, perì in cella a 36 anni), ma soprattutto nessuno di quei venti piccoli allontanati vuole più rivedere i genitori... «Se io e Delfino non siamo impazziti è solo grazie alla fede e alla totale solidarietà del paese, che ha sempre sostenuto la nostra innocenza – conclude Lorena –. Ora però vorrei tanto riuscire a farmi ascoltare dai miei figli, spiegare loro che li ho sempre cercati. Ho saputo dove vivono solo un anno fa, alla morte di mio marito, per la successione, perché i pochi averi li ha lasciati a loro... ma hanno rifiutato anche questo. Mi affido allo Spirito Santo, che mi aiuti». «La Corte d’Appello nella sentenza di assoluzione critica fortemente l’operato della Asl di Mirandola e parla a chiare lettere dell’impreparazione degli psicologi – sottolinea l’avvocato Pier Francesco Rossi –. Ora saranno verificate le responsabilità per avviare un’azione civile: qualcuno deve pur pagare». «Ma nessuno restituirà la vita a questa famiglia, che era bellissima», nota don Ettore Rovatti, autore anche di un ampio volume su tutta questa storia, scritto nel 2003 e giudicato dal Tribunale ineccepibile nei contenuti. «Ammiro la loro forza, hanno sempre avuto fiducia nel bene, anche nei momenti peggiori. Io mi chiedo: qual è il potere che ha il diritto di strappare per 16 anni i figli ai loro genitori? Lo Stato ha abusato del suo potere, questi quattro ragazzi sono rovinati per sempre». «Uno Stato che assolve una famiglia dopo averla distrutta», conferma Carlo Giovanardi, che già nel 1998 come vicepresidente della Camera chiese al ministro della Giustizia Diliberto di intervenire...
La strage degli innocenti della Bassa Modenese. Cronaca di un processo diabolico, scrive Emanuele Boffi il 21 dicembre 2014 su Tempi. La vita di un parroco e di una comunità devastate da accuse false e incredibili. Condannati come pedofili e satanisti sono stati assolti. Sedici anni dopo. Questa è la storia di un processo diabolico, dove però il Diavolo non s’era acquattato dove tutti indicavano. È la storia che per circa diciassette anni ha coinvolto le comunità cattoliche della Bassa Modenese, trasformate da tribunali, servizi sociali e giornali in postriboli mefistofelici dove congreghe di insospettabili, all’interno di comunità cattoliche ignare o conniventi, compivano i più atroci delitti a danno di innocenti bambini: picchiati, abusati, tumulati vivi e persino uccisi. La vicenda si è conclusa il 4 dicembre scorso, con l’assoluzione di Delfino e Valeria Covezzi, ma non senza lasciare dietro di sé un’impressionante scia di morti, suicidi, rovine. La storia inizia a maggio 1997 quando, all’interno di una famiglia disagiata di Massa Finalese, si sospetta siano avvenuti degli episodi di abuso. Il padre e il figlio da poco maggiorenne sono arrestati e condotti in carcere con l’accusa di pedofilia. La famiglia è da tempo assistita dai servizi sociali della zona. Già sfrattati nel 1993, hanno dovuto sottostare alle indicazioni dell’Usl di Mirandola che ha consegnato i due figli minori, un maschietto, D., e una bambina, ad alcune famiglie affidatarie. I due piccoli, solo di tanto in tanto tornano nella casa dei genitori ed è durante uno di questi periodi che D. racconta, prima alla madre affidataria e poi alla psicologa del servizio sociale, Valeria Donati, che il fratello «fa dei dispetti sotto le lenzuola alla sorella». Dopo una serie di colloqui con la Donati – alla sua prima esperienza professionale dopo la laurea – i racconti del piccolo si fanno più tenebrosi chiamando in causa padre e fratello in vicende di abuso. Così, il 17 maggio 1997 i due sono condotti nel carcere di Sant’Anna in Modena per ordine del pm Andrea Claudiani. La famiglia è seguita anche da un sacerdote della zona, don Giorgio Govoni, parroco di Staggia e San Biagio, da tutti conosciuto come il “prete camionista”. Don Govoni camionista lo è per davvero. Persona di umili origini, ha svolto quella professione per non gravare economicamente sulla famiglia. In quegli anni don Giorgio si occupa, per conto della diocesi, di famiglie difficili come quella di Massa Finalese, di cui conosce il padre, che va a trovare in carcere, il figlio maggiore, cui trova un avvocato, la madre e la figlia, che ospita in parrocchia. L’unico che non conosce è il figlio minore, che non ha mai visto, ma che sarà, involontariamente, all’origine dei suoi guai. Perché “involontariamente?”. Perché con il piccolo D., così come per tutti i protagonisti di questa vicenda, sarà applicata la tecnica dello “svelamento progressivo”. In sostanza si ritiene che il minore vittima di abuso rivelerà pian piano la sua storia e che quindi sia necessario farlo parlare il più possibile. Ma nel caso della Bassa, tale tecnica giungerà a punte paradossali e deleterie, con bambini sottoposti a interrogatori ripetuti e massacranti atti a far loro dire non la verità, ma quel che gli adulti che li interrogano si attendono che essi rivelino. Accadrà così che le loro fantasie grandguignolesche saranno scambiate per reali e, in mancanza di riscontri fattuali, tanto peggio per la realtà. È il processo dello svelamento progressivo che conta, quand’anche esso sia grottesco e inverificabile. Secondo punto importante: i colloqui fra i bambini e le assistenti sociali di Mirandola saranno sempre riferiti da queste ultime. Non esistono appunti né registrazioni, ma solo le parole riportate dalle assistenti, tutte legate all’associazione Cismai, al pm.
Il cimitero dell’orrore. Col passare dei mesi, il piccolo – che è da tempo lontano dai genitori – inizia a coinvolgere nei suoi racconti sempre più persone. Narra in maniera confusa di abusi e violenze sadomaso, di fotografie e filmini pornografici, di pestaggi cui i minori sono obbligati dai pedofili. Secondo le prime ricostruzioni ad essere coinvolti dovrebbero essere sette uomini e un numero non precisato di bambini. In seguito a queste notizie il 15 luglio 1997 il pm Claudiani chiede il rinvio a giudizio per sette persone. Una delle donne coinvolte, disperata, si suicida lasciando solo un biglietto: «Sono innocente». Un altro muore di crepacuore. I giornali parlano di «losco giro», «giochi sessuali», «conferme degli abusi nei filmini». Di filmati, in realtà, nemmeno l’ombra. Tra il 14 gennaio 1998 e il 10 aprile 1998 si svolge il cosiddetto processo “Pedofili 1” in cui sono condannati sei imputati, tra cui i genitori del bambino. In tutto, vengono comminati 56 anni di carcere. Alla sentenza Claudiani dichiara: «È stato difficile convincersi che cose del genere potessero accadere». Mentre il primo processo si svolge, l’inchiesta si allarga sempre secondo le modalità descritte. I bambini rivelano alle assistenti sociali i loro confusi incubi, il pm indaga. I disagi di ogni bambino della Bassa che vive in situazioni di difficoltà sono interpretati secondo la chiave dell’abuso. E se c’è stato un abuso, deve esserci per forza anche un orco: si tratta solo di trovarlo. In quei mesi, assistenti sociali, genitori affidatari e pm non sembrano far altro che dare un nome e un volto ai diavoli descritti dai bambini. Ad esempio, D. racconta di un “medico” o un “sindaco” che officia i macabri riti della setta di genitori in alcuni cimiteri della zona. Col passare del tempo e degli interrogatori tali riti diventano Messe nere in cui i bambini sono picchiati e costretti a travestirsi da vampiri e tigri e bere il sangue per «trasformarsi in figli del Diavolo». D. (o le interpretazioni degli interroganti?) riferisce che il cimitero è quello di Massa Finalese e che il medico o sindaco si chiama Giorgio e «porta le scarpe coi tacchi». È solo in base a queste notizie e per pura associazione di idee che si arriva a determinare il 12 settembre 1997 che tale persona è un prete. Il 13 settembre la notizia è sui giornali: “Pedofilia, nella banda anche un sacerdote”. Don Govoni non è indagato in questo procedimento, ma ci mette poco a capire che i sospetti ricadono su di lui. Il 14 settembre, al termine della Messa domenicale, legge ai propri parrocchiani un messaggio: «È l’ora delle tenebre per me e per tutti voi. Mentre mi preparo con fede a ricevere i sassi e gli sputi di tanti, sono preoccupato per voi affinché non vi sentiate traditi e disorientati». Don Giorgio respinge tutte le illazioni, difendendo il suo operato: «Continuerò a fare ciò che ho sempre fatto, conscio che nel fare un po’ di bene per il Cristo, esistono rischi reali. State uniti e attenti a come Dio opera attraverso gli avvenimenti: prima le tenebre e poi la luce, prima la croce e poi la resurrezione. Pregate per me che non abbia a vacillare nella mia fede». Le comunità parrocchiali non dubiteranno mai di don Giorgio, anche quando tribunali, sentenze e giornali scriveranno che è un pedofilo satanista. Il suo vescovo e i suoi fedeli, che lo conoscono, non metteranno mai in dubbio che egli sia innocente. Al contrario, gli inquirenti rimarranno sempre certi della sua colpevolezza, anche quando, come accadrà più avanti, il bambino che lo accusa lo riconoscerà in ogni dove. Affidato a una famiglia nel Mantovano, D. affermerà che don Govoni è venuto a minacciarlo a scuola in compagnia del vescovo di Cremona. In un racconto che avrà tre versioni diverse, il piccolo affermerà che il sacerdote ha tentato di rapirlo durante l’ora di pausa pranzo scolastica. In combutta con la maestra Rita Spinardi («sua fidanzata»), don Giorgio lo avrebbe rapito, portato al cimitero (o al ristorante o in un bagno), picchiato, riportato a scuola. Senza che nessuno se ne accorgesse. Per questa accusa il tribunale di Modena condannerà Spinardi a due anni di carcere.
I racconti dei bambini. Don Giorgio Govoni non è imputato, ma è già colpevole, come diventa noto il 30 giugno 1998 quando vengono rese note le motivazioni della sentenza. Lì viene messo nero su bianco che quel «Giorgio sindaco» individuato dal bambino come suo violentatore nel Natale 1997 è «null’altro che un prete». Il fatto che don Govoni porti «gli occhiali e le scarpe con i tacchi» fa «ritenere con elevata probabilità la corrispondenza tra il Giorgio indicato da D. e don Giorgio Govoni, parroco di Staggia». Come se non bastasse, poiché si è detto che la madre suicida vent’anni prima si prostituiva «è ben possibile» che il prete camionista l’abbia potuta incontrare in un bar della zona intrattenendo con lei «frequentazioni (sia pur non abituali)». In quegli anni l’obiettivo della procura è uno solo: trovare le prove per incastrare il parroco. Come confiderà lui stesso agli amici: «Chi si mette contro la procura, diventa un pedofilo». Le prove? Un optional. La canonica di don Giorgio sarà perquisita, il suo computer esaminato. Non sarà trovato nulla di quel che si cercava: materiale pedopornografico. Il sacerdote dovrà confessare di essere diabetico e quindi impotente. E di non portare mai scarpe coi tacchi. Le uniche verità ammesse saranno quelle raccontate dai bambini sottratti alle famiglie: Messe nere, vangeli bruciati, ostie profanate. Piccoli «lanciati in aria e lasciati cadere per terra» da adulti sadici. Minorenni costretti a pugnalarsi al cuore dopo essere rimasti sepolti in finte bare. Orge in cui il sangue scorre a fiumi su tombe, uncini e ganci di ferro. E poi bambini prelevati in pieno giorno dai giardinetti pubblici, fatti a pezzi e gettati nel fiume Panaro. Padri che seviziano figli davanti a madri consenzienti. Tutto questo senza che nessuno – custodi di cimiteri, insegnanti, semplici cittadini – né di giorno né di notte si sia accorto di nulla. Il fiume, fatto dragare dal pm con grande dispendio di soldi pubblici, porterà alla luce solo un teschio appartenente a un soldato caduto in una guerra mondiale. Eppure quando il sacerdote, con altri sedici imputati, sarà rinviato a giudizio il primo aprile 1999 (è il cosiddetto processo “Pedofili bis”), riceverà grandi attestati di solidarietà. Il vescovo di Modena, monsignor Benito Cocchi, celebrerà con lui una Messa a Staggia. Consigli comunali e parroci della zone non esiteranno a scrivere appelli in sua difesa. Il processo procederà secondo un canovaccio assurdo e dando credito alle fantasie più grottesche. Si sosterrà che sia stata usata una ghigliottina nel cimitero per decapitare i bambini. Dov’è? Chi l’ha vista? Come l’hanno portata lì? Sono domande la cui risposta non interessa a nessuno. Intanto era stata coinvolta un’altra famiglia stimatissima della zona: i Morselli. A causa delle accuse di una bambina, sofferente già di gravi disturbi psicologici e sottratta ai genitori, saranno coinvolti nella vicenda anche i suoi zii Delfino Covezzi e Lorena Morselli. A loro, il 12 novembre 1998 erano stati portati via i quattro figli, tutti minorenni. Delfino e Lorena, inizialmente, saranno accusati solo di omessa vigilanza: non si erano accorti che, durante la notte, i figli venivano prelevati dagli zii e dal nonno per i soliti sabbah cimiteriali. La loro casa, perquisita alla ricerca di materiale pedopornografico, porterà gli inquirenti a scrivere a verbale che l’unica rivista trovata fra le mura domestiche era Famiglia cristiana. I bambini, sempre nelle mani dei soliti assistenti sociali, col passare dei mesi, inizieranno a raccontare le cose più incredibili. Una delle figlie di Covezzi racconterà di aver subito dagli zii Emidio e Giuseppe e dal nonno Enzo, aiutati da don Govoni, abusi con una frasca nel parchetto adiacente la scuola. Per questo racconto Emidio e Giuseppe saranno incarcerati per cinque mesi ed Enzo messo agli arresti domiciliari. Mentre il ginecologo del pm, Cristina Maggioni, assicurerà che la bambina è stata abusata centinaia di volte, perizie successive accerteranno la verità: è vergine.
Vittima innocente. Il 16 maggio 2000 nella sua requisitoria finale il pm Claudiani indicherà in don Govoni la figura di riferimento della rete dei pedofili. Per lui chiederà 14 anni di carcere. Due giorni dopo, nello studio del suo avvocato Pierfrancesco Rossi, don Govoni avrà un attacco di cuore fulminante. Nella sua ultima (e unica) intervista pubblicata il 20 maggio sul Resto del Carlino, ribadirà la sua innocenza, dicendo che «la vita è piena di prove. Ci vuole pazienza e fede. Guai se non avessi il buon Dio che mi sostiene». Il buon Dio lo sosterrà in maniera evidente nel giorno del suo funerale, il 22 maggio, quando saranno celebrati in suo onore quattro riti funebri: a San Biagio, Staggia, Dodici Morelli e nel Duomo di Modena, celebrante il vescovo Cocchi, altri tre vescovi, centinaia di sacerdoti, migliaia di fedeli. Ma tutto, a dispetto di nessun cadavere, foto, filmino, arma ritrovata, nessun abuso certificato, andrà come era scritto che andasse. Anzi, peggio. Il 5 giugno 2000 il tribunale comminerà pene più dure di quelle richieste dall’accusa per un totale di 157 anni di carcere. Don Govoni non sarà condannato solo perché defunto e sarà liquidato con la formula «non doversi procedere per morte del reo». Ma nelle motivazioni della sentenza egli sarà chiaramente indicato come il capo della setta e «fidanzato» della maestra Spinardi. Non solo. Nelle motivazioni depositate il 2 dicembre 2000 si potrà leggere che, sebbene «non risulti accertato se si sia trattato di violenze rituali effettive o simulate», tuttavia questo «è necessario ai fini della integrazione degli elementi costitutivi della fattispecie di reato contestato». Il giorno della condanna, le campane di tutte le chiese della Bassa suoneranno a lutto. Ancora una volta, i suoi parrocchiani non lo abbandoneranno. Nel primo anniversario della sua scomparsa, quando ancora su di lui pendeva l’onta dei suoi crimini, faranno porre nella chiesa di San Biagio una lapide con sopra scritto: «Vittima innocente delle calunnie e della faziosità umana, ha aiutato assiduamente i bisognosi. Non si può negare che egli, accusato di crimine non commesso, sia stato vinto dal dolore».
Il ritardo della giustizia. Negli anni successivi, nuove sentenze di tribunali sono andate a correggere questi allucinanti abbagli. La Corte di appello di Bologna nel marzo 1999 e la Cassazione nel settembre 2000 hanno confermato le condanne del “Pedofili 1” solo per abusi in ambito domestico, ma non per i fatti cimiteriali. Nel processo bis (quello di don Govoni) l’appello nel luglio 2001 ha riabilitato la figura del sacerdote, scagionandolo da qualsiasi malaffare (compreso il fidanzamento con la maestra Spinardi, che è stata assolta). Sentenza ribadita poi dalla Cassazione nel 2002, tra lo scampanare a festa delle parrocchie della Bassa. Nel 2005 e poi di nuovo nel 2012, a seguito di un ricorso dell’Ausl, i fratelli Giuseppe ed Emidio Morselli sono stati assolti dalle accuse per le violenze sulla nipote (fu dimostrato che si trovavano a oltre 80 chilometri dal luogo dell’abuso). Così anche il padre Enzo, che però, nel frattempo, è deceduto. La vicenda dei coniugi Covezzi è stata, se possibile, la più travagliata. Dopo aver perso i figli per l’intervento delle assistenti sociali, i due cercarono invano di farseli restituire. L’11 marzo 1999, a seguito di un’interpellanza parlamentare di Carlo Giovanardi sul loro caso, è accaduto un fatto che definire singolare è un eufemismo. Il giorno seguente sono stati raggiunti da un avviso di garanzia. Una loro figlia, all’improvviso, si era ricordata di aver subito abusi dal padre mentre la madre, presente, non interveniva. Condannati a dodici anni di carcere nel settembre 2002 hanno dovuto aspettare otto anni (giugno 2010) per l’assoluzione in appello. Poi, a causa di due successive impugnazioni in Cassazione, hanno dovuto attendere fino al 4 dicembre 2014 per l’assoluzione definitiva. Ad ascoltarla, però, c’era solo Lorena. Delfino era morto l’8 agosto 2013. Giovanardi, il giorno delle sentenza, è intervenuto in Senato «per abbracciare le vittime del massacro. La giustizia deve stabilire se una persona è colpevole o innocente, ma non può far stare un presunto colpevole tutta la vita sotto processo. Quando la giustizia arriva dopo 16 anni, arriva fuori tempo massimo».
Pedofili di Massa Finalese, la storia giudiziaria che ha rovinato tante persone, scrive il 23 Ottobre 2017 Sulpanaro.net. “Li consegnavano a familiari e conoscenti che si aggiravano per il paese al calare del buio, incappucciati e mascherati da diavoli, armati di punteruoli, coltelli e spranghe. Il tribunale di Modena ci era andato giù duro. Erano fioccate condanne e procedure di allontanamento urgenti per mettere i bambini al sicuro. “Ne hanno portati via in tutto sedici”. E’ la ricostruzione giornalistica su quanto accaduto tra Finale Emilia, San Felice e Mirandola, fatta da Pablo Trincia per Repubblica. L’inchiesta, che trovate qui sotto e sul sito di Repubblica.it in formato audio, ripercorre la storia giudiziaria di un fantomatica e “oscura setta satanica, che di notte portava i bambini nei cimiteri della zona e li sottoponeva a violenze di ogni genere, costringendoli poi a partecipare a sacrifici umani”. I racconti fatti da alcuni bambini avevano dato seguito a una inchiesta giudiziaria poi finita nel nulla, che però ha lasciato ferite indelebili in chi si è visto togliere per sempre i figli e ci ha perso la salute. Il teorema voleva che nella Bassa negli anni Novanta ci fosse un terribile giro di sfruttamento dei bambini, a suon di violenze sessuali e messe nere durante le quali sarebbero stati torturati e uccisi i figlioletti delle famiglie povere, sottratti da scuola con la complicità delle maestre e dei genitori, mentre un prete officiava, un fotografo faceva riprese per rivendere i filmini e i cadaveri venivano portati al fiume per essere buttati in acqua. Fatti i quali la giustizia, in anni e anni di processi, ha stabilito fossero il frutto della fantasia dei bambini.
Pedofilia, trappola infernale. Quando il 9 giugno scorso la Corte d’appello di Bologna ha assolto Lorena e Delfino Covezzi dall’accusa di pedofilia nei confronti dei loro figli (dai quali sono stati separati dodici anni fa), il parroco di Massa Finalese, don Ettore Rovatti è andato a celebrare messa come ogni mattina. E durante l’omelia ha pianto, scrive Cristina Giudici su “Il Foglio” il 5 Dicembre 2014. Quando il 9 giugno scorso la Corte d’appello di Bologna ha assolto Lorena e Delfino Covezzi dall’accusa di pedofilia nei confronti dei loro figli (dai quali sono stati separati dodici anni fa), il parroco di Massa Finalese, don Ettore Rovatti è andato a celebrare messa come ogni mattina. E durante l’omelia ha pianto. Ha pianto per quei quattro bambini sottratti ai loro genitori all’alba del 12 novembre del 1998, (all’inizio solo per omessa vigilanza). Ha pianto per quella coppia di coniugi di Massa Finalese, in provincia di Modena, trascinati nella polvere, dentro una storia troppo grande per loro, troppo grande per chiunque, e non potranno riavere indietro la vita che avrebbero voluto e potuto vivere. E davanti ai suoi parrocchiani ha pianto, soprattutto, per un’altra delle vittime innocenti di questo ennesimo caso di errore giudiziario legato a un caso presunto di pedofilia: don Giorgio Govoni, il sacerdote accusato di essere stato, alla fine degli anni 90, il regista di un macabro set pedo-pornografico messo in scena nelle campagne della bassa modenese. Don Giorgio è morto di crepacuore il 29 maggio 2000, il giorno dopo che i pubblici ministeri di Modena avevano chiesto di condannarlo a quattordici anni di carcere. Lo scorso 9 giugno, davanti alla sentenza di Bologna, il sottosegretario alle Politiche per la famiglia, Carlo Giovanardi, che ha seguito per dodici anni il travaglio esistenziale e giudiziario della coppia di Massa Finalese, ora riabilitata perché “il fatto non sussiste”, si è sentito come un Achille furioso dopo la morte di Patroclo. E’ furioso, mentre ripercorre le tappe di questi dodici anni, il suo è un concitato monologo, l’elenco di tutti gli episodi più grotteschi di un caso di falso abuso sessuale: fra tutti quelli raccontati fino a ora, forse il più aberrante. A colloquio con il Foglio, riassume la sua indignazione in un feroce j’accuse all’apparato giudiziario “che ritiene gli errori giudiziari fisiologici, senza far pagare a nessuno le responsabilità della propria cecità, vittima talvolta, quando si tratta di pedofilia, di una maniacale ricerca di una verità che danneggia l’individuazione dei pedofili veri”, precisa. Per chi non sa, o ha dimenticato, ecco il riassunto di questa vicenda giudiziaria. Nell’aprile del 1997 un bambino sottratto ai genitori, che don Giorgio Govoni aiutava economicamente perché vivevano di espedienti, racconta di aver subito un abuso. Seguono altre denunce, alla fine saranno due le famiglie coinvolte e sei le persone rinviate a giudizio. Due mesi dopo, una madre a cui hanno tolto il figlio si getta dalla finestra. Il primo bimbo, primo anello di una catena di accuse che si trasforma in una psicosi collettiva, parla di messe nere, orge sataniche nei cimiteri. Racconta di altri bambini sottratti a scuola di giorno con la complicità delle maestre, rapiti di notte nelle loro case con la complicità dei genitori. Bambini che vengono sodomizzati, decapitati, appesi a dei ganci, gettati nel fiume Panaro. Dove però non viene mai trovato nessun cadavere. Sempre nel 1998, una bambina coinvolge i suoi quattro cuginetti, figli della coppia Covezzi, che vengono prelevati dalla polizia all’alba. Il 19 maggio 2000, don Giorgio Govoni, il presunto “regista” della cricca pedofila muore d’infarto (verrà pienamente assolto l’anno dopo, post mortem) e le campane della chiesa di San Biagio suonano il suo lutto. Giovanardi rilegge la sua prima interpellanza parlamentare all’allora ministro della Giustizia, Oliviero Diliberto, dell’11 marzo del 1999. Giovanardi era vicepresidente della Camera e chiese al Guardasigilli di interessarsi al caso di una coppia alla quale la polizia, all’alba del 12 novembre 1998, aveva tolto i loro quattro figli per omessa vigilanza: sarebbero stati portati nei cimiteri per essere sodomizzati. “Il ministro mi promise di occuparsene e di darmi una risposta entro una settimana”, ricorda Giovanardi, “ma un giorno prima della scadenza, Valeria, una delle figlie dei Covezzi, già allontanata dai suoi genitori, dopo un colloquio con l’assistente sociale, torna a casa dalla famiglia affidataria. In lacrime. Affermando che suo padre l’aveva violentata. I genitori ricevettero un avviso di garanzia per abusi sessuali e non è stato più possibile intervenire”. Chi è la coppia che Giovanardi ha cercato di aiutare? “Lui operaio, lavorava nella ceramica, lei maestra d’asilo e insegnante di religione in parrocchia. Poi è rimasta incinta e si è rifugiata in Francia per impedire al Tribunale dei minori di toglierle anche il suo ultimo figlio. Per anni mi ha scritto lettere piene di angoscia, speranza, dolore e fede”, spiega ancora Giovanardi. E allora, quando la procura di Modena si lancia in una fuga in avanti e la macchina giudiziaria si trasforma in un carro armato, Giovanardi, avvia la sua puntigliosa contro-inchiesta. Ha visitato i luoghi nei quali si sarebbero svolte le violenze, ha rifatto i percorsi che sarebbero stati seguiti da pedofili e bambini, dalla scuola ai boschetti, dalla casa ai cimiteri. Ha cronometrato i tempi, incrociando le informazioni, e da novello detective ha capito immediatamente che “credere all’impianto dell’accusa della procura di Modena era come credere a un omicidio avvenuto sulla Luna. Ho cercato di aprire un dialogo con magistrati e assistenti sociali per capire cosa stava accadendo, dove si era inceppato il meccanismo giudiziario – dice – ma non ci sono mai riuscito”. Non conosciamo fino in fondo la metodologia utilizzata durante gli interrogatori-colloqui con i bambini, ma alcune conversazioni sono trapelate dalle relazioni dei periti. Durante l’interrogatorio a una bambina che riguardava don Giorgio Govoni le viene chiesto: “Piccola, chi era quell’uomo? Un dottore?”. Riposta: “Sì”. “Ma poteva essere anche un sindaco?”. Risposta: “Sì”. “O anche un prete?”. Risposta: “Sì”. “Poteva chiamarsi Giorgio?”. Ecco perché oggi gli ex parrocchiani di don Giorgio Govoni lo vorrebbero beatificare, per una ragione che c’entra poco forse con i miracoli, ma molto con la contemporaneità della malagiustizia. E infatti sulla sua lapide, a san Biagio, c’è questa epigrafe: “Vittima innocente della calunnia e della faziosità umana, ha aiutato i bisognosi, non si può negare che egli, accusato di un crimine non commesso, sia stato vinto dal dolore”. Incalza Giovanardi: “Ciò che più mi sconvolge e indigna è che i Covezzi non vedono i loro figli da dodici anni: hanno dovuto aspettare otto anni per una sentenza di assoluzione. Otto anni! Si rende conto? Ne parliamo dagli anni 90, e mentre rileggo la mia interpellanza del 1999 ancora non ci posso credere. Non abbiamo ancora fatto un solo passo in avanti per accorciare i tempi processuali. Non abbiamo fatto un solo passo in avanti per introdurre criteri di professionalità, trasparenza e competenza nei processi che riguardano temi delicati come gli abusi sessuali e che invece spesso vengono lasciati nelle mani di psicologi e assistenti sociali trasformati in detective. Angoscia, rabbia e speranza. Ecco la gamma dei miei sentimenti davanti a questa tardiva assoluzione. Si deve intervenire per evitare di rovinare le famiglie, per impedire ai tribunali dei minori di tenere i genitori lontani dai figli dopo l’assoluzione dei genitori. Io sono un acerrimo nemico dei pedofili, ma quelli veri”. Il copione è noto: perizie contrastanti, tronconi d’inchiesta che si dividono e si moltiplicano, sentenze di condanna che poi vengono ribaltate, smontate, quando arrivano in altre procure, o ai gradi successivi di giudizio. “E succederà così anche per il caso della scuola Olga Rovere di Rignano Flaminio di cui mi sono interessato”, conclude Giovanardi. “Anche lì ci sono stati vizi d’indagine e l’impianto dell’accusa è stato smontato dal Tribunale della libertà e dalla Corte di cassazione. E finirà, ne sono certo, nell’elenco dei falsi abusi. A Rignano davanti a dichiarazioni contrastanti con le ipotesi accusatorie, sono state esercitate pressioni sui bambini. A Modena erano assistenti sociali e psicologi a indirizzare i magistrati verso un film dell’orrore non supportato da prove. Nel frattempo delle persone sono morte e una famiglia si è disgregata per sempre. Non si può e non si deve confondere la lotta sacrosanta alla pedofilia con la caccia alle streghe”.
I pedofili e satanisti della Bassa Modenese non erano né pedofili né satanisti. Così hanno ammazzato una comunità cattolica, scrive Emanuele Boffi il 5 dicembre 2014 su "Tempi.it". Dopo un processo durato sedici anni sono risultati tutti assolti. Intanto, però, delle famiglie sono state distrutte, una madre si è suicidata, un sacerdote è morto di crepacuore. Non erano pedofili, non erano satanisti, non rapivano i bambini seviziandoli in orge truculente. Dopo sedici anni (sedici anni!) si conclude con un’assoluzione l’incredibile vicenda di un piccola comunità della Bassa Modenese, in cui sono state coinvolte (e distrutte) le vite di famiglie, minori, sacerdoti. Tutti assolti. Ma a che prezzo? Al tremendo prezzo di esistenze triturate in un caso giudiziario che Tempi seguì sin dal principio, mostrando come le inoppugnabili prove presentate dai magistrati non fossero poi così inoppugnabili e dove solo qualche politico coraggioso (il senatore Carlo Giovanardi su tutti) ebbe il coraggio di protestare. È una vicenda lunga, complessa e strabiliante. Ieri Lorena Morselli e Delfino Covezzi sono stati riconosciuti innocenti dall’accusa rivolta loro più di tre lustri fa. La sentenza dice che non hanno commesso il fatto. HORROR DI PROVINCIA. Tutto cominciò il 12 novembre 1998, alle cinque di mattina, quando le forze dell’ordine irruppero a Massa Finalese (Mo) in casa Covezzi portando via i quattro figli (la maggiore aveva solo 11 anni). L’accusa per Lorena e Delfino era infamante: pedofili satanisti. Tutto era partito dalle accuse rivolte loro da una piccola cugina di otto anni con disturbi mentali e da un altro bambino, entrambi in carico ai servizi sociali, che raccontarono di strani riti in cui era coinvolto il parroco don Giorgio Govoni. Racconti pazzeschi, in cui genitori complici del sacerdote mettevano a disposizione i corpi dei propri figli in cerimonie orgiastiche nei cimiteri in cui avvenivano persino delle decapitazioni. In un’escalation granguignolesca, i piccoli venivano prelevati a scuola da un bus parrocchiale e portati in luoghi oscuri, dove la setta dei genitori compiva i suoi più atroci delitti. «Durante queste messe nel cimitero, i grandi ci hanno fatto lanciare in aria dei bambini che poi ricadevano per terra e forse morivano», raccontò la bimba cui psicologi e magistrati diedero retta. Tutto tornava nella sceneggiatura del film horror di provincia: coppie all’apparenza irreprensibili e cattolicissime (Lorena era insegnante nell’asilo parrocchiale), in combutta col sacerdote, compivano riti malvagi su bambini offerti loro, dietro compenso, dalle famiglie indigenti della zona. Si parlò addirittura di un fotografo che filmava e fotografava le pratiche per poi rivendere il materiale e di una bambina seviziata alle 13 di pomeriggio in un bosco vicino alla scuola, con una frasca di quaranta centimetri, dal nonno e da due zii.
SUGGESTIONI. I servizi sociali dell’Ausl avevano condotto i colloqui con i minori da cui erano partite le denunce. Coordinati da Marcello Burgoni, un ex seminarista, i servizi sociali avevano deciso di dare credito alle fantasie di quei due bambini. Di quei colloqui, si è scoperto in questi anni, non sono mai stati conservati né appunti né registrazioni. Oggi su Avvenire, Lucia Bellaspiga, racconta che «psicologi e assistenti sociali interrogarono sempre più bambini con una tecnica americana oggi inconcepibile, allora ritenuta all’avanguardia: una suggestione progressiva del bimbo cui, a partire da sogni o da frammenti di colloqui, si suggerivano le risposte che da loro ci si aspettava. Oggi la Carta di Noto e il Protocollo di Venezia impediscono questo scempio e i periti vengono formati a raccogliere le testimonianze dei piccoli senza suggestionarli, filmando e registrando ogni colloquio. Nel caso della Bassa Modenese, invece, i video sono un’eccezione e dai pochi che restano si vede bene come si arrivò a don Giorgio Govoni: Piccolina, chi era quell’uomo? Un dottore? Risposta: sì. Ma poteva anche essere un sindaco? Sì. Anche un prete? Sì. Poteva chiamarsi Giorgio? Hai mai sentito questo nome? Ovvio che sì». La comunità del paese era incredula. Possibile che tutto ciò sia fosse avvenuto senza che nessuno si fosse mai accorto di nulla? Possibile che il medico della famiglia Covezzi non si fosse mai accorto della violenze sui bambini? Possibile che tutte le ricerche nel fiume – dove si diceva fossero stati gettati dal prete i corpi dei bambini – non avessero mai portato mai ad alcun ritrovamento? Intanto, però, le famiglie furono divise e tredici minori sottratti ai genitori della setta. Una congrega che secondo gli inquirenti coinvolgeva 17 persone e sette sacerdoti.
UN PROCESSO KAFKIANO. Qui inizia la storia di un processo che definire kafkiano è un eufemismo, con consulenti della procura che firmarono perizie in cui gli abusi erano solo presunti ma non verificati, periti di parte civile non ammessi. Intanto, però, il Tribunale dei minori continuò per mesi a firmare provvedimenti “provvisori”, impedendo i ricorsi ai Covezzi. È la storia di un processo in cui gli appunti dei colloqui coi bambini andavano incredibilmente “perduti” e bambine che si presumeva essere state abusate «cento volte» e che risultavano, invece, essere vergini. Con gli anni, tutte le accuse sono cadute man mano: la piccola violentata nel bosco vicino alla scuola? Il bosco non esiste, la minore uscì regolarmente da scuola coi compagni. E il nonno e gli zii pedofili? Quel giorno non erano lì: abitano a 85 chilometri di distanza.
MORTI DI CREPACUORE. Pian piano (molto piano) la verità è venuta a galla. E così si è scoperto che l’inferno non era quello prospettato da giudici e assistenti sociali, ma quello vissuto dalle famiglie coinvolte nella vicenda. Una delle madri si è suicidata. Sette persone sono morte di crepacuore; tra queste anche don Govoni, cadendo nelle braccia del suo avvocato un giorno prima della sentenza. Lorena è fuggita in Francia, lasciando in Italia il marito Delfino che ha proseguito nella battaglia giudiziaria di cui, tragica sorte, non ha potuto vedere la conclusione perché è morto d’infarto prima dell’assoluzione. Parlando con Avvenire, Lorena ha raccontato tra le lacrime le sofferenze di questi anni in cui i suoi quattro figli, affidati ad altre famiglie, hanno sempre rifiutato di incontrarla. «Se io e Delfino non siamo impazziti è solo grazie alla fede e alla totale solidarietà del paese, che ha sempre sostenuto la nostra innocenza. Ora però vorrei tanto riuscire a farmi ascoltare dai miei figli, spiegare loro che li ho sempre cercati. Mi affido allo Spirito Santo, che mi aiuti».
CHI PAGA? E’ GIUSTIZIA QUESTA? Ieri in aula al Senato, Giovanardi ha pronunciato un breve discorso per ricordare questa tragica vicenda, di cui – a parte Avvenire e Tempi – nessuno conserva più memoria. «Mi domando e domando a voi – ha chiesto il senatore rivolgendosi ai colleghi – che sistema giudiziario è quello che distrugge una famiglia, porta via ai genitori i quattro figli minorenni e solo dopo 16 anni comunica loro quello che fin dall’inizio si capiva e cioè che erano totalmente innocenti rispetto agli addebiti infamanti loro rivolti. E malgrado il fatto che fossero già stati assolti in appello, la sentenza è stata impugnata in Cassazione. Sono stati di nuovo assolti in appello e nuovamente la sentenza è stata impugnata in Cassazione. Parliamo di prescrizione e di tempi della giustizia, ma forse dovremmo parlare anche di consapevolezza, di servizi sociali, di assistenti sociali irresponsabili e di magistrati che, comunque vada a finire un processo, hanno già massacrati gli imputati, colpevoli o innocenti che risultino essere alla fine del procedimento. Ebbene: chi paga? Chi risarcisce questa famiglia dal fatto di essere stata distrutta? E perché l’opinione pubblica non è stata coinvolta? Perché lei era una maestra d’asilo, fra le altre cose cattolica e che lavorava in parrocchia, o perché lui era un povero fuochista che lavorava nel settore della ceramica? (…) Sono voluto intervenire per abbracciare le vittime di questa vicenda, la mamma che è rimasta, il papà che è morto ed i figli che hanno subito questo massacro, sperando che nel Parlamento e nella magistratura (a proposito della quale parliamo di responsabilità civile) vi sia la consapevolezza che quando si tratta della vita delle persone la giustizia deve dare una risposta in tempi utili; la giustizia deve stabilire se una persona è colpevole o innocente, ma non può far stare un presunto colpevole tutta la vita sotto processo, perché quando alla fine la giustizia arriva, dopo 16 anni, purtroppo arriva fuori tempo massimo».
Finale. Le motivazioni della sentenza che smonta di nuovo le accuse ai genitori. «Psicologhe inesperte, totale mancanza di riscontri e generiche prove mediche», scrive il 24 Novembre 2013 gazzettadimodena.gelocal.it. «Tutti minorenni, presi in carico dai servizi sociali, vennero seguiti dalle medesime due psicologhe le quali, dati per certi la buona fede e l’impegno, erano oggettivamente inesperte, mai avendo in precedenza trattato casi di abuso sessuale in danno di minori. Incredibilmente, pur a fronte di un numero sempre maggiore di minori indicati come abusati, o presunti tali, la direzione dei servizi, per quanto consta a questa Corte, non ritenne di affiancare alle due psicologhe personale dotato di maggiore esperienza». Sono alcuni dei passaggi della sentenza che la Corte di Appello di Bologna ha depositato il 23 ottobre, motivando in modo analitico (parliamo di oltre 160 pagine) l’assoluzione di Delfino Covezzi e Lorena Morselli, i coniugi di Massa trascinati per 15 anni nell’incubo della vicenda pedofili. Marito e moglie non potranno neppure godere di questa nuova assoluzione (la prima assoluzione della Corte di Appello era stata annullata dalla Corte di Cassazione). Delfino, si ricorderà, è deceduto in estate: il cuore non ha retto a tanti anni di sofferenze. Era in Francia, dove abitano la moglie Lorena e il quinto figlio, Stefano, l’unico che i coniugi hanno potuto trattenere, proprio per la fuga in Francia di Lorena. A sua volta, Lorena, con un figlio ormai adolescente, non tornerà in Italia, dicendosi pronta a sacrificarsi per lui. Eppoi, dovrà soffrire il nuovo ricorso alla Corte di Cassazione della Procura Generale. Anche se questa nuova sentenza risponde alle critiche della Cassazione alla prima assoluzione, è evidente che le conseguenze di quanto deciso dai giudici bolognesi sarebbero devastanti per un sistema di istituzioni modenesi, con vite devastate (e molti degli indagati sono pure tragicamente morti, si pensi a Don Giorgio...). Insomma, questa storia giudiziaria non finisce. Fosse per i giudici della Corte di Appello, invece, è ormai tutto chiaro: nel credere che i bambini interrogati dai servizi sociali facessero racconti simili e quindi verosimili, «non si è tenuto conto delle possibili contaminazioni per così dire ambientali che questo singolarissimo fiorire di vicende, tutte coinvolgenti minori di una ristrettissima area geografica, può avere avuto sui racconti dei minori medesimi». Come dire: è evidente che a Massa si parlava di quelle cose, anche perché avevano inizialmente coinvolto i cugini dei figli di Lorena e Delfino. I giudici parlano poi di assistenti sociali giovani e inesperte e della clamorosa assenza di registrazione dei colloqui “rivelatori”. Ma la sentenza è anche molto altro: i giudici analizzano tutti i casi di presunti contatti tra i genitori e i bimbi portati via, che l’accusa inquadrava ora come minacce, ora come inverosimili episodi di ulteriore abuso. E la conclusione è essersi trattato in molti casi di “frutto della fantasia dei bambini”, invenzioni. Emergono anzi alcuni particolari inquietanti, in senso inverso. Addirittura, sarebbero state fatte passare per volontà dei bambini (non volere più i regali della madre) «decisioni di psicologhe e assistenti sociali». Si parla anche di «approccio assolutamente censurabile, nei confronti dei bambini, perché del tutto impropriamente veicola nella loro mente dati e informazioni che ne possono contaminare ogni successivo racconto”. La sentenza poi «evidenzia una totale mancanza di riscontri», smontando come forzature del sistema quelli che - già apparsi deboli a tutti, per la verità - erano stati confezionati a Modena. Restano solo i riscontri medici sui presunti “segni di abuso”. Ma anche qui fioccano le critiche: i giudici definiscono “irragionevole” l’aver rinunciato a usuali analisi di validazione dei racconti dei bambini, E soprattutto, citando le perizie mediche successive e la famosa associazione Cismai, censurano i metodi e le convinzioni dei primi due consulenti del pm che avevano parlato di gravi abusi all’esito di una visita medica, definendole comunque “prove generiche” e non specifiche sulla responsabilità di Delfino e Lorena.
Dopo la sentenza del tribunale di Modena restano i dubbi ma anche le accuse dei bambini. Diavoli pedofili o innocenti? Viaggio nella Bassa spaccata. L'attacco alle assistenti sociali di Mirandola. "Ma i piccoli sono stati sentiti con tutte le attenzioni", scrive Gad Lerner il 9 giugno 2000 su "La Repubblica". Finito il temporale, di violento resta solo il profumo dei fiori nel cimitero di campagna poggiato sull'argine del fiume Panaro, al confine tra l'Emilia e la Romagna. I morti riposano in pace, ma è qui, fra queste tombe, che noi vivi siamo chiamati a confrontarci con l'enigma dell'ultima, la più terribile deposizione di M., verbalizzata dal pm Andrea Claudiani alle ore 10.30 del 10 aprile 1999: "Anch'io ho dovuto partecipare con le mie mani all'uccisione di una bambina. Questa bambina è stata uccisa al cimitero con un coltello piantato nella pancia e nel cuore. E' stato mio padre con Giulio a ordinarmi di farlo e a tenermi le mani mentre lo facevo. Mentre le infilavo il coltello la bambina ha gridato e le è uscito sangue. Io ero molto impaurita e mi sentivo male perché l'avevo uccisa proprio io. So chi è questa bambina uccisa: si tratta di Marilisa, abitava nello stesso palazzo di mia zia a Finale Emilia". Il padre di M. è stato condannato lunedì scorso a 16 anni di carcere dal tribunale di Modena, e a Giulio sono toccati 19 anni. Ma per entrambi l'accusa è di abuso sessuale e sequestro di persona, non di omicidio. Perché Marilisa non è morta, così come non si sono mai recuperati i molti piccoli cadaveri squartati e dissanguati nel corso di rituali satanici, che pure riempiono il racconto univoco dei dodici minori finiti protagonisti loro malgrado di una vera e propria tragedia: la tragedia della Bassa. Non un resto umano, non una foto, non un filmato di quelli che i bambini asseriscono girasse Alfredone, un balordo nel frattempo morto d'infarto. Se i pedofili celebravano rituali macabri sulla pelle dei loro figli, o se invece producevano orrendo materiale destinato al commercio illegale, bisogna dire che sono stati bravi a cancellare ogni traccia. Irrimediabili rimangono però le tracce nella psiche dei bambini, e quelle sui loro poveri corpi, se sono vere le perizie che il tribunale ha giudicato inequivocabili nonostante il parere discorde del gip e della difesa. Difficile pensare che non vi sia stata alcuna violenza sessuale. Ma le cerimonie sataniche, i morti? "Qui la gente si accorge se viene a mancare un gatto, si figuri un bambino", sorride amaro il parroco, don Paolo Soliani. Ma gli assistenti sociali di Mirandola non si sentono di escludere la credibilità neppure dei più estremi fra i racconti dei minori che hanno preso in cura. I bambini dicono la verità, e basta. Non bisogna avventurarsi nel campo minato dell'autosuggestione, o dell'elaborazione fantastica. Il mistero della Bassa modenese si nutre della compatta incredulità di paesi che mai avevano notato un movimento strano intorno ai cimiteri; difendono indignati l'onorabilità di almeno una delle famiglie coinvolte; e soprattutto insorgono a tutela del loro "martire" don Giorgio Govoni, morto di crepacuore per l'accusa infamante di aver coordinato il traffico pedofilo. La spaccatura appare irrimediabile, dopo la condanna a 157 anni di carcere dei quattordici imputati e l'indicazione come reo dello stesso defunto don Govoni. Ed è una spaccatura che va oltre il verdetto di cui la Curia prende atto "nella forma, per dovere civico", ma "totalmente la respinge nella sostanza", preoccupata per "il distacco tra la sentenza emessa in nome del Popolo italiano e la convinzione ben diversa di quella parte del popolo italiano che di don Govoni e delle altre famiglie condannate conosce la vita in ogni risvolto". C'è di più. Scricchiola perfino il rapporto di fiducia fra un arcivescovo ben più aperto del bolognese cardinale Biffi, monsignor Benito Cocchi, presidente nazionale della Caritas, e i proverbiali servizi sociali della regione Emilia Romagna. Amministratori locali, psicologi e assistenti sociali sono accusati dai parroci di avere instaurato una prassi sbrigativa nell'allontanamento dei minori dalle famiglie difficili. Di certo non hanno saputo dialogare con i paesani esterrefatti. Alfredo Sgarbi, il sindaco pidiessino di Finale Emilia, parla come uno che si trova preso fra due fuochi: "Le prime segnalazioni di malessere dei bambini sono venute da insegnanti molto serie, ma certo non posso escludere che in questa storia sia finita anche gente che non c'entra. Don Govoni è stato un benemerito, nei suoi rapporti con la pubblica amministrazione, questo è sicuro, anche se ci siamo divisi sulla teoria che i bambini vanno sempre e comunque lasciati alla loro mamma". Bisogna districarsi fra l'ipotesi dell'autosuggestione ("Qui tutti gli anni per la festa patronale ci si maschera da diavoli in lotta con San Gimignano, tra fuochi e nebbia artificiale") e il dubbio: "Coi filmini pedofili si guadagnano centinaia di milioni, e qualcuno in giro dovrà pur girarli, le pare?". Infine Sgarbi allarga le braccia: "Parliamoci chiaro, se il tribunale avesse assolto, qui andavamo a casa tutti, io, il dirigente della Asl, gli assistenti sociali, come coloro che avevano condannato definitivamente i bambini. Ma adesso è di loro, del loro destino, che, scandalosamente, nessuno si preoccupa". Già, ci si preoccupa innanzitutto della Bassa sfregiata e sconvolta. Una Finale che non ha mai esitato a mandare in campeggio centinaia di ragazzi con don Govoni. Un paese di quindicimila abitanti con 1400 miliardi raccolti ogni anno dalle banche, posto com'è al bivio fra distretti d'eccellenza, la ceramica, il biomedicale, la maglieria, la componentistica auto e la frutticoltura. Ma la pedofilia, dicono gli esperti, va ad annidarsi pure negli ambienti più insospettabili. Sarà forse per una maggiore sensibilità su questa piaga, ma è un fatto che nella provincia di Modena si registrano il 30 per cento degli affidi sul totale regionale: 45 in tutto, il doppio di dieci anni fa. Così i don Camillo che si trovano a predicare fra tanta improvvisa opulenza, individuano i nuovi Peppone sotto le sembianze di giovani psicologhe e assistenti sociali in jeans di una Asl considerata esemplare per efficienza e presenza territoriale. Nella sede di via Felice Cavallotti, a Mirandola, a stento si trattiene la rabbia: "Che società è mai la nostra? Prima innalziamo i bambini sul piedistallo, poi diciamo che non bisogna credergli". Ma a parte don Govoni, coinvolto nell'inchiesta da un minore che prima di lui aveva fatto addirittura il nome del vescovo di Crema, e poi citato in altre quattro diverse testimonianze, nessun altro sacerdote si è mai peritato di confrontarsi con i servizi. Gli allontanamenti dalle famiglie dei bambini di cui il tribunale ha confermato l'abuso, assumevano così l'aura di sequestri brutali. E' successo a Massa Finalese, dove quattro fratellini sono stati portati via all'alba dai genitori tutti casa e chiesa, lei maestra nell'asilo cattolico, lui barista all'oratorio. "Una violenza paragonabile a quella sessuale, cui peraltro nessuno crede", ripete ancora il parroco Paolo Soliani. Han subito preso le loro difese il vicepresidente della Camera, Carlo Giovanardi, e l'avvocato Augusto Cortelloni, senatore dell'Udeur. Nessuno dei servizi ha pensato di andar lì a ragionare con i paesani. Così, ogni martedì sera un gruppo di famiglie si riunisce a recitare il rosario per i perseguitati, e la parrocchia ha aiutato la madre a espatriare in Francia col quinto figlio nato nel frattempo. Ma dopo qualche mese di separazione i bambini hanno moltiplicato le accuse: non erano più solo gli zii e il nonno a portarli di notte al cimitero, e a costringerli a prostituirsi; anche il padre ne abusava, mentre la madre li teneva fermi. In paese nessuno ci crede, benchè le contestatissime perizie mediche evidenzino lacerazioni nei tessuti. Come distinguere, nell'intrigo della Bassa, l'incubo reale dall'incubo fantastico? "Le dichiarazioni dei bambini, tutti in età compresa fra i 7 e i 13 anni, negli episodi di violenze sessuali emergono sempre gradualmente. Sono stati ascoltati in luoghi diversi, da operatori diversi. E anche riguardo alla famiglia in questione, posso garantirle che hanno vissuto con sollievo il distacco dai genitori e hanno confermato le accuse", mi dice il dottor Marcello Burgoni, responsabile dei servizi. Lascia però allibiti l'ultimo racconto della primogenita dodicenne, datato 20 novembre 1999, col processo in pieno corso. Già da un anno affidata alla nuova famiglia, sostiene di essere stata raggiunta all'uscita di scuola dagli zii e dal nonno. L'avrebbero denudata, violentata quattro volte davanti e dietro con una frasca, picchiata e minacciata. Poi, lo scorso 22 marzo, decide di aggiungere: "In macchina con loro c'era anche don Giorgio. Si credeva di essere imbattibile. Mi diceva io sono forte, io sono il diavolo". Possibile che degli imputati dall'apparenza pacata, oltretutto sostenuti nel loro alibi dai colleghi di lavoro, decidessero di correre un rischio simile? Quasi certamente le motivazioni della sentenza riveleranno che non tutte le accuse dei bambini sono state prese alla lettera. Non occorrono rituali satanici e commercio di videocassette per provare un'eventuale violenza pedofila. Ma il racconto convergente di questi poveri bambini ha portato pian piano a disegnare una gigantesca scenografia grand guignol con la quale si fa davvero fatica a confrontarsi. Don Giorgio, proprio don Giorgio, il diavolo? "E' difficile far passare tra la gente il concetto che la personalità umana è complessa, il bene e il male possono convivere in noi", dice ancora il dottor Burgoni. Sì, è difficile. Per gli abitanti della Bassa è addirittura impossibile accettare l'idea di questo diavolo che hanno conosciuto troppo bene come un santo, sempre in giro su quelle vie strette fra i canali e il Panaro, mentre i campi di grano trascolorano dal verde al giallo.
