Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’AGROALIMENTARE

 

 

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

L’ITALIA DELLE FRODI AGRO ALIMENTARI,

OSSIA, IL FURBO E’ SEMPRE QUELLO CHE TI SAZIA

L'AGRO - ALIMENTARE E' GENUINO ???

 

 

"La grandezza di una nazione e il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui mangiano. Da ciò si può dedurre il trattamento delle sue risorse agro alimentari. L’Italia dove, addirittura, quello che mangiamo non è quello che appare ed è insito di dubbi sulla sua genuinità e provenienza. Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi".

di Antonio Giangrande

AGROFRODOPOLI

SIAMO QUELLO CHE MANGIAMO

 

 

  

SOMMARIO

INTRODUZIONE

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

PROSCIUTTOPOLI.

L'OLIO DI PALMA E LO SCHIERAMENTO PARTIGIANO.

L'AGRICOLTURA NELLA TEMPESTA PERFETTA.

L'AGRICOLTURA BIODINAMICA.

LA FABBRICA DEL VINO.

I CIBOMANIACI.

IDEOLOGIA VEGANA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

IL SUD TARTASSATO.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

TUTELA DEL MADE IN ITALY. FALSI ED OGM: QUANDO IL TROPPO, STROPPIA.

IL FALSO BIO.

MADE IN ITALY, LA GRANDE FUGA.

ALTRO CHE BIOLOGICO......

IL DUBBIO SISTEMA INFORMATICO DI ASSEGNAZIONE DEI CONTRIBUTI UE.

CHI HA PAURA DELLE NUOVE TECNOLOGIE: HYST ED OGM?

IL TERRORISMO ALIMENTARE.

LA MODA ALIMENTARE.

IL BUSINESS DELLE INTOLLERANZE.

I NOSTRI VELENI QUOTIDIANI.

GLI SCANDALI CHE HANNO SPAVENTATO L'ITALIA.

OGGETTI PERICOLOSI INTORNO A NOI.

LA MAFIA IN TAVOLA ED IL CIBO CRIMINALE.

LA BUFALA SUGLI OGM.

IL VELENO E’ IN TAVOLA.

LA MAFIA AGRO-ALIMENTARE.

LA MAFIA DELL'OLIO.

IL BLUFF DEL PESCE.

XILELLA FASTIDIOSA: RESPONSABILITA' DI STATO.

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad attivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

PROSCIUTTOPOLI.

Prosciutto di Parma con i maiali danesi, ma il marcio non è in Danimarca, scrive Roberto Orlando il 17 gennaio 2018 su "La Repubblica". "C'è del marcio in Danimarca", dice Marcello nell'Amleto di Shakespeare riferendosi però alle piante malefiche. A Torino invece gli esperti dell’Icqrf - Ispettorato antifrode del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali - hanno scoperto che i maiali danesi, allevati dalle nostre parti per produrre più rapidamente prosciutti di Parma e San Daniele, sono sanissimi e che il marcio semmai è da cercare proprio in Italia, dove al disciplinare dei prodotti Dop si può derogare senza andare troppo per il sottile e scoprire l'inganno è difficile persino con i test genetici, cioè praticamente impossibile. Invece il trucco è stato scoperto lo stesso. La difesa degli allevatori del supermaiale nordico è semplice e disarmante: "Tutti sapevano, c'era richiesta di quei prosciutti magri e con meno scarto, li pagavano pure meglio". È il mercato, bellezza. Però bisogna tener conto di che tipo di mercato stiamo parlando. Se fosse sfuggito a qualcuno, si tratta di un mercato del cibo che il mondo ci invidia, una delle eccellenze più redditizie del "Made in Italy". Quindi in linea di principio - ma soprattutto nella pratica quotidiana - lo si dovrebbe difendere a ogni costo. Perché se cominciamo a fare prosciutti di Parma con i porcellini danesi poi possiamo pure fare il Castelmagno con il latte in scatola cinese o olandese. Con buona pace della Danimarca.

Maiali danesi per i prosciutti italiani: accusa di frode per un centinaio di allevatori. L'inchiesta della Procura di Torino: hanno fecondato i suini con seme di una razza non prevista dalla Dop, scrive Ottavia Giustetti il 16 gennaio 2018 su "La Repubblica". Il mito del maschio nordeuropeo - magro, prestante e con una marcia in più - sembrava applicabile praticamente a ogni settore. Invece almeno un’eccezione c’è. Come rivela una maxi- inchiesta della procura di Torino che conta ormai un centinaio di indagati e migliaia di sequestri in tutta Italia. È quella delle cosce di maiale destinate a diventare prosciutto nel prezioso circuito Parma- San Daniele che importa la materia prima dalle aziende delle regioni del nord autorizzate secondo un rigoroso disciplinare. Al contrario, un’invasione massiccia di maiali della specie duroc danese puri, una dinastia nordeuropea generata importando verri maschi dalla Danimarca e vendendone lo sperma a decine di allevatori, sta mettendo letteralmente in ginocchio il settore tra Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto. In un anno di indagini gli imprenditori coinvolti hanno superato il centinaio e le cosce di maiale bloccate nei macelli sono ormai diverse migliaia. L’idea è che, aggirando le regole imposte dalla tradizione dei prosciutti più pregiati, le aziende abbiano fecondato interi allevamenti di suini con il seme del duroc danese, che risulta estremamente vantaggioso perché genera bestie più prestanti, che crescono rapidamente e con meno mangime, e rendono decisamente meglio sul mercato. Peccato che il verro italiano rappresenti proprio il fattore determinante per ottenere l’animale perfetto per il Parma, il San Daniele e anche il crudo di Cuneo. Con una percentuale di grasso più elevata, quella che consente di stagionare per molti mesi utilizzando come conservante solamente il sale. Associazione per delinquere finalizzata alla frode in commercio, falso, contraffazione dei marchi e truffa ai danni dell’Unione europea: le ipotesi di reato sono pesantissime. E il lungo elenco di aziende “segnalate”, nell’attesa che si concludano gli accertamenti, sta vivendo tempi molto difficili: i macelli non comprano più le loro cosce per il circuito pregiato, impongono prezzi da fame a chi non si rassegna a fermare la produzione, mentre gran parte delle cosce dell’anno precedente sono ancora in attesa di essere dissequestrate. Così gli allevatori cercano di ottenere un temporaneo salvagente dal pm che coordina le indagini, Vincenzo Pacileo, e ottenere lo svincolo della merce oggetto dell’inchiesta. A una condizione: che ammettano spontaneamente di aver introdotto il seme nordeuropeo nei propri allevamenti per renderli più redditizi. Perché, in realtà, l’accertamento non è così semplice, e potrebbero volerci anni per scoprire quanti sono i maiali nelle stalle che non rispettano i requisiti del disciplinare dop. Partendo dal mercato parallelo messo in piedi dal tecnico di un centro genetico in provincia di Torino, Giovanni Moriondo, assistito dall’avvocato Domenico Fragapane, gli investigatori stanno setacciando le aziende che dai documenti risultano aver comprato il duroc danese. «Il mio assistito è stato interrogato e ha risposto a tutte le domande degli inquirenti - dice l’avvocato Fragapane - le indagini sono ancora in corso ma Moriondo, che lavorava come tecnico in una azienda, vendeva legittimamente il seme danese. Non è detto che sapesse quali erano le reali intenzioni degli allevatori».

Torino, maiali danesi per il crudo di Parma. La difesa: "Il mercato voleva quei prosciutti". Gli allevatori: "Tutti sapevano, ora sembra solo colpa nostra. Il prodotto era più magro, dava meno scarto e lo pagavano meglio", scrive Ottavia Giustetti il 17 gennaio 2018 su "La Repubblica". "Era il mercato che imponeva agli imprenditori di allevare il duroc danese. Il prodotto era più apprezzato: carne più magra e meno scarto. Veniva pagato meglio. Tutti sapevano tutto, ma ora a pagare sono soltanto loro". Tom Servetto è l'avvocato che da un anno, da quando sono partiti i primi sequestri negli allevamenti per la frode dei prosciutti del circuito Parma - San Daniele, difende il maggior numero di aziende colpite da perquisizioni e blocco della merce. Ha messo su una vera e propria squadra con le avvocate Alessia De Cristofaro e Roberta Maccia per far fronte alla mole di lavoro che ha prodotto la maxi inchiesta del pm Vincenzo Pacileo. "Una indagine che ha coinvolto la stragrande maggioranza di produttori del circuito dei prosciutti dop - dice Servetto - alla fine, per ripartire con le aziende, hanno ammesso praticamente tutti di aver partecipato alla frode". Può spiegarci dall'inizio cosa è successo? "A un certo punto è accaduto che gli allevatori hanno scoperto che le bestie di duroc danese avevano ottime caratteristiche per il mercato della carne suina. Hanno tecnicamente duplicato gli allevamenti: da una parte allevavano il duroc italiano, o le altre razze per il circuito del Parma, dall'altra il duroc danese che veniva venduto per la realizzazione di prodotti diversi, di ottima qualità, ma meno pregiati. Poi però le cosce di danese hanno cominciato a finire anche nel circuito del Parma. E la cosa funzionava. Venivano addirittura pagate di più. Stiamo parlando della stessa razza, solo di una provenienza diversa dell'animale". Però il danese non è ammesso dal disciplinare. E sul settore si è scatenato il finimondo. "Esatto. Il circuito del dop non ammette la stagionatura delle cosce della razza duroc che proviene dalla Danimarca" spiega Servetto. Differenze infinitesimali che alla prova degli esami non sono risultati individuabili nemmeno con sofisticati test genetici. Gli allevatori avrebbero potuto chiedere un'estensione del disciplinare. E invece hanno scelto un'altra strada. "È vero ammette l'avvocato -, ma le regole comunitarie sulla materia sono complesse. Sarebbe stato necessario approvare una nuova legge per cambiare il disciplinare". Forse non sembrava ce ne fosse bisogno visto che tutto procedeva senza intoppi. E i due tipi di maiale si mescolavano senza che ci fossero proteste. "Qualcuno azzarda addirittura l'ipotesi che non esista una vera differenza. Non più almeno. È solo un a questione di royalties". Gli allevatori potrebbero, in effetti, importare verri dalla Danimarca e immatricolarli in Italia, a quel punto diventerebbero italiani. Ma i danesi che non vogliono cedere le royalties, non trasmettono la genealogia. È così che gli italiani per aggirare il problema hanno messo in piedi un mercato parallelo. L'inchiesta è partita dai controlli nei centri genetici. È possibile, avvocato, che gli allevatori non sapessero di comprare seme danese anziché italiano? Potrebbero essere stati truffati? "Direi di no. È stata una scorciatoia, ma consapevole, perché dettata dalle regole del mercato". Nel corso delle perquisizioni sono state sequestrate tutte le cosce di prosciutto. Decine di migliaia. Sia quelle italiane che quelle danesi, in attesa di scoprire quali fossero legali, e quali no. È a quel punto che gli allevatori sono stati costretti ad ammettere la frode per ottenere i dissequestri. Altrimenti tutta la merce sarebbe rapidamente scaduta. Ora si sente il contraccolpo sul settore. "I prezzi del Parma e del San Daniele sono ovviamente alle stelle - dice Servetto -. E le aziende combattono con i prosciuttifici che chiedono somme fuori mercato".

"Prosciuttopoli": dal 2014 verri danesi spacciati per suini di Parma e S. Daniele Dop, scrive Andrea Sparaciari su "It.businessinsider.com" il 7 maggio 2018. Associazione per delinquere finalizzata alla frode in commercio, falso, contraffazione dei marchi e truffa ai danni dell’Unione europea. Sono i reati ipotizzati dalla procura di Torino (ma un fascicolo parallelo è aperto anche presso la procura di Pordenone) ai danni di oltre 140 allevatori di suini nell’inchiesta che dal 2017 sta sconvolgendo il mondo del prosciutto di Parma e del San Daniele Dop. Una vera “Prosciuttopoli”, che ha portato al sequestro di oltre 300 mila cosce di maiale – il 10% della produzione nazionale, per un valore di circa 90 milioni di euro (stima ilfattoalimentare.it) – pronte a finire sul mercato come prosciutti Dop, ma più che di Denominazione d’origine protetta, erano solo “dopate”. Si trattava infatti di cosce di verro Duroc danese, razza geneticamente differente da quella del suino italiano. Una vera e propria truffa, poiché i Disciplinari – l’insieme di norme da rispettare rigidamente per ottenere la certificazione Dop – sia del Parma che del San Daniele non prevedono l’utilizzo di altri maiali che quelli italiani. Gli inquisiti, invece, avrebbero inondato gli allevamenti di Lombardia, Piemonte, Veneto, Emilia Romagna con animali del nord Europa poiché assicuravano una crescita più rapida (abbattendo i costi), una carne più magra e una maggior resa della carcassa. Nulla di pericoloso per i consumatori, è bene chiarirlo, tuttavia, il minor livello di grasso sottocutaneo e la muscolatura più scarsa del verro danese facevano sì che ne scaturisse un prosciutto con consistenza e sapore assai diversi da quello originale. Dopo la chiusura dell’inchiesta, i prezzi del prosciutto Dop – quello vero – sono schizzati alle stelle a causa della carenza di cosce di maiale lavorabili. Un giochino partito da un tecnico di un centro genetico del torinese – il primo a commercializzare sperma danese – che si è poi ingigantito secondo alcuni grazie a un patto neanche tanto tacito tra allevatori, ingrassatori, macellai e produttori. Per gli inquirenti, gli allevatori avrebbero introdotto i maiali danesi; gli ingrassatori avrebbero venduto gli animali prima dei nove mesi previsti; i macellai li avrebbero lavorati nonostante fossero di peso diverso rispetto a quanto dettato dai Disciplinari; i prosciuttifici avrebbero chiuso un occhio sulla qualità della carne. Tuttavia nei guai sono finiti solo gli allevatori. Una grossa parte di responsabilità l’avrebbero avuta anche i due istituti certificatori che su autorizzazione del Ministero delle Politiche Agricole controllano le filiere di salumi e formaggi Dop e Igp, l’Istituto Parma Qualità e l’Ifcq Certificazioni. Tanto che dal 1° maggio 2018 entrambi sono stati commissariati per sei mesi dall’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari (Icqrf) del ministero. A proposito dell’Istituto Parma Qualità, si legge nel decreto emesso il 12 aprile scorso: “Sono sospese per un periodo di sei mesi a decorrere dall’1 maggio 2018, le autorizzazioni ad espletare le funzioni di controllo per le seguenti produzioni a Dop e Igp: Prosciutto di San Daniele Dop; Prosciutto Veneto Berico Euganeo Dop; Cinta Senese Dop; Stelvio Dop; Fiore Sardo Dop; Speck Alto Adige Igp; Agnello di Sardegna Igp; Kiwi Latina Igp; Pecorino Romano Dop; Pecorino sardo Dop; Valle d’Aosta Jambon de Bosses Dop; Valle d’Aosta Lard D’Arnard Dop; Prosciutto Toscano Dop. Prosciutto di Carpegna Dop; Salamini italiani alla cacciatora Dop; Salame Brianza Dop; Prosciutto di Sauris Igp; Mortadella Bologna Igp; Cotechino Modena Igp; Zampone Modena Igp; Salame Cremona Igp; Finocchiona Igp; Pitina (PNT)”.  Oltre a questi, sospesi i controlli anche sulle produzioni di “Prosciutto di Parma, Prosciutto di Modena, Culatello di Zibello e Salame di Varzi”. Più pesante la posizione dell’Ifcq: per il Ministero, infatti, le falle nei controlli sarebbero dipese dalle decisioni del management approdato dopo l’acquisizione del ramo d’azienda titolare delle certificazioni dall’Istituto Nord Est Qualità («parte delle carenze e non conformità evidenziate erano espressione di un modus operandi da parte degli organi e degli amministratori dell’Organismo di controllo Istituto Nord Est Qualità – INEQ», sostiene il Ministero). Ora i due istituti, i cui vertici non hanno risposto alle domande di Business Insider Italia, saranno affiancati per sei mesi dai tecnici anti frode del Ministero delle Politiche Agricole. Per evitare conseguenze più gravi, si sono impegnati a esercitare una “rigorosa applicazione dei piani di controllo”, nonché “la verifica del tipo genetico dei verri attraverso verifica dell’auricolare, con ispezione per visione diretta dei box ove sono detenuti gli animali ed incrocio della relativa documentazione”. Per il Consorzio Prosciutto di Parma, che si è dichiarato parte lesa, comunque “nessuna coscia dei maiali provenienti dagli allevamenti coinvolti è diventata né diventerà Prosciutto di Parma ed eventuali cosce in stagionatura sono state facilmente identificate e, se del caso, distolte dal circuito”. Tuttavia, lo stesso Consorzio non ha mai spiegato come sia stato possibile che almeno dal 2014 i suoi aderenti abbiano acquistato centinaia di migliaia di cosce con caratteristiche differenti da quelle che avevano utilizzato da sempre. «Non prendiamoci in giro, le differenze tra i due tipi di animali sono evidenti», dice a Business Insider Italia Tom Servetto, legale di molti degli allevatori finiti sotto inchiesta, «la verità è che tutti nella filiera – allevatori, macelli, prosciuttifici – sapevano. Anzi, gli allevatori erano costretti ad allevare i verri danesi perché il mercato pretendeva quel tipo di carne, più magra. Certo», continua Servetto, «gli allevatori rilasciavano la certificazione di origine degli animali, ma era un proforma». Ora, con gli allevatori sotto inchiesta, i produttori stanno chiedendo i danni. «Siamo di fronte a un’estorsione commerciale: quegli stessi prosciuttifici che imponevano i verri danesi, ora chiedono rimborsi agli allevatori. I primi accordi si sono chiusi con restituzioni tra i 18 e i 22 euro a coscia, oggi siamo a 50/60 euro, per cosce che costano 150 euro l’una. Una follia!». Una guerra che sta mettendo in ginocchio la gran parte degli allevatori di suini in Italia. Per Servetto, infine, l’unico errore fatto dagli allevatori sarebbe stato di non cercare di cambiare i disciplinari, ma di aggirare le normative. Intanto il procuratore di Torino titolare dell’inchiesta, Vincenzo Pacileo, d’accordo con Ministero e Assosuini, dopo una riunione tenuta in procura “per chiarire l’estensione del fenomeno illecito di fronte al paventato rischio di collasso del mercato del settore”, ha autorizzato lo sblocco delle 300 mila cosce, a patto che gli allevatori ammettessero le condotte illecite e che quelle danesi fossero sbollate (cioè venisse rimosso il marchio impresso a fuoco sulla cotenna) per essere poi utilizzate per produrre prosciutti “normali”. Resta il fatto che almeno dal 2014, centinaia di migliaia di consumatori italiani hanno acquistato – e pagato tra i 35 e i 65 euro al chilo – fette di prosciutto che tutto erano tranne che Dop.

Prosciutto Parma e San Daniele: irregolarità nei controlli. Il ministero decide commissariamento degli Istituti di certificazione, scrive Beniamino Bonardi il 16 aprile 2018 su "Ilfattoalimentare.it". Il ministero delle Politiche agricole ha commissariato per sei mesi, a partire dal prossimo 1° maggio 2018, l’Istituto Parma Qualità e l’Ifcq Certificazioni, che svolgono su autorizzazione del ministero le funzioni di controllo sulle filiere di diversi salumi e formaggi Dop e Igp, tra cui il Prosciutto di Parma e quello San Daniele.  Il commissariamento, disposto dall’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari del ministero, nasce da una maxi-frode scoperta dopo un anno di indagini coordinate dalla Procura di Torino. L’autorità giudiziaria lo scorso gennaio ha disposto il sequestro di migliaia di cosce di maiale della razza Duroc danese, destinate a finire illegalmente nel circuito del prosciutto Parma-San Daniele. Il disciplinare infatti consente solo l’impiego di cosce di Duroc italiano. Gli allevatori coinvolti sono stati centinaia tra Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna e Veneto, e costituiscono la stragrande maggioranza dei produttori del circuito dei prosciutti Dop. “… per ripartire con la produzione le aziende hanno ammesso di aver partecipato alla frode”, ha spiegato a Repubblica uno degli avvocati degli allevatori, Tom Servetto, secondo il quale “era il mercato che imponeva agli imprenditori di allevare il Duroc danese. Il prodotto era più apprezzato: carne più magra e meno scarto. Veniva pagato meglio. Tutti sapevano tutto, ma ora a pagare sono soltanto loro”. Il disciplinare dei prosciutti Dop consente solo l’impiego di cosce di Duroc italiano. Tutta questa vicenda è iniziata con l’importazione di maiali maschi Duroc dalla Danimarca per l’inseminazione. Gli allevatori sanno che il seme del Duroc danese è più redditizio rispetto a quello del Duroc italiano, perché genera animali più prestanti, che crescono rapidamente e con meno mangime. Inizialmente i Duroc danesi e quelli italiani venivano allevati separatamente, poi i circuiti si sono mischiati. I disciplinari approvati per il prosciutto di Parma, San Daniele e per il crudo di Cuneo, però, richiedono che l’inseminazione sia fatta dal Duroc italiano, che ha una maggior quantità di grasso, che consente di stagionare le cosce per molti mesi utilizzando come conservante solamente il sale. Per questo sono scattate le denunce per associazione a delinquere finalizzata alla frode in commercio, falso, contraffazione dei marchi e truffa ai danni dell’Unione europea. Oltre all’inchiesta di Torino, un’altra è in corso a Pordenone. Oltre agli allevatori, nel mirino sono finiti anche i due enti certificatori, destinatari dei provvedimenti del ministero delle Politiche agricole: l’Istituto Parma Qualità, al quale sono affidate le funzioni di controllo per quattro produzioni Dop (Prosciutto di Parma, Prosciutto di Modena, Culatello di Zibello e Salame di Varzi), e l’Ifcq Certificazioni, titolare delle funzioni di controllo per numerose produzioni Dop e Igp (Prosciutto di San Daniele Dop; Prosciutto Veneto Berico Euganeo Dop; Cinta Senese Dop; Stelvio Dop; Fiore Sardo Dop; Speck Alto Adige Igp; Agnello di Sardegna Igp; Kiwi Latina Igp; Pecorino Romano Dop; Pecorino sardo Dop; Valle d’Aosta Jambon de Bosses Dop; Valle d’Aosta Lard D’Arnard Dop; Prosciutto Toscano Dop; Prosciutto di Carpegna Dop; Salamini italiani alla cacciatora Dop; Salame Brianza Dop; Prosciutto di Sauris Igp; Mortadella Bologna Igp; Cotechino Modena Igp; Zampone Modena Igp; Salame Cremona Igp; Finocchiona Igp; Pitina). Per 6 mesi Istituto Parma Qualità e Ifcq Certificazioni sono sotto vigilanza dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi. Durante i sei mesi di commissariamento, l’Istituto Parma Qualità e l’Ifcq Certificazioni opereranno sotto la vigilanza dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (Icqrf) e dovranno porre in atto diverse misure correttive, tra cui la “rigorosa applicazione dei piani di controllo”, anche attraverso “la verifica del tipo genetico dei verri (suini maschi non castrati, n.d.r.) attraverso verifica dell’auricolare, con ispezione per visione diretta dei box ove sono detenuti gli animali ed incrocio della relativa documentazione”. Nel periodo del commissariamento, l’Istituto Parma Qualità e l’Ifcq Certificazioni saranno tenuti a comunicare al ministero “con cadenza quindicinale, il programma di visite ispettive ed a trasmettere tutti i rapporti di verifica ispettiva, il programma di campionamento e i relativi verbali”. Oltre a ciò, gli Istituti saranno sottoposti a visite ispettive e affiancamenti, anche senza preavviso, per verificare la corretta realizzazione delle misure correttive previste nei provvedimenti. Il ministero delle Politiche agricole ha deciso di sospendere per sei mesi le autorizzazioni anziché revocare del tutto l’incarico, perché dalle dichiarazioni rese è emersa l’intenzione degli enti “di rimuovere le cause che hanno dato luogo all’avvio del procedimento…, di ripristinare un corretto funzionamento di ruoli e responsabilità nell’ambito dell’organigramma, di espletare le funzioni di controllo autorizzate in modo efficace, corretto e affidabile”. Forse va fatta una riflessione sulla possibilità di modificare il regolamento dei consorzi. In realtà sarebbe stato difficile per il ministero revocare il mandato, perché si tratta degli unici enti incaricati di certificare la qualità delle eccellenze italiane in materia di salumi, anche se la gravità delle accuse forse meritava maggiore severità. Pur non essendoci aspetti di natura sanitaria o danni a carico del consumatore, quando si parla di prodotti Dop il mancato rispetto delle regole dei consorzi resta una questione grave. Le sanzioni economiche per i soggetti implicati sono state molto salate, e anche a livello organizzativo ci sono stati grossi cambiamenti. I due enti hanno cambiato gli organi direttivi e “hanno deciso di modificare condotte a attività non conformi ai principi di imparzialità e assenza di conflitto di interessi”. Forse però a questo punto va fatta anche una riflessione sulla possibilità di modificare il regolamento dei consorzi, e assimilare tra le razze di maiali “autorizzate” anche le cosce di animali di Duroc danese.