Finale, vittime di errore giudiziario: «Risarcite». Finale. Assolti dall’accusa di minacce e violenza carnale di una nipote davanti a scuola: «Vite rovinate, paghino Ausl e psicologa», scrive Alberto Setti il 16 Gennaio 2017 su gazzettadimodena.gelocal.it. Fu uno dei più gravi errori degli investigatori (Procura, Polizia, Ausl...) che avevano costruito la vicenda dei “pedofili della Bassa”. Uno squarcio, che a ritroso ha consentito una rilettura più aderente alla realtà, restituendo un minimo della dignità strappata a decine di persone da istituzioni “credulone” su riti satanici, cimiteriali e altre amenità, mentre dei circa 20 bambini tolti alle famiglie della Bassa ne è tornato a casa solo uno, per la complessità delle dinamiche relazionali ed emotive che erano state costruite. A distanza di vent’anni, c’è chi chiede il conto alla testimone e presunta vittima, oggi maggiorenne, alla psicologa che avviò le decisioni e all’Ausl. Come? Con una citazione a giudizio davanti al Tribunale, per chiedere il risarcimento economico delle spese sostenute, e soprattutto del dolore e della perdita di una dignità che non hanno un vero prezzo. Lo spunto è la cosiddetta vicenda della “frasca”, una presunta violenza carnale commessa con il ramo di un albero da don Giorgio Govoni (compianto parroco di San Biagio, morto di crepacuore proprio per queste accuse), da Enzo Morselli (deceduto anche lui) e da due dei suoi figli, residenti a Massa. Una dei figli minori di Lorena Morselli e Delfino Covezzi (anche lui deceduto), collocata dall’Ausl presso una famiglia reggiana specializzata in questo tipo di affidamenti, aveva raccontato alla psicologa Ausl a Mirandola che a novembre 1999, all’uscita dalla scuola media di Quattro Castella, nel reggiano, era stata avvicinata dai 4, “sequestrata”, violentata e minacciata di non testimoniare contro di loro al processo che era in corso a Modena, sempre per altre vicende legate alle plurime e sovrapposte inchieste che hanno coinvolto decine di persone tra Finale, Massa, Mirandola. I giudici di Reggio furono chiamati a giudicare sui riscontri investigativi che avevano voluto condurre a Modena e Mirandola. All’esito del dibattimento, il Tribunale di Reggio ha assolto gli imputati “perché i fatti non sussistono” (sentenza 240 del 2005).
Contro questa sentenza ha proposto appello l’Ausl di Modena (il 27 settembre 2005). Ma con sentenza 11024 del 18 aprile 2012 la Corte di Bologna ha confermato la sentenza, condannando la parte civile appellante (l’Ausl) al pagamento delle spese processuali: «I riscontri esterni che avrebbero potuto corroborare le affermazioni della bambina con riferimento a quei fatti specifici non hanno trovato conferma, ma sono stati anzi disattesi, e assumono pertanto il valore di evidenze in contraddizione e negazione rispetto... alle dichiarazioni della minore», scrivevano i giudici di Bologna. Il 18 luglio 2012 la sentenza era definitiva. E oggi, con l’atto di citazione curato dall’avvocato Guido Bomparola si torna in Tribunale. A parti invertite.
Il silenzio del magistrato. Disse, all’indomani di uno dei passaggi essenziali del processo a Modena, che nel mondo ogni anno scompaiono migliaia di bimbi, e che quindi non dovesse essere presa con sospetto la notizia che a..., scrive il 7 Dicembre 2017 gazzettadimodena.gelocal.it. Disse, all’indomani di uno dei passaggi essenziali del processo a Modena, che nel mondo ogni anno scompaiono migliaia di bimbi, e che quindi non dovesse essere presa con sospetto la notizia che a Massa quelli coinvolti nell’inchiesta pedofili raccontassero di altri, vittime sacrificali. Pablo Trincia ha cercato di parlare a con Andrea Claudiani, all’epoca titolare delle indagini, in strettissima collaborazione con la psicologa Donati. Claudiani, che oggi è in Toscana, venne affiancato da Carlo Marzella, che aderì pienamente alle tesi investigative. Ma la risposta, riferisce il conduttore, è stata negativa: non parlo con i giornalisti.
IL PAESE DEGLI ADULTI PERDUTI CHE NON SANNO RICONOSCERE LA LORO RESPONSABILITÀ. Scrive Martina Davanzo il 30 maggio 2018 su "Rompereilsilenziolavocedeibambini.it". Al festival della TV e dei nuovi media non poteva mancare l’incontro tra due giornalisti appassionati di inchieste sociali: Gad Lerner e Pablo Trincia si sono, infatti, confrontati sul tema “inchiesta, verità o giustizia” sul palco di Dogliani. Lerner, in onda con La difesa della razza su Rai3, e prima autore di un’inchiesta su ricchezza e povertà, spiega come sia sempre più difficile raccontare la realtà: “Quando siamo andati a Rosarno nella piana di Gioia Tauro all’alba per incontrare gli immigrati che raccolgono gli agrumi e capire come vivono arrivava un giovane carabiniere che aveva fatto il turno di notte. Mi ha salutato e mi ha detto: ‘Vede quelli? Ora viene Salvini e li manda tutti via’. Prevale un sentimento di vendetta e poi mi chiedo: arriva l’uomo forte e poi gli agricoltori di Rosarno come fanno?”. Fare inchiesta sociale è importante, capire i punti di vista, perché il mondo in cui viviamo è sempre più complesso”. Ma ciò che accomuna i due autori è l’interesse per la storia che, vent’anni fa, ha coinvolto le famiglie di Massa Finalese e Mirandola; mentre allora Lerner scriveva articoli di cronaca su un caso ancora aperto, oggi Trincia cerca di regalare alle persone la “verità” andando a bussare alle porte di quelle famiglie e cercando i bambini, oggi ormai adulti, coinvolti in quegli avvenimenti. E così nasce Veleno- il paese dei bambini perduti, il podcast scaricato da oltre un milione e mezzo di persone dal sito di Repubblica.it. Un titolo accattivante, un argomento insolito ma in grado di catturare l’attenzione: “Si parla spesso di contenuti brevi, si continua a ripetere che la gente sia distratta ma se il racconto è bello ho sempre pensato che sia disposta a seguirti. Veleno racconta gli angoli bui della mente. È interessante cambiare angolatura, avere uno sguardo laterale, innovare il linguaggio ma cercare sempre la complessità. Veleno ci ha fatto scoprire la velocità dell’audio senza l’obbligo dell’immagine ma dietro c’è stato un lavoro lungo e approfondito, abbiamo cercato i documenti, rintracciato i bambini che furono protagonisti degli abusi. Bussare alle porte significava riaprire la ferita, ma era l’unico modo per cercare e raccontare la verità”. Queste, secondo Trincia, le caratteristiche che hanno reso Veleno così ricercato e convincente: insomma, una buona tecnica narrativa e qualche escamotage per attirare l’attenzione degli ascoltatori e il gioco è fatto. Tutto sommato sembra così semplice “prendere all’amo” milioni di persone. Eppure non si parla della parzialità dell’inchiesta, condotta solo dall’angolatura dei condannati; non si parla dei bambini che quei genitori non li hanno più voluti sentir nominare; non si parla delle condanne che sono state inflitte alle famiglie ma solo di assoluzioni. Un bel colpo, insomma, quello dell’autore che con voce suadente e un personaggio che si spaccia come portavoce della verità assoluta va a bussare alle porte di quelle famiglie a distanza di vent’anni per raccogliere e divulgare la LORO verità. Insomma, un incontro in cui si è parlato molto di “forma” e poco di “sostanza”; a quanto pare un bel tema, un veloce succedersi di interventi pieni di emotività e di particolari agghiaccianti è ciò che basta per convincere le persone che la storia di Mirandola e Massa Finalese sia stata, come la definisce l’autore, un’allucinazione collettiva. Ma allucinazione collettiva non è stata perché ha tenuto in questi 20 anni una ricostruzione giudiziaria che ha resistito pur con qualche modifica ai tre gradi di giudizio. Ha tenuto una sentenza che ha attestato la convergente credibilità di 16 testimoni in età minore, hanno tenuto le dichiarazioni di quei bambini che oggi hanno raggiunto la loro maggiore età senza avere nessun pentimento, senza mai ricercare le loro famiglie, nelle quali evidentemente si sono consumate violenze ed avvenimenti di tale gravità di averli tenuti per sempre lontani. Tutto sommato viviamo in un paese dove di abuso sessuale non si può parlare troppo, perché ancora oggi costituisce una realtà di cui la comunità fa fatica ad attribuirsi la paternità: e quindi cosa potevamo aspettarci di fronte ad una storia, raccontata in modo sicuramente convincente, che si prende il merito di “smacchiare” gli abitanti della bassa di tutti gli atroci delitti che furono loro attribuiti?
L’inchiesta choc di Pablo Trincia sulla vicenda pedofili. «Lì ammazzavano i bambini, gli tagliavano le teste. C’era mio padre e qualche volta mia madre...». Pablo Trincia, ex delle Iene, ha trovato e ascoltato le audiocassette sulla base delle quali..., scrive il 23 ottobre 2017 gazzettadimodena.gelocal.it. Pablo Trincia, ex delle Iene, ha trovato e ascoltato le audiocassette sulla base delle quali è stata costruita l’inchiesta sui pedofili della Bassa. Un lavoro che sarà pubblicato a partire da domani su Repubblica.it, editore che ha accettato di riscoprire una pagina sconcertante della storia giudiziaria della Bassa, pagina che ha segnato profondamente Finale, Massa e Mirandola: «In quella cassetta - ha scritto Trincia mostrandola - ci sono le parole di una bambina che arrivano dal passato. Quando le ho ascoltate la prima volta mi sono venuti i brividi...». «E' l'inchiesta più importante a cui abbia mai lavorato, assieme a un formidabile team: Alessia Rafanelli, Marco Boarino, Gipo Guardo e Debora Campanella. Ci lavoriamo da 3 anni. Vi aspettiamo lunedì. Dateci fiducia», dice Trincia, che ha rintracciato pressoché tutti i protagonisti di quella vicenda, di fatto rivelatosi una gigantesca esagerazione giudiziaria, intrecciando vecchie registrazioni e nuove interviste.
Caso Pedofili, Veleno riapre la ferita della Bassa modenese. L’inchiesta di Pablo Trincia smaschera di nuovo gli errori di psicologi e investigatori ma nessuno ha ancora pagato, scrive Alberto Setti il 7 Dicembre 2017 su gazzettadimodena.gelocal.it. Sedici bambini portati via alle loro famiglie, disonorate con le accuse più infamanti, quelle di averle vendute ad una banda di decine di adulti che abusavano di loro, coinvolgendoli in agghiaccianti riti a sfondo satanista con tanto di omicidi seriali nei cimiteri della Bassa, nel castello di Finale, alla ex Samis di Massa…. Accuse inconsistenti, ridicole, come troppo tardivamente, e non fino in fondo, la stessa giustizia ha dovuto ammettere, nel sovrapporsi dei processi. E poi persone decedute. Chi nella fredda cella di un carcere dove nel frattempo si era ammalato. Chi di dolore, come - e non solo - don Giorgio Govoni, morto di crepacuore nello studio del suo avvocato, poche ore dopo la richiesta di condanna a 14 anni di reclusione, per essere stato il capo e l’ideatore di quei riti. Mai avvenuti. Chi, ancora, suicida. Gettandosi dalla finestra per il dolore di quelle imputazioni e lo strappo istituzionale dall’unica figlia che rappresentava anche l’unica speranza di una vita altrimenti difficile. Morti e sopravvissuti non hanno mai potuto riavere o rivedere i loro figli. A distanza di 20 e passa anni, quei bambini sono degli adulti. Cresciuti in altre famiglie, condizionati dagli psicologi e dal distacco alla convinzione che quello che è accaduto sia stato vero, che comunque i genitori naturali non hanno saputo proteggerli. Che, vero o falso, indietro non si può tornare. Neanche a casa della mamma di Massa rimasta sola, la cui bambina, tirata in ballo dai racconti di un’altra bambina, non ha mai parlato di abusi, non ha mai accusato nessuno. Quella mamma di Massa non è neppure stata mai indagata. Ma sua figlia, altrettanto neppure, non l’ha mai più rivista. Il suo racconto è forse il più straziante tra quelli registrati nella serie “Veleno”, il podcast in sette puntate pubblicato sul sito web di Repubblica, curato dall’ex Iena Pablo Trincia e dai suoi collaboratori. Veleno è stato un amaro successo. E chi ha vissuto quella stagione da medioevo della ragione, oggi, ascoltando le parole di quella mamma, non può trattenere le lacrime. Veleno ha riaperto la ferita che tutti sapevano mai chiusa. Finché vivrà ancora uno dei protagonisti di questa storiaccia che ha diviso e sconvolto la Bassa modenese, sarà impossibile. Nelle coscienze di quei protagonisti, ma non solo. Perché ancora oggi a Massa c’è chi ha paura a fare le coccole ad un figlio, ad accarezzare una nipote. L’ “errore” di Trincia è stato credere che questa ferita fosse stata trascurata, nella sua gravità. Non fu così. Il caso divenne un caso mediatico locale e nazionale, fin da quando la Gazzetta di Modena, prima di tutti gli altri, raccontò dei primi due arresti, padre e madre di quello che in Veleno viene definito il “bambino zero”, il primo a fare i racconti. Il merito vero di Trincia, oltre ad una grande determinazione investigativa, è quello di avere studiato la storia con gli occhi di un osservatore neutrale, venuto da fuori. Ne è scaturita una rinnovata serie di scoperte, di documentazioni, di interviste. Soprattutto la rinnovata speranza che questo lavoro spacchi il muro di gomma delle istituzioni, che finora ha resistito. Quelle che hanno sempre fatto i distinguo, puntualizzato, smentito. Cercato soprattutto di salvare in ogni modo possibile dalle loro responsabilità psicologi, medici, poliziotti, persino magistrati forse inidonei ad affrontare una vicenda del genere. Inidoneità certificata da altrettanti esperti cui Trincia ha sottoposto gli atti, le videocassette ritrovate, come quelle che ha scoperto nella soffitta di Odina Paltrinieri, testimone di quei tempi e deceduta qualche anno fa, indomabile combattente per la verità. I costruttori di quel muro di gomma senza responsabilità oggi sfuggono alle interviste. Trincia li ha lungamente tampinati, ricevendo dinieghi o risposte sfuggenti, contraddittorie, inquietanti. Della serie “Non so se quei fatti siano veramente accaduti…”. Il corporativismo, ora che anche il quotidiano Repubblica dedica due pagine alla vicenda, farà il resto. E anche se, a Reggio Emilia, la famiglia Morselli di Massa è riuscita ad avviare un procedimento civile di risarcimento danni, appena agli esordi. Anche se oggi c’è chi immagina riscosse, ammissioni, scuse istituzionali. Resterà un sogno. D’altra parte lo schema tipo della storia di Massa si è già ripetuto, anche altrove. Perché il medioevo, le paure ataviche, le irrisolte fantasie più negative, sono e restano la parte oscura del patrimonio genetico degli adulti. Dei pedofili veri, certamente. E di chi vede i pedofili dove non ci sono, ma miserie umane frammiste all’amore per i figli, ovvero il dono più grande che può arrivare da una vita. Quasi nessuno di coloro che presero le decisioni più sbagliate, allora, aveva dei figli.
Inchiesta Veleno, pedofilia nella Bassa l’accusa di quattro figli: «I genitori orchi? È vero». In una lettera a un legale difendono psicologi e magistrati: «Confermiamo tutto» «Montato un assurdo circo mediatico e non ci interessa di quelli che sono morti», scrive il 27 gennaio 2018 gazzettadimodena.gelocal.it. «Non ci siamo mai sentiti “rapiti” dalle istituzioni, ma, al contrario, da queste tutelati e protetti. Non abbiamo mai chiesto in questi anni di rivedere i nostri parenti naturali, non abbiamo pianto quando abbiamo saputo che qualcuno di loro era morto». Parole contenute nella lettera che l’avvocato Luisa Vitali di Firenze, dove abita una dei quattro figli portati via 20 anni fa a Lorena Morselli, ha diffuso «in nome e per conto di quattro persone della cui identità mi sono personalmente accertata». I quattro (logico supporre i fratelli Morselli, che non hanno mai voluto rivedere i genitori, contro i quali si erano anche costituiti parte civile, fino all’ultima assoluzione) per l’avvocato sono tra le vittime di abusi sessuali nell’ambito della maxi inchiesta sui riti satanici con omicidi e violenze sessuali ai bambini esplosa negli anni Novanta nella Bassa. Come noto, la Iena Pablo Trincia con la collaborazione di Repubblica ha ripercorso la vicenda nella serie podcast “Veleno”. Una inchiesta che attingendo a filmati originari, documenti e testimonianze (non solo di parte), ha svelato paurosi limiti dell’impianto accusatorio. Soprattutto l’assurdità di genitori processati e giudicati innocenti i cui figli non sono più tornati. «Sui media e nei pubblici dibattiti - ribatte la lettera attribuita ai 4, rimasti anonimi, anche se si coglie una regia più tecnica - si dà spazio a persone che hanno scontato pesanti condanne per aver abusato dei propri figli, permettendo loro di fare appelli nei quali si insiste nel volerli rivedere per ricostruire un rapporto. Noi diamo conferma di ogni dichiarazione fatta allora». Insomma, tutto vero, con pesanti accuse anche alla stampa: «Non abbiamo mai avvertito finora la necessità di partecipare a questa specie di circo mediatico; abbiamo le nostre vite e le nostre famiglie, siamo sereni e liberi, e queste sono le cose importanti; rassicuriamo tutti che non ci siamo mai sentiti rapiti dalle istituzioni, ma tutelati e protetti, né abbiamo mai avuto “padroni”. Infatti, non abbiamo pianto né protestato in alcun modo quando fummo allontanati dalle nostre famiglie d'origine». Parole durissime, nette. «Finora non ha avuto senso per noi replicare a tutta quella gente che andava sbandierando la propria innocenza e le pretese incompetenze altrui; la giustizia seguiva il suo corso, come doveva, e tanto era per noi sufficiente. Avevamo già detto quello che c’era da dire all'epoca dei fatti e non c'era nulla da aggiungere, se non dare conferma, come intendiamo fare ora, di ogni nostra dichiarazione». Ancora: «I processi si devono fare solo nelle aule dei tribunali, non sui giornali o in qualche tv, dove una storia così difficile e dolorosa è stata spesso propinata senza alcuna conoscenza dei fatti e degli iter giudiziari tra una ricetta di cucina e un oroscopo. La giustizia ha poi in effetti seguito il suo corso, in tante ipotesi giungendo a pesanti condanne, in altre ad assoluzioni. In ogni caso, contrariamente a quello che è oggi la tendenza, noi rispettiamo tutte le decisioni dei giudici, comprese quelle per noi più difficili da accettare, che hanno portato ad assoluzioni. Pensiamo che ogni persona è innocente finché non ne viene provata la colpevolezza, ma pensiamo anche che se una persona è condannata con sentenza definitiva debba essere ritenuta colpevole, a meno che non intervenga una revisione, e, prima che ciò accada, si dovrebbe avere una qualche remora a farle sostenere pubblicamente e senza contraddittorio, rielaborazioni delle sentenze del tutto soggettive». Poi nuovi attacchi alla stampa e la conferma dei racconti: «Forse si è voluto respingere una verità (quella vera), che fa troppa paura. Non si fa che parlare delle assoluzioni, peraltro rese in alcuni casi per insufficienza della prova, ma non una parola sulle numerose e pesanti condanne per reati gravissimi. Non una parola sui bambini, che meriterebbero rispetto, in quanto vittime accertate di reati sessuali, e perlopiù intrafamiliari. Anzi, si è pensato bene di scaraventare in rete i video delle loro deposizioni (protette) rese agli inquirenti, in spregio assoluto, oltre che di norme giuridiche, di ogni principio etico, morale e deontologico. Infine, sui media e in pubblici dibattiti, si dà spazio a persone, che hanno scontato pesanti condanne per aver abusato dei propri figli. Non intendiamo rivedere né riparlare con nessuno dei nostri ex parenti, che stanno solo perdendo tempo insistendo - sentenziano - Che dire, se non stendere un velo pietoso su questo circo Barnum dell'ipocrisia e della superficialità. Oggi, non allora, si è instaurato un clima di caccia alle streghe, o di dagli all'untore».
Il paese dei bambini perduti ecco la verità vent'anni dopo. Modena: in 16 furono tolti ai genitori che furono accusati di abusi sessuali e satanismo. Tutto è iniziato con la telefonata di una madre in lacrime: "È stata solo una colossale bugia" L'idea nasce dal successo di "Serial", l'indagine giornalistica record di ascolti negli Usa.
Scrive Pablo Trincia il 22 ottobre 2017 su "La Repubblica". TUTTO comincia una sera di fine autunno del 2014, con la telefonata di una madre. È appena stata assolta dall'accusa di aver abusato dei suoi quattro figli, al termine di un processo infinito. Sta piangendo. Chiama dalla cucina di casa sua, in un paesino di poche anime nel sud della Francia, dove si è nascosta diciotto anni fa per poter partorire il suo quinto e ormai unico figlio. Gli altri non ci sono più. Non li vede dalle prime luci dell'alba del 12 novembre 1998, quando sette poliziotti avevano bussato alla porta della sua abitazione in provincia di Modena, per portarli via. «Avevano 11, 9, 7 e 3 anni», racconta. «Sto cercando qualcuno che mi aiuti a capire cosa sia successo». In quel periodo, la Procura aveva scoperto tra Massa Finalese e Mirandola un giro di famiglie appartenenti ad un'oscura setta satanica, che di notte portava i bambini nei cimiteri della zona e li sottoponeva a violenze di ogni genere, costringendoli poi a partecipare a sacrifici umani. L'incubo era durato fino a quando, a fatica, uno dei piccoli aveva cominciato a raccontarlo a una psicologa dei Servizi sociali. Dopo di lui lo aveva fatto un'altra bambina, e poi un'altra e altri ancora. Infine si erano fatti avanti anche i figli della donna. Uno per uno, avevano ricordato di come la mamma e il papà — una coppia conosciuta e rispettata, che faceva volontariato in parrocchia e organizzava pellegrinaggi e gite a santuari — avessero in realtà una doppia faccia: li consegnavano a familiari e conoscenti che si aggiravano per il paese al calare del buio, incappucciati e mascherati da diavoli, armati di punteruoli, coltelli e spranghe. Il tribunale di Modena ci era andato giù duro. Erano fioccate condanne e procedure di allontanamento urgenti per mettere i bambini al sicuro. «Ne hanno portati via in tutto sedici», dice la donna al telefono, elencando in ordine sparso i cognomi di altre famiglie imputate e dei loro figli, di cui nessuno sa più nulla. «Ma è stata tutta una colossale bugia. C'è un parroco a Finale Emilia che saprà dirti com'è andata. Cercalo». Una vicenda piena di misteri. Un processo che ha sconvolto un'intera comunità. È la storia che racconteremo in Veleno, la docu-serie da ascoltare in sette puntate che sarà online ogni lunedì su Repubblica.it a partire da domani, realizzata da un team di cinque professionisti. Si tratta di un nuovo format, nato sulla rete tre anni fa e in controtendenza rispetto alla cultura dominante del video, che all'estero ha già trasformato il modo di fare inchieste. L'abbiamo realizzata ispirandoci a Serial, la serie audio americana che ricostruisce l'omicidio di una studentessa di Baltimora, Hae Min Lee, indagando sul processo che ha condannato all'ergastolo il suo ex fidanzato, Adnan Syed. Pur essendo nato come podcast — e quindi un prodotto di nicchia — scaricabile ed ascoltabile da internet, Serial è diventato un incredibile caso editoriale negli Stati Uniti, superando i 50 milioni di download. Serial ci ha spinti a scegliere il microfono al posto della telecamera, perché era il modo migliore per raccontare questa storia e per poterla approfondire, data l'estrema delicatezza del tema e la sua complessità. Ci sono voluti tre anni per trovare e leggere le carte dei lunghi processi che hanno segnato il destino di più di venti persone, centinaia di chilometri percorsi tra i comuni nebbiosi della Bassa Modenese per rintracciare — uno ad uno — tutti i protagonisti della vicenda, settimane per ascoltare e catalogare registrazioni risalenti alla fine degli anni '90 e interminabili ore di appostamenti in macchina. Niente di quello che si sentirà è ricostruito. Le voci sono quelle di chi c'era, di chi ha vissuto questa storia sulla propria pelle, o ne è stato testimone. Non è stato semplice, soprattutto dal punto di vista psicologico. Tornare a casa dopo aver passato una giornata con madri e padri che piangono per bambini che non vedono da anni, alla lunga, rischia di lasciare strascichi di emozioni che poi devi elaborare e gestire. Presentarsi poi alla porta dei loro figli, cresciuti in altre famiglie e oggi diventati adulti che cercano di rifarsi una vita dimenticando i genitori e i drammi del passato, ti obbliga a chiederti mille volte se stai facendo la cosa giusta. Guardare un video dove si vedono immagini che nessuno dovrebbe vedere, e poi essere costretti ad autodenunciarsi alla polizia postale per evitare di finire indagati, ti fa passare qualche notte in bianco. In alcuni di noi l'intera esperienza ha fatto emergere paure e ansie profonde. Questa storia — che per molti aspetti supera i confini della realtà —, oltre alle sentenze che l'hanno scritta, ha un lato B. Cos'è accaduto davvero vent'anni fa nelle campagne e nei cimiteri tra Mirandola e Massa Finalese? E' andata come hanno raccontato questi bambini? Oppure c'è una seconda verità, che non è ancora stata svelata? Veleno è la storia di questa ricerca. La risposta l'abbiamo trovata in una gelida mattina di gennaio, su una strada sterrata, a pochi passi da un bosco.
Veleno, un’inchiesta corale. Intervista a Pablo Trincia, scrive Alessandra Tarquini il 10 aprile 2018 su Art. 21. Tre anni di ricerche, di studi, di incontri, di interviste sono stati necessari per realizzare l’audioserie “Veleno”, uno dei format giornalistici più innovativi e interessanti realizzati negli ultimi anni nel nostro paese. In questo progetto editoriale tutti gli elementi sono stati ben studiati per ottenere un racconto corale così avvincente da tenere incollati agli auricolari migliaia di ascoltatori su una storia vecchia di venti anni, ma ancora forte e ricca di colpi di scena. Si tratta della storia di 16 bambini della bassa modenese tolti ai loro genitori perché accusati di satanismo e pedofilia. Un caso di cui non si parlò abbastanza all’epoca, ma che oggi, proprio grazie a Veleno, è stato conosciuto dal grande pubblico. Merito di questa serie è anche quello di aver scandagliato le indagini compiute all’epoca, facendo sorgere più di un dubbio su come furono condotte e su come si comportarono le autorità che si occuparono della vicenda. Veleno è stato pubblicato ad ottobre scorso da Repubblica.it e realizzato da un team di cinque professionisti: Pablo Trincia (già nostro tutor nella sesta edizione), Alessia Rafanelli, Gipo Gurrado, Marco Boarino e Debora Campanella. Per capire meglio questo progetto abbiamo intervistato proprio Pablo Trincia.
Quando è nata l’idea di Veleno?
«Tre anni fa, nel dicembre 2014, dopo aver ascoltato Serial, la serie americana che ha aperto al genere del podcast seriale. Sono stato folgorato ascoltando le 11 puntate da un’ora della prima serie che ricostruivano un omicidio, anche criticando le indagini fatte. Così ho deciso che volevo portare questo genere in Italia. Ho iniziato a cercare una storia, partendo banalmente da una ricerca su google di storie collegate al satanismo, ai rituali ed è capitata questa storia dalla quale sono stato letteralmente risucchiato».
Che ruolo ha avuto La Repubblica in questo progetto?
«Abbiamo girato tante radio, tv, case editrici che ci hanno detto di no perché avevano paura della storia, oppure non l’avevano capita o la consideravano poco efficace salvo poi rifarsi vivi tempo dopo l’uscita. La Repubblica è stata subito molto ricettiva. E anche questa accoppiata è stata innovativa: abbiamo raccontato la storia in modo originale sulle pagine di un giornale e non con una radio».
Come si è costruito questo team di lavoro?
«Piano piano nel corso del tempo si è costruito un gruppo: dopo un anno è subentrata Alessia, poi sono arrivati Gibo, Marco e Debora. E alla fine eravamo in cinque anche perché c’è una grande mole di lavoro da svolgere, di revisioni e c’è bisogno di occhi e orecchie esterne che ascoltano, discutono, criticano, aiutano a costruire la storia al meglio possibile».
Sei abituato a lavorare in team?
«Tendenzialmente lavora sempre in squadra. Anche alle Iene mi confronto con chi mi sta intorno, che sia l’autore, l’operatore, il montatore. Il mio é sempre un lavoro corale, dove ovviamente sono io poi a prendere la decisione finale che, però, è frutto di una riflessione collettiva, di uno scambio di opinioni. E’ il mio modo di lavorare. Quando faccio le interviste, chiedo sempre all’operatore che è con me “tu che domanda faresti?” perché anche se non è il suo lavoro magari ha una domanda in canna che io non ho fatto o che ho sottovalutato e in genere ti dicono sempre delle cose a cui tu non hai pensato. Con Veleno quindi è venuto naturale creare un gruppo di supporto. Da solo non ce l’avrei mai fatta: è un’impresa titanica. Serve molta spinta, organizzazione, motivazione».
E la scelta del vocal coach?
«Mi è servito per migliorare la lettura che nel podcast è tutto. Per quanto lo sapessi fare, in Veleno, non essendoci il video, era una parte dominante che andava curata in modo particolare. La voce è tutto quindi devi essere perfetto nei tempi, nel ritmo, nel modo in cui pronunci le parole, nello scandire determinate parole. Però ovviamente eravamo d’accordo che non avremmo dovuto pulire troppo la mia voce. Non doveva essere una voce neutra. Non dovevo perdere in naturalezza. Doveva essere un racconto vivo, non doveva essere la voce di un attore. L’obiettivo era una voce pulita, mettendo la tensione giusta nei momenti giusti».
Come è stato affrontare la storia dei sedici bambini e delle loro famiglie?
«Ci sono stati dei passaggi molto forti. E’ stato difficile. Eravamo di fronte ad un continuo dilemma morale. Parlarne, cosa dire, cosa non dire, lasciare le voci fuori, tenerle. Era é un argomento radioattivo, basta sbagliare una parola e crolla tutto. Il rischio di commettere un errore è stato sempre dietro l’angolo. Anche per questo ogni puntata è il risultato di almeno 4 o 5 revisioni».
Come hai reagito alle parole del procuratore capo di Modena Lucia Musti che, in merito all’eco avuto da Veleno, ha dichiarato “Ci sono state sentenze passate in giudicato e non è opportuno dopo tanti anni andare di nuovo a rimestare una situazione che comunque genera dolore in primo luogo per coloro che hanno lavorato a questi gravissimi reati.” ?
«Da un lato non mi stupisco, dall’altro mi viene l’amarezza. Abbiamo portano del nuovo materiale utile all’inchiesta, le dichiarazioni di un ragazzo che è stato centrale in un processo che ha anche condannato delle persone – ricordiamo che 9 bambini sono figli di persone assolte e 7 sono figli di persone condannate. Quel bimbo, ora adulto, ci ha raccontato che subiva delle pressioni durante gli incontri e noi siamo riusciti a dimostrarlo grazie al video dell’epoca che abbiamo recuperato. Abbiamo quindi pensato che un’inchiesta sarebbe stata riaperta e invece ci siamo sentiti dire che non sarebbe stato opportuno rimestare. Come se il compito della magistratura fosse quello di occuparsi di problemi psico-morale, mentre è suo compito quello di indagare quando ci sono delle evidenze nuove. Il problema ovviamente è che lo ha dichiarato Lucia Musti, procuratore capo di Modena, dove tutti i processi del caso hanno avuto come esito la condanna».
Che evoluzioni avrà il vostro lavoro di inchiesta?
«Stiamo vedendo cosa succede, stiamo raccogliendo nuove interviste. Ovviamente se ne stanno occupando le tv, i giornali, le radio. Il problema è che nessuno va a chiedere conto a chi ha già risposto nel podcast. Come al capo degli assistenti sociali Marcello Burgoni che ha dichiarato delle cose che non sono avvenute (per esempio che i bambini venivano allontanati solo dopo che avevano parlato, mentre abbiamo dimostrato che avveniva il contrario) o alla dott.ssa Gloria Soavi del Coordinamento Italiano dei Servizi contro il Maltrattamento e l’Abuso all’Infanzia (CISMAI) che all’epoca aveva un ruolo centrale essendo le psicologhe incaricate del caso tutte affiliate a questa associazione, che si è lasciata sfuggire il commento sul fatto che furono compiuti errori gravi e ci ha chiesto di non utilizzare la registrazione dell’intervista, perché l’avremmo messa molto in difficoltà con delle persone che conosceva personalmente”. Il problema è che nessuno della stampa interpella loro, vanno tutti a cercare le vittime».
E si è fatta viva la tentazione di prendere la telecamera?
«E’ più di una tentazione. E’ un’intenzione».
C’è un futuro per questo tipo di progetti audio nel nostro Paese?
«Assolutamente sì. In America il podcast seriale è una tendenza con serie che fanno decine di decine di milioni di download. Sono numeri che non esistono da noi perché non abbiamo il mercato di lingua inglese ma in proporzione possiamo fare degli ottimi numeri. Noi stimiamo che Veleno abbia raggiunto con le sette puntate circa un milione di persone. I dati di iTunes sono vaghi anche se abbiamo la valutazione di 500 persone sulla pagina dedicata al progetto, ma i dati sullo streaming di Repubblica indicano un pubblico di circa 270mila persone. Poi ci sono da considerare gli altri mezzi, app, con cui si può ascoltare».
Che ruolo hanno avuto i social media?
«Veleno ha girato soprattutto attraverso i social. E’ stato al terzo posto dei trending topic lo scorso 3 dicembre quando è uscita la settima e ultima puntata. Negli ultimi mesi si è registrato un picco nuovo di persone che lo stanno ascoltando».
Hai dei consigli per chi volesse approcciare all’inchiesta radiofonica seriale?
«Il mio primo suggerimento è di imparare dalle serie americane perché hanno uno stile narrativo molto bello, serio, efficace. Così si trova ispirazione. Quindi ascoltate SERIAL. E poi invito a fare inchieste così perché è un genere di racconto più facile rispetto al video dove si ha il problema delle immagini».
Un messaggio particolare per gli under 31?
«Con sette puntate di una durata media di 37 minuti ciascuno VELENO ha dimostrato che se la narrazione è efficace, ben scritta, con un buon ritmo, le persone lo ascoltano. Abbiamo aperto una nuova frontiera che però ha bisogno di pionieri che vadano alla conquista. UNDER31, buttatevi ed espandete il mercato».
Il paese dei bambini perduti. La docu-serie investigativa “Veleno”, scrive Beatrice Bosotti il 14 aprile 2018 su Magazine.journalismfestival.com. Venti anni fa, in provincia di Modena, sedici bambini vennero allontanati per sempre dalle loro famiglie. I genitori erano stati accusati di abusi sui figli e di praticare riti satanici. Alcune coppie furono condannate, altre assolte, tutte sulla base delle medesime accuse. Ma cosa è successo davvero? Questo è lo spunto da cui sono partiti Pablo Trincia e Alessia Rafanelli per Veleno: l’altra verità nel paese dei bimbi perduti, un documentario audio a puntate pubblicato su Repubblica.it. Alessio Jacona, il giornalista che ha moderato l’incontro, ha subito chiesto come sia venuto loro in mente di realizzare un lavoro del genere. Pablo Trincia ha risposto dicendo che tutto è nato per caso, quando nel 2014 ha trovato accidentalmente il link di un tweet di un giocatore NBA che promuoveva una serie, Serial, “un audio serie investigativa con la strutturata come una serie televisiva”. La serie, 12 puntate da un’ora, ricostruisce la trama di un cold case (un omicidio avvenuto a Baltimora nel 1999). Quello che, dopo l’ascolto, colpì maggiormente Trincia fu “lo zoom infinito sui dettagli che l’audio consente” e la possibilità di ascoltare le varie puntate in qualunque momento e in qualunque luogo. L’idea è partita quindi dal format, subito Trincia ha deciso di voler realizzare qualcosa di simile, basandosi su una storia italiana. Da qui inizia la sua ricerca di un true crime, che lo porta a scovare la storia di Lorena Morselli, accusata e poi assolta, insieme al marito, per abusi satanici rituali e abusi domestici ai danni dei suoi 4 figli nell’anno 1998. La storia era potente e questo ha portato Trincia a contattare Alessia Rafanelli, redattrice del programma Le Iene, per proporle di collaborare al progetto. Dopo alcune ricerche, i due scoprono che la storia ha coinvolto non solo i 4 figli di Lorena, ma molti altri bambini, almeno 16. Trincia si reca allora a Massa Finalese, frazione della provincia di Modena, dove gli eventi hanno avuto luogo, e scopre che il parroco della cittadina, Don Ettore Rovatti, aveva raccolto tutti i documenti relativi ai processi del caso: una sorta di zibaldone, composto da 300 e più pagine. Una vera e propria guida al podcast. L’impressione infatti era che i documenti raccolti dal parroco dovessero essere come una guida per chi in futuro si sarebbe occupato della faccenda, tanto più per l’assoluta carenza di informazioni rispetto agli attori coinvolti in questo dimenticato caso di cronaca. Trincia e Rafanelli vengono così a scoprire che le varie denunce sarebbero partite in seguito ai racconti di un bambino, di cui i due giornalisti riescono a rintracciare la donna che per prima lo aveva ospitato dopo il suo allontanamento dalla famiglia. La donna era in possesso di numerose videocassette. Alla luce della ricchezza di quelle immagini, i due decidono di realizzarne un documentario video, abbandonando l’idea iniziale del podcast. Da qui nasce però un dilemma morale: vale la pena ritirare fuori questa storia? Gli autori erano consapevoli del fatto che la loro indagine avrebbe riaperto vecchie ferite e fatto del male a qualcuno. Erano in pochissimi poi coloro che erano disposti a parlare davanti ad una telecamera e molti avevano timore di farlo per non vedere associato il loro nome a questo presunto caso di pedofilia. Ma “quando ho sentito la frase “Oddio non è che rischiamo di essere gli amici dei pedofili?”, ho capito che Veleno andava fatto”, dice la Rafanelli, proprio perchè, dopo tutti gli anni trascorsi e nonostante le varie assoluzioni, era chiaro come le famiglie portassero ancora sulle loro spalle colpe che non avevano. Inoltre i due autori scoprono, ma questo solo dopo la messa in onda di Veleno, che a Massa Finalese, una comunità in cui si conoscono tutti, erano molti i ragazzi di 25/30 anni che non erano a conoscenze di quei fatti. Tanto era lo shock e la paura di essere coinvolti che molti dei genitori avevano deciso di tenere i bambini all’oscuro. Un processo d’ illusione collettiva trasformatosi in una vera e propria rimozione. Si sono resi però conto del fatto che realizzando un video di questo tipo sarebbero andati incontro a troppi ostacoli: alcuni temi sarebbero stati difficili da trattare in video, ma soprattutto sarebbe stato impossibile intervistare alcune delle persone coinvolte nei fatti. Dopo l’incontro e il sostegno di Mario Calabresi, direttore di Repubblica, tornano all’idea iniziale di realizzare un podcast. Iniziano così a elaborare su un nuovo metodo di lavoro per raccontare la loro storia. Era infatti necessario creare le immagini attraverso le parole, dando alla storia un certo ritmo, rendendola essenziale e arrivando dritto al cuore del racconto. Per conquistare il pubblico era necessario ricorrere ad alcuni stratagemmi: hanno potuto contare sul lavoro di diverse persone che non provengono dal mondo del giornalismo, ma si occupano di altri tipi di narrazione, potendo così contare su un contributo più artistico (come ad esempio l’ideatore delle colonne sonore o il sound designer). Il tutto ha contributo a realizzare un prodotto che è un buon esempio di artigianato del giornalismo, funzionale a uno storytelling efficace. Jacona è intervenuto dicendo che la peculiarità di questo racconto, proprio grazie al lavoro fatto sul metodo di narrazione, è quella di permettere all’ascoltatore di scivolare con garbo e lentamente all’interno degli eventi, fino ad arrivare al punto di svolta. Ciò che infatti lo ha più colpito è come, per le prime tre puntate, nessuno degli ascoltatori si aspetti che poi la situazione raccontata si ribalti nel suo esatto contrario. Oltre ad essere un lavoro molto interessante, che ha ricevuto un’ottima risposta da parte del pubblico, Veleno può essere visto anche come un apripista del genere. O almeno è ciò che si augura Trincia. All’inizio infatti avevano forti dubbi in merito a quanto le persone sarebbero riuscite a capire le potenzialità di questo tipo di podcast, che permette estrema libertà, anche in termini di immaginazione. Veleno ha mostrato come il pubblico chieda contenuti di questo tipo, ma la loro realizzazione deve anche passare attraverso la volontà di giovani giornalisti di sperimentare nuovi format. Se la radio prima era limitata dal fatto che non c’era possibilità di recuperarne i contenuti una volta andati in onda, ora, grazie al web e al podcast, tutto è reperibile e usufruibile ovunque ci si trovi.
TRASCRIZIONE EPISODIO 1.
I personaggi dell'Episodio 1: Dario, il "bambino 0" Il primo a parlare di abusi e riti satanici; I genitori di Dario Accusati dal figlio di abusi.
Il paese dei bambini perduti. Tra il 1997 e il 1998, in due paesi dell’Emilia Romagna, 16 bambini furono allontanati dalle loro famiglie e affidati ai servizi sociali della zona. L’accusa era delle più gravi: i genitori, i parenti e alcuni vicini avevano abusato sessualmente di loro per mesi, coinvolgendoli in una lunga serie di rituali satanici all’interno dei cimiteri. Gli adulti vennero condannati a decine di anni di carcere e non rividero mai più i loro figli. I bambini crebbero in nuove famiglie e non tornarono mai più a casa. Quando ho sentito parlare per la prima volta di questa vicenda, mi ha subito incuriosito, perché vivo di storie, è il mio lavoro, la mia passione. Ma questa in particolare mi ha ossessionato profondamente. Forse perché sono anche un padre e non riesco a spiegarmi come certe cose possano accadere. Perciò sono andato lì, in quei luoghi, venti anni dopo. Per capire. Perché le storie, anche quando sembrano chiuse, in realtà non lo sono mai. I protagonisti cambiano, si trasformano, vanno avanti, oppure continuano a rivivere il passato, proprio come il nastro di una cassetta da riavvolgere. Vi ricordate le vecchie cassette, no? Quelle che si infilavano nello sportellino dello stereo e che a volte dovevi riavvolgere con la biro...Quelle con il lato A e il lato B. Proprio come questa che ho in mano adesso. Se metto in play il lato A Live: “IT’S A MIRACLE.” Sul lato B invece c’è la voce di una delle bambine abusate, registrata dalla polizia davanti ad un cimitero.
Live: Uomo 1: Come si accende questo bottoncino?
Uomo 2: Deve premere REC e PLAY….
Uomo 1: REC e PLAY è acceso, quindi è già a posto così?
Donna: Ma il microfono è acceso?
Uomo 2: Sì sì l’ho acceso io, dietro c’è scritto ON
Uomo 1: Quindi questa strada mi dicevi che la conosci?
Bambina: Sì
Uomo 1: Scegli tu i posti dove vuoi… che vuoi andare a vedere
Bambina: Dritto
Uomo 1: I posti che ci vuoi raccontare diciamo, indicare
Donna: Possiamo andare al cimitero?
Bambina: Sì
Donna: Ci fai vedere dove si va? Quando non vuoi più, che hai paura, lo devi dire, altrimenti noi non possiamo capire
Uomo 2: C’è qualche posto particolare, che ti ricorda qualcosa?
Bambina: Quello lì
Uomo 2: Questo ponte? perché di lì che facevate?
Bambina: Lì ammazzavano dei bambini e… o ballavamo… facevamo tutti quei gesti brutti con i vestiti… poi…
Uomo 2: Ammazzavano i bambini come?
Bambina: Con quella saetta… non so… quella per tagliare le teste…
Uomo 1: Questo succedeva di giorno o di notte?
Bambina: Quando c’era buio. Poi quel pratino… Lì, se mi ricordo bene, hanno scavato dei bimbi, e hanno messo dei bambini lì.
Uomo 2: Ti ricordi chi ci stava quando succedevano queste cose?
Bambina: Mio padre, tutti i bambini, qualche volta mia madre, e...
Sono Pablo Trincia, e quella che state ascoltando è “Veleno”, una serie audio a puntate che ricostruisce un caso di cronaca nera sparito dalle pagine della stampa nazionale e locale.
E’ rimasto lì, a prendere polvere nel dimenticatoio delle storie inspiegabili, finché assieme ad Alessia Rafanelli non l’abbiamo trovata e ricostruita.
In questa serie non ci sono attori. Sentirete solo voci vere, di chi questa storia l’ha vissuta, di chi era lì in quel momento.
Sono tre anni che indaghiamo e ci sono capitate cose strane, alle quali stiamo ancora cercando di dare un senso.
L’abbiamo intitolata “Veleno” perché lì per lì non te ne accorgi…
Poi però, piano piano…
Provate a immaginarvi un paesino di appena 4mila abitanti circondato in tutte le direzioni da chilometri di pianura e campi coltivati.
Il paese non ha nulla di diverso rispetto a migliaia di altri suoi simili.
Case basse, poche strade.
C’è la piazzetta con il bar e i tavolini all’aperto. Ci sono i pensionati che giocano a carte a due passi dal monumento ai caduti. C’è la parrocchia, il campanile, la scuola… li vedete? La nebbia, per buona parte dell’anno è così fitta che basta quasi farci un passo dentro per sparire nel nulla.
Per strada si salutano tutti.
Il paese sa chi sei.
Sa chi era tuo nonno, com’era tuo padre da piccolo, dove ha conosciuto tua madre. Sa che tua sorella aspetta il secondo figlio, ma dal nuovo compagno. Sa dov’eri due sere fa, con chi eri, cosa hai bevuto, con chi hai parlato, se eri triste o allegro.
Il paese ti guarda, ti guarda sempre.
Conosce i tuoi piccoli peccati, i tuoi segreti.
E’ come un occhio che si muove di continuo, un orecchio costantemente all’ascolto, a cui non sfugge nulla.
Ma anche il paese ha un suo segreto.
Di sera (dirà poi l'accusa) accadono cose strane. Cose che nessuno vede e nessuno sente. Quando le strade si svuotano, un uomo incappucciato esce di casa assieme a una donna.
Con loro ci sono dei bambini.
Pochi portoni più in là, altri due uomini incappucciati si infilano in una stradina assieme ad una figura più piccola.
E poi ancora altri, e altri ancora, adulti e bambini, finché una processione silenziosa di cinquanta ombre sfila attraverso il piazzale buio, oltre la Banca Popolare e l’Ufficio Postale, quello prima del curvone, quello in cui tutti sono andati a sbattere almeno una volta.
Puntano dritto verso il cimitero.
Ad aspettarli davanti al cancello d’ingresso, sotto a un salice piangente, c’è un uomo accanto a un furgone bianco.
Indossa una tunica, anch’essa bianca.
L’uomo tira fuori un mazzo di chiavi e apre.
I primi a entrare sono i bambini. Sono spaventati, si guardano intorno per cercare la mamma. Alcuni indossano ancora il pigiama. Gli adulti li spingono dentro. Qualcuno ha in mano una pala. L’uomo con la tunica bianca indica un gruppo di bare vicino al colonnato della cappella, a pochi passi da un prato e ordina “scavate”.
Questa storia comincia vent’anni fa, il 23 febbraio del 1997. E’ una domenica quasi primaverile, ci sono 16 gradi.
In tutto il mondo i media danno ampio risalto all’annuncio della prima clonazione di un mammifero, la pecora Dolly.
La sera prima il Festival di Sanremo ha decretato campioni il gruppo dei Jalisse, e il mondo del calcio attende con apprensione il risultato della capolista – la Juventus di Marcello Lippi – contro la Fiorentina.
E’ sera e al piano terra di una palazzina gialla, in mezzo alla campagna modenese, c’è un bambino che gioca in cucina.
Ha sette anni, i capelli biondi e gli occhialetti rotondi. Lo chiameremo Dario.
Con lui ci sono i genitori e i due fratelli più grandi.
Arriva una macchina e si ferma sul vialetto davanti a casa. Scendono un uomo e una donna… sono i nuovi genitori di Dario e sono venuti a prenderlo.
Dario infatti non abita con la sua famiglia naturale, è solo andato a trovarli per il fine settimana. Da qualche tempo è stato dato in affidamento alla coppia, perché suo padre e sua madre vivono in condizioni disagiate.
Qualcuno in paese dice che, oltre a essere molto poveri, sono anche strani. Che dicono e fanno cose strane. Dario saluta il papà e la mamma e gli dà appuntamento al prossimo weekend. Quello che loro ancora non sanno è che proprio quel 23 febbraio sarà l’ultimo giorno in cui lo rivedranno, perché già da tempo, a loro insaputa, i servizi sociali e il tribunale dei minori hanno azionato i meccanismi del procedimento per sospendere del tutto i rientri del bambino.
Dario infatti ha cominciato a raccontare alla maestra – e poi anche alla mamma affidataria e a una psicologa dei servizi sociali che lo segue – di alcuni gravi episodi che si verificano durante le visite nella casa gialla, dove abita la sua famiglia naturale. I genitori e suo fratello maggiore abusano di lui. Ma non solo.
Lo portano in alcuni appartamenti del paese, dove lo vendono ad altre persone in cambio di denaro e poi gli fanno delle fotografie con una di quelle macchine che fa le foto subito, come le chiama lui. Lo costringono anche a pratiche sadomaso.
La psicologa che lo segue è allibita.
“Ma non succede solo a me”, spiega Dario. “Nel giro ci sono anche altri bambini”. “Cosa? Chi? Dove? Quando?”.
La Polizia comincia a indagare e ad effettuare perquisizioni a raffica.
Nella casa gialla dei genitori naturali di Dario vengono trovati dei giornaletti pornografici. Da una vicina invece gli inquirenti sequestrano una macchina Polaroid.
Ma Dario non si ferma.
E’ preciso e puntuale, e riesce addirittura a fare dei nomi e a descrivere dei tratti somatici. I lineamenti, i colori degli occhi, dei capelli. Alcuni bambini, dice, parlano una lingua strana. Poi coinvolge un’altra bambina di un paese della zona. Anche lei viene ascoltata attentamente. I suoi racconti sono molto simili. Sua madre la vende a delle persone cattive, amici di famiglia, che hanno altri due bambini, anche loro vittime di abusi.
Passano alcune settimane, ed ecco venir fuori altre storie. Genitori, nonni e zii che abusano di figli e nipoti, e poi iniettano loro sostanze strane con delle siringhe.
Altri sei bambini cominciano a parlare.
La notizia arriva ai giornali locali. Il caso esplode.
Il paese si riscopre sotto shock, infettato da un nuovo virus, la pedofilia, tanto violento da non avere nemmeno i mezzi per elaborarlo nel proprio sistema.
Live voci di paese
Donna: Qui si vive una vita molto tranquilla. Era qualcosa al di fuori delle nostre giornate normali
Uomo: Noi del posto, piccoli paesi, ci si conosce tutti. Conoscendo la famiglia, nessuno pensava che potessero… succedere queste cose
Pablo: Che famiglie erano?
Uomo: Mah io li conoscevo, e per erano persone… normalissime insomma. Non ci pensavo neanche che succedesse poi tutto quello che è successo
Donna: Erano famiglie che erano un po’ particolari, che vivevano una vita un po’ particolare, per cui era possibile...
Le bocche dei bambini sono torrenti in piena.
Ognuno di loro fa il nome di qualcun altro, e di altri adulti coinvolti in un quello che piano piano sembra prendere la forma di un network clandestino di pedopornografia che ha diramazioni ancora sconosciute, nonostante cresca giorno dopo giorno, settimana dopo settimana.
Alcune di queste persone vengono da quella zone grigie fatte di povertà, di dinamiche familiari strane o ambigue, e di arretratezza culturale.
Live voci di paese
Donna: C’era una famiglia qui in mezzo… che erano capaci di tutto secondo me. Ma soprattutto avevano molta fantasia
Donna 2: Beh certo non avevano una vita tranquilla, sicuramente. Si parlava di loro come gente che già trafficava, che sì… per cui per due soldini disposti a tutto
Ma nel giro ci sono anche persone conosciute, apprezzate e assolutamente insospettabili.
Live voci di paese
Donna: Poi si parlava di un prete, che noi conoscevamo bene. L’avevo avuto come insegnante di religione quando ero a scuola io. Era un prete simpaticissimo, un lavoratore, per cui noi non ci credevamo, almeno io non ci ho creduto all’inizio. Però lei lo sa bene che c’è sempre il dubbio…
Persino il prete (secondo l'accusa) ha una doppia vita.
Persona stimatissima di giorno, che recita la messa, celebra matrimoni, si rimbocca le maniche e aiuta tutti girando di frazione in frazione, sempre a salutare dal suo furgoncino bianco.
Ma di notte si trasforma e diventa il capo di una banda di pedofili. I bambini hanno terrore di lui.
Se lo ricordano con la tunica e gli stivaletti col tacco mentre impartisce ordini in mezzo alle tombe in un cimitero.
Aspetta. Un cimitero, ha detto?
“Oh sì”, dice Dario. “I nostri genitori ci portavano lì di notte ad assistere a dei finti funerali”.
“Cosa?”
Poco a poco, i ricordi dei piccoli alzano il velo su quello che i loro psicologi speravano di non dover scoprire.
Il cuore nero della setta.
Il culto di Satana, praticato con lunghe sessioni notturne tra tombe e loculi di ben 3 cimiteri della zona.
Alcuni bambini ricordano minacce con coltelli e punteruoli.
Altri parlano di sacrifici di animali, in particolare di gatti, eseguiti dai loro stessi genitori.
Spuntano descrizioni e cartine dettagliate: i bambini conoscono i cimiteri a memoria, come il loro parco giochi.
Tutti raccontano la stessa storia.
Ecco quindi che sul paese si allunga l’ombra del sospetto più terribile: quello che dentro ai cimiteri avvengano sacrifici umani.
I pedofili si trasformano in assassini. Ed è sempre lo stesso prete a guidarli, come una sorta di pifferaio magico che di notte risveglia la bestia latente nei genitori, in nome del diavolo e del denaro perché - raccontano sempre i bambini - tutto viene fotografato e filmato. E quelle immagini andranno poi molto lontano.
Ma dove? Forse in Belgio, dove proprio in quel periodo veniva arrestato l’assassino dei bambini Marc Dutroux, che aveva scioccato l’Europa ammettendo di far parte di un colossale network di pedofili?
E soprattutto, chi è questo prete?
Dentro casa sua viene ritrovato un computer, l’unico della parrocchia con la connessione ad internet.
Un perito scopre che tra le ultime ricerche effettuate dal sacerdote ce ne sono tre un po’ strane: prima solo “bimba”, poi “hard”, infine “amici dei bambini”. Gli investigatori trovano anche degli stivali, gli stessi descritti da Dario nei suoi racconti. E infine, in un cassetto, un libro che parla di satanismo.
Il cerchio si stringe sempre di più. Il paese è sconvolto.
“Ma come? Il fruttivendolo? Il meccanico? Il ceramista? La maestra d’asilo? Che sta succedendo?”
Live voci di paese Donna: Se eri di Massa Finalese eri una brutta persona. Nessuno si sedeva a fianco a te. Questo era il clima che c’era. E’ il paese dei pedofili, punto.
E così a Massa Finalese, polizia e carabinieri cominciano a bussare alle porte delle case e a scardinare l’organizzazione, pezzo dopo pezzo.
Il tribunale dei minori emette ordini di allontanamento per portare in salvo i bambini, che trovano alloggio presso famiglie affidatarie o in un centro gestito da suore.
Quello degli adulti invece trascina i genitori, i parenti e i complici davanti al banco degli imputati.
Nessuno di loro rivedrà mai più i propri figli.
E’ la fine di un incubo.
Oppure l’inizio di uno nuovo?
Com’è possibile che così tanti bambini abbiano raccontato tutti la stessa storia, ma il Paese non abbia né visto né sentito nulla?
Eppure erano a pochi passi dalle case. Perché nessuno li ha salvati?
Erano tutti complici?
E se non fosse mai accaduto nulla?
E se i genitori non fossero diavoli, ma degli innocenti che stanno ancora aspettando i loro figli?
Ricordate? Lato A e Lato B….
Live Pablo: Tu sei un pedofilo?
Scotta: Assolutamente no, non lo sono, mai stato
Pablo: Sei mai stato nei cimiteri a compiere riti satanici sui bambini?
Scotta: Assolutamente no Donna: Mio marito, tre giorni prima di morire, davanti al crocefisso mi ha detto che non ha mai fatto del male ai suoi figli…
Giacco: Io voglio a mia figlia… la voglio vedere, anche un giorno, per mezz’ora… perché noi non abbiamo fatto niente di male
TRASCRIZIONE EPISODIO 2
I personaggi dell'Episodio 2: Famiglia Galliera Romano (padre), Adriana (madre), Igor, Barbara e Dario (figli);
Oddina Patrinieri La vicina che accoglie Dario; Silvio Panzetta, Marito di Oddina; Giulia Panzetta, Figlia di Silvio e Oddina; Famiglia Tonini, Gli affidatari di Dario; Valeria Donati, Psicologa dei servizi sociali di Mirandola; Don Giorgio Govoni, Prete che aiuta la famiglia Galliera dopo lo sfratto; Antonella Diegoli, Parrocchiana che ci porta a vedere l'archivio di Don Ettore; Rosa e Alfredo, La coppia di amici di Romano Galliera indicata da Dario.
La casa di via Abba Motto 19
Intro. Pablo cammina nella casa di via Abba Motto. Live: Sto percorrendo una strada di campagna. Sono a Massa Finalese, in provincia di Modena. Mi sto dirigendo verso una palazzina gialla abbandonata a tre piani. Ora sto facendo il giro intorno alla casa. Qui è veramente tutto distrutto, ci sono pezzi di vetro… pezzi di piastrelle…Questa è la cucina. Sembra che ci sia stato un incendio, perché le pareti sono annerite. Qua ci sono delle scale, guarda... Non c’è praticamente rimasto più niente. Ci sono solo insetti morti, pezzi di lampadario… E’ un luogo veramente spettrale. Adesso sono in una stanza al primo piano. C’è un rosario per terra. In un angolo c’è un pupazzetto. È una specie di gorilla con la maglietta a righe nerazzurre. In questa casa effettivamente ci abitava un bambino. Un bambino che, un giorno di 20 anni fa, ha cominciato a vedere dei mostri. Questa inchiesta a puntate ricostruisce un fatto di cronaca nera avvenuto vent’anni fa in due paesi della provincia di Modena. Si tratta di Mirandola e di Massa Finalese. E’ qui che tra il febbraio del 1997 e il novembre del 1998, 16 bambini di età compresa tra gli zero e i 12 anni furono allontanati dalle famiglie, accusate di far parte di una setta di pedofili e satanisti, che abusava di loro e li torturava fisicamente e psicologicamente. Da questa vicenda sono nati 5 processi lenti ed estenuanti, che hanno scosso queste comunità della Bassa Modenese, portando più di venti persone sul banco degli imputati. Alcuni genitori e parenti hanno subito dure condanne. Altri sono stati assolti. Altri ancora non hanno mai visto la fine di questa storia, che si è lasciata dietro una lunga scia di morti. I bambini nel frattempo si sono rifatti una vita in nuove famiglie, oggi sono adulti, hanno tra i 20 e i 30 anni. Nessuno di loro è più voluto tornare a casa. Chi invece non è mai riuscito a voltare pagina sono i loro genitori, che continuano a proclamarsi innocenti e che chiedono di poter rivedere i propri figli. Ora, analizzando la gigantesca mole di carte processuali, documenti e testimonianze a distanza di vent’anni, qualcosa continua a non essere chiaro.
Chi sono realmente questi genitori?
E’ vero quello che hanno raccontato i loro bambini?
Oppure siamo di fronte ad un incredibile caso di suggestione collettiva?
Se così fosse, da cosa potrebbe aver avuto origine? E soprattutto... perché?
Veleno è la storia di una reazione a catena che comincia da un banale sfratto.
E’ il 27 settembre del 1993, un lunedì, quando un ufficiale giudiziario bussa alla porta di un appartamento delle case popolari di via Volta, a Massa Finalese, in provincia di Modena. Ci abita la famiglia Galliera, cinque membri: il padre Romano, la madre Adriana e i tre figli, che chiameremo Igor, 18 anni, Barbara, 16 e Dario, che ne ha solo tre. E’ il bambino con cui è iniziata questa serie. Si tratta di una famiglia molto povera e disagiata, che da tempo non paga l’affitto e che è seguita dai servizi sociali della zona. Ma quella mattina il Comune non vuole sentire ragioni, e i cinque si trovano per strada con la poca roba che hanno, senza sapere dove andare. Igor e Barbara sono già grandi, ma quello che preoccupa più di tutti è Dario, che è ancora troppo piccolo per andare a dormire in macchina assieme agli altri. Perciò, Romano Galliera attraversa la strada e va a bussare alla porta di una famiglia vicina, che abita in un villino giallo di fronte. E’ la casa di una donna. Si chiama Oddina Paltrinieri, vive lì col marito e con due figlie. E’ un’amica che ha già aiutato i Galliera in passato, e ora Romano le chiede un favore più grande del solito. Prendersi cura di Dario per qualche giorno, finché non avrà trovato una nuova sistemazione. Live Giulia: Romano Galliera si presenta qui a casa mia con il figlio più piccolo, Dario, che all’epoca aveva tre anni, e mi chiedeva se per favore potevo ospitarli. A parlare è Giulia, la figlia più grande di Oddina. Sua madre è morta nel 2014 a seguito di una lunga malattia.
Live Giulia: Mia madre ha reagito molto male e lo ha offeso pesantemente mi ricordo, perché…
Live Pablo: Ma cosa gli ha detto?
Live Giulia: Mah, gli diceva che era un idiota e un buono da niente perché non era possibile - nonostante l’aiuto dei servizi sociali - che si fosse ritrovato in mezzo a una strada quando pagava un affitto veramente irrisorio.
Ma per quanto molto schietta, Oddina non ha cuore di lasciare il bambino in quella situazione, perciò accetta di prendere Dario in casa. E’ una donna molto conosciuta in paese e molto attiva nel sociale. Una di quelle persone che si mobilitano e si rimboccano le maniche. Dopotutto dice, se un piatto di minestra c’è per quattro, c’è anche per cinque. Nel frattempo i genitori di Dario si muovono per cercare una nuova casa. Ma il tutto procede un po’ a rilento, date anche le condizioni economiche della famiglia. Romano Galliera è un 56enne che campa di lavoretti qua e là. Non ha uno stipendio fisso e in paese non si parla bene di lui.
Live Giulia: Una persona molto ignorante, che non aveva voglia di lavorare. Non era in grado di conversare normalmente senza urlare o alzare le mani. Sia con la moglie che con i figli.
Questo è Silvio, marito di Oddina e padre di Giulia.
Live Silvio: Aveva poca voglia di lavorare, giocava a carte, trattava male un po’ la moglie, non dava mai da mangiare ai figli. Non aveva niente, se non gli davamo noi qualcosa, non aveva mica niente. Live Giulia: La gente li ridicolizzava quando li vedeva in piazza chiamandoli “la famiglia dei brutti”, perché effettivamente erano tutti magri, denutriti e vestiti male e non erano normali come… come famiglia.
Siamo riusciti a rintracciare Barbara, la sorella maggiore di Dario, che all’epoca aveva sedici anni. Oggi ne ha 40. Ha gli occhi verdi e lo sguardo un po’ malinconico. Ci incontriamo in macchina, nel parcheggio di un centro commerciale.
Live Barbara: Eh, non vivevamo in condizioni molto… come si dice… dignitose, però cioè... anche se eravamo persone povere, però nel nostro piccolo eravamo sempre, sempre uniti.
Live Pablo: Cioè voi eravate contenti che Dario fosse con Oddina?
Live Barbara: Sì, sì, sì, contentissimi, poi era felicissimo, sempre lì che disegnava… poi c’era suo marito Silvio che era… cioè lo viziava. Gli comprava sempre caramelline, che lui diceva “caramelle non ne voglio più” e Dario diceva “e io sì!” (ride)
Silvio dovreste conoscerlo. Oggi ha 66 anni. E’ un omone grande e grosso con la carnagione scura. Il suo migliore amico è un cane minuscolo e impaurito, che lo segue dappertutto. A vederli sono buffi. Silvio è un emiliano doc. Burbero all’apparenza, ma che sotto la scorza di cinismo nasconde un animo sensibile. E di quel bambino si era completamente innamorato.
Live Silvio: Gli ho fatto vedere tutto.
Live Pablo: L’hai portato in giro?
Live Silvio: Sì, lo zoo, Pistoia, poi l’ho portato a vedere le navi a Livorno, gli aerei a Pisa, siamo andati al mare, era contentissimo... Quando è andato via mi è dispiaciuto tanto.
Siamo a fine dicembre del 1993. Dario è con la famiglia di Oddina da tre mesi. I suoi genitori Romano e Adriana grazie all’aiuto di un prete della zona, Don Giorgio, forse hanno trovato finalmente una nuova casa nelle campagne di Massa e contano di sistemarcisi e di riprenderlo con loro a breve. In questo video girato all’asilo, Dario è inquadrato in mezzo a decine di bambini travestiti da fungo. Aspettano i regali di Babbo Natale…
Live video Babbo Natale: Bimbi dove siete, che non vi vedo?
Live video bambini: Quiiiii!
Live video Babbo Natale: Ma non vi vedo!
E le sorprese ovviamente ci sono anche una volta tornati a casa. Giulia, la figlia grande di Oddina, gli ha regalato una bella giacca rossa, che lui fa vedere a tutti.
Live video Giulia: Fatti vedere che ti prendo qua… come sei bello… fa vedere!
Live video Dario: Sono bello?
Live video Giulia: Sì
Live video Oddina: Mica tanto… Vieni qua che tiriamo su gli occhialini.
Quel 25 dicembre la famiglia Galliera e quella di Oddina e Silvio passano il Natale insieme. Dario sembra felice e spensierato. Quello che ancora nessuno di loro sa è che da lì a poche ore la vita di tutti cambierà in maniera radicale. La mattina dopo è il giorno di Santo Stefano. Uno di quelli che Silvio non dimenticherà mai.
Live Silvio: Era il 26 dicembre del ‘93...
E qualcuno bussa alla porta del villino giallo. Giulia va ad aprire. C’è una donna. E’ un’assistente sociale di Mirandola.
Live Giulia: L’assistente sociale si è presentata verso le 9.30-10…
Chiedendo che Oddina e Silvio preparino la valigia del bambino il prima possibile, perché in realtà non tornerà a vivere con genitori, Romano e Adriana. Per lui i servizi sociali hanno altri piani e un’altra sistemazione: il Cenacolo Francescano di Reggio Emilia, un centro di accoglienza per bambini con problemi familiari. Sono tutti sotto shock.
Questa è Barbara, la sorella di Dario:
Live Barbara: Dicevano che Oddina non poteva occuparsene, dicevano che non era in grado di stare dietro al bambino, quando una persona del genere, come Oddina non l’avevamo mai trovata perché era di un cuore non grande, ma di più.
Live Pablo: E come stava il bambino?
Live Silvio: Mah aveva la febbre però lei insisteva…
Live Giulia: ...e nonostante avesse visto che il bimbo era malato, non ha cambiato idea per portarlo a Reggio Emilia. Lo abbiamo vestito bene, caricato in macchina e in silenzio siamo partiti seguendo la Panda bianca dell’assistente sociale fino a Reggio Emilia. A Dario abbiamo fatto fatica a spiegare la cosa perché anche noi non sapevamo che cosa stesse accadendo. Per cui gli abbiamo detto che lo accompagnavamo in questo posto per un po’ di tempo. Doveva rimanere lontano da noi ma poi probabilmente sarebbe tornato a casa. Le bugie che si dicono ai bambini perché anche tu non sapevi come comportarti. Poi siamo arrivati a Reggio Emilia e siamo entrati in questo istituto. Ci è venuta ad accogliere una suora…
Live Silvio: Però quando siamo arrivati là che ha visto sta suora lì maledetta, che aveva una faccia anche da cattiva, gliel’abbiamo dato in braccio e l’ha portato via, ha incominciato a piangere, capito?
Live Giulia: Per cui l’abbiamo salutato, abbracciato e… e lasciato lì. Mio padre l’ha presa molto male, amava tanto quel bimbo e sperava in un futuro per lui. E ’ diventato cupo, serio e... è stato male.
Live Silvio: Non è stato un bel 26 di dicembre...
E’ una ferita che quasi un quarto di secolo dopo continua a far male. Silvio non può farci nulla. Gli occhi gli brillano ogni volta che parla di Dario. Ad appena 3 anni il bambino viene lasciato da solo e senza spiegazioni in un centro che non conosce, a 70 chilometri da casa sua, a 1 ora e 11 minuti di strada. Troppo lontano per la famiglia Galliera, che già si trova in una situazione economica difficile e non ha nemmeno la macchina. Il padre, Romano, non se ne fa una ragione. Si incatena davanti alla sede dei servizi sociali di Mirandola. Discute, si arrabbia, minaccia. Ma niente. Per la madre Adriana è un colpo troppo forte.
Live Barbara: Mia mamma è caduta talmente in depressione che non mangiava neanche quasi più perché quando ti tolgono un figlio ti cade il mondo addosso.
I Galliera cercano in tutti i modi di riavere Dario, ma non c’è verso. Il bambino resta nel Cenacolo Francescano di Reggio Emilia per un anno e mezzo, quando i Servizi Sociali gli cambiano casa un’altra volta. Dario, che ora ha 5 anni, viene affidato ad una famiglia della provincia di Mantova, che chiameremo i “Tonini”. Saranno i Tonini a occuparsi di lui d’ora in avanti, anche se Dario effettua dei rientri dalla sua famiglia naturale due weekend al mese. La famiglia Galliera nel frattempo vive nella casa di campagna che ha trovato grazie a Don Giorgio, il parroco che li ha sempre seguiti e aiutati. E’ in una palazzina gialla in mezzo alla campagna. La stessa casa dov’è cominciata questa puntata, in Via Abba Motto 19, a Massa Finalese. Ora, tra le due famiglie non corre buon sangue. E se ci pensate è anche abbastanza comprensibile. Immaginatevi se vostro figlio fosse portato a vivere da un’altra famiglia contro la vostra volontà, a prescindere dalle vostre colpe. Se chiamasse mamma un’altra donna, e papà un altro uomo. Una famiglia che può dargli cose che voi non potete… probabilmente vivreste col rimpianto e il senso di colpa di non aver fatto di più per lui, e forse anche con un po’ di astio nei confronti di chi la sera gli rimbocca le coperte. Dall’altro lato, cosa può pensare di voi una famiglia che cresce vostro figlio? Che siete degli incapaci. Degli irresponsabili. Che non siete dei buoni genitori. E soprattutto come si deve sentire un bambino piccolo come Dario, che ha già cambiato 3 case in 5 anni, e che si ritrova sballottato in una guerra a tre fra i Servizi Sociali, la famiglia naturale e quella affidataria?
Ancora Barbara, la sorella naturale di Dario:
Live Barbara: Eh, si sentiva un po’ scombussolato, perché giustamente, cioè… stai da una famiglia, poi dopo vai dalla tua famiglia naturale, ci stai quei due giorni, poi dopo alle 6 di sera ti vengono a prendere così… Io mi ricordo che lui si attaccava alle tende della cucina perché non se ne voleva andare e noi dovevamo - come si dice - strattonarlo per farlo andare con loro perché te lo venivano a prendere. Lui diceva mamma, mamma, mamma, ma perché devo andare con quelli lì? Perché non posso rimanere qua?
Questa situazione va avanti per due anni, col piccolo Dario che continua a fare la spola tra le due famiglie. Poi, dal febbraio del 1997, i suoi rientri presso la famiglia naturale vengono interrotti bruscamente. Romano Galliera, sua moglie Adriana e i figli Igor e Barbara, non capiscono cosa sia accaduto. Fino alla mattina del 17 maggio, quando i carabinieri si presentano a casa loro con un mandato d’arresto. Dario li ha accusati di molestie sessuali e di averlo venduto a più riprese a un giro di pedofili tra Massa Finalese e Mirandola. Se in ogni epidemia c’è un paziente zero, Dario è il bambino zero dalle cui rivelazioni parte il contagio. A parlare, dopo di lui, ci saranno altri bambini di altre famiglie della zona, che daranno il via ad un complesso caso giudiziario, che si protrarrà per quasi 18 anni. Cosa è successo? Come è successo? Se ci fate caso, molti eventi storici, non importa quanto grandi, sono nati da piccoli episodi, magari all’apparenza totalmente insignificanti, come una frase di poche parole all’interno di una banale discussione. E’ un po’ il concetto che sta dietro all’ effetto farfalla coniato dal padre della Teoria del Caos Edward Lorenz, quando negli anni ’70, studiando il modello matematico delle precipitazioni meteo, si accorse che bastavano delle minime variazioni nei parametri iniziali per produrre dei cambiamenti enormi. E’ sua la famosa domanda: “Può il batter d’ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?”. Beh. A quanto pare sì. Anche perché, dopo mesi di ricerche su questo tornado che si è abbattuto vent’anni fa nel cuore dell’Emilia, siamo riusciti a risalire al battito d’ali che lo ha generato. Seguitemi. Ci ricordiamo i personaggi, giusto? Dario Galliera, figlio di Romano e della moglie Adriana, affidato temporaneamente alle cure dei vicini Oddina e Silvio, e poi al Cenacolo Francescano, viene infine assegnato alla famiglia Tonini, marito moglie e due figli. Ok? Pochi mesi prima dell’arresto dei Galliera, la famiglia Tonini - gli affidatari di Dario - avevano iscritto il bambino alla scuola elementare del loro paese. Per i primi mesi sembra andare tutto bene e Dario rientrava dalla famiglia naturale due weekend al mese. Ma un giorno la maestra, nel corso di un colloquio, aveva fatto notare alla signora Tonini che il bambino le aveva raccontato una cosa un po’ strana: durante i rientri presso la famiglia naturale, il fratello maggiore Igor faceva degli “scherzi sotto alle coperte” alla sorella Barbara. Siamo riusciti a trovare la maestra, che a vent’anni di distanza si ricorda si ancora perfettamente di quell’episodio e di quelle parole.
Live Pablo: Ma così, cioè, era venuto fuori durante una conversazione…?
Live Maestra: Durante una conversazione, durante una conversazione, mentre stavo correggendo a lui alcune cose, che aveva il quaderno lì.
Live Pablo: Se n’è uscito con questa frase.
Live Maestra: Sì.
Live Pablo: Ok
La signora Tonini dunque si era preoccupata e aveva avvisato subito la psicologa dei Servizi Sociali di Mirandola che da tempo seguiva Dario. Si chiama Valeria Donati. E’ un nome che dovrete tenere a mente, perché la sentirete citare molto spesso nel corso di questa serie. La mamma affidataria era stata immediatamente sentita dalle forze dell’ordine. Ho qui il suo verbale. La donna aveva raccontato che in quel periodo Dario sembrava molto in difficoltà, quando tornava dai weekend presso la famiglia naturale. Balbettava, non mangiava, guardava fuori dalla finestra senza dire nulla, ed era calato nel rendimento scolastico. “Fui io a un certo punto”, aveva detto la Tonini, “a chiedergli se quelle cose fatte a Barbara, erano state afflitte anche a lui da Igor. Dario mi disse di sì.” La mamma affidataria di Dario aveva insistito molto col bambino per farsi raccontare tutto e dopo qualche mese, il piccolo si era finalmente aperto. Le aveva raccontato che Igor abusava di lui. E qualche giorno dopo le aveva detto che anche il padre Romano gli faceva le stesse cose, e che gli aveva intimato di non dire niente a nessuno, altrimenti gli avrebbe fatto ancora più male. “I racconti sono finiti in quel momento” , ha dichiarato la Tonini nel verbale, “e Dario ha incominciato a stare un po’ meglio.” Il bambino era stato portato da un medico legale per cercare segni di abusi. Non ce n’erano. L’esito era negativo. Poi era stato sottoposto ad un esame diagnostico psicologico, nel quale era emerso che non aveva capito bene cosa fosse accaduto - è normale, aveva solo 6 anni – ma secondo la psicologa dei Servizi Sociali Valeria Donati, i suoi racconti era carichi di angoscia e di paura della morte. Dario però non aveva fatto riferimento solo al padre Romano e al fratello Igor, ma anche alla madre Adriana. L’unica a restare fuori dalle sue accuse era sua sorella Barbara. Anzi. Nella relazione che i Servizi Sociali avevano fatto al tribunale appariva preoccupato per la sorella, e aveva chiesto alla psicologa di aiutare anche lei, perché Igor le faceva “degli scherzi che le fanno male”. E’ accaduto davvero? L’ho chiesto a Barbara.
Live Barbara: Allora, intanto mio fratello non m’ha mai fatto del male, assolutamente. Se c’è stato un attimo magari che può aver visto che mio fratello m’ha preso contro al seno perché stavamo giocando, ma non è mai successo che lui abusasse di me, assolutamente no.
Live Pablo: Dario ad un certo punto comincia proprio ad accusare tuo fratello, no? A parlare di vederlo nudo, “mi faceva toccare”, “mi chiedeva di toccarsi”, fino proprio a parlare di veri e propri abusi che poi ad un certo punto hanno coinvolto anche tuo papà e tua mamma…
Live Barbara: Qualcuno gli avrà fatto qualcosa, però non noi. Cioè noi della sua famiglia naturale no.
Ma dopo l’arresto Igor, messo alle strette dagli inquirenti, racconta una versione diversa da quella di Barbara. Ecco cosa dice a verbale: “Effettivamente alcune delle cose riferite da Dario sul mio conto sono in parte vere... E’ che io e Dario ci siamo toccati reciprocamente, ma è stato lo stesso Dario a chiedermelo.” Poi prosegue: “E’ vero che nel letto ho allungato le mani verso mia sorella Barbara, ma ho smesso subito di farlo, poiché mia madre mi ha rimproverato. Per quanto riguarda possibili abusi di mio padre verso Dario, non ne ho conoscenza diretta. Ho solo il ricordo del seguente episodio: una notte, quando io già dormivo da un po’ di tempo, e Dario era in camera da letto con i miei genitori, ho sentito lo stesso Dario che si lamentava, e pregava mio padre di “lasciarlo dormire”. Sembra che qualcuno in questa famiglia stia mentendo. Ma chi? Barbara? O suo fratello Igor? I genitori Romano e Adriana, entrambi in carcere, negano tutto. Ma ormai il dubbio si è insinuato anche nel paese e tra le persone vicine ai Galliera. Come Giulia, la figlia di Silvio e Oddina.
Live Giulia: Non sapevo più cosa pensare perché avevo già improntato una mia idea su di loro che a quel punto era crollata… Mi è venuto il dubbio che Dario sia stato veramente abusato dalla famiglia...
Chi su questa vicenda aveva sempre avuto parecchi dubbi era un certo Don Ettore Rovatti, un prete di Finale Emilia che negli anni ha conservato nel suo archivio personale tutti i documenti riguardanti la storia che vi stiamo raccontando. Sto parlando di anni di inchieste giudiziarie, di perizie, interrogatori, arringhe difensive, sentenze di condanna e di assoluzione. Il caso per lui era diventato un’ossessione, anche perché conosceva molti degli imputati e si era convinto che in questa storia non ci fosse nulla di vero, e che i bambini si fossero inventati tutte le accuse ai propri familiari. Don Ettore è morto nel 2015. Ma grazie ad Antonella, una sua parrocchiana, siamo riusciti ad avere accesso al suo archivio.
Live Pablo: Siamo con Antonella e stiamo adesso per entrare… in un convento?
Live Antonella: No, no, è la canonica.
Pablo: Ok… a cercare l’archivio di Don Ettore.
Live Antonella: Esatto.
Entriamo
Live Antonella: Eccoci, salve, io sono Antonella, lui è Pablo…
Live Pablo: Buongiorno…
Live Antonella: Abbiamo il permesso di Don Daniele di recuperare documenti qui e nell’archivio di Don Ettore.
Live Prete: Va bene
Live Antonella e Pablo: Grazie.
Raggiungiamo una stanzetta al secondo piano. Ci sono un vecchio letto di legno e un grosso armadio a muro
Live Pablo:...apriamo un po ’ le finestre perché non c’è luce...
Antonella apre le ante dell’armadio…
Live Antonella: Allora… Sposto questo… Qua dentro ci sono i faldoni….
Live Pablo: Urca… tutta sta roba?
Live Antonella: Ce n’è...
Davanti a noi ci sono migliaia di pagine contenute in grossi faldoni impolverati, conservati nell’armadio di Don Ettore. I documenti sono così tanti, che gli scaffali di legno si sono imbarcati sotto il loro peso.
Live Antonella: Allora, questa è la sentenza di primo appello a Bologna più i giornali… Tutti procedimenti penali a carico dei Galliera… Ecco vedi qua ci sono tutto bene organizzato, le foto, le testimonianze...
Live Pablo: Secondo te come stanno la mamma e il papà da quando vi hanno allontanato? E’ vero che pian pianino dopo ti sei ricordato che gli zii ti picchiavano anche? A quali croci eravate legati? Tu di notte piangi o ridi?
Live Antonella: Questo è un documento dove dice: “Dato per certo che gli episodi di pedofilia e di violenza sui bambini sono realmente avvenuti... ci sono stati riscontri oggettivi che non ammettono equivoci.”
Iniziamo a fotocopiare. Ci vorrà un bel po’. Ora, torniamo di nuovo nella primavera del 1997. Dario, dopo le accuse alla sua famiglia, rivela dei nuovi particolari alla madre affidataria, che preoccupata riporta a verbale: “Nei giorni scorsi ha ricominciato a peggiorare nel suo umore, e a mia domanda se ci fosse ancora qualcosa da raccontare, mi ha riferito episodi riguardanti una certa signora Rosa.” Ecco che in questa storia entra in scena un nuovo personaggio. La Rosa di cui parla Dario è un’amica del padre che vive in una casa di campagna fuori Massa Finalese. Romano lo porta spesso da lei, e Dario è costretto a soddisfare le sue perversioni sadomaso. Infatti racconta che questa donna lo obbliga a picchiarla con un bastone, un attizzatoio e degli oggetti di cuoio. E che in casa con lei, mentre avvengono gli abusi, c’è anche un uomo che scatta delle Polaroid. Quando hanno finito, Rosa dà dei soldi al padre Romano, come pagamento della prestazione. C’è un problema però. Il bambino è troppo piccolo per ricordarsi i loro cognomi o dove abitino esattamente, e quindi il PM gli mostra delle fotografie, tra le quali Dario riconosce quella di un pregiudicato: si chiama Alfredo, conosciuto a Massa Finalese come Alfredone, un grande amico di Romano Galliera. E come Romano Galliera, non è ben visto dagli abitanti del paese. Live Giulia: Giocava a carte anche lui, era diciamo amicone di Galliera, nel senso che insieme andavano a organizzare dei piccoli furtarelli per fare giornata e so che è stato in prigione diverse volte nel corso della sua vita e mio padre lo conosceva perché in paese tutti lo conoscevano e non ne parlavano di certo bene perché non era un bravo ragazzo...
Live Silvio: Eh… una brutta persona
Live Pablo: Perché?
Live Silvio: Era un piccolo delinquente. Da bambino a cinque o sei anni o sette pelava i gatti vivi. Poi da grande ha incominciato… ha picchiato anche suo padre… la madre perché non gli dava soldi… è stato in galera... ha fatto tante cose…
E indovinate come si chiama la sua compagna? Rosa. Abitano in una casa in campagna, appena fuori Massa Finalese ed effettivamente nella loro abitazione viene ritrovata una Polaroid, priva delle batterie. Ma nessuna foto pedopornografica. Rosa e Alfredo negano ogni tipo di accusa nei loro confronti. Silvio, il marito di Oddina, la vicina che aveva ospitato Dario, qualche dubbio però lo aveva. Ha un ricordo molto netto di Romano Galliera, che durante uno dei rientri di Dario, gli aveva detto:
Live Silvio: ‘ dai che andiamo a fare le foto dalla Rosa… per tre, quattro volte che il bambino è venuto qua, capito? La domenica dopo, verso le 3, così, andavano a far le foto là, da ‘sta Rosa. Perché ci sono i cani grossi, andiamo a fare le foto… Che ca… cosa vai a fare là? Cos’è che devi fotografare? Non c’è niente. Qua a tre chilometri c’è una casa in mezzo alla valle, non c’è neanche un albero…E poi, sì… si dicevano tante cose… Galliera era sottomesso da Fredo, perché quello che diceva lui Galliera doveva fare.
Il paese mormora. La polizia di Mirandola indaga. La procura di Modena inizia a seguire la pista di un traffico di materiale pedopornografico. E sta per scoprire che quelli che inizialmente sembravano i crimini commessi all’interno di una povera famiglia disagiata, ora sembrano il modus operandi di un’organizzazione vasta e senza scrupoli. Sono tornato più volte nella casa di Via Abba Motto, l’edificio abbandonato dove un tempo viveva la famiglia Galliera. Quella stessa casa in cui Dario ha raccontato di essere stato abusato. I suoi genitori, Romano e Adriana, sono morti dopo anni di carcere. Sua sorella Barbara dice di non aver mai visto né sentito nulla. Dario è l’unico a conoscere il segreto di quella casa. Oggi dovrebbe avere 27 anni, ma di lui si sono perse completamente le tracce. Dov’è finito? Chissà cosa gli è rimasto di quel segreto dopo tutti questi anni. C’è solo un’altra persona che lo conosce ed è sempre suo fratello. Igor. Ho provato a contattarlo più volte assieme ad Alessia, la co-autrice di Veleno. Ci ha sempre detto di no. Lui questa storia se la vuole solo dimenticare. Poi un giorno, finalmente, ha deciso di raccontarci cos’è successo.
Live Igor: Mai successo niente tra me e mio fratello. E lo confermo. Io a mia sorella feci il solletico. Poi se lui si è immaginato roba magari vista... magari sulla tv... perché noi guardavamo molta tv. Magari metti caso che abbia visto una scena particolare e magari si è immagazzinata in testa, magari quella cosa lì gli è nata da quello, ma io con mia sorella mai. Quando mi hanno arrestato ho letto sopra al foglio dove ti prendono le impronte digitali il perché, e ho letto quella parola lì... ma io di quella parola lì, la parola “pedofilia”, non sapevo cos’era il significato. Me l’hanno detto quando sono stato lì dentro. L’avvocato mi disse “per me tu sei colpevole”. E io giustamente continuai a dire: “Ma io non ho violentato nessuno, io non ho toccato nessuno. Continuai a dirlo ripetutamente. E piangevo, mi ricordo.
Live Pablo: E gli inquirenti che ti hanno interrogato cosa ti hanno detto?
Live Igor: Allora… che mi davano tipo dieci anni, sette anni... però in quell’attimo lì presi paura e tirai fuori la prima cavolata che mi venne in mente... io mi diedi una colpa di una cosa che non ho mai fatto. Avevo paura e volevo farmi poco carcere. A 22 anni sei ancora un ragazzino. Non capivo cos’era il carcere, non capivo cos’erano gli anni, non capivo niente a quell’età.
Live Pablo: Si ma, e che fai, però? Ti auto-accusi di aver abusato di tuo fratello? Se uno è innocente lo dice fino alla fine…
Live Igor: Non è stata la scelta migliore, ma per non star dentro per me è stata una scelta. Io e Dario avevamo un bel rapporto anche perché lui stava abbastanza con me. Non facevamo niente di che.
Live Pablo: Tu hai mai toccato tuo fratello nelle parti intime?
Live Igor: Per lavarlo… Se uno lo lava giustamente è normale che… cioè lo devi lavare un bambino, no?
Live Pablo: Igor però perdonami. Un bambino di sei anni ha raccontato che hai abusato di lui. Perché avrebbe dovuto farlo, fammi capire?
Live Igor: Non lo so. Non avrei mai fatto certe cose davanti a lui. E addirittura sono talmente timido che non mi spoglio neanche davanti a un mio amico dalla vergogna.
Live Pablo: E’ possibile che qualcun altro della tua famiglia gli abbia fatto quelle cose? Per esempio i tuoi genitori?
Live Igor: Non credo. Perché mio padre e mia madre non erano i tipi da fare certe cose. Perché sennò le avrebbero fatte anche a me fin da piccolo. E invece non è mai successo niente.
Live Pablo: Come ti spieghi però che un bambino di nemmeno 7 anni conosca dei dettagli così precisi sul sesso?
Live Igor: Beh, mio padre aveva un po’ di giornaletti pornografici. Ti dico, quando avevo l’età di lui, a 7 anni, cominciai a leggerli. E… non riuscivo a capire subito, però sai, pian piano guardare le figure, guarda una figura oggi, guarda una figura domani, qualcosa impari un po’ nella testa. Può darsi che abbia visto qualche giornaletto... però non c’è solamente lo zampino di un giornaletto. Lì c’è lo zampino di qualcuno.
Ma non sono io...
TRASCRIZIONE EPISODIO 3
I personaggi dell'Episodio 3: Valeria Donati, Psicologa dei servizi sociali di Mirandola; Dario Galliera, Il bambino "zero"; Elisa e Marta, Le prime bambine indicate da Dario; Federico Scotta, Il padre di Elisa; Francesca, La madre di Marta (morta suicida); Don Giorgio Govoni, Il parroco accusato da Dario e poi dalle bambine; Massimo Introvigne, Esperto di satanismo; Margherita, La quinta bambina allontanata; Santo e Maria Giacco, I genitori di Margherita; Antonella, La sorella maggiore di Margherita; Lorena, La maestra a cui hanno tolto i 4 figli.
Gli stivali del diavolo. Live musica messa Satanica. Quella che state ascoltando è il una messa satanica celebrata il 6/6/6 … il 6 giugno 2006 a Los Angeles, in California. Ok Non La scena si svolge in una sala avvolta dalla penombra, dove fa il suo ingresso un uomo vestito da prete, seguito da alcune persone incappucciate. L’uomo raggiunge un altare, dove sono posizionate due candele accese. Al centro del ripiano c’è un teschio. Sull’altare c’è una donna seminuda sdraiata sul fianco. Sopra la donna, svetta una bandiera nera con una stella a cinque punte rovesciata. Al suo interno c’è disegnato il muso minaccioso di un caprone. E’ il pentagramma. Il simbolo di Satana.
L’uomo vestito da prete prende un campanello e lo fa suonare verso ognuno dei quattro punti cardinali. Nord. Ovest. Sud. Est. Ancora nord.
Live: Ding Ding Ding Ding
Poi comincia a celebrare il rito, che ricorda molto una messa cristiana, anche se qui a essere celebrato e osannato è Satana.
Live: In nomine nostri, Satanas Luciferi Excelsi.
Nel nome di Satana, padrone della terra, re del mondo
I command the forces of darkness bestowed for the power upon us.
Io comando le forze dell’oscurità conferitemi stanotte dal potere sopra di noi.
Open wide the gates of hell! And come forward from the abyss...
Spalanca le porte dell’inferno. Emergi dall’abisso.
Greet us as your brothers, sisters and friends
Salutaci come fratelli, sorelle e amici.
Il diavolo viene poi chiamato in tutte le sue forme e in tutti i suoi nomi:
Live: Bast, Samayel, ecc ecc
Poi sale un uomo completamente calvo, con un cappotto in pelle nera e un paio di lunghe corna impiantate sotto la pelle del cranio e dopo un’omelia al diavolo alza la spada al cielo urlando Live: my sacrifice through vengeance rests...Hail Satan!
Live Coro: Hail Satan!
“Il mio sacrificio riposa sulla vendetta...Hail Satan!”.
C'è un personaggio di tutta questa vicenda di cui vi abbiamo appena accennato il nome, senza però dirvi molto di più. E’ una donna di 29 anni. Ha i capelli corti e scuri. Fa la psicologa. Si chiama Valeria Donati. Nata a Fabriano alla fine degli anni ‘60, dopo la laurea e la specializzazione in psicologia cognitiva, nel 1994 aveva trovato lavoro presso i servizi sociali di Mirandola e in un centro in provincia di Mantova, seguendo alcuni bambini e facendo corsi di formazione alle famiglie che si rendevano disponibili a prenderli in affidamento. Ora, immaginatela seduta nel suo studio a Mirandola. E’ un giorno di primavera del 1997. Davanti a lei c’è un bambino, biondo e con gli occhialetti rotondi. E’ Dario Galliera. Conosciamo già il motivo per cui si trova lì: da qualche settimana ha cominciato a raccontare che i suoi genitori naturali Romano ed Adriana e suo fratello Igor, abusano di lui e che lo portano a casa di una donna, Rosa e del suo compagno Alfredo, che gli fanno le stesse cose. Oltre a loro, Dario continua ad elencare uno dopo l’altro nomi di mostri che la psicologa da tempo annota nei suoi appunti e che la polizia sta cercando di individuare. Valeria Donati chiede al bambino di fare dei disegni. In uno di questi ci sono tre diavoli senza una gamba o senza un braccio e con le bocche spalancate che mostrano zanne affilate….La giovane psicologa osserva il bambino con attenzione. Si accorge che è distratto, a volte insofferente. Sente il suo disagio. Annota i suoi silenzi….. e capisce che dietro a quei racconti incompleti, a singhiozzo, si nasconde un bambino terrorizzato e pieno di segreti. E intuisce la realtà potrebbe essere ancora peggiore. Secondo lei Dario non è l’unica vittima di questo giro di pedofili. Devono essercene anche altre. Infatti non passa molto tempo, prima che lui tiri fuori i nomi di due bambine: la prima ha tre anni, i capelli neri a caschetto e gli occhi leggermente a mandorla. Si chiama Elisa Scotta. Suo padre, Federico Scotta, è un operaio di Mirandola. Sua madre Kaempet, viene dalla Thailandia. Si sono conosciuti lì qualche anno prima, ancora giovanissimi.
LIVE SCOTTA.
Ci siamo poi trasferiti in Italia qui a Mirandola, io lavoravo in una ditta di biomedicali…Questo è Federico Scotta. Abbiamo avuto Elisa nel ’94. E’ nata che stava bene, eravamo una coppia giovane come tante, con un gruppo di amicizie a livello normale, e con tutte le persone che ci frequentavano, che erano comunque colleghi di lavoro, come vicini di casa…E tra i loro vicini di casa nello stesso palazzo di Via Pascoli a Mirandola, c’è un’altra bambina, compagna di giochi di Elisa, che vive da sola con la mamma. Ha otto anni e si chiama Marta.Dario fa il nome di entrambe: i mostri fanno male anche a loro. Valeria Donati è incredula. Quelle due bambine le conosce bene anche lei, perché sono già seguite dai servizi sociali per cui lei lavora. I racconti di Dario non fanno che confermare la sua idea: fra i 20 km che dividono Massa e Mirandola è attivo un network di pedofili che porta i bambini in alcuni appartamenti, li filma e poi immette le videocassette in un circuito clandestino a pagamento. In effetti i profili delle due famiglie di Elisa e Marta destano nella Donati e nei suoi colleghi non pochi sospetti. Partiamo da Elisa: Il suo fascicolo presso i servizi sociali di Mirandola era stato aperto poche settimane dopo la sua nascita, nel 1994, quando la bambina era stata portata dai genitori Federico e Kaempet all’ospedale, a seguito di una notte intera passata a urlare e a piangere. I medici avevano subito capito la gravità della situazione: la neonata presentava ecchimosi, lividi e fratture, come se qualcuno l’avesse picchiata selvaggiamente. I genitori avevano spiegato che a fare del male alla bambina era stata una connazionale della madre, che da tempo la minacciava e le faceva pressanti richieste economiche.
Live Scotta: “Doveva lavorare per lei o se la sarebbe ripresa con mia figlia” “Che cosa avrebbe dovuto fare tua moglie?” “Avrebbe dovuto prostituirsi. Mia moglie questo non lo fece, anzi in qualche modo rispose male a questa signora...” … Che, un giorno, mentre si trovava in casa, all’ennesimo rifiuto, aveva preso la bambina scaraventandola contro un muro.
La versione di Federico e Kaempet non aveva convinto i servizi sociali e gli inquirenti, ed Elisa era stata immediatamente allontanata e affidata ad un’altra famiglia. Federico Scotta e Kaempet sostengono di essere riusciti in seguito a dimostrare la loro estraneità sui maltrattamenti alla bambina, anche se di questo vecchio caso giudiziario non siamo riusciti a trovare le carte che lo confermino. Sta di fatto però che dopo 3 anni di percorso di riavvicinamento, gli Scotta, nella primavera del 1997, riescono a riavere indietro la piccola. Per loro è un nuovo inizio: Elisa è finalmente a casa e in più da poco è nato anche Nicola, il loro secondo figlio. Marta invece, la figlia della vicina che abita al quinto piano dello stesso palazzo degli Scotta, ha una storia diversa. Vi abbiamo detto che vive da sola con la madre, che si chiama Francesca Ederoclite. La donna si è da poco separata dal marito. E’ stato un addio molto burrascoso, fatto di liti e di ripicche reciproche, tanto da richiedere l’intervento dei servizi sociali. Francesca peraltro non ha un lavoro fisso e lei e gli Scotta da buoni vicini di casa cercano di darsi una mano gli uni con gli altri come possono.
Ecco di nuovo Federico. LIVE SCOTTA: “Era sempre stata una madre, una donna che si è sempre data da fare e comunque aveva un legame con sua figlia che era un legame non forte ma di più, lei per sua figlia avrebbe dato non la vita, ma oltre, piuttosto non mangiava lei per cercare di dargli un gioco in più, una maglietta, qualcosa in più. Era un rapporto che comunque chiunque lo poteva vedere, erano sempre assieme”
Francesca, Federico e le loro figlie si frequentano molto. Siamo all’inizio dell’estate del’97. Ho qui alcune loro vecchie foto. In una Marta è sdraiata su un muretto bianco sulla Riviera Romagnola con alle spalle il mare, col braccio intorno al collo di Elisa, che è più piccola di lei. In un’altra Marta è abbracciata a sua madre Francesca, appoggiata a un lampione. In quest’altra ancora le due famiglie sono sedute intorno al tavolo, al ristorante. Sorridono, mentre aspettano l’arrivo delle pizze. Sul tavolo ci sono dei giocattoli. Sono scatti che ritraggono la vita apparentemente tranquilla che fanno le famiglie con i bambini piccoli alla vigilia delle vacanze estive. Ma Federico Scotta, sua moglie Kaempet e la loro vicina di casa Francesca Ederoclite non sanno ancora che a pochi isolati di distanza, Dario Galliera sta parlando proprio di loro. Fino all’alba del 7 luglio quando la Polizia bussa alle loro porte.
LIVE SCOTTA
“Alle quattro e quaranta del mattino sono entrati in casa e hanno perquisito tutto quello che era possibile smontare. Presero due o tre fotografie di Elisa. Quindi fra un cosa e l’altra dopo tutto questo trambusto erano le sette di mattina e come quattro pellegrini ci siamo diretti alla questura di Mirandola. Quando sono salito su per andare a notificare l’atto, Elisa a me dormiva in braccio e Nicola invece dormiva in braccio a mia moglie. Li abbiamo dovuti lasciare su una poltrona puzzolente, putrida del commissariato di Mirandola. Nicola l’abbiamo dovuto legare nel passeggino e ci dicevano “non vi preoccupate”, quando scendete giù al massimo li vedete ancora. Federico e sua moglie salgono al primo piano della questura per essere sentiti dagli inquirenti.
“Perché ci hanno spiegato che da un minore di Massa Finalese...”...Cioè Dario….“Erano state fatte alcune dichiarazioni e la magistratura doveva valutare se fossimo complici o meno di questa situazione. Ammetto che la mia reazione non è stata delle più felici, anche perché essere accusati di rapine non è bello, ma di violenza è ancora peggio”
Alla fine dell’incontro la coppia torna nella sala d’attesa dove aveva lasciato Elisa e il fratellino che dormivano.
“Quando siamo scesi nella sala d’attesa non c’era più nulla. La macchina dell’Usl era già passata a portarseli via.” “E da allora non li hai mai più visti?” “Da allora, no.”
Usciti dal commissariato, Federico e Kaempet, che ancora non hanno capito cosa stia succedendo, incontrano una donna in lacrime. E’ Francesca, la loro vicina di casa, mamma di Marta.