Prosciuttopoli: sequestrate e smarchiate 300 mila cosce di prosciutto di Parma e San Daniele per un valore di 90 milioni! La frode iniziata nel 2014, scrive Roberto La Pira il 3 maggio 2018 su "Ilfattoalimentare.it". I numeri dello scandalo del prosciutto crudo di Parma e di San Daniele sono da paura: 300 mila prosciutti sequestrati e 140 allevamenti di maiali posti sotto inchiesta della Procura di Torino. C’è di più, i due istituti di certificazione che devono controllare il rispetto dei disciplinari (Istituto Parma Qualità e Ifcq Certificazioni) sono stati commissariati per sei mesi dal Ministero delle politiche agricole per gravi irregolarità. L’aspetto curioso è che le notizie diffuse dai media su questa vicenda sono state pochissime e sono apparse quasi tutte sulla stampa locale. La stessa Coldiretti, abituata a diffondere almeno tre comunicati al giorno per segnalare anche le difficili condizioni meteo, si è dimenticata di questa storia. Eppure la produzione di prosciutto di Parma e San Daniele, dopo le indagini avviate un anno fa, sta attraversando una crisi pesante. La causa è da ricercare nella vendita di cosce provenienti da maiali nati con il seme di Duroc danese, una razza diversa da quelle previste dai consorzi. La questione è molto seria, visto che la procura di Torino ha sequestrato 14 mesi fa, in 140 aziende, oltre 300 mila cosce di maiale (220 mila destinate al prosciutto di Parma le altre al San Daniele) per un valore al consumo di circa 90 milioni di euro, pari a circa il 10 % della produzione nazionale. L’accusa è di frode in commercio, aggravata per l’utilizzo di tipi genetici non ammessi dal Disciplinare dei consorzi. Alcune aziende implicate nello scandalo hanno ammesso l’uso di animali con una genetica non consentita riuscendo a dissequestrare i prodotti e a venderli come semplici prosciutti crudi. Altre hanno sostenuto di essere in regola e molti sono rimasti in silenzio. Per non avere controllato questo aspetto della filiera, il Ministero delle politiche agricole ha commissariato per sei mesi l’Istituto Parma Qualità e l’Ifcq Certificazioni. Stiamo parlando dei due enti incaricati di sovrintendere al rispetto non solo dei disciplinari dei prosciutti di Parma e di San Daniele, ma di quasi tutte le eccellenze agroalimentari italiane. L’elenco comprende oltre ai due prosciutti Dop, tre referenze per l’Istituto Parma Qualità (Prosciutto di Modena, Culatello di Zibello, Salame di Varzi),  e 22 per l’Ifcq Certificazioni (Prosciutto Veneto Berico Euganeo Dop, Cinta Senese Dop, Stelvio Dop, Fiore Sardo Dop, Speck Alto Adige Igp, Agnello di Sardegna Igp, Kiwi Latina Igp, Pecorino Romano Dop, Pecorino sardo Dop, Valle d’Aosta Jambon de Bosses Dop, Valle d’Aosta Lard D’Arnard Dop, Prosciutto Toscano Dop, Prosciutto di Carpegna Dop, Salamini italiani alla cacciatora Dop, Salame Brianza Dop, Prosciutto di Sauris Igp, Mortadella Bologna Igp, Cotechino Modena Igp, Zampone Modena Igp, Salame Cremona Igp, Finocchiona Igp, Pitina Pnt). I due enti certificatori che dovevano controllare i requisiti di qualità dei prosciutti Dop sono stati commissariati per sei mesi.  Pochi hanno voglia di raccontare questa vicenda. Gli allevatori che hanno usato razze di suini a crescita veloce sapevano di usare razze non consentite dal disciplinare, ma lo hanno fatto in modo deliberato perché il sistema permetteva vantaggi economici significativi. I due enti certificatori, accreditati per controllare le fasi di allevamento e stagionatura (Istituto Parma Qualità e Ifcq Certificazioni), e commissariarti per sei mesi dal Ministero delle politiche agricole preferiscono non rilasciare dichiarazioni ufficiali. Trattandosi però di una storia che va avanti dal 20014 e riguarda molti soggetti della filiera, è difficile giustificare tanta negligenza da parte dei controllori. Anche la posizione dei Consorzi è complicata. Nessuno si è accorto che almeno 140 allevatori per incrementare i profitti, hanno venduto per anni centinaia di migliaia di cosce di maiale non adatte al tipo di stagionatura prevista. Il Consorzio del prosciutto di Parma di fronte allo scandalo si limita a dichiarare che “nessuna coscia dei maiali provenienti dagli allevamenti coinvolti è diventata né diventerà Prosciutto di Parma ed eventuali cosce in stagionatura sono state facilmente identificate e, se del caso, distolte dal circuito”. Anche se in seguito dell’inchiesta della magistratura a centinaia di migliaia di prosciutti è stato tolto il marchio a fuoco impresso sulla cotenna, la vicenda lede pesantemente l’immagine del prodotto Dop. È vero che trattandosi di una frode commerciale non ci sono problemi per la salute dei consumatori, ma è altrettanto vero che lo scandalo è gravissimo dal momento che stiamo parlando delle eccellenze alimentari italiane. Sapere che le fettine di Parma e di San Daniele, vendute in busta nei supermercati a un prezzo variabile da 37 sino a 58 €/kg, provengono da razze non ammesse che non garantiscono un prodotto di qualità è molto imbarazzante. Il procuratore di Torino ha accolto l’idea di Assosuini di convocare in procura una riunione tra le parti interessate “per chiarire l’estensione del fenomeno illecito di fronte al paventato rischio di collasso del mercato del settore”. Per rendersi conto della gravità della situazione, basta dire che il procuratore di Torino Vincenzo Pacileo, promotore delle indagini, ha accolto l’idea di Assosuini di convocare in procura una riunione tra le parti interessate (Ministero politiche agricole, Coldiretti, Consorzio del prosciutto di Parma, i due istituti di certificazione IPQ e IFCQ Certificazioni, Confagricoltura, Assica, Copagri e Cia) “per chiarire l’estensione del fenomeno illecito di fronte al paventato rischio di collasso del mercato del settore”. Secondo gli inquirenti, le frodi vanno avanti almeno dal 2014. Adesso ci sono buoni motivi per ritenere che da quando si è conclusa l’indagine nel febbraio 2017, il fenomeno sia esaurito o in via di esaurimento. Dello stesso parere è l’Icqrf del Ministero delle politiche agricole che dopo l’inchiesta di Torino ritiene ci sia stato un ritorno alla normalità. La cosa certa è che, oltre ai 300 mila prosciutti bloccati dall’inchiesta, in questi anni centinaia di migliaia di prosciutti di Parma e di San Daniele taroccati sono stati venduti a caro prezzo ai consumatori ignari della frode. Secondo quanto è emerso dalle indagini l’introduzione in Italia del seme di verro Duroc danese per inseminare le scrofe è iniziata almeno quattro anni fa, e si è diffusa rapidamente coinvolgendo allevamenti situati in tutto il Nord Italia (dal Piemonte all’Emilia Romagna, dalla Lombardia al Trentino). È curioso ricordare come nello stesso periodo (2015), mentre 140 aziende agricole allevavano centinaia di migliaia di maiali nati e cresciuti in Italia per venderli in modo fraudolento ai salumifici dei prosciutti di Parma e San Daniele, Coldiretti si mobilitava al Brennero per denunciare l’importazione di cosce di maiale destinate a diventare prosciutti nei salumifici di Modena (cosa peraltro assolutamente legale non trattandosi di prodotti Dop). Se allora i media rilanciarono l’iniziativa con grande enfasi, adesso, di fronte a una frode che coinvolge le due filiere più importanti, bucano la notizia! Sui numeri degli allevamenti coinvolti c’è qualche divergenza. Secondo il Consorzio del prosciutto di Parma, i soggetti indagati (ovvero con cosce oggetto di sequestro), sono attualmente 40, mentre i prosciutti in fase di stagionatura posti sotto sequestro o distolti dal circuito ammonterebbero al 3% della produzione del Parma.  Per il San Daniele non ci sono notizie, perché il consorzio non risponde. Le cosce di suino nato da seme Duroc danese non hanno le caratteristiche richieste dai disciplinari per la produzione di prosciutti Dop. I prosciutti italiani Dop sono considerati i migliori al mondo perché i disciplinari prevedono norme severe su tempi di allevamento, livelli di crescita, tipo di alimentazione e impronta genetica. Per questo motivo, se le scrofe vengono inseminate con un seme non riconosciuto, il reato è considerato gravissimo. Non si tratta di sfumature. Le razze per i due prosciutti Dop vengono macellati dopo un periodo minimo di 9 mesi, quando hanno raggiunto 160 kg (con una tolleranza del 10%).  Trattandosi di animali a crescita lenta con uno sviluppo muscolare non esagerato, alla fine si ottiene un livello di grasso di copertura ottimale per la stagionatura e una carne con poca acqua. L’inseminazione con il seme di verri di Duroc danese è economicamente vantaggiosa perché i maiali arrivano ai 160 kg previsti dopo 8-8,5 mesi, e non dopo 9-10 come si registra con le tipiche razze di suino pesante ammesse dal disciplinare. Il vantaggio per gli allevatori è sin tropo evidente, meno mangime da somministrare ai maiali, migliore efficienza nella conversione alimentare e minor lavoro nella gestione degli animali. I problemi però si evidenziano nella fase di lavorazione dopo la macellazione. La crescita veloce degli animali determina una muscolatura poco matura, con un livello di grasso sottocutaneo e di copertura insufficiente, per cui a fine stagionatura il prosciutto non ha il sapore, la consistenza e l’aspetto tipico del prodotto Dop. In questa vicenda sono coinvolti anche i macelli e i prosciuttifici, che accettavano di buon grado il sistema perché la resa della carcassa era maggiore e i prosciutti più magri e con meno grasso risultavano anche più graditi dai consumatori attenti alla linea. Uno dei motivi che ha favorito l’impiego di razze di maiali con un’impronta genetica “incompatibile” con le esigenze morfologiche e strutturali necessarie per ottenere prosciutti Dop è la poca chiarezza dei disciplinari. “I disciplinari – spiega Luisa Antonelli Volpelli, docente di Nutrizione e alimentazione animale all’Università di Modena e Reggio Emilia, che per anni ha fatto parte della Giunta d’appello di Ineq (ora Ifcq) – ammettono l’uso di tipi genetici che forniscono caratteristiche non incompatibili con i dettami del regolamento per la produzione del suino pesante italiano, in particolare per il grasso di copertura e lo sviluppo muscolare. Le regole vanno assolutamente rispettate, ma nel recente passato sono state disattese proprio dai controllori”. I consorzi fanno bene a prediligere la genetica italiana, ma ritenere tutte le nuove razze incompatibili con il prosciutto di San Daniele e di Parma senza apportare valide giustificazioni denota una visione restrittiva che potrebbe nascondere anche un conflitto di interesse, come ha sottolineato un parere redatto nel 2013 dall’Autorità garante della concorrenze e del mercato. La poca chiarezza dei disciplinari ha favorito l’impiego fraudolento di razze di maiali poco compatibili con gli standard di qualità dei prosciutti Dop. Detto ciò lo truffa dei prosciutti non trova alcuna giustificazione e ha assunto dimensioni tali da poter parlare di una Prosciuttopoli. La vicenda vede coinvolti allevatori, macelli, prosciuttifici e gli organismi di controllo che dovevano supervisionare le operazioni. C’è poi la “noncuranza” dei Consorzi che non avevano sentore delle furberie in atto.  Il paradosso è che i prosciuttifici nel processo in corso a Torino si ritengono parte lesa, e chiedono i danni agli allevatori. Viene spontaneo chiedersi come facciano aziende che operano da 30 anni nel settore, a non accorgersi di acquistare cosce con poco grasso e una conformazione muscolare sospetta.  Se così fosse bisognerebbe fare una riflessione sulle effettive capacità di prosciuttifici così ingenui da farsi abbindolare dagli allevatori. Il problema è serio e andrebbe affrontato senza accampare giustificazioni o scuse improbabili, come sembrano fare la maggior parte dei soggetti coinvolti. Questo comportamento inaccettabile è coperto dall’assordante silenzio dei media pronti a rilanciare le notizie-bufale sul grano canadese e sul pomodoro cinese, trascurando le “malefatte made in Italy”. Forse siamo noi gli ingenui quando pensiamo che gli allevatori troppo furbi dovrebbero essere allontanati dalla filiera, che i laboratori di certificazioni dovrebbero fare meglio il loro mestiere ed essere sanzionati pesantemente, che i prosciuttifici distratti non esistono e che i consorzi dovrebbero capire quando le cose non funzionano prima dell’intervento dell’autorità giudiziaria.  Ma Prosciuttopoli 2018 interessa poco, perché sollevare uno scandalo sul prosciutto di Parma e San Daniele diventa una questione nazionale. La cosa importante è salvare l’immagine di una filiera che fattura qualche miliardo di euro e dimenticare i consumatori truffati. 

L'OLIO DI PALMA E LO SCHIERAMENTO PARTIGIANO.

Il “senza” nelle etichette fabbrica illusioni nel cibo, scrive Pietro Paganini l'8/05/2017 su "La Stampa". Nei messaggi commerciali trionfa il «senza». Se un prodotto è «senza» allora fa bene alla salute. Chi lo ha detto? La confezione. È iniziata negli Usa, dove sono maestri di marketing, l’ossessione per il senza, e si è ormai diffusa in tutto il mondo occidentale. Senza zuccheri, senza sale, senza grassi, senza olio di palma, senza coloranti, senza carboidrati, senza glutine, senza…e via così.. Col «senza» ci impongono un’idea di salute che guida le nostre vite. Immagini ed affermazioni evocative stimolano il nostro senso di benessere. Le imprese alimentari lo hanno capito attraverso le analisi comportamentali dei consumatori, e lo hanno messo immediatamente in pratica. Le ragioni sono ovviamente commerciali. Non ci sarebbe nulla di male se non fosse che, con quel «senza», come dimostrano le ricerche più recenti, il consumatore si illude di migliorare il suo stato di salute. Sarebbe sufficiente leggere attentamente la tabella nutrizionale, che sta li sulla confezione, per scoprire che quel «senza qualcosa» è stato sostituito con qualcos’altro» di cui sappiamo poco e che forse, non è detto sia così salutare come vorremmo. È una trappola delle imprese alla naturale ingenuità dei consumatori? No. Le imprese fanno il loro mestiere che è quello di fornirci prodotti più o meno buoni e di convincerci a consumarli. Per farlo al meglio studiano le nostre abitudini. Noi però non siamo mai stati così ossessionati dal «senza». O lo siamo diventati improvvisamente o c’è qualcosa che non torna. Non è che anche le imprese sono cadute in questa trappola? Dovrebbero essere meno ingenue di noi eppure la sensazione è che oggi siano a loro volta vittime del «senza». Se prendiamo l’ultimo «senza» in ordine cronologico, l’olio di palma, si ha l’impressione che la sua esclusione dagli alimenti non sia, fatte le opportune eccezioni, la conseguenza né di scelte di mercato né tantomeno di questioni medico scientifiche. È piuttosto il risultato di un’imposizione ideologica, quella salutista. A differenza del passato, il salutismo contemporaneo è promosso da una moltitudine variegata di micro associazioni di attivisti ciascuna delle quali agisce autonomamente intorno e contro un particolare ingrediente. Nel suo insieme resta una minoranza che tuttavia sta riuscendo nell’intento di imporre una vera e propria agenda alimentare alla maggioranza dei cittadini. Questo è reso possibile da tre fattori. 1) I «senzisti» si giovano più che mai della disinformazione emotiva, che prospera attraverso la diffusione di notizie false che attecchiscono in un contesto culturale di per sé allergico al metodo sperimentale e al confronto critico, e contestualmente propenso a confermare le proprie ansie ed aspettative. 2) La disinformazione trova terreno fertile nelle reti sociali (e questo si sapeva) ma, purtroppo, anche nei media tradizionali che hanno ormai perso la vocazione originaria di raccontare storie dopo averle verificate, o comunque di mettere a confronto opinioni diverse seguendo il metodo sperimentale. Preferiscono l’evocazione ideologica e il racconto un po’ cialtronesco che emoziona l’audience. 3) L’industria si lascia travolgere da questa molteplicità di micro messaggi che i media hanno provveduto ad amplificare finendo per convincersi che l’esclusione di uno o più ingredienti sia la scelta migliore per i consumatori. Si rivela essere la peggiore. Ci viene infatti preclusa la libertà di scegliere negandoci il diritto di conoscere, a favore di una verità preconfezionata scelta da altri nel nome del bene assoluto: la salute, ma l’idea di salute stabilita da altri, per di più una minoranza. È invece proprio la conoscenza che favorisce la libera scelta dei cittadini e quindi il mercato e la concorrenza. Non siamo noi che sceglieremo se consumare con o senza. Se così non fosse, se ci fosse solo il «senza», staremmo uccidendo la libertà di scelta del cittadino e quindi il mercato vero.  

L'olio di palma è insostenibile, scrive il 13 marzo 2016, sul blog di Beppe Grillo, Mirko Busto, portavoce M5S alla Camera. Vi siete chiesti perché molte importanti aziende italiane e internazionali – tra cui Plasmon, Colussi, Barilla e tante altre - stanno scegliendo di eliminare l'olio di palma dai loro prodotti? Perché l'olio di palma è un killer che distrugge tutto ciò che trova sul suo cammino: la nostra salute, gli animali, le foreste, l'ambiente dove vivono intere popolazioni costrette ad emigrare.

Gli interessi delle multinazionali. Ad alcune grandi aziende tutto questo non interessa: Ferrero, Nestlé, Unilever, Unigrà, preferiscono difendere i loro enormi interessi nell'olio di palma. Per questo, di fronte a un'ondata sempre crescente di consumatori consapevoli che rifiutano di comprare prodotti con l'olio killer, hanno tentato di correre ai ripari con un martellante spot in TV promosso dalla neonata "Unione italiana per l’olio di palma sostenibile", costituita dalle suddette imprese che con quest'olio fanno facili guadagni a discapito della nostra salute e del pianeta. La loro pubblicità è bucolica, quasi commovente: l’olio di palma è naturale, non presenta rischi per la salute e la sua coltivazione ‘sostenibile’ aiuta a rispettare la natura. Certo, un po' come dire che un cacciatore ama gli animali.

Cosa contiene l'olio di palma. Che l'olio di palma sia “naturale” e privo di rischi è la prima menzogna. I frutti della palma, in quanto deteriorabili, vengono sterilizzati, snocciolati, cotti, pressati e filtrati. Successivamente, subiscono un processo di raffinazione, anche con sostanze chimiche, con deodorazione, decolorazione e neutralizzazione che riducono l'acidità dell'olio. Il prodotto finale, di colore bianco-giallino, reduce di tutti questi trattamenti, è costituito per circa il 50% da grassi saturi. Proprio sul consumo di questo tipo di grassi l’Istituto Superiore della Sanità, pochi giorni fa, ha messo in guardia gli italiani: il pericolo per la salute è l'aumento di malattie cardiovascolari, soprattutto nei bambini e nei soggetti a rischio. Nell’olio di palma si trova, infatti, una concentrazione altissima di acido palmitico, circa il 44%, a cui le fonti più autorevoli imputano l'aumento di colesterolo e i rischi cardiovascolari. Lo dicono ad esempio l’Organizzazione Mondiale della Sanità, il Center for Science in the Public Interest, la statunitense American Heart Association e l’Agenzia francese per la sicurezza alimentare, ripresa anche dal Consiglio Superiore della Salute del Belgio.

L'olio di palma è insostenibile. Fino ad ora l’olio di palma si era incredibilmente diffuso: è presente nei dolci industriali, come biscotti, merendine, torte e persino nel latte per neonati! Ecco perché è praticamente impossibile monitorare il quantitativo totale di questi grassi che ogni giorno mettono in pericolo il nostro cuore e la nostra salute. Ora la seconda menzogna: l’olio di palma, sostenibile, aiuterebbe a proteggere la natura. Esiste davvero una coltivazione dell’olio di palma "sostenibile"? Può un olio killer proteggere la natura? NO! Non può. Dal 2007, il Programma ambientale delle Nazioni Unite (UNEP) ha decretato l’olio di palma come causa principale di distruzione delle foreste pluviali del sud est asiatico. Tra il 2000 ed il 2012 la sola Indonesia ha perso 6 milioni di ettari di foresta tropicale, un’area grande all’incirca come l’Irlanda. I danni sono inimmaginabili: riduzione dei nostri polmoni verdi mondiali, scomparsa di piante ed animali, cioè della biodiversità (oltre 1.500 specie di uccelli a rischio estinzione, e la morte di specie come le tigri di Sumatra, il rinoceronte di Giava, elefanti e oranghi). Ma non solo. La produzione di olio di palma costringe numerose popolazioni locali e indigene a migrazioni forzate. Gli abitanti delle zone interessate dalle piantagioni vengono privati della terra e della casa o costretti a lavorare nelle monocolture di palme senza alcun diritto. Basti pensare che l’industria malese dell’olio di palma è stata più volte denunciata dal Dipartimento del lavoro degli Stati Uniti per avere sfruttato il lavoro di bambini e il lavoro forzato.

La truffa della sostenibilità. La truffa della presunta coltivazione "sostenibile" dell’olio di palma si basa sul fatto che la certificazione viene rilasciata dalla RSPO (Roundtable on Sustainable Palm Oil), un'associazione composta da aziende, grande distribuzione e associazioni ambientaliste, ma interamente dipendente dalle multinazionali del settore: sono loro, infatti, ad autocertificarsi e autocontrollarsi. Cioè, controllato e controllore sono la stessa cosa! Ovviamente ciò non rallenta né ferma il disastro ambientale in atto quindi ora si sono inventati persino una nuova certificazione ‘sostenibile’ (ad opera della POIG, costola del RSPO, che l'unione dei produttori dichiara adotterà dopo il 2020), che all'apparenza sembra un miglioramento rispetto alla situazione attuale: la coltivazione dovrebbe avvenire senza tagliare foreste vergini, preservando le torbiere, nel rispetto degli ecosistemi e, soprattutto, usando terra non proveniente da aree sottoposte ad incendi volontari. Ma purtroppo non è altro che un altro bieco caso di "greenwashing"!

Il disastro ambientale. Nella realtà le foreste primarie verranno tagliate e bruciate ad un ritmo sempre crescente per far fronte all’espansione della domanda spinta anche dal falso senso di sicurezza che queste certificazioni generano nei consumatori. Il trucco è semplice. Prima viene tagliata e bruciata foresta vergine per convertirla in piantagioni di olio di palma. Poi, trascorso qualche anno dalla deforestazione illegale, basta richiedere la certificazione agli enti certificatori i quali, prima di assegnare l’attestato di “sostenibilità”, dovrebbero accertare che la piantagione sia stata realizzata su un’area agricola non forestale e che venga condotta nel rispetto dei principi previsti. Tuttavia questa verifica è inattuabile, dato che mancano registri e mappature aggiornate dei cambiamenti di uso del suolo, e manca anche la volontà di controllo da parte delle autorità: molti degli Stati produttori di olio di palma, per benefici economici a breve termine e in certi casi per corruzione, favoriscono la deforestazione. Ma la cosa più drammatica è che si tratta di un processo irreversibile: nell’agricoltura dei tropici, dopo circa 15 anni, una piantagione ricavata su quello che era un suolo forestale diventa sterile e ciò finisce per compromettere la produzione. Viene quindi abbandonata e il ciclo vizioso riprende con nuova deforestazione. Con questi ritmi tutte le foreste indonesiane saranno distrutte entro qualche decennio e con loro andranno perduti biodiversità e servizi eco-sistemici cruciali per la sopravvivenza delle popolazioni locali e per gli equilibri del nostro pianeta. La distruzione delle foreste concorre a peggiorare il cambiamento climatico perché i suoli deforestati liberano enormi quantità di gas serra che, a livello globale, contribuiscono quasi come l’intero settore dei trasporti. Al contrario proteggere le foreste è una necessità per limitare i danni del clima impazzito.

Qual' è l'unica Sostenibilità attuabile? L’unica soluzione sostenibile è quella già intrapresa da molti italiani: informarsi e iniziare a scegliere nel momento di fare la spesa. Leggendo l'etichetta e rimettendo negli scaffali i prodotti che contengono olio di palma. Per fortuna le alternative esistono! Boicottare l’olio di palma vuol dire incentivare le aziende a utilizzare oli vegetali prodotti in Europa senza produrre nuova deforestazione, morte di piante ed animali, violazione dei diritti delle popolazioni indigene e favorendo l’economia italiana ed europea. Vuol dire incentivare le aziende a produrre in modo più sano, tutelando soprattutto la salute dei bambini italiani, che risultano essere i più grassi d'Europa. La vera sostenibilità è scegliere i prodotti giusti: senza olio di palma. E' una scelta facile e veloce a favore della nostra salute, del nostro pianeta, dei nostri figli.

OLIO DI PALMA: PERCHE' E' DANNOSO PER LA SALUTE E PER L'AMBIENTE. Scrive su "Green Me" il 5 Giugno 2012 Marta Albè, modificato il 23 Dicembre 2016. Chi ha l'abitudine di controllare le etichette dei prodotti alimentari prima di compiere un acquisto si sarà imbattuto nella dicitura "olio di palma" oppure "olio vegetale", che, se non seguita da una ulteriore specificazione posta tra parentesi e riguardante il tipo di olio utilizzato, potrebbe nascondere proprio quest'olio di provenienza esotica e sempre meno ben visto sia dal punto di vista salutistico che ambientale. A lasciare particolarmente sconcertati è la diffusione del suo impiego, che abbraccia non soltanto l'industria alimentare, ma anche il mondo della cosmesi, trattandosi di un olio considerato molto versatile, oltre che disponibile sul mercato a prezzi contenuti rispetto ad altri oli vegetali maggiormente pregiati. La sua presenza negli alimenti confezionati non interessa soltanto i comuni prodotti da supermercato, ma anche i cibi biologici, tra cui si possono individuare, ad esempio: fette biscottate e biscotti per la colazione. È necessario dunque porre una particolare attenzione alle liste degli ingredienti in qualsiasi luogo si acquisti un prodotto ed a qualsiasi marchio si faccia riferimento. L'olio di palma, nei comuni prodotti confezionati, non manca di essere utilizzato in prodotti sia dolci che salati, tra i quali è possibile individuare diversi tipi di alimenti da forno, come crackers e grissini, ma anche merendine di vario genere e biscotti, senza contare alcune delle creme spalmabili più diffuse ed alcuni tipi di margarina, oltre che alcune basi pronte fresche o surgelate per la preparazione di torte salate, pizze e focacce e differenti tipologie di pietanze precotte o prefritte. Ciò che ci dovrebbe spingere ad evitare il consumo di prodotti contenenti olio di palma al fine di proteggere la nostra salute riguarda il suo elevato contenuto di grassi saturi, che può raggiungere anche il 50% nel caso dell'olio di palma derivato dai frutti e l'80% nell'olio di palmisto, derivato dai semi. Si tratta di oli spesso utilizzati a livello industriale per la frittura ed a livello cosmetico per la preparazione di creme, saponi e prodotti detergenti destinati alla cura della persona. Il suo elevato contenuto di grassi saturi lo rende semi-solido a temperatura ambiente. Ciò avviene sia nel caso dell'olio di palma che dell'olio di palmisto, che viene impiegato soprattutto in pasticceria per la realizzazione di creme e farciture dolci, per le canditure e per la preparazione delle glasse. Il suo elevato contenuto di grassi saturi non è purtroppo controbilanciato da un'adeguata presenza di acidi grassi polinsaturi benefici, ritenuti in grado di tenere sotto controllo i livelli del colesterolo LDL. L'olio di palma trova inoltre impiego al di fuori dell'industria cosmetica ed alimentare, ad esempio nella produzione di biodiesel. Il biocarburante ottenuto a partire dall'olio di palma è stato però bollato dalla U.S. Environmental Protection Agency come non ecologico, in quanto la sua produzione è causa di emissioni di anidride carbonica superiori a quanto consentito perché un biocarburante venga considerato realmente "pulito", oltre che per via degli ingenti costi ambientali legati alla sua produzione. Essi sono principalmente legati alle modalità stesse di diffusione della coltivazione di palme da olio, avvenuta in maniera sempre più massiccia nel corso degli ultimi anni per via dell'esigenza del mondo industriale di avere a propria disposizione un olio a basso costo ed utilizzabile, come visto, in numerosi campi di applicazione. Alla diffusione delle piantagioni di palme da olio si oppongono da tempo associazioni ambientaliste come Greenpeace e Friends of the Earth, ben consce dei gravi danni per l'ecosistema provocati da tale pratica. La coltivazione di palme da olio sta infatti prendendo piede sottraendo terreno a foreste dal valore inestimabile, comprese antiche foreste pluviali caratterizzate dalla presenza di ecosistemi irripetibili al mondo. La preparazione del terreno per la coltivazione delle palme da olio richiederebbe interventi drastici che comprenderebbero incendi in grado di distruggere centinaia di ettari di foreste ogni anno in nome di necessità industriali sempre più incalzanti, contribuendo alla scomparsa di sempre più numerose specie vegetali ed animali, che si trovano improvvisamente deprivate del proprio habitat naturale. La deforestazione interessa zone del mondo come la Costa d'Avorio, l'Uganda e l'Indonesia – e non solo – le cui foreste incontaminate vedono via via erosi i propri confini a causa della domanda crescente di un olio di cui il mondo potrebbe benissimo fare a meno, a favore di prodotti decisamente più salutari e sostenibili e di un'industria alimentare in grado di fornire prodotti di qualità che non si basino dunque su ingredienti pressoché scadenti dal punto di vista nutrizionale. La devastazione delle foreste pluviali provoca inoltre un grave danno alle popolazioni indigene che tuttora le abitano (contribuendo alla loro difesa e protezione), alle quali territori che esse occupano da secoli verrebbero sottratti senza remore. Alla distruzione delle foreste indonesiane è stato dedicato un film documentario "Green the Film", della durata di quarantacinque minuti, e purtroppo privo di lieto fine, una conclusione alla quale sembrerebbe impossibile riuscire a porre rimedio, se agli interessi delle industrie che impiegano olio di palma non viene sostituita una sincera preoccupazione per le sorti del Pianeta. Di struggere le foreste pluviali significa dire addio a dei veri e propri paradisi di biodiversità e a dei polmoni verdi che da millenni sono correlate alla produzione dell'ossigeno necessario alla sopravvivenza di ogni forma di vita, compresa la nostra. È probabilmente alla luce di tali considerazioni che anche nel nostro Paese è stato dato il via d una campagna per dire "Stop all'olio di palma nel nostro cibo!", alla quale è possibile prendere parte consultando questo link in cui firmare la petizione. Marta Albè

OLIO DI PALMA: ECCO COME LA LOBBY DELLE AZIENDE ALIMENTARI TENTA DI CONFONDERE I CONSUMATORI. Scrive "Green Me" il 19 maggio 2015, modificato il 22 febbraio 2017. Perché l'olio di palma è dannoso per la salute e per l'ambiente? Ce lo eravamo chiesti già tre anni fa e vi avevamo dato alcune risposte. Negli ultimi tempi l'attenzione verso l'olio di palma, complice anche l'obbligo della nuova etichettatura, è cresciuta e questo ingrediente è sempre più oggetto di studio da parte della scienza e di dibattito sui media, tra le associazioni ambientaliste e tra i cittadini. Ora che i consumatori sono al corrente delle conseguenze negative dell'abuso di olio di palma nell'alimentazione e della coltivazione intensiva di palme da olio, le aziende alimentari iniziano a tremare, con particolare riferimento alle aziende di prodotti dolciari e in generale di prodotti da forno. La loro molla di autodifesa era già scattata alcuni mesi fa, quando a dicembre 2014 sono state costrette ad indicare chiaramente la presenza di olio di palma in etichetta per via della nuova normativa europea in proposito. Negli ultimi giorni la difesa dell'olio di palma da parte delle aziende alimentari si è concretizzata in un documento che ha raggiunto le redazioni dei giornali e dei media. Il documento porta semplicemente il titolo di "Olio di palma" ed è stato redatto dall'Aidepi, l'Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane. Dato che l'olio di palma, come possiamo verificare leggendo le etichette alimentari al supermercato, è onnipresente sia nei prodotti dolciari che nella pasta fresca di produzione industriale (compresi ravioli e sfoglie), le aziende che hanno realizzato il documento hanno tutti gli interessi per difendere l'olio di palma, dato che per il loro lavoro rappresenta un ingrediente versatile e a basso costo. Ora le aziende alimentari italiane difendono l'olio di palma e lo proclamano come un ingrediente salutare e sostenibile. Allora perché ci hanno tenuto nascosta la sua presenza nei prodotti alimentari per anni? Ecco i nostri commenti rispetto ad alcune affermazioni presenti nel documento dell'Aidepi sull'olio di palma. In Italia consumiamo poco olio di palma? Secondo l'Aidepi, il consumo di olio di palma in Italia è basso. Ciò ci sembra davvero impossibile dato che chi è abituato a mangiare qualche biscotto o una brioche acquistata al supermercato per colazione sta iniziando la propria giornata ingerendo dell'olio di palma, che è presente nella stragrande maggioranza di questo tipo di prodotti comunemente in vendita. Una fetta di pane con crema spalmabile al cioccolato a metà mattina, dei grissini o dei crackers a metà pomeriggio, un dolce confezionato dopo pranzo, un piatto pronto per cena: ed ecco che il consumo di olio di palma sale vertiginosamente senza che noi ce ne accorgiamo. Certo, l'alternativa, sarebbe quella di scegliere sempre prodotti freschi e privi di olio di palma e di preparare in casa i prodotti da forno. Ma quante persone hanno davvero il tempo e la voglia di farlo rispetto a tutta la popolazione italiana? Ecco che, molto facilmente, il consumo di olio di palma va a superare quei 2,8 grammi di acidi grassi saturi assunti al giorno da ogni italiano secondo l'Aidipi. Per L'olio di palma è ricco di grassi saturi di per sé e chi consuma anche prodotti come carne, formaggi, latte e uova va ad aumentarne l'apporto giornaliero.