Llive Scotta: “senza sapere che eravamo andati lì entrambi ci avevano tolto i figli lo stesso giorno, nello stesso momento, con la stessa accusa”. Nell’archivio di Repubblica del 1997 ci sono gli articoli di cronaca dell’epoca. Quella mattina Francesca Ederoclite aveva fatto una scenata isterica davanti alla questura, tagliandosi braccia con delle lamette e buttandosi tra le macchine in mezzo alla strada, evitando solo per miracolo di essere investita.
Pausa.
Dario, Marta, Elisa e Nick. Il numero dei bambini allontanati dai servizi sociali di Mirandola e dal Tribunale dei Minori di Bologna a famiglie accusate di pedofilia è salito a quattro. I figli degli Scotta vengono immediatamente ricollocati. Elisa torna nella famiglia affidataria che l’aveva tenuta dopo il primo allontanamento per le percosse. Del suo fratellino Nick non si hanno più notizie. Marta invece viene portata in un’altra città, a Reggio Emilia, in un edificio di mattoni rossi gestito da alcune suore. Il Cenacolo Francescano. Il nome dovrebbe dirvi qualcosa. E’ il primo luogo dove era stato affidato Dario Galliera a 3 anni, dopo lo sfratto dei genitori e dopo aver vissuto pochi mesi dai vicini di casa. Entrambe le bambine vengono subito portate da una ginecologa della clinica Mangiagalli di Milano. Si chiama Cristina Maggioni. La dottoressa conferma che hanno subito abusi. Il Tribunale dei Minori conferma l’allontanamento, e sia gli Scotta che Francesca Ederoclite finiscono prima in carcere, e poi ai domiciliari. Francesca, ritrovatasi da sola nel suo appartamento al quinto piano, è disperata. Arriviamo una domenica. Suona il telefono di casa. Mia moglie va a rispondere. E dall’altra parte la Francesca. Ciao Francesca come stai, come non stai. Aveva una voce stranissima. Quasi da ubriaca, non lo so. “Vi ho voluto tanto bene, mi dispiace che le cose finiscano così”. Addio. E ha chiuso il telefono. Federico e sua moglie Kaempet, allarmati, chiamano la polizia. E nel momento in cui stavano entrando hanno visto la Francesca scavalcare dal balcone del quinto piano…. E volare giù. Il caso degli abusi nella bassa modenese si apre con il lancio nel vuoto di una madre. Sarà solo la prima di una serie di morti. Ma per le psicologhe e le assistenti sociali di Mirandola, il suicidio di Francesca Ederoclite è solo la conferma della sua colpevolezza. Secondo la testimonianza di Dario, infatti, la donna e i suoi vicini, gli Scotta, portavano anche i loro figli in appartamenti tra Massa Finalese e Mirandola, dove li consegnavano per qualche ora a degli sconosciuti in cambio di soldi. Dario fa riferimento in particolare ad un episodio avvenuto il Natale precedente. Racconta che Francesca aveva portato lui e Marta a casa di un pedofilo di Massa, che si chiamava Giorgio. E quando Valeria Donati gli aveva chiesto chi fosse, lui lo aveva identificato come “un sindaco”, che abita nella casa “vicino al campanile”. Un uomo alto circa 1,70, con i capelli grigio scuri, con gli occhiali, un po’ grassottello. Aggiunge che portava delle scarpe “con i tacchi”. Dario ha molta paura di questo Giorgio e anche di Francesca, perchè dice che assiste alle violenze senza fare niente. Gli inquirenti fanno dei controlli. Il sindaco di Massa non si chiama Giorgio e non corrisponde alla descrizione fatta da Dario. Scatta la caccia all’uomo. I presunti membri della banda già identificati nel frattempo finiscono sotto processo. Le loro storie sono ormai sui giornali da diverse settimane. Romano e Adriana Galliera, il figlio Igor, i loro amici Maria Rosa Busi e Alfredo Bergamini, tutti di Massa, e le due famiglie di Mirandola, Federico e Kaempet Scotta e la defunta Francesca Ederoclite. Otto persone. Sette rinvii a giudizio. Con questo primo gruppo ristretto si apre il cosiddetto Procedimento Pedofili della Bassa. Ora, vi anticipo subito che la storia giudiziaria di questa vicenda è molto, molto intricata e assolutamente non lineare. Perciò sarò costretto a semplificarla in modo da renderla comprensibile a tutti. Il processo che sta per iniziare durerà quasi 17 anni e ci entreranno più di venti di persone, in momenti e in contesti diversi. Ognuno di loro avrà una sua storia e un suo destino. Quello che accomuna tutti sono le accuse fatti dai bambini. Messi sotto torchio dagli inquirenti, gli imputati continuano a negare ogni cosa...L’unico ad aver ammesso alcuni fatti è stato Igor che aveva confessato di essersi fatto toccare da Dario, a detta sua su consiglio dell’avvocato, per evitare una condanna troppo dura. Siamo a fine estate del 1997, Dario non vede la sua famiglia naturale da ben 6 mesi. Sua madre affidataria Antonia, lo porta due volte alla settimana, dalla psicologa Valeria Donati. Dario ormai la conosce bene e si fida di lei, tanto da confessarle cose che non riesce a dire alla mamma. Infatti un giorno prende coraggio e racconta a Valeria cosa succedeva la notte, quando i Galliera lo svegliavano, lo mettevano in macchina e lo portavano in un cimitero. Ecco cosa racconta Valeria Donati ad Andrea Claudiani, il PM assegnato al caso: Dario ha detto che “avevano fatto un funerale ai bambini”, che lui sospettava fosse “finto”, pur non essendone sicuro. Ha aggiunto che lui, Elisa e Marta erano stati chiusi dai grandi in una cassa che aveva una croce sopra; e che avevano pianto poiché avevano molta paura in quanto all’interno delle casse “era buio e lui non riusciva ad uscire perché il coperchio era troppo pesante”. Dario ha detto che in questo modo erano stati tutti “trasformati nei figli del diavolo” e che i grandi gli avevano detto che “il diavolo sta in cielo e prende tutto il fuoco”. Inoltre ha detto che era presente a questo fatto “il sindaco con la tunica”, e che mentre i bambini erano nelle casse, i grandi da fuori si sentivano ridere. Dal momento che il bambino era visibilmente terrorizzato, aggiunge Antonietta gli ho chiesto che cosa lo spaventasse. Dario ha detto che lo avevano spaventato quando gli avevano detto che sarebbe “bruciato all’inferno.” Al cimitero c’erano tutti gli imputati, travestiti da animali feroci: la Rosa era la tigre, Francesca la pantera, Federico Scotta il Vampiro, Alfredo Bergamini il diavolo. Una volta celebrato il finto funerale Dario racconta che gli adulti avevano bastonato i bambini, costringendoli poi a picchiarsi tra di loro. E racconta che gli avevano dato un gatto nero da uccidere. Lui non ci era riuscito e suo fratello, Igor, lo aveva finito con un coltello. E a dirigere questo rito spettrale c’è di nuovo lui, Giorgio, il sindaco senza volto che abita accanto al campanile.
LIVE ROSSI:
E lo definisce il sindaco perché è la persona che chiaramente ha nei suoi confronti autorità. Questo era Pierfrancesco Rossi, uno dei primi avvocati ad entrare nel processo, difensore dei Galliera. Ma nel corso degli incontri con la psicologa, che nel frattempo è affiancata anche dagli inquirenti, Dario inizia ad avere dei dubbi. D’altronde ha solo sette anni. Forse non è un sindaco, forse è un medico.
“Ma sei sicuro che sia un medico?” gli chiede Valeria Donati, “il medico non ha la tunica, il medico ha il camice”.
E chi è che ha la tunica e vive vicino al campanile? Non sarà mica il prete?
Live Avv Rossi: E la persona che oltre a ogni evidenza è una persona da lui conosciuta dev’essere per forza Don Giorgio Govoni.
Ve lo ricordate no?
La Donati conosce molto bene Don Giorgio….
Live Avv Rossi: “Perché Don Giorgio Govoni ha dato la casa ai genitori e continua ad assisterli…ed ecco perché automaticamente il sindaco diventa il sacerdote.”
Un uomo insospettabile, amatissimo, sempre in giro con il suo famoso furgoncino bianco. Nei comuni della Bassa Modenese Don Giorgio lo conoscono tutti. Nessuno fino ad allora aveva mai sospettato che dirigesse un gruppo di pedofili satanisti. Che cos’è il satanismo? La maggior parte di noi conosce questo fenomeno solo attraverso dei cliché che arrivano dalla cultura popolare. Tutti abbiamo un immaginario più o meno comune del fenomeno. Ma è un immaginario nebuloso, una sorta di mosaico composto da flash di film horror che abbiamo visto, o dipinti in cui ci siamo imbattuti in un libro o in un museo, o rituali di cui abbiamo letto o sentito parlare alla tv.
Live: mix di parole “Satanismo”, “Satanico”, “Sataniche”, “Satana”...Satana è uno dei nomi con cui identifichiamo il male. Il diavolo. E’ un nome di antica origine ebraica, che letteralmente significa “avversario”. Nell’Antico Testamento compare all’inizio del terzo capitolo della Genesi sotto forma di serpente, quando convince Eva a far provare il frutto proibito ad Adamo. Ma è l’Apocalisse a raccontare le origini di questo personaggio, il capo degli angeli, che dopo essersi ribellato a Dio, finisce scaraventato sulla Terra. L’apostolo Giovanni lo descrive come una bestia nera con due corna di agnello sulla testa. E gli attribuisce un numero, il seicentosessantasei, che rappresenta una sequenza nascosta di lettere: il nome di un uomo. Secondo una delle interpretazioni della cabala ebraica, le sillabe criptate produrrebbero la sequenza Caesar Neron: il grande persecutore romano Nerone. Uno dei più grandi esperti di satanismo in Italia e nel mondo è il sociologo Massimo Introvigne, che ha pubblicato diversi libri sul tema tra cui un tomo di oltre seicento pagine chiamato “Satanism, a Social History”, considerata una delle letture più approfondite e complete in circolazione. Non starò ovviamente a raccontarvele tutte, ma la cosa più interessante è che Introvigne divide i satanisti in quattro categorie, o quadranti, come li chiama lui. Le prime due, quelle dei cosiddetti razionalisti e occultisti.
Live Introvigne: Non sono in realtà degli adoratori del male, si offenderebbero molto se qualcuno dicesse loro che adorano il male…
Per loro……….
Live Introvigne: Satana o Lucifero sono il simbolo della libertà … che loro celebrano con rituali simili a spettacoli teatrali…
Live: per liberarsi dal condizionamento plurisecolare della religione che impedisce di godersi i tre grandi piaceri della vita: la sessualità, il potere e il denaro. Proprio come gli adepti della Church of Satan, la Chiesa di Satana fondata in California da Anthony LaVey nel 1966, di cui all’inizio di questa puntata avete sentito una messa. (audio sottofondo messa satanica). Si tratta di un’organizzazione vera e propria, con uno statuto e una sede come quelle di molti altri gruppi religiosi. Poi però ci sono anche altre due categorie, sicuramente più tenebrose. Quello dei cosiddetti satinasti “anticosmici”…
Live Introvigne…Persone che invece adorano Satana perché adorano il male, e questo è un fenomeno relativamente recente che sostanzialmente si sviluppa nell’ambito di una frangia estrema del Black Metal...soprattutto in Svezia e Norvegia, dove negli anni ’90 ci furono una serie di incendi di chiese e di omicidi commessi dai membri di alcune band locali, come quella dei Gorgoroth.
Live: Poi aggiungerei un altro quadrante, che è quello dove si sono sviluppati i delitti più pericolosi, e cioè parlo di gruppi di minorenni con alle volte qualche maggiorenne che fanno un satanismo fai da te, propongono dei cocktail caserecci di sesso, droga e rituali fai da te che qualche volta sono letali. Tutti gli omicidi, una ventina che nell’ultimo quarto di secolo che nell’ultimo quarto di secolo hanno interessato il mondo del satanismo, sono maturati in questo ambiente. Uno dei casi più eclatanti in Italia fu quello dello Bestie di Satana, un gruppo di giovani satanisti della provincia di Varese, che tra il 1998 e il 2004 uccisero tre loro coetanei e ne indussero al suicidio un quarto. Introvigne però ci spiega che in verità, a differenza di quanto si tende a credere, il Satanismo è un fenomeno molto circoscritto.
Live: ogni volta che succede qualcosa c’è qualcuno che dice che in Italia ci sono 8000 sette sataniche, io gli chiedo sempre di fornirmi l’elenco. In realtà si stima che questi gruppi di satanisti acidi sono pochissimi e essendo clandestini nessuno sa realmente se ci sono e quanti sono. Tra il 1997 e il 1998 però Valeria Donati, i colleghi psicologi, la polizia, il PM Andrea Claudiani e il Giudice per le indagini preliminari Alberto Ziroldi ne hanno appena trovato uno, nel cuore della Bassa Modenese e i tentacoli di questa organizzazione sembrano essere arrivati davvero ovunque. La mattina del 16 marzo del 1998, alcuni assistenti sociali di Mirandola entrano nella scuola elementare di Massa Finalese e portano via un’altra bambina. E’ la quinta. La chiameremo Margherita. E’ la figlia di una coppia, Santo e Maria Giacco.
Live: Pablo esce dalla macchina….apre la portiera, cammina e chiama “Santo! Come stai? Tutto bene?”.
Bene, bene. Bah, andiamo avanti. Che si dice?
Che si deve dire? Andiamo avanti
Che frutta c’hai? C’ho solo pesche. Perché ormai la frutta lo sto dando via. Poi c’ho le verdure. Vuoi le verdure?
I Giacco sono napoletani. Maria è di Casoria, Santo di Afragola. Sono arrivati a Massa Finalese nel 1976. Maria fa la casalinga, Santo gestisce una bancarella di frutta.
Nel 1998 hanno già sei figli, 4 femmine e due maschi, e anche qualche nipote. Margherita è la loro figlia più piccola, l’ultima arrivata. Ha 9 anni e ogni tanto gioca con una compagna di classe. Un giorno questa compagna racconta alla mamma che Margherita ogni tanto fa riferimenti espliciti al sesso, come se avesse visto qualcosa dentro casa sua. La mamma va subito a parlarne col preside della scuola, che contatta i servizi sociali di Mirandola. I genitori non sanno nulla. Dopo aver portato la bambina a scuola, quella mattina, Santo torna a casa.
Live Santo Giacco: Sono venuti...Io mi stavo facendo la doccia. Bussano: “polizia”. Erano commissari in borghese. “Che è successo?”.
I Giacco apprendono che la figlia è stata portata via da scuola, senza altre spiegazioni. Maria, la mamma, comincia ad agitarsi.
“E io dicevo dov’è mia figlia? Io voglio mia figlia. E loro dicevano “non si preoccupi, sua figlia sta bene”, “sua figlia così”...“Ci è caduto il mondo addosso, perché tutto all’improvviso eravamo convinti che l’avevano rapita.
Questa è Antonella, la figlia più grande dei Giacco. Qualcuno che l’aveva portata via dalla scuola. Perché mia mamma non si sapeva spiegare, allora…” I poliziotti non aggiungono altro su Margherita, ma informano il padre Santo che sono lì soprattutto per un altro motivo:
Live Santo: “Lei ha fatto una rapina con sua moglie”. “Mia moglie?”
“Sì, sua moglie ha portato la macchina e lei è entrato dentro”
All’inizio l’allontanamento di Margherita sembra una conseguenza della rapina fatta dai genitori. Santo Giacco però non crede a quell’accusa mossa a lui e alla moglie dalla polizia...
“Ma forse avete visto qualche film? Lei non ha nemmeno la patente, nemmeno la bicicletta sa portare”
La casa viene perquisita e Santo a quel punto nota qualcosa che al momento non riesce a spiegarsi...
Però sai, se io avevo fatto la rapina, come dicevano loro, perché vai a prendere le cassette?
Giacco si riferisce a un armadio pieno di videocassette che tiene in camera da letto. Dopo averle notate perquisendo la casa, la polizia gliele aveva sequestrate e portate tutte via.
“Ho detto mah, c’è qualcosa che non quadra. Se ho fatto la rapina che c’entrano le videocassette?
Ma videocassette di cosa?
Allora, siccome io c’ho un casino di videocassette di Ercole, Maciste, guerrieri, quella roba lì, prendono tutta la roba e ci portano in caserma.”
La coppia viene divisa.
Live Maria: “A lui lo chiudevano dentro a una camera, a me dentro a un’altra. Volevano sapere chi è che lavava la bambina. Facevo io “la lavo io la mia bambina. C’ho sei figli...”
Live Santo: “Cominciano a dire “sua moglie lascia da solo in casa con la bambina…” Gli ho detto venite in conclusione, cosa volete?”.
I Giacco vengono informati che in realtà non c’è mai stata nessuna rapina, era solo una scusa per portarli in caserma senza problemi. Il vero motivo per cui sono lì è che c’è il forte sospetto che Margherita, la loro figlia più piccola, abbia subito degli abusi sessuali. E c’è il forte sospetto che li abbia subiti da una persona depravata all’interno della loro famiglia. Mentre parlano, i poliziotti usano spesso un termine che Santo e Maria non hanno mai sentito.
“Pedofono, pedofono, che io facevo: “che è questa cosa pedofono”?
E’ la prima volta che sento questa parola, pedofonia. Cos’è la pedofonia? Mi dicevano: quando uno violenta i bambini. Violenta i bambini? Io so che la chiamavano maniech…”
Qualche ora dopo, i Giacco tornano a casa, frastornati. Margherita però non è con loro. Non sanno dove sia, non sanno con chi sia. E soprattutto, continuano a non capire cosa possa essere successo.
“Io andavo tutti i giorni ai servizi sociali, facevo delle urla…
Loro mi dicevano “signora finché non ci arriva l’avviso non possiamo fare i collochi”
“Quindi non sapevate perché era stata portata via?” “No, niente”
La Procura di Modena, nel frattempo, chiede che la bambina venga portata in visita da una dottoressa di Milano. Cristina Maggioni, la stessa che ha già visitato le due vicine di casa di Mirandola, Elisa e Marta. L’esito della visita è lo stesso: vengono riscontrati segni di abusi.
Margherita viene subito portata in una casa famiglia nei pressi di Reggio Emilia. E qualche mese dopo, a giugno, i suoi racconti daranno conferma della diagnosi della Maggioni. Il papà e la mamma la portavano spesso in un bar di Finale Emilia. La bambina restava lì, a volte da sola, ad aspettarli. Finché un giorno un uomo che non riesce a identificare la porta nel bagno. E i tuoi genitori dov’erano? E’ successo solo quella volta? Margherita ancora non ricorda. Fa fatica a parlarne. Valeria Donati cerca di spronarla, di aiutarla. Proprio come aveva fatto con Dario e Marta, riuscendo finalmente ad avere racconti precisi e dettagliati. Qualche mese dopo essere stata portata al Cenacolo Francescano, anche Marta infatti ha iniziato a parlare. La bambina ha saputo che la mamma Francesca si è suicidata e inizia a parlare di lei. Non era stata una brava madre. L’aveva venduta a dei maniaci sessuali a Massa Finalese e a Mirandola. E non solo a loro, ma anche al loro vicino di casa, Federico Scotta. I racconti si arricchiscono, seduta dopo seduta. Sono dettagliati, precisi, ricchi di particolari. La bambina sta prendendo coraggio. Si sta piano piano aprendo. Sta svelando i segreti di quel mondo oscuro e diabolico e dei suoi adepti. Sì, c’era anche lei nei cimiteri assieme a Dario e alla piccola Elisa. Sua mamma Francesca ce la portava di notte e offriva il suo corpo ad altri uomini e donne travestiti da animali. Marta racconta di aver visto anche dei cadaveri dissotterrati. Non capisce a cosa serva tutto questo. Ha paura. Poi si chiude e non riesce più ad andare avanti nei racconti. Valeria Donati le dà del tempo e si concentra su Dario e su Margherita, la figlia dei Giacco. Finché quest’ultima fa un passo in avanti: ad abusare di lei non c’era solo quell’uomo misterioso nel bar di Finale. C’era anche suo padre, Santo. I bambini che accusano i genitori sono 3 su 5. Elisa e Nik Scotta d’altronde sono troppo piccoli per parlare ed essere ritenuti credibili. Ma Dario, Marta e Margherita lo sono. E così anche la famiglia Giacco si ritrova nei guai.
Live Antonella: Poi quando ha sentito “pedofilia”, come cazzo si dice quella parola, mio padre è crollato. Ma è crollato perché si è sentito sporco.
Live Giacco: Tu hai mai messo le mani addosso a tua figlia? Chiedilo a lei. Chiedilo a lei.
No, io lo chiedo a te voglio una risposta da te.
A tutti i miei figli devi chiedere che padre sono stato e basta. Lo chiediamo ad Antonella
Live Antonella: Come vi trattava vostro padre? Da dio. Tanto che ci teneva, che gli dava fastidio anche se andavamo in bagno con la mamma...se andavamo in bagno in due...perché ci teneva all’onestà.
Live Santo: io sai che dicevo? Non vi permettete perché vi stacco la testa. Deve andare uno alla volta nel bagno. O se maschio o se è femmina. Veniamo di Afragola, un paese di merda. Un paese che i nostri padri, i nostri genitori, i nostri nonni, c’hanno imparato che l’educazione come si deve, coi figli e coi cugini e con tutte le famiglie. E io mi permettevo di fare una cosa così? Ma io mi buttavo sotto a un treno! Che poi queste cose qua non mi venivano proprio. Non li capivo nemmeno. Sui miei figli? Ma stiamo scherzando? Stiamo parlando dei figli, non stiamo parlando delle formiche.
Santo Giacco non viene creduto. Sei mesi dopo l’allontanamento di Margherita, i carabinieri lo vanno a prendere a casa. Hanno un mandato d’arresto. I racconti della figlia lo dipingono non solo come un abusatore seriale, ma anche come il capo della setta che porta i bambini ai cimiteri. Per lui si aprono le porte del carcere.
Live Antonella: Poi quando è successo il fatto che hanno portato via mio padre, lì dopo siamo andati in panico. Poi dopo hanno cominciato a venirgli le crisi …
A chi?
A mia mamma.
Che crisi?
Crisi che noi ci credevamo che era uscita fuori di testa.
Addirittura una volta ho dovuto chiamare l’auto-ambulanza e le abbiamo dovuto mettere la camicia di forza.
Eh perché avevano portato via mia sorella, avevano portato via mio padre, poi dopo tutto all’improvviso abbiamo cominciato a vedere che incominciavano a venire gente e portavano via i mobili, portavano via questo...ci siamo trovati una cosa…
Ma tu dici le forze dell’ordine che venivano a perquisire?
No no no, quelli che dovevano avere i soldi da mio padre, che poi mio padre in casa non c’era più in casa, noi non riuscivamo a pagare e quindi ci siamo ritrovati tutto addosso e lei è andata in crisi.
Live Maria: Io non sapevo più cosa dovevo fare, cosa mi stava succedendo, ero diventata pazza. Io volevo mia figlia e mio marito. Volevo sapere cosa era successo.
In carcere i Galliera, Maria Rosa Busi, Alfredo Bergamini, Federico Scotta e Santo Giacco si fanno la stessa domanda.
Live Santo- Federico: Io mi so trovato in carcere, non so perchè...La cosa più brutta è quando ti senti chiudere le porte del carcere, che lasci un mondo per entrare in un altro mondo. Dove, in quel mondo, i detenuti giudicano loro stessi la persona con la quale hanno a che fare. I carcerati lo sai quando c’hanno a uno per questa cosa qua, ti fanno un culo così... Certamente non è stato un bell’entrare. Allora c’ho spiegato un pò la storia, poi i carcerati non so stronzi...ti vedono in faccia le persone, dice noo…Federico Scotta comincia a convincersi che dietro a questa operazione di caccia ai pedofili in realtà c’è solo un disegno ben più subdolo, che vede la complicità di psicologi, assistenti sociali e giudici.
A Santo Giacco vengono gli stessi dubbi. E’ un prete a mettergli la pulce nell’orecchio. C’era un sacerdote nel carcere, la domenica veniva…. ha detto Santo ci credi che quanti bambini che prendono dalla mattina alla sera, per fare un commercio sui bambini…pagano 300 euro al giorno, è tutto un business di soldi.
Ok. Ma può essere successo davvero? Cos’hanno fatto Santo Giacco e Federico Scotta ai loro figli?
Oggi Scotta ha 42 anni. Fa la guardia giurata e vive a Bologna, dove condivide un piccolo appartamento con degli studenti. Ha divorziato dalla moglie thailandese e non ha idea di dove siano i figli… Dopo 20 anni, 12 dei quali passati in carcere, continua a negare ogni accusa e a proclamare la propria innocenza e quella di tutti gli altri imputati.
LIVE SCOTTA: Hai mai fatto niente di quello di cui sei accusato? No assolutamente no...mai.
Conosci persone che possano aver fatto queste cose? Per quello che ho avuto modo di vedere io secondo me no.
LIVE SCOTTA: Il non avere un figlio o il non avere più i figli non è quell’espressione costruita, cioè è un qualcosa che sei vivo ma sei morto dentro. L’espressione, la tristezza che avevano negli occhi non era da attori….
Esco dalla casa di Federico Scotta, e risalgo in macchina. Insieme a me c’è Alessia Rafanelli, la co-autrice di Veleno. Restiamo in silenzio per un po’, ma nella testa ci stiamo facendo le stesse domande. L’uomo con cui abbiamo appena parlato...è davvero un pedofilo? Uno che violenta i bambini? I suoi, per giunta? E soprattutto: è un qualcosa che riesci a capire guardandolo semplicemente negli occhi? E’ un dilemma senza senso. Ma dopo aver passato alcune ore con uno accusato e condannato per quella robaccia non riesci a non pensarci.
LIVE MACCHINA PABLO- ALESSIA: Che dici? mmmm...Io non direi mai che è un pedofilo...Semplicemente quella persona che vedi non è la persona che hanno descritto le carte… Se ha fatto quello che dicono è un attore da premio Oscar, da premio Oscar.
Torniamo nello studio di Valeria Donati, a Mirandola. Dario è di nuovo di fronte a lei, per l’ennesimo colloquio. E’ il 29 ottobre del 1998. Il bambino sta per fare una rivelazione che scatenerà il panico. Poco prima di essere allontanato dalla sua famiglia naturale, suo padre Romano, durante un rito satanico in un cimitero, gli aveva messo in mano un coltello e lo aveva guidato nell’uccisione di un bambino. I cimiteri da semplici luoghi di una squallida messa in scena da parte di un gruppo di pedofili, diventano teatro di omicidi. E a confermare le parole di Dario, poco dopo, arrivano anche i ricordi di Marta e Margherita. Gli incappucciati uccidono bambini di tutte le età e loro sono costretti a guardare e a partecipare. Si parla di sevizie e torture orribili, di traumi indelebili per questi piccoli, che hanno solo fra i sette e i nove anni, ma hanno già visto com’è l’inferno. Il livello di attenzione all’interno dei Servizi Sociali, del Tribunale dei Minori e della Procura è altissimo. I giornali di zona e le trasmissioni televisive non parlano d’altro.
LIVE TRASMISSIONE TV SU DON GIORGIO. Ma chi era dunque questo Don Giorgio Govoni, che i pubblici ministeri hanno ritenuto capo della setta di pedofili...59 anni, parroco a Massa Finalese, a Staggia, San Biagio, prete camionista che aiutava i poveri...uomo chiave dipinto come regista di riti satanici nei cimiteri dove i bambini sarebbero stati violentati, chiusi in piccole bare e filmati. Nessun bambino è più al sicuro. Neanche i quattro figli di una maestra d’asilo.
LIVE LORENA: Il 12 novembre del ‘98, alle cinque del mattino suonano al campanello. Signora non si spaventi è la polizia, genitori incapaci, non avete vigilato sui vostri figli, li avete fatti uscire con i diavoli al cimitero...mi guardavano con gli occhi enormi.. E poi io li ho guardati un’ultima volta.
TRASCRIZIONE EPISODIO 4
I personaggi dell'Episodio 4: Don Giorgio Govoni, Il parroco accusato da Dario e poi dalle bambine; Cristina Morselli, Bambina allontanata; Lorena Covezzi, Madre dei 4 bambini portati via.
Neve a Ferragosto. Live Don Giorgio: Non lo so... io dichiaro che sono non solo innocente, ma completamente estraneo ai fatti… Dopo, tutto il resto, pensateci voi a pensare a cosa può essere capitato, io non lo so. E’ una cosa talmente assurda...Questa è la voce di Don Giorgio Govoni, il parroco nell’occhio del ciclone perché identificato dai bambini della Bassa Modenese come capo della setta di pedofili satanisti.
Live giornalista: Perché ce l’hanno con lei? Fuori microfono secondo lei, al di là dell’intervista… perché lei è preso come capro espiatorio? E’ il 19 maggio del 2000 e una giornalista locale lo raggiunge mentre sta salendo sul suo Fiorino. Indossa una maglietta bianca, ha l’aria dimessa e lo sguardo rassegnato.
Live Don Giorgio: Io non so cosa… cosa possa essere capitato comunque... la giustizia vincerà, lo spero…
Subito dopo Don Giorgio si infila in bocca un sigaro e accende il motore per andare dal suo avvocato Pier Francesco Rossi. La Procura di Modena ha appena chiesto per lui una condanna esemplare: 14 anni di carcere. Il prete percorre i 23 km che lo separano dallo studio legale. Lo fanno accomodare in sala d’attesa. Ma sembra avere qualcosa che non va. L’avvocato Rossi è occupato in un’altra stanza, quando sente un tonfo provenire da dietro alla porta.
Live Avv. Rossi: Ho sentito un urlo, un rantolo, mi hanno chiamato... Era steso per terra, aveva avuto un infarto. E ’ morto tra le mie braccia. La scomparsa improvvisa di Don Giorgio ha l’effetto di un terremoto.
Live giornalista studio: Don Giorgio Govoni muore nello studio del suo avvocato, muore d’infarto, dopo avere gridato per l’ultima volta la sua innocenza...
Trasmissione TV su Don Giorgio: I parrocchiani in lacrime hanno applaudito a lungo l’uscita del feretro, da loro ancora parole di dolore, di rabbia e di sdegno.
Trasmissione TV su Don Giorgio - live parrocchiani:
Live donna: Lo ricorderemo come un signor parroco
Live donna: Con tanto amore, tanto affetto… sarà il primo martire… sì, sarà il primo martire!
Live uomo: E’ un brutto lavoro questo qui. Ammazzare un cristiano...l’hanno ammazzato questo qui!
La Bassa Modenese si mobilita, organizzando cerimonie funebri in 4 parrocchie diverse.
Live parrocchiani
Live donna: Non ho parole…
Live donna: Ma come può essere nata una cosa del genere?
Live donna: Chissà se è stata una cattiveria, una calunnia…
Ma per i bambini, gli assistenti sociali e la Procura non ci sono dubbi. Era lui a dirigere i riti all’interno dei cimiteri, con la sua tunica. Era lui a ordinare gli omicidi di piccole vittime provenienti da un’oscura tratta di esseri umani.
Era lui a caricare i corpi sul suo furgone bianco. Chi era davvero quest’uomo? Un santo, come lo descrivono i suoi parrocchiani? Oppure un demonio?
Don Giorgio Govoni era un prete un po’ atipico. Non era un semplice sacerdote, ma un punto di riferimento per l’intera comunità. Era nato a Dodici Morelli, nella campagna ferrarese, nel 1941. All’età di 25 anni aveva preso i voti, ma nel frattempo lavorava anche nella piccola azienda di autotrasporti di famiglia, che portava avanti dopo la morte del padre.
Il prete camionista. Tutti lo ricordano come un uomo del popolo, che fumava il sigaro, amava le trattorie e conosceva i problemi della vita quotidiana dei suoi parrocchiani. Nel 1989 aveva fondato un’associazione, “Il Porto”, per aiutare le famiglie in difficoltà. E tra queste c’era anche quella dei Galliera, alla quale subito dopo lo sfratto aveva trovato il casolare di Via Abba Motto, quando il piccolo Dario era stato ospitato dalla vicina di casa Oddina e da suo marito, Silvio.
Live Silvio: … Don Giorgio era formidabile, anche troppo bravo… quando c’era lui qua la chiesa era sempre piena, hai capito, tutti i giovani stavano con lui… no no no… se tutti i preti fossero così... Per trovare Don Giorgio dovevi andare ‘Dalla Marta’, una trattoria storica circondata dai campi non lontano da San Felice sul Panaro, che da 55 anni propone ai clienti lo stesso menù.
Live Marta: Maccheroni al pettine con la carne da salame, gramigna con la costina, tortellini in brodo… son tutti quei piatti che andavano una volta, però va altrettanto il minestrone, fatto come una volta, mica con le polveri eh...Marta era come una seconda madre per Don Giorgio.
Live Marta: Veniva la mattina a fare colazione, a mezzogiorno, a pranzo, a cena, alle dieci alla sera a prendere un po’ di latte e caffè… Insomma, era la sua canonica. Non ho mai visto Don Giorgio mangiare un pasto intero, perché allora era il boom dei marocchini, venivano “Don Giorgio io, Don Giorgio io...” e lui poverino diceva “se manca della pasta, Marta gli dia il mio piatto, che io mangio questa sera”. Nessuno, tra le tante persone che abbiamo incontrato nella trattoria di Marta e nei piccoli bar della Bassa Modenese, ci mai ha detto di aver creduto alle accuse che gli erano state rivolte.
Live uomo: Una persona che per vent’anni, tutti gli anni, ha portato su dei bambini a fare le cure su in montagna, ma è possibile che in vent’anni se veramente era... faceva quelle cose lì, nessuno mai ne ha parlato… per vent’anni? Poi dopo in due mesi è saltato fuori tutto sto disastro? Io non ci credo ecco...
Live Pablo: Ma non hai mai creduto neanche alla storia degli abusi sessuali?
Live uomo: E’ come se domani tu mi dicessi che nevica in Ferragosto. Può capitare, ma è quasi impossibile.
Eppure nel 1998 i piccoli Dario, Marta e Margherita con i loro racconti svelano l’altra faccia di quest’uomo: un maniaco depravato, un manipolatore, un assassino. Non ci era voluto molto per tracciare il suo identikit. Tutti i dettagli riferiti dai piccoli erano conformi alla sua descrizione. Un uomo di media statura, con i capelli grigi, gli occhiali, un po’ sovrappeso, che portava degli stivaletti coi tacchi. Il 10 luglio, la polizia irrompe nelle parrocchie di Staggia e San Biagio per una perquisizione, e analizza il suo computer. Nella cronologia ci sono tre ricerche che fanno pensare: bimba, hard, amici dei bambini. Nella canonica, l’ispettore di polizia di Mirandola, Antimo Pagano, trova anche degli stivaletti da uomo con i tacchi, molto simili a quelli descritti da Dario addosso al famoso prete che guidava le messe nere. E infine un libro che parla di satanismo. Un bel guaio. Don Giorgio finisce nel registro degli indagati. Non passerà molto tempo, prima che per lui, la famiglia Galliera, gli Scotta, i Giacco e gli altri, cominci un processo che farà discutere per anni a venire. Secondo la Procura modenese, il parroco e la banda si erano mossi in tre diversi cimiteri, individuati grazie alle descrizioni dei bambini: quello di Massa Finalese, quello di Finale Emilia e quello di Staggia, proprio la frazione in cui viveva il sacerdote. E qui però, ci troviamo di fronte a un grosso mistero. Perché tra gli abitanti della zona interpellati dagli inquirenti, nessuno aveva mai visto gruppi di adulti e bambini aggirarsi intorno ai cimiteri in orari strani. Nessuno. Alessia ed io siamo andati a dare un’occhiata. E’ una giornata di sole.
Live Pablo: Allora, siamo a Massa Finalese e lì più avanti c’è il cimitero…
Live Alessia: Pieno centro abitato... c’è anche il baracchino dei fiori
Il fiorista si chiama Davide, è un uomo alto, robusto, in paese lo conoscono tutti. Lui e suo padre fanno questo lavoro da sempre.
Live Davide: 35 anni, dall’82 siamo aperti, quindi...
Live Pablo: Quando hai sentito per la prima volta questa storia, cosa hai pensato?
Live Davide: Né mio padre né io ci siamo mai accorti di niente di strano...Perché il cimitero è a cento metri dalla piazza, quindi… c’è molta gente che passa anche, gente che vede...
Ed effettivamente quando ci avviciniamo c’è qualcosa che subito non ci torna. Vi ricordiamo che i bambini hanno raccontato che venivano portati qui a gruppi, a tarda sera. A volte era Don Giorgio ad aprire, con un mazzo di chiavi. Altre volte però, per entrare, erano costretti a scavalcare l’alto cancello d’ingresso, che è proprio sulla strada che entra in paese. Live Pablo: Adesso siamo all’ingresso del cimitero, vi facciamo sentire quanto sono vicine le macchine che passano qui di fronte… (rumore auto) ne sono passate due a cinque metri da noi. E’ molto difficile che un gruppo di persone assieme a dei bambini entri qui la sera senza essere notata da nessuno. Effettivamente c’è un ingresso secondario. Entriamo da lì. Questo luogo non ha niente di diverso da un qualsiasi cimitero di provincia. Ghiaia, alberi e tante lapidi con i cognomi della zona che si ripetono.
Live Pablo: E ’ veramente piccolo!
Live Alessia: E soprattutto non è coperto, quindi perfettamente visibile.
I cimiteri sono frequentati sempre dalle stesse persone. Alcune ci vengono tutti i giorni. Qualsiasi variazione, cambiamento o dettaglio fuori posto viene notato immediatamente. Eppure i bambini avevano raccontato di sacrifici umani, di sangue, e di satanisti che disseppellivano cadaveri. Possibile che nessuno la mattina dopo si sia mai accorto di nulla? Proprio accanto all’ingresso secondario, c’è un altro negozio di fiori. E’ chiuso, ma sulla porta c’è il numero della fiorista, Manuela. Chiamiamo.
Live Manuela: Lì dentro non è mai stato visto qualcosa di strano o di particolare. Mai. Ripeto: mai.
Manuela lavora al cimitero da parecchi anni. Ormai è quasi un’esperta anche di tecniche di sepoltura. Secondo lei, preparare un buco per una bara a due metri di profondità, nel cuore della notte, con una semplice vanga non è un gioco da ragazzi, specie in alcune stagioni dell’anno, quando il terreno è bagnato o duro come la roccia.
Live Manuela: Devi aprire il coperchio, tirar fuori la salma, allungarla su in alto. E’ un movimento di terra di due metri di profondità per due metri di lunghezza. Perché è fatica fisica. Persone non competenti, che devono fare magari una cosa anche un po’ alla svelta… è tecnicamente impossibile. Scusa il termine ma per me è una grossa cagata. Punto. In più, la mattina dopo si sarebbero dovute vedere tracce dei rituali, come grossi cumuli di terra smossa, che qualcuno avrebbe dovuto notare. Custodi, fioristi, parenti dei defunti, poliziotti… Nulla.
Ci spostiamo al cimitero di Finale Emilia, a sette chilometri di distanza. Se vi ricordate, all’inizio di questa serie vi abbiamo fatto ascoltare la cassetta con la voce di una bambina che, durante le indagini, viene portata proprio qui, per un sopralluogo. E’ Margherita, l’ultima figlia dei Giacco, la famiglia campana di cui vi abbiamo parlato nella terza puntata. Suo padre Santo era finito da poco in carcere, accusato di pedofilia.
Live Santo: E’ la prima volta che la sentivo sta parola... che sentivo questa parola “pedofonia”...
Margherita - voglio ricordarvi che abbiamo modificato il suo vero nome, come quello di tutti i bambini di questa serie - era stata portata via da casa da circa un anno, e dopo alcuni mesi di colloqui con le psicologhe dell’ASL aveva iniziato a parlare.
Live Margherita: Poi là in fondo c’è il castello…
Live Claudiani: … là in fondo c’è il castello…
Era una bambina molto precisa, che ricordava tutto, anche la strada che faceva per arrivare al cimitero.
Live Margherita: Sì sì, c’è una stradina che si va a piedi...
Nella registrazione che state sentendo è in macchina; seduto vicino a lei c’è il PM che si sta occupando del caso, Andrea Claudiani...
Live Claudiani: Senti ma tu qua non ci sei più venuta…… con lui il commissario di polizia che sta seguendo le indagini, Antimo Pagano...
Live Claudiani: Dove siamo ispettore Pagano?
Live Pagano: Siamo fra Pavignane e Massa Finalese, mancano 3 km… e c’è anche la psicologa dell’ASL Valeria Donati...
Live Donati: Ti ricordi il patto eh, quando non vuoi più che hai paura, lo devi dire… altrimenti noi non possiamo capire...
Dopo qualche chilometro, raggiungono il cimitero di Finale Emilia, che si trova lungo un viale alberato, a pochi minuti a piedi dal centro. La bambina indica agli adulti il punto da cui lei e gli altri entravano.
Live Claudiani: ...questo ingresso qui?
Live Margherita: Sì...
Questa conversazione avveniva nel 1999, 18 anni fa, esattamente dove ci troviamo io ed Alessia in questo momento. Da qui si ha una bella panoramica del complesso. Questo è un cimitero è decisamente più grande di quello di Massa Finalese. Superato il colonnato grigio all’ingresso c’è un vialetto che, attraverso un prato pieno di lapidi, conduce alla zona coperta dei loculi. Margherita non se l’era sentita di entrare, e aveva preferito restare in macchina, da dove aveva indicato dei punti che ricordava bene.
Live Margherita: Quel pratino…
Live poliziotto: Quel?
Live Margherita: Pratino… Lì se mi ricordo bene hanno scavato dei bimbi e hanno messo dei bambini...
Il problema è che nel pratino che lei indica non è mai stato trovato nulla. E soprattutto qui intorno è pieno di case.
Live Pablo: 1,2,3,4,5,6,7 case che guardano il cimitero... C’è una casa rosa praticamente a 10 metri
Live Alessia: Le finestre di quelle case danno dentro al cimitero...
La casa rosa fa parte di un piccolo complesso di abitazioni, circa 7 o 8 appartamenti. Nel cortile comune incontriamo alcuni condomini. Ci dicono che la proprietaria è la signora Federica e ci portano da lei.
Live case
Live Erica: Federica sono l’Erica! Scusa se ti disturbo!
Live Federica: No, niente!
Live Pablo: Buongiorno signora!
Live Erica: Questi signori sono della televisione...
Live Pablo: Della radio in realtà
Live Federica: Mamma mia, son messa da….
Live Pablo: No della radio, della radio, siamo della radio, non si preoccupi, può restare con i bigodini in testa…
Live Alessia: E ’ uguale...
Live Federica: Oddio mamma mia...
Live Pablo: Posso chiederle, dalla sua casa, da casa sua si vede il cimitero?
Live Federica: Sì, da sopra
Federica ci fa entrare.
Live Pablo: Allora, adesso siamo a casa della signora Federica che abita…che ha la casa che guarda dentro al cimitero e stiamo vedendo se dalla finestra si vede qualcosa.
La camera da letto si affaccia su una distesa di lapidi.
Live Pablo: Eh la miseria, lei proprio...
Live Alessia: Ha una vista!
Live Pablo: Da qui si vedono le tombe, cos’è, saranno 30 metri… 20 metri
Live Federica: Sì, sì!
Live Alessia: Ma questa casa quindi nel 1997 c’era... c’era già?
Live Federica: Siiiii… avoglia!!
Live Pablo: Quindi diciamo che se qui fossero entrate delle persone incappucciate di sera a fare dei riti satanici con delle torce? Lei qua da camera sua...
Live Federica: Con delle torce? Ma sì… li avrei visti!
Live Pablo: Lei li avrebbe visti?
Live Federica: Non ho mai visto niente!
Eppure da qui si vede tutto. E probabilmente si sente anche tutto. Facciamo una prova. Alessia scende giù e torna nel viale centrale del cimitero. La vediamo benissimo.
Live Federica: E ’ là la ragazza… vede… ecco...
Live Alessia: Ciao!
Live Pablo/Federica: Ciao!
Live Pablo: Sì, io la sento perfettamente
Live Federica: Ma Dio, anch’io…
Alessia non sta urlando. E se la sua voce arriva forte e chiara alla finestra di Federica in pieno giorno, pensate cosa avrebbe dovuto sentire nel silenzio della notte.
Live Pablo: Ma le sono mai venuti a chiedere, Polizia o Carabinieri, se ha mai visto qualcosa?
Live Federica: Mai. Mai, mai mai….
Live Pablo: No, è impossibile però, scusi….
Live Federica: E’ la prima volta. Mai nessuno, è la prima volta che qualcuno mi chiede qualcosa.
Live Pablo: E ’ pazzesco...Come mai non sono andati a chiedere né a lei né ai suoi vicini? Se una persona venisse uccisa di notte in mezzo alla strada i primi a cui sarebbe logico chiedere informazioni sarebbero proprio gli abitanti delle case intorno… Avete notato niente di strano? Sentito urla? In questo caso, no. Nessuna domanda. E nessuna prova, se non i racconti dei bambini. Dettagliati è vero, ma comunque solo racconti. E dire che le forze dell’ordine e la Procura avevano lavorato in maniera meticolosa, senza tralasciare nulla. Avevano battuto a tappeto cimiteri, campagne, ruderi abbandonati. L’avvocato Pierfrancesco Rossi ricorda che quando una bambina aveva raccontato di cadaveri gettati nel fiume Panaro, vicino al cimitero di Finale Emilia, le ricerche si erano concentrate lì.
Live Avv. Rossi: E quindi dragarono il fiume, spendendo allora mi sembra 90 milioni di lire, una cosa del genere, per non trovare niente. Niente. Niente, a parte un teschio… ma risalente alla Seconda Guerra Mondiale.
E di nuovo: 90 milioni per dragare un fiume, e non vai a chiedere a chi, dalla finestra di camera sua, vede il cimitero?
No. Perché la Procura di Modena, la polizia, il responsabile dei Servizi Sociali di Mirandola Marcello Burgoni, e la psicologa Valeria Donati sono assolutamente convinti che le testimonianze dei bambini siano credibili. Perché dovrebbero mentire?
In più sul computer del prete, che tutti indicano come il capo della setta, c’è traccia di ricerche sospette. Gli stivali ci sono, così come ci sono gli occhiali di cui parlano i piccoli. L’ispettore Antimo Pagano, nel corso delle sue indagini, scopre oltretutto che il parroco è anche un assiduo frequentatore di locali malfamati della zona, ritrovo di prostitute e camionisti. Tutto torna. Le prove degli omicidi dovranno pur venir fuori. E’ solo una questione di tempo. E’ l’estate del 1998, in paese non si parla che del giro d’Italia appena vinto da Pantani, dell’ondata di caldo anomalo, e del parroco, e la sua banda di pedofili. In quel periodo, un’altra bambina viene allontanata dalla famiglia su ordine del Tribunale dei Minori. La sesta, dopo Dario, Elisa e il suo fratellino Nic, Marta e Margherita. Il suo impatto sulla sorte di Don Giorgio e di molte altre persone sarà devastante. La bambina si chiama Cristina Morselli. E’ la figlia di Giuliano e Monica, che vivono appena fuori dal paese, in campagna. Lui è un operaio, lei fa la casalinga. E’ una famiglia con non pochi problemi. Monica, la madre, soffre di una grave forma di schizofrenia, ha frequenti attacchi epilettici, e non riesce a prendersi cura di Cristina e del fratellino, che ha solo un anno. La piccola Cristina, oltretutto, è già seguita dal servizio di neuropsichiatria dell’ASL di Mirandola, per una difficoltà di apprendimento riscontrata a scuola. Giuliano racconta che non ha un buon rapporto con la psicologa che segue sua figlia. Anche perché da un po’ di tempo Cristina, quando è a casa, fa dei discorsi inquietanti, e usa dei termini strani come “allontanamento” o “famiglia affidataria”. Finché, una mattina, Giuliano riceve la telefonata di un’assistente sociale.
Live Giuliano: Mi chiama verso le 9 di mattina e mi dice “Giuliano dovresti venire qui a Mirandola, te e tua moglie a firmare delle carte, insieme alla bimba”. Allorché la bimba era in casa, ha sentito la telefonata, ha nasato la foglia perché gli avevano già parlato di eventuali allontanamenti in altre famiglie, e si era nascosta sotto il letto, e non voleva più uscire.
Live Pablo: E tu a quel punto come hai reagito?
Live Giuliano: L’ho tirata per un piede, lei si è aggrappata al letto sotto e non è voluta uscire. L’ho presa per una mano e ho tirato e... è uscita... però piangeva, e ormai piangevo anche io.
Giuliano, che ha capito quello che sta per accadere, preferisce però non creare problemi e porta loro la bambina, fiducioso che la situazione si risolverà in poco tempo. Quello che ancora non sa è che sua figlia, nelle settimane precedenti a quella telefonata, ha detto agli assistenti sociali che lui e la mamma le fanno delle “cose brutte”. Dopo l’allontanamento la bimba viene visitata dalla dottoressa Maggioni di Milano, la stessa ginecologa che aveva riscontrato segni di abuso nelle altre bambine coinvolte. E anche in questo caso l’esito della visita non lascia dubbi: Cristina ha subito violenze. Le psicologhe cominciano a scavare nei suoi ricordi e la piccola, piano piano, inizia ad aprirsi. E’ l’intera famiglia ad abusare di lei. Il nonno paterno, i genitori e gli zii che inoltre, secondo i suoi racconti, tutte le notti la costringono anche ad assistere a sacrifici di gatti, e poi la rimettono a letto. Anche questa volta, non passa molto tempo prima che la memoria di Cristina lasci le mura di casa, attraversi strade buie, e si fermi davanti al cancello di un cimitero. “Quale?” le chiedono le psicologhe. Cristina non ha dubbi, quello di Massa Finalese. Sarà la bambina che in assoluto descriverà le scene più atroci. Dirà che Don Giorgio, dopo i rituali, portava via cadaveri di neonati sul suo furgone bianco. Ecco il suo verbale: “Ce li facevano buttare in aria, loro cadevano e poi li mettevano in un telone, facevano colare il sangue dei bambini e ce lo facevano bere. Poi dopo. ci hanno detto che eravamo figli del diavolo perché avevamo commesso un omicidio. Poi io una volta ho ucciso con un coltello un bambino piccolo. Anche mio padre lo teneva e io gli piantavo un coltello nel cuore.” Cristina descrive una scena piena di maschere di diavoli e vampiri, proprio come avevano fatto Dario e Marta. Ormai sembra tutto fin troppo chiaro. La psicologa, poi, le fa un’ultima domanda: “Ti ricordi chi erano gli altri bambini?” “Sì” risponde Cristina “i miei quattro cuginetti, i figli della zia Lorena”.
Live persone che parlano francese.
Live Pablo: Bonjour, excuse moi, je cherche le Cours ST Barth.
Live uomo: La premiere a gauche.
Alessia ed io siamo in Francia, a Salernes. Stiamo cercando un indirizzo.
Live Pablo: Il due bis dovrebbe essere...
Live Alessia: Due. E ’ questo eh?
Live Pablo: Vedi un po ’ se è questo il citofono… cosa c’è scritto?
Live Alessia: Lorena e Stefano…
Live Pablo: Ok
Siamo venuti a parlare con Lorena Morselli, che vive qui dal giorno in cui, 18 anni fa, è scappata da Massa Finalese. La sua voce l’avete già sentita, era la donna che piangeva al telefono, mentre ci raccontava l’alba del 12 novembre 1998, quando i suoi figli, i cugini di Cristina, le vennero portati via.