L'olio di palma è naturale e salutare? L'olio di palma fa bene alla salute? Abbiamo forti dubbi sulla salubrità dell'olio di palma utilizzato a livello industriale da parte delle aziende alimentari. Le aziende lo scelgono perché si tratta di un olio a basso costo, senza tenere conto delle conseguenze per la salute dei consumatori. L'olio di palma fa comodo alle aziende perché si conserva a lungo, dato che è resistente all'ossidazione. Ma dal punto di vista alimentare viene classificato tra gli acidi grassi saturi (insieme alle margarine e ai grassi animali). Gli acidi grassi saturi dal punto di vista alimentare e dei rischi per la salute vengono definiti come ipercolesteromizzanti (cioè in grado di aumentare il colesterolo) e aterogeni (cioè in grado di favorire la comparsa dell'aterosclerosi). In una dieta come quella italiana l'olio di palma non fa altro che aggiungersi alle fonti di grassi saturi già presenti nella dieta della maggioranza dei cittadini, con particolare riferimento a prodotti di origine animale come carne e formaggi. Gli oli monoinsaturi e polinsaturi hanno invece un'azione antiossidante. Aidepi parla dell'olio di palma come di un prodotto naturale. L'olio di palma vergine può rappresentare un olio naturale, ma quali raffinazioni e lavorazioni subisce l'olio di palma normalmente utilizzato dall'industria alimentare? Ecco dunque, da parte di alcuni cittadini, la proposta di sostituire l'olio di palma con olio extravergine e olio di girasole, per limitarne l'invasione. Alcune aziende alimentari italiane (come Alce Nero) lo stanno già facendo. Sostituire l'olio di palma con il burro, però, non risolverebbe né il problema dei grassi saturi né le questioni ambientali (gran parte dei mangimi destinati agli animali da allevamento sono composti da soia coltivata in modo intensivo e insostenibile). Inoltre il consumo di olio di palma potrebbe avere una correlazione con il sopraggiungere del diabete. Lo ha evidenziato uno studio recente secondo cui troppi grassi nocivi, tra cui troviamo l'olio di palma, possono danneggiare le cellule del pancreas che producono l'insulina e portare alla comparsa del diabete. Secondo i ricercatori, una dieta troppo ricca di grassi saturi potrebbe essere tra le cause del diabete. Di recente il CSS del Belgio ha raccomandato di ridurre drasticamente il consumo di olio di palma proprio per questioni di salute, sottolineando che il suo elevato contenuto di acidi grassi saturi è in grado di provocare la formazione di pericolose placche sulle pareti delle arterie. A differenza di altri oli, l'olio di palma non contiene soltanto i comuni grassi saturi, ma quantità elevate di grassi di tipo AGS-ath (C12, C14 e C16) che sono considerati dei veri e propri nemici per le arterie.

L'olio di palma è sostenibile? Il documento dell'Aidepi fa riferimento all'RSPO come alla certificazione per l'olio di palma sostenibile a cui alcune aziende alimentari italiane fanno riferimento. La certificazione RSPO riguarda comunque solo una piccola parte dell'olio di palma prodotto nel mondo. Al di là di ciò, ormai sappiamo bene che l'olio di palma certificato da RSPO non è del tutto sostenibile, dato che questa certificazione non tiene conto a sufficienza del problema della deforestazione per la coltivazione di nuove palme da olio. La deforestazione distrugge foreste primarie, soprattutto in Indonesia, che non potranno mai più rigenerarsi. Provoca dunque perdite dal valore inestimabile per l'ambiente, minaccia le popolazioni locali con il land grabbing e provoca la scomparsa degli habitat naturali di oranghi, elefanti ed altri animali in pericolo e già a rischio di estinzione. Negli ultimi anni a Sumatra decine di cuccioli di elefante sono stati uccisi a causa dell'olio di palma e la produzione di olio di palma sta minacciando sempre più gli oranghi del Borneo. Gli incendi delle foreste per fare spazio alle palme da olio provocano un forte inquinamento in Indonesia, Malesia e a Singapore. Scopri qui le principali aziende responsabili di deforestazione.

Cosa possiamo fare noi consumatori? Non c'è davvero motivo, dunque, per continuare a difendere l'olio di palma. Sostituirlo completamente in tutta l'industria alimentare mondiale è probabilmente impossibile, ma pare che la scienza stia già elaborando un'alternativa ecologica a questo discusso ingrediente. E probabilmente è comunque possibile fermare almeno la vera e propria invasione di olio di palma che sta interessando l'Italia e l'Europa. Ognuno farà le proprie scelte, ma chi desidera eliminare l'olio di palma dalla propria dieta dovrà semplicemente leggere bene le etichette per evitare di acquistare i prodotti alimentari che lo contengono. In definitiva, dire addio all'olio di palma significa rinunciare ad una dieta basata prevalentemente su prodotti confezionati e di produzione industriale, un grande vantaggio per la salute dei consumatori e una scelta che non può che spaventare le aziende.

OLIO DI PALMA: FA MALE DAVVERO? Scrive su "Green Me" il 17 febbraio 2016 Francesca Biagioli, modificato il 10 Marzo 2017 Olio di palma, fa male davvero? Al di là dei seri problemi ambientali che la sua produzione comporta, possiamo ritenerlo un pericolo per la nostra salute? L’olio di palma è un grasso di origine vegetale che per le sue caratteristiche può essere paragonato al burro ed è per questo che viene utilizzato nella maggior parte dei prodotti da forno e, ahimè, anche negli alimenti per l’infanzia e nel latte formulato per i neonati. Ma perché tanto successo? Proprio grazie alla sua composizione e al fatto che si tratta di un olio insapore, che non irrancidisce facilmente, resiste bene alle temperature e ha un costo basso, i produttori l’hanno ormai inserito praticamente ovunque. Le caratteristiche che rendono questo olio tanto appetibile alle grandi industrie sono:

• basso costo

• grande resistenza alle temperature

• irrancidisce difficilmente (e quindi può tranquillamente essere utilizzato in prodotti che durano a lungo)

• È insapore

Chi è attento alla propria salute punta il dito contro l’olio di palma soprattutto perché si tratta di un prodotto ricco di grassi saturi (45-50%) ma in realtà pochi sanno che, rispetto ad esempio al burro, alla margarina e allo strutto ne ha di meno. Con questo non stiamo ovviamente giustificando il suo consumo, ma è bene mettere sul piatto della bilancia le cose come stanno: l’olio di palma è composto da grassi saturi e come tale va considerato, sicuramente c’è di meglio ma anche di peggio. Si può quindi scegliere di evitarlo o di limitarne molto il consumo salvo poi non cadere nell’errore di eccedere in altri prodotti altrettanto dannosi se consumati ogni giorno o in quantità considerevoli. In proposito, il dottor Alessandro Targhetta, medico chirurgo, specialista in Geriatria e Gerontologia ed esperto in Omeopatia e Fitoterapia, ci consiglia di non superare un totale del 10% di assunzione giornaliera di grassi saturi (quindi burro, strutto, alimenti di origine animali e, ovviamente, olio di palma) che è poi la stessa raccomandazione che fornisce l'Istituto Superiore di Sanità (ISS) all'interno del suo dossier sull'olio di palma in cui si esprime il parere ufficiale del ministero della Salute riguardo al tanto discusso grasso di origine vegetale. Scegliamo allora il più possibile prodotti a base di olio extravergine di oliva, anche se negli scaffali dei nostri supermercati sono da cercare col lanternino (come alternativa, quando si ha un po' di tempo a disposizione, c'è sempre l'autoproduzione di pane, biscotti, snack, ecc. con ingredienti più sani e genuini).  Ricapitolando l'olio di palma:

• È ricco in grassi saturi

• Non è peggiore di altri grassi come burro, strutto e margarina

• Insieme agli altri grassi saturi non dovrebbe superare un totale del 10% di assunzione giornaliera 

Esistono ormai diverse alternative di prodotti da forno in cui l'olio di palma è stato sostituito da olio di girasole, altri grassi o nella migliore delle ipotesi da olio extra vergine d'oliva. Tutta la linea Coop ad esempio è ormai olio di palma free, ovvero nessun prodotto a marchio Coop può contenere più questo grasso vegetale.

Ma quali sono i rischi di un consumo eccessivo di olio di palma e altri grassi saturi? Il problema non sta tanto in un consumo sporadico quanto piuttosto nel fatto che ovunque ci giriamo troviamo prodotti realizzati con olio di palma e dunque potenzialmente ne possiamo abusare senza neppure rendercene conto (importante in questo senso leggere sempre le etichette). Ormai le evidenze scientifiche concordano nel ritenere i grassi saturi responsabili della formazione di placche arteriosclerotiche e di una iper-produzione di colesterolo. Dunque il principale effetto che ha il consumo di olio di palma nel nostro corpo sta nell’aumentare (soprattutto in alcuni soggetti già predisposti) il rischio di malattie cardiovascolari. Riassumendo, l'olio di palma, se consumato in eccesso, espone a:

• formazione di placche arteriosclerotiche

• iper-produzione di colesterolo

• aumenta il rischio di malattie cardiovascolari

• rischio obesità

• alterazione dei meccanismi di sazietà

Come per tutti gli oli esistono prodotti più o meno raffinati e salutari, non è esente da questo discorso neppure l’olio di palma. Ne esistono infatti sostanzialmente 3 tipologie: quello rosso vergine, quello più tendente al giallo (raffinato) e infine l’olio di palmisto ovvero quello estratto dai semi della palma. Tra questi 3 prodotti c’è una bella differenza. Alcuni studi che hanno esaminato l’olio di palma grezzo rosso ne hanno individuato addirittura delle proprietà benefiche ma il comune olio di palma che si trova in biscotti e merendine non è certo questo ma piuttosto l’olio raffinato se non, peggio ancora, il palmisto. Quest’ultimo in particolare è da evitare perché è ancora più ricco di grassi saturi (85%) pericolosi per la salute del nostro sistema cardiovascolare. Quindi la prima cosa da sapere è certamente che, quando si parla di olio di palma, si può far riferimento a:

• Olio di palma grezzo rosso (puro e ricco di proprietà)

• Olio di palma raffinato (raffinato e con il 50% di grassi saturi)

• Palmisto (85% di grassi saturi)

Per evitare di acquistare prodotti con olio di palma o palmisto è bene imparare a dare sempre un’occhiata alle etichette di tutti i prodotti che acquistiamo e lasciarli sugli scaffali ogni volta che troviamo inserito qualche ingrediente che non ci convince oppure se la lista è troppo lunga. Noto il suggerimento a proposito del professor Franco Berrino, oncologo: "Quando andate al supermercato andateci sempre accompagnati dalla vostra bisnonna (immaginatevela se non l'avete più) e tutto quello che la vostra bisnonna non riconosce come cibo... non compratelo. Leggendo l'etichetta se ci sono sostanze che lei non capisce... non compratelo. Se ci sono più di 5 ingredienti... non compratelo. Se c'è scritto che fa bene alla salute... non compratelo". Come possiamo difenderci quindi? Il dottor Raniero Facchini, specialista in chirurgia dell’apparato digerente, sottolinea l’importanza di leggere bene le etichette per capire di fronte a quale grasso ci stiamo trovando: “in teoria sulle etichette alimentari non dovremmo più trovare la scritta “olio vegetale” ma in realtà non tutti i produttori si sono ancora adeguati alle nuove diciture. Se trovo questa scritta devo stare sicuramente attento perché il produttore probabilmente ha qualcosa da nascondere. Posso però anche trovare la scritta “grasso di palma” e comunque mi viene il dubbio che si tratti di olio di palmisto, o proprio apertamente olio di palmisto in qual caso il prodotto è da evitare assolutamente". Consigli che tutti noi dovremmo ricordaci ogni volta che facciamo la spesa!

FACILE DIRE OLIO DI PALMA: CONOSCIAMOLO MEGLIO PER DIFENDERCI DAVVERO. Scrive "Green Me" il 19 Ottobre 2015, modificato il 19 Ottobre 2015. A noi l’olio di palma non piace, lo ribadiamo, in particolare per gli effetti devastanti che la sua produzione ha sull’ambiente. Quello che si propone questo articolo, però, è capire se il grasso vegetale di palma è davvero il “male assoluto” per la nostra salute, il peggiore che possiamo trovare negli alimenti che comunemente portiamo in tavola. Ipotizziamo ad esempio che tutti i produttori decidano di non utilizzare più olio di palma nei loro cibi sostituendolo con altri grassi. Davvero la nostra salute sarebbe al sicuro? Per capire meglio come stanno le cose, quali sono i rischi del consumo di olio di palma sulla salute e se davvero si tratta del grasso più pericoloso in commercio abbiamo deciso di chiedere il parere di alcuni medici e nutrizionisti. Ma partiamo dall’inizio e cerchiamo di capire meglio che tipo di grasso è l’olio di palma. Ecco cosa ci ha detto in proposito il dottor Alessandro Targhetta, medico chirurgo, specialista in Geriatria e Gerontologia ed esperto in Omeopatia e Fitoterapia: “L’olio di palma, pur essendo di origine vegetale, rappresenta un’eccezione. Ha una composizione in acidi grassi più simile al burro e così si presta bene, per le sue proprietà chimiche, a sostituirlo nelle preparazioni industriali: è solido, insapore, non irrancidisce e resiste bene alla temperatura, cosa che non fanno gli altri oli di origine vegetale (oliva, girasole, ecc.), che con la cottura danno luogo a perossidi tossici. Il suo ingresso massiccio tra i nostri cibi è avvenuto in seguito all’inasprimento delle normative dell’Organizzazione mondiale della sanità sui grassi idrogenati, come le margarine, una trasformazione solida degli oli vegetali, ricca di acidi grassi trans, polisaturi, molto dannosi per la nostra salute”.

La domanda che ci facciamo tutti è fa davvero male? Continua Targhetta: “È vero che è ricco di grassi saturi (45-50%), ma rispetto al burro, allo strutto e alla stessa margarina, ne ha di meno. Ha sicuramente meno grassi polinsaturi rispetto all’olio di oliva e a quello di girasole e quindi è più aterogeno. Fa male? Dipende da quanto ne consumiamo. Trattandosi di un grasso saturo, va considerato esattamente come tutti gli altri grassi saturi (burro, strutto, ecc). Quindi è bene limitarne il consumo. Quello che però è sbagliato è sostenere che altri grassi, come il burro, la margarina o altri oli vegetali, specie se cotti, non facciano male, mentre l’olio di palma sì.

Quale sarebbe quindi una soglia accettabile di consumo per non incorrere in problemi di salute? “Quella del 10% massimo sul totale delle calorie giornaliere. Una quota che comprende però tutti i grassi saturi, sia quelli di origine vegetale che animale, non solo quelli dell’olio di palma”. Si parla tanto in tutto il mondo di olio di palma, ma cosa hanno provato gli studi rispetto a questo grasso vegetale? Ha fatto una bella ricerca per noi Roberta Martinoli, biologa nutrizionista e medico chirurgo, che si è servita di Pub-Med, la più ampia banca dati scientifica esistente. Cliccando la parola “palm oil” sono usciti ben 2003 lavori scientifici, di cui 152 solo nell’ultimo anno. Ciò ovviamente sta a significare il grande interesse (e gli interessi) che ci sono in merito alla produzione e l’utilizzo di questo olio. Ebbene non tutti gli studi sono a sfavore, la dottoressa Martinoli ne ha trovati ben 19 in cui si documentano gli effetti benefici sulla salute legati in particolare alla presenza di tocotrienoli che sarebbero in grado di sopprimere la proliferazione di cellule neoplastiche. Inoltre nello studio dal titolo “Palm oil and the heart: a review” (World J Cardiol. 2015 Mar 26;7(3):144-9)) gli autori giungono addirittura alla conclusione che l’olio di palma sarebbe in grado di proteggere dalla formazione delle placche aterosclerotiche grazie al potere antiossidante dovuto alla presenza di vitamina A e vitamina C.

La dottoressa sottolinea però una cosa fondamentale: “Sappiamo che non tutti gli oli sono uguali. C’è una differenza abissale tra olio extravergine di oliva e olio di oliva. Ma anche di olio di palma non ce n’è uno solo: quello rosso è considerato più sano rispetto all’olio di palma raffinato (che appare incolore dal momento che la bollitura in pochi minuti distrugge i carotenoidi) per via delle molte sostanze antiossidanti che contiene. Così se i lavori che documentano l’effetto benefico sulla salute vengono fatti usando olio di palma ottenuto dalla prima spremitura dei frutti e poi nei nostri biscotti ci finisce l’olio di palma raffinato non è proprio la stessa cosa”. E ovviamente questo è proprio quello che succede. Sapete che l’olio di palma si trova nel 93% dei prodotti confezionati compreso il latte destinato ai neonati? Si parla ovviamente di olio raffinato, che come ci spiega il dottor Raniero Facchini, specialista in chirurgia dell’apparato digerente, è molto caro alle aziende perché: “costa poco ma anche perché è un olio molto stabile, irrancidisce difficilmente e permette quindi ai prodotti di poter rimanere sullo scaffale più a lungo”. Attenzione però esistono, proprio come avviene per l’olio extravergine di oliva, delle sotto categorie che nel caso dell’olio di palma sono l’olio integrale (quello rosso), l’olio raffinato e il palmisto. Fa chiarezza in merito il dottor Facchini: “Per capire la differenza tra questi oli è utile fare un parallelismo con l’olio extravergine d’oliva che come sotto categorie ha l’olio di oliva (raffinato) e l’olio di sansa (ottenuto da bucce, scarti di polpa e noccioli). Per l’olio di palma si parla di olio grezzo, vergine (quello rosso), olio raffinato (il comune olio di palma) e il palmisto ottenuto dai semi. C’è una bella differenza tra questi oli, è il palmisto in particolare quello su cui ci soffermiamo in quanto assolutamente da evitare poiché è composto da un 85% di grassi saturi che difficilmente il nostro organismo riesce a metabolizzare e che possono portare a sviluppare problemi cardiovascolari”. Come possiamo difenderci allora? Il dottor Facchini sottolinea l’importanza di leggere bene le etichette per capire di fronte a quale grasso ci stiamo trovando: “in teoria sulle etichette alimentari non dovremmo più trovare la scritta “olio vegetale” ma in realtà non tutti i produttori si sono ancora adeguati alle nuove diciture. Se trovo questa scritta devo stare sicuramente attento perché il produttore probabilmente ha qualcosa da nascondere. Posso però anche trovare la scritta “grasso di palma” e comunque mi viene il dubbio che si tratti di olio di palmisto, o proprio apertamente olio di palmisto in qual caso il prodotto è da evitare assolutamente". La questione, come avrete capito, è piuttosto ingarbugliata e non si esaurisce certo qui. Qual è dunque la soluzione a tutto questo? Per il bene del pianeta e il nostro, lasciare il più possibile i prodotti confezionati sugli scaffali e preparare pane, dolci, ecc. in casa, utilizzando il nostro tanto caro e benefico olio extra vergine di oliva.

Olio di palma, sbatti il mostro sul web. La battaglia di un militante. La campagna di un giornale online. La petizione su Change.org. Così l’Italia diventa il primo Paese "palma free" al mondo. E la scienza? Scrive Antonino Michienzi su "Pagina 99" il 19 novembre 2016. Un orango morto nel rogo di una foresta del Kutai National Park, nell’area indonesiana del Borneo. I denti serrati in una smorfia di dolore; mani e piedi contratti; la pelle lacerata dal fuoco. È adagiato su una fetta di pane, cosparsa di un qualcosa che sembra una crema di nocciola. È questa l’immagine che accompagna l’ultima petizione contro l’olio di palma che in questi giorni sta spopolando in Italia. A lanciarla su Change.org il deputato del Movimento 5 Stelle Mirko Busto. Il destinatario è Ferrero (#FerreroRipensaci è il claim della campagna). La multinazionale è infatti l’ultima azienda rimasta in Italia a difendere chiaramente l’utilizzo dell’olio di palma nei propri prodotti. Le altre hanno alzato bandiera bianca. Perfino il colosso Barilla, che ormai annovera quasi un centinaio di prodotti palma free. Paolo, il vicepresidente del gruppo, lo aveva preannunciato un anno fa: «Probabilmente ci sarà una reazione dell’industria che per il populismo italiano leverà l’olio di palma (dai prodotti, ndr) facendo, in maniera consapevole, la cosa sbagliata per rispondere a un’isteria del Paese». Il colosso della pasta e dei dolci è solo una delle aziende ad aver invertito la rotta e aver puntato sul palma free. I primi sono stati i grandi marchi della distribuzione come Coop e Esselunga. Poi sono arrivati gli altri, trasformando quella che era cominciata come una lotta tra aziende e oppositori all’utilizzo dell’olio tropicale in una guerra interna all’industria alimentare a chi per primo potesse fregiarsi dell’insegna “senza olio di palma”. Ma come si è arrivati a tanto? Come è possibile che un alimento contenuto fino a poco più di un anno fa nella stragrande maggioranza dei prodotti da forno (ma non solo) sia ormai divenuto una mosca bianca e che l’Italia si avvii a essere il primo Paese palma free al mondo?

Dove nasce la rivolta. Per capirlo è inutile rovistare negli armadi dei produttori di grassi concorrenti cercando complotti e accordi segreti; inutile sbirciare le strategie di marketing delle piccole aziende di prodotti di qualità made in Italy e anche cercare lo zampino dello straniero. Il seme dell’opposizione all’olio di palma è nato altrove. Dove meno te lo aspetti: negli uffici di Federalimentare (Federazione italiana dell’industria alimentare), una delle 24 federazioni di Confindustria, che raggruppa le aziende produttrici di alimenti e bevande. È qui che fino all’estate del 2012 rivestiva il ruolo di responsabile legislativo giuridico nazionale e comunitario un giovane avvocato. Non è esattamente il tipo che ti aspetti di trovare in un ufficio di Confindustria. Comunista dichiarato («di quelli che ormai non è facile incontrare», dice), attivista per i diritti umani, convinto che il cibo, insieme all’acqua, sia il primo diritto fondamentale degli esseri umani. Ottimista per natura, anche quando la realtà invita al pessimismo. «Credo nella possibilità che tutto possa migliorare», afferma. «Da un anno e mezzo sono su una sedia a rotelle. Nessuno crede che mi potrò alzare. Ma io ci credo». Si chiama Dario Dongo e all’epoca è sulla cresta dell’onda. Gira l’Italia e l’Europa come esperto di diritto alimentare; fa la spola tra Roma e le sedi delle autorità europee a Bruxelles e Strasburgo. Frequenta rappresentanti delle istituzioni. Allo stesso tempo, però, non rinuncia al suo attivismo. Nel 2011, in collaborazione con la testata web Il Fatto Alimentare, scrive un libro dedicato alle etichette alimentari attraverso cui sostiene le attività di tre onlus impegnate per il sostegno dei bambini in Somalia. Soprattutto si appassiona al fenomeno del land grabbing, l’accaparramento di terra messo in atto da multinazionali nei Paesi in via di sviluppo. Un fenomeno non sempre negativo, ma che in molti casi ha avuto effetti devastanti. Ecco come lo descrive la Banca Mondiale: «In pratica, i diritti consuetudinari spesso non sono riconosciuti», così terre coltivate da decenni in virtù di questo diritto «vengono spesso considerate di proprietà del governo, che può essere incline a cederle senza compensare gli utenti». I contadini si ritrovano così senza terra, senza mezzi di sostentamento, senza casa (vedi la scheda qui sotto). È studiando il fenomeno che Dongo incontra la palma da olio, una delle colture di maggior successo degli ultimi anni la cui coltivazione in alcuni Paesi è la principale causa di land grabbing. L’avvocato rafforza la sua attività pubblicistica sul tema, sfrutta le sue frequentazioni per sollevare il problema nelle stanze di Bruxelles. Le sue attività cominciano però a far troppo rumore. Nell’estate del 2012 esce da Federalimentari, alla cui guida nel frattempo è arrivato Filippo Ferrua Magliani, all’epoca consigliere delegato di Ferrero spa. Dongo, forte di rapporti consolidati, dà vita a una società di consulenza per le aziende alimentari e a un portale dedicato al cibo italiano. E continua la sua attività di attivista-giornalista. Finché nel 2014 decide che è il momento di agire e di lanciare una campagna per opporsi alla produzione di olio di palma. Propone a diversi interlocutori l’idea, ma nessuno è disposto a seguirlo. Troppo lontano il fenomeno per far presa. E per raccontare l’episodio cita Gramsci che nel 1916 su Il Grido del Popolo così parlava del genocidio degli armeni: «Avviene sempre così. Perché un fatto ci interessi, ci commuova, diventi una parte della nostra vita interiore, è necessario che esso avvenga vicino a noi, presso genti di cui abbiamo sentito parlare e che sono perciò entro il cerchio della nostra umanità». Non è il caso delle coltivazioni intensive della palma da olio. Che sono dall’altra parte del mondo.

Il Fatto Alimentare. Qualcuno che lo segue, però, l’avvocato riesce a trovarlo. È Roberto La Pira. Con lui Dongo aveva dato vita due anni prima a una testata on line, Il Fatto Alimentare. Si occupa di alimentazione a 360 gradi con l’occhio sempre rivolto al consumatore finale. La Pira è tecnologo alimentare e giornalista; ha passato gli ultimi vent’anni dividendosi tra l’impegno a difesa dei consumatori e l’attività giornalistica nelle più importanti testate italiane. Oggi è uno di quegli ibridi partoriti dalla crisi dell’editoria italiana. Metà editore, metà giornalista/direttore. Uno dei molti perennemente in bilico tra la necessità (in quanto editore) di non fare torti a chi sostiene la sua impresa e l’obbligo (del giornalista) di essere critico verso chiunque. Strutturalmente in potenziale conflitto di interessi. Lui, però, pare non essere molto preoccupato dai vincoli di editore. Il sito vive sì di inserzioni pubblicitarie, ma fin da principio l’editore/direttore ha messo dei paletti etici: no a «marchi di acqua minerale, di merendine o snack, di bibite zuccherate, di prodotti dimagranti e di regimi dietetici»; e nemmeno a «publiredazionali o articoli guidati». Non solo: non pare preoccuparsi di andare contro i suoi sponsor. Come quella volta che si giocò le inserzioni di Esselunga – il primo sponsor della testata – per aver mancato di rispetto al patron Bernardo Caprotti ponendogli domande poco politicamente corrette nel corso di una conferenza stampa. Chi ha collaborato con lui, lo descrive come un tipo con cui a volte non è semplice lavorare. Uno che crede nell’indipendenza del giornalismo, ma che quando si impunta difficilmente cambia idea. Fatto sta che La Pira in sei anni è riuscito a dar vita alla più seguita testata indipendente in tema di alimentazione in Italia. Le aziende lo guardano. E non lo ignorano: per esempio, rispondendo alle critiche mosse dalla testata, un paio di anni fa Guido Martinetti, patron della catena di gelati Grom, ammise l’errore nei cartelloni che riportavano l’assenza di additivi nei prodotti dell’azienda e li modificò. Né è l’unico caso. Un piccolo successo editoriale, insomma. Nel 2014 La Pira è già al lavoro sull’olio di palma. L’occasione è l’imminente entrata in vigore (a dicembre) della nuova normativa europea sulle etichette alimentari (il regolamento 1169/11) che obbliga i produttori a sostituire il più generico “grassi vegetali aggiunti” con l’indicazione precisa della tipologia di grasso. Una prima inchiesta del giugno del 2014 mostra che l’olio di palma è presente in una quarantina di prodotti, ma solo tre mesi dopo – quando la sostituzione delle etichette è ormai quasi completamente avvenuta – si scopre che la sostanza è presente nella quasi totalità dei prodotti da forno. Il Fatto Alimentare comincia a indagare in maniera sistematica sull’alimento: illustra le caratteristiche del prodotto, spiega perché le aziende abbiano cominciato a usarlo in maniera massiccia, comincia a metterlo in relazione con fenomeni di deforestazione e riduzione della biodiversità. Sono contenuti pacati e documentati. Non è la prima volta che l’olio di palma finisce sotto i riflettori in Italia: già in passato diversi nutrizionisti e giornalisti avevano parlato di una sua possibile pericolosità per la salute; nel 2010, poi, Greenpeace aveva lanciato una campagna contro Nestlè per sensibilizzare sul tema della distruzione delle foreste come conseguenza delle coltivazioni intensive di palma da olio (vedi la scheda in questa pagina): un consumatore estraeva dalla confezione del noto snack Kit Kat non le barrette di wafer e cioccolato, ma brandelli sanguinanti di un orango. Non spetta all’Italia la primogenitura del dibattito. In Francia (quinto produttore mondiale di olio di colza) nel 2011 si comincia a parlare dell’olio di palma come potenzialmente nocivo per la salute a causa del suo elevato contenuto di grassi saturi. A fine 2012 il Senato francese approva in prima lettura una legge (ribattezzata “tassa Nutella”) che avrebbe quadruplicato la tassazione dell’olio di palma importato a scopo alimentare. Alla fine non se ne fece nulla, ma il legame sospetto tra olio di palma e salute rimarrà. È a quel tempo che anche le aziende italiane cominciano a preoccuparsi. Nel 2011 Aidepi, l’Associazione delle Industrie del Dolce e della Pasta Italiane, commissiona uno studio per capire l’impatto dell’olio di palma sulla salute. L’associazione chiede di svolgere il lavoro all’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri di Milano, un centro che in cinquant’anni di attività ha fatto dell’indipendenza il suo marchio distintivo. «Se avessero voluto influenzare i risultati non avrebbero chiesto a noi», ci dice Elena Fattore, la prima firmataria dello studio. E non aveva senso influenzare i risultati: lo studio era funzionale alle aziende per comprendere realmente la natura del prodotto e magari mettere in atto contromisure. «Ho il sospetto che temessero che ci fosse veramente qualcosa che non andava nell’olio di palma», ci dice una fonte. Dallo studio non esce fuori nulla che accusi la sostanza. Ma nemmeno che la assolva definitivamente. La ricerca, però, non è inattaccabile ed è la stessa ricercatrice a dirlo: «Si trattava di una revisione narrativa, una metodologia più sensibile di altre alla soggettività del ricercatore», dice Fattore. Tanto che non passa molto che arriva la richiesta di un nuova ricerca con indicazioni precise anche sulla metodologia: una metanalisi che «è una procedura rigida, trasparente e riproducibile», spiega Fattore. Si tratta di raccogliere tutti gli studi condotti su un dato argomento, sceglierli sulla base di un protocollo stabilito a priori (per esempio per escludere quelli di bassa qualità) e analizzarne i risultati nel loro complesso in modo da tirar fuori una sintesi definitiva degli studi fatti sul tema.

Una ricerca della Bocconi. La commessa questa volta arriva dall’Università Bocconi a cui una società del gruppo Ferrero (Soremartec) aveva chiesto un’analisi più ampia del fenomeno olio di palma (il titolo della ricerca sarà Olio di palma: economia e salute). La ricerca sarà pubblicata nell’aprile del 2014 dall’American Journal of Clinical Nutrition. «Abbiamo confrontato l’olio di palma con altre tipologie di grassi: quelli ricchi di grassi polinsaturi (linoleico), ricchi di monoinsaturi (oliva), ricchi di acidi grassi saturi diversi dall’acido palmitico e ricchi di grassi trans. La nostra attenzione era focalizzata sull’aumento del rischio cardiovascolare», illustra la ricercatrice. Ebbene, se si escludono i grassi trans rispetto a cui l’olio di palma è risultato più salutare, i risultati sono stati tutt’altro che semplici da interpretare. Se era vero infatti che rispetto ai grassi ritenuti più salutari l’olio di palma faceva aumentare il colesterolo totale e la frazione Ldl (la componente “cattiva”) era altrettanto vero che faceva crescere anche la porzione “buona” di colesterolo (l’Hdl) che sembra invece svolgere un’azione protettiva. «Abbiamo concluso che non si potesse dire che l’olio di palma aumentava il rischio di malattie cardiovascolari», conclude Fattore. Non è un alimento salutare, dunque, in quanto grasso. Ma dire che sia peggiore di altri grassi è al momento una semplificazione. Passerà qualche mese prima che lo studio venga ripreso in Italia. Soltanto pochi mesi in cui però il clima intorno all’olio di palma cambierà drasticamente.

La campagna continua. Già da giugno 2014 Il Fatto Alimentare aveva avviato il proprio impegno informativo sull’olio di palma, ma è dall’autunno che questo si trasforma in una vera e propria campagna in cui lentamente si sposterà anche la messa a fuoco: i diritti delle popolazioni locali e i danni all’ambiente finiranno in secondo piano e sarà il rischio per la salute a conquistare la scena. Il sillogismo che giustifica questo passaggio è semplice ed è di facile comprensione: l’olio di palma è ubiquo e contiene molti grassi saturi, i grassi saturi fanno male e il loro consumo andrebbe limitato. Perciò l’olio di palma fa male e il suo consumo andrebbe ridotto se non eliminato. Un sillogismo di facile presa, ma con innumerevoli limiti (vedi l’articolo a pagina 7). Novembre è il mese decisivo: Il Fatto Alimentare e Great Italian Food Trade (Gift), una delle creature di Dario Dongo, lanciano una petizione su Change.org attraverso cui si chiede lo stop all’invasione dell’olio di palma. È un successo senza precedenti. Quarantamila sottoscrizioni in sei giorni; oltre 175 mila nei mesi successivi. Solo due petizioni hanno fatto meglio nella storia di Change.org in Italia: quella finalizzata all’abolizione del vitalizio per gli ex parlamentari condannati per mafia o corruzione (523 mila) e quella sulla migliore definizione del reato di voto di scambio (350 mila).

La svolta di Esselunga. Il primo a rispondere all’appello è Bernardo Caprotti, patron di Esselunga: «Ci ha scritto subito, a gennaio, dicendo che stavano pensando di cambiare», racconta La Pira. «Era un grande imprenditore: aveva capito dove si stava andando». Caprotti non sbagliava. Il vento era già cambiato: Il Fatto Alimentare ha cominciato a raccogliere indizi di colpevolezza dell’olio di palma dando il via a una battaglia che ancora non è cessata con buona parte della comunità scientifica. Il potere della Rete, il clima anti-enstablishment e a volte anti-industriale del nostro Paese, il mito dell’alimentazione sana e pulita hanno fatto il resto. I primi a non farsi scappare l’occasione rappresentata dalla campagna sono stati i parlamentari del Movimento 5 Stelle. Già una settimana dopo l’avvio della petizione 11 deputati avevano chiesto al governo di escludere dagli appalti le ditte fornitrici di prodotti a base di olio di palma. Dopo qualche mese anche 19 deputati del Partito democratico hanno chiesto al Governo di dare seguito alle richieste avanzate nella petizione. Nessuno finora si è preso la briga di analizzare scientificamente le dinamiche comunicative che hanno caratterizzato la campagna sull’olio di palma, ma c’è un momento in cui l’attenzione già crescente esplode ed è quando il dibattito, fino ad allora rimasto nel recinto del web, sbarca in tv. Ad aprile se ne occupa, su La 7, il programma La Gabbia. Il messaggio è forte e chiaro: l’olio di palma è dannoso per la salute e per l’ambiente. Il 3 maggio arriva Report. Nel programma si parla poco di salute; il focus è la sostenibilità e l’affidabilità dei certificati che dovrebbero garantirla. L’attenzione all’argomento sul web sale vertiginosamente: secondo Google Trends passa da 43 di marzo a 94 di maggio (in una scala da 1 a 100). È il picco: dopo qualche giorno l’attenzione comincerà a scendere gradualmente. Non la farà tornare a quei livelli né l’analisi scientifica dell’Istituto superiore di sanità, né quella dell’Efsa (European Food Safety Agency), l’autorità europea che vigila sulla sicurezza degli alimenti (pubblicati rispettivamente a febbraio e marzo 2016), a dimostrazione che non è sulla scienza che si è combattuta la battaglia sull’olio di palma nel nostro Paese. Eppure dai report motivi di allarme ne uscivano più di uno. L’Istituto superiore di sanità poneva l’accento sulla necessità di limitare i consumi di alimenti contenenti grassi saturi (e dunque anche olio di palma) specie nei bambini e in alcune fasce della popolazione vulnerabili. L’Efsa sottolineava la presenza di sostanze potenzialmente cancerogene nei grassi vegetali raffinati, in particolare nell’olio di palma. Non si trattava di sentenze definitive, bensì di semplici campanelli di allarme, da leggere alla luce della complessità scientifica del tema. Di certo, buone armi nell’arco di chi spingeva contro l’olio di palma e che non ha mancato di usarle. I due report, però, causano soltanto piccoli aumenti di attenzione che non spostano di una virgola la temperatura del dibattito. Tanto che nell’estate 2016 l’interesse per il tema sul web torna ai livelli pre-petizione (12 nella scala Google Trends) e tutto tace fino a pochi giorni fa. Sono gli ultimi giorni di ottobre; mentre negli scaffali dei supermercati la dicitura “Senza olio di palma” sta diventando la singola frase con maggiore ricorrenza, Ferrero va controcorrente e lancia la sua campagna: un convegno e uno spot per dire che continuerà a usare l’olio di palma e in cui controbatte punto per punto a tutte le critiche alla sostanza. Precisa infatti che questo grasso non è più dannoso per la salute di altri, che il suo olio di palma proviene da coltivazioni certificate (approvate da Greenpeace) e dunque non dannose per l’ambiente; infine che subisce processi di raffinazione all’avanguardia che riducono al minimo la presenza di contaminanti potenzialmente dannosi. L’attenzione sull’argomento torna a impennarsi, tanto da superare perfino i livelli massimi toccati ai tempi del servizio di Report (un 100 pieno sulla scala di Google Trends). Difficile prevedere se sia l’inizio di un’inversione di tendenza e di una riabilitazione dell’olio di palma. I primi segnali però dicono il contrario, come suggerisce la nuova petizione #FerreroRipensaci che al 10 novembre conta 43 mila sostenitori. Ed ecco dunque l’ultimo attore della storia: le aziende. Secondo Il Fatto Alimentare i grandi dell’alimentazione hanno speso almeno dieci milioni di euro negli ultimi due anni («Non siamo stati mai smentiti», dice Roberto La Pira) per cercare di affermare la loro verità sulla sostanza. Lo hanno fatto con campagne pubblicitarie, con iniziative rivolte agli organi di informazione, con produzione di contenuti. Qualcuno un giorno dirà se, nel clima di sospetto montante sull’olio di palma, questo non si sia rivelato un elemento determinante per trasformare un fuocherello in un incendio. Dopo tutto, anche Paolo Barilla un anno fa lo ammetteva: l’industria «è un elemento non credibile per definizione soprattutto in questo Paese. Non siamo forse i migliori per raccontare questa storia».

Olio di palma. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Palma da olio (Elaeis guineensis). L'olio del frutto della palma e l'olio di semi di palma (quest'ultimo detto anche olio di palmisto) sono degli oli vegetali, prevalentemente costituiti da trigliceridi con alte concentrazioni di acidi grassi saturi, ricavati dalle palme da olio, principalmente Elaeis guineensis ma anche da Elaeis oleifera e Attalea maripa. L'uso dell'olio di palma è cresciuto nel corso della seconda metà del XX secolo, tanto da farlo divenire un ingrediente di uso diffuso dell'industria alimentare, nella quale sono andati a sostituire, per il basso costo e per le sue caratteristiche, altri grassi di uso tradizionale nei paesi a clima temperato, quali Europa e Nord America. Costituenti spesso fondamentali di molti prodotti alimentari, gli oli di palma, insieme a farine e zuccheri semplici, possono essere uno dei tre ingredienti prevalenti in molte creme, dolci e prodotti da forno di produzione industriale nei paesi importatori del prodotto, mentre, in forma non raffinata, è un tradizionale ingrediente di uso domestico nei paesi dell'Africa occidentale subsahariana. Sono materia prima nella formulazione di molti saponi, polveri detergenti, prodotti per la cura della persona; per questi utilizzi vengono spesso usati i saponi di sodio o potassio e gli esteri semplici dei suoi acidi grassi come il palmitato di isopropile. Hanno trovato un nuovo controverso uso come combustibile di fonte agroenergetica. Dal frutto della palma da olio si ricavano olio di palma (ottenuto dal frutto) e olio di palmisto (estratto dai suoi semi): entrambi sono solidi o semi-solidi a temperatura ambiente, ma con un processo di frazionamento si possono separare in componente liquida (olio di palma bifrazionato, usato per la frittura) e solida. Pur impegnando nel 2014 solo il 5,5% dei terreni coltivati per la produzione olearia mondiale, gli oli ricavati dalla palma rappresentano oltre il 32% della produzione mondiale di oli e grassi. La fornitura e distribuzione annua su scala mondiale (secondo dati disponibili a febbraio 2016) si attesta su 66,22 milioni di tonnellate per l'olio di palma e 7,33 milioni di tonnellate per l'olio di palmisto.

I frutti della palma. I frutti della palma, facilmente deperibili, dopo il raccolto vengono sterilizzati tramite il vapore, in seguito vengono snocciolati, cotti, pressati e filtrati. L'olio che se ne ricava è di colore rossastro per via dell'alto contenuto di beta-carotene, solido a temperatura ambiente e ha un odore caratteristico; il sapore può essere dolciastro. Dopo un ulteriore processo di raffinazione può assumere un colore bianco giallino. È usato come olio alimentare, per farne margarina e come ingrediente di molti cibi lavorati, specie nell'industria alimentare. È uno dei pochi oli vegetali con un contenuto relativamente alto di grassi saturi (come anche l'olio di cocco) e quindi semi-solido a temperatura ambiente. I semi, una volta separati nella fase di produzione dell'olio di palma, vengono essiccati e macinati. Vengono poi pressati per ricavarne un blocco solido che contiene un'elevata percentuale di acido laurico, in modo analogo all'olio di cocco. Il prodotto non raffinato ha un colore giallo-brunastro che dopo la raffinazione diventa bianco-giallastro. L'olio di palmisto fonde ad una temperatura di 26°-28 °C; da esso si ricavano dei grassi particolari utilizzati nell'industria dolciaria per le glasse, la canditura e le farciture a base di cacao.

Storia. L'olio di palma è sempre stato molto usato nei paesi dell'Africa occidentale come olio alimentare. I mercanti europei che commerciavano in quei luoghi talvolta lo importavano in Europa, ma poiché l'olio era abbondante ed economico, l'olio di palma rimase raro fuori dall'Africa occidentale. Nella regione di Ashanti, schiavi di stato furono usati per impiantare vaste piantagioni di palme da olio, mentre nel vicino Dahomey (l'attuale Benin) re Ghezo, nel 1856, approvò una legge che vietava ai suoi sudditi di tagliare palme da olio. L'olio di palma in seguito divenne un prodotto molto commerciato dai mercanti britannici per il suo uso come lubrificante per le macchine della rivoluzione industriale, e come materia prima per prodotti a base di sapone come il Sunlight della Lever Brothers (a partire dal 1884) e il sapone statunitense Palmolive. La palma da olio fu introdotta nel 1848 dagli olandesi nell'isola di Giava, e nel 1910 in Malesia dallo scozzese William Sime e dal banchiere inglese Henry Darby. Le prime piantagioni furono istituite e gestite soprattutto da britannici come Sime Darby. A partire dagli anni sessanta il governo promosse un grande piano di coltivazione della palma da olio con lo scopo di combattere la povertà. A ciascun colono venivano assegnati circa 4 ettari di terra da coltivare con palma da olio o gomma, e 20 anni per ripagare il debito. Le grandi società di coltivazione rimasero quotate nella Borsa di Londra finché il governo malese non promosse la loro nazionalizzazione negli anni '60 e '70. In Malesia, paese dove si produce il 39% della produzione mondiale di olio di palma[6], ha sede uno dei più importanti centri di ricerca sugli oli e grassi di palma al mondo, il Palm Oil Research Institute of Malaysia (Porim), fondato da B. C. Shekhar.

Chimica e lavorazione. L'olio di palma e l'olio di palmisto sono trigliceridi: acidi grassi esterificati con glicerolo. Entrambi contengono un'alta quantità di acidi grassi saturi, circa il 50 e 80% rispettivamente. L'olio di palma dà il nome all'acido palmitico (acido grasso saturo con 16 atomi di carbonio), suo principale componente, ma contiene anche acido oleico monoinsaturo, mentre l'olio di palmisto contiene soprattutto acido laurico. Da questi oli per l'industria chimica con processi di interesterificazione, idrolisi, saponificazione, possono essere prodotti acidi grassi ed alcoli grassi, con glicerolo come sottoprodotto. Gli acidi grassi più richiesti sono acido laurico e miristico per l'industria dei tensioattivi. Gli oli di palma e palmisto sono prodotti nei mulini e mediante raffinazione; prima si procede al frazionamento, con processi di cristallizzazione e separazione per ottenere stearina solida e oleina liquida. Con un'ulteriore raffinazione per liquefazione si rimuovono le impurità e si ottiene l'olio filtrato. Quindi attraverso un processo di decolorazione (con argilla smectica, carbone attivo o silice) eventualmente preceduta da decerazione e neutralizzazione degli acidi grassi liberi, si toglie il colore, prevalentemente dovuto ai carotenoidi. In un ulteriore processo con vapore sotto vuoto viene deodorato formando olio di palma sbiancato e deodorato (in inglese refined bleached deodorized palm oil o RBDPO). Le sostanze estratte per chemoassorbimento o stripping durante i processi di decolorazione e deodorazione (carotenoidi, tocoli, squalene ecc.) possono essere purificate e fornite all'industria alimentare, cosmetica e farmaceutica. L'olio di palma sbiancato e deodorato è il prodotto oleoso di base che può essere venduto nel mercato globale delle materie prime, prevalentemente per la produzione di oli o grassi alimentari o di sapone. Molte compagnie lo separano ulteriormente in oleina e stearina di palma, per adeguarne la viscosità e punto di fusione ai diversi utilizzi. L'olio di palma e di palmisto possono essere utilizzati come ingredienti cosmetici. I loro nomi INCI più utilizzati sono rispettivamente: ELAEIS GUINEENSIS OIL e ELAEIS GUINEENSIS KERNEL OIL. Le frazioni ad alto punto di fusione, le stearine, possono chiamarsi: ELAEIS GUINEENSIS BUTTER. Nello sviluppo della cosmesi industriale l'olio di palma ed i suoi derivati hanno avuto un ruolo fondamentale per la produzione di saponi, tensioattivi ed emollienti. Il napalm prende nome dagli acidi naftenico e palmitico.

Composizione. In tutti gli oli vegetali la composizione può variare in funzione del coltivare, delle condizioni ambientali, della raccolta e della lavorazione e del metodo di analisi. Ci sono diversi oli di palma e palmisto con diversa distribuzione di acidi grassi, ottenuti prevalentemente per frazionamento. I principali sono:

PO: olio di palma, ottenuto dai frutti della Elaeis guineensis,

PKO: olio ottenuto dal nocciolo, seme, della palma,

POHO: oleina di palma, ottenuta dall'olio di palma (PO) con un frazionamento che ne alza il contenuto di acido oleico,

PKHO: oleina di palmisto, ottenuta dall'olio di palmisto con un frazionamento che ne alza il contenuto di acido oleico,

PKHS: stearina di palmisto, ottenuta dall'olio di palmisto con un frazionamento che ne alza il contenuto di acidi grassi saturi,

POS: stearina di palma, chiamata stearina per il suo punto di fusione alto, nonostante sia composta prevalentemente di acido palmitico. Ottenuta come resto del frazionamento con cui vengono prodotte le oleine e le superoleine di palma,

PSO superoleina di palma, ottenuta dall'olio di palma, con uno o più frazionamento che ne portino il numero di iodio sopra a 60. Conosciuto come olio di palma bifrazionato.

La distribuzione di acidi grassi dell'olio di palmisto è relativamente simile a quella dell'olio di cocco di cui può essere un surrogato visto il minor costo. La distribuzione di acidi grassi ed il punto di fusione della stearina di palmisto la rendono idonea come surrogato del burro di cacao. L'olio di palma è una delle principali fonti naturali di carotenoidi e tocotrienolo, un membro della famiglia della vitamina E; contiene inoltre quantità elevate di vitamina K e magnesio.

Olio di palma combustibile. La palma è usata anche nella produzione di biodiesel, o come olio di palma poco raffinato miscelato con gasolio convenzionale, oppure lavorato mediante transesterificazione per produrre un estere di metile dell'olio di palma che rispetta le norme EN 14214, con glicerolo come sottoprodotto. Il procedimento usato varia a seconda della nazione e delle esigenze dei mercati di esportazione. Si stanno anche sperimentando, anche se in piccole quantità, processi produttivi di biocarburante di seconda generazione.

Olio di palma e ambiente. Pur essendo in teoria una fonte di energia rinnovabile, il carburante da olio di palma è osteggiato da diverse associazioni ambientaliste (per esempio Greenpeace e Friends of the Earth) a causa degli effetti collaterali della sua produzione, che includono la necessità di convertire alla coltivazione di palme aree ecologicamente importanti come zone di foresta pluviale o aree precedentemente adibite alla produzione alimentare. Inoltre, la monocoltura di palme da olio può produrre considerevoli emissioni di carbonio; in Indonesia e Papua Nuova Guinea, per esempio, il terreno per la coltivazione è stato preparato spesso drenando e dando alle fiamme aree di foresta palustre e torbiera, con un conseguente rilevante danno ambientale, ed è stato valutato che anche in seguito a questi fenomeni l'Indonesia sia diventata il terzo emettitore mondiale di gas serra; inoltre la deforestazione minaccia d'estinzione gli oranghi, diffusi solo in quelle aree. Secondo il rapporto congiunto della Banca Mondiale e del Governo britannico, il solo settore forestale indonesiano sarebbe responsabile del rilascio in atmosfera di 2,563 MtCO2e (Metric Tonne (ton) Carbon Dioxide Equivalent). Secondo il Rapporto quinquennale FAO sulle foreste del 2007[14], la sola Indonesia perde un milione di ettari all'anno di foreste pluviali. La United States Environmental Protection Agency (EPA) ha escluso il biodiesel da olio di palma dai combustibili ecologici, proprio perché l'impronta di carbonio derivante dalla sua produzione non permette la riduzione del 20% richiesta per le emissioni dei biocarburanti: l'olio di palma ha costi ambientali elevatissimi alla produzione. Anche in Africa la palma da olio inizia ad espandersi nelle regioni forestali, minacciando importanti ecosistemi; questo è il caso per esempio della Costa d'Avorio[15], dell'Uganda e del Camerun.

Olio di palma e salute. Gli oli di palma e di palmisto sono ingredienti alimentari molto comuni nelle regioni di produzione. In Europa e Nord America progressivamente dalla seconda metà del XX secolo, per motivi commerciali, si sono diffusi nell'industria alimentare come succedanei di altri ingredienti più costosi. La sostituzione è stata resa possibile da un analogo comportamento organolettico e produttivo. In particolare, pur se comparabili ad altri grassi per alcuni parametri, come il grado di saturazione (analogo ad esempi al burro con circa il 50% di saturazione), sono differenti per altri, come la lunghezza delle catene degli acidi grassi (differente ad esempio dal burro, che è ricco di volatili a corta catena da cui il termine butirrico, C4), o la posizione sostituente sul glicerolo, parametri che ne modificano il percorso metabolico nell'uso alimentare. Gli acidi grassi a corta e media catena, solubili in acqua, si assorbono infatti a livello intestinale per proseguire nel fegato il processo metabolico, senza passare dalla fase di chilomicroni e dalle vie linfatiche dei grassi più pesanti. Il grande uso dell'olio di palma nell'industria alimentare del resto del mondo si spiega quindi col suo basso costo, che lo rende uno degli oli vegetali o alimentari più economici sul mercato, e coi nuovi mercati emersi negli USA, stimolati da una ricerca di alternative agli acidi grassi trans dopo che la Food and Drug Administration ha imposto di mostrare la quantità di acidi grassi trans contenuti in ogni porzione servita. Alcuni stati, come il Belgio, alla fine del 2013, hanno consigliato un uso limitato dell'olio di palma. Con l'entrata in vigore del Regolamento UE 1169/2011, dal 2015 è obbligatorio indicare in chiaro, nelle etichette dei prodotti alimentari prodotti nell'Unione europea, la specifica origine di oli e grassi vegetale e, di conseguenza, dichiarare l'utilizzo anche dell'olio di palma. L'olio di palma rosso è considerato più sano dell'olio di palma raffinato (incolore), in quanto lo stato grezzo preserva molte sostanze benefiche che esso contiene: carotenoidi in particolare beta-carotene che donano il caratteristico colore rosso arancio all'olio non sbiancato; co-enzima Q10 (ubiquinone); squalene; vitamina E. Di queste, le più significative sono i carotenoidi, presenti anche allo 0,08% negli oli di palma rosso rubino. Di questi oltre l'80% sono α e β carotene, quindi possono svolgere una attività provitaminica verso la vitamina A. Molte ricerche hanno riscontrato come l'assunzione alimentare di olio di palma rosso possa contrastare la carenza di vitamina A. L'olio di palma viene applicato, tra l'altro, sulle ferite per facilitare la guarigione, grazie alle caratteristiche dell'olio; inoltre, si ritiene che l'olio di palma non raffinato, come anche l'olio di cocco, possa avere effetti antimicrobici, ma le ricerche non lo confermano in modo chiaro.