Live Lorena telefonata:
Pablo: Quanti anni avevano i tuoi figli?
Lorena: 11, 9, 7 e 3… e poi dopo io li ho guardati un’ultima volta…
Ora Lorena abita in un appartamento al primo piano a due passi dal centro storico di questo paesino della Provenza.
Live Lorena: Vous etes arrivée...
Live Pablo: Nous sommes arrivée… Buonasera, bonsoir…
Live Alessia: Buonasera Lorena
Live Pablo: ça va?
Lirena: ça va, ça va, ça c'est bien passé?
Live Pablo: Oui, très bien
Lorena: Très bien? C’est long, c’est long. Allez... Accomodatevi.
Con lei vive anche il suo quinto figlio.
Live Lorena: Stefanoooo
Live Pablo: Stefano… come stai? Piacere.
Live Stefano: Come state? Buon viaggio?
Live Pablo: Tu l’italiano lo parli bene?
Live Stefano: Sì sì lo parlo!
Live Pablo: Parli meglio l’italiano o il francese?
Live Stefano: Meglio il francese…
Lorena stravede per lui. E’ l’unico figlio che le è rimasto. Lorena Morselli è nata nel 1959 a Massa Finalese, da una famiglia molto cattolica e numerosa. Lei è la prima di 5 figli.
Live Lorena: Sognavo di diventare maestra, sognavo di avere una bella famiglia, di incontrare un bravo ragazzo... Uno come Delfino Covezzi, un ragazzone simpatico della stessa parrocchia. All’inizio solo sguardi timidi e qualche ammiccamento di nascosto, poi...
Live Lorena: Ci siamo parlati, ci siamo fidanzati e poi abbiamo deciso di sposarci. Al nostro matrimonio c’erano 200 persone, forse anche più, perchè ci volevano bene tutti.
Lorena e Delfino sono la coppia modello del paese. Lui trova lavoro come piastrellista e lei come maestra d’asilo, il suo sogno d’infanzia. Nel 1987 nasce la loro prima figlia. La chiameremo Veronica. Poi arrivano Pietro, Federico ed infine Aurora, classe ’95. Quella della famiglia Covezzi è un’esistenza tranquilla, divisa tra il lavoro e le attività di volontariato nell’oratorio, in un paese in cui non accade mai nulla di rilevante. All’inizio del 1997, però, sulla stampa locale cominciano a circolare voci strane sulla famiglia di Dario, l’ultimo figlio dei Galliera, che in quel periodo era stato allontanato definitivamente. Certo Lorena non si aspettava che presto su quegli stessi giornali sarebbe comparso il nome della sua famiglia. Questa storia inizia a diventare anche la sua quando la nipote Cristina viene allontanata dal padre Giuliano. Lorena si prende in carico la questione e comincia a chiedere spiegazioni ai Servizi Sociali di Mirandola. Chiama, chiede appuntamenti, litiga…
Live Lorena: Vedevo che giravano alla rovescio sta gente. Non erano per il bambino, per la famiglia, erano contro tutto, contro tutti. Al telefono continuavano a dirmi: “Il bambino dice sempre la verità. Il bambino dice sempre la verità”...
Live Pablo: Però non vi dicevano qual era questa verità.
Live Lorena: Niente, non ci davano un argomento. Finché un giorno… Cristina aveva raccontato dei cimiteri. E dei sacrifici. E dei suoi cuginetti, i figli della zia Lorena.
Live Lorena: Era l’11 novembre, era San Martino. Avevamo promesso alla nonna Maria che saremmo andati a mangiare le caldarroste da lei. I miei figli erano contenti perché Delfino aveva rinnovato la macchina. E poi niente, siamo tornati a casa normalmente, la doccia e a letto. Il mattino seguente alle 5 e mezza mia figlia, la più piccola aveva chiesto di fare la pipì. Io ero in cucina per bere un bicchier d’acqua e in quel momento sento suonare alla porta. E dalla porta dico “Ma chi è?”. Hanno risposto “Polizia signora, non tema, apra”.
Sette agenti di polizia sono entrati in casa. “Signora stia tranquilla, svegli suo marito”. Si sono messi in sette attorno al suo letto e quando si è svegliato si è trovato la polizia davanti, sette agenti! “Venite che vi raccontiamo… vi diciamo cosa racconta vostra nipote”. Cimiteri, diavoli, cappucci… la processione, le urla… le tombe profanate. E poi dico “Cosa volete voi?” Ricordo che comunque i bambini in camera cominciavano a bisbigliare. Io sentivo “psst psst psst” e sicuramente a chiedersi anche cosa stesse succedendo in casa con tanta polizia. Beh quando han cominciato a dire ai bambini “Vestitevi, fate colazione e poi venite con noi in commissariato”. Io lì ho capito che c’era qualcosa che non andava. Nello stesso momento, a pochi isolati di distanza, altri agenti stanno mettendo le manette ai polsi del padre e dei fratelli di Lorena, tra cui Giuliano, il papà di Cristina. Anche la moglie Monica viene arrestata. Ovunque in paese le luci delle volanti colorano l’alba di blu. E’ su una di queste macchine, che sale Lorena. Suo marito Delfino la segue sulla loro automobile assieme ai figli ancora assonnati. Dopo una ventina di minuti, il piccolo convoglio raggiunge la questura di Mirandola.
Live Lorena: E lì salta fuori una ragazza che mi dice “Ah ciao Lorena come stai? Stai bene? Oh come sono belli i tuoi bambini! Io mi chiamo Valeria Donati”. Poi ci han detto “I bambini rimangono qui, voi salite, andate a fare una firma e poi dopo vi riaccompagniamo a casa”. E io comunque ne approfittavo di quei pochi minuti che avevo ancora per guardarmi i miei bimbi, perché mi sentivo che succedeva qualcosa di gravissimo. Poi a un certo punto una delle mie figlie, la più grande, ha cominciato a piangere, senza dir niente. E mi guardava con gli occhi sgranati. E io la guardavo. Cercavo di esser serena per rassicurarla. Poi il mio terzo figlio ha guardato la più grande e anche lui ha cominciato a piangere. A questo punto la Valeria Donati ha cominciato a urlare “Sei una mamma cattiva! Vedi? Sei una mamma cattivissima, sei tu che fai piangere i tuoi figli! Tu li spaventi!”. E nel momento del distacco i miei figli sono andati via da me con queste parole nelle orecchie. Nel mio cuore ho detto “Signore io ti affido i miei figli… Li affido a te”.
Quando Lorena e Delfino salgono da soli al primo piano, trovano il responsabile dei servizi sociali, il dottor Marcello Burgoni.
Live Lorena: Con un foglio in mano che era il decreto del tribunale minorile… dunque “voi siete stati genitori incapaci, avete affidato i vostri figli ai diavoli per portarli alla notte nei cimiteri, dunque il Tribunale Minorile decide per loro che siano allontanati e per voi dovete venire a partire da domani ai colloqui al servizio sociale”. Ci siamo guardati io e mio marito… il pianto è cominciato e non è più finito insomma.
A Lorena e Delfino dopo qualche giorno vengono restituite le videocassette che la polizia aveva sequestrato a casa loro.
Live Lorena: Erano le feste a scuola, erano i battesimi, erano… il Carnevale.
Ecco la crudele ironia. Una donna molto religiosa, che ha costruito la sua vita intorno ai valori cristiani, accusata di adorare il demonio. Il 12 novembre 1998 a Massa Finalese non è un giorno qualunque. La notizia che alla maestra d’asilo abbiano portato via i bambini nel cuore della notte, lascia il paese a bocca aperta. Le colleghe di Lorena sono sotto shock.
Live Lorena: Tutti dicevano se ci han portato via sti bambini in classe, ci possono portare via tutta la classe.
Il bilancio di quella nottata è drammatico: assieme ai suoi 4 figli, sono stati allontanati altri due bambini di Massa, e 6 adulti sono finiti in manette, praticamente tutta la famiglia di Lorena. Tutti accusati dalla piccola Cristina. L’unico motivo per cui Lorena e Delfino non sono stati arrestati, è che la nipotina ha raccontato di aver visto nei cimiteri solo i cuginetti, non loro due.
Live Lorena: Nessuno ha capito allora e nessuno capisce oggi cosa sia successo…
I figli di Lorena seguono la trafila di tutti gli altri. Poco dopo l’allontanamento vengono visitati. Le bambine dalla Dottoressa Cristina Maggioni, i maschietti dal suo collega, il Dottor Bruni. L’esito è sempre lo stesso. La gente comincia ad avere paura. Lorena e Delfino improvvisamente sono diventati radioattivi. E radioattiva è diventata anche l’aria che si respira in molte case. I loro amici più stretti non sanno come comportarsi. Questa è Antonella, maestra e volontaria in parrocchia.
Live Antonella: I nostri figli giocavano insieme. Perché tutte le settimane ci si trovava a pregare quindi era anche questo un “stiamo attenti perché standole anche vicino possiamo anche essere sottoposti magari a un controllo diverso”. Qualunque atto poteva essere letto in modo sbagliato e quindi anche solo, non so, fare la doccia o girare per casa in libertà che significa magari anche solo in slip “mi vado a prendere la canottiera in camera, me la sono scordata”, poteva diventare un pugnale che ti veniva all’improvviso…
Questa è Manuela, la fiorista di Massa Finalese.
Live Manuela: E’ questo che ti fa paura, il termine giusto, non capisci quello che sta succedendo...Persone che fino a ieri insieme si faceva il gruppo parrocchiale e si costruivano i carri di Carnevale, domani ti trovi che vengono additati come pedofili. Non esiste. Non esiste. Una maestra d’asilo che accudisce dei bambini e suo marito è al bar del prete, non esiste che siano i violentatori. Cioè non ci credi. Ti spiazza. Spaventa il paese con delle notizie troppo grandi da ascoltare.
La comunità, che prima assisteva passivamente, ora comincia a mobilitarsi. Si organizzano manifestazioni davanti al Tribunale dei Minori e alla Procura, e raccolte firme nelle piazze. Tutti si chiedono: è lecito che a una coppia di genitori vengano tolti i figli in quel modo, sulla sola base delle accuse di una bambina di otto anni? Anche l’onorevole Carlo Giovanardi e il Senatore Augusto Cortelloni, in un’interrogazione parlamentare del 4 marzo ‘99 all’allora Ministro della Giustizia Oliviero Diliberto, si chiedono: “Perché sono stati portati via dei bambini che non hanno mai detto niente, oltretutto figli di genitori che non sono nemmeno indagati?” La notizia non è più solo materia da cronaca locale, ma finisce sui giornali e sulle TV di tutta la penisola. La pressione sul Tribunale dei Minori di Bologna e sui Servizi Sociali di Mirandola aumenta. Ora fate attenzione alle date, perché c’è una strana coincidenza. La risposta del Ministro viene programmata per l’11 marzo. Ma a ridosso di quella data viene richiesta una proroga e si rimanda tutto di una settimana, al 18 marzo. Il 17 marzo però, un giorno prima dell’atteso intervento di Diliberto, a casa della coppia arriva un avviso di garanzia: i due figli più grandi, Veronica e Pietro, che da 4 mesi vivono con le nuove famiglia affidatarie, li hanno accusati di abusi sessuali. Quei bambini che per tutto quel tempo non avevano mai detto nulla, a pochi giorni dalla risposta del Ministro avevano iniziato a parlare. E a raccogliere la loro testimonianza c’era Valeria Donati. Ora la posizione di Lorena e Delfino è cambiata. Quindi la scelta del Tribunale dei Minori di allontanare i loro figli è diventata legittima. La coppia finisce nel gruppo sempre più numeroso di persone entrate nell’orbita della Procura di Modena. Ma proprio in quel momento di confusione e sconcerto succede qualcosa di totalmente inaspettato. Lorena scopre di essere di nuovo incinta.
Live Lorena: E’ stata la mia ancora di salvezza... veramente la gioia, il ritrovarmi mamma, il ritrovarmi un interscambio di amore, di tenerezza...
Ma poco dopo la gioia lascia il posto alla preoccupazione. Partorire lì, dopo tutto quello che è successo, significa rischiare di ritrovarsi gli assistenti sociali anche in sala parto. Esattamente com’era appena accaduto a Federico Scotta e alla moglie, i genitori di Elisa, una delle prime bambine indicate da Dario. Anche loro, dopo l’allontanamento dei due figli, aspettavano un’altra bambina.
Live Scotta: … e come nacque arrivò il signor Marcello Burgoni con il decreto del Tribunale dicendo che doveva tirarla via...
Live Pablo: In ospedale?
Live Scotta: Sì, direttamente, in ospedale.
Lorena a questo punto scappa e ancora incinta, con l’aiuto di alcuni frati, raggiunge Salernes, in Provenza, dove nascerà Stefano e dove i Servizi Sociali non possono farle nulla. La coppia deve ricostruire la propria vita da zero. Lei trova lavoro come donna di servizio. Delfino continua per anni a fare la spola tra la Francia e l’Italia, per seguire le udienze del processo. Fino al 2013, quando viene stroncato da un infarto. La fuga di Lorena è l’ennesimo colpo per una comunità già sconvolta dal coinvolgimento di Don Giorgio Govoni in questa storia troppo difficile da digerire.
Live Antonella: Eravamo impauriti. Perché sapere che una mattina alle 5 puoi essere svegliato dalla polizia e portato in questura, e poi non vedere più i tuoi figli chiaramente è una cosa che ti fa paura, perché come è capitato a loro, se i bambini cominciano a parlare, cominciano a dire “ma io ho giocato con questo, sono con quell’altro” ed escono dei nomi, possono venire a cercare anche te.
Live Manuela: Io sono partita e sono andata dai carabinieri in caserma. Gli ho detto “se ti dovesse capitare di venire a prendere il mio bambino, mi raccomando carica l’arma perché io non te lo do. Tu mi devi sparare”.
Il paese inizia a temere che i mostri non siano il prete, la maestra o i diavoli che di notte vanno nei cimiteri. Forse in giro c’è una minaccia molto più grande per i bambini. Il vero pericolo non arriva con il calare del buio, ma alle prime luci dell’alba.
TRASCRIZIONE EPISODIO 5
I personaggi dell'Episodio 5: Alessandro, Uno dei 16 bambini allontanati durante l'inchiesta.
La strage dei gatti neri. Live video bambini che si sovrappongono Galliera, Romano, Adriana ed Igor, genitori e fratello di Dario, condannati. Federico Scotta, padre di Elisa e Nick, condannato. Giuliano Morselli e sua moglie Monica Roda, padre e madre di Cristina, condannati. Santo Giacco, padre di Margherita, assolto. Lorena e Delfino Covezzi, genitori di Veronica, Pietro, Federico ed Aurora, assolti dopo 16 anni. Don Giorgio Govoni, assolto dopo la morte. Questi sono solo alcuni degli oltre 20 imputati che hanno preso parte al processo "Pedofili della Bassa Modenese". Per ovvi motivi non possiamo raccontarvi la vicenda processuale di ognuno di loro, ci vorrebbero ore, anche perché ci sono stati ben 5 filoni processuali, ognuno con i suoi gradi di giudizio, e quindi rischieremmo di perderci. Per semplificare però diremo questo. Il Tribunale di Modena, inizialmente, aveva identificato due reati diversi: gli abusi sessuali commessi in ambito domestico, e le violenze avvenute nei cimiteri. In primo grado erano stati condannati tutti. Ma i destini si sono divisi quando si è passati al secondo grado. I giudici della corte d’appello di Bologna, infatti, hanno deciso che le accuse di abusi satanici nei cimiteri non reggevano, per totale mancanza di prove, mentre gli abusi domestici erano veri, ma solo in alcuni casi e solo per alcuni imputati. E così, c’è chi ha subito dure condanne ed è finito in carcere, per sei mesi o addirittura per 11 anni, come Federico Scotta. Altri invece sono stati assolti da tutte le accuse, anche se qualcuno - come Lorena - ha dovuto aspettare 16 lunghi anni per sentirsi dire che era innocente. L’idea che ci siamo fatti quindi, dopo aver letto tutte le carte, è che in questo intricatissimo processo, che qualcuno oggi definisce un "colossale pasticcio giudiziario", le condanne e le assoluzioni siano state decise su basi arbitrarie. Infatti nessuno degli adulti ha mai confessato, né accusato gli altri, e non è mai stata trovata nessuna prova che dimostrasse davvero la loro colpevolezza. Nessuna foto, nessun video, nessun testimone. Gli unici pilastri dell’accusa sono stati sempre e solo gli stessi: le parole dei bambini, le visite mediche e le perizie psicologiche. Il destino che però accomuna i genitori - sia condannati che assolti - è che nessuno dei loro 16 figli è mai più tornato a casa.
Live video bambina: Io ho già fatto la mia parte, adesso…… Io ho sofferto, però adesso soffrirete voi…… Cari genitori, voi mi avete fatto del male, molto, e io ho sofferto. Però adesso soffrirete voi…… adesso soffrirete voi....
Penso di aver messo in play questa frase decine di volte e quando la sento, devo dire che mi dà i brividi. Poche parole, formulate da una bambina di solo dieci anni. Quando abbiamo iniziato ad occuparci di questa storia, per mesi quei bambini erano come fantasmi per noi. Di loro sapevamo praticamente tutto. Quando erano nati, le malattie che avevano avuto, i voti che prendevano a scuola, e poi le cose terribili che avevano raccontato nei verbali, ormai vent’anni fa. Ma non li avevamo mai visti né sentiti, a parte le poche frasi dette dalla piccola Margherita sul lato B dell’audiocassetta registrata nel cimitero.
Live Margherita che ritorna: “Lì ammazzavano dei bambini...”
Per il resto quei piccoli erano fatti di carta. Potevamo solo immaginarli. Poi, un giorno, è cambiato tutto. Ero a casa di Giulia, che subito dopo lo sfratto aveva ospitato Dario per alcuni mesi.
Live Dario da piccolo che ritorna: “Ciao amico...”
Vi ho già raccontato di quanto lei e la sua famiglia si fossero affezionati al bambino, nel breve periodo in cui era stato da loro. Quando poi Dario aveva iniziato a parlare di abusi e di cimiteri Oddina, la madre di Giulia, che a Massa Finalese conosceva praticamente tutti, aveva cominciato una sua indagine personale su questa storia. Raccoglieva in modo quasi maniacale tutti i giornali, si faceva fotocopiare gli atti, seguiva le udienze. E cercava nuovi testimoni. Anche lei come altri in paese si era convinta che dietro al processo ai ‘diavoli della Bassa’, ci fosse una seconda verità. Con quell’idea è morta, nel settembre del 2014, e durante la fase finale della sua malattia aveva chiesto alla figlia Giulia di non buttare l’immenso archivio che aveva creato. In un pomeriggio del settembre 2015, esattamente un anno dopo la sua morte, Giulia ci ha aperto la soffitta di casa. Era piena di scatoloni impolverati e faldoni ingialliti. Abbiamo passato più di un’ora a spostare cartoni e a sfogliare documenti che però avevamo già letto. Ma in due scatole non c’erano atti processuali… c’era qualcosa di diverso.
Live Pablo: Scusa e queste cosa sono?
Live Giulia: Sono tutte cassette degli interrogatori che gli assistenti sociali e i pubblici ministeri fanno ai bambini interessati.
Live Pablo: Guarda quante... Cioè lei aveva gli interrogatori dei bambini su cassetta?
Live Giulia: Sì!
Davanti a noi c’erano più di 50 videocassette, ognuna con un’etichetta bianca, con scritta a penna una data e un nome: Marta, Margherita, Cristina, i figli di Lorena...
Live Pablo: E come fate ad avercele voi scusami?
Live Giulia: Non lo so...
Live Pablo: Mamma mia quanta roba!
80 ore di video da guardare, ascoltare e trascrivere. Una mole di lavoro impressionante. Ci sono volute settimane intere e tanti litri di caffè... Alcuni video erano talmente danneggiati da risultare incomprensibili, ma molti altri per fortuna no. Erano incidenti probatori e audizioni, in pratica colloqui registrati che i piccoli avevano avuto con gli psicologi e i giudici, e che erano serviti come prova fondamentale per i processi. E’ stata una svolta, totalmente inaspettata. Incisa su quei nastri c’era una verità che ha messo in discussione tutti gli elementi che avevamo raccolto. Fino a quel momento, delle accuse di abusi e violenze, avevamo notato soprattutto le stranezze e le incongruenze nei verbali, e non nego che spesso abbiamo pensato che fossero troppo assurde per essere vere. Ora però, c’erano proprio i bambini a raccontare quelle storie, con i loro volti e le loro voci provenienti dal passato. E all’improvviso tutto sembrava tremendamente reale.
Live video
Live bambina: Queste cose che ti sto per dire sono successe quattro anni e mezzo… quattro anni fa. Hanno iniziato prima i miei genitori che… il mio papà e la mia mamma che mi hanno fatto, una sera, mi hanno fatto del male.
Live bambina: Mi portava in posti brutti... In un cimitero e in casa di altre persone...
Live bambina: Ci hanno spogliati, picchiati lì in mezzo…
Live bambina: Poi dopo poi c’era il prete… nel senso di dire che lui faceva la messa, però dedicata al diavolo.
Live bambina: … allora è andato a prendere l’ostia, è venuto lì al cimitero e ci ha detto “Gesù non esiste” ha fatto così… “Gesù non esiste”... e queste cose. Poi ci ha parlato del diavolo, che la notte ti viene a prendere…Lui ci metteva sulla tomba e ci faceva fare delle cose come ballare, fare dei gesti…
Live bambina: Noi avevamo anche dei gatti e noi li uccidevamo. Mio padre il sangue dei gatti ce lo faceva bere a noi.
Live bambina: … Poi a certi bambini gli aprivano qua e veniva fuori tutto il sangue, si vedevano delle sacche. Dopo ce li facevano uccidere. Io ne ho dovuti uccidere cinque… vabbeh, più anche, però in una sera in tutto cinque. Poi io ne ho dovuti uccidere tanti. Però ci andavamo tre volte alla settimana e dopo quelle tre volte alla settimana lì tutte le sere ne dovevo uccidere cinque...
Ascoltare questi racconti ci ha turbati profondamente, soprattutto per alcune descrizioni, che abbiamo preferito non farvi sentire. Come facevano questi bambini a conoscere dettagli così spinti sul sesso, sulle torture, e sulla morte? Cosa si nascondeva dietro ai genitori che avevamo visto piangere nella cucina di casa, guardando le fotografie dei figli, o i loro giocattoli? Dopo aver visto quei video, abbiamo avuto mille dubbi e mille perplessità, ma una volta superato lo shock iniziale le stranezze e le incongruenze che ci hanno spinto a raccontare questa storia, sono riemerse, ancora più evidenti. Quindici piccoli uccisi a Massa Finalese, ogni settimana, e solo da un bambino. Ma non è mai stato trovato nessun cadavere. Sangue di gatto dato da bere, oppure iniettato. Una pratica che può essere letale, ma nessuno è mai finito in ospedale. Torture con bastoni, spranghe e addirittura punteruoli. Ma nessuna maestra, e nessun pediatra, ha mai notato lividi, fratture o ferite. Com’è possibile? Dove si era mai sentita una storia tanto assurda? Lo avremmo scoperto presto, lontano da Massa Finalese. In un altro tempo, e su un altro continente. Negli Stati Uniti infatti, infatti, all’inizio degli anni ‘80, un’ondata di isteria collettiva ha attraversato il Paese, con centinaia di denunce, una identica all’altra. Il fenomeno del “Satanic Panic”, il “panico satanista”.
Live: The FBI 1988 Uniform Crime Report indicates that more than 18thousand murder investigations during that year….
Quello dell’asilo McMartin, in California, è sicuramente il caso più famoso. La vicenda inizia nel 1983, in un sobborgo di Los Angeles, quando una mamma nota degli strani comportamenti nel figlio, e si convince che sia stato abusato all’asilo. La donna racconta alla polizia una storia piena di particolari bizzarri - sostiene per esempio che uno dei maestri sarebbe addirittura in grado di volare - e nonostante nel suo fascicolo sia presente una diagnosi di schizofrenia, viene comunque creduta. I genitori parlano tra di loro e con i figli, scatenando un effetto domino. A centinaia di bambini, intervistati da psicologi e assistenti sociali, viene diagnosticato un trauma psicologico da violenze sessuali. E una ginecologa riscontra abusi in più dell’80 per cento dei casi. I racconti si trasformano presto in altro: si parla di persone travestite da diavolo, di rituali satanici, di sacrifici di animali e di bambini costretti a bere il loro sangue. Infine di omicidi. La situazione è fuori controllo. Qualche bambino racconta che i maestri li portavano addirittura in aereo nel deserto della California, per violentarli e poi tornare indietro in tempo, prima della chiusura dell’asilo. Uno di loro sostiene che a presenziare ai rituali ci fosse addirittura Chuck Norris, il celebre Walker Texas Ranger della tv. Nel 1990, dopo 7 anni, il processo si chiude con una sentenza che ribalta le accuse: verranno tutti definitivamente assolti. Ma ormai il panico satanista dilaga. Il caso forse più incredibile accade ad Austin, in Texas nel 1991, in un altro asilo. Quello gestito dalla coppia Dan e Fran Keller. Fate attenzione alla dinamica, perché per molti versi sembra la fotocopia della storia dei McMartin. Anche qui una madre nota nella figlia degli strani comportamenti e comincia ad interrogarla, fino a farle confessare gli abusi subiti all’asilo. Un giovane medico di turno al pronto soccorso riscontra sulla bambina due piccole lesioni molto recenti. Vengono allertati la polizia e gli assistenti sociali. In pochi giorni altri bambini accusano i Keller di abusi, di portarli in un cimitero, di dissotterrare delle bare, e di essere obbligati a bere sangue animale, alla presenza di persone mascherate che li filmano. Vi ricorda qualcosa? Anche qui si parla di un aereo con cui la coppia portava i bambini in basi militari in Messico, per violentarli, e rientrare all’asilo in tempo. Dan e Fran Keller vengono condannati a 48 anni di carcere. Nel 2009, però, il medico che aveva visitato la prima bambina, ammetterà che all’epoca dei fatti non era abbastanza esperto per identificare segni specifici di abuso. La prova che aveva portato alla condanna dei Keller, cade. Così, nel 2013, dopo 21 anni dietro alle sbarre, marito e moglie, ormai con i capelli bianchi, si riabbracciano fuori dal carcere.
Live Fran Keller: A lot of people will destroy everything you have…
In lacrime Fran racconta oggi che negli anni passati in cella ha subito di tutto.
Live Fran Keller: People throw boiling water at you… people make shanks…
Le altre detenute le tiravano addosso dell’acqua bollente, e in due occasioni era stata violentata.
Live Fran Keller: ...it’s bad...
Ovviamente in storie come questa polizia, tribunali e assistenti sociali hanno avuto un ruolo decisivo. Ma chi più di tutti ha creato il clima di panico satanista dell’epoca sono stati i media, che senza farsi troppe domande, hanno cavalcato l’onda, con intere trasmissioni e speciali sugli abusi rituali. La stessa Oprah Winfrey, la regina della tv popolare americana, ha dedicato ore e ore a questo argomento.
Live Oprah: … Our next guest was used also in worshipping the devil, participated in human sacrifice rituals, cannibalism…
E così, racconti di persone costrette a mangiare carne umana e ad assistere a violenze di gruppo hanno invaso milioni di case in tutti gli Stati Uniti. Presunti esperti della polizia e dell’FBI giravano per il Paese, organizzando seminari su come riconoscere la presenza di gruppi satanici nel proprio quartiere. In breve tempo il panico satanista ha attraversato l’oceano e contaminato anche l’Europa. Ce lo racconta Giuliana Mazzoni…
Live Mazzoni: Sono professore ordinario di psicologia e neuroscienze presso l’università di Hull, in Inghilterra.
La Mazzoni studia questi casi ormai da anni. Soprattutto nel Regno Unito.
Live Mazzoni: Questi casi sono interessanti perché sono tutti preceduti da conferenze, le quali fondamentalmente informano insegnanti e genitori dell’esistenza dell’abuso sessuale collettivo di tipo satanico, e invitano genitori e insegnanti e assistenti sociali a interrogare i bambini, senza in realtà insegnare come interrogare i bambini. Ed è curiosissimo come alcuni mesi dopo questi seminari abbiano cominciato a fioccare le denunce.
Live Pablo: Cioè dove passava… dove arrivava questo seminario poi si creava un caso?
Live Mazzoni: E poi si creava un caso, sì.
In decine e decine di processi, e fra migliaia di bambini coinvolti in tutto il mondo, ricorrono sempre gli stessi elementi descritti anche dai piccoli della Bassa Modenese. Abusi sessuali, il sangue da bere, i travestimenti, gli omicidi più cruenti…Perché i racconti di bambini di Los Angeles, di Manchester e di Massa Finalese si assomigliano così tanto? Secondo molti studiosi della materia, è perché fanno parte di un immaginario collettivo condiviso da tutti, che assimiliamo sin dalla prima dall’infanzia e che ci accompagna per tutta la vita. Siamo bombardati da questa roba anche se non ce ne rendiamo conto. Le coltellate al cuore? Non vi ricorda l’incontro tra la matrigna di Biancaneve e il cacciatore?
Live cartone Biancaneve: … e per portarmi la prova che l’hai davvero uccisa mi porterai il suo cuore, qua dentro!
Persone mascherate che fanno rituali? Per esempio in Eyes Wide Shut, di Stanley Kubrik.
Live Eyes Wide Shut: … può dirmi la parola d’ordine, gentilmente?
Sangue da bere? Tutti sappiamo chi era il Conte Dracula. Sono solo alcuni esempi fra migliaia di cartoni film, libri e serie tv. I mostri ci hanno sempre fatto paura, da quando esistiamo. Questa cultura del macabro genera però in noi sospetti e pregiudizi, anche quando non siamo di fronte a una minaccia reale. Il meccanismo è molto semplice: senti parlare di un pericolo, ti convinci che esista, e poco dopo cominci a vederlo ovunque anche tu. Basta accendere la televisione.
Live TG: Arriva un grido d’allarme, ogni anno sparirebbero almeno 60.000 gatti neri, 7000 solo in Lombardia, 1500 a Roma, Milano e Torino, uccisi durante riti satanici...
60.000 gatti neri, cioè 7 ogni ora? E’ un vero e proprio sterminio! Può anche far sorridere, ma dietro a notizie come questa c’è un fenomeno pericoloso, perché quello che la memoria registra è che in giro per l’Italia ci siano migliaia di satanisti di cui avere paura. Pochi probabilmente si chiedono: chi ha fatto queste statistiche, e come? Non importa. Scatta il panico collettivo e a tutti manca un gatto nero all’appello. Live David Murgia: Ben trovato al pubblico di Vade Retro. In questa nuova puntata del nostro settimanale di informazione sul mondo del satanismo e sul mondo dell’occulto…La tv è piena di programmi dedicati a Satana e ai fenomeni dell’occulto, che propongono immagini e musiche suggestive, con stormi di corvi neri, tombe e teschi...
Live Vade Retro: … dove uccidono animali, dove stuprano delle donne e purtroppo anche nei confronti dei bambini...
Però non ci sono mai prove oggettive e dati statistici. Sembra più di sentire le storie dell’orrore che ci accompagnano fin da quando andavamo all’asilo.
Live Pablo: Professor Introvigne, mi parla del satanismo legato anche alla pedofilia?
Live Introvigne: Sì, su questo naturalmente ci sono molte leggende urbane, molti casi famosi si sono conclusi in un nulla di fatto, cioè in maggioranza sono casi fasulli.
Lo studioso Massimo Introvigne cita due grossi studi commissionati dal governo americano e da quello inglese, che hanno analizzato migliaia di casi…
Live Introvigne: … e hanno trovato che in un numero di casi molto basso, c’erano stati dei pedofili che avevano indossato maschere da demoni, ma sono casi molto molto rari. I più grandi processi collassano senza condanne. Le condanne sono pochissime.
In poche parole: non ci sono prove dell’esistenza di sette sataniche che compiono sacrifici e abusi rituali collettivi, ma rari casi di pedofili che utilizzano l’immaginario satanista per compiere i loro atti criminali. Ora, non fraintendiamoci. Gli abusi sessuali sui bambini esistono e sono un problema reale. E’ un dramma che avviene in tutto il mondo, spesso tra le mura di casa. Per combattere questo fenomeno c’è bisogno di programmi, di fondi, di strutture, e di professionisti in ambito giudiziario e sociale che sappiano come proteggere e curare le vittime. Stiamo parlando di una delle materie in assoluto più delicate e difficili da trattare, non solo per chi affronta questi problemi tutti i giorni, ma anche per chi fa il nostro mestiere. Credetemi, non è facile. Quello che però esperti ed accademici hanno iniziato a chiedersi è: che cos’è più diffuso, il fenomeno della pedofilia, o la nostra paura della pedofilia? In tutto il mondo è stata prodotta una vasta letteratura scientifica sull’argomento. Molti sono concordi nel sostenere che alla metà degli anni ‘90, proprio quando avvengono i fatti della Bassa Modenese, il nostro Paese sia stato attraversato da un’ondata di ‘psicosi pedofilia’. Come per tutti i fenomeni non c’è mai un solo una causa. In tanti sostengono però che l’apice sia stato raggiunto nel 1996, in concomitanza con l’approvazione al Senato della Legge 66, “Norme contro la violenza sessuale”, che trasformò questo reato da ‘delitto contro la moralità pubblica’ a ‘delitto contro la persona’. Si tratta di un provvedimento importante e assolutamente necessario, arrivato dopo anni di battaglie e di campagne per il riconoscimento di un reato fino a quel momento troppo sottovalutato. L’esistenza della legge di sicuro aveva creato consapevolezza nella popolazione, che ora aveva uno strumento per difendere i bambini, ma allo stesso tempo sembra aver alimentato una psicosi che già da tempo cresceva ovunque.
Dopo l’approvazione di quella legge si verificò infatti un trend abbastanza particolare. Occhio ai numeri. Tra il 1996 e il 1999 ci fu un aumento del 90% delle denunce di violenze sui minori. I tribunali cominciavano a riempirsi di processi ai pedofili, a cui i giornali davano ampio risalto. Abbiamo fatto una ricerca nell’archivio storico di Repubblica: negli articoli scritti tra il 1986 e il 1996 i risultati della parola ‘pedofilia’ sono 122, mentre nei dieci anni successivi schizzano a 4388. Chi ha vissuto quegli anni ricorderà che di pedofilia si parlava molto spesso. Un testimone ce l’ho qui accanto a me: Alessia Rafanelli, con cui ho scritto Veleno, che è nata nel 1990. Live Alessia: La storia di Veleno io la sento molto mia perché il paese in cui sono nata è molto simile a Massa Finalese. E’ piccolo, in cui tutti conoscono tutti…Un giorno poi scoppiò un caso anche da noi, nel senso che venne fuori che una bambina aveva visto uno sconosciuto ai giardinetti che faceva delle foto a noi bambini mentre giocavamo. E la mamma subito era corsa a scuola dagli altri genitori, e aveva detto “attenzione, i pedofili sono arrivati anche da noi. Non lasciate i bimbi da soli”. Quindi c’era proprio il panico. I carabinieri vennero a scuola, anche quello me lo ricordo.
Live Pablo: Ma questo pedofilo alla fine poi non ho capito… si è trovato? Live Alessia: No… perché non esisteva!
Live Pablo: In che senso?
Live Alessia: Nel senso che la bambina che per prima aveva visto il pedofilo fotografo, a 16 anni mi confidò che il pedofilo non era mai esistito. Mi disse che lei l’aveva raccontato alla mamma solo perché non voleva andare a scuola…
Di nuovo… significa che il problema non esiste? Assolutamente no. Per capire cosa succede davvero però, bisogna osservare attentamente l’ambiente e il contesto in cui i fatti accadono. A Massa Finalese le piccole vittime vivevano una situazione di stress molto più grande di loro. Pensateci. Allontanati da casa. I genitori in carcere, o in attesa di processo. La scia di morti che si allungava anno dopo anno. Una madre, Francesca, che si era lanciata dal quinto piano. Un condannato, Alfredo, l’amico di Romano Galliera, morto di infarto subito dopo la sentenza. Un prete, Don Giorgio, già definito martire. Infine Adriana, la mamma naturale di Dario, liberata dalla casa circondariale di Monza quando il cancro l’aveva già quasi uccisa. E poi le manifestazioni di piazza, gli articoli sui giornali, gli appelli in tv...Quanto erano condizionati i bambini dall’atmosfera di paura e di sospetto che serpeggiava tra le stanze del loro nuovo mondo, quello dei Servizi Sociali? E’ stata una telefonata a farmelo capire più di ogni altra cosa. Dall’altra parte dell’apparecchio c’era una donna a cui era stata affidata una delle bambine allontanate, che aveva fatto quei racconti terribili.
Live madre affidataria: Tra me e me ho pensato tante volte “sono cose impossibili”. Però nel momento in cui mi si teneva al corrente, mi si diceva “c’è il fratellino, anche il fratellino è stato allontanato, sono stati allontanati quattro fratelli”, poi mi si diceva “fate molta attenzione, quando andate via da qua dalla neuropsichiatra, state attenti che non vi segua nessuna macchina”. Cioè voglio dire… anche la cosa più assurda può essere vera.
E se una madre affidataria viene indotta a credere di essere addirittura spiata e seguita, cosa veniva detto ai bambini? Alessia ed io abbiamo provato a chiederlo direttamente a loro. Non è stato facile trovarli. Così come non è stato facile presentarsi alla porta di ragazzi che stanno cercando di dimenticare i traumi dell’infanzia e che a fatica provano a ricostruirsi una vita. E’ brutto, ti senti una merda. Ma era l’unico modo che avevamo per capire cosa fosse accaduto davvero. Abbiamo provato a rintracciare di Dario. Il bambino zero. Lo stiamo cercando dappertutto. Niente. Sembra sparito nel nulla. Però abbiamo trovato Marta. E’ stata molto carina e gentile, ma non ha voluto parlarci. Margherita invece è rimasta affacciata al balcone. Non ci ha cacciati. Ma non ci ha fatti nemmeno salire. E poi abbiamo incontrato tre dei figli di Lorena. Sono stati molto educati, ma anche loro hanno detto no. E proprio quando stavamo per rassegnarci all’idea che non avremmo mai sentito la versione di uno di questi ragazzi, in un bar di Massa Finalese abbiamo conosciuto Alessandro. La sua storia ci ha colpiti molto, perché ci ha aperto gli occhi su una realtà per noi nuova: l’universo deforme, contorto, ambiguo e costellato di buchi neri che si nasconde nella nostra memoria. Di lui non vi abbiamo ancora mai parlato, ma la notte del 12 novembre 1998, mentre la polizia entrava in casa di Lorena, una volante si era presentata anche alla porta dei suoi genitori. E come i 4 fratellini Covezzi, anche lui era stato portato via. E’ l’unico tra i 16 bambini ad aver accettato di parlare con noi. L’unico ad essere tornato a casa. Anche se troppo tardi. Alessandro oggi ha 30 anni. E’ un ragazzo pieno di rabbia e di amarezza. Fino al giorno in cui lo hanno portato via, ha sempre vissuto a Massa Finalese.
Live Alessandro: … straviziato come tutti i figli unici penso, perché quello che volevo c’avevo.
Live Pablo: I tuoi genitori? Tuo papà e tua mamma com’erano?
Live Alessandro: Sempre presenti, mai avuto un problema, tranne una volta che sono scappato dal ristorante al mare, per andare a vedere le barche illuminate, ho preso due calci in culo da mio padre, ma ci sta.
Suo papà non era esattamente uno stinco di santo e sulla sua fedina penale aveva più di un trascorso...
Live Alessandro: Spaccio, gare clandestine, furti di videoregistratori...
E qualche soggiorno in carcere. La madre, da quanto si dice in paese, era l’esatto opposto. Una brava ragazza, tranquilla, molto legata alla sua famiglia. Nel 1998 Alessandro aveva 12 anni e da tempo sentiva parlare della Banda dei Diavoli...
Live Alessandro: A casa una volta ne parlò mio padre con mia madre e disse “Con le amicizie che ho, me l’aspetto che vengano a rompere le balle”.
Questo presagio si sarebbe concretizzato a breve, in quella famosa notte di metà novembre.
Live Alessandro: Mia mamma mi ha svegliato dicendo che dovevamo andar via… “C’è gente che ci aspetta, dobbiamo andar via un attimo e dopo torniamo a casa”.
Alessandro viene fatto salire su una macchina bianca della polizia, che parte diretta alla procura di Mirandola. Non rivedrà mai più i suoi genitori.
Live Alessandro: Io avevo già capito la situazione e volevo tornare a casa.
Live Pablo: E da cosa l’avevi capito, scusami?
Live Alessandro: L’avevo capito perché era lo stesso sistema che avevano usato ed era comparso sul giornale la settimana prima, che hanno allontanato altri due bambini che io non conoscevo.
Da qui i ricordi di Alessandro si fanno confusi, la sua memoria ha dei buchi, anzi, delle voragini. Ad esempio non ricorda più i colloqui con gli psicologi, ma solo dettagli meno significativi. Però è sicuro di non aver mai parlato né di cimiteri, né di strani rituali. Dopo l’allontanamento era stato mandato in una casa famiglia dalle parti di Imola. E lì è rimasto, solo e lontano dalla sua famiglia.
Live Alessandro: Quando ho capito che dopo non tornavo più a casa mi sono chiuso su ad uovo e messo a piangere, però gli ho anche detto “Ricordatevi che io vengo a casa. Da dove sono io vengo a casa”.
E in effetti ci prova, due volte.
Live Alessandro: La prima volta a 14 anni mi hanno fermato in stazione a San Felice.
Live Pablo: Ti hanno fermato, t’hanno trovato i carabinieri?
Live Alessandro: Sì. Mi hanno riportato là direttamente. La seconda volta ci ho provato e mi hanno fermato in stazione a Bologna….
Finché un giorno al suo centro si presentano degli assistenti sociali, che lo prendono da parte…
Live Alessandro: “Guarda, è un dispiacere dirtelo così, però tuo padre è morto per problemi di malattia… sappi che non c’è più”. Addirittura la morte di mia mamma non sono venuti loro ma me l’ha comunicata un istruttore, diciamo, della comunità perché loro non avevano tempo di venire.
A 18 anni, Alessandro è tornato a Massa Finalese, per cercare di rimettere insieme i pezzi della sua vita, ma continua a chiedersi cosa sia successo quando aveva 13 anni. Ce lo siamo chiesti anche noi, decine e decine di volte, finché tra le registrazioni che abbiamo recuperato, abbiamo trovato anche la sua voce di bambino.
Live video. Live giudice: Quanti anni hai? Live Alessandro: 13 e mezzo.
Live giudice: Hai l’esame quest’anno… Hai avuto la pagella del primo quadrimestre?
Live Alessandro: Sì, fa schifo...
Alessandro indossa un golfino beige, è seduto ad un tavolo, in una stanza con dei caloriferi gialli. Di fronte a lui c’è un giudice. Il ragazzino è molto educato e rispettoso. E le sue parole sono inequivocabili.
Live video. Live giudice: Per quale motivo stavi male nel posto dove stavi?
Live Alessandro: Perché avevo conosciuto persone che… praticamente si divertivano a fare dei riti satanici, che si divertivano a praticamente a far male a dei bambini più piccoli.
Mi portavano i miei genitori perché quelli che facevano questi riti gli dicevano “Ah se non lo porti vi uccidiamo… vi uccidiamo”. Alessandro quei racconti li aveva fatti. E se oggi ricorda l’esatto opposto, forse, è perché negli anni ha cancellato tutto per costruirsi una sorta di verità alternativa a cui credere per non soffrire. O forse per non sentirsi in colpa. Non sappiamo cosa fare. Vorremmo mostrargli il video, ma abbiamo paura di ferirlo. Ci siamo consultati con una psicologa, che ci ha detto di far decidere direttamente a lui.
Live Pablo: Ti va di guardarlo insieme? Te la senti? Live Alessandro: Sì sì sì...
Live Pablo: Sicuro?
Live Alessandro: Voglio sapere quello che ho detto… posso?
Inizialmente Alessandro lo guarda con attenzione, ma non dice una parola. Poi, nel video, il giudice gli chiede cosa pensa della scelta del Tribunale di allontanarlo dai genitori...
Live video. Live giudice: … ecco questa decisione di cui abbiamo parlato secondo te è stata giusta oppure sbagliata?
Live Alessandro: E’ stata giusta, perché sono venuto via in un posto dove praticamente stavo male, e sono stato allontanato in un posto dove stavo bene.
Live giudice: Sei convinto di questo?
Live Alessandro: Sì.
Alessandro comincia a sentirsi a disagio.
Live Pablo: Tutto bene?
Live Alessandro: Sì c’è qualcosa che non va, però. Live Pablo: Cos’è che non va?
Live Alessandro: Per me ci sono dei pezzi che sono stati tagliati. Live Pablo: Da questa clip?
Alessandro si innervosisce e si alza dalla sedia. Va alla finestra e si accende una sigaretta. Vi assicuriamo che nel video non ci sono tagli e non c’è montaggio. Cerchiamo di spiegarglielo con molta delicatezza, ma lui comincia a concentrarsi su una serie di dettagli che non gli tornano.
Live Alessandro: Quella stanza con i termo gialli io non me la ricordo, perché… non ce n’erano di termo gialli quando fatto il colloquio col magistrato.
Sembra quasi che non voglia affrontare la realtà. Per lui è meglio credere che qualcuno abbia misteriosamente modificato quel video, come se ci fosse un complotto. Ma la voce è la sua, e ha detto esattamente quelle cose.
Live video. Live Alessandro: Mi hanno fatto tagliare due volte un bambino Live Giudice: Tu lo conoscevi questo bambino?
Live Alessandro: No.
Live giudice: E stava fermo? O...
Live Alessandro: No, era… si agitava...
Live giudice: Ti ricordi chi te l’ha dato questo coltello?
Live Alessandro: Me l’ha dato un signore che era lì di fianco... Live giudice: È uscito del sangue?
Live Alessandro: Sì
Alessandro si china sullo schermo del computer e comincia a fissare il giudice.
Live Pablo: Cosa stai cercando?
Live Alessandro: Stoppalo! Gli manca la cravatta… Live Alessia: Magari è un altro, no?
Non riesce proprio a riconoscersi nel ragazzino che 20 anni fa raccontava quelle cose. E’ evidente che non possiamo più andare avanti.
Live Alessandro: No è quello! Gli manca la cravatta e quel video lì è stato rimontato. Lì gli manca la cravatta e non se l’è mai tolta durante il colloquio!
Però c’è un’ultima parte che ci teniamo a fargli ascoltare.
Live video. Live giudice: Però la domanda te la devo fare e tu mi devi dire la verità: ti hanno mai fatto del male i tuoi genitori?
Live Alessandro: No, tranne qualche ceffone dal mio babbo...
Live giudice: Questo è normale, anzi certe volte bisogna farlo. Tu attualmente vuoi bene ai tuoi genitori?
Live Alessandro: Sì, sono sempre i miei genitori anche se sono stato allontanato.
Live giudice: Hai voglia di vedere i tuoi genitori? Live Alessandro: Abbastanza...
Live giudice: Ti mancano?
Il ragazzino del video sospira e annuisce. L’uomo davanti a noi invece ha lo sguardo fisso nel vuoto.
Live Alessandro: Si vede che sono condizionato da tutta la storia che c’è intorno… Si vede lontano un chilometro che sono suggestionato…
Tutto quello che gli resta sono delle fotografie di una famiglia che non ha più, il senso di colpa che lo tormenta e una domanda, che lo assilla dall’alba del 12 novembre del 1998...
Live Alessandro: Voglio capire chi mi ha rovinato la vita…
TRASCRIZIONE EPISODIO 6
I personaggi dell'Episodio 6: Cristina Maggioni, ginecologa; Cristina Roccia, psicologa; Sabrina Farci, psicologa.
Trappola per topi. Live telefonate.
Live Pablo: Volevo chiederti una cosa. Che cosa dice la regina di Biancaneve allo specchio?
Live amico: “Specchio, specchio delle mie brame, chi è la più bella del reame?”
Live Pablo: Sei sicuro?
Live amico: Eh, io l’ho sempre saputa così!
Live amica: “Specchio, specchio delle mie brame… chi è la più bella del reame”.
Live amico: “Specchio, specchio delle mie brame… chi è la più bella del reame?”
Live amico: “Specchio, specchio delle mie brame… chi è la più bella del reame?”
Live amico: “Specchio, specchio delle mie brame… chi è la più bella del reame?”
Live Pablo: Sei sicuro?
Live amico: Sì all 99%, non ho davanti, sott’occhio il libro, però sì...
Live nonna: Ride “Specchio, specchio delle mie brame… chi è la più bella del reame”.
Live amico: “Specchio, specchio delle mie brame… chi è la più bella del reame”... no? Dai, che me stai a fa’?
Live Alessia: Se io invece ti dico che dice “specchio servo delle mie brame”? Live amico: Eh, me apri un mondo...
Live cartone Biancaneve: “Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?”
“Specchio, servo delle mie brame”. E’ questa la vera frase pronunciata dalla matrigna di Biancaneve in una delle scene principali del cartone Disney. E lo è anche nel testo scritto dai fratelli Grimm. Ma per qualche curioso motivo la maggior parte di noi ricorda la frase in modo sbagliato. Strano, no? Quello dello specchio è uno dei tanti piccoli corto circuiti che abbiamo nella testa. Nulla di grave finché si parla di un cartone. Ma il nostro cervello può sbagliare anche in circostanze molto più pericolose. Per esempio nel ricordo di un delitto.
Live video bambino: … al primo bambino gli ho dovuto tirargli un coltello nel cuore, poi a un altro, al secondo l’ho dovuto legare intorno a un blocco di cemento… un timbro a fuoco l’ho dovuto lasciare sopra il fuoco un’ora… e poi al terzo l’ho frustato, e poi così era morto, e gli ho dovuto tirare un coltello nella schiena...Gli psicologi studiano questo fenomeno da anni, per stanare la grande bestia nera nascosta negli angoli bui della nostra memoria: il “falso ricordo”. Un ricordo non è mai una fotografia precisa del passato. E’ più simile ad un disegno fatto da noi. Scegliamo i colori, decidiamo dove collocare gli oggetti, in pratica mettiamo in atto un processo ricostruttivo, influenzato dalla nostra percezione emotiva. Il ricordo, infatti, è plasmato dalla nostra visione del mondo, dalle nostre esperienze passate, dal momento che stiamo vivendo. E dall’immaginazione, che può contaminarlo, a volte solo nei dettagli, ma altre in maniera talmente radicale da creare memorie di eventi che non abbiamo mai vissuto.
E’ un processo innato e del tutto involontario, che a volte però scaturisce da influenze esterne, provenienti da altre persone. Per questo accademici di fama internazionale oggi girano il mondo per spiegare a colleghi e professionisti l’enorme rischio collegato alla sindrome del “falso ricordo” in casi giudiziari, perché spesso, soprattutto quando sono coinvolti i bambini, le testimonianze possono essere addirittura completamente false. Abbiamo parlato con alcuni di questi esperti. Giuliana Mazzoni, che avete già sentito nella puntata precedente...