Effetti su colesterolemia, ipertrigliceridemia e fattori di rischio cardiovascolare, genotossico e cancerogeno. Il CSPI (Center for Science in the Public Interest), citando ricerche e meta-analisi, afferma che l'olio di palma aumenta i fattori di rischio cardiovascolare. Da molti anni è stato accertato che i principali acidi grassi che alzano il livello di colesterolo, aumentando i rischi di coronaropatia, sono gli acidi grassi saturi con 12 atomi di carbonio (acido laurico), 14 atomi di carbonio (acido miristico) e 16 atomi di carbonio (acido palmitico). Ricerche statunitensi ed europee confermano lo studio dell'OMS; in particolare, l'associazione non-profit statunitense American Heart Association elenca l'olio di palma fra i grassi saturi dei quali consiglia di limitare l'uso a coloro che devono ridurre il livello di colesterolo. In risposta allo studio dell'OMS, il Comitato di promozione dell'olio di palma malese (Malaysian Palm Oil Promotion Council) ha sostenuto che non ci sono prove scientifiche sufficienti per elaborare linee guida globali sul consumo di olio di palma e ha citato uno studio cinese che avendo comparato lardo, olio di palma, olio di soia e olio di arachidi, i primi due con un alto contenuto di grassi saturi e generalmente considerati poco salutari, sostenendo che l'olio di palma aumenti il livello di colesterolo "buono" (HDL) riducendo il colesterolo "cattivo" (LDL) e che l'olio di palma sia meglio dei grassi trans, grassi che (nei paesi dove non sono regolamentati) sarebbero comunemente scelti come suoi sostituti in diverse produzioni alimentari; queste affermazioni sono sostenute da uno studio precedente su vari oli e salute cardiovascolare. Tuttavia, uno studio del dipartimento di Scienza e Medicina agricola, alimentare e nutrizionale dell'Università dell'Alberta ha mostrato che sebbene l'acido palmitico non abbia effetti ipercolesterolemici qualora l'assunzione di acido linoleico sia superiore al 4,5 % dell'energia, se la dieta contiene acidi grassi trans allora il colesterolo "cattivo" (LDL) aumenta e quello "buono" (HDL) diminuisce; inoltre, gli studi a sostegno del Comitato di promozione dell'olio di palma malese sono limitati agli effetti dell'olio di palma sulla colesterolemia e in parte sui trigliceridi. L'industria dell'olio di palma sottolinea che gli oli di palma contengano grandi quantità di acido oleico (è il secondo, col 38,7%, nell'olio di oliva l'acido oleico è il 55-83%), acido grasso protettivo, e, in contrapposizione a quanto noto in medicina e dietetica, sostiene che l'acido palmitico influisce sui livelli di colesterolo in modo molto simile all'acido oleico; afferma, inoltre, che gli acidi monoinsaturi come l'acido oleico sono tanto efficaci quanto gli acidi grassi polinsaturi (come l'acido alfa-linoleico) nel ridurre il livello di colesterolo "cattivo". Nel 2013 Fattore e Fanelli dell'Istituto Mario Negri pubblicano una rassegna sulla letteratura scientifica inerente alle prove di correlazione tra olio di palma ed effetti negativi sulla salute, evidenziando come ci siano pochi studi che analizzino gli effetti negativi dell'olio in sé e che principalmente gli effetti negativi delineati dagli studi esistenti riguardino il relativamente alto livello di acidi grassi saturi presenti nell'olio, in particolare l'acido palmitico, che sono stati correlati all'aumento di problematiche coronariche e all'insorgenza di alcuni tumori; tuttavia, indicano come alcuni recenti studi sull'argomento riconsiderino il ruolo negativo degli acidi grassi saturi nella dieta come fattore di rischio cardiovascolare, individuando non solo il tipo di grasso, ma che anche la struttura dei trigliceridi gioca un ruolo fondamentale nella colesterolemia. Per quanto riguarda la possibile insorgenza di tumori a causa dell'assunzione di olio di palma, gli studi sono scarsi e non vi sono prove convincenti. A settembre 2015 l'Istituto Superiore di Sanità conclude un suo parere tecnico scientifico sull'olio di palma affermando: "non ci sono evidenze dirette nella letteratura scientifica che l'olio di palma, come fonte di acidi grassi saturi, abbia un effetto diverso sul rischio cardiovascolare rispetto agli altri grassi con simile composizione percentuale di grassi saturi e mono/poliinsaturi, quali, ad esempio, il burro" e aggiunge: "Il suo consumo non è correlato all'aumento di fattori di rischio per malattie cardiovascolari nei soggetti normo-colesterolemici, normopeso, giovani e che assumano contemporaneamente le quantità adeguate di polinsaturi." A maggio 2016 una nota dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare riporta che gli oli vegetali raffinati ad alte temperatura, come l'olio di palma, possono contenere tre sostanze tossiche. Questo rapporto rileva come le sostanze tossiche si formino nel processo di raffinazione ad alte temperature (200 °C) degli oli vegetali. Le sostanze in questione sono: estere glicidico degli acidi grassi (GE), 3-monocloropropandiolo (3-MCPD), 2-monocloropropandiolo (2-MCPD) e loro esteri degli acidi grassi. Ci sono evidenze sufficienti che il glicidolo, precursore del GE sia genotossico e cancerogeno. Il problema riguarderebbe anche altri oli vegetali e margarine (in gran parte derivate da olii di palma), ma l'olio di palma ne conterrebbe di più. La disamina del gruppo ha messo in luce che i livelli di GE negli oli e grassi di palma si sono dimezzati tra il 2010 e il 2015, grazie alle misure volontarie adottate dai produttori. Ciò ha contribuito a un calo importante dell'esposizione dei consumatori a dette sostanze. Per i consumatori di tre anni di età e oltre, margarine e 'dolci e torte' sono risultati essere le principali fonti di esposizione a queste sostanze. Sempre secondo l'EFSA l'olio di palma contribuisce in maniera rilevante all’esposizione a 3-MCPD (ci sono evidenze che la sostanza sia cancerogena) 2-MCPD (non ci sono abbastanza prove a carico di questa sostanza) nella maggior parte dei soggetti per via della forte diffusione di prodotti alimentari che contengono l'olio. Soprattutto nei lattanti ma anche nei bambini e nei ragazzi sotto i 18 anni si supera la DGT (dose giornaliera tollerabile) e ciò costituisce un potenziale rischio per la salute. Nel rapporto dell'EFSA per i lattanti, in riferimento soprattutto all'olio di palma contenuto nei latti artificiali, si dice: "L'esposizione ai GE dei neonati che consumino esclusivamente alimenti per lattanti costituisce motivo di particolare preoccupazione, in quanto è fino a dieci volte il livello considerato a basso rischio per la salute pubblica". I GE sono considerati genotossici e cancerogeni. Vari test fatti da riviste specializzate di tutto il mondo rilevano la criticità di somministrare elevati quantitativi di olio di palma attraverso i latti artificiali. Sostanze quali il 3-MCPD e i GE sono monitorati da tempo analizzando le varie partite di olio che arrivano in Europa, il problema riguarda anche altri oli vegetali e margarine, ma l'aspetto preoccupante è che l'olio di palma ne contiene da 6 a 10 volte di più mentre tutti gli altri oli di semi hanno valori non troppo dissimili. Fanno eccezione l'olio di oliva extravergine e il burro che non hanno di questi problemi. Il consumatore poco attento nel leggere la lista degli ingredienti si trova a mangiare rilevanti quantità di olio di palma in quanto è presente in quasi tutti i prodotti non freschi e lavorati che si trovano nel supermercato. Dal 2016 molti marchi di prodotti alimentari pongono nelle loro confezioni la scritta "senza olio di palma".

Olio di palma: scopriamo se e quanto è davvero pericoloso. L’Italia è uno dei mercati più importanti per le merendine (che contengono quasi sempre l’ingrediente «sotto indagine») . Il nostro Istituto della Sanità ha stabilito che il rischio per la nostra salute è pari ad altri alimenti che contengono grassi saturi: carni, latticini e uova, scrive l'11/05/2016 Laura Preite su "La Stampa". Del tutto assente dalle etichette rientrava tra gli olii vegetali. Cambiata la legge europea sull’etichettatura a fine 2014 abbiamo incominciato a conoscerlo e ad averne paura. L’olio di palma ha invaso le nostre tavole senza che ce ne accorgessimo. Maggiormente esposti sono i bambini: l’olio infatti - prodotto da un tipo di palma coltivata in sud est asiatico - è contenuto in biscotti, dolci, merendine, gelati industriali, cioccolato al latte, creme spalmabili, crackers, patatine, latte in polvere. Difficile che in una giornata non se ne assuma almeno un po’. Così sono arrivate le preoccupazioni per l’ambiente - deforestazione - e per la salute. L’olio di palma fa male? È la domanda a cui sono stati chiamati a rispondere in questi mesi l’industria alimentare e le autorità sanitarie da una campagna partita dal basso, dai consumatori. L’Istituto superiore di sanità a febbraio ha concluso che l’olio di palma rappresenta un rischio per la salute al pari di altri alimenti che contengono grassi saturi: carni, latticini e uova. Il consumo quindi doveva essere limitato per evitare malattie cardiovascolari. Alcuni devono stare particolarmente attenti: bambini, anziani, dislipidemici, obesi, pazienti con pregressi eventi cardiovascolari, ipertesi. Secondo stime dell’ISS (su dati del 2005-2006, gli ultimi disponibili) assumiamo 27 grammi al giorno di grassi saturi, con un contributo dell’olio di palma stimato tra i 2,5 e i 4,7 grammi. Nei bambini di età 3-10 anni, le stime indicano un consumo di acidi grassi saturi tra i 24 e 27 grammi al giorno, con un contributo di saturi da olio di palma tra i 4,4 e i 7,7 grammi. Siamo sopra a quanto raccomandato, continua l’Iss. Quando le polemiche sembrano rientrare e contemporaneamente a una campagna pubblicitaria promossa dalle aziende alimentari che lodando le qualità dell’olio e la sua salubrità, l’Istituto nazionale olandese per la salute e l’ambiente (NIPH) pubblica uno studio sull’esposizione a un composto che si forma nei processi di lavorazione di alcuni olii, tra cui quello di palma, il 3-monocloropropandiolo (3-MCPD). Lo studio è ripreso dall’Efsa, l’agenzia per la sicurezza alimentare europea che commissiona un altro studio e in una nota del 3 maggio conferma i rischi, in particolare per i bambini. «Lo studio dell’Efsa ha evidenziato che nel processo di raffinazione dell’olio di palma a temperatura elevata si forma una reazione tra composti con cloro e gli acidi grassi. Sono tre composti, glicidiolo, 3-monocloropropandiolo (3- MCPD) e 2-monocloropropandiolo (2-MCPD), il primo classificato come probabile cancerogeno e gli altri due nefrotossici cioè dannosi per i reni» spiega Enzo Spisni ricercatore del dipartimento di scienze biologiche dell’Università di Bologna e membro del comitato scientifico del Master in alimentazione ed educazione alla salute. «Questi composti che si formano ad alte temperature - continua - erano noti da tempo ma si pensava che nei moderni processi di raffinazione non ce ne fossero così tanti e invece gli olandesi che sono andati a misurare il 3-MCPD ne hanno trovato livelli alti, soprattutto nell’olio del palma perché in natura ha più composti a base di cloro e di conseguenza forma più composti tossici». Il rapporto olandese conclude che il 18% dei bambini dai 2 ai 6 anni eccedono la dose giornaliera tollerata per i 3-MCPD di 0,8 microgrammi per chilo+. Fino ad arrivare al 35% dei bambini di sette anni, per poi diminuire a meno del 5% nei ragazzi di 17. «Con il consumo attuale le quantità di questi composti potrebbero superare le soglie indicate da Efsa per la sicurezza alimentare - dice Spisni - a rischio sono soprattutto i bambini per via del loro ridotto peso». Infatti un grammo al giorno per un bambino che pesa 20 chili ha un effetto diverso su un adulto. L’Italia è uno dei mercati più importanti per le merendine (qui se ne producono e vendono tante) e l’olio di palma negli ultimi anni ha invaso le nostre tavole. Non irrancidisce, rende i prodotti croccanti e costa poco così ha sostituito olio di girasole, mais, o soia: «Calcolando sul numero delle importazione che avvengono nel nostro paese si stima un consumo a testa di 12 grammi di olio di palma, mentre dovremmo tenerci su 1-2 grammi - continua il ricercatore-. Se mangiamo tre biscotti a colazione in media di 10 grammi l’uno raggiungiamo già la dose consigliata. Vuol dire che durante la giornata non dobbiamo mangiare né merendine, né gelati, né snack salati, o cioccolato al latte, difficile che questo avvenga. Non dobbiamo fare allarmismi ma servirebbe un maggior investimento delle aziende alimentari in ricerca magari indipendente e meno in proclami» conclude Spisni.  

Un po’ di chiarezza sull’olio di palma, scrive l'11 Maggio 2015 Noemi Jane Urso su "Butac". Sempre più persone ci stanno contattando per chiederci delucidazioni sull’olio di palma. Negli ultimi tempi infatti si è sentito sempre più parlare di questo grasso vegetale che sembra ritrovarsi in moltissimi prodotti dolciari confezionati, anche di larghissimo consumo, ad esempio nella Nutella, di cui si era già occupato a novembre il nostro Neil. Ma che cosa è questo olio di palma? Fa male alla salute? Distrugge le foreste? Perché non se n’è sentito parlare fino a qualche anno fa? Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Cercherò di trattare l’argomento in maniera più breve ed esauriente possibile nei suoi aspetti principali, e nel caso che ci fosse bisogno di approfondimenti sarò felice di poterci lavorare ulteriormente.

Come ci spiega Wikipedia: L’olio di palma e l’olio di semi di palma o olio di palmisto sono degli olii vegetali saturi non idrogenati ricavati dalle palme da olio, principalmente Elaeis guineensis ma anche da Elaeis oleifera e Attalea maripa. Nel 2007, con 28 milioni di tonnellate di produzione globale, era il secondo olio commestibile più prodotto, dopo l’olio di soia, che adesso potrebbe aver superato. È anche un componente o una materia prima importante di molti saponi, prodotti alimentari (come la Nutella), polveri detergenti e prodotti per la cura della persona (…) Dal frutto della palma da olio si ricavano olio di palma (dal frutto) e olio di palmisto (dai suoi semi): entrambi sono solidi o semi-solidi a temperatura ambiente, ma con un processo di frazionamento si possono separare in componente liquida (olio di palma bifrazionato, usato per la frittura) e solida. Ok, facciamo finta (…) che io non ci capisca niente di queste cose, e spieghiamo per filo e per segno che cosa significa tutto ciò, cercando di usare i termini più semplici possibili. L’olio di palma è un grasso saturo. Generalmente gli oli vegetali sono grassi insaturi, ovvero quelli che non fanno aumentare il “colesterolo cattivo” ma solo quello “buono” (qui ve lo spiega Wikipedia). I grassi saturi, principalmente grassi animali (come il burro, per intenderci) fanno aumentare invece il cosiddetto “colesterolo cattivo”. L’olio di palma è un grasso saturo, il che lo accomuna, in quanto a effetti sull’organismo, più o meno al burro. L’olio di palma, però, è un grasso non idrogenato. L’idrogenazione è un processo chimico che potete trovare spiegato con cura su Wikipedia, e anche questo sito mi pare che dia una spiegazione piuttosto esauriente e ricca di esempi basata su manuali di nutrizione clinica. Vi basti sapere che tramite questo processo i grassi liquidi diventano solidi. Questi grassi vengono usati in un sacco di snack confezionati, sia dolci (merendine, ad esempio) che salati (patatine in busta) e si ritrovano in gran parte degli alimenti da fast food. È ormai appurato da anni che i grassi idrogenati sono dannosi per la nostra salute in quanto contenenti molecole lipidiche di grassi trans; già nel 2002 l’Accademia Nazionale delle Scienze degli USA ne ha raccomandato la totale eliminazione dalla dieta. Un’altra spiegazione esauriente qui. Da allora l’olio di palma ha conosciuto una rapidissima diffusione in quanto valida alternativa a tali grassi, di cui era ormai stata appurata la nocività per l’alimentazione umana. Inoltre, da quest’anno è entrato in vigore l’obbligo di specificare il tipo di grassi vegetali nelle etichette degli ingredienti dei prodotti confezionati e questo ha scoperchiato il vaso di Pandora, poiché si è scoperto che in tanti, tantissimi prodotti è presente il suddetto olio di palma. Dunque: l’olio di palma è un grasso saturo vegetale, fa più o meno male quanto ne fa il burro (ovvero per niente o quasi, se utilizzato con moderazione, un po’ come tutte le cose), ma nemmeno lontanamente quanto altri grassi trattati chimicamente, ed è per questo motivo che negli ultimi anni è andato a sostituire in moltissimi prodotti alimentari i grassi idrogenati di cui si sconsiglia l’utilizzo, in quanto dannosi per la salute. Allora perché ormai da mesi siamo bombardati da informazioni confuse e a volte contraddittorie che demonizzano i prodotti che lo contengono? Le obiezioni al suo utilizzo sono principalmente queste tre: andiamo ad analizzarle e cercare di chiarire.

Lo sfruttamento da parte delle multinazionali. Si è detto che l’olio di palma è l’ennesimo prodotto che arricchisce le multinazionali a scapito degli abitanti dell’Indonesia e della Malesia che sono i maggiori produttori di olio di palma, con una produzione superiore al 90% del totale mondiale. Si parla di land grabbing, ovvero della sottrazione delle terre ai legittimi proprietari da parte delle solite, cattivissime multinazionali. Da una parte il land grabbing è in evoluzione, dall’altra non esistono monitoraggi e dati complessivi, ma soltanto casi studio. (…) non abbiamo a che fare con una semplice compravendita arcaicamente colonialista. È un coacervo di investimenti in costante espansione. Un giro di miliardi di dollari. Un trend economico globale. Ovvero è un fatto nuovo, ancora in fase di studio, ma come possiamo leggere in questo articolo, l’Indonesia non è un paese del terzo mondo, poverissimo, da sfruttare, ma un paese che sta diventando una potenza economica funzionante e in espansione, e le coltivazioni di palma da olio sono uno dei motori di questa espansione, che negli ultimi anni ha portato il PIL a una continua crescita. E il fatto che possano esserci dei soprusi da parte di parti economicamente interessate alla produzione non è in nessun modo legato al tipo di coltivazione: la faccenda sarebbe complessa e delicata anche se si trattasse di coltivazioni di caffè, zucchero, girasole, o di qualsiasi altro prodotto coltivato in situazioni prive di legislazione chiara ed equilibrata. Per il momento si è istituita una “tavola rotonda” atta a controllare e cercare di regolamentare la situazione a livello internazionale e renderla più sostenibile possibile, la RSPO, ovvero Roundtable on Sustainable Palm Oil. Ad esso hanno aderito anche aziende poste eticamente sotto accusa come la Ferrero, che cerca in questo modo di dimostrare di essere attenta all’ambiente e ai diritti dei lavoratori, nonostante animalisti e ambientalisti da anni cerchino di demonizzarla ad ogni soffio di vento; l’olio di palma, ovviamente, non ha fatto eccezione, in quanto uno dei principali ingredienti della Nutella. Come ci spiega Strade, però, bisognerebbe cercare di vedere la situazione nella giusta prospettiva e non soltanto ergersi a giudici dei comportamenti altrui.

Le preoccupazioni per l’ambiente. Strettamente collegate alle sopracitate malefatte delle multinazionali si sono presentate preoccupazioni per l’ambiente e l’ecosistema che, secondo gli ambientalisti, verrebbe distrutto a ritmi folli e senza nessuna remora, tant’è vero che se si continuasse a questo ritmo l’intera superficie forestale dell’Indonesia dovrebbe essere rasa al suolo entro pochi anni. Questo non è vero, poiché se da una parte si assiste a una parziale deforestazione per fare spazio alle coltivazioni di palma da olio, dall’altra questa deforestazione è strettamente controllata e l’Indonesia è sempre stata ligia (al contrario di molti paesi occidentali) al rispetto degli accordi internazionali con i quali ha garantito di mantenere la superficie verde originale al di sopra del 50%. In parte ovviamente la superficie di foresta originale si sta riducendo, ma chi siamo noi per giudicare se sia più importante che far decollare l’economia di un paese che è sempre stato considerato “terzo mondo” e che sta cercando di svilupparsi grazie a queste coltivazioni? Le specie animali che si vogliono a tutti costi proteggere verranno comunque protette perché il loro habitat non verrà distrutto come viene catastroficamente predetto dalle associazioni animaliste occidentali, e se verrà ridotto dobbiamo augurarci che le nostre preoccupazioni vengano condivise anche dai diretti interessati i quali si occuperanno, nel momento in cui riusciranno a sopravvivere dignitosamente, anche di preservare quelle specie in via di estinzione che hanno il loro habitat naturale nelle aree interessate. Le domande che, secondo me, bisognerebbe porsi al riguardo sono essenzialmente due:

1) perché in Italia e in Europa abbiamo potuto sviluppare l’economia a scapito della superficie delle foreste che ricoprivano parte delle aree che sono state destinate nelle ultime decine o centinaia di anni alle coltivazioni tipiche delle nostre economie, mentre quando cercano di farlo economie emergenti questa pratica viene demonizzata? Vi è più attenzione per l’ambiente al giorno d’oggi, o per caso ci sono interessi economici in gioco anche da parte nostra? (L’ormai celeberrima petizione de Il Fatto Alimentare che chiede che venga sostituito l’olio di palma con altri oli vegetali o con il burro – come abbiamo visto, una richiesta insensata – è appoggiata dalla Great Italian Food Trade, azienda che si occupa di import/export di prodotti italiani);

2) chi condanna la coltivazione della palma da olio come insostenibile per l’ambiente e auspica la sua sostituzione con altri tipi di vegetali da olio, ha sotto mano dati che permettano di considerare l’olio di palma meno sostenibile da un punto di vista ambientale, rispetto agli oli vegetali di cui si auspica la coltivazione al suo posto?

Infatti, come spiega ancora Giordano Masini su Strade, in un articolo che puntualizza tutti gli errori commessi da Report in un grossolano servizio della scorsa settimana, bisognerebbe fare il paragone tra le coltivazioni di palma da olio e quelle degli eventuali sostituti per rendersi conto dell’assurdità della richiesta. Il rapporto tra il terreno coltivato e la resa del prodotto è di svariate volte migliore nel caso della palma da olio rispetto a praticamente tutti gli altri oli vegetali disponibili per l’industria alimentare. Infatti un ettaro di palme da olio produce 7 volte l’olio che produce un ettaro di girasoli. Questo vuol dire che se l’industria fosse costretta a sostituire l’olio di palma con altri oli vegetali, dovremmo destinare alla produzione di olio molta più terra coltivabile, a parità di domanda. E la superficie coltivabile, quando aumenta, lo fa necessariamente a scapito degli ecosistemi naturali, foreste comprese. Inoltre la coltivazione della palma da olio richiede meno input energetici (acqua, pesticidi, fertilizzanti, carburante) rispetto alle alternative, ed è enormemente più produttiva. Questo non dovrebbe garantire all’olio di palma un trattamento di favore da parte dei governi, ma nemmeno ostacoli: quando si parla di sostenibilità, questi sono fatti che andrebbero tenuti in considerazione. Considerazione che invece, a quanto pare, non esiste in questo caso. La deforestazione esiste e sarebbe bellissimo se non ce ne fosse bisogno, ma le alternative purtroppo sono ancora meno sostenibili.

I problemi per la salute. Si è letto di tutto in merito all’olio di palma: che causa problemi cardiovascolari, il diabete e addirittura il cancro. Come ho scritto sopra, l’olio di palma è un grasso saturo. I grassi saturi, se consumati in grosse quantità e per lungo tempo, possono portare a problemi di salute; come tutto quello che ingeriamo, acqua compresa, i grassi vanno assunti con moderazione, figuriamoci poi se si tratta di grassi saturi. Quale dottore vi consiglierebbe di ingerire dosi illimitate di burro? Purtroppo l’olio di palma è spesso contenuto negli snack che piacciono tanto ai bambini, e questo può portare preoccupazioni ai genitori. Semplicemente non è salutare mangiare quantità eccessive di snack dolci o salati; ma questo è un problema legato alle abitudini alimentari dei singoli, non agli ingredienti in se stessi. Se l’olio di palma venisse sostituito dal burro o da altri grassi saturi, il problema rimarrebbe esattamente lo stesso. E ricordiamo che l’utilizzo dell’olio di palma è cresciuto negli ultimi anni proprio per andare a sostituire i grassi idrogenati, quelli sì, dannosi anche in piccole quantità; e gli oli vegetali non saturi non sono adatti per l’utilizzo come ingredienti in determinate ricette in quanto eccessivamente liquidi (si presenterebbe quindi la necessità di idrogenazione); in altre ricette invece, come le fritture, si rende indispensabile un prodotto economico, poiché nessuno è disposto a pagare quello che costerebbe una porzione di patatine se fossero fritte nell’olio extravergine d’oliva. Pochi giorni fa è stato pubblicato uno studio dell’Università di Bari che mette in collegamento una proteina dannosa per il pancreas con il consumo di acido palmitico nell’insorgenza di un tipo di diabete; l’acido palmitico è caratteristico dell’olio di palma, ma è contenuto anche in altri grassi saturi ed è presente in quantità degne di nota anche in formaggi, carne e burro. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità attribuisce all’acido palmitico un effetto aterogeno ed ipercolesterolemizzante, che incide negativamente sul rischio cardiovascolare; gli stessi rischi, però sono associati anche ad altri acidi contenuti nei grassi saturi. Inoltre, come viene spiegato su Wired con la consulenza della dottoressa Laura Rossi, delegata italiana per il Consiglio Fao la notizia riguarda (…) uno studio sperimentale fatto in vitro, dove gli scienziati hanno perfuso cellule di pancreas con del palmitato – che, ricordiamo, non è olio di palma, ma uno dei suoi componenti – e le cellule hanno registrato un danno. “Ma questo non significa assolutamente che mangiare l’olio di palma faccia venire il diabete 2”, chiarisce sempre Rossi, “perché quella situazione sperimentale, anche se fatta molto bene, non può essere assolutamente tradotta in un effetto diretto sull’organismo”. Il discorso sull’alimentazione, insomma, è ben diverso dal prendere una molecola e una cellula e vedere che succede, e non è possibile trasformare in un messaggio sull’uomo ciò che ancora è lontanissimo dall’uomo, come questo test. Insomma, come in molte altre situazioni, quello da tenere a mente è che l’utilizzo eccessivo può creare potenziali problemi, e che il singolo nutriente non rovina la salute come succede invece nel caso di un contesto dietetico scorretto. Ma questo non succede nel caso dell’olio di palma in quanto tale; succede in caso di eccessivo utilizzo di grassi saturi, come succede anche nel caso che si utilizzino quantità eccessive di zucchero, o di proteine, o di qualsiasi altro nutriente. Ficcare in mano uno snack al cioccolato ai propri figli ogni qualvolta chiedono la merenda, perché non si ha tempo o voglia di preparare loro qualcosa di più salutare, è un problema creato dall’olio di palma? Verrebbe risolto dall’utilizzo di burro al suo posto? No, poiché non è stato risolto nemmeno dall’eliminazione dei grassi idrogenati e non verrebbe comunque risolto nemmeno se invece che uno snack al cioccolato ficcassimo in mano ai nostri figli una fetta di torta fatta in casa composta al 75% di burro: la cattiva alimentazione rimarrebbe tale, e la sostituzione di un grasso con un altro non ci allontanerebbe dalle malattie cardiovascolari, dal diabete o dall’obesità. Si leggono molte, moltissime notizie di ogni genere riguardo all’olio di palma, e durante la stesura di questo articolo mi sono imbattuta in decine di pagine che, a un fact checking anche superficiale, si sono rivelate piene di dati non verificabili, catastrofici, palesemente falsi o che riconducevano al solo olio di palma informazioni che riguardano invece una ben più ampia gamma di ingredienti e/o nutrienti. Non so quanta malafede ci sia dietro, e in quale misura si stia cercando di attirare l’attenzione sull’olio di palma, millantando rischi per la salute diversi da quelli che potrebbe portarci qualsiasi alimento che mettiamo sulla nostra tavola quotidianamente, perché si può pensare che le preoccupazioni ambientali, che sono quelle più giustificate, possano venir considerate meno di quelle riguardanti la salute; ma ciò non toglie che si tratti di falsità, di allarmismo, di bugie create per portare acqua al mulino di un ideale che, come al solito, vogliamo credere che sia l’unico giusto e condivisibile senza considerare l’altra campana, quella dei coltivatori del Sud-Est Asiatico che cercano di inserirsi nell’economia mondiale con prodotti competitivi e, mi preme moltissimo sottolinearlo, molto più sostenibili ed economici, anche in termini ambientali, delle alternative. Cito ancora una volta l’articolo di Giordano Masini su Strade: Quella contro l’olio di palma è la classica campagna dalla quale un politico può solo guadagnare: permette di apparire, nello stesso tempo, come difensori dell’ambiente e della salute, mentre chi dalla campagna potrebbe essere danneggiato è talmente distante da non procurare alcun timore per l’immagine e il consenso.