Live Mazzoni: Sono professore ordinario di psicologia e neuroscienze presso l’università di Hull, in Inghilterra.
Angelo Zappalà...Live Zappalà: Psicologo, criminologo, specialista in psicoterapia cognitiva e comportamentale
Uno dei più grandi esperti in Italia di psicologia giuridica, Guglielmo Gulotta...
Live Gulotta: Sono avvocato, professore di psicologia e psicoterapeuta
E infine Chiara Brillanti, una dottoressa che ha seguito il caso della Bassa Modenese con la qualifica di consulente della difesa.
Live Brillanti: Ero semplicemente uno psicologo clinico, ma a me ha segnato la carriera questo caso, cioè da lì ho deciso di diventare uno psicologo giuridico.
Live Pablo: Dottor Zappalà, è possibile impiantare un ricordo nella testa di una persona?
Live Zappalà: Allora è possibilissimo ed è stato provato sperimentalmente più e più volte la possibilità di impiantare falsi ricordi, e questo si può fare attraverso una intervista intenzionalmente suggestiva. E se è possibile farlo sugli adulti, figuriamoci quanto è più facile quando si tratta di bambini...
Live Gulotta: I bambini vengono educati nel senso che non devono rispondere male agli adulti e non devono essere scortesi.
Questo è il professor Gulotta.
Live Gulotta: Se un adulto che ha una certa autorità dice una cosa che ne dà per scontata un’altra, il bambino non osa dire “ma guardi che non è vero”.
Il professor Stephen Ceci della Cornell University, psicologo di fama mondiale, ha concentrato i suoi studi proprio sull’attendibilità delle testimonianze dei bambini.
Uno dei suoi test più famosi è quello della ‘trappola per topi’. Assieme alla sua equipe, Ceci ha incontrato una volta alla settimana alcuni bambini, con i quali parlava del più e del meno. Nel corso di ogni incontro però, buttava lì una domanda, per una e una sola volta.
Live esperimento Ceci: Was there a time when you got your finger caught in a mouse trap and had to go to the hospital?
“E’ mai successo che tu abbia messo il dito in una trappola per topi e sia finito in ospedale?”
Inizialmente i bambini avevano negato.
Ma dopo aver sentito la stessa domanda per tre o quattro volte, in alcuni casi il no diventava sì, e gli psicologi incuriositi aggiungevano altre domande.
Live esperimento Ceci: Who went with you to the hospital? “Chi è venuto con te all’ospedale?”
Live esperimento Ceci/bambino: My mummy, my dad, and my brother Colin…“Mia madre, mio padre e mio fratello Colin”
Live esperimento Ceci: So where in your house is the mouse trap? “E dov’è la trappola per topi in casa tua?”
Live esperimento Ceci/bambino: It’s down in the basement! It’s next to the fire wood. “E’ giù in cantina, vicino alla legna per il camino”.
I bambini avevano creato da zero un’esperienza, arricchendola addirittura di dettagli. E quando veniva loro spiegato che la trappola per topi in realtà non esisteva, e che era solo un gioco, il ricordo dell’episodio era ormai talmente radicato da essere diventato indelebile.
Live esperimento Ceci/bambino: It wasnt’ a story! It really happened! “Non è una storiella, è successo davvero!” Basta solo ripetere una domanda.
Ecco Giuliana Mazzoni: Live Mazzoni: Queste tecniche, non soltanto spingono il bambino a dire sì sì al momento, va bene, quindi a essere compiacente, ma cambiano effettivamente la memoria.
E’ un processo quasi impercettibile, in cui anche un semplice articolo può fare fa la differenza.
Live Zappalà: Dire a qualcuno “hai visto il gatto?” ad esempio, usare l’articolo determinativo ‘il’ presuppone già che il gatto ci sia stato, che sia passato da lì. E tu devi rispondere solo sì o no, se l’hai visto.
Live Gulotta: Difatti noi che facciamo degli esperimenti in cui mostriamo che facendo domande suggestive facciamo dire ai bambini sostanzialmente quello che vogliamo, poi facciamo un altro esperimento insegnando ai bambini a resistere alle suggestioni.
Live Mazzoni: Una delle premesse fondamentali all’interno di un colloquio investigativo è di ricordare al bambino che può dire “non so”...
Live Gulotta: Se tu una cosa non te la ricordi, dillo! Se io ti faccio una domanda sbagliata, tu dillo!
Nelle 80 ore di video degli interrogatori dei bambini di Massa Finalese e Mirandola, non si è dato troppo peso a questi accorgimenti.
Live video. Psicologa: Stai raccontando delle cose molto spaventose e fanno molta paura e tu sei tutta tranquilla...
Bambina: Eh…
In questo video, rovinato come molti altri purtroppo, una bambina ha appena finito di raccontare a una consulente del tribunale, la psicologa Cristina Roccia, cosa le accadeva al cimitero. Lo sta facendo senza mostrare la minima sofferenza, sembra quasi che stia raccontando una favola. Ogni tanto addirittura sorride. Eppure la psicologa insinua che la bambina probabilmente stia mascherando il suo vero stato d’animo. “Sei tranquilla davvero, o fai finta di essere tranquilla?”
Live Roccia: Sei tranquilla davvero o fai finta di essere tranquilla? La bambina, sola alla presenza di un adulto, è messa alle strette e ripete la frase che le ha appena proposto la psicologa. “Non tanto tranquilla...”
Live bambina: Non tanto tranquilla...
Live Roccia: Ehh… fai finta di essere tranquilla!
“Fai finta di essere tranquilla!”
Ecco un esempio di intervista altamente suggestiva. La psicologa ha ottenuto esattamente quello che si aspettava. Abbiamo chiesto un parere a Giuliana Mazzoni:
Live Mazzoni: Ecco vede questo è un tipo di intervento che devo dire... (sospira) fa rizzare tutte le antenne e veramente va valutato in modo estremamente negativo. Cioè l’adulto cosa fa? L’adulto nota che i segni comportamentali del bambino sarebbero in contraddizione con quello che l’adulto si aspetta, e fa in modo che la bambina si trovi a disagio.
Quello che stiamo per sentire è emblematico. Nel video che ho davanti c’è una bambina seduta di fronte alla psicologa Sabrina Farci, consulente per il Tribunale di Modena. La bambina ha un maglioncino rosso. E’ piccola, dovrebbe avere tra gli 8 e i 9 anni, e in questo momento sta raccontando di essere tornata dopo diversi mesi nella città in cui abitava prima di essere allontanata. Si capisce poco, ma dice questo: “Siamo passati anche per la piazza”.
Live video. Live bambina: Siamo passati anche per la piazza.
Live Farci: Siete passati per la piazza? E che effetto ti ha fatto vederla? La bambina risponde “Un po’ di emozione”
Live bambina: Un po’ di emozione.
Live Farci: Un po’ di emozione…“Sapresti dare un nome a questa emozione?”
Live Farci: Sapresti dirmi… dare un nome a questa emozione? “Di gioia”, dice la bambina.
Live bambina: Di gioia!
Live Farci: Di gioia? Di gioia... Quindi ti ha fatto piacere? Live bambina: Sì
Live Farci: … Vedere di nuovo questa piazza? Live bambina: Hm hm
A questo punto però la psicologa suggerisce alla bambina una versione alternativa...
Live Farci: Forse c’è anche un’altra emozione insieme alla gioia? C’è un’altra emozione oppure no? “No, solo un po’ di gioia”
Live bambina: No, solo un po’ di gioia. Live Farci: Un po’ di gioia...
La bambina per la seconda volta conferma di essere felice di aver rivisto la sua città. Sembra tranquilla, a parte l’ovvio imbarazzo per la situazione in cui si trova. La psicologa continua. E questa volta, le chiede se ha provato della sofferenza: “Forse ci può essere anche un briciolo di sofferenza a tornare qui, può essere?”
Live Farci: Forse ci può essere anche un briciolo di sofferenza a tornare qui. Può essere?
“Solo che per te è difficile dirlo”
Live Farci: Solo che per te è difficile dirlo.
“Forse sono anche accadute delle cose che ti fa soffrire ricordare”
Live Farci: Forse sono anche accadute delle cose che ti fa soffrire ricordare...
La bambina annuisce.
Ecco lo stesso metodo che riappare: non ha senso che provi gioia a tornare nella città dove abitava quando veniva venduta a dei pedofili. Deve per forza stare male, e raccontare questo. Ne parliamo con la psicologa Chiara Brillanti:
Live Brillanti: Cioè lo psicologo deve fare lo psicologo, non deve fare il poliziotto, non deve spingere i bambini a parlare. Deve essere una figura neutra. In questo caso neutri non si è stati mai.
Vi facciamo sentire ancora un altro video. La psicologa Cristina Roccia sta parlando con uno dei figli di Lorena del fatto che la mamma sta per partorire in Francia il suo quinto figlio. Il ragazzino ha appena detto che forse sarebbe meglio allontanare anche lui, per evitare che gli facciano delle cose brutte. La dottoressa gli chiede di specificare meglio: Live video. Live Roccia: Sì ma mi hai detto ‘fare delle cose brutte’... ma cose brutte possono essere… non dargli da mangiare, dargli due schiaffi… ehhh… che ne so… non cambiargli il pannolino… oppure… portarlo al cimitero… ci sono tante cose brutte...
Live bambino: Portarlo al cimitero!
Nella domanda c’è già la risposta pronta, il bambino deve solo ripeterla. E il racconto quindi di chi è? Del bambino o della dottoressa?
Live video. Live bambino: Quando cadeva del sangue, mia madre subito a pulire perché non voleva che rimanessero delle tracce… Va bene quello che ho detto? “Va bene quello che ho detto?”
Il bambino sta cercando l’approvazione della psicologa, come se qualcuno gli avesse insegnato una lezione da ripetere. Il grosso sospetto di molti è che questi eventi drammatici non solo non siano mai accaduti, ma che siano state proprio le psicologhe a introdurre per prime i racconti degli abusi e dei cimiteri. I bambini, dopo mesi, se ne sono convinti, e hanno dato alle dottoresse quello che loro si aspettavano. Live Mazzoni: Diventa alla fine, il resoconto del bambino, una sorta di calderone in cui c’è di tutto e di più, dalle cose più astratte e bizzarre alle cose più favolose, alcuni elementi veri. Ma a quel punto ripulirli da tutto il ciarpame che è stato creato da modalità investigative inadeguate, diventa impossibile.
Live Zappalà: Perché poi il processo non si fa su quello che è successo, ma su quello che si dice sia successo. Il meccanismo qui è stato: ho un sospetto, ti porto via il figlio anche se non ha mai detto nulla, gli faccio capire che c’è un pericolo, insisto finché lui non comincia a ricordare, e alla fine ti accuserà. E non vorrà più tornare da te. Gli avvocati delle famiglie e delle altre persone accusate hanno insistito moltissimo su questa manipolazione.
Questo è l’avvocato Marco Ferraresi: Live avv. Ferraresi: I bambini venivano invitati a dire di più perché poi sarebbero stati meglio: “Tu dì quello che sai, liberati, e vedrai che alla fine starai meglio”. E li si ascoltava con questa attenzione… Era proprio questo che si attendeva da loro, che dicessero delle cose.
E infatti i bambini erano dei fiumi in piena, continuavano a parlare, aggiungevano accuse su accuse, tanto che difendere i genitori diventava praticamente impossibile.
Live avv. Micai: Cioè questo ha inquinato in maniera irreparabile questo processo
Lei è Patrizia Micai, l’avvocato che ha difeso Lorena e la famiglia Giacco.
Live avv. Micai: Questo è un processo diabolico, dovevi portare la prova diabolica, cioè dovevi portare la prova che tu non l’avevi fatto.
Io sono innocente, sei tu che devi provare che io sono colpevole. Perché in questo processo è esattamente il contrario? La prova diabolica, devo provare che non l’ho fatto… sfido chiunque! Quello che ci ha lasciati molto perplessi, è che i bambini di queste famiglie siano stati allontanati senza che nemmeno gli inquirenti fossero sicuri della minaccia da cui avrebbero dovuto difenderli. Lo spiega bene questa bambina interrogata dal giudice Alberto Ziroldi.
Live video. Live bambina: Subito mi han detto “sei protetta, adesso dobbiamo capire bene da che cosa” perché io non avevo ancora raccontato.
Live giudice: Ecco... tu ti sei chiesta “ma da chi devo essere protetta?” “perché devo essere protetta?” Te lo sei chiesto? L’hai chiesto a qualcuno?
Live bambina: Me lo chiedevo tra me, ma cioè è come se io non riuscissi a trovare la risposta.
L’abbiamo iniziato a capire io e la Valeria quando (Live giudice: Tu e la Valeria?) ho iniziato a raccontare. “L’abbiamo iniziato a capire io e la Valeria quando ho iniziato a raccontare”. La “Valeria” di cui parla è ancora una volta Valeria Donati, la prima ad aver avuto il sospetto che Dario - e poi tutti gli altri bambini - fossero stati abusati. Ma quale metodo ha usato la dottoressa Donati per aiutare i bambini a ricordare? Se lo sono chiesto in molti. La dottoressa Donati era sempre tra le prime a parlare con i bambini, ma dei suoi colloqui, fondamentali per capire come dal nulla si fosse arrivati a quei racconti, non c’è nessun video, e nessuna trascrizione. I VHS che abbiamo sentito finora sono stati registrati mesi dopo, da altre psicologhe, chiamate dai giudici del Tribunale quando il processo era già iniziato. E quando ormai, dicono i genitori e i loro avvocati, la manipolazione era già avvenuta. Però quei primissimi colloqui, che nessuno ha potuto ascoltare, li ha descritti la stessa Donati, nel corso delle sue testimonianze. Vi abbiamo già detto di come tutto sia partito da Dario, il nostro bambino zero, che inizialmente aveva parlato anche di altri bambini, ma senza ricordarne i nomi. Tra questi la Donati era riuscita a identificare la piccola Elisa Scotta, di 3 anni, con i capelli scuri e gli occhi leggermente allungati. Ma il metodo che ha usato è abbastanza singolare. Sentite cosa ha dichiarato a processo: “Dario durante un colloquio, aveva chiesto o a me o alla madre affidataria “e i cinesi hanno la pelle gialla”: tale domanda l’aveva fatta mentre disegnava dei calciatori bambini. Ho collegato tutti questi fatti, e debbo ora riferire, che la piccola Elisa che io conosco, è una bambina dagli evidenti tratti somatici asiatici (la mamma è thailandese) ed ha la particolarità di avere gli occhi a mandorla e insieme verdi.” Quindi è bastato che il bambino chiedesse se i cinesi avessero la pelle gialla, perché lei subito leggesse tra le righe di quella domanda innocua un riferimento alle altre vittime del network dei pedofili: la piccola Elisa dagli occhi a mandorla, che oltretutto difficilmente Dario poteva conoscere, dato che lei abitava a Mirandola, a 20 km da Massa Finalese. L’abitudine della psicologa di cercare indizi su questa organizzazione criminale nei racconti, all’apparenza insignificanti, di un bambino di sette anni, compare anche in altre occasioni. Dario veniva spesso accompagnato ai colloqui con la Donati dalla sua mamma affidataria, la signora Tonini, che era stata la prima a sospettare degli abusi commessi dal padre e dal fratello naturale. La Tonini, questo traspare molto nei verbali, era una donna ansiosa, e osservava Dario 24 ore su 24, per captare qualsiasi suo segno di malessere. Era in rapporti molto stretti con la Donati, le raccontava tutto ciò che riguardava il bambino, e si confrontava con lei sulle domande da fargli. Un giorno, sempre all’inizio di questa storia, Dario a casa le aveva raccontato che quando era con la sua famiglia naturale aveva partecipato a un funerale. La psicologa ne era subito stata informata. Quando poi, durante un incontro, Dario le aveva rivelato la sua “paura di bruciare all’inferno”, la Donati aveva immediatamente messo insieme le due cose. Ecco il suo verbale: “Io gli ho chiesto se questa cosa aveva collegamenti con un suo vecchio racconto fattomi, secondo cui Dario era stato accompagnato ad un funerale, durante il quale aveva visto una donna portare una cassa e lui si era molto spaventato. Dario ha risposto: “hai proprio ragione tu”. La storia dei riti satanici della Bassa Modenese parte tutta da qui. Un bambino di 7 anni che racconta le proprie paure e una psicologa che gli chiede se per caso abbiano a che fare con un funerale. E chi era il capo della ‘banda dei diavoli’? Dario l’aveva detto: era “Giorgio il sindaco”, che però forse era un medico. E questo medico secondo il bambino aveva una tunica. Ma sei sicuro che non fosse un prete? “Eh già” aveva risposto Dario. Da qui ad arrivare a Don Giorgio Govoni la strada è breve. Dario però inizialmente dice di non conoscerlo, ma qualche tempo dopo cambia versione e lo accusa. Farà lo stesso con altre persone: prima non sa chi siano, oppure non conosce il loro nome, oppure le confonde con altri. Poi all’improvviso nella sua testa tutto diventa estremamente chiaro. La maggior parte dei bambini coinvolti si comporterà in questo modo: prima diranno di non sapere, o di non ricordare, e poi, come per magia, ecco i volti e i nomi di persone che si troveranno la polizia in casa. L’esempio più significativo di questo meccanismo è quello di una bambina che parla del capo della setta. E’ la piccola che abbiamo sentito durante il sopralluogo al cimitero di Finale. In macchina con lei, lo ricordiamo, ci sono il PM Andrea Claudiani e Valeria Donati. Alla bambina viene chiesto chi fossero gli adulti presenti ai riti, e lei parla dei genitori. Ma non erano i soli. Con loro c’era un prete. Fate molta attenzione a quello che sta per dire: Live cassetta. Live bambina: Giulio… Don Giulio... Live Claudiani: Chi?
Live poliziotto: Gio...
Live bambina: Ehhh… Don… aspetta… Don Giorgio!
Se non vi è chiaro, vi leggo la trascrizione della conversazione. La bambina prima dice “Giulio”, poi specifica “Don Giulio”. “Chi?” le chiede Claudiani. E subito una voce la corregge: “Gio…” La piccola esita, e poi…
Live bambina: Ehhh… Don… aspetta… Don Giorgio!
Non era la prima volta che lo chiamava Giulio. Perché correggerla? E che cosa scopre la polizia quando va a casa di Don Giorgio? Gli stivaletti di cui parlavano i bambini. Peccato che fossero di ben due misure più piccoli rispetto al piede del prete, che era solito raccogliere vestiti e scarpe per i poveri della comunità. Però trovano anche un computer con una cronologia ambigua. Tre parole cercate in momenti differenti: ‘bimba’, ‘hard’, ‘amici dei bambini’. La perizia richiesta dal PM Claudiani, però, dimostra che non sono legate alla pedopornografia. ‘Hard’, per esempio, poteva voler dire anche solo “Hard Disk”. ‘Amici dei Bambini’ non è un parola chiave per collegarsi ad un sito clandestino di pedofilia, ma il nome per esteso dell’Ai.Bi., un’associazione che si occupa di adozioni dal 1983. E il famoso bar malfamato della zona in cui Don Giorgio si incontrava con le prostitute? Il gestore dichiarerà di non averlo mai visto. Vi potremmo citare altre decine di contraddizioni simili che abbiamo trovato in questa storia. Le testimonianze dei bambini sono piene di versioni contrastanti, ripensamenti, e resoconti che sfidano ogni logica. Rituali satanici fatti di pomeriggio, anzi no, di notte. Abusi commessi in luoghi affollati, che nessuno però ha mai visto.
Live fratello Lorena: Io prelevavo mia nipote all’uscita della scuola, la violentavo con una frasca lunga un metro, poi ritornavo a Finale Emilia sul posto di lavoro e riprendevo il lavoro normalmente. Praticamente avrei fatto 160 km in 42 minuti.
E che dire dei video pedopornografici mai trovati, e dei cadaveri di decine di persone mai nemmeno scomparse? Chiara Brillanti: Live Brillanti: Questi psicologi non conoscevano la dinamica della mente. Parliamo di giovanissimi psicologi appena laureati, non ancora specializzati, che non avevano tecniche di interviste né giuridiche, né cliniche, che hanno interpretato personalisticamente, in termini personali gli avvenimenti.
La spiegazione che lei dà a quei racconti è totalmente diversa: Live Brillanti: Allontanare un bambino dalla famiglia in modo traumatico, e dicendo a lui “i tuoi genitori fanno delle brutte cose”, significa mettere in testa ai bambini che i genitori fanno delle brutte cose. Non si doveva pensare che quello che raccontavano i bambini fosse la verità. Abbiamo cercato le due dottoresse che compaiono nei video, la dottoressa Roccia e la dottoressa Farci.
Live Farci: Io non rilascio dichiarazioni... perché la materia è assolutamente delicata… Se lei mi vuole mandare una richiesta scritta le lascio la mia mail e io nel frattempo valuterò...
Questa era la dottoressa Farci, le abbiamo mandato una mail ma ha ribadito che non vuole parlarne.
Live Pablo: Buongiorno parlo con la dottoressa Roccia? Live Roccia: Sì sono io, buongiorno.
Live Pablo: Buongiorno dottoressa, sono Pablo Trincia...
Le spieghiamo perché la stiamo chiamando.
Live Roccia: No guardi, io di parlare di quella storia lì non ne ho voglia, perché sono stata denunciata, ho avuto interrogazioni parlamentari, sinceramente sono proprio stufa di quella storia. Perciò se lei vuole scrivere delle cose negative su di me o dirle, le può dire, cioè tanto ne hanno dette tante, una in più o una in meno, mi cambia poco. La Roccia si riferisce al fatto che mentre svolgeva le consulenze per il tribunale di Modena, era stata denunciata per esercizio abusivo della professione, perché non ancora registrata all’albo degli psicologi. Lei nega categoricamente che fosse vero. Ma molte delle audizioni e degli incidenti probatori in nostro possesso sono stati girati mesi prima della sua iscrizione, avvenuta il 12 maggio 1999. Tre anni prima, inoltre, la dottoressa Roccia era stata coinvolta in un caso molto controverso, in cui 4 adulti di una stessa famiglia di Biella si erano suicidati per le accuse di abusi fatte da due cuginetti. Uno dei piccoli, dopo diversi colloqui, aveva raccontato di una botola segreta sotto il letto dei genitori che portava in una stanza degli orrori. Né la botola, né la stanza degli orrori sono mai esistiti.
Live Pablo: Lei non ha voglia però di fare chiarezza una volta per tutte? Perché immagino che, come dire, sia convinta della bontà del suo lavoro… giusto? E’ veramente convinta che quello che hanno raccontato quei bambini sia vero?
Live Roccia: Tutto ciò che ho scritto, anche a distanza di molti anni, sono convinta di averlo scritto in modo corretto, e di aver scritto una cosa che io ritenevo giusta.
Ma di più non dice. Ma se la testimonianza dei bambini è così discutibile, quanto è solido l’altro fondamentale pilastro su cui si è retto questo processo, ovvero i referti medici che dimostravano gli abusi? Le visite medico legali sulle bambine erano state fatte dalla ginecologa Cristina Maggioni della Clinica Mangiagalli di Milano, che praticamente in tutti i casi aveva riscontrato violenze di ogni genere. Nel corso dei processi le relazioni della dottoressa vengono però duramente contestate da altri consulenti del tribunale e della difesa. C’è un momento particolarmente significativo. La Maggioni, in una relazione, definisce l’imene di una delle bambine ‘scomparso’ a causa degli stupri. Nel dibattimento però tutti gli altri suoi colleghi, analizzando le fotografie effettuate dalla dottoressa e mostrate in aula, concordano che quell’imene in realtà ci sia, e che sia anche ben visibile. La prima a notare questo errore è la dottoressa Cristina Cattaneo, anatomopatologo di fama nazionale, che insegna Medicina Legale alla Statale di Milano, e alla quale spesso vengono affidati casi di omicidio molto noti. Secondo la Cattaneo segni evidenti di abusi su quella bambina non ci sono. La Maggioni però a quel punto si difende, con una dichiarazione che lascia tutti i suoi colleghi a bocca aperta: ovvero che l’imene, precedentemente lacerato da un atto di stupro, può ‘ricrescere’ con il sopraggiungere delle prime mestruazioni. Una colossale assurdità dal punto di vista medico e scientifico. In aula scoppia una polemica infinita. Gli avvocati della difesa chiedono chi sia questa dottoressa, quanto sia competente e quanto siano affidabili anche le altre sue relazioni, sulla base delle quali sono state allontanate da casa tutte le bambine coinvolte. Pochi mesi dopo, il suo nome finisce su tutti giornali a causa di un’altra vicenda giudiziaria in cui la Maggioni fa da consulente, questa volta presso il Tribunale di Milano: il processo contro un padre accusato di abusi sessuali sulla figlia. Il padre non vedrà la piccola per ben 3 anni, fino a quando il Pubblico Ministero Tiziana Siciliano ne chiede l’assoluzione, e lancia un durissimo atto di accusa contro la ginecologa. Ecco solo alcune delle cose che dice la PM: “Io non le darò mai una consulenza. Ma, voglio dire, diciamo che non ha dato la sensazione di essere particolarmente ferrata sull’argomento…” “…vi è una amplissima documentazione fotografica che contraddice in una maniera così totale le dichiarazioni della dottoressa Maggioni, che ci viene da chiederci se sia una totale incompetente o se sia una persona in malafede…” “…secondo me sono perizie false. Cioè sono perizie fatte da gente che dovrebbe cambiare mestiere...” Il padre alla fine viene assolto. Di questa storia ne parlano tutti, giornali e trasmissioni televisive come il Maurizio Costanzo Show
Sigla Maurizio Costanzo Show. Nel corso della trasmissione viene intervistato l’avvocato dell’uomo.
Live Costanzo Show. Live avvocato: Ho scoperto che c’è un consulente tecnico che ha fatto qualcosa come 368 consulenze tecniche in perfetta solitudine senza contraddittorio mai, in 9 anni. Ho scoperto anche che contro questo consulente tecnico erano già state presentate 13 interrogazioni parlamentari che riguardavano 13 casi diversi.
La dottoressa Maggioni viene licenziata dalla sua clinica. Sui giornali compaiono altri casi in cui alcune sue valutazioni vengono fortemente criticate da altri esperti.
Live Maggioni: Io ne ho fatte 380 di perizie….
Questa è la dottoressa Maggioni. Live Maggioni: …e ho cominciato per pura gentilezza nei confronti dei poveri. Non sono mai diventata ricca, ho sempre fatto solo il perito d’ufficio. Questo le dice che il mio è un servizio cristiano ai poveri. Bambini in questo caso… perché nessuno vuole farlo sto lavoro di merda, tutti vogliono fare il perito di parte...
La dottoressa allude al fatto che un perito del tribunale come lei guadagna molto meno di un perito di parte, cioè quello chiamato dagli imputati.
Live Maggioni: I prezzi vanno dai 10mila euro in su per dire che non c’è niente, certo, pagano gli abusanti che hanno soldi… io faccio il perito d’ufficio e vengo pagata dal Tribunale.
Live Pablo: Mi scusi ma perché lei però li definisce gli abusanti che hanno soldi, cioè, fino a prova contraria uno...
Live Maggioni: Gli abusanti sono gli adulti, in confronto a un bambino che non ha sicuramente i soldi…
Quindi gli adulti anche solo sospettati vengono definiti “abusanti che hanno i soldi”.
Live Maggioni: … poi le perizie sono state viste da 17 altri periti, che hanno tutti confermato le lesioni gravissime. Eccetto una, una sola, che ha detto che secondo lei erano normali.
Abbiamo controllato le carte processuali, e non è per nulla vero che gli altri 16 periti concordassero con lei. Anzi. Alcuni di loro hanno espresso dubbi, se non addirittura critiche sul suo operato. La Maggioni sostiene che tra i periti ce ne fosse solo uno in disaccordo con lei. Si tratta proprio della dottoressa Cattaneo, l’anatomopatologo con cui si era scontrata sulla teoria che un imene lacerato potesse ricrescere. Sentite cosa dice ora: Live Maggioni: …è arrivata questa Cattaneo che lì poi ha fatto una meravigliosa carriera… ma in primo grado, quando è comparsa in aula, aveva fatto dei falsi.
Live Pablo: In che senso?
Live Maggioni: Insomma, lei come sa può ricostruire una cosa al computer, no? Può fare dei montaggi. E’ stata smascherata. Nella sentenza di primo grado c’è scritto che questa non viene radiata dall’ordine per aver scritto una cosa falsa solo perché è un medico legale.
Quindi, secondo la dottoressa Maggioni, cioè la consulente del Pubblico Ministero, la Cattaneo, ovvero la consulente del Giudice per le Indagini Preliminari, avrebbe addirittura alterato dei documenti fotografici che ritraevano parti intime di bambine, in modo da sostenere che non c’era alcun segno di abuso. E sarebbe stata smascherata, ma poi non radiata, in quanto medico legale. Questa affermazione, oltre a non avere alcun senso logico, è totalmente falsa. Nella sentenza non è mai stato scritto nulla del genere.
Live Pablo: … E c’ho gli atti davanti, quindi lei non mi può dire che tutti le avevano dato ragione… ci furono...
Live Maggioni: Benissimo, guardi, sono una imbecille in malafede, se vuole… tanto ormai cosa vuole, radiarmi dall’ordine?
Live Pablo: No, ma perché fa così, io le sto solo facendo delle domande… Pensa di aver fatto bene il suo lavoro?
Live Maggioni: Vuole radiarmi dall’ordine? Live Pablo: Non mi interessa...
Live Maggioni: Vuole impedirmi di fare il medico per il resto dei miei giorni?
Live Pablo: Ma dottoressa, io non ho mai detto questo…
Il confronto con la dottoressa Maggioni è stato piuttosto complicato. Non dava risposte pertinenti alle nostre domande e spesso cambiava argomento. Dal momento che le sue interpretazioni e quelle dei consulenti del tribunale e dei periti di parte erano diametralmente opposte, era stato convocato un collegio di medici, che infine aveva stabilito che sui bambini esistevano segni ‘aspecifici, sospetti o indicativi’ di abuso. Ma in nessun caso segni certi e inequivocabili. Tradotto in parole povere: i bambini forse erano stati abusati. O forse no. La comunità scientifica oggi concorda sul fatto che rilevare segni certi di violenze sessuali, soprattutto sui bambini, sia molto difficile, a meno che non si tratti di atti sessuali gravissimi. Una ragade sul sedere, un arrossamento nella zona genitale, una lesione o un eritema, sono tutti segni che possono essere risultato di un abuso sessuale, ma anche normalissimi problemi fisici che molti bambini e molti adulti hanno. Gli unici indizi che non lasciano dubbio sono evidenti lacerazioni dei tessuti, gravidanze e malattie sessualmente trasmissibili. E questo ovviamente è un problema, perché se da un lato molti pedofili possono farla franca, è altrettanto vero che molte persone innocenti possono essere condannate. Quello che poi fa la differenza sono proprio le dichiarazioni dei minori. E qui ritorniamo al punto di partenza. In questo video, la dottoressa Roccia dice a una delle bambine: “Di sicuro qualcuno ti ha fatto male al sederino e alla patatina, e questo è sicuro, perché lo dice la dottoressa…”. Ascoltate attentamente: Live Roccia: Di sicuro qualcuno ti ha fatto male al sederino e alla patatina, e questo è proprio sicuro perché l’ha detto la dottoressa...
“Di sicuro qualcuno ti ha fatto male al sederino e alla patatina e questo è sicuro perché lo dice la dottoressa…”: qui sta il vero meccanismo diabolico. In molti casi le psicologhe comunicavano gli esiti delle visite ginecologiche alla bambine, che spesso non avevano neppure 10 anni. “Se una dottoressa dice che ti hanno fatto male, allora deve essere per forza vero”. Una prassi che è contraria a qualsiasi basilare regola deontologica. Ma la cosa forse più paradossale di tutta questa storia è che Dario, il bambino zero da cui è partito tutto, dopo le primissime rivelazioni, era stato visitato da un pediatra che non aveva rilevato segni di abuso. Le violenze su Dario, per le quali i suoi familiari sono finiti in carcere, non sono mai state dimostrate. Nel gennaio 1998, pochi mesi dopo aver accusato chiunque, il bambino è letteralmente fuori controllo. E’ troppo piccolo per reggere a quello stress e vede mostri dappertutto. La signora Tonini, mamma affidataria, crede a qualsiasi sua parola. La famiglia nel giro di un anno e mezzo si trasferisce in tre città diverse per sfuggire ai pedofili, che Dario ormai trova in qualsiasi nuova scuola dove viene iscritto. Fa condannare un’anziana maestra elementare, accusa il padre di un suo compagno di classe di portarlo nei cimiteri, e arriva addirittura a coinvolgere nel processo il vescovo di una città lontana. E’ chiaro a tutti, ormai, che non è più in grado di distinguere la realtà dalla fantasia. E quindi il Tribunale decide che la sua credibilità deve avere una data di scadenza: l’aprile del 1999. Da allora nessuno ha più saputo nulla di lui. Dopo parecchie ricerche, siamo riusciti a individuare un indirizzo presso cui Dario dovrebbe abitare con la famiglia Tonini. Alessia ci va insieme a Giulia, la figlia di Oddina, che non lo vede da vent’anni.
Live Alessia: Che colore è la casa?
Live uomo: Se andate in quel cortile lì la trovate subito... Live Giulia/Alessia: Ok grazie, salve!
Giulia si è portata dietro un album con delle foto di Dario da piccolo, quando abitava con loro. Davanti alla casa c’è un ragazzo, fratello affidatario di Dario. Lo chiameremo Matteo. Alessia e Giulia si presentano e gli chiedono dove sia suo fratello.
Live Alessia/Giulia: Ciao!
Live Giulia: Sono venuta qui da Massa Finalese perché volevo venirlo a salutare...
Live Matteo: Puoi parlare con mia mamma…
La signora Tonini è affacciata al balcone, scende e apre la porta.
Live Giulia: Sono la figlia di Oddina… dell’Oddina!
Live Tonini: Adesso ricordo… Voi non dovreste neanche sapere dove abita, e questa è una cosa molto preoccupante, quindi vi chiedo di allontanarvi immediatamente da questa casa. Non aggiungete altro, non fatemi veder delle foto, non parlatemi di nessuno. Non voglio dover ripercorrere strade che ho già percorso molto pesanti…
Live Alessia: No era solo...
Live Tonini: No assolutamente, vi allontanate oppure chiamo le forze dell’ordine!
Live Alessia: No ma ci mancherebbe altro signora, ci allontaniamo...
Live Tonini: Bene, allontanatevi immediatamente, non aggiungete altro, chiamo le forze dell’ordine.
Live Alessia: Non pensavamo...
Live Tonini: Chiamo le forze dell’ordine! Non aggiunga niente… davvero… davvero… allontanatevi! Allontanatevi...
Live Alessia: Ok… Salve signora...
Dario ha rimosso tutto? Oppure ricorda ancora la sua famiglia naturale, Massa Finalese, i colloqui con la Donati? Quanta nebbia c’è nella sua mente? Aspettiamo alcune settimane. Poi Alessia ed io ci appostiamo di nuovo di fronte a quella casa. Dopo una lunga attesa, in lontananza, ecco apparire un ragazzo con i capelli biondi, gli occhialini tondi e un filo di barba…
TRASCRIZIONE EPISODIO 7
I personaggi dell'Episodio 7: Dario Galliera, Il bambino "zero"; Daniela, Madre di Sonia: non è mai stata indagata. Ma sua figlia venne allontanata comunque; Elisa, Figlia di Federico Scotta, uno dei padri arrestati.
Il mare si allontana. Live Pablo studio: Grazie Enzino… ok...Gipo ci sei? Stiamo registrando? Ok…Ci siamo chiesti molte volte quanto fosse giusto raccontare la vicenda che abbiamo chiamato ‘Veleno’. E’ una domanda che continuiamo a farci ancora oggi. Qualche sera fa, mentre stavamo lavorando a questa ultima puntata, ci è arrivata la mail di una donna molto vicina ad uno dei 16 bambini allontanati dalle famiglie tra il 1997 e il 1998. Oggi quel bambino ha trent’anni. “L’unica cosa che so per certo” , ci ha scritto, “è quanto dolore questa inchiesta sta facendo emergere nuovamente negli animi delle vere vittime di questa faccenda: i bambini protagonisti della storia.” La donna si domandava quale fosse il nostro scopo, e tra le righe ci chiedeva se non ci sentissimo in colpa per aver riaperto una ferita che da anni tutti loro cercano a fatica di ricucire. Vogliamo rispondere direttamente a quei bambini. Cari Marta, Elisa, Nick, Stella, Margherita, Cristina, Roberto, Veronica, Pietro, Federico, Aurora, Alessandro, Sonia, Melania, Marco, e caro Dario…Vi chiediamo scusa. Ma se abbiamo fatto tutto questo è perché crediamo che poter scegliere di conoscere il lato B di questa storia sia un diritto vostro, e delle famiglie dalle quali siete stati allontanati. Ci siamo imposti di rispettare la vostra privacy e la nuova vita che vi siete costruiti. Ma non potevamo ignorare le anomalie e le contraddizioni nascoste dietro alle decisioni che hanno segnato questo caso, e stravolto la vostra infanzia. Oggi siete adulti. Siete liberi di decidere se riaprire questa scatola e guardare le cose con occhi diversi. Oppure lasciarla in soffitta e andare avanti. Veleno è per voi.
Il 16 gennaio 2016 per Dario era probabilmente un sabato come un altro. Sveglia tardi e una giornata di cazzeggio davanti. Era uscito di casa con la faccia ancora assonnata per portare fuori il cane. Si era infilato una felpa e una giacca a vento. Faceva freddo. Piovigginava. Lo abbiamo seguito per alcune centinaia di metri lungo una stradina sterrata. Eravamo emozionati. Lo cercavamo da mesi. E avevamo un milione di domande da fargli. Dario si era fermato a due passi da un ruscello e aveva slegato il cane.
Live Alessia: Ciao! Piacere, Alessia…
Live Dario: Ciao...
Live Alessia: Scusa, siamo un po’ affannati… Come stai, tutto a posto? Noi ti sembreremo pazzi che incrociamo la gente per caso così… e...
Live Dario: No, stai tranquilla…
Sembrava tranquillo, anche se era un po’ spiazzato. Dopotutto eravamo due sconosciuti che sapevano il suo nome e conoscevano il suo indirizzo.
Live Pablo: Siamo veramente le persone più innocue del mondo…
Live Dario: No, vabbe’, mica c’ho paura…
Live Alessia: E ci mancherebbe!
Live Pablo: No, vabbe’, però capito, arrivano due...
Live Dario: Però… come fate a sapere chi sono io…
Live Pablo: Allora… adesso ti spiego…
Gli abbiamo detto dell’inchiesta che stavamo realizzando. Sapevamo tutto sulla sua infanzia, sull’allontanamento, sulle vicende giudiziarie, e sulle sue dichiarazioni agli psicologi e ai giudici. Però non avevamo mai sentito direttamente la sua versione dei fatti.
Live Alessia: E quindi abbiamo deciso “Oh, sai che c’è’?”... incontriamolo, conosciamolo questo ragazzo di cui abbiamo letto solo sulla carta….
Ovviamente non potevamo presentarci e puntargli il microfono in faccia, perciò lo abbiamo nascosto in tasca. L’audio che segue quindi in molti punti è disturbato, e per ovvi motivi abbiamo voluto modificare la sua voce. Onestamente eravamo convinti che Dario ci mandasse via, un po’ come avevano fatto quasi tutti gli altri ragazzi coinvolti. Ma lui ci ha sorpresi. Dario voleva parlare. E senza che noi gli chiedessimo nulla, ci ha subito confessato un dubbio che lo assilla da anni.
Live Dario: Boh, io sinceramente non sono più sicuro di quello che è successo o non è successo… tanto… vabbe’ a me mi hanno allontanato che ero piccolo, hai capito, quindi… poi molti psicologi cercano anche di farti dire quello che vogliono loro, capito, per i soldi, quindi non sono neanche più sicuro di tutta…
Live Pablo: Veramente?
Live Dario: Alcuni ricordi ci sono, ma non so se sono reali o meno… cioè da un bambino tiri fuori quello che vuoi…
Il bambino zero che aveva parlato di abusi, rituali satanici e omicidi, e dai cui racconti era partita un’escalation di arresti, condanne, allontanamenti e morti, ora, a distanza di vent’anni, sospetta di essere stato manipolato, e mette in dubbio i suoi stessi ricordi e le sue stesse parole.
Live Dario: Gli abusi me li ricordo…spezzettoni…
Live Pablo: Di altre cose?
Live Dario: Sì
Live Pablo: Il ricordo che ti ha sempre perseguitato qual è stato?
Live Dario: Boh l’abbandono… è uno... quando comunque mi han portato in un posto e non si sono neanche fermati a dirmi cosa stava succedendo…...quando mi han portato al Cenacolo.
Live Pablo: Al Cenacolo, sì...
Live Alessia: Che eri piccolino, eri...
Un bambino allontanato e abbandonato senza spiegazioni. E’ il ricordo indelebile che Dario si porta ancora dentro da quando aveva 3 anni. Tutto il resto è nebbia.
Live Alessia: Tu te lo ricordi di essere stato in un cimitero?
Live Dario: Me lo ricordo, ma cioè le mura, le murature tipo in pietra… però… cioè non sai neanche se era un cimitero o era una vecchia casa abbandonata, hai capito...
Cioè io mi ricordo vagamente delle cose che… tutti sti lumini rossi cioè…una vetrata colorata... però avevo 3 anni...Dario è convinto che gli abusi sessuali nella sua famiglia naturale siano avvenuti, mentre dei cimiteri e dei rituali satanici conserva solo dei flash, confusi e sfocati.
Live Pablo: Per esempio, tu pensi di averli ammazzati davvero dei bambini al cimitero?
Live Dario: Io il ricordo ce l’ho, perché fino a 5 anni fa mi martellava…
Dario dice: “Io il ricordo ce l’ho, perché fino a 5 anni fa mi martellava…”
Live Pablo: Quello di aver ammazzato un bambino al cimitero?
Live Dario: Sì
Dario risponde di sì. Ormai però niente di quello che lui ricorda di quegli anni terrificanti può essere ritenuto del tutto credibile. E’ stato davvero abusato dai suoi familiari? O è solo il residuo di un incubo, come quello nel quale aveva ucciso un bambino? Mille domande che non avranno mai risposta. Dario ci ha raccontato il suo mondo: a 27 anni non ha un lavoro fisso, e ha trascorso gran parte della sua vita a combattere con i fantasmi che lo perseguitano da quando ne aveva 5.
Live Pablo: Però tu lo sai che non è mai stato trovato nessun morto, te l’han detta sta roba vero?
Live Dario: No...
Live Pablo: Come no?
Live Dario: Cioè io so più o meno che han preso la gente, l’han messa in carcere… ma che non hanno mai trovato niente nessuno me l’ha mai detto...
Nessuno gliel’ha mai detto. Fino al giorno in cui lo abbiamo incontrato, Dario ha creduto ad una storia mai accaduta, come uno di quei soldati giapponesi rimasti da soli su un’isola del Pacifico, a nascondersi da una guerra finita in realtà decenni prima. Anche lui si è nascosto. Per anni si è guardato le spalle col timore di essere pedinato da familiari e persone che volevano ucciderlo per vendetta. I primi a dargli la notizia che era tutto solo nella sua testa siamo stati noi. Non gliene ha parlato nemmeno Valeria Donati, che lo ha seguito fino a pochi anni fa. Dario non ha un bel ricordo di lei. Dopo una lunga terapia durata tutta la sua adolescenza, qualcosa sarebbe andato storto. La psicologa lo avrebbe usato per altri fini, per fare carriera. I rapporti tra la Donati e la sua famiglia affidataria si sono poi bruscamente interrotti, e dietro a questa rottura, secondo Dario, ci sarebbe una questione di soldi legata a degli affidi. Ma su questo non ha voluto aggiungere altro.
Live Giacco: Ci credi che quanti bambini che prendono dalla mattina alla sera, che fanno un commercio sui bambini… pagano 300 euro al giorno… è tutto un business di soldi…
Live Lorena: Beh… Quando si parla di potere, denaro e prestigio è tutto detto...
Gli avvocati e le famiglie coinvolte hanno sempre sostenuto che dietro agli allontanamenti dei bambini si nascondesse una vera e propria miniera d’oro. Il giro di soldi legato al sistema degli affidi è un tema molto ricorrente in casi di sottrazione di minori, e una delle grandi ombre sul processo ai diavoli della Bassa Modenese. Uno dei tanti protagonisti di questa vicenda, cioè il Tribunale dei Minori di Bologna - che ha emesso i decreti di allontanamento per tutti e 16 i bambini di Massa Finalese e Mirandola - è stato più volte criticato nel corso degli anni per i metodi utilizzati e per il forte conflitto di interessi dietro a questa pratica. E’ il motivo per cui Francesco Morcavallo, un giovane giudice che lavorava proprio in quel tribunale, ha deciso di abbandonare la toga nel 2013, dopo 4 anni di servizio. La sua non è stata una scelta facile.
Live Morcavallo: Le motivazioni prevalenti riguardano la, diciamo, facilità con cui venivano troppo spesso allontanati bambini o ragazzi dalle loro famiglie...
Alla base di questi allontanamenti secondo Morcavallo ci sarebbe un problema di fondo...
Live Morcavallo: Il pregiudizio nei confronti delle famiglie che vivono delle difficoltà o economiche o di relazioni sociali o di diversità culturale.
A volte sembra che basti davvero poco per portare via un bambino...
Live Morcavallo: Un disegno, una frase, una frase riferita, o anche solo un livido interpretato come un segno di maltrattamento…
E a quel punto la famiglia si ritrova incastrata tra gli ingranaggi di un congegno burocratico e giuridico infernale. Perché, anche quando a distanza di anni dovesse poi dimostrare la propria innocenza…
Live Morcavallo: … quel bambino viene mantenuto lontano dai propri familiari non più perché si ipotizzi che abbia subito violenze o abuso, ma perché ormai non li conosce più, diciamo così. Oppure si dice “non è più abituato a stare con loro”, o addirittura a volte - motivazione quanto mai singolare - “si trova bene nella famiglia a cui è stato affidato”…… oppure, brutalmente, perché quel bambino ha un valore economico.
E qui entriamo nella zona grigia del sistema. A decidere le sorti di un bambino, nelle aule di un tribunale dei minori, e’ un collegio di 4 persone: 2 magistrati e 2 giudici onorari, ovvero professionisti del settore privato con competenze specifiche, come psicologi, medici o educatori di case famiglia.
Live Morcavallo: Alcuni di questi giudici onorari risultano contemporaneamente fare i giudici nei Tribunali per i Minorenni e contemporaneamente sono o gestori di case famiglia o strutture comunitarie per minorenni, o lavorano in queste strutture, in un patologico e macroscopico conflitto di interessi.
A volte i fondi che Comuni e Regioni assegnano a strutture private e case famiglia raggiungono cifre astronomiche.
Live Morcavallo: … 400 euro al giorno.
Live Pablo: 400 euro al giorno per ogni bambino?
Live Morcavallo: … per ogni bambino.
Ovviamente, e torniamo a ripeterlo, quello degli abusi e dei maltrattamenti è un problema importante, e il lavoro fatto da centri, educatori e assistenti sociali è fondamentale e assolutamente necessario in una società civile. Così come, però, sembrano necessarie alcune riforme che salvaguardino gli stessi bambini e le loro famiglie da potenziali speculazioni. Ne parliamo con uno dei maggiori esperti in Italia di psicologia giuridica, Giovanni Battista Camerini:
Live Camerini: Psichiatra, esperto in psichiatria forense dell’età evolutiva.
Camerini sostiene che all’origine del cosiddetto ‘business degli affidi’ ci sia una legge approvata proprio nel periodo in cui è nato il caso della Bassa Modenese, la 285 del 1997.
Live Camerini: … che ha fatto arrivare finanziamenti importanti ai centri che si occupassero di abuso. Sono fioriti centri, spesso gestiti da persone non competenti, per cui in certe situazioni è venuto il legittimo dubbio che ci fossero più persone che si occupavano di bambini maltrattati, che bambini maltrattati. E questi centri son diventati, in molti casi, ovviamente non in tutti i casi per carità, delle specie di “abusifici”, nel senso che venivano incoraggiate le segnalazioni sulla base di indizi assolutamente inconsistenti.
Indizi che a volte hanno quasi del grottesco.
Live Camerini: Io mi ricordo un caso, devo dire purtroppo molto recente, in cui un sedicente esperto ha accreditato una denuncia di abuso, dicendo che il bambino parlando di un gelato alla menta, aveva chiaramente voluto simbolizzare l’organo genitale maschile, perché è noto che ai bambini non piacciono i gelati alla menta. Ovviamente non posso fare nomi, un notissimo esperto.
Ora, c’è un dettaglio molto interessante che riguarda proprio le esperte che hanno interrogato i bambini della Bassa Modenese. Le dottoresse Roccia e Farci, consulenti del tribunale che abbiamo sentito interrogare i bambini nella puntata precedente, lavoravano a Torino, mentre Valeria Donati e le sue colleghe dei Servizi Sociali esercitavano a Mirandola e in Emilia Romagna. Ma pur operando in regioni diverse avevano dato la stessa interpretazione ai racconti dei bambini. All’epoca dei fatti tutte loro facevano parte, o avevano seguito i corsi di formazione, del Coordinamento Italiano Servizi Maltrattamento Infanzia, meglio conosciuto come CISMAI. Si tratta di un’associazione estesa su tutto il territorio nazionale, che ha come obiettivo la prevenzione e il trattamento della violenza contro i minori. Le linee guida del CISMAI indicano un metodo preciso da utilizzare quando si ascolta un minore. Ce lo spiega Gloria Soavi, presidente dell’associazione:
Live Soavi: L’approccio è al bambino in quanto presunta vittima, con uno stato psicologico e una situazione di trauma, nella consapevolezza che una neutralità assoluta in un rapporto nei confronti di un bambino non ci può essere.
E proprio su questo il CISMAI è stato, ed è tutt’ora duramente criticato da una parte della comunità scientifica. Ecco cosa ne pensano la professoressa Giuliana Mazzoni e la psicologa Chiara Brillanti:
Live Mazzoni: Il Cismai sicuramente ha una posizione preconcetta in un qualche modo, cioè ‘i bambini non mentono mai’ e ‘esistono degli indicatori’, per esempio, ‘di abuso sessuale’, e questo è assolutamente smentito dalla letteratura scientifica.
Live Brillanti: Quando Cismai ha incominciato a portare la sua scienza e i suoi metodi in tutta Italia praticamente, perché venivano chiamati come periti anche se erano giovanissimi, cioè la non preparazione, la non obiettività, la ricerca dell’abusatore piuttosto che la salvaguardia della vittima, dell’eventuale vittima, ci sono stati scontri su questo punto di vista...
Nei colloqui con i bambini era stato effettivamente utilizzato proprio quel metodo così controverso. Live video bambini:
Psicologa: Sì, ma mi hai detto “gli fanno delle cose brutte”, ma cose brutte possono essere… non dargli da mangiare, dargli due schiaffi… eh… che ne so… non cambiargli il pannolino… oppure… portarlo al cimitero… ci sono tante cose brutte...
Bambino: Portarlo al cimitero!
Abbiamo letto la trascrizione di questo dialogo alla presidente Gloria Soavi che, specifichiamo, all’epoca non ricopriva questa carica, e non ha mai lavorato a questo caso. Anche se conosce molto bene le psicologhe coinvolte. Le abbiamo chiesto se a suo parere fosse corretto fare al bambino una domanda come quella, definita dagli altri esperti che abbiamo interpellato ‘altamente suggestiva’.
Live Soavi: Lei la legge come inducente questa frase...
Live Pablo: Embè, non so… mi dica lei...
Live Soavi: (ride)... non capisco dove vuole arrivare con questo. Sta dicendo che sono stati indotti? Non ci potrebbero essere stati invece dei problemi altri per cui questi bambini dicevano questo tipo di cose...
Live Pablo: E che problemi possono essere?
Live Soavi: Ha capito cosa voglio dire?
Live Pablo: No.
Live Soavi: Dei problemi personali, di lettura della realtà…
Forse c’era anche un’esperienza che adesso è molto più sofisticata dell’epoca. C’è molta più formazione adesso, se le posso dire. Con questo non è che il CISMAI, né allora, né adesso, è assolutamente per trovare gli abusi dove non ci sono.
Live Pablo: Però, voglio dire, da psicologa non se le farebbe delle domande di fronte a una storia del genere? Cioè, perché dei bambini devono parlare di cimiteri e di sacrifici umani che non sono mai avvenuti?
Live Soavi: Sì, me le posso fare le domande… Cosa posso dire, che hanno fatto degli errori?
Live Pablo: Non le sembrano errori gravi?
Live Soavi: Sono errori gravi, sì, se vuole che dica questo... però io a questo punto… posso dirle una cosa, lei ha registrato tutto?
Live Pablo: Sì
Live Soavi: Ecco, le chiedo di non utilizzarla, perché lei mi mette molto in difficoltà con delle persone che io conosco personalmente. Non è nostra intenzione mettere in cattiva luce la dottoressa Soavi e i suoi colleghi del Cismai, che si occupano quotidianamente di problemi importanti e delicati. Però ci permettiamo di suggerire che questo tema meriterebbe da parte dell’associazione una riflessione più approfondita.
È sera, e nella cucina di un appartamento alla periferia di Finale Emilia, c’è una donna seduta da sola al tavolo. Si chiama Daniela. L’orologio della sua vita è rimasto fermo a vent’anni fa, quando la figlia Sonia le è stata tolta ancora bambina. Daniela e Sonia vivevano da sole dopo che lei e il marito Massimo si erano separati. I nomi di padre e figlia però erano finiti nei racconti di abusi e cimiteri di una delle bambine interrogate dalle psicologhe, e la triste notte del 12 novembre 1998 - quella in cui erano stati portati via sia i bambini di Lorena che Alessandro - i carabinieri si erano presentati anche a casa di Massimo per arrestarlo, e a casa di Daniela per prendere Sonia. Per la madre, che non viene mai nemmeno indagata, inizia l’incubo degli incontri con i Servizi Sociali di Mirandola.
Live Daniela: Questo dottore, mi chiedeva sempre di mio marito, che potesse essere successo, che non potevo essere così sicura...
Live Pablo: Perché tu negavi?
Live Daniela: Sì negavo, perché sono troppo convinta... Cioè… non posso dire una cosa che non è vera...
La piccola Sonia viene portata dalla dottoressa Maggioni che riscontra segni di abuso gravissimi. A suo parere è la bambina che ha sofferto le torture peggiori. Ma Sonia non parla, non accusa i genitori e non dice niente su cimiteri e omicidi. E’ l’unica che non lo farà mai. Daniela è disperata. E quando qualcuno le suggerisce che l’unica soluzione per rivedere la figlia è confermare le accuse fatte all’ex marito dalla Procura…
Live Daniela: Ho ammesso, può essere successo che mio marito abbia abusato di mia figlia... Questa parolina magica ha smosso tutto. Così, 3 anni dopo l’allontanamento, madre e figlia si rincontrano.
Live Daniela: L’ho rivista al Cenacolo Francescano a Reggio Emilia. Sono entrata in questa stanza enorme… di fronte avevo la Donati… sento aprire una porta… vedo mia figlia… una cosa... la fantascienza non può esistere così… sarei scappata via...
Live Pablo: Perché?
Live Daniela: Perché non… io guardavo… pensavo che, il suo sguardo mi... invece mi schivava, il suo sguardo... Guardava tutti gli altri tranne che sua madre, quando parlava doveva parlare a comando. Su venti domande che le ho fatto me ne avrà risposte cinque. Non era più mia figlia, non era più quella bimba solare… Perché le hanno fatto il lavaggio del cervello.
Dopo averla vista un paio di volte al Cenacolo Francescano, Daniela chiede che gli incontri protetti con Sonia avvengano a casa sua. Ma la richiesta non verrà mai accolta.
Live Daniela: Dieci giorni prima di Natale, mi è stato detto che la bimba sarebbe stata data in affidamento.
Live Pablo: A chi?
Live Daniela: A chi non lo so, non si sapeva...
La madre ingaggia un investigatore privato, che riesce a trovare Sonia.
Live Pablo: E dov’era?
Live Daniela: A casa dell’avvocato degli assistenti sociali…
Live Pablo: Stai scherzando…
Live Daniela: No, no…
Live Daniela: Mi sono mancati i suoi anni migliori… dell’adolescenza. Mia nipote ha nove anni, e a volte le cambio il nome… Una vita di merda, credetemi… un giorno è buono, un giorno no, di notte non si dorme, si prendono psicofarmaci per poter dormire… perché il pensiero c’è sempre...
Quella di Daniela è una delle storie più inquietanti. Non è mai finita sotto processo. Non è mai stata accusata, né da sua figlia, né dagli altri bambini. E oltretutto dopo pochi anni il suo ex marito è stato assolto. Nonostante questo, però, sua figlia è finita al Cenacolo Francescano, e invece di tornare a casa sua è stata data in affidamento. Una bambina strappata alla madre senza nessuna ragione valida. E affidata a chi poi? A un avvocato legato al Cenacolo. E’ tutto un caso? E’ un caso che dopo l’allontanamento la maggior parte dei bambini sia finita in quell’istituto? E’ un caso che proprio lì dentro Valeria Donati fosse anche la responsabile del Centro per l’Aiuto al Bambino? Ed è sempre un caso che in quello stesso periodo il Centro Aiuto al Bambino avesse ottenuto dall’ASL di Modena un finanziamento triennale per oltre 800.000 euro, per l’assistenza e la cura di bambini vittime di abusi sessuali? Se lo sono chiesti molti di quelli che nel corso degli anni si sono occupati di questa storia. E su Valeria Donati, la giovane psicologa fresca di tirocinio, si sono concentrati sospetti e critiche. E’ stata accusata di essere impreparata, di aver avviato una caccia alle streghe, e di aver speculato sulla pelle dei bambini. Le abbiamo scritto, chiedendole un incontro per conoscere la sua versione dei fatti. Ci ha risposto così: “Ho profondo rispetto per il dolore e la privacy di queste famiglie, soprattutto di questi bambini e bambine, che ormai sono uomini e donne che si sono faticosamente ricostruiti una vita e che hanno affrontato enormi difficoltà e sofferenze. Per questo motivo, anche se avrei voluto esprimere la mia opinione su qualche punto più in generale o chiarire notizie ormai rivisitate o distorte dal tempo, non ho mai nemmeno preso in considerazione l’idea di poterlo fare in sede pubblica o attraverso mezzi giornalistici, nemmeno quando sono stata ingiustamente attaccata.”
Live telefonata: (squillo)
Live Donati: Pronto?
Live Pablo: Valeria Donati?
Live Donati: Sì...
Live Pablo: Buongiorno sono Pablo Trincia… Mi scusi se la disturbo...
Live Donati: Salve, buongiorno... Mi dica...
Live Pablo: Senta, la chiamo perché come lei sa il suo ruolo è stato centrale in questa vicenda, per cui… tutti parlano di lei, e noi vorremmo darle la possibilità di replicare, di spiegare che cosa è successo, stiamo facendo un lavoro…
Live Donati: Guardi io non posso dirle altro, nel senso che non è un problema di voglia, cioè che non ho voglia farmi intervistare o che non voglio dire la mia opinione, ha capito, è proprio un problema… non posso...
Live Pablo: Come mai, dottoressa, tutti quei bambini che passavano da lei finivano a fare quei racconti, ce lo può spiegare?
Live Donati: Allora, se mettiamo la conversazione su questo tono, io la saluto... Mi dispiace, non voglio essere sgarbata però la devo salutare, arrivederci… Buonasera.
Live Pablo: Perché dottoressa? Perché? (mette giù).
Il caso della Bassa Modenese non ha inciso sulla carriera di Valeria Donati, né su quella delle altre sue colleghe, che continuano a fare le psicologhe, a volte come consulenti in casi di sospetti abusi. Molto probabilmente nel 1997 sono state proprio queste professioniste, e poi la polizia e i giudici, a mettere nella testa dei bambini quella che in realtà era una loro paura, cioè l’esistenza di sette di pedofili satanisti. Quando i piccoli hanno assorbito questa paura, le loro fantasie deliranti sono diventate una verità per tutti. E alla fine era troppo rischioso ammettere di aver sbagliato.
Live Lorena: Perché non hanno lasciato traccia tutti questi psicologi, sti professoroni? Perché non hanno lasciato traccia di quel che han fatto? Cosa avevano da nascondere? Nascondere ma mica a me! Nascondere ai miei figli, nascondere alle autorità, nascondere anche a sé stessi…
Questa è Lorena Covezzi.
Live Lorena: I miei figli io non li considero dei bugiardi… se han raccontato queste cose, perché le han raccontate?
Live Pablo: Ma secondo te loro sono convinti che tu li abbia davvero portati nei cimiteri?
Live Lorena: No, loro sono convinti che io li ho abbandonati, in tutti questi anni… Secondo me non mi vogliono parlare perché non vogliono tornare su una sofferenza grande, che non han capito, che hanno subito al momento del distacco, al momento di essere separati fra di loro…
Da un giorno all’altro, il mondo di questi 16 bambini è stato distrutto: non avevano più i genitori, la loro casa, e i giochi che condividevano con i fratellini, da cui sono stati separati per sempre. È successo ai 4 figli di Lorena, finiti in 4 famiglie diverse, ed è successo ai due figli di Giuliano. È successo a Margherita, che non ha più potuto rivedere i 5 fratelli. È successo anche ai due figli di una donna che non vi abbiamo mai nominato, poi anche lei assolta. Ed è successo ai tre bambini di Federico Scotta: Elisa, Nick e Stella.
Flashback. Live Scotta: Quando siamo scesi giù nella saletta d’attesa non c’era più nulla. La macchina dell’Asl era già passata a portarseli via.
Live Pablo: E non li hai mai più visti?
Live Scotta: Da allora, no.
Live Elisa Scotta. Live Pablo: Tu da quant’è che non vedi tuo padre?
Live Elisa: Io mio padre non lo vedo da quando avevo tre anni...
Questa è Elisa Scotta. Live Elisa: Allora, io mi ricordo benissimo la casa dove stavo, me la ricordo benissimo. E poi dopo… mi ricordo mio fratello, me lo ricordo… e poi… basta!
Elisa oggi ha 23 anni, i suoi occhi sono proprio come li descrivono i verbali, verdi e leggermente a mandorla. Ci ha chiesto di non dire altro su di lei. Possiamo solo aggiungere che è una ragazza molto in gamba e molto matura per la sua età. L’abbiamo trovata su Facebook, e fin da subito si è mostrata molto interessata a ricostruire la sua storia, di cui non ha ricordi, perché quando sono stati allontanati lei e il suo fratellino erano troppo piccoli. Di suo padre Federico non sa, e non vuole sapere nulla.
Live Elisa: … per me è indifferente, cioè a me non mi cambia… io indietro non ci torno, e avanti non lo voglio. Per me rimane lì… non posso dire di ritenerlo tra virgolette ‘padre’… perché non lo è stato. Io non ho avuto niente, e niente voglio! Cioè... può essere innocente come non lo può essere… ci ha fatto dividere, dopo tutto quello che è successo siamo stati divisi tutti… io non ho più un rapporto né con mio fratello, né con mia sorella… sei stato tu!
Elisa però non prova rancore solo nei confronti del padre, ma è anche profondamente arrabbiata con il Tribunale dei Minori e con i Servizi Sociali.
Live Elisa: Io vorrei sapere il perché, dopo che ci hanno allontanati, i fratelli, non ci hanno mai tenuto in contatto… Non ho mai avuto un contatto, per esempio, con mio fratello, con mia sorella...
Elisa ha cercato per tutta la vita Nick e Stella, ma non li hai mai trovati, non conosceva i loro nuovi nomi, né le città in cui sono stati trasferiti. Abbiamo voluto aiutarla. Non possiamo raccontarvi i dettagli, ma dopo molte ricerche, in un paese poco lontano abbiamo trovato un ragazzo, con la stessa data di nascita e gli stessi occhi a mandorla che dovrebbe avere suo fratello Nick. Appena ha visto una sua foto, Elisa non ha avuto dubbi. Un istinto quasi primordiale le ha detto che era proprio lui.
Live Elisa: È una cosa strana che si prova eh… tanta gioia!
Elisa ha subito contattato Nick.
Live Elisa: E lui mi ha risposto “Guarda, mi fa piacere aver trovato la mia sorella di sangue… però io la mia vita ce l’ho, i miei genitori ce li ho, le mie sorelle ce le ho… e non voglio trasformare la mia vita, cambiarla, perchè adesso entri tu.” (piange)... Non mi mancano i genitori, a me mancano loro, cioè non me ne frega niente dei genitori, io voglio avere un rapporto con loro, e basta...
Live Pablo: Con i tuoi fratelli?
Live Elisa: Sì… perché comunque noi non abbiamo fatto niente per meritarci questo...
Le stesse paure e gli stessi rancori che tengono lontani i figli dai loro genitori, creano un abisso anche fra fratelli e sorelle, separati da bambini, senza motivo. Nessuno vuole più soffrire per questa storia... è un capitolo chiuso.
Live Lorena/Scotta. Live Pablo: Lorena, perché non vai tu dai tuoi figli? Che cos’è che ti frena?
Live Lorena: Bhe… non voglio procurare loro delle altre sofferenze ecco… Io mi chiedo: ma loro hanno bisogno di vedermi, hanno bisogno di incontrarmi?
Live Pablo: Ma ti viene ogni tanto la tentazione?
Live Scotta: Ebbè sì... L’avrei voluto fare ma… non... la paura di essere, come posso dire, giudicato per la quindicesima volta, m’ha fermato parecchio… perché comunque, sai, è brutto sentirsi dire da un figlio “non ti voglio più vedere”… o “chi sei… non sei mio padre, sei quello che mi ha fatto del male, quello che mi doveva proteggere e tu non c’eri”. Ma lei non sa gli sforzi che sono stati fatti...
Abbiamo chiamato il PM incaricato dell’epoca, Andrea Claudiani. Volevamo sentire la versione dell’accusa su questa storia. Ma ci ha detto che non parla con la stampa. Purtroppo, anche la maggior parte dei professionisti dell’ASL di Mirandola che in quegli anni hanno lavorato al caso, non ci ha voluto parlare. Ma uno di loro, inaspettatamente, ci ha aperto la porta di casa. Si tratta di Marcello Burgoni, all’epoca a capo dei Servizi Sociali. Burgoni era il responsabile di Valeria Donati e delle sue colleghe, ed è stato proprio lui a validare tutte le loro relazioni riguardanti i bambini.
Live Pablo: Come mai tutti i bambini che sono passati dal vostro servizio sociale hanno fatto questi racconti così strani?
Live Burgoni: È una domanda a cui ho pensato tante volte, e a cui non sono mai riuscito a dare una risposta…
Live Pablo: Come non è mai riusc… cioè… Lei crede veramente che ci siano stati questi rituali nei cimiteri? Lei crede che siano avvenuti?
Live Burgoni: Non lo so… io non lo so… non ho idea, ecco...
Live Pablo: Avete portato via i figli a una donna, 4 bambini, perché un’altra bambina diceva che venivano portati nei cimiteri, e lei oggi, a distanza di vent’anni, mi dice “non lo so”?
Live Burgoni: No, attenzione, il bambino diceva di avere avuto degli abusi in ambito familiare, e successivamente veniva allontanato, non prima...
Live Pablo: No, questo no, Burgoni, mi scusi, io le carte le ho lette e non è andata assolutamente così. I bambini venivano portati via, e in seguito affermavano di essere stati abusati...
Live Burgoni: No… no, no, no...
Live Pablo: Ma come no? Lei sa benissimo che non è così, succedeva l’esatto opposto!
Burgoni, visibilmente a disagio, comincia a tirarsi indietro. Non vuole continuare l’intervista.
Live Burgoni: Chiudiamo… la chiudiamo perché non... mi sembra che non ci siano le condizioni per potere… la storia è stata costruita e ricostruita dai processi ed è quella, e non può essere diversamente, perché la verità è quella lì.
Live Pablo: Lei crede che la metodologia che i suoi psicologi hanno applicato fosse una metodologia corretta?
Live Burgoni: Per i tempi di allora era una metodologia corretta… nel senso che erano le prime esperienze...
Live Pablo: E quindi potreste aver sbagliato?
Live Burgoni: Nessuno è infallibile… Nessuno è infallibile…
Live Pablo: Qui ci sono delle famiglie che sono state disgregate. Ci sono dei bambini, dei fratellini, i fratelli Scotta, le faccio un esempio su tutti, che non si sono mai più rivisti… la stessa cosa è successa in altri casi. Come mai è successo questo, Burgoni?
Live Burgoni: Non… non sono disponibile ad andare avanti…
Live Pablo: Ci sono dei genitori che non hanno più rivisto i loro figli...
Live Burgoni: Questa non è mica una minaccia, un ricatto nei miei confronti?
Live Pablo: Che cosa?
Live Burgoni: Quello che lei mi ha detto adesso...
Live Pablo: Che ci sono dei genitori che non hanno più rivisto i figli?
Live Burgoni: Sì
L’ex responsabile dei Servizi Sociali di Mirandola non dice più nulla, e mi accompagna alla porta. Live Pablo: Le chiedo l’ultima cosa, e poi me ne vado. Lei è sicuro, in cuor suo, di non avere rovinato dei bambini? Silenzio…… serratura che si chiude. Dario li ricorda gli incontri presso i Servizi Sociali, quando a sette anni lo tenevano in una stanza per ore, mentre veniva tartassato di domande anche quando non rispondeva e continuava a giocare.
Live Dario: E comunque quella gente lì dopo… non gli va mica bene che tu ti fai i cazzi tuoi… “Che è successo, racconta, torna indietro, cerca di ricordare”... Magari, capito, hanno veramente messo dentro della gente di cui nessuno ha mai parlato. Solo perché magari uno ti dice “uno pelato, con i baffi” così, cioè lo vai a prendere e lo sbatti dentro.
Ammette che alla fine dei colloqui era disposto a raccontare qualsiasi cosa, a tirare fuori qualsiasi nome, pur di andare via da lì. Avremmo voluto chiedergli molte altre cose, ma non ci è stato possibile. Dopo il nostro incontro, su quella stradina sterrata, ha passato una notte intera a mandarci mail e messaggi su Whatsapp. Voleva capire di più. Era quasi euforico. Finalmente aveva trovato qualcuno a cui sottoporre i dubbi che lo assillavano. Sembrava sollevato di non doversi sentire più in colpa per crimini che non aveva mai commesso. Ma poi, per un giorno intero, è sparito. Ed è ricomparso con un messaggio dal tono completamente diverso: “Prova ad avvicinarti ancora a casa mia e a rompere il cazzo ai miei familiari, e vedi cosa ti aspetta… sta fuori dalla mia vita e da quella delle persone che mi stanno attorno, se non vuoi problemi con i carabinieri”. Si era convinto, all’improvviso, che Alessia ed io fossimo fantasmi provenienti dal passato. Persone che lo volevano perseguitare. Che volevano fargli del male. Abbiamo provato a farlo ragionare, ma non c’è stato verso. Era meglio lasciarlo in pace. Siamo poi stati contattati da suo fratello Matteo, che ci ha spiegato come fosse stata la loro madre affidataria a terrorizzare Dario, una volta venuta a conoscenza del nostro incontro. Questo atteggiamento paranoico e iper-protettivo, che la signora Tonini sembra aver avuto fin da quando le è stato affidato, è uno degli elementi ricorrenti nei casi simili a questo in tutto il mondo.
Una madre iper apprensiva…Live Tonini: Chiamo le forze dell’ordine… non aggiunga niente… davvero… Che interpreta in maniera negativa i racconti del bambino, anche quando si tratta di scherzi che suo fratello naturale Igor fa alla sorella Barbara sotto le coperte.
Flashback. Live Barbara: … ma non è mai successo che lui abusasse di me, assolutamente no.
Igor: … io a mia sorella ho fatto solo il solletico...
E delle psicologhe che credono alla donna e iniziano a scavare. Tra i video che abbiamo trovato nella soffitta di Oddina ce n’era anche uno di Dario. Il suo primo colloquio con il Giudice per le Indagini Preliminari. In questo incontro il bambino ha pronunciato le parole che diventeranno le fondamenta di tutti i processi che hanno segnato questa storia. L’audio di questo VHS è molto rovinato, perciò vi aiuteremo noi. 11 luglio 1997. Dario dice: “Domani vado al mare”
Live Dario: Domani vado al mare…“Dove vai al mare?”
Live giudice: Dove vai la mare? “Sul Gargano”
Live Dario: Sul Gargano...
Il bambino è contento, perché sta per partire per le vacanze. Il giudice gli chiede: “Ci siamo? Possiamo cominciare?”
Live giudice: Ci siamo? Possiamo cominciare?
E la psicologa aggiunge: “C’hai il mare in testa?” Live psicologa: … c’hai il mare in testa?
Dario è piccolo, si distrae molto facilmente e ha la mente altrove. Parla dei cuccioli che ha appena partorito la sua gatta.
Live Dario: Sai che la mia gatta che si chiama Luna, ha fatto dei cuccioli...
Live giudice: Ma va?
Live Dario: … che ha portato via...
Per i giudici e le psicologhe è difficile riportare la sua attenzione sul tema del colloquio. Perciò gli ricordano che più perde tempo, e più “il mare si allontana”.
Live giudice: Guarda che il mare si allontana, eh…
Dario chiede: “Quando ho finito tutto, vado subito via?” E il giudice e la psicologa: “subito via!”
Dario: Quando ho finito tutto, vado subito via?
Live giudice / psicologa: Subito via, vai al mare...
Ma il giudice lo incalza. Prima deve parlare. “Più sei veloce a raccontare, più il mare si avvicina, sai?”
Live giudice: Più sei veloce a raccontare, più il mare si avvicina, sai?
Dario però mostra segni di stanchezza, loro cercano di incoraggiarlo facendogli delle carezze sulla schiena, e il giudice gli chiede se voglia stare un po’ in braccio a Valeria Donati: “Vuoi stare in braccio alla Valeria?”.
Live giudice: … vuoi stare in braccio alla Valeria?
La psicologa gli ricorda: “C’è un mare azzurro lì…” Live psicologa: C’è un mare azzurro lì…
E il giudice aggiunge: “Però prima devi darmi una mano, eh, se no…” Live giudice: Però prima devi darmi una mano, eh, se no…
Dario a quel punto comincia a rispondere alle domande e ripete i racconti che ha fatto settimane prima alle psicologhe: gli abusi in famiglia, il padre, il fratello Igor. Per aiutarlo lo fanno disegnare e giocare. Ma continua a distrarsi. E a quel punto una psicologa suggerisce di farlo riposare per un minuto. Quando riprendono, la donna gli dice: “Forza, tira fuori i muscoletti!”. E poi: “Se riesci a dire tutto quello che è capitato davvero, quando vai fuori da quella porta, ti godi di più la pallavolo, il mare, tutto quello che fai”.
Live psicologa: Se riesci a dire tutto quello che è capitato davvero, quando vai fuori da quella porta, ti godi di più la pallavolo, il mare, tutto quello che fai... E poi aggiunge: “Guardando i tuoi muscoli penserai: però, sono stato proprio forte!”
Live psicologa: … e guardando i tuoi muscoli penserai: però, sono stato proprio forte!
Dario risponde, ma poi si interrompe, e dice: “Non capisco niente!”. I suoi racconti, a tratti, diventano incoerenti. Cade più volte dalla sedia, si copre la faccia con le mani, gioca con il microfono. È evidente che non ha nessuna voglia di stare lì, e non collabora più. Le psicologhe, in difficoltà, cercano di contenerlo fisicamente per catturare la sua attenzione. Lui chiede: “Dobbiamo stare ancora qui?” e il giudice “Più rispondi, meno ci stai”. Poi la psicologa: “Non stai ascoltando, non stai ascoltando! E questo non ti è utile, non ti è utile, altrimenti stiamo qui tanto tanto!”
Live psicologa: Non stai ascoltando, non stai ascoltando! E questo non ti è utile, non è utile, altrimenti stiamo qui tanto tanto! E vai dopo...
Ma a quel punto, dopo più di un’ora, gli adulti intorno a lui si arrendono e chiudono il colloquio. Nel corso delle settimane e dei mesi successivi ce ne saranno parecchi altri. Abbiamo mostrato questo video, o letto la sua trascrizione ad alcuni degli esperti che avete sentito nel corso di questa serie, e hanno avuto un parere unanime. In questo colloquio sono state ignorate le indicazioni dei protocolli internazionali per l’ascolto di un minore, che esistevano già da prima del 1997. Dario è stato fortemente pressato. Gli hanno permesso di giocare, o di disegnare mentre raccontava un’esperienza traumatica. Una scelta molto pericolosa, perché può far confondere realtà e fantasia. Dario non andava preso in braccio, e non gli si doveva accarezzare la schiena mentre raccontava, perché gli si è fatto credere che a dire certe cose corrispondeva una gratificazione fisica. E’ stato illuso che se avesse raccontato si sarebbe sentito più bravo e più forte. Nella testa aveva una promessa che suonava quasi come un ricatto “prima parli e prima te ne puoi andare”. Il suo desiderio di andare in vacanza si è trasformato in un’arma in mano agli adulti. La parola ‘mare’ gli viene ricordata 11 volte. “Se non racconti, il mare si allontana”...Avremmo voluto dare a Dario l’opportunità di scegliere se guardare questo video, per cercare di calmare i demoni che si porta dentro, e fargli capire che tutte quelle cose potrebbe averle dette solo perché in fondo era un bambino spaventato, che si sentiva abbandonato, sballottato, confuso e messo sotto pressione di continuo. Tutto è cominciato da lì. E ha distorto in maniera ormai irreversibile questa storia che negli ultimi tre anni ha fatto venire gli incubi anche a noi. Se dovessimo dare un’immagine a Veleno, sarebbe quella di un bicchiere d’acqua in cui qualcuno versa dell’inchiostro. Tutto si confonde e diventa scuro. Tutto diventa cattivo. Tutti diventano colpevoli. Ma quanti lo sono davvero? Quell’inchiostro è fatto di paura, paranoia e pregiudizio, che hanno offuscato la ragione di chi doveva indagare, e la memoria di 16 bambini che non sono più tornati a casa. Quello che rimane del bambino zero, che un giorno di fine settembre del 1993 è finito per strada con i genitori e i fratelli dopo lo sfratto, è una mail, che ci ha scritto poche ore dopo il nostro unico incontro, in quella fredda mattina di gennaio. Veleno inizia e finisce con lui. “Per forza un bambino parla di fantasie, dopo 8 ore di stress, e pressione vorresti solo andare a dormire. Mi dispiace per tutta la gente buona che èstata arrestata. Fino a 3 anni fa credevo ancora a tutto quanto. O dentromagari non capisci se è vero o no. Ma se molte cose non si riescono aricordare dopo ci arrivi a capire che ti hanno usato come volevano, o per iloro scopi. E me ne do una colpa, perché potevo essere allontanato, ok, masenza mettere in mezzo gente che non ci è mai c’entrata nulla in una storia montata e rimontata da mille bambini, solo con nomi differenti. E più vai avanti e più speri solo che nessuno ti venga a dare la lezione che meriti. Io è da un anno e qualcosa che ho seri dubbi su tutto. E cerco di vivere senza darci un peso eccessivo. Ma con rabbia verso la gente che mi ha usato”. Veleno è il frutto dell’impegno corale di un gruppo di professionisti che hanno lavorato giorno e notte a questa storia. Lo hanno fatto con grande passione e dedizione. Voglio ringraziarli personalmente. Grazie a Repubblica per la fiducia che ci ha dato. E grazie a tutti voi che ci avete ascoltato.
Una puntata speciale, nello studio di Repubblica, con i protagonisti di Veleno. Pablo Trincia e Valeria Teodonio hanno ripercorso le tappe dell’inchiesta con alcuni dei genitori coinvolti. L'interrogatorio di Dario, il "bambino zero"
In questo video l'interrogatorio del bambino che fece scattare l'inchiesta, il “bambino zero”. Lo abbiamo chiamato Dario. Con lui ci sono il Giudice per le Indagini Preliminari e la psicologa Valeria Donati. Il dramma di Daniela. Daniela è la mamma di Sonia. La bambina è stata portata via dalla sua casa di Finale Emilia quando aveva dieci anni, il 12 novembre 1998. Ma Daniela non è mai stata indagata. Il padre di Sonia è finito sotto processo e poi è stato assolto. Daniela è stata l'unica delle madri coinvolte nell'inchiesta che è riuscita a rivedere la figlia. Lo ha fatto in pochissimi incontri protetti, ma quando ha chiesto di riaverla, Sonia è stata affidata a un'altra famiglia. La bambina non hai mai parlato di abusi o di cimiteri.
TRASCRIZIONE EPISODIO EXTRA
I personaggi dell'Episodio extra: Marta, Figlia di Francesca, la madre che si suicidò dopo che la bambina venne allontanata; Sonia, Figlia di Daniela. La donna non venne nemmeno indagata.
Una notte lunga vent'anni. Live: Passi verso un portone. Citofono. Risponde una voce: “Primo piano”. Passi sulle scale. Porta che si apre con rumore di radio proveniente dal salotto.
Live Pablo: Permesso… Ciao
Live Sonia: Ciao, piacere
Live Pablo: Posso entrare?
Live Sonia: Sì, certo, vieni.
Live Pablo: Il cane è aggressivo?
Live Sonia: No no, è buonissimo...
Davanti a me c’è una ragazza di 29 anni. E’ alta, ha i capelli castano chiaro, lunghi e lisci. Quello che più colpisce di lei sono i suoi occhi, di un verde intenso... Non sorridono mai...Ti attraversano...E’ lo sguardo di chi ha passato una vita rinchiusa nel silenzio...Sola, con la sua rabbia...
Live Sonia: Sono quella che tu hai chiamato Sonia, figlia di Daniela... L’unica dei sedici bambini che non ha mai parlato, nonostante tutte le pressioni di psicologhe e assistenti sociali...
Live Pablo: Ti posso chiedere… perché mi hai chiamato?
Live Sonia: (pausa) Per dirti la mia verità….
Live Sonia: Mi sento e mi sono sentita sequestrata da assistenti sociali, psicologhe, giudici e tutto quello che c’era dietro...
A pochi chilometri da quella cucina, in un parcheggio isolato, c’è una ragazza seduta in macchina...Di anni ne ha 28...
Ha i ricci castani e sorride spesso, gesticola, a volte scherza anche...Ma dall’estate del 1997 si porta dentro un dolore e un segreto...
Live Marta: Sono la ragazza che voi avete chiamato Marta. Io vi ho contattati a seguito dell’ascolto di Veleno, perché diciamo che in tutti questi vent’anni io ho sempre avuto dei dubbi su quello che mi era successo. Questo perché io sono… ho la certezza al cento per cento di aver inventato tutto. Tutta la storia che io ho raccontato agli assistenti sociali, alle psicologhe, ai giudici, io sono sicura che quelle cose non mi sono mai successe...
Live Alessia: Quindi tu non l’hai mai detto a nessuno che hai inventato tutto?
Live Marta: No, non l’ho detto a nessuno… no. No..
Sonia e Marta sono due dei sedici bambini allontanati dalle famiglie di Massa Finalese e Mirandola, su segnalazione dei Servizi Sociali, nella vicenda che abbiamo chiamato Veleno ..All’epoca dei fatti avevano rispettivamente 10 e 8 anni...Il trauma che hanno vissuto è molto simile, ma il modo in cui lo hanno affrontato da piccole le ha portate in direzioni opposte...Una ha sempre negato tutto e non è mai stata creduta...L’altra ha raccontato una storia inventata, che ha avuto profonde ripercussioni sulla vita di diverse persone...Oggi però entrambe provano rabbia per chi non ha saputo o voluto ascoltarle...Marta:
Live Alessia: Tu oggi… che cosa vuoi?
Live Marta: Intanto vorrei presentarmi davanti alle psicologhe, alle assistenti sociali, dirgli di guardarmi in faccia e dire che non hanno alcun dubbio rispetto a quello che hanno fatto. Però io so che da loro penso che sarà molto difficile avere delle risposte...
Sonia: Live Sonia: Io voglio vedere queste persone fuori da questo ambiente. Non devono più avere a che fare con dei bambini. Io chiedo questo. Non mi interessa di nient’altro… né di scuse, né di soldi… niente, non me ne frega un cazzo... Lo faccio per i bambini di oggi, perché non devono più subire quello che ho subito io...
Il 4 dicembre 2017 abbiamo pubblicato l’ultima puntata di Veleno .. La tappa finale di un’inchiesta alla quale Alessia Rafanelli ed io abbiamo lavorato per tre anni, e che ha riaperto il caso dei ‘Diavoli della Bassa Modenese’, il gruppo di pedofili che avrebbe compiuto rituali satanici in cui bambini e adolescenti venivano violentati e torturati nei cimiteri della zona…La nostra inchiesta si era chiusa con l’incontro con Dario, il ‘bambino zero’ dai cui racconti era partito tutto, che - ormai adulto - sospettava di essere stato manipolato dalle psicologhe che lo avevano seguito..
Live Dario: Boh, io sinceramente non sono neanche più sicuro di quello che è successo o non è successo perché tanto… molti psicologi cercano anche di farti dire quello che voglion loro… cioè da un bambino alla fine tiri fuori quello che vuoi….
Quasi due mesi dopo l’uscita della settima puntata, a giornali e tv è arrivata una lettera anonima, scritta da quelle che dicevano di essere quattro vittime...“Siamo alcuni dei bambini, oggi adulti, che, come si è affermato, furono “rapiti dallo Stato” a seguito dell’ormai ventennale vicenda riguardante i pedofili satanisti della Bassa Modenese. Rassicuriamo tutti… che non ci siamo mai sentiti “rapiti” dalle istituzioni, ma al contrario, da queste tutelati e protetti, né abbiamo mai avuto “padroni”...Infatti non abbiamo pianto né protestato in alcun modo quando fummo allontanati dalle nostre famiglie d’origine, non abbiamo mai chiesto in questi anni di rivedere i nostri parenti naturali, non abbiamo pianto quando abbiamo saputo che qualcuno di loro non c’era più. Avevamo già detto quello che c’era da dire all’epoca dei fatti e non c’era nulla da aggiungere se non dare conferma, come intendiamo fare ora, di ogni nostra dichiarazione”...La lettera, ripetiamo, non era firmata, e dopo queste dichiarazioni abbiamo atteso che qualcun altro di questi ex bambini si facesse avanti anche con noi, ma purtroppo non è successo…E quindi ci eravamo ripromessi di realizzare una nuova puntata solo nel momento in cui fossero emersi altri elementi rilevanti...Per settimane, non è successo nulla...E quando credevamo che questa storia fosse ormai chiusa e che non avremmo più sentito altre voci dal passato, Veleno si è ripresentata alla nostra porta con due testimoni inaspettate: Sonia e Marta..Di Sonia vi avevamo parlato nella settima puntata, quando sua madre Daniela ci ha raccontato di come le era stata portata via, all’alba del 12 novembre del 1998..
Live Daniela: Mi sono mancati i suoi anni migliori, una vita di merda, credetemi… di notte non si dorme, si prendono psicofarmaci, per poter dormire, perché il pensiero c’è sempre...
Daniela non era mai stata indagata, ma nonostante questo, il Tribunale dei Minori di Bologna aveva disposto l’allontanamento della piccola, che non era più tornata a casa...Alcuni mesi fa, però, Sonia all’improvviso si è rifatta viva con la madre, dopo un silenzio durato oltre dieci anni...
Live Daniela: Una domenica mattina di un anno fa ricevo una chiamata sul numero fisso di casa, che è il numero che è 20 anni che ce l’ho, l’ho sempre mantenuto perché avevo la speranza che mia figlia mi richiamasse...
Io sentendo la voce non ho parole per descrivere l’emozione. Un pianto indescrivibile, un’emozione… ho cominciato a balbettare, non ci credevo….
Live Sonia: E quando abbiamo iniziato a parlare siamo andati dritti sul discorso cosa era e non era successo… e quando ho avuto conferme anche da lei, cioè, basta, era come se tutto fosse tornato come prima….
Va beh… vedere le sue lacrime…
Live Daniela: La parola mamma, che da mia figlia erano vent’anni che non la sentivo, faccio ancora fatica a crederci...
A volte la mattina mi do dei pizzicotti… è una cosa che non… sembra un sogno!
Live Pablo: La cosa che ti fa arrabbiare di più, di tutta questa storia, qual è?
Live Sonia: Non essere mai stata ascoltata. Che le mie parole non hanno mai avuto significato per loro, erano solo bugie. Questo mi fa rabbia.
Sonia non è stata l’unica bambina di allora a scegliere di uscire dall’ombra dopo vent’anni. Qualche mese dopo averla conosciuta, un giorno all’improvviso, è arrivato un messaggio Whatsapp da un numero che avevamo contattato tre anni prima. “Sono Marta, non so se avete ancora il mio numero, ma mi avevate contattato per quell’inchiesta sui casi di Mirandola e dintorni. Mi scuso per avervi mandato via, ma non sapevo chi foste. Ho ascoltato Veleno, il pensiero mi sta tartassando perché credo che abbiate ragione… il dubbio l’ho sempre avuto”. Il messaggio di Marta ci ha colpito, e anche un po’ emozionato, perché era quello che meno ci aspettavamo. Abbiamo pensato spesso a lei in questi anni. Ci siamo chiesti come stesse e cosa facesse nella vita, perché la sua storia, forse, è la più tragica di tutte. Marta, infatti, è la figlia di Francesca, la donna che non aveva retto all’allontanamento della sua bambina e si era lanciata dal quinto piano del palazzo di via Pascoli, a Mirandola, il 28 settembre del 1997.
Live Marta: Io… so che ero una bambina molto molto attaccata a mia madre, perché alla fine diciamo che c’era solo lei. E la mamma è la mamma… quindi sì, sicuramente le volevo molto molto bene...
Live Alessia: Tu te lo ricordi com’è fatta… com’era tua mamma, la faccia...
Live Marta: Mah, io mi ricordo che aveva gli occhiali, che aveva i capelli lunghi neri, abbastanza magra… però, anche lì, ricordi vaghi… cioè ho dei flash di lei che mi accompagna in bicicletta perché la scuola non era molto distante da casa e… avevamo un cagnolino, che adoravo…
In casa però c’erano dei problemi. Sua mamma Francesca, una donna di 42 anni, usciva da una separazione burrascosa con il padre di Marta. La bambina era rimasta a vivere con lei a Mirandola. Ma le liti tra Francesca e l’ex compagno erano degenerate, al punto da richiedere l’intervento dei Servizi Sociali, che in quel caso avevano il ruolo di semplici mediatori. Nelle loro relazioni Francesca viene descritta come molto presente e attenta alla figlia, addirittura iperprotettiva.
Live Marta: Anche se… sicuramente non era una santa, nel senso che... magari a volte poteva diventare un po’ aggressiva, un po’ manesca...
Live Alessia: Raccontami tipo un’immagine che ti ricordi...
Live Marta: Tipo, non so, lei che mi picchia con una ciabatta, per dire, o che mi dà uno schiaffo.
Di queste cose sì, però di tutto il resto no. I vicini di pianerottolo di Francesca e Marta erano Federico Scotta, sua moglie thailandese Kaempet, e i figli Elisa di 3 anni e Nick di pochi mesi. Di loro vi abbiamo parlato nella terza puntata. Federico e Francesca erano molto amici...
Live Scotta: Piuttosto non mangiava lei per cercare di dargli un gioco in più a sua figlia, per dargli una maglietta in più, per dargli qualcosa in più...
Lei per sua figlia avrebbe non solo dato la vita, avrebbe dato oltre. Nella primavera del 1997, quando Marta aveva otto anni, un bambino di Massa Finalese stava cominciando a raccontare alla psicologa Valeria Donati di un’inquietante banda di pedofili che operava nella zona. Era il piccolo Dario Galliera, che abbiamo soprannominato il ‘bambino zero’. Dopo aver accusato i familiari, Dario aveva parlato di un gruppo di genitori che sfruttava sessualmente i propri bambini, e tra questi la Donati si era convinta che ci fossero anche Federico Scotta e la sua vicina Francesca. Dario e Marta vivevano però in due paesi diversi, ed effettivamente il bambino, in un primo momento, non l’aveva riconosciuta in fotografia. Ma poi, quando gli era stato chiesto una seconda volta, si era corretto e aveva detto di essere stato violentato insieme a lei in una casa.
Live Alessia: Tu conoscevi, all’epoca dell’allontanamento, Dario?
Live Marta: No io non l’ho mai conosciuto.
Live Alessia: Per capire se in qualche modo magari da piccoli c’erano stati dei legami fra le vostre famiglie, oppure se fosse…
Live Marta: No, assolutamente nessun legame.
Per i Servizi Sociali e il Tribunale dei Minori di Bologna, però, bastava la dichiarazione del bambino. Alle prime luci dell’alba del 7 luglio 1997, una macchina della polizia di Mirandola si era fermata nello spiazzo antistante il palazzo di via Pascoli. Gli agenti avevano poi bussato alle porte di Federico e Francesca. Marta ha rimosso ogni ricordo di quel momento, che però siamo stati in grado di ricostruire attraverso le testimonianze e i verbali di chi era presente. Francesca, appena si era ritrovata la polizia fuori dalla porta, era andata nel panico e aveva chiamato un’amica, che però non era riuscita a tranquillizzarla. Una volta arrivate in commissariato, lei e la figlia si tenevano talmente strette, che i poliziotti e l’assistente sociale erano intervenuti con la forza, strappando Marta dalla braccia della madre.
Live Marta: Io ho solo un ricordo di qualcuno che mi voleva prendere e io gli ho dato un morso. Ho solo questo ricordo, però di tutto il resto, buio… buio…
Sonia aveva una vita molto simile a quella di Marta. Anche lei infatti a 9 anni viveva sola con la madre Daniela, in una casa di Finale Emilia. Si erano trasferite lì da poco, dopo la separazione dei genitori. Daniela aveva denunciato il marito Massimo perché la picchiava, e dopo la separazione Sonia era rimasta con lei.
Live Sonia: Ero una bambina serena, ero molto timida, chiusa, però ero tranquilla. Avevo le mie amicizie, ero brava a scuola… una bambina normale.
Live Pablo: E con la mamma che rapporto avevi?
Live Sonia: Io la adoravo e basta...
Un giorno, però, una cuginetta di Sonia era stata allontanata per sospetti abusi e coinvolta nelle indagini contro il misterioso gruppo di pedofili a cui la Procura stava dando la caccia. La piccola era stata presa in carico dal servizio di neuropsichiatria, e dopo qualche mese, aveva raccontato che praticamente tutta la sua famiglia faceva parte della setta satanica, e che di notte lei e i suoi cuginetti venivano portati nei cimiteri. Tra loro c’era anche Sonia. Anche in questo caso i racconti della piccola erano stati creduti. Parola per parola.
Live Daniela: Si son presentati alle sei del mattino, i carabinieri. “Signora dobbiamo portarle via sua figlia”. “Come portarla via?”.
Live Sonia: Ero a letto, niente, suona il citofono, io sento delle voci, mia madre che inizia a parlare, a piangere… niente… ho iniziato a piangere anche io...
Live Pablo: Perché hai iniziato a piangere?
Live Sonia: Perché avevo capito che c’era qualcosa che non andava, perché mia cugina era stata già allontanata da diversi mesi e… avevo paura già che mi portassero via… e infatti è successo...
Live Daniela: C’era anche una… una donna insieme a loro, mi ha detto “Signora la tranquillizzi perché è molto agitata...
Live Daniela: “Le prepari uno zainetto con dentro alcune cose”… “Come alcune cose? Dove dovete portarla?”
Live Sonia: Mia mamma mi ha fatto cambiare, con la poliziotta in camera che mi guardava… mi ha preparato un cambio, messo nello zaino di scuola…
Live Daniela: “Vestiti che vai con questi signori che hanno bisogno”...
Live Sonia: Mi sono sentita abbandonata per il modo in cui mi ha salutata, perché mi ha detto “Torno a prenderti stasera” e io la aspettavo...
Sonia era salita in macchina. Accanto a lei c’era un’assistente sociale, Odette Magri. La donna le aveva spiegato che sarebbe stata portata in una casa-famiglia vicino a Forlì.
Live Sonia: … Perché “avevamo bisogno di essere protetti”. Io non ho detto niente. Io l’unica domanda che ho fatto è stata se in casa-famiglia c’erano le finestre, perché avevo paura di essere chiusa in una prigione al buio…
Sulla scrivania di Sonia era rimasto un diario con la copertina nera. Il segnalibro è fermo sulla pagina di quel giorno, sulla quale la bambina aveva scritto per l’ultima volta i compiti da fare: “Studia la Grecia”. Dopo l’allontanamento di Marta, la madre Francesca non aveva retto. Era dimagrita e sciupata. Aveva perso il lavoro. E di Marta non sapeva più nulla. Poi, a settembre, quando il Tribunale dei Minori l’aveva convocata, sul suo fascicolo la donna aveva notato un post-it giallo che qualche addetto aveva distrattamente lasciato attaccato al faldone, con il nuovo indirizzo dove risiedeva la figlia: il Cenacolo Francescano. La donna ci era andata subito. Appena arrivata, aveva fatto il giro della struttura, e attraverso una cancellata coperta da una rete verde aveva intravisto sua figlia, che giocava da sola a pochi metri di distanza.
Live Marta: Ricordo di aver sentito una voce che mi chiamava, quindi io l’ho subito riconosciuta anche se in realtà non riuscivo proprio a vederla bene perché c’erano di mezzo non so se alberi, siepi... eh ... io non mi ricordo bene la mia reazione… cioè non so se ero felice, triste, probabilmente un pò di felicità, un po’ di agitazione… però penso di essere andata subito dalla suora a dire “Guarda che lì c’è la mia mamma!”
La responsabile del Cenacolo, Suor Annarita Ferrari, si era infuriata per quella visita inaspettata di Francesca e l’aveva mandata via in malo modo, denunciandola alla Polizia, che il giorno dopo l’aveva arrestata per inquinamento di prove. Dopo alcuni giorni di carcere, Francesca si era ritrovata sola in casa, ai domiciliari.
Live Marta: Mi ricordo che lei aveva lasciato alla suora una bambolina con uno zainetto e… c’era dentro un bigliettino che, non ricordo cosa c’era scritto, però tipo “Ti voglio bene, torno presto”, una cosa del genere. Però io lei non l’ho… non l’ho vista.
Dopo essere finita nella casa-famiglia di Forlì, anche Sonia era stata portata al Cenacolo Francescano.
Live Sonia: E lì ho conosciuto Valeria Donati, la mia psicologa.
Valeria Donati, vi ricorderete, era una giovane professionista a contratto presso i Servizi Sociali di Mirandola, ed era stata la prima a sospettare degli abusi subiti da Dario e poi dagli altri bambini. Il suo ruolo, all’interno della ‘vicenda pedofili’, era stato determinante. Durante i processi gli avvocati della difesa l’avevano accusata di aver fortemente suggestionato i piccoli nel corso dei colloqui, inducendoli ad accusare i genitori. Di quegli incontri con la psicologa, a quanto pare, non esiste nessuna registrazione. Sonia però ne ha un ricordo indelebile.
Live Sonia: Mi ha detto che mia madre non era brava perché non mi proteggeva, e praticamente era d’accordo con mio padre che mi faceva quelle cose, che abusava di me, che mi portava nei cimiteri, mia madre lo copriva.
Live Pablo: Tuo papà ha mai abusato di te?
Live Sonia: Mai, assolutamente.
Sonia aveva più volte chiesto alla Donati e alle sue colleghe di rivedere la mamma...
Live Sonia: Mi rispondevano che non potevo… anzi, io mi dovevo dimenticare di lei, perché finchè non… non raccontavo quello che raccontavano anche gli altri bambini, non l’avrei mai più rivista.
La stessa cosa che a quanto pare veniva ripetuta anche a Marta...
Live Marta: Io chiedevo anche di poterla rivedere e mi hanno sempre detto che non era possibile. Valeria Donati in primis mi ha sempre detto che non era possibile rivederla… Perché lei comunque mi diceva che comunque mi aveva fatto delle brutte cose e... che bisognava prima risolvere questa cosa poi, forse, dopo... Però questo dopo non è mai arrivato…
Entrambe le bimbe erano poi state convocate da Valeria Donati e dalla responsabile del servizio minori, Monica Benati...
Live Sonia: … e mi hanno spiegato nei dettagli che una dottoressa avrebbe dovuto guardare la mia patatina, il mio sedere, per vedere se c’erano dei segni di violenza.
La dottoressa è Cristina Maggioni della Mangiagalli di Milano. Era la dottoressa che aveva sostenuto che l’imene di una bambina vittima di violenze potesse ricrescere con l’arrivo delle prime mestruazioni.
Live Pablo: Pensa di aver fatto bene il suo lavoro? Live Maggioni: Vuole radiarmi dall’ordine? Live Pablo: No, non mi interessa... Live Maggioni: Vuole impedirmi di fare il medico per il resto dei miei giorni?
Sonia racconta che la Donati e la Benati l’avevano messa in guardia prima di entrare nello studio della Maggioni.
Live Sonia: Mi hanno detto che se non tirava fuori la macchina fotografica non c’era problema, invece se avessero fatto delle fotografie, lì mi dovevo preoccupare. Perché voleva dire che i segni di violenza c’erano...
Mi ricordo che mentre mi visitava mi spiegava quello che stava per fare... e… poi hanno tirato fuori la macchina fotografica...
Live Pablo: E tu lì hai... che cosa hai provato?
Live Sonia: (pausa) Rabbia… perché non… non poteva essere vero.
La reazione di Sonia viene descritta anche nei verbali dell’assistente sociale che l’aveva accompagnata, Odette Magri: “La bambina era molto tesa, visibilmente in difficoltà… l’unica cosa che ha detto alla fine è stata: “Io da quei dottori non ci voglio più andare”. Marta, all’età di 8 anni, era stata nello stesso studio. Ma alla visita aveva reagito diversamente.