Aggiornamento del 29 febbraio 2016: Qualche giorno fa il Ministero della Salute ha pubblicato sul suo sito il proprio parere “sulle conseguenze per la salute dell’utilizzo dell’olio di palma come ingrediente alimentare”, basandosi su un documento prodotto dall’Istituto Superiore di Sanità. Il Ministero conferma quello che già sostenevamo nell’articolo anche noi di Butac, ovvero: La letteratura scientifica non riporta l’esistenza di componenti specifiche dell’olio di palma capaci di determinare effetti negativi sulla salute, ma riconduce questi ultimi al suo elevato contenuto di acidi grassi saturi rispetto ad altri grassi alimentari. Evidenze epidemiologiche attribuiscono infatti all’eccesso di acidi grassi saturi nella dieta effetti negativi sulla salute e, in particolare, un aumento del rischio di patologie cardio-vascolari. (…) L’Istituto Superiore di Sanità conclude che non ci sono evidenze dirette nella letteratura scientifica che l’olio di palma, come fonte di acidi grassi saturi, abbia un effetto diverso sul rischio cardiovascolare rispetto agli altri grassi con simile composizione percentuale di grassi saturi e mono/poliinsaturi, quali, ad esempio, il burro. Si ribadisce che il consumo di grassi saturi va limitato, specialmente in determinate fasce di popolazione (bambini, anziani, soggetti diabetici ecc), ma che non vi è alcuna differenza, da un punto di vista nutrizionale, tra l’olio di palma e altri alimenti che apportano grassi saturi nelle stesse quantità. Speriamo che la pubblicazione di questo documento ponga finalmente fine al dibattito sull’olio di palma, almeno per quanto riguarda appunto le conseguenze sulla salute: sappiamo che le campagne allarmistiche contro l’olio di palma e in favore del burro fiorite negli scorsi mesi si basavano principalmente sulle preoccupazioni per l’ambiente e quelle per la salute, e già qualche mese fa ci eravamo chiesti se questi ultimi non fossero stati esagerati per convogliare l’attenzione sul problema ambientale che, da solo, non avrebbe smosso in maniera altrettanto massiccia l’opinione pubblica. Abbiamo oggi la conferma che tali pericoli per la salute non sono relativi all’olio di palma, poiché non se ne trovano riscontri nella letteratura scientifica; rimane la raccomandazione di contenere il consumo di grassi saturi, e dunque, sostituire l’olio di palma con il burro, come suggerivano petizioni allarmistiche qualche mese fa, non ha nessunissima utilità da questo punto di vista. Ci rimane il dubbio invece che tali campagne, appoggiate come abbiamo visto da aziende di import/export di prodotti italiani, abbiano cavalcato le preoccupazioni per la salute per i propri interessi economici.

Olio di palma: fa male alla salute? Facciamo chiarezza! Scrive il 14 marzo 2017 "Viversano". Chi abitualmente legge o studia le etichette dei prodotti alimentari prima di acquistarli al supermercato, avrà certamente notato diverse volte la dicitura “olio di palma” (spesso celata dietro le più generiche scritte “olio vegetale” o “grassi vegetali”) nella lista degli ingredienti. Ma cos’è l’olio di palma? E perché è così largamente usato nell’industria alimentare? Olio di palma: che cos’è e che caratteristiche possiede L’olio di palma è un olio vegetale non idrogenato che si ricava dall’omonimo arbusto, Elaeis guineensis, una pianta originaria dell’Africa e oggi ampiamente coltivata in Malesia e Indonesia. Dire semplicemente olio di palma, in realtà, vuol dire esprimere un concetto piuttosto vago, visto che esistono tre tipi diversi di oli che si diversificano tra loro a seconda dell’origine e della lavorazione a cui vengono sottoposti, quali: olio di palma grezzo, olio di palmisto, olio di palma raffinato. L’olio di palma grezzo si ricava dai frutti della palma dei quali mantiene il caratteristico colore arancio rosso, dovuto all’alta concentrazione di carotenoidi, precursori della vitamina A. A temperatura ambiente ha una consistenza semi-solida simile alla sugna (strutto), dovuta all’elevata quantità di acidi grassi saturi (normalmente presenti nelle carni e nei grassi animali) che, però, sono compensati dalla presenza di una buona dose di antiossidanti e di vitamina E. Gli acidi grassi costituiscono circa il 50% dei grassi totali presenti, e il più rappresentativo è l’acido palmitico, un acido saturo a lunga catena; la restante percentuale è formata dagli acidi grassi monoinsaturi (40%) e polinsaturi (10%). PUBBLICITÀ L’olio di palmisto si ricava, invece, dai semi della pianta. Ha anch’esso una consistenza semi-solida a temperatura ambiente, perché ricco di acidi grassi saturi, ma ha un colore bianco che ricorda il burro perché privo di carotenoidi. L’olio di palma raffinato (o olio di palma bifrazionato) è il risultato di “bifrazionamento” e di raffinazione, meccanismi che consentono di convertirlo in forma liquida. Durante tali processi, però, esso perde tutti gli antiossidanti presenti nella forma grezza, e quindi tutta la parte benefica a favore (ahinoi) dei soli acidi grassi saturi. Valori nutrizionali per 100g di olio di palma raffinato: Acqua 0 g kcal 884 Proteine 0 g Grassi 100 g di cui saturi 49,3 g Carboidrati 0 g di cui zuccheri 0 g Vitamina E 15,94 mg Indice glicemico 0 Colesterolo 0 g Acido Linoleico 9,2 g Acido Linolenico 0,2 g L’olio di palma nell’industria alimentare L’olio di palma raffinato è molto utilizzato nelle industrie alimentari per la frittura dei cibi e per la preparazione dei prodotti confezionati come biscotti, merendine, gelati, cioccolato e cioccolato spalmabile, zuppe già pronte ecc, a cui sa conferire cremosità e croccantezza, fungendo da addensante. Ma perchè si preferisce usare proprio l’olio di palma? Ecco alcune motivazioni. L’olio di palma è meno delicato rispetto ad altri oli i quali, deteriorandosi in fretta, formerebbero sostanze tossiche che sarebbero potenzialmente nocive. L’olio di palma possiede, invece, una forte resistenza alla temperatura e al sole, candidandosi come olio migliore per la corretta conservazione dei cibi confezionati. Raggiungendo il punto di fumo molto lentamente, è l’ideale per la cottura dei cibi. È incolore, insapore, altamente versatile e lavorabile ma, soprattutto, è molto economico. È facilmente digeribile per la presenza, tra gli altri, di acidi grassi a media catena che attraversano più facilmente la parete intestinale. L’olio di palma fa male alla salute? Il valore nutrizionale reale e gli effettivi impatti negativi che l’olio di palma può avere sulla salute sono ancora fonte di studi controversi. C’è chi afferma nel modo più assoluto che l’olio di palma fa male e lo demonizza senza possibilità di appello vista l’elevata presenza di acidi grassi saturi, che innalzano il colesterolo ematico e favoriscono così l’insorgenza di disturbi cardiovascolari. Al contrario, c’è poi chi pone l’accento, esaltandolo positivamente, sull’alto contenuto di vitamina E e carotenoidi. In realtà, la controversia deriva dalla confusione e dalla non chiarezza su quale dei tre tipi di olio si stia parlando. L’olio di palma grezzo, per tutte le sue caratteristiche, non rappresenta di per sé un grosso rischio per la salute di cuore e arterie o per il problema di sovrappeso e obesità. Purtroppo, però, quello che viene usato dalle industrie alimentari non è questo, ma il suo equivalente raffinato che, come già detto, ha ormai perso tutte le sue sostanze benefiche. I grassi non vanno del tutto eliminati dalla dieta: in una corretta alimentazione dovrebbero apportare circa il 30% delle kcal totali, di cui il 7-10% rappresentati proprio da quelli saturi. Il punto principale è che spesso ne assumiamo più del necessario e in maniera anche inconsapevole, proprio perché l’olio di palma è contenuto in moltissimi prodotti di uso quotidiano. Scopri Come si ottiene l’olio di palma raffinato e quali sono i rischi scientificamente provati Cosa possiamo fare quindi? Cerchiamo di fare acquisti più intelligenti, passando al vaglio al meglio le etichette di ciò che stiamo per comprare, riducendo quanto più possibile o eliminando l’uso di quelli contenenti olio di palma e sostituendo, quindi, snack e spuntini con frutta e verdura di stagione: 1 biscotto è formato da almeno 10 ingredienti diversi, più o meno salutari, più o meno grassi; 1 mela è sempre al 100% fatta solo da mela. Aggiornamenti sull’olio di palma Un recente studio dell’EFSA ha messo in luce che la raffinazione dell’olio di palma produce alcune sostanze cancerogene e potenzialmente tossiche per l’organismo. Proprio a seguito di studi come questo, diverse aziende nel settore alimentare (come ad esempio i prodotti a marchio coop) hanno deciso di ritirare dal mercato prodotti contenenti olio di palma raffinato in quanto ritenuti pericolosi per la salute. Come riconoscere l’olio di palma in etichetta Quando andate al supermercato, per essere sicuri di non acquistare prodotti contenenti olio di palma, è bene imparare a leggere attentamente le etichette degli alimenti. Fortunatamente dalla fine del 2014, una normativa europea impone trasparenza sulle etichette alimentari. La normativa prevede di sostituire la più generica e fuorviante voce “oli vegetali” o “grassi vegetali” in una dicitura più chiara ed esaustiva. Possiamo trovare quindi sulle etichette le voci “olio vegetale di palma” (oppure “oli vegetali di palma, colza, ecc..) o semplicemente “olio di palma“, le quali informano chiaramente il consumatore sulla presenza di questo elemento.

Tutta la verità sull’olio di palma. Fa male? Dobbiamo smettere di usarlo? La sua coltivazione è insostenibile per il Pianeta? Facciamo il punto su uno degli ingredienti più criticati dei nostri cibi industriali, scrive Alice Pace, Giornalista scientifica, su "Wired" l'8 maggio 2015. Fa male. Rovina il nostro sistema cardiocircolatorio. Provoca il diabete. Forse è anche cancerogeno. Le accuse contro l’olio di palma, un grasso vegetale estratto dalle drupe (frutti simili alle olive) di alcune varietà di palme e molto presente nei nostri consumi alimentari, mettono paura. Lo ritroviamo in una lunghissima lista nera di biscotti e merendine del supermercato, nelle farciture dei dolci confezionati e nelle creme spalmabili di cui siamo ghiotti sin da bambini, in quasi tutti i cibi pronti e persino nei prodotti per la prima infanzia. Non bastasse, sarebbe anche responsabile di una feroce deforestazione a favore della monocoltura intensiva della palma, e metterebbe a repentaglio interi ecosistemi e la sopravvivenza di molte specie animali del Borneo e di Sumatra. Insomma, un vero e proprio killer per la salute e l’ambiente, che a dispetto di tutto è sulla lista degli ingredienti di moltissimi dei marchi sponsor del nostro Expo, quello che dovrebbe nutrire il Pianeta. Ma è proprio tutto vero? Non completamente. In realtà il quadro disegnato dagli scienziati, almeno su alcuni aspetti, è decisamente ridimensionato. Ecco qualche punto per iniziare a fare chiarezza.

Perché si usa. Chiunque abbia messo le mani in pasta per preparare una torta se ne sarà reso conto: nella maggior parte delle ricette dei dolci da forno, oltre allo zucchero, è necessario aggiungere una certa quantità di sostanze grasse: olio, burro, a seconda della preparazione. Nel caso dei prodotti da forno, così come nelle creme, i grassi che regalano una miglior struttura e consistenza al prodotto sono i grassi saturi, cioè quelli semisolidi come il burro, molto meno gli oli vegetali, che sono insaturi e liquidi. L’olio di palma, pur essendo di origine vegetale, rappresenta un’eccezione, poiché ha una composizione in acidi grassi più simile al burro che agli altri grassi vegetali: è infatti composto essenzialmente da grassi saturi (palmitico, stearico e laurico). Di conseguenza ben si presta, per le sue proprietà chimiche, a sostituirlo nelle preparazioni industriali. Perché? Innanzitutto, perché ha un costo nettamente inferiore. In secondo luogo, perché è praticamente insapore, e aggiunto alle preparazioni non ne altera la gradevolezza. Inoltre, rispetto al burro garantisce una conservabilità maggiore dei prodotti, per la sua maggior resistenza alla temperatura e all’irrancidimento. Il suo ingresso massiccio tra i nostri cibi è avvenuto in seguito all’inasprimento delle normative dell’Organizzazione mondiale della sanità sui grassi idrogenati, come le margarine, una trasformazione degli oli vegetali inizialmente impiegata come ripiego al burro, ma reputata subito nociva su vari fronti della salute. Se ora ci ritroviamo a consumare olio di palma, quindi, è anche per evitare che nei nostri alimenti ci fosse di peggio.

Fa male? Dipende da quanto ne consumiamo. Trattandosi di un grasso saturo, va considerato esattamente come tutti gli altri grassi saturi: pensiamo per esempio al burro o allo strutto. “Che queste sostanze vadano consumate in modo limitato nella nostra alimentazione, perché altrimenti fanno ammalare le nostre arterie, è risaputo” ci spiega Laura Rossi, ricercatrice presso il Centro di ricerca per gli alimenti e la nutrizione di Roma e delegata italiana per il Consiglio Fao, “ma l’olio di palma non dovrebbe essere demonizzato in quanto tale”. Significa che sì, è corretta l’osservazione nutrizionale che dice di limitarne il consumo. Quello che però è sbagliato è sostenere che altri grassi, come il burro, non facciano male mentre l’olio di palma sì: “Ciò che è correlato a un aumento del rischio cardiovascolare non è in questo caso la fonte, ma l’eccesso di grassi saturi, che andrebbero invece tenuti sotto controllo”. In sintesi: non possiamo continuare a pensare che la merendina industriale (fatta con l’olio di palma) sia per forza cattiva, mentre la crostata fatta in casa dalla mamma (col burro) sia per forza buona. Perché, di fatto, sono sia buone quanto cattive entrambe, e con nessuna delle due si dovrebbe eccedere nelle quantità. Una soglia accettabile? Quella del 10% massimo sul totale delle calorie giornaliere. Una quota che comprende però tutti i grassi saturi, sia quelli di origine vegetale che animale, non solo quelli dell’olio di palma. Perché di fatto, in entrambi i casi, gli effetti sul corpo sono gli stessi.

Colesterolo. Se è vero che, a differenza dei grassi di derivazione animale, l’olio di palma non contiene colesterolo, è vero anche che i principali acidi grassi imputati dell’aumento del colesterolo ematico sono proprio quelli saturi, tra cui quello palmitico, il miristico e il laurico, due dei quali sono contenuti nell’olio di palma. Cosa dice nello specifico la letteratura scientifica? Ciò che emerge finora è un quadro non del tutto definito. Da uno dei lavori più recenti, promosso dall’Istituto Mario Negri (e che consiste nella revisione di 51 studi), è emerso come diete ricche di olio di palma e acido stearico possono aumentare il livello di colesterolo totale più di quanto non accada in diete ricche di altri acidi grassi saturi. Allo stesso tempo, non è stata però registrata una variazione significativa sui valori di colesterolo cattivo (il cosiddetto Ldl). Anche se la ricerca sul fronte è ancora aperta.

Cancro. Sulle accuse di cancerogenicità, invece, non troviamo alcun riscontro nella letteratura scientifica che comprovi la correlazione diretta tra olio di palma e l’induzione di tumori. Fino a prova contraria, quindi, si tratta di accuse infondate, o che confondono l’olio di palma con altre sostanze. Sappiamo piuttosto che l’obesità, che spesso è sì legata a un consumo eccessivo di grassi saturi, può essere correlata a un aumento nell’incidenza di alcuni tipi di cancro: “Ma qui l’effetto è legato all’obesità, non all’olio di palma in sé” precisa Rossi. E una persona può essere obesa anche se consuma altri tipi di grasso.

Diabete. Più macchinoso il discorso sul diabete. Solo qualche giorno fa uno studio promosso dalla Società italiana di diabetologia veniva ripreso dai media come un sonoro campanello d’allarme nei confronti dell’olio incriminato. “L’olio di palma può aprire la strada al diabete di tipo 2”, il messaggio lanciato. Anche se, in realtà, la ricerca in questione non lo dimostra. La notizia riguarda infatti uno studio sperimentale fatto in vitro, dove gli scienziati hanno perfuso cellule di pancreas con del palmitato – che, ricordiamo, non è olio di palma, ma uno dei suoi componenti – e le cellule hanno registrato un danno. “Ma questo non significa assolutamente che mangiare l’olio di palma faccia venire il diabete 2”, chiarisce sempre Rossi, “perché quella situazione sperimentale, anche se fatta molto bene, non può essere assolutamente tradotta in un effetto diretto sull’organismo”. Il discorso sull’alimentazione, insomma, è ben diverso dal prendere una molecola e una cellula e vedere che succede, e non è possibile trasformare in un messaggio sull’uomo ciò che ancora è lontanissimo dall’uomo, come questo test. In generale, va sottolineato che contro l’olio di palma non si registrano (perlomeno a oggi) posizioni ufficiali da parte dell’Organizzazione mondiale della sanità, dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare, del ministero della Salute, né dell’Istituto superiore di sanità: gli organi preposti a vigilare sulla nostra salute.

Gli effetti collaterali sull’ambiente. Ci sono, e sono innegabili. La coltivazione delle palme da olio, che si concentra nel Sud-Est asiatico (in particolare in Indonesia e Malesia) ha comportato e comporta tutt’oggi un massiccio abbattimento delle foreste tropicali per far spazio alle nuove piantagioni. Le conseguenze si misurano in termini di biodiversità (connessi alla distruzione dell’habitat di numerose specie, tra cui l’orango), ma anche di ripercussioni come l’impennata di gas serra nell’atmosfera e lo stravolgimento dell’assetto idrogeologico del territorio. Ed è forse proprio in ragione del suo forte impatto ambientale che, per dare forza alle campagne contro la sua produzione, si è calcata la mano nel criticarlo dal punto di vista nutrizionale. C’è però da chiedersi: cosa succederebbe se al posto delle palme, ci trovassimo a dover a spremere lo stesso volume d’olio da altre piante (tutte, peraltro, meno dibattute)? La risposta è che occuperemmo ancora più spazio, poiché la produttività delle palme da olio è altissima rispetto alle alternative possibili. Basti pensare che da un ettaro di palme da olio si ottengono quasi cinque volte l’olio che produce un ettaro coltivato a piante di arachidi, e ben sette volte quello di un ettaro di girasoli (come faceva notare anche Strade in risposta all’approccio semplicistico tenuto da Report in un servizio di qualche sera fa). Senza contare tutte le conseguenze che l’estensione delle colture comporterebbe sui consumi d’acqua, di fertilizzanti, di pesticidi. O se volessimo, come chiedono alcuni, sostituirlo col burro: siamo consapevoli che l’impatto ambientale sarebbe ancora più drastico? Mettere il problema in prospettiva è purtroppo tutt’altro che semplice e sicuramente per venirne a capo sarà necessario pretendere maggiore trasparenza da parte delle aziende e dal commercio locale. Per ora l’unico, piccolo passo avanti si è compiuto con l’istituzione di regole che, anche se in grosso ritardo, sono indirizzate a tutelare la produzione sostenibile. Come quelle stabilite dalla Roundtable on Sustainable Palm Oil, un organo tenuto a certificare l’olio prodotto (appunto) in modalità più rispettosa dell’ambiente. Uno strumento ancora molto debole e arbitrario, probabilmente a rischio di strumentalizzazione, ma che per ora segna la via più percorribile. Nel frattempo, va detto che a dispetto degli sforzi del Wwf, Greenpeace, e di iniziative locali, come quella promossa dalFatto Alimentare (e portata in Parlamento da alcuni esponenti del Movimento 5 Stelle), che chiede l’abolizione dell’olio di palma dal mercato del cibo, gli enti internazionali deputati al controllo, come la Fao, non si sono (a oggi) ancora espressi negativamente sulla questione, se non spingendo verso un’agricoltura più sostenibile.

Una storia di diritti violati. Al di là del dibattito scientifico, possiamo anche decidere di attaccare la produzione dell’olio di palma, e di boicottarlo, anche esclusivamente per motivi etici, in conseguenza alle ripercussioni della monocoltura sulle popolazioni locali. Si racconta di espropriazione dei contadini dalle proprie terre, di deportazione di interi villaggi, di sfruttamento, di totale assenza di condizioni di sicurezza sull’ambiente di lavoro.

Una lotta giusta e sacrosanta. Ma forse un po’ ingenua. Già, perché presuppone che se anziché di palme si trattasse di girasoli, barbabietole, caffè, tabacco o di qualsiasi altro prodotto, il trattamento sarebbe diverso, forse migliore. Come se il rispetto delle leggi e le politiche di non-sfruttamento dipendessero dal prodotto, anziché dalle persone che vi si nascondono dietro.

Contrordine della scienza: "L'olio di palma non fa male". Durante un convengo alla Federico II di Napoli l'intervento del professor Marco Silano dell'Istituto Superiore di Sanità: "Nessuna tossicità", scrive Rachele Nenzi, Venerdì 17/02/2017, su "Il Giornale". Contrordine compagni, l'Olio di Palma fa bene. Dopo anni di guerre commerciali e bugie varie, ora un nuovo punto a favore della palma lo fa segnare un convegno organizzato dall'Università degli Studi Federico II di Napoli al dipartimento di Farmacia. Nell'occasione il professor Marco Silano dell'Istituto Superiore di Sanità ha spiegato come tempo fa l'Iss abbia dato un parere sull'olio di palma, spiegando che "l'ingrediente non ha alcuna sostanza tossica di per sé". "L'olio di palma - ha spiegato all'Adnkronos Silano - contiene una quantità di acidi grassi saturi maggiore rispetto agli altri olii vegetali, al posto dei quali viene utilizzato (l'olio di semi di girasole, ad esempio, contiene il 15% di grassi saturi)". E troppi grassi aumentano il "rischio cardiovascolare" certo. Ma è anche vero che l'olio di palma "può sostituire olii vegetali che hanno ancor più acidi grassi saturi (l'olio di cocco arriva all'80%, per esempio) e ha permesso eliminazione dei acidi grassi idrogenati trans, che hanno un effetto dannosissimo sulla salute cardiovascolare". Inoltre, spiega il professore dell'Iss, "esistono due grossi gruppi di acidi grassi saturi: quelli presenti negli alimenti non trasformati (carne di vario genere, formaggi, latte e uova) e quelli contenuti nei prodotti della trasformazione industriale, a cui è addizionato l'olio di palma". Quindi la cosa importante non è eliminare l'olio di palma, ma limitarsi nell'assunzione di acidi grassi (quindi anche quelli che vengono dalla carne e dalle uova). Gli acidi grassi saturi non dovrebbero superare il 10% nella dieta giornaliera. Quindi "la criticità rientra nella quantità di acidi grassi saturi che compongono la dieta di una persona. Non basta eliminare un singolo prodotto, ma va valutata l'intera dieta". Certo, un problema esiste per quanto riguarda i "contaminanti che si formano durante i processi di raffinazione", quando l'olio viene raffinato nei processi industriali. Rischi che però le aziende stanno affrontando e che potrebbe portare a breve all'eliminazione di questi contaminati.

L'olio di palma non fa male": ecco perché, scrive "Adnkronos" il 15/02/2017. Giù le mani dall'olio di palma. Ci ha pensato l'Università degli studi Federico II di Napoli a riabilitare l'olio vegetale, nell'ambito di un convegno tenutosi recentemente presso il dipartimento di Farmacia dell'ateneo campano al quale ha preso parte, tra gli altri, il professor Marco Silano dell'Istituto Superiore di Sanità. All'AdnKronos Silano spiega perché, secondo l'ISS, "non sussistono ragioni per cui l'uso dell'olio di palma debba essere proibito". Su richiesta del Ministero della Salute e dopo "un'attenta revisione di tutti i dati messi a disposizione dalla letteratura scientifica, abbiamo redatto un parere sulla eventuale tossicità dell'olio di palma", afferma lo studioso. E la conclusione a cui l'ISS è approdato è che "l'ingrediente olio di palma non ha alcuna sostanza tossica di per sé".

Esiste però una criticità. L'olio di palma - prosegue Silano - contiene "una quantità di acidi grassi saturi maggiore rispetto agli altri olii vegetali, al posto dei quali viene utilizzato (l'olio di semi di girasole, ad esempio, contiene il 15% di grassi saturi)". Il consumo di acidi grassi saturi, sottolinea l'esperto, "è associato in letteratura a un aumentato del rischio cardiovascolare", che può portare a "infarti, arteriosclerosi e ictus". In realtà è altrettanto vero che l'olio di palma "può sostituire olii vegetali che hanno ancor più acidi grassi saturi (l'olio di cocco arriva all'80%, per esempio) e ha permesso eliminazione dei acidi grassi idrogenati trans, che hanno un effetto dannosissimo sulla salute cardiovascolare". Silano ricorda che "esistono due grossi gruppi di acidi grassi saturi: quelli presenti negli alimenti non trasformati (carne di vario genere, formaggi, latte e uova) e quelli contenuti nei prodotti della trasformazione industriale, a cui è addizionato l'olio di palma". Ciò che il consumatore deve fare, sostiene il professore, è "regolarsi in maniera tale che acidi grassi saturi non superino il 10% nella dieta giornaliera (per quanto riguarda la popolazione generale)". Quello che conta, infatti, "non è il singolo alimento ma il pattern nutrizionale che si segue. Ovviamente sta al singolo individuo fare attenzione". Secondo Silano "la criticità dell'olio di palma rientra nella quantità di acidi grassi saturi che compongono la dieta di una persona. Non basta eliminare un singolo prodotto, ma va valutata l'intera dieta". E se per gli adulti il problema non sussiste, "la categoria a rischio è quella dei bambini dai 3 ai 10 anni, che assumono più del 10% raccomandato". Un'altra criticità - sottolinea il professore - è legata ai "contaminanti che si formano durante i processi di raffinazione, ovvero quando l'olio viene trattato a una temperatura superiore ai 200 gradi". Queste sostanze, però, "non sono intrinseche all'olio, ma si presentano durante questi processi". Ad ogni modo "l'industria alimentare sta affrontando questo problema e sta cercando di individuare processi di raffinazione che non producano questi contaminanti", rassicura Silano.