Live Marta: Dunque... io mi ricordo che mi aveva… mi aveva accompagnato una delle suore. e… mi ricordo di una dottoressa, di una visita abbastanza veloce...
Veloce perché la bambina non aveva manifestato particolari resistenze a farsi visitare. Anzi, la sua disponibilità aveva subito colpito la dottoressa Maggioni, che nel verbale di una delle udienze aveva commentato: Marta è stata visitata abbastanza bene, anzi talmente bene, che sul mio foglietto c’è scritto “bravissima”, le hanno fatto gli applausi… questa esagerazione di disponibilità non è normale, la trovo in qualcuna, ma solo quando sono state molto abusate. Era come se la ginecologa avesse dedotto che la bambina era stata violentata semplicemente osservando il suo comportamento prima dell’esame. Dopo la visita la Maggioni e il suo collega, il dr. Bruni, si erano avvicinati alla piccola Marta, e le avevano detto che c’erano dei segni che indicavano che le era stato fatto del male.
Live Alessia: E tu?
Live Marta: E io ci credevo, che potevo fare? L’ha visto la dottoressa, come fa a dire delle bugie una dottoressa?
Solo successivamente, a processo, alcuni medici legali si diranno in disaccordo con le conclusioni della Maggioni su Marta e Sonia. Per loro gli abusi che la ginecologa aveva riscontrato non erano affatto evidenti. Ma in quel momento c’erano solo le valutazioni della Maggioni. E l’esito della visita di Marta, noto solo a pochissime persone, era stato subito spifferato alla stampa. Il giorno dopo, la mamma Francesca - sola in casa - aveva acceso Televideo per controllare le notizie, e si era ritrovata a leggere con il cuore in gola che sua figlia aveva subito violenze sessuali gravissime, che probabilmente ne avrebbero pregiudicato la possibilità di avere figli da adulta. La donna a questo punto era impazzita. Non poteva uscire di casa, non poteva chiamare nessuno. Qualche giorno dopo, domenica 28 settembre, aveva fatto una telefonata alle uniche persone che in quel momento potevano davvero capirla: i vicini di casa Federico Scotta e la moglie Kaempet.
Live Scotta: Suona il telefono di casa… e dall’altra parte la Francesca. Aveva una voce stranissima: “Vi ho voluto tanto bene, mi dispiace che le cose finiscano così. Addio”. E ha chiuso il telefono.
Allarmato, Scotta aveva chiamato subito la polizia. Poco dopo, una volante si era fermata all’angolo fra la Statale 12 e via Pascoli. Un agente aveva alzato lo sguardo e aveva visto Francesca a cavalcioni sulla ringhiera del balcone al quinto piano.
Live poliziotto: Siamo arrivati là… c’era la porta che era… non era chiusa a chiave, e c’era la catenella attaccata, e dalla porta si vedeva che c’era lei a cavallo della balconata. Non abbiamo fatto in tempo neanche a entrare che lei si era già lanciata.
Un volo di quasi quindici metri. Era morta ore dopo all’ospedale, da sola. Nell’appartamento al quinto piano era stato trovato un bigliettino sul tavolo della cucina. Francesca aveva scritto: “Non ce la faccio più, sono innocente”.
Live Marta: Io mi ricordo solo che mi hanno detto “La tua mamma se n’è andata” e io ho detto “Eh, dove è andata?” “No, non è che è andata via, è che è morta”... e poi di altro, di altro non ricordo. Però ricordo di aver pianto.
Nei verbali dell’assistente sociale Odette Magri, quel momento viene ricostruito secondo per secondo. Le dipendenti dei Servizi non si erano limitate a dirle che sua mamma non c’era più. Avevano anche insinuato che si fosse suicidata perché era stata scoperta e non aveva più via di scampo. Un dubbio che nessuno aveva diritto di metterle in testa, perché in quel momento contro sua madre non esisteva nessuna prova.
Live Marta: Questo è stato anche un mio dubbio che io mi sono portata dietro da sempre. Cioè: se mi madre sapeva di essere innocente, di non aver fatto nulla, perché si è buttata giù dal quinto piano?
Però, anche lì, vai a pensare cosa c’è nella testa di una persona, che magari aveva pure i suoi problemi, magari non era… non era completamente lucida. I servizi sociali e la procura si erano ritrovati davanti a una situazione complicata. C’era il cadavere di una madre. E una bambina orfana che non l’aveva mai accusata.
Live Marta: Sicuramente le psicologhe, anzi soprattutto una in particolare, ha fatto tanta pressione, perché...
Live Alessia: Chi?
Live Marta: Valeria Donati. Perché io mi ricordo questi colloqui infiniti, estenuanti… e… ho dei flash in cui appoggiavo la testa sul tavolo e avrei voluto non sentire più nessuno, perché comunque era tutto un dire “Racconta cosa ti è successo, se racconti vedrai che starai meglio…”. E io subito non sapevo cosa raccontare, perché sapevo che non mi era successo niente...
La stessa situazione in cui racconta di essersi trovata Sonia.
Live Sonia: A ogni incontro mi veniva ricordato che la visita parlava chiaro, quindi, cioè, era inutile che io continuassi a stare in silenzio. Tanto i segni ormai erano evidenti, quindi non c’era più il dubbio, era una certezza. Io negavo assolutamente, dicevo che non era vero niente, niente... non mi interessava né di quello che diceva la Donati né di quello che aveva detto la Maggioni. Live Pablo: E a quel punto che cosa ti veniva risposto, quando tu negavi? Live Sonia: Che ero bugiarda, che non ero coraggiosa, che tanto lo sapevano già perché c’erano già gli altri bambini che parlavano, quindi...
Live Marta: Io son certa che erano le psicologhe che mi dicevano il loro nome e che mi dicevano “ Guarda che lui ha fatto anche il tuo nome… quindi tu eri lì… eri in quella situazione lì” Mi ricordo… un tavolo, io seduta da una parte, lei seduta dall’altra, modalità interrogatorio...
Live Sonia: Violenze psicologiche e basta, queste erano. Cioè lei parlava un’ora, per quattro anni e mezzo, tutte le settimane, davanti a una bambina che piangeva. Impassibile lei continuava con la sua storia, cioè qualsiasi cosa io dicessi non aveva importanza.
Sonia e Marta erano bambine piuttosto timide. Dopo essere state portate via da casa, si erano chiuse nel silenzio, continuando a ripetere che i genitori non avevano mai fatto loro del male. Lo stesso era accaduto per gli altri bambini, che all’inizio non avevano parlato, ma che dopo parecchio tempo - durante il quale non avevano più avuto contatti con nessuno dei propri familiari - erano diventati testimoni instancabili, arrivando a delineare i contorni della setta satanica di cui abbiamo parlato nel corso delle sette puntate di Veleno. Nelle testimonianze gli inquirenti avevano notato una serie di dettagli ricorrenti, che avevano convinto il Tribunale di Modena della solidità della loro storia. Stupri, animali squartati, omicidi. Sonia ricorda un episodio in particolare, quando aveva raccontato alla Donati che le piaceva giocare con dei gattini randagi.
Live Sonia: Ha iniziato a dirmi che “Certo, tanto noi lo sappiamo già che i gatti venivano torturati davanti a voi, la notte nei cimiteri, venivano uccisi, vi veniva fatto bere il sangue”
Live Pablo: Scusami, e quando lei ti diceva queste cose tu che cosa rispondevi?
Live Sonia: Che non era vero… che non mi era mai successo niente.
Live Marta: Valeria mi diceva “Guarda che c’eri anche tu lì”, e quindi io penso che sia stata lei a parlare per prima di cimiteri, e io probabilmente c’ho ricamato sopra una storia. Dato che mi dicevano “Parla che stai meglio” e... “Ti devi aprire che stai meglio”... e mi dicevano sempre che avevo sempre gli occhi lucidi…
Live psicologa: I tuoi occhi lucidi ogni tanto mi dicono che cerchi di buttare giù qualche boccone, vero?
In uno dei video che abbiamo trovato, Marta è seduta davanti alla psicologa Sabrina Farci, che la stava registrando nel corso di un’audizione protetta.
Live Marta: “Guarda che hai gli occhi lucidi, hai qualcosa dentro, buttalo fuori”… anche lì, dopo un po’, dopo diecimila volte che te lo dicono... alla fine ho ceduto.
Live psicologa: Quindi mi dicevi… la mamma?
Live Marta piccola: Mi portava in posti brutti, al cimitero e in casa di altre persone
Live psicologa: E quando ti portava al cimitero?
Live Marta piccola: Mhmm… verso sera…
Live psicologa: Verso sera...
Live Marta piccola: Alcune volte anche di pomeriggio
Live psicologa: Mhmm... Che cosa avveniva in questi posti?
Live Marta piccola: Mi facevano del male
Live psicologa: Lo facevano tutti o lo facevano solo a qualcuno?
Live Marta piccola: A tutti i bambini che venivano lì
Live psicologa: Ah, c’erano tanti bambini che venivano?
Live Marta piccola: Sì sì… E dopo alla fine davano i soldi alla mamma
Live psicologa: Davano dei soldi alla mamma…
Live Marta piccola: Mhmm…...
Live psicologa: Sai, è proprio triste questo. Ti capisco, sai, dev’essere proprio difficile per te…
Forse in certi periodi sei stata un po’ anche arrabbiata con la mamma allora...
Live Marta piccola: Sì sì...
Live psicologa: Quindi hai potuto esprimere la rabbia solo dopo che lei non c’era più...
Live Marta piccola: Mhmm…
Live Marta: In questo momento avrei voluto dire a quella Marta: “Non rispondere così!” Cioè non farti mettere in bocca delle parole che non sono tue.
Qualcuno ci ha fatto odiare le nostre famiglie naturali. Marta aveva raccontato che anche Federico Scotta, il vicino di casa, la violentava e la vendeva ad altri maniaci sessuali. A causa di queste accuse, che lei oggi dice di avere inventato, Scotta era finito in carcere con una condanna a 11 anni, senza rivedere mai più i suoi 3 figli. E il senso di colpa ha sempre tormentato Marta mano a mano che cresceva.
Live Marta: Tante volte ho pensato: “Basta, adesso io voglio dire che ho inventato tutto”. Poi però dopo la mente va a quando sei piccola, ai giudici, ai tribunali… e in quel momento dicevo no, cioè, io non voglio ripercorrere tutta ‘sta storia.
Sonia invece, non aveva mai parlato, e nonostante le psicologhe avessero insistito molto con lei, era stata l’unica tra tutti i bambini allontanati a non dire mai una parola contro mamma Daniela e papà Massimo. Del suo silenzio si parla anche in un decreto di 31 pagine del Tribunale dei Minori di Bologna, firmato dall’allora presidente Elisa Ceccarelli. A pagina 23 vengono descritte le caratteristiche emotive di Sonia durante i colloqui con le psicologhe. Sentite cosa dicono di lei: “La mimica di Sonia appariva piuttosto stereotipata, caratterizzata da un debole sorriso che sembrava assumere la funzione di maschera. I frequenti “non so, non ricordo” e simili sembravano rimandare ad un comportamento di una per così dire “piccola omertosa”.
Live Sonia: Loro mi dicevano che i miei genitori erano stati bravi a farmi il lavaggio del cervello… per farmi dimenticare...
Il 22 febbraio 2000, la bambina viene sentita da un giudice, la dottoressa Milelli. Ecco un estratto di quella conversazione:
Domanda: Ti chiedo questo. Se tu vorresti ritornare a casa dai tuoi genitori.
Risposta: Sì
Domanda: Con chi vorresti tornare tu?
Risposta: Con la mamma.
Domanda: Hai un ricordo buono della mamma?
Risposta: Sì. A me non mi hanno fatto niente i miei genitori
Domanda: Tu sei sicura di questo?
Risposta: Sì
Live Sonia: Sapessi la fatica che io ho fatto per entrare in quella stanza e dirgli la mia verità… pensavo che fosse lì la salvezza, invece… quando non mi ha creduto neanche il giudice… (pausa) Lì ho capito che non c’era più niente da fare.
Sonia, quando descrive la sua esperienza, utilizza un termine brutale: sequestro. Effettivamente che altra definizione può avere entrare nella cameretta di una bambina nel cuore della notte, strapparla ai suoi affetti, alle sue bambole, alla sua scuola, a tutta la sua famiglia, e non ascoltarla quando ti giura che non le è successo nulla, e che vuole solo tornare a casa? Parecchio tempo dopo il suo allontanamento, suo padre Massimo era stato assolto da tutte le accuse, e la mamma Daniela - che ripetiamo, in quel processo non era mai nemmeno stata coinvolta - era riuscita con grande fatica a ottenere il permesso di incontrarla di nuovo, anche se alla presenza delle psicologhe.
Live Daniela: L’ho rivista al Cenacolo Francescano a Reggio Emilia.
Live Sonia: Erano passati già... tre anni.
Live Daniela: Sono entrata, in questa stanza enorme, di fronte avevo la Donati, sento aprire una porta… vedo mia figlia… sarei scappata via… guardava tutti gli altri tranne che sua madre, quando parlava doveva parlare a comando...
Live Sonia: Ovviamente prima dell’incontro le psicologhe mi avevano detto che non… non avremmo potuto parlare liberamente, che certe cose non le potevo chiedere, tipo sul passato non si poteva andare.
Live Daniela: Su venti domande che le ho fatto me ne avrà risposte cinque. Live Sonia: Io avrei voluto entrare in quella stanza, andare da mia madre e dirgli “Ma che cazzo è successo?”, e io non potevo farlo...
Live Daniela: Non era più mia figlia, non era più quella bimba solare…
Live Sonia: Non dovevo far trasparire nessun sentimento, nessuna emozione, nessun pensiero… cioè io avevo paura di pensare perché credevo che mi leggessero nel pensiero... Cioè non riuscivamo a essere spontanee, a parlare, a… era una cosa tristissima.
Quando Sonia aveva compiuto 14 anni, Daniela aveva chiesto di poterla riavere a casa, almeno per qualche giorno alla settimana. Ma le era stato comunicato che non era possibile. Per sua figlia era stato deciso un altro futuro, fuori dalla comunità. Sonia era stata affidata ad una famiglia. Non una qualunque, bensì a quella di un avvocato legato allo stesso Cenacolo Francescano.
Live Sonia: E… Lui aveva 67 anni e lei 64. Non mi hanno mai dimostrato affetto… Io sembravo un oggetto, presa da una parte e portata da loro… basta.
Anche Marta era stata data in affidamento a una nuova famiglia, e negli anni ha dovuto imparare a convivere con gli spaventosi traumi che l’hanno condizionata da quando ne aveva solo otto. E così ha tirato su barriere su barriere per proteggersi da tutto quel dolore.
Live Pablo: In questi anni tu hai mai pensato a tua mamma?
Live Marta: Sì ci ho pensato ma, cioè, in modo… come posso dire… eh ... un po’ da esterna… quasi non provando niente. Probabilmente mi hanno messo in dubbio… mi hanno messo il dubbio anche sui sentimenti da provare, perché dopo tutto questo…
Eppure l’impressione che Alessia ed io abbiamo avuto, parlandoci in quel parcheggio, è che in realtà Marta, mentre ricordava la madre, stesse soffrendo molto. Una delle prime cose ci ha chiesto dopo averci contattato sono state proprio le sue foto, perché dalla notte dell’allontanamento, 21 anni fa, non l’ha mai più vista. Per mesi ha chiesto quegli scatti, ma le psicologhe non glieli hanno mai dati. Noi, però, a casa di un parente abbiamo trovato un album pieno di fotografie. Le prime poppate, i primi passi di Marta, le vacanze, i carnevali. Francesca è sempre attaccata alla figlia, la guarda sorridendo, la abbraccia. La bambina è ben vestita, curata e soprattutto sembra molto felice. Ma crescendo sia Marta che Sonia si erano allontanate da quei ricordi d’infanzia. Per loro le madri erano diventate delle estranee. Nel 2006, appena prima che la figlia compisse 18 anni, Daniela aveva chiesto a Sonia se una volta diventata maggiorenne avrebbero potuto rivedersi.
Live Sonia: Quando lei mi ha detto, “Se vuoi chiamarmi, venirmi a trovare io ci sarò sempre, spero di rivederti presto” io le ho risposto “Non credo”. Ci siamo lasciate così... a 18 anni...
Dopo la nostra inchiesta un consigliere di Forza Italia del comune di Mirandola, Antonio Platis, ha chiesto un accesso agli atti per conoscere esattamente quale sia stato il costo complessivo di questa vicenda. Dalla documentazione che gli è stata recapitata risulta che l’Unione Comuni Area Nord di Modena si è fatta interamente carico delle spese per l’affido e per le terapie psicologiche di tutti i bambini. Ora sappiamo che la somma totale di fondi pubblici spesi è di 3.520.900 euro, e se si aggiungono i 220mila euro per le spese legali dei minori, saliamo a circa 3 milioni e 800mila euro. Dai numeri che abbiamo risulta che ogni famiglia affidataria riceveva in media un rimborso mensile di 550 euro a bambino. Una cifra tutto sommato contenuta, considerato l’importante impegno richiesto. Nell’elenco però c’è un importo che attira l’attenzione: quello per la ‘spesa per assistenza psicologica e cura’. Dopo che era scoppiato il caso, Valeria Donati, che inizialmente seguiva la maggior parte dei bambini per conto dell’Asl, era diventata responsabile di una struttura privata creata a Reggio Emilia: il CAB, Centro Aiuto al Bambino, dove erano andate a lavorare anche altre sue colleghe. Nel 2002 l’Asl, non ritenendosi abbastanza competente per curare i traumi dei bambini coinvolti, aveva deciso di appaltare la loro terapia ad una struttura più qualificata. E a chi li aveva affidati? Proprio al CAB, considerato - leggiamo testualmente - più attrezzato e specializzato sui temi dell’abuso. E’ proprio questo uno dei motivi per cui la Donati e le sue colleghe sono state attaccate così duramente: per un forte conflitto di interessi. Erano state loro ad individuare i bambini coinvolti, sempre loro li avevano ascoltati presso l’Asl e segnalati al Tribunale dei Minori, e ora la loro struttura privata veniva pagata con soldi pubblici per curarli dai traumi che loro stesse avevano diagnosticato. Tra il 2002 e il 2013, i comuni della zona per questo servizio hanno versato al CAB una somma impressionante: circa 2.200.000 euro.
Live Valgimigli: Non solo era una questione di carriera, ma anche una questione di mercato. Tenere i ragazzini portava soldi, espellere i ragazzini dalle famiglie ed introdurli in determinati altri ambienti, e seguirli, e portarli avanti, porta vantaggi di carriera e di denaro.
Il dottor Camillo Valgimigli all’epoca dei fatti era un dirigente del centro di salute mentale dell’Asl di Modena, dalla quale dipendevano anche i Servizi Sociali di Mirandola. Secondo lui dietro agli allontanamenti del caso Veleno si nascondeva un progetto molto più ampio, che coinvolgeva tutta l’azienda pubblica.
Live Valgimigli: Loro volevano condurre un’esperienza pilota, sulla quale anche il direttore generale si sentiva di investire del denaro. Perché siamo i primi in Italia nella tutela dei minori, che abbiamo i ragazzi da poterli sentire in tutti i momenti, in qualsiasi momento, sotto la nostra scienza.
Quel progetto, alla fine, non è mai partito. A 19 anni sia Marta che Sonia - che, lo specifichiamo, non si sono mai conosciute - hanno smesso di frequentare il CAB. Marta si è dedicata all’insegnamento. Sonia ha trovato lavoro come infermiera, è andata a convivere col suo compagno e ha avuto due bambine. Da quel momento le è cambiata la prospettiva, da figlia è diventata madre, e così ha iniziato a sentire il bisogno di ritrovare la sua, di mamma.
Live Sonia: Io ho sentito la sua mancanza dal giorno in cui ho partorito la mia prima figlia. Io mi sono ritrovata da sola, in sala parto, senza nessuno, con una figlia di 3 kg in braccio, non sapevo neanche come cambiarle un pannolino, a 23 anni. Io da lì ho capito... quanto mi mancava…
Nelle piccole cose mi mancava, nel consiglio quotidiano, come la devo vestire… come mi devo comportare se succede una cosa piuttosto che un’altra, cioè… sembrano stupidate però… E’ un vuoto...E così Sonia, con la bimba più piccola in braccio e la più grande per mano, ha bussato alla porta della casa che non vedeva da quando Daniela le aveva messo sulle spalle quello zainetto con un cambio per la notte. Una notte durata vent’anni.
Live Daniela: Sono tornata la sua ‘mamma’, sono tornata a riaverla vicina, a dargli l’amore che in questi vent’anni non sono riuscita a dargli. Poi… ci siamo messe in un tavolo a parlare, da un portafoglio ha tirato fuori una foto, un ritaglio di una foto, che c’eravamo io e lei da piccola, aveva due-tre mesi, in braccio… io, il mio cuore mi ha detto “Questa non ti ha mai dimenticata mai, mai, mai…” Poi ho due nipotine, cioè sentirmi nonna, è una cosa indescrivibile, cioè, è come se avessi… se fossi rinata.
Marta invece ha sempre cercato di non pensare al suo passato, e a sua madre...
Live Pablo: Se non fosse andata com’è andata, se tua mamma fosse viva, tu oggi torneresti da lei?
Live Marta: Speravo non mi facessi questa domanda perché non lo so… non lo so… forse sì… forse sì… forse sì… forse se fosse viva la voglia di vederla, magari anche da lontano ci sarebbe, anche senza chiederle e dirle nulla.
Le testimonianze di Marta e Sonia ci sono sembrate credibili per più di una ragione. Intanto perché non è stata la nostra serie a far venir loro il dubbio. Marta ha sempre saputo di aver raccontato delle storie non vere. Sonia invece non ha mai cambiato la propria versione dal giorno in cui è stata allontanata, continuando sempre a sostenere che non le fosse successo nulla. Quello che le unisce è il desiderio di essere finalmente ascoltate e per una volta, credute. Dario, Alessandro, Sonia, Marta. Sono già 4 i bambini che oggi guardano questa storia con altri occhi. Ma non è tanto una questione di numeri, bensì di logica. Perché se gli altri ex bambini a distanza di vent’anni confermano, come hanno dichiarato, tutto quello che hanno raccontato, stanno anche confermando: di aver bevuto sangue animale senza nessuna conseguenza. Di essere stati picchiati, infilzati con punteruoli, presi a bastonate, violentati con spranghe di ferro e rami di albero, senza che nessun medico, pediatra, o maestra abbia mai riscontrato i segni di queste sevizie. Di aver partecipato al rapimento di altri bambini mai identificati nei parchi giochi, di averli portati nei cimiteri con la complicità degli adulti, di averli sgozzati, ghigliottinati, bruciati sui roghi, e di averne uccisi 15 alla settimana, senza che nessuno denunciasse la loro scomparsa e senza che nessun cadavere sia mai stato ritrovato. Ora, a questa serie è sempre mancata una cosa: il punto di vista dell’accusa, cioè di chi all’epoca era fermamente convinto che quei bambini stessero raccontando la verità. Non è stata una nostra scelta, ma praticamente nessuna fra le persone che abbiamo interpellato ha voluto farsi intervistare. Ovviamente dopo queste nuove rivelazioni non potevamo non riprovarci. Così abbiamo cercato Monica Benati, che negli anni ’90 era la responsabile del servizio minori a Mirandola.
Live Benati: Tutto quello che noi abbiamo fatto professionalmente è stato messo agli atti e non c’è stata alcuna magistratura che ci abbia indicato come… aver fatto atti o di incompetenza o addirittura di reati, quindi… casomai non è...
Live Pablo: Quindi va bene così?
Live Benati: Ma certo che va bene così…
Abbiamo cercato anche Daniela Cassanelli, la psicologa che aveva seguito Sonia assieme a Valeria Donati. Sonia è voluta venire lì con noi.
Live Pablo: Buongiorno dottoressa Cassanelli, sono Pablo Trincia, sono un giornalista...
La Cassanelli non dice una parola né a noi, né a Sonia.
Live Pablo: Non ha niente da dire, Dottoressa?
Live Cassanelli: Io sono tenuta al segreto professionale, di sicuro non posso parlare con lei.
Live Pablo: Certo, però guardi è qua, è qua la ragazza, perché non le parla… vieni! Sonia si avvicina, ma la dottoressa entra in un palazzo, e si chiude il portone alle spalle. Infine non potevamo non provare a rintracciare di nuovo la Dottoressa Donati.
Live squillo del telefono. Live Donati: Pronto?
Live Pablo: Dottoressa Donati?
Live Donati: Chi parla?
Live Pablo: Salve sono Trincia. Signora io non la voglio cercare dappertutto, però ho bisogno che mi risponda ad una domanda...
Live Donati: Guardi io bisogna che se lei non mi lascia in pace io faccio una denuncia per molestie...
Live Pablo: Ma molestie di cosa signora, c’è una ex bambina che la accusa di cose gravissime, mi scusi...
Live Donati: Allora, o lei la smette o io faccio denuncia presso l’autorità giudiziaria, perché io non ne posso più. E con questo la saluto. Arrivederci.
Precisiamo che nessuno ha ‘molestato’ Valeria Donati. Prima di chiamarla l’avevamo solo cercata una volta a casa sua, senza trovarla. Pensavamo fosse doveroso incontrarla di persona per darle la possibilità di replicare a tutto quello che è stato detto. Sonia, Marta e tutti i genitori a cui sono stati tolti i figli nel cuore della notte meritano delle risposte. Le meritano da tutti i professionisti che si sono occupati di questo caso e che ai tempi lavoravano: ai Servizi Sociali e al Servizio di Neuropsichiatria di Mirandola, al Commissariato, alla Procura e al Tribunale di Modena, al Tribunale dei Minori di Bologna, al reparto di ginecologia della Mangiagalli di Milano, al Cenacolo Francescano e al Centro Aiuto al Bambino di Reggio Emilia, al CBM - Centro per il Bambino Maltrattato - di Milano, che in questo caso ha supervisionato il lavoro delle psicologhe di Mirandola, e al Centro Studi Hansel e Gretel di Torino, dove lavoravano le consulenti tecniche del Tribunale.
A loro chiediamo: Ci sono persone che vogliono capire perché la loro vita è stata irrimediabilmente stravolta. Cosa vogliamo fare? Girare loro le spalle e ignorarle? Deve davvero rimanere tutto così? Nel silenzio? Con ragazzi che vivono ancora con la testa pieni di mostri, e le famiglie aggrappate al filo di speranza che una domenica mattina il telefono squilli anche per loro?
Live rumori parco. Live Daniela: … Non scivolare, eh? Dai tocca la foglia dai, dai! Prossimo giro, bravissima...
Live bambina: Nonna… ho toccato l’albero! Ho toccato l’albero!
Live Daniela: La foglia…
Daniela è al parco, sta giocando con la sua nipotina più grande, la figlia di Sonia. Fino a un anno prima, non avrebbe mai nemmeno sognato una scena del genere. Oggi la spinge su un’altalena e la bambina comincia a cantare...
Live bambina: Dormo dalla nonna!
Live Pablo: Sei contenta che dormi dalla nonna?
Live bambina: Sì!
Live Pablo: Cosa ti fa da mangiare di buono la nonna?
Live bambina: Una volta mi ha fatto la pasta ai 4 formaggi
Live Pablo: E ti piace?
Live bambina: Sì! Col gorgonzola...
Live Pablo: E ti fa vedere la TV?
Live bambina: Sì!
E’ un sabato mattina. C’è il sole. Anche Sonia è con loro. E’ appoggiata all’altalena, che si gode questo semplice momento di serenità familiare. Ma quell’ombra di tristezza che ha nello sguardo non l’abbandona nemmeno adesso.
Live Pablo: Alla fine sono queste le cose che ti sei persa, no? I sabati mattina al parco, giusto?
Live Sonia: La cosa in assoluto che mi è mancata di più è chiamare ‘mamma’, una stronzata sembra, ma è stata questa… Quando avevo bisogno e... ero da sola, e invece io avrei voluto chiamare solo “mamma”...
«Venti bambini scomparsi per un’ingiustizia di Stato». Lorena Morselli racconta la sua odissea durata 16 anni. Poi l’assoluzione «Mai più visti i miei figli ma non sono gli unici “rapiti” in quell’errore giudiziario» di Alberto Setti su “La Gazzetta di Modena”. «Ci sono venti bambini della Bassa modenese scomparsi nel nulla, “rapiti” a causa di un grossolano errore di Stato. Venti bambini che le loro famiglie non hanno più visto. Neppure il genitore di Massa che venne assolto fin da subito, senza tutto il calvario che abbiamo passato noi. Ecco, il mio pensiero oggi va a quei bambini, compresi i nostri figli. Bambini che, dopo tanto tempo, hanno quasi trent’anni...». A Salernes, nella Francia del Sud dove vive da quasi vent’anni con il quinto figlio Stefano, Lorena Morselli si sfoga così. Dopo l’assoluzione del 4 dicembre in Cassazione a Roma, ha preparato il suo Natale andando e venendo dalla sua Italia, dalla sua Massa Finalese. Viaggi per incontrare i parenti che le sono rimasti, gli avvocati, o anche solo per partecipare alle trasmissioni televisive che ora, dopo tanto tempo, ne raccontano l’incredibile, drammatica vicenda. Quella di una madre accusata prima di non essersi accorta che i primi quattro figli venivano rapiti dai parenti nella notte, nel palazzone dove vivevano, in pieno centro a Massa, per essere condotti nei cimiteri, a partecipare dei più incredibili abusi pedofilo-satanisti. Poi, a fronte delle rimostranze per quelle accuse strampalate, imputata di avere assistito inerme e collaborativa al marito che abusava sistematicamente di quei figli. Fantasie senza prove, cancellate dopo 16 anni da una giustizia talmente lenta e credulona da essere comunque ingiustizia. «Ora vivo e agirò perchè quello che è accaduto a me non accada mai più ad altri», dice con convinzione Lorena. Consapevole che purtroppo non sarà così, perchè esperienze identiche ne erano accadute prima nel mondo civile e anche dopo, in Italia. Esperienze che finiscono per rivelarsi un favore di Stato enorme ai pedofili, quelli veri. L’unica, inevitabile, azione possibile non sarà il pur necessario ristoro mediatico di questi giorni, ma una controffensiva nel campo stesso - quello giudiziario - che le ha sconvolto la vita, strappandole anche il marito Delfino, deceduto di crepacuore un anno fa proprio a Salernes dove si era recato a trovare moglie e figlio. Delfino, come molti alri in questa storiaccia, è stato vinto dal dolore di una battaglia interminabile, prima di saperla vinta. Così i legali di Lorena stanno preparando una azione di risarcimento. Imbarazzante per la giustizia, un’azione temuta e tenuta lontana con certi giri di parole che si colgono nelle prime sentenze che hanno fatto crollare il muro di quella vicenda incredibile. Non tutto il muro, va detto, perchè nel frattempo, nella maturazione di una consapevolezza, c’è chi una condanna - tanto indiziaria quanto definitiva - non è riuscito a schivarla. «Alla questione del risarcimento stanno lavorando gli avvocati, in questa fase preferisco non se ne parli. Ogni volta che abbiamo lottato per la verità qualcuno si è prodigato per impedirlo, screditandoci», dice Lorena, chiudendo il discorso sul maxi risarcimento. Perchè lei, la maestra dell’asilo parrocchiale, 55 anni oggi, su certe cose vorrebbe anche mettere la pietra della rassegnazione: «Qui in Francia, dove sono stata accolta benissimo e con sincerità, me la cavo facendo le pulizie. Non ho mai pensato di tornare in Italia ad insegnare, o di farlo qui. Il trauma è stato tale che pensare di accudire i bambini di altri genitori, sapendo come è facile trovarsi in un inferno, ti toglie ogni forza». Anche quella di tornare in Italia: «Per ora la mia vita è qui, a Salernes. Lo faccio per Stefano. Per salvarlo dai Servizi Sociali sono fuggita, e lui è cresciuto qui. Gli amici, la sua vita sono qui. E io mi adeguo, perchè la gente mi ha accolto con rispetto e dignità. Un domani, vedremo, ma dovrà essere lui a decidere...». A Massa Lorena tornerà anche il 28 dicembre: «Siamo stati invitati dal parroco, don J. Jacques, alla Messa di ringraziamento che sarà celebrata domenica alle 10.30. Spero ci sarà anche don Ettore, che ci è stato sempre vicino. A Finale associazioni di genitori hanno chiesto di indicare il modo per aiutarmi», aggiunge Lorena ringraziando. A Massa ci sarà anche per salutare sua mamma Lina, che ha 81 anni e in questa vicenda si è vista sconvolgere la vita: il marito morto Enzo di dolore, la nuora morta in carcere, il genero Delfino morto a Salernes dopo uno dei suoi tanti viaggi verso la Francia... Poi la tragedia dei nipoti scomparsi. «Dei sette nipoti che ha - chiosa Lorena - l’unico rimasto è Stefano. Mia madre, che non è mai stata indagata, gli altri sei non li ha mai potuti rivedere. I regali che gli faceva recapitare venivano rispediti indietro... C’è voluta e ci vuole solo la sua immensa fede, per resistere a tutto questo». Il pensiero va così a quel 12 novembre del 1998, più di sedici anni fa. L’ultima volta che Lorena e Delfino hanno visto i loro bimbi da genitori. «Alle 5.30 del mattino ci siamo trovati la polizia in casa. C’era l’ispettore Pagano che ci leggeva stralci dell’ordinanza del tribunale, senza che capissimo nulla. Ci ritrovammo in Commissariato a Mirandola, io ero nell’anticamera con i miei bambini, Delfino era salito con la psicologa Mambrini. Nella stanza con noi c’era anche la Donati, la giovane psicologa da cui è partito tutto questo... Facevano di tutto per provocarci, per accusarmi di essere una madre insensibile in quanto non volevo separarmi dai bambini. Li guardavo, quei bambini. Ero sconvolta, capivo che non li avrei mai più rivisti. Loro piangevano, sconvolti, così vinta da quelle provocazioni salii anch’io le scale. Mi trovai davanti Delfino che piangeva e Burgoni dell’Ausl che mi leggeva il decreto del tribunale, nel quale ci accusavano di non averli accuditi, consentendo che venissero prelevati di notte e portati nei cimiteri. Avevano creduto ai racconti della mia nipotina, allontanata a sua volta dalla famiglia, a sua volta sconvolta e confusa come sarebbero stati poi tutti i bambini di questa vicenda. Chiesi per l’ultima volta di vedere i miei figli, ma mi fu negato. Il resto lo sapete». Ma da madre Lorena si preoccupa ancora. «È stato un dramma anche per loro e per quello che sono stati indotti a dire e pensare. Oggi il più piccolo ha vent’anni, la più grande 27. So che non hanno di certo avuto una vita facile, so che qualcuno sta trovando un lavoro, ma che risultano ancora studenti, ciò che consente agli affidatari di ricevere gli indennizzi. Vorrei far loro sapere che la mamma è qui, innocente e che li pensa sempre. Come il loro fratello Stefano, che aspetta di conoscerli e di riconciliarsi».
Lorena Morselli. Assolta col marito dalle accuse di pedofilia non vede i 4 figli da 20 anni (Sono Innocente). Il caso di Lorena Morselli e del marito Delfino Covezzi sarà al centro della prima puntata di "Sono innocenti", in onda domenica 8 aprile su Rai, scrive l'8 Aprile 2018 Morgan k. Barraco su "Il Sussidiario". A quasi vent'anni di distanza dalla sua assoluzione, Lorena Morselli e il marito Delfino Covezzi sono ancora alla ricerca di giustizia. I coniugi di Massa Finalese sono stati accusati infatti alla fine degli anni Novanta di pedofilia, motivo per cui le autorità avevano ordinato un anno prima l'allontanamento dei quatto figli dalla casa di famiglia. Covezzi è morto a causa di un infarto nel 2013 e questo ha spinto Lorena ad assumere da sola il testimone e il fardello che porta sulle sue spalle nonostante l'assoluzione decisa dalla Cassazione nel dicembre del 2014. Il caso di Lorena Morselli verrà approfondito nel corso della puntata di Sono Innocente di questa domenica, 8 aprile 2018. Il calvario dei coniugi Covezzi è durato sedici anni, fra udienze e accuse che si sono dissolte di fronte alla conferma della loro innocenza. Tutto è iniziato nel marzo del 1999, quando Lorena e il marito Delfino ricevono il primo avviso di garanzia: l'inizio di un incubo che non sembra avere una soluzione.
L’allontanamento dai figli. Anche se dichiarata innocente dell'accusa di pedofilia, Lorena Morselli non è mai riuscita a riabbracciare i quattro figli che le sono stati tolti per via di un errore giudiziario. Alla donna e al marito Delfino Covezzi non è mai stato permesso di poter vedere i figli, come sottolinea a Quotidiano.net, che così hanno finito per credere di essere stati abbandonati. Un particolare che la primogenita aveva riferito alla zia Anna Rosa, la sorella di Lorena, in un'occasione. L'unica che le era stata concessa per vedere i nipoti. Mentre i genitori sono stati incarcerati e sottoposti a diversi processi, i figli sono stati inoltre separati e affidati ad altre famiglie. L'unico figlio che è riuscito a rimanere al fianco della madre Lorena Morselli è il quinto, Stefano, di cui era incinta nel 1999. Oggi la donna vive in Francia, dove ha dato alla luce il suo ultimo figlio e dove ha deciso di mettere radici. Ed è proprio in Provenza che il marito Delfino ha esalato l'ultimo respiro, a causa di un infarto che lo ha spento nell'agosto del 2013.
La lettera del figlio Stefano. Lorena Morselli non ha mai smesso di cercare giustizia per sé e per il defunto marito Delfino Covezzi. Entrambi assolti dalle accuse di pedofilia, non sono riusciti a poter riabbracciare i quattro figli che le autorità hanno deciso di affidare ad altre famiglie. La donna ha ripercorso il suo calvario durante una puntata de I Fatti Vostri, sottolineando come alla fine anche il figlio Stefano, l'unico che è riuscita a tenere al proprio fianco, è stato privato della possibilità di conoscere i suoi fratelli. Proprio per questo Lorena ha deciso di lanciare un nuovo appello tramite le tv nazionali, non chiedendo di poter essere perdonata dai figli, ma di permettere ai fratelli di poter trovare un punto di incontro. Di recente è intervenuto anche don Erio Castellucci, il Vescovo di Modena che lo scorso febbraio ha deciso di dare il proprio aiuto a Stefano Covezzi. Il figlio di Lorena Morselli aveva infatti scritto una lettera commovente al senatore Giovanardi, chiedendo di poter finalmente chiudere la tragedia che ha colpito tutta la sua famiglia. Lo stesso scritto infatti era stato inviato a don Erio perché Agnese, Paolo, Enrico e Valeria, i suoi fratelli, potessero almeno incontrarlo.
La lettera ai figli. All'epoca dell'arresto di Lorena Morselli e Delfino Covezzi, i quattro figli avevano solo 11, 9, 8 e 3 anni. Ora più che maggiorenni, i figli della coppia vivrebbero nel Reggiano in quattro famiglie diverse, una decisione che le autorità hanno preso andando contro la richiesta della coppia di poter tenere uniti i fratelli. Secondo le ultime notizie riportate da Il Resto del Carlino e diffuse dalla stessa Lorena, solo la figlia Agnese sarebbe andata a vivere in provincia di Parma. Nel corso degli anni, la donna si è dovuta difendere da pesanti accuse, additata come pedofila e parte di accuse di massa che nello stesso periodo hanno colpito diverse famiglie. Alcune delle vittime hanno confermato una volta maggiorenni gli abusi subiti dagli stessi familiari, come sottolinea La Repubblica, anche se queste accuse non riguardano i figli di Lorena. Quest'ultima invece ha approfittato della riapertura del dibattito in seguito a un'inchiesta del quotidiano nazionale per scrivere una lettera indirizzata ai quattro figli, quelli che non ha potuto crescere e di cui non ha mai avuto notizie. La “mamma dei quattro fratellini di Massa Finalese”, come è stata spesso indicata in seguito allo scandalo, si difende. Nel suo lungo scritto sottolinea di non aver mai accusato i figli di aver mentito, scegliendo di contro di manifestare ancora una volta l'affetto che l'ha sempre legata ai suoi bambini.
Il ragazzo che vuol conoscere i fratelli rubati dalla giustizia. Lui ha 15 anni e nel 1998 i giudici tolsero ai suoi genitori gli altri figli. Ma le accuse di pedofilia erano false: quei bimbi non hanno mai più rivisto la propria famiglia, scrive Stefano Zurlo, Venerdì 02/01/2015, su "Il Giornale". C'è un ragazzo di 15 anni che vorrebbe conoscere i suoi quattro fratelli. Non li ha mai visti e di loro sa solo quello che gli hanno detto fra spilli di dolore mamma Lorena e papà Delfino. Nella famiglia di Lorena Morselli il tempo è fermo, pietrificato a quel mattino di novembre 1998. «Alle 5.30 di un freddo mattino del novembre 1998 - scrive Stefano - sette agenti di polizia sono entrati in casa, hanno rovistato dappertutto, hanno portato via i miei fratelli...li hanno allontanati e separati. Da quel giorno nessuno li ha più rivisti». Stefano è nato dopo, quando la famiglia non c'era più. Lorena e Delfino chiedevano un numero di telefono e non lo ricevevano, si rivolgevano ai servizi sociali e venivano congedati sbrigativamente, inviavano regali che tornavano puntualmente indietro. Un'incomunicabilità assoluta che ha avvelenato gli affetti fino a consumarli. E così servono a poco le sentenze se arrivano sedici anni dopo. Il verdetto della Cassazione non potrà ricomporre quel nucleo smembrato a forza in quel novembre '98. Lorena è innocente, l'accusa, infamante di pedofilia è caduta definitivamente, ma ormai è tardi. È tardi per una mamma che ha versato chissà quante lacrime, è tardi per Delfino portato via da un infarto nell'agosto del 2013, è tardi per Stefano che è cresciuto in «esilio», in Provenza, senza aver mai giocato o litigato con i fratelli e le sorelle. È tardi anche per loro: oggi sono maggiorenni e quell'addio violento, traumatico come un incidente, l'hanno fatto diventare una maledizione: non vogliono più incontrare la madre, non sono andati al funerale del padre e hanno rinunciato all'eredità, hanno tagliato tutti i fili che la giustizia aveva già staccato. L'ipotesi iniziale, nell'autunno del '98, è quasi incredibile. C'è un'inchiesta che dilaga nei paesi della Bassa Modenese. Casi di pedofilia, violenze in famiglia. Storie drammatiche e terribili e però qualcosa non quadra. Bambini fragili, figli di madri malate, trasformano labili suggestioni in deposizioni zeppe di nomi e cognomi e cominciano a puntare il dito in tutte le direzioni. Sembra un contagio. Inarrestabile e francamente sbalorditivo. Si parla di messe nere e riti satanici compiuti in piena notte nel cimitero di Massa Finalese. Possibile? I racconti superano ogni immaginazione. Ecco i neonati che si accoppiano e poi vengono uccisi. Possibile? La procura di Modena, che prende tutta la storia sul serio, fa dragare i corsi d 'acqua alla ricerca dei corpicini che nessuno troverà. E però le accuse si moltiplicano e toccano tante famiglie. Troppe, anche dal punto di vista statistico. Il 12 novembre 1998 la polizia bussa a casa di Lorena e Delfino. I bambini vengono portati via con una motivazione stupefacente: di notte, mente i genitori dormono, partecipano tutti e quattro ai riti satanici. E allora se papà e mamma non si accorgono di questi scempi vuol dire che sono inadeguati ed è giusto togliere loro la prole. In blocco. Senza se senza ma. Lorena e Delfino si difendono: «Ma quali messe nere. I nostri bambini di notte riposano nelle loro camerette. Di giorno invece vanno a scuola. Vanno a catechismo. Fanno sport, nessuno ha mai avuto nulla da dire». E invece dai verbali sembra di stare dentro un film dell'orrore con rapporti sessuali e sacrifici umani che lasciano sbalorditi. Il futuro è galantuomo, ma il presente è malato. E la malattia diventa un'epidemia. Nei verbali finisce pure un vescovo: ma per sua fortuna almeno lui non rotola nel registro degli indagati. Quando è troppo è troppo. I quattro bambini invece dopo qualche settimana cambiano registro: «Mamma Lorena -spiegano - ci teneva fermi, papà Delfino approfittava di noi». Interrogatori. Verbali su verbali. Deposizioni dietro un vetro a specchio. Le gite in macchina. Le torte. Le partite a calcio. Le pagelle. Tutto finito. Tutto risucchiato dentro quel buio livido, popolato di mostri e fantasmi. Il paese sta con Lorena e Delfino, il parroco si mete le mani nei capelli ed elogia Lorena, catechista, madre di famiglia esemplare, nulla a che fare con una fantomatica Tween Peaks padana. C'è una sproporzione che toglie il fiato fra le accuse imbullonate in una violenza cieca e ottusa e la semplicità disarmante dei protagonisti. I mostri della porta accanto che nessuno, tranne l'apparato giudiziario, ritiene colpevoli anche solo di aver dato uno schiaffone di troppo ai ragazzi. Il procedimento, come speso capita in Italia, si divide in diversi tronconi. Le condanne si mischiano alle assoluzioni. Lorena e Delfino in primo grado vengono stangati: 12 anni a testa. Un'enormità. I due si disperano e affidano al Giornale il loro disperato messaggio in bottiglia: «Vogliamo l'appello. Subito. Siamo innocenti. Siamo angosciati per i nostri figli. Chissà che cosa gli hanno raccontato. Chissà che cosa pensano di noi. Chissà come si trovano nelle nuove famiglie». Ma ormai il naufragio è avvenuto: Stefano, il quinto figlio della coppia, nasce e cresce in Provenza lontano da quell'ambiente così pericoloso. L'appello invece arriva dopo otto lunghissimi anni, nel 2010 e capovolge il destino della coppia: Lorena e Delfino vengono assolti. Altro paradosso, senza aver fatto un solo giorno di galera. Intanto sono evaporate le messe nere, sono spariti nel nulla i riti satanici che nemmeno nei film sull'America preincaica, sono svanite le processioni in maschera nel lugubre teatro del cimitero. E viene riabilitato anche don Giorgio Govoni, il prete che avrebbe diretto le funzioni profanatrici e tradito la sua missione preferendo Satana a Cristo. Viene di fatto assolto ma è tardi, troppo tardi, anche per lui: è morto d'infarto alla vigilia del verdetto d'appello nello studio del suo avvocato a Modena. Troppi lutti. Troppa sofferenza. Troppo tempo. Il mantello purificatore della Cassazione copre la vergogna pochi giorni fa, sedici anni dopo il disastro. Stefano dalla Provenza si rivolge al papà che non c'è più: «I miei genitori cercavano di spiegarmi, ma era troppo complicato, a me bastava avere la mamma, il papà, parenti, tanti amici, andare a scuola, a judo, a musica, agli scout. Mi parlavano tanto dei miei fratelli. Guardavo le foto di una bella famiglia. Come avrei voluto conoscerli, vivere con loro, presentarli a tutti». Un sogno spezzato. In un diluvio interminabile di carte bollate. Stefano non si arrende e difende il suo spicchio di normalità: «Eravamo tifosi del Milan, papà mi comprava i cappelli, le magliette rossonere, aveva promesso che mi avrebbe portato a vedere le partite a San Siro, come faceva con loro». Con i fratellini e le sorelline prima che fossero ghermiti dalla giustizia. «Vorrei rivederli -azzarda Lorena - in tribunale si sono girati dall'altra parte ma io non rinuncerò mai a cercarli». L'avvocato Cristina Tassi, a fianco di Lorena per sedici anni, prepara invece una richiesta di risarcimento: «Non c'è prezzo per quello è che è successo. Lo Stato dovrà pagare».
Modena, un figlio dei Covezzi: "Voglio conoscere i miei fratelli". Appello al vescovo di un figlio dei Covezzi, indagati per pedofilia e poi assolti, scrive Viviana Bruschi il 15 febbraio 2017 su ilrestodelcarlino.it. Affida il grande desiderio di conoscere i suoi quattro fratelli, visti solo in foto, e ‘raccontati’ dai genitori, al vescovo di Modena Erio Castellucci. Lui si chiama Stefano Covezzi, ha 17 anni e vive in Francia, dove frequenta il liceo scientifico di Lorgues, è scout e chierichetto nella parrocchia di Salernes. Nei giorni scorsi ha scritto una toccante lettera al prelato spiegando la sua dolorosa storia familiare. «I miei genitori sono nati a Modena, io in esilio in Provenza. Le chiedo un favore monsignor Erio: può aiutarmi a incontrare i miei fratelli, allontanati da casa un freddo mattino del ’98 insieme ad altri sedici bambini della Bassa modenese?». E’ in quell'anno, infatti, che nelle terre oggi terremotate scoppiò la vicenda pedofili. Lorena e Delfino Covezzi, i genitori di Paolo, Enrico, Valeria, Agnese, fratelli oggi maggiorenni di Stefano, vennero accusati di non aver vigilato sui quattro figli, e solo un anno dopo di abusi. Nella vicenda finì coinvolto anche un sacerdote, don Giorgio Govoni, accusato di celebrare filmini pedosatanici al cimitero di Massa Finalese, nel Modenese, poi assolto post mortem. Lorena, per timore che il quinto figlio che portava in grembo, Stefano appunto, le venisse sottratto dai servizi sociali scappò in Provenza, dove tuttora vive. Dei quattro figli, allontanati da casa in tenerà età (3,8, 9, 11 anni) e dati in affido a quattro differenti famiglie del Reggiano, i coniugi Covezzi hanno sempre avuto notizie frammentarie. «Per noi è un dolore infinito, i nostri figli non vogliono più vederci, qualcuno ci ha descritti come mostri, ecco la ragione» _ dichiarò Delfino Covezzi pochi mesi prima di morire, a 54 anni. Dei quattro figli nessuno presenziò al funerale. «Il mio caro papà _ scrive Stefano nella lettera al Vescovo _ dopo 16 anni di processi non ha visto la definitiva assoluzione, perché un infarto me l’ha portato via l’8 agosto 2013, nella festa di San Domenico». SOLO nel 2014, infatti, dopo sedici anni di calvario giudiziario, la Cassazione, in nome del popolo italiano, mise la parola fine sulla vicenda dei coniugi Covezzi, vittime innocenti di un clamoroso errore giudiziario. «Una vita distrutta la nostra, ma abbiamo fede profonda nel Signore ci aiuta ad andare avanti e a sperare» hanno sempre dichiarato i coniugi. Nemmeno l’assoluzione cambiò, però, il punto di vista dei figli. «Malgrado le assoluzioni, nessuno vuole tornare a casa e peggio, i miei fratelli non vogliono neppure conoscermi. Io non c’ entro nulla, ma soffro di questo loro silenzio, e malgrado cerchi di contattarli con lettere, regali, auguri… nulla!»_ si legge in un altro passaggio commovente della lettera. Oggi, la speranza è affidata al vescovo di Modena, e successivamente a quello di Reggio. E’ stato il senatore Carlo Giovanardi, fin dall’inizio della vicenda giudiziaria vicino ai genitori, a consigliare a Lorena e al figlio Stefano di contattare il Vescovo di Modena, «l’unico in grado di poter mettere il lieto fine a questa drammatica storia».