Snack con olio di palma, studio: non sempre contengono più grassi saturi, scrive il 22 Maggio 2017 "Il Giornali di Sicilia". Non è vero che dove c'è olio di palma ci sono sempre più grassi saturi. A rivelarlo è l’ultimo studio realizzato dalla piattaforma Campagne Liberali, che ha testato la composizione di 25 prodotti di grandi marche destinati soprattutto a bambini e adolescenti, snack e merendine venduti sui principali scaffali della Gdo, che hanno eliminato l’olio di palma dopo le pressioni mediatiche portate avanti da organizzazioni non governative e attivisti, sostituendolo con altri ingredienti. Analizzando le etichette e confrontando le tabelle nutrizionali e la lista degli ingredienti, in particolare i grassi saturi e la tipologia di oli e grassi impiegati, lo studio mette in evidenza che in molti di questi prodotti di marca la percentuale di grassi saturi è comunque superiore o simile rispetto ad altri prodotti analoghi che lo utilizzano. In un caso specifico, secondo la ricerca, a fronte della sostituzione dell’olio di palma con altri oli vegetali, la presenza di grassi saturi è addirittura aumentata di 5 grammi rispetto alla precedente composizione del medesimo prodotto. Obiettivo dello studio «è aprire una riflessione sulle confezioni dei prodotti alimentari che riportano diciture apparentemente salutistiche, come il 'senza olio di palmà, spesso fuorvianti per il consumatore». «L'assenza di olio di palma, sottolinea la ricerca, ben evidenziata sulle confezioni e nell’ambito di diverse campagne di comunicazione, è stata associata erroneamente a una salubrità maggiore dei prodotti». Tuttavia l’analisi delle tabelle nutrizionali - conclude Campagne Liberali- dimostra che in alcuni casi questo non corrisponde alla realtà, soprattutto nei prodotti più gustosi e attraenti per i giovani consumatori».

L'olio di palma e gli estremisti dell'alimentazione, scrive Nicola Porro, Sabato 20/05/2017, su "Il Giornale". Avere un atteggiamento laico nei confronti della religione alimentare comporta aspre critiche. Ho recentemente scritto di come la battaglia contro il consumo dello zucchero e dell'olio di palma sia diventata una nuova battaglia dogmatica dei talebani alimentari. Per la verità con qualche anno di ritardo rispetto al resto del mondo. Vorrei fornire qualche elemento a coloro che abbiano intenzione di non assecondare la crociata.

LA PRECAUZIONE UCCIDE. Con lo stesso metro di giudizio per il quale palma e zuccheri potenzialmente uccidono (giudizio di marketing e non scientifico), si dovrebbe bandire la carne rossa dai banchi delle macelleria (si ricorderà la valutazione del rischio sulla «probabile» cancerogenicità di un paio di anni fa), si dovrebbe vietare la frutta secca (può contenere micotossine cancerogene), si dovrebbero vietare la frutta e la verdura fresca dai banchi dei supermercati e da tutte le bancarelle (perché possono contenere residui di pesticidi cancerogeni o di contaminazioni microbiologiche), si dovrebbero vietare le uova, soprattutto quelle del contadino, perché possono essere contaminate da salmonella, i pesci come tonno e spada perché possono contenere mercurio, la pasta per il «glifosato» e la lista potrebbe continuare. Il rischio è che ad uccidere più che gli alimenti, diventino le precauzioni. Le stesse precauzioni che incredibilmente non prendiamo quando ci facciamo affascinare dalla moda dello street food o delle bancarelle dei contadini. Per carità, magari favolose. Ma certamente sottoposte a controlli decisamente inferiori a quelli della grande distribuzione o della produzione industriale.

TUTTO NASCE DA UN COMUNICATO. Un mito, o una mezza bufala, spesso nasce da una mezza verità. Ben costruita da una sapiente comunicazione. La relazione tra vaccini e autismo, totalmente falsa, nacque da una ricerca, poi cancellata per truffa, su un'importante rivista scientifica mondiale. Sull'olio di palma i talebani fanno nascere tutto da due righe dell'Efsa (autorità europea per la sicurezza alimentare), ricavate dalla sintesi di uno studio molto più approfondito del maggio 2016. Eccole: «Esters of 3- and 2-MCPD and glycidyl esters were found at the highest levels in palm oil/fat, but most vegetable oil/fats contain substantial quantities». Per semplificare, si tratta di sostanze derivanti dalla lavorazione degli oli vegetali, che sono considerate cancerogene. Attenzione, si tratta, come sottolineano all'Efsa, di una «valutazione del rischio» che, di fatto, non corrisponde al rischio reale ma ad una soglia «scientifica» che può essere anche centinaia/migliaia di volte inferiore rispetto all'esposizione reale del rischio stesso e ai suoi danni correlati, a cui si è esposti per esempio attraverso l'alimentazione. Inoltre essa dipende dalla lavorazione più che dall'essenza dell'olio. Non c'è che dire: l'Efsa ha un ufficio stampa che ha trovato la chiave giusta per finire sui giornali. Difficile leggere l'intero rapporto.

QUEI MERCATISTI DEL «FATTO QUOTIDIANO». In base a queste tre righe è montata la campagna contro l'olio di palma. Ma non tutti si accodano. Vi cito un resoconto realizzato dal Fatto quotidiano (così non diranno che è roba del Giornale e delle multinazionali, mi auguro) e che potete trovare qua: clicca qui. Vi cito alcuni passaggi: «Non esistono evidenze scientifiche di specifici effetti sulla salute, con particolare riferimento al rischio cancro, del consumo moderato di olio di palma. Al pari di altri elementi ricchi di acidi grassi saturi». Come l'olio di cocco o il burro. Sono le conclusioni di un report pubblicato sulla rivista International Journal of Food Sciences and Nutrition e sottoscritto da 24 esperti italiani, 16 dei quali in rappresentanza di società scientifiche nazionali. E ancora. Marco Silano, direttore del reparto alimentazione, nutrizione e salute del Dipartimento di sanità pubblica veterinaria e sicurezza alimentare dell'Istituto superiore di sanità, dice: «Su richiesta del ministero della Salute, e dopo un'attenta revisione di tutti i dati messi a disposizione dalla letteratura scientifica, l'Iss ha redatto un parere sulle conseguenze per la salute dell'utilizzo dell'olio di palma come ingrediente alimentare. E la conclusione è che l'olio di palma non contiene alcuna sostanza di per sé tossica». Se voleste approfondire, lo studio è pubblico: clicca qui.

LA NUTELLA VINCE CONTRO LA CREMA BIO. Siccome in questa nostra battaglia controvento ce ne freghiamo di fare nomi e cognomi, vi citiamo una singolare gara che ha visto come protagonista la Nutella della Ferrero. I consumatori tedeschi hanno fatto le pulci ad una dozzina di creme spalmabili. Ebbene, Nutella ha di gran lunga battuto la concorrente italiana, e biologica, che al posto dell'olio di palma contiene olio di semi di girasole, sotto il profilo proprio dei contaminanti contenuti nella crema. Trovate tutto a questo indirizzo: clicca qui. Il punto, infatti, è sempre quello di valutare l'alternativa. Con cosa sostituire l'olio di palma, i talebani lo dicono? I sostituti rischiano di essere potenzialmente peggiori del sostituito. Nessuno raccomanda di ingozzarsi di olio di palma, come di pasta, zucchero, farine bianche o riso in bianco. Non sono un appassionato dell'olio di palma. Preferisco di gran lunga l'extravergine di oliva, che uso per le fritture, ma anche per fare i dolci. Se vogliamo condurre una battaglia facciamola: ma per difendere il nostro gusto, le nostre tradizioni e i nostri sapori. Che non sono compromessi se ci compriamo un barattolo di Nutella, ci beviamo una Coca Cola e ci ingurgitiamo un Big Mac. Sono convinto che in materia alimentare il buon senso c'è, ma se ne sta nascosto, per paura del senso comune.

Sì o no all'olio di palma: ora la sfida è a colpi di spot. Mentre i big dell'industria pubblicizzano i loro prodotti "senza", la Ferrero rivendica in tv la scelta di usarlo: "Con noi Wwf e Greenpeace", scrive Paolo Griseri il 28 ottobre 2016 su "La Repubblica". Il tecnico con lo spolverino rosso sbuca dalla piantagione e garantisce: «Come tutti gli oli vegetali di qualità, il nostro olio di palma è sicuro, proviene da fonti sostenibili ed è lavorato a temperature controllate». Una bestemmia per i seguaci di quella che l’ad di Ferrero Italia, Alessandro d’Este, chiama “l’ideologia del senza”. Per i suoi 70 anni la multinazionale della Nutella si regala lo sfizio di andare contro corrente con uno spot pro olio di palma. Mentre altri produttori, come Balocco e Barilla, aumentano i fatturati proprio annunciando alla clientela che i loro prodotti ne sono privi. È scoppiata la guerra della palma. E a metterci il carico da novanta arriva al convegno organizzato a Milano da Ferrero il viceministro dell’agricoltura, Andrea Olivero. Che dice, senza peli sulla lingua: «Esiste un terrorismo della disinformazione che fa leva sull’ignoranza e ha dietro interessi economici precisi». Complotto? Non è la prima volta che se ne parla. Sulla battaglia tra le lobbies degli oli ha scritto un libro Alain Rival, direttore per il sud-est asiatico del Cirad, l’organismo francese per lo sviluppo e la cooperazione internazionale. «La polemica contro l’olio di palma - sostiene Rival - nasce negli anni Sessanta negli Usa. Si fece credere all’epoca che tutti gli oli derivati da prodotti dei paesi tropicali fossero cattivi». Così dietro la polemica ci sarebbero «in realtà le lobbies della soia e della colza». Uno scontro in piena regola tra i coltivatori europei e quelli indonesiani e malesi dove cresce la palma. Con episodi curiosi: «Per due volte - dice Rival - la lobby della soia ha provato a far approvare al parlamento francese l’introduzione di dazi doganali sull’olio di palma. Ma Malesia e Indonesia hanno fatto capire che se l’Europa avesse alzato i dazi avrebbero trasferito alla Boeing le commesse di Airbus. E il provvedimento è rientrato». Si gioca pesante, insomma. I contrari all’olio di palma, invitati al convegno milanese, replicano che «ogni ragazzo mangia in media 30-40 grammi di olio di palma al giorno» e che si tratta «di un ingrediente che contiene sostanze pericolose». Ferrero ribatte che «stiamo continuamente migliorando la qualità dei nostri prodotti» e che «sarebbe utile avere lo stesso tipo di analisi approfondita anche sui prodotti che non contengono l’olio di palma». Quanto alla polemica sulla deforestazione legata alla coltivazione della palma, Ferrero ha stretto un patto con Greenpeace e Wwf per produrre l’olio senza turbare gli equilibri ambientali. La rappresentante di Greanpeace al convegno conferma «l’impegno comune». Ma non basterà a spegnere la polemica. Almeno fino a quando la scritta “non contiene olio di palma”, continuerà a far salire i fatturati.

Mulino Bianco e Ferrero, via l’olio di palma da biscotti e merendine, ma le diciture non sempre sono in regola. Il commento dell’avvocato Dario Dongo il 27 marzo 2017 su "Il fatto Alimentare". Kinder Brioss ciliegia e cereali di Ferrero riporta correttamente la comparazione con la media delle merendine in commercio. Si allarga la schiera delle industrie che a vario titolo rivendicano sulle etichette le proprietà nutrizionali di prodotti dolciari senza olio di palma. Dopo Di Leo e Galbusera è arrivata Barilla con i marchi Mulino Bianco e Pavesi, e in coda troviamo anche Ferrero con alcuni prodotti della linea Kinder Brioss alla frutta. Ma questi “claims” comparativi che vantano la minore percentuale di grassi non sono sempre in regola. “La merendina Ferrero Brioss ciliegia e cereali – spiega l’avvocato Dario Dongo esperto di diritto alimentare – pur senza declamare l’assenza di olio di palma sull’etichetta come fanno tanti altri produttori, evidenzia in modo corretto la riduzione dei grassi (- 55%) rispetto alla media delle merendine più vendute in Italia (vedi foto in alto).” La comparazione è perciò eseguita sulla base dei dati elaborati da Aidepi (associazione di categoria che raggruppa i principali produttori di pasta e prodotti da forno), come viene anche riportato in una citazione sull’etichetta. Questa riduzione è dovuta al ripensamento di Ferrero, che con questa linea di merendine ha iniziato a utilizzare olio di girasole al posto dell’olio di palma tanto caro all’azienda piemontese.

Diversa è la posizione di Barilla che con i marchi Mulino Bianco e Pavesi è ormai schierata da quasi un anno sul fronte ‘palm oil free‘.  Il colosso di Parma propone sulla confezione dei biscotti due diciture. La prima evidenzia l’assenza di olio di palma (vedi foto di copertina e foto in basso), la seconda propone un’ardita comparazione nutrizionale del biscotto con la ‘precedente ricetta’ che sino a pochi mesi fa era preparato con olio di palma. Barilla evidenzia così la differenza tra i biscotti Macine preparati sino a un anno con olio di palma e quelli nuovi nobilitati dall’olio di girasole.  Encomiabile il risultato, dubitevole il paragone che non risulta conforme alle previsioni del regolamento "claims". Non trattandosi di un’impresa artigiana, è difficile pensare a una banale svista tra l’altro ricorrente. Si può forse ipotizzare un “cattivo consiglio” dei consulenti, anche se la violazione delle regole è abbastanza macroscopica. Forse questa volta il marketing aziendale ha preso il sopravvento rispetto ai consigli dell’ufficio legale, con la complicità di sanzioni davvero ridicole che possono derivare. Si conferma così, con un esempio significativo, l’assoluta inadeguatezza del decreto legislativo recante sanzioni per le violazioni del reg. (CE) 1924/06, su "nutrition & health claims". Sanzioni onerose per le piccole imprese, ma non certo deterrenti per Big Food.

Olio di palma e marketing: è questione di coerenza. Ferrero lo sa, Barilla no! Scrive "Campagne Liberali" il 6 dicembre 2016. Se non spendi milioni di euro in pubblicità non esisti sul mercato dei biscotti e delle merendine. Questo è stato per anni il “modus operandi” delle aziende alimentari. Ma le tattiche di oggi sono ben diverse da quelle viste in passato e sono diventate ben più eccentriche quando non controverse. Recentemente hanno partorito la formula “senza olio di palma” facendola diventare il mantra di chi cerca di lucrare a danno della verità scientifica e della ragione. Prendiamo due chiari esempi in campo: Ferrero e Barilla.

Ferrero ha chiaramente espresso la sua opinione contraria all’uso massiccio dell’etichetta anti-palma, dimostrando di essere sia dalla parte della scienza sia di saper utilizzare il marketing in modo vincente. Ne è infatti emersa come l’azienda più coerente di tutte, grazie ad un importante messaggio per i suoi consumatori e ad una comunicazione trasparente e autentica. Non solo, questa strategia ha ampi margini di successo a lungo termine se accompagnata dalla sostanza: l’azienda infatti sta investendo numerose risorse per migliorare il proprio prodotto e utilizzare ingrediente sostenibili, con il plauso di associazioni tutt’altro che accondiscendenti con le multinazionali come Greenpeace e il WWF.

Un approccio opposto è quello utilizzato da un’altra major dell’alimentare italiano: Barilla. In una recente intervista pubblicata su Food Navigator, un rappresentante del gruppo ha dichiarato che: “l’uso dell’etichetta "senza olio di palma" è conseguenza di un impegno a lungo termine preso dall’azienda per migliorare il profilo nutrizionale dei suoi prodotti”. Obiettivamente non suona molto onesto. La loro strategia, come testimoniano i fatti, non ha nulla a che vedere con il lungo termine, ma rappresenta il tentativo di acquisire più visibilità nel breve periodo e recuperare terreno sul mercato. Dopo aver contribuito per mesi come membro fondatore dell’AIDEPI, associazione delle industrie che producono pasta e prodotti da forno, alla campagna pro olio di palma sulle televisioni e i giornali, Barilla ha compiuto improvvisamente una virata a 180 gradi. Oggi è l’azienda leader del trend “senza olio di palma è meglio”. Un atteggiamento incoerente se non addirittura opportunistico che ha contribuito alla diffusione della grande bufala contro l’olio di palma. Dunque se è assodato il fatto che Barilla stia portando avanti questa strategia solamente per ragioni di marketing restano alcune considerazioni sui suoi prodotti. Con quali ingredienti Barilla sta rimpiazzando l’olio di palma? Olio di mais e olio di semi di girasole che non solo costano il doppio dell’olio di palma, e ne vedremo il riflesso negativo sui prezzi al dettaglio, ma non sembrano neanche essere opzioni più salutari. Un fatto ampiamente dimostrato da uno studio dell’associazione di consumatori più importante di Germania, la Stiftung Warentest. Questi due oli, che non sono affatto più salutari del palma, hanno anche un impatto ambientale peggiore come dimostrato da fattori quali resa per ettaro, utilizzo dell’energia e consumo del suolo. La domanda allora da porre ai consumatori italiani è: preferite chi agisce con coerenza e seguendo appurati criteri scientifici oppure chi cambia continuamente a seconda del vento che tira per mere tattiche pubblicitarie? Ricordiamo che oggi il bersaglio è l’olio di palma, domani sarà un altro ingrediente. E allora Barilla come si comporterà? Seguirà anche stavolta la brigata contro la scienza?

Olio di palma dal sito della Ferrero. L'olio estratto dal frutto della palma, generalmente conosciuto come "olio di palma", si ottiene spremendo la polpa del frutto della palma (Elaeis Guineensis), un albero che cresce nelle aree equatoriali. Questo frutto tropicale è di colore rossastro e ha le dimensioni di una grossa oliva.

La natura ha un ruolo fondamentale nella storia dell'olio di palma, poiché questi alberi crescono rigogliosi in presenza costante di sole, temperature tropicali e precipitazioni equamente distribuite nell'arco dell'anno. In termini di rendimento, la coltivazione di queste palme necessita di una superficie di terreno inferiore rispetto alle piante da cui si ricavano gli altri oli vegetali. Le palme da olio, infatti, producono in media 3,7 tonnellate di olio per ettaro mentre altre coltivazioni, come per esempio la soia, il girasole e la colza, ne producono appena 0,7 tonnellate per ettaro. Grazie al maggiore rendimento, dunque, le coltivazioni di palma da olio sono in grado di soddisfare la domanda della crescente popolazione mondiale.

L'uso dell'olio di palma per scopi alimentari risale a oltre 10.000 anni fa. In Asia sudorientale, Africa e parte del Brasile, l'olio di palma è largamente utilizzato anche in cucina. Nei paesi occidentali, invece, l'olio di palma si utilizza principalmente in forma raffinata, come ingrediente naturale in molti prodotti alimentari tra cui margarina, dolci, gelati e prodotti da forno.

L'olio di palma viene utilizzato in Nutella®perché conferisce al prodotto la sua consistenza cremosa e perché esalta il gusto degli altri ingredienti. Quest'olio, infatti, possiede caratteristiche specifiche che, dopo il processo di raffinazione, gli consentono di avere odore e fragranza neutri. Inoltre, è la soluzione migliore per garantire a Nutella® la sua consistenza unica e la sua speciale spalmabilità senza ricorrere al processo di idrogenazione, che creerebbe grassi "trans", nocivi per la salute. L'olio del frutto di palma ha anche un'altra importante funzione: contribuisce a mantenere nel tempo il gusto unico di Nutella® e ad aumentarne la durata di conservazione, grazie a una maggiore resistenza all'ossidazione rispetto agli altri oli vegetali.

Da moltissimo tempo Ferrero conosce e lavora con estrema cura l'olio del frutto di palma grazie a tecnologie all'avanguardia e una particolare attenzione alla qualità e alla sicurezza. La raccolta avviene in maniera accurata e rispetta tempi ridotti al minimo prima della trasformazione; i processi di lavorazione sono altrettanto attenti e prevedono modalità e trattamenti termici delicati, in grado di contenere al minimo la formazione di contaminanti. I contaminanti termici sono sostanze che si possono manifestare in tutti gli oli e grassi quando sottoposti a temperatura troppo elevata e – in forte concentrazione – possono avere effetti negativi per la salute. Nutella® è un prodotto assolutamente sicuro e già compatibile con le nuove soglie stabilite dalle raccomandazioni EFSA (l'agenzia Europea per la sicurezza degli alimenti) che abbiamo accolto con favore: la salute e la sicurezza sono sempre state la nostra priorità.

L'olio vegetale usato per produrre Nutella® è olio di palma sostenibile, 100% "segregato" certificato RSPO. Questo significa che l'olio di palma usato per Nutella® è tenuto fisicamente separato dall'olio di palma normale lungo tutta la filiera.  La certificazione RSPO ottenuta da Ferrero ha meritato anche il plauso di Richard Holland, direttore della "Market Transformation Initiative" del WWF.

La certificazione ottenuta è solo il primo passo per soddisfare le aspettative dei nostri collaboratori e dei nostri consumatori. A novembre 2013, infatti, abbiamo scelto di aumentare ulteriormente il nostro impegno per un approvvigionamento sostenibile attraverso la Carta Ferrero per l'olio di palma, a garanzia del fatto che l'olio del frutto di palma utilizzato in Nutella® non contribuisce alla deforestazione, all'estinzione di specie, all'elevata emissione di gas serra o alla violazione dei diritti umani. Come ulteriore traguardo, il 17 Novembre 2015 siamo diventati membri del Palm Oil Innovation Group (POIG), iniziativa che ha come obiettivo quello di riformare l'industria dell'olio di palma a partire dagli standard e dagli impegni presi dal RSPO.

Insieme a TFT, un'organizzazione senza scopo di lucro che collabora con noi in qualità di partner tecnico, verifichiamo costantemente cosa accade nelle nostre piantagioni in base ai criteri sociali e ambientali definiti dalla Carta Ferrero. Ogni sei mesi viene poi pubblicato un aggiornamento sulla situazione. A partire da giugno 2015, l'olio del frutto di palma utilizzato in Nutella® e in altri prodotti Ferrero è 100% segregato e proviene da 59 stabilimenti e 249 piantagioni situati in Malesia Peninsulare (74% del totale), Papua Nuova Guinea (17,4%), Malesia Orientale (3,8%), Indonesia (1,7%), Brasile (1,0%) e Isole Salomone (0,1%), secondo i dati sulla tracciabilità forniti dal TFT. Attualmente ci approvvigioniamo da circa 27.510 tra piccole aziende agricole e piccoli coltivatori.

Il nostro impegno per combattere la deforestazione in modo responsabile e documentabile ha beneficiato del sostegno di Greenpeace, che considera Ferrero come una tra le aziende più all'avanguardia al mondo in materia di attuazione delle politiche di "non deforestazione". Nella Palm Oil Scorecard 2016, Greenpeace identifica Ferrero come una delle 2 aziende leader nella valutazione complessiva. I nostri punti di forza sono l'approvvigionamento responsabile e l'approccio proattivo nel riformare la filiera. Inoltre, tra le 14 aziende globali di beni di consumo valutate, ci riconosce come l'unica capace di tracciare fino alla piantagione di origine quasi il 100% dell'olio di palma acquistato.

«Basta complottismi, l’olio di palma non fa male». Un incontro a Montecitorio prova a sfatare i miti sull’ingrediente più discusso. A sentire le aziende interessate non c’è alcun rischio per la salute, anzi. Ma i grillini non ci stanno. «È vergognoso», scrive Marco Sarti il 15 Ottobre 2015 su "L’Inkiesta". «L’isteria di un Paese caduto in un tranello mediatico internazionale potrebbe fare molto male all'industria italiana». Non ci gira troppo attorno Paolo Barilla, vicepresidente della nota azienda italiana e responsabile dell’associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane. Al centro del caso c’è, ormai da tempo, uno dei prodotti più utilizzati dall’industria alimentare e cosmetica del Belpaese. L’olio di palma. Un alimento finito al centro di una ingiustificata demonizzazione, almeno stando a quanto lamentano i suoi difensori. Ne sono convinti alcuni parlamentari, che ieri hanno depositato due risoluzioni per tutelare l’utilizzo dell’olio vegetale più consumato al mondo. I documenti vengono presentati a Montecitorio durante un incontro promosso dalle testate giornalistiche Strade e Formiche. Ci sono i deputati Ilaria Capua, Pierpaolo Vargiu e Dorina Bianchi, la ricercatrice dell’Istituto Mario Negri Elena Fattore, il presidente di Aidepi Paolo Barilla. Tutti parlano di un ingrediente sano, sostenibile, fondamentale per il nostro comparto alimentare. E allora perché tanti dubbi? Lo scorso autunno una raccolta firme che ha raggiunto grande successo chiedeva al ministero della Salute di escludere dalle pubbliche forniture alimenti a base di olio di palma. Richiesta confermata nello stesso periodo da due risoluzioni presentate alla Camera dei deputati da Cinque Stelle e Partito democratico. Per i partecipanti all’incontro “La verità, vi prego, sull’olio di palma” si tratta dell’ennesimo attacco ingiustificato. «In un’Italia che da qualche anno si sta ammalando di complottismo - spiega il direttore di Strade Piercamillo Falasca - adesso è necessaria una battaglia di razionalità». «In un’Italia che da qualche anno si sta ammalando di complottismo - spiega il direttore di Strade Piercamillo Falasca - adesso è necessaria una battaglia di razionalità». Ma di cosa si tratta? La palma da olio è una pianta coltivata in gran parte delle regioni equatoriali della terra. Eppure la Malesia e l’Indonesia detengono il quasi monopolio, producendo l’89 per cento dell’olio estratto dalla spremitura dei suoi frutti. È l’olio vegetale più consumato al mondo. Vale quasi il 40 per cento dell’intera produzione mondiale. Utilizzato nei settori chimico, cosmetico e farmaceutico, l’olio di palma ha soprattutto un ruolo importante nell’industria alimentare (per quanto solo l’11 per cento del prodotto importato in Italia finisca nell’industria dolciaria). Le ragioni della sua diffusione sono diverse. C’è una chiara convenienza economica, ovviamente. Ma non solo. L’alimento si presenta naturalmente allo stato solido e semisolido, come il burro. «A differenza degli altri oli vegetali - si legge nel rapporto presentato a Montecitorio - non ha quindi bisogno di essere portato allo stato solido (margarina) mediante idrogenazione». Ma è anche un prodotto inodore e dal sapore neutro, ottimo per la produzione di dolci. Senza dimenticare l’elevato livello di conservabilità, che permette di aumentare la durata del prodotto finito. Più di ogni altra cosa, spiegano i diretti interessati, è un ingrediente senza alternative. «Il burro è di difficile conservazione e tende a irrancidire e ossidarsi - spiega l’Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane - Le margarine di fatto non sono un’alternativa, visto che contengono olio di palma; l’olio d’oliva non ha la consistenza adatta e tende a condizionare il sapore». In poche ore la polemica si allarga a macchia d’olio (di palma). Il deputato a Cinque Stelle Mirko Busto, esponente della commissione Ambiente, attacca i partecipanti all’incontro. «È vergognoso che alcuni deputati e senatori siano diventati complici dell'Aidepi, l’Associazione delle industrie del dolce e della pasta italiane, nel vano tentativo di convincere l’opinione pubblica sulle fantomatiche qualità dell’olio di palma. È la riprova che questo Parlamento è pieno di burattini che davanti al potere economico delle grandi aziende dimenticano di utilizzare il buon senso per mettere al primo posto i loro interessi personali». Poco dopo replicano anche i Cinque Stelle della commissione Agricoltura. «Sull’olio di palma non c’è nessuna “isteria nazionale” ma solo una maggiore consapevolezza da parte dei consumatori che ora, grazie all’indicazione in etichetta, possono sapere se questo grasso vegetale è presente o meno nei prodotti acquistati e quindi essere liberi di scegliere». I Cinque Stelle attaccano: «È vergognoso che alcuni deputati e senatori siano diventati complici. È la riprova che questo Parlamento è pieno di burattini che davanti al potere economico delle grandi aziende dimenticano di utilizzare il buon senso per mettere al primo posto i loro interessi personali». Le critiche all’olio di palma riguardano principalmente due aspetti: i rischi per la salute dei consumatori e quelli per l’ambiente. Ma il consumo di questo ingrediente è davvero dannoso per l’uomo? Il position paper presentato dal magazine Strade sostiene il contrario. «L’olio di palma è un grasso saturo, e in quanto tale andrebbe trattato alla stregua degli altri grassi saturi, come il burro. Non c’è dubbio che non debbano costituire una parte preponderante della nostra alimentazione, e che anzi vadano consumati con moderazione nell’ambito di una dieta bilanciata, ma l’olio di palma non presenta, alla luce di una sistematica revisione della letteratura scientifica disponibile sull’argomento, un profilo di rischio maggiore rispetto agli altri grassi saturi». Non solo. Stando ai dati forniti da Aidepi, l’olio di palma avrebbe una quantità di acidi grassi saturi (pari al 47 per cento) persino inferiore rispetto al burro. Diverso il tema ambientale. Data la forte richiesta, oggi la coltivazione intensa delle palme da olio sta mettendo seriamente a rischio la foresta pluviale del Sud Est Asiatico. Una deforestazione che interessa in particolare Malesia e Indonesia, con evidenti ripercussioni sulla salute del pianeta. Eppure i sostenitori dell’olio di palma difendono la produzione. A sentire loro l’abbattimento delle foreste è un processo in parte inevitabile, che riguarda senza distinzione i paesi in via di sviluppo e in forte crescita economica. «In primo luogo le foreste vengono abbattute per il legname, e solo in un secondo momento le aree in questione vengono messe a coltura. Le colture che rimpiazzano le foresta non si limitano certo alla sola palma. In Brasile, ad esempio, le foreste vengono per lo più sostituite da piantagioni di soia». Da questo punto di vista non è secondario notare come la palma da olio sia la coltura più produttiva, a parità di terreno, rispetto alla colza, al girasole e alla soia. L’olio di palma è l’olio vegetale più consumato al mondo. Vale quasi il 40 per cento dell’intera produzione mondiale. In Italia l’11 per cento del prodotto importato viene usato dalle aziende dolciarie. Insomma, a sentire le aziende che importano olio di palma, non ci sarebbe nessun problema etico. Proprio per superare la questione, nel 2004 è stato creato il RSPO, Roundtable of Sustainable Palm Oil. «Un sistema di certificazione cui partecipano tutti gli attori della filiera e Ong come il WWF», con l’obiettivo di promuovere la diffusione dell’olio di palma assicurando allo stesso tempo standard etici e ambientali certificati. Oggi, spiega Barilla, «la gran parte delle aziende aderenti ad Aidepi che utilizzano olio di palma si sono impegnate ad acquistare il 100 per cento di olio di palma sostenibile certificato RSPO e hanno già raggiunto l’obiettivo». Basterà a convincere i consumatori italiani?

La verità sull’olio di palma, scrive il 25 novembre 2016, Giuseppe De Lorenzo su "Gli Occhi della Guerra" de “Il Giornale”. Da Kuala Lumpur. L’olio di palma va guardato dall’alto. Dal cielo di Kuala Lumpur. Solo sorvolando le centinaia di migliaia di ettari di terra dedicati alla sua coltivazione si capisce che la Malesia è il fortino della produzione mondiale di questo alimento così controverso. Il secondo produttore al mondo dopo la vicina Indonesia: distese immense, campi regolari e simmetrici, belli come sono belle le colline del centro Italia inondate di olivi e di viti. Solo immensamente più grandi e produttivi: dalla Malesia parte il 39% dell’olio verso le industrie mondiali che producono cibo, dentifrici, detergenti, cosmetici e prodotti farmaceutici. Ed è su questo fortino in Asia orientale che si combatte l’assedio più cruento di tutti: quello del boicottaggio. Da qualche anno infatti l’olio di palma è finito sul banco degli imputati con l’accusa infamante di essere il più dannoso tra gli ingredienti alimentari che arrivano sulle nostre tavole. Un’insinuazione portata avanti dai produttori di oli concorrenti, Ong in cerca d’identità e partiti politici orfani di battaglie ideologiche da combattere. Accuse («è cancerogeno», «causa il disboscamento del pianeta») che però non corrispondono al vero. Eppure in Europa si è ormai creato un mito negativo duro da abbattere. «Non capisco per quale motivo ce l’abbiate tanto con la palma», dice Yusof Basiron, Ceo del Malaysian Palm Oil Council. «Qui migliaia di persone vivono grazie a questo settore economico che con i vostri boicottaggi rischia di avere ripercussioni non indifferenti». Già, perché per i malesi l’olio di palma è soprattutto fonte di sostentamento: tra industria e indotto lavorano più di 860mila persone per un mercato che vale 8,1 miliardi di dollari e si è espanso, appunto, a macchia d’olio. Nel 1960 il governo avviò una massiccia opera di conversione agricola nazionale dal caucciù alla palma. «Ora non possiamo più farne a meno», ammette candidamente Sabran, contadino di 67 anni, uno dei circa 300mila piccoli agricoltori che oggi possiedono il 40% dei terreni coltivati a olio di palma, con appezzamenti tra i 4 e i 40 ettari che producono circa 18 milioni di tonnellate di olio all’anno. Dal 1956 la Federal Land Development Authority (Felda), nata per aiutare lo sviluppo della aree rurali, organizzando i contadini in cooperative, ha trasformato le baracche nelle piantagioni in villaggi con case, negozi e luoghi d’aggregazione. Poi alcuni decenni fa gli agricoltori hanno comprato i terreni su cui lavoravano grazie a prestiti agevolati dallo Stato: un investimento che in 50 anni ha abbattuto il tasso di povertà dal 50% al 5%. Nella sua casa col giardino nello Stato del Perak, Sabran sorride mentre spiega che grazie alle palme è riuscito a far studiare i suoi sette figli. «Prima eravamo poveri, ora non più. Ogni ettaro mi frutta circa 2.000 dollari all’anno». Una pianta vive 25-30 anni e produce in un anno circa 20 caschi da 30 kg l’uno. Quando poi diventa improduttiva viene abbattuta con una ruspa e sostituita da un innesto più giovane. A conti fatti le famiglie con meno di 5 ettari possono sperare in un reddito che oscilla tra i 4mila e i 12mila dollari, quando il salario medio annuale non supera i 2.400. E si tratta di un mercato che rende bene anche ai lavoratori non qualificati. Perry Yadi, operaio 30enne indonesiano, prende un frutto arancione dal nocciolo bianco caduto in terra: «Quando si staccano vuol dire che è l’ora di raccogliere», spiega imbracciando un lungo bastone e tagliando con due colpi secchi il casco. Con 8 ore di lavoro al giorno per l’intera settimana, Yadi riesce a portare a casa fino a 2mila ringgit al mese. Circa mille in più dello stipendio minimo. Senza contare le ferie e la giornata di riposo garantite. «Boicottare l’olio di palma ci farà del male – conclude Sabran -. Ricordatevi che anche noi dobbiamo poter mettere il riso in tavola». Nelle tavole della Malesia peraltro l’olio di palma non raffinato viene usato quotidianamente per condire l’insalata e cuocere dei dolciastri popcorn. Nessuno crede sia dannoso e nessuno si sognerebbe di farne a meno. Un principio che vale a Kuala Lumpur, città con l’aspirazione di somigliare a una capitale occidentale, così come a Sandakan, piccola e selvaggia cittadina sul Borneo dai vicoli stretti e le strade dissestate. Qui, e non è poco, si respira l’aria salubre della foresta pluviale. In quest’isola la Malesia conserva la maggior parte delle terre coperte da foresta, nonostante i detrattori denuncino l’impatto ambientale catastrofico della deforestazione. Ma non è così. Oggi il 67,5% delle terre malesi è ancora coperto da foresta tropicale e solo il 16% da palma da olio. Alberi, scoiattoli, oranghi: tutto è ancora in vita. Anzi: negli ultimi 15 anni la superficie forestale è aumentata, invece di ridursi. All’agricoltura è destinato appena il 23,9% della superficie totale (in Italia il 46,3%) e il governo si è impegnato a preservarne almeno il 50% sotto foresta con 5 milioni di ettari di aree protette. Per fare un confronto, l’Italia ha solo il 31% di zone boschive, la Gran Bretagna appena il 12%. Perché criticare gli altri se poi l’Europa fa di peggio? Non vale certo solo per le piante, ma anche per la biodiversità. Una delle pubblicità più aggressive prodotte contro l’olio di palma mostra un uomo che, mangiando uno snack, provoca la morte di un orango. La deforestazione e gli incendi del Sud Est asiatico hanno sì messo in pericolo l’habitat di questa specie, ma non per colpa dell’olio di palma. Dei 21 milioni di ettari disboscati negli ultimi 25 anni in Indonesia solo 3 milioni sono stati occupati dalle palme. Il resto è servito ad altri scopi. «Stiamo cercando di educare la popolazione al rispetto dell’orango – spiega il responsabile del parco naturale di Sepilok -. Tempo fa era considerato un animale di compagnia: veniva uccisa la madre per poter crescere il cucciolo in casa. Molte famiglie contadine ne avevano uno. A preoccupare è la mentalità locale, non le palme». Per produrre olio con criteri di sostenibilità ambientale e rispetto degli oranghi, la Malesia ha fatto proprie due certificazioni: una internazionale, l’Rspo, che riguarda i grossi produttori (20% della produzione con 12,1 milioni di tonnellate), e una locale, l’Mspo, che interessa i piccoli agricoltori. «Dobbiamo proseguire sulla strada delle certificazioni», afferma deciso l’ex ministro per l’Industria delle Piantagioni Douglas Uggah Embas. Il vero problema è che nei prossimi anni serviranno tra le 30 e le 70 milioni di tonnellate di oli vegetali in più per soddisfare i bisogni energetici della popolazione mondiale. Su cosa investire, dunque? L’unica via percorribile sembra quella dell’olio di palma certificato. La palma infatti richiede meno terreni rispetto agli altri oli vegetali (colza, soia, girasole e oliva) e ha una produttività da 5 a 10 volte superiore. Da solo copre il 30,7% del fabbisogno globale usando appena il 5% dei terreni coltivati per gli oli e lo 0,32% delle terre agricole mondiali. Secondo la Fao, un ettaro di terra genera 4 tonnellate di palma, 0,75 di colza, 0,39 di soia e appena 0,32 di oliva. Fatte le dovute proporzioni, se decidessimo di non consumare più olio di palma sostituendolo con altri oli, il consumo di terre crescerebbe esponenzialmente. Aumentando pure la deforestazione: un completo autogol. «La strada che state imboccando non è positiva né per l’ambiente né per la salute», conclude Embas. Puntellando le porte di quel fortino che dovrà lottare ancora a lungo per liberare l’olio di palma (e la Malesia) dalle malelingue.

La guerra commerciale. Tutto inizia negli anni ’80 con una guerra commerciale che valeva, e vale tuttora, miliardi di dollari: da una parte l’olio di colza e quello di soia; dall’altra gli oli tropicali estratti dalla palma e dal cocco. La Tropical Grease Campaign fu nient’altro che il tentativo delle lobby americane dei semi di soia di bloccare sul nascere la diffusione della palma. Un olio meno costoso e dai rendimenti migliori, visto che è inodore e incolore e grazie all’alto contenuto di grassi saturi è perfetto per mantenere morbide merendine e pasticcini. A far scattare la campagna denigratoria fu l’American Soybean Association (Asa) che accusò l’olio di palma di provocare ogni sorta di malanno: dalle malattie cardiovascolari al cancro. In realtà alle spalle c’era di tutto tranne che un dibattito scientifico serio. Guarda caso a presentare una legge anti-olio di palma furono i politici dei due Stati produttori di soia: Kansas e lo Iowa. Solo nel 1989 i contendenti deposero le armi. Ma era un armistizio destinato a essere rotto velocemente. Infatti, pochi anni dopo in Europa, per motivi sia ambientali sia di salute, il tema tornò d’attualità. A riaccendere la miccia fu la Francia, grande produttore di olio di colza. Anche questo un concorrente della palma. Nel 2015 Ségolène Royal, allora ministro dell’Ecologia, accusò la Ferrero di aver favorito il disboscamento del pianeta producendo Nutella con olio di palma. Poi fu costretta a fare marcia indietro, ma la sparata acutizzò la tensione di per sé già elevata dopo la decisione dell’Ue di obbligare le aziende alimentari a scrivere sull’etichetta le specifiche degli ingredienti dei loro prodotti. Da un giorno all’altro i consumatori scoprirono quanto olio di palma si nascondesse in muffin e crostate confezionate. E così scattò una tale isteria di massa da far raccogliere 175mila firme per boicottarlo. Stessa storia e stesse accuse: «È cancerogeno», «provoca obesità», «favorisce problemi cardiovascolari» e via dicendo. A incendiare i rivoltosi ci pensò una ricerca scientifica dell’Università di Bari secondo cui ci sarebbe un legame tra la palma e il diabete. Apriti cielo. Peccato che lo stesso team di scienziati fu costretto ad ammettere che i dettagli dello studio «erano scorretti». Ma ormai il danno era fatto: il M5S cavalcò l’onda presentando mozioni e proposte di legge per far mettere nero su bianco che «nuoce alla salute». Ma si tratta di una bugia, visto che non ci sono riscontri scientifici che ne dimostrino la nocività. L’Istituto Superiore di Sanità ha dichiarato che l’olio di palma non contiene «componenti specifiche» che possano «determinare effetti negativi sulla salute». Certo, ingozzarsi di grassi saturi non fa bene. Ma la loro presenza non è di per sé dannosa. Inoltre l’assunzione giornaliera di grassi saturi solo in piccola parte deriva dall’olio di palma: meno del 20%. Il resto lo assumiamo da uova, latte, carne e formaggi. Eppure nessuno ha mai pensato di boicottare la torta della nonna, che se fatta col burro sarà sicuramente più dannosa dell’olio di palma. Ad alimentare il fuoco ci ha pensato l’Autorità europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa) segnalando la presenza di composti cancerogeni nei processi di raffinazione ad alte temperature di diversi oli vegetali. Ovviamente l’inquisizione s’è scatenata solo contro la palma da olio, nonostante pure l’Associazione Italiana per la Ricerca sul Cancro abbia affermato che non ci sono motivi ragionevoli per eliminarlo dalla tavola. Senza contare che, se le aziende decidono di non usare l’olio di palma, le cose peggiorano: per avere lo stesso rendimento, gli altri oli vegetali devono essere idrogenati in un processo che produce «grassi trans», quelli sì dannosi per l’organismo.

L'AGRICOLTURA NELLA TEMPESTA PERFETTA.

Sorpresa: anche gli alberi vanno a dormire. Uno studio ha analizzato i movimenti delle piante durante la notte, scoprendo che nelle ore buie rami e foglie si rilassano, come se anche gli alberi si addormentassero, scrive Anna Lisa Bonfranceschi il 7 giugno 2016 su "La Repubblica". Il Famoso naturalista Linneo aveva trasformato lo scandire del tempo da parte delle piante in una piccola opera d'arte. Nei suoi instancabili studi di botanica, si era accorto che alcuni fiori sbocciavano a diverse ore del giorno, e aveva sfruttato questa peculiarità per far costruire degli orologi floreali nei giardini dell'Università di Uppsala: diversi fiori disposti in circolo, secondo le ore di schiusa. Anni dopo un'altra star della biologia, Charles Darwin, avrebbe osservato come lo scorrere del tempo lasciasse segni anche sulle piante, parlando di sonno relativamente ai movimenti di steli e foglie durante la notte. Ma davvero le piante hanno un orologio interno? Davvero dormono? Sì, stando almeno ai risultati di uno studio preliminare pubblicato su Frontiers in Plant Science. In realtà a stupire non è tanto l'adattamento del comportamento degli organismi viventi, piante comprese, al ritmo del giorno e della notte. D'altronde, l'evoluzione ha operato giocando su una serie lunghissima di albe e tramonti. A stupire i ricercatori è stata l'osservazione piuttosto di veri e propri movimenti notturni in due esemplari di betulla - uno in Austria e uno in Finlandia - analizzati con la tecnica del laser scanner, durante notti calme e senza vento, a ridosso dell'equinozio autunnale, così da garantire la stessa illuminazione in entrambi i siti. Le misurazioni effettuate dal team di Eetu Puttonen del Finnish Geospatial Research Institute, a capo dello studio, mostrano infatti che di notte, i rami e le foglie degli alberi si rilassano, afflosciandosi in maniera visibile nei dati acquisiti dal laser. "L'intero albero si abbassa durante la notte, e questo diventa visibile nel cambio di posizioni nelle foglie e nei rami", ha spiegato Puttonen: "Non si tratta di grandi cambiamenti, parliamo di appena 10 cm per alberi con un'altezza di 5 metri, ma erano cambiamenti sistematici e apprezzabili dalla precisione dei nostri strumenti". In particolare, continuano gli scienziati, i movimenti erano graduali e la posizione più bassa veniva raggiunta un paio d'ore prima dell'alba. All'arrivo del sole, invece, gli alberi riprendevano vigore, come risvegliandosi, ma non è chiaro se a far da sveglia fosse proprio la luce del sole o un orologio interno delle piante. Anche se, scrivono gli scienziati nel paper, il fatto che alcuni rami riprendessero posizione prima dell'arrivo del sole fa propendere per l'ipotesi di un orologio interno. A contribuire a questi movimenti potrebbe essere il fotoperiodismo della pianta o il bilancio idrico, spiega András Zlinszky del Centre for Ecological Research, Hungarian Academy of Sciences, tra gli autori del paper. "I movimenti della pianta sono sempre strettamente connessi con il bilancio idrico delle singole cellule, che è influenzato dalla disponibilità di luce attraverso la fotosintesi". Quindi, in sostanza, a dirigere l'orchestra è comunque indirettamente il Sole, attraverso la fotosintesi. Per capire qualcosa di più sul sonno delle piante serviranno però studi più approfonditi, e che considerino, oltre necessariamente a più esemplari, il comportamento delle piante nel corso di diverse giornate, anche lontano dalla luce naturale. Dove potrebbe portare, praticamente, tutto questo? Per esempio grazie a studi simili potrebbe essere possibile capire meglio i meccanismi con cui gli alberi utilizzano l'acqua durante la giornata, e usare queste informazioni nell'industria del legno o della gomma, dove le preferenze in fatto di contenuto idrico sono diverse: meglio poca nel primo caso e tanta nel secondo.

Deflazione che comprime i prezzi, cambiamenti climatici sempre più estremi, una burocrazia feroce e il colpo di grazia con l'embargo russo: per chi lavora la terra è un momento difficilissimo. Dal latte alle arance siciliane, spesso i prodotti dei campi sono venduti sottocosto con il risultato che in 15 anni sono fallite oltre 300mila imprese. A salvarsi è solo chi riesce a saltare la filiera distributiva, ma non tutti se lo possono permettere, scrive "La Repubblica" l'8 giugno 2016.

Un caffè vale 11 uova, il paradosso dei prezzi, scrive Jenner Meletti. Bisognerebbe tornare al baratto per capire l'economia "reale". Il contadino italiano, per avere un caffè da 1 euro, dovrebbe andare al bar mettendo sul bancone 11 uova, oppure un chilo di carne di toro o di maiale, 6 chili di frumento tenero o di mais, quasi 3 chili di riso o 2 di mele. Se produce arance, in cambio della tazzina, ne deve consegnare 6 chili. Gli va meglio con le patate o con i pomodori di serra: ne bastano 2 chili. L’allevatore di vacche deve portare almeno 3 litri di latte e magari il barista gli chiede 10 o 20 centesimi in più in cambio della "macchia". Non è in incubo e nemmeno uno scherzo: questi sono attualmente i prezzi veri dell’agricoltura italiana, ovviamente all'ingrosso, che entrano nei bilanci delle aziende agricole rischiando di farle crollare. Deflazione è purtroppo una parola ora conosciuta anche nelle campagne: secondo l'indice alimentare della Fao i prezzi all’inizio del 2016 sono scesi al livello di sette anni fa. Scarse differenze. Fra l'Italia, l'Europa ed il resto del mondo non ci sono molte differenze. La Fao registra in particolare i prezzi dei cereali, della carne, dei prodotti lattiero caseari, degli oli vegetali e dello zucchero. L'ultimo rilevamento – gennaio 2016 contro dicembre 2015 – ha accertato una diminuzione dei prezzi pari all’1,9%, riportando così il listino ai livelli del 2009. Calo dello zucchero del 4,9% (per la maggior produzione del Brasile), calo del 3,0% per i lattiero caseari, calo dell’1,7% per i cereali, stessa percentuale per gli oli vegetali. Per la carne i prezzi diminuiscono dell’1,1% (lieve aumento solo per la carne di maiale). Esiste un pericolo crack per i coltivatori italiani? "C’è un rischio consistente – risponde Lorenzo Bazzana, responsabile economico della Coldiretti nazionale – di abbandono delle attività, soprattutto in settori che richiedono fortissimi investimenti". L'esempio del latte. "Facciamo l'esempio del latte - continua Bazzana - Il prezzo è fermo o in diminuzione ormai da anni. Il latte spot – quello che non è sotto contratto ma viene messo sul mercato per la trasformazione – nel 2000 veniva pagato 33,83 centesimi al litro. Nel 2008 è salito a 50,62 e in questi giorni è pagato 23,46. Il latte alla stalla – con contratto e raccolta – oggi viene pagato 37,29 centesimi. Per questo latte nel 2008 l’allevatore incassava 43,29. Basterebbero questi numeri per comprendere la gravità della crisi. Ma c’è di più. In questi anni i coltivatori hanno dovuto fare investimenti giusti ma anche pesanti per il benessere animale, la sicurezza sul lavoro, la tutela dell’ambiente. Nelle stalle le sale di mungitura sono piastrellate, negli allevamenti di polli gli animali sono a terra o nelle gabbie più spaziose. In agricoltura sono stati eliminati 500 principi attivi ritenuti dannosi ed al loro posto ci sono prodotti più ecologici ma più costosi. Tutto questo mentre i prezzi di vendita continuano a diminuire. Sarà difficile andare avanti. Dalla fine delle quote latte sono già state chiuse 1500 stalle. Senza interventi seri - stabilendo ad esempio che il prezzo della vendita non deve essere inferiore al costo di produzione - le stalle vuote (basta un giorno per chiuderle, servono anni per trovare i milioni necessari per riaprirle) saranno solo l'inizio di un ulteriore abbandono dell’agricoltura". Non è solo una questione di soldi. "Se non sei più in grado di produrre alimenti sani perché non ti pagano il prezzo giusto, il cibo arriverà – anzi, sta arrivando - da altri paesi che hanno regole e controlli più leggeri o comunque diversi dai nostri. Così la sicurezza viene messa in discussione. Il mercato alimentare è come quello della benzina: il petrolio va su e soprattutto giù ed i prezzi alla pompa restano fermi. Così è per il latte, la pasta, il pane e quasi tutto il resto. Crollano i prezzi in campagna ma il consumatore non se ne accorge. Se invece, di fronte al crollo del latte, si abbassassero anche i prezzi del formaggio, il consumo salirebbe e aiuterebbe la ripresa". Un’illusione, almeno per ora. Con il latte a 37,29 – il migliore – un mezzo litro di microfiltrato oggi costa 1 euro. Paghi soprattutto la lavorazione, il packaging, il trasporto, la pubblicità e tutto il resto. E così in tasca all’allevatore, dell’euro pagato per mezzo litro microfiltrato, arrivano poco meno di 19 centesimi. Pochi centesimi decidono. Nella guerra commerciale spesso sono proprio pochi centesimi a decidere il successo o il fallimento. Si risparmia su tutto. In tante pubblicità si cita la mitica nonna con i suoi biscotti, le torte, dolci vari. La "nonna" però usava il burro, mentre adesso vanno alla grande l'olio di palma e la margarina. Tutto spiegato dai prezzi. Il burro in questi giorni sul mercato europeo costa 2823 euro la tonnellata, la margarina 980 euro e l'olio di palma scende a 751. Se vuoi battere la concorrenza, non hai scelta. "Noi della Coldiretti – dice Lorenzo Bazzana – crediamo che solo fissando un prezzo non inferiore al costo di produzione si possano salvare le aziende contadine e risalire la china. Se invece si va avanti così, si rischia forte. Se costruisci un’automobile puoi cercare di risparmiare sugli optional. Ma non puoi usare materiali scadenti nelle gomme o nei freni.  Altrimenti vai a sbattere".

Il peso di burocrazia, cemento e sanzioni, continua Jenner Meletti. Dal 2000 ad oggi – questa la denuncia di Confagricoltura, Cia e Copagri – in Italia sono state chiuse oltre 310mila imprese agricole. Per dire basta sono scesi in piazza, nei giorni scorsi, migliaia di contadini e allevatori. Antonio Dosi è il presidente della Cia, Agricoltori italiani, dell’Emilia Romagna ed è vice presidente nazionale della stessa associazione.

È possibile fermare questa emorragia?

"Il numero è enorme ma può salire ancora vertiginosamente se non si mette mano ai tanti problemi in campo: i ritardi nei pagamenti comunitari, la burocrazia asfissiante, i prezzi all’origine in caduta libera e le vendite sottocosto, le incognite dell'embargo russo, gli investimenti bloccati, la difesa del “Made in Italy”, la cementificazione del suolo, l’abbandono delle aree rurali, i danni da fauna selvatica. Sono ancora troppi i problemi non risolti: dalla burocrazia ai prezzi sul campo, che schiacciano inesorabilmente il reddito, impedendo innovazione e sviluppo. Basti pensare che solo la macchina amministrativa - tra ritardi, lungaggini, disservizi e inefficienze - sottrae all’agricoltura 4 miliardi di euro. Ogni azienda è costretta a produrre ogni anno 4 chilometri di materiale cartaceo per rispondere agli obblighi burocratici, 'bruciando' oltre 100 giornate di lavoro. Per non parlare del crollo vertiginoso dei prezzi alla produzione e della forbice esorbitante nella filiera tra i listini all’origine e quelli al consumo".

Quanto resta, rispetto al prezzo pagato dal consumatore, nella tasche di chi produce?

"In media per ogni euro speso dal consumatore finale, solo 15 centesimi vanno nelle tasche del contadino. Solo per fare alcuni esempi le arance sono pagate agli agricoltori il 40% in meno di un anno fa: ovvero 18 centesimi al chilo, contro i 2 euro al supermercato, con un rincaro che dal campo alla tavola tocca il 1111%. O ancora un agricoltore, per pagarsi il biglietto del cinema, deve vendere 30 chili di melanzane che oggi valgono 26 centesimi al kg (-61% in un anno), mentre al consumatore vengono proposte a 1,90 euro con un ricarico del 731%".

L'embargo russo ha poi aggravato i problemi.

"Tra frutta, verdura, carni e prodotti lattieri, il blocco di Mosca alle nostre produzioni agricole è costato finora 355 milioni di euro, con esportazioni made in Italy dimezzate in quasi due anni. Anche per questo siamo scesi in piazza. Ci sono tematiche fondamentali che vanno affrontate e risolte al più presto e che devono essere comprese anche dall’opinione pubblica. Perché il settore primario ha un valore inestimabile a livello produttivo, culturale e di salvaguardia dell’ambiente che deve essere sostenuto e non lasciato, appunto, nell’immobilità".

Il costoso pedaggio del clima che cambia, scrive Valerio Gualerzi. "Sotto la neve il pane, sotto la pioggia la fame". Come ci ricorda il proverbio, è dalla sua invenzione che l’agricoltura è costretta a fare i conti con i capricci del tempo. L’ultimo bollettino dei danni diramato dalla Cia è eloquente: le bombe d’acqua che hanno colpito a maggio il Paese hanno causato grosse perdite soprattutto alle ciliegie. In Puglia sono andati distrutti quasi 80 milioni di euro di frutti da inizio campagna. Mentre a Ferrara, ma anche in diverse aree del Bolognese, del Basso Veneto e del Mantovano, la situazione climatica atipica ha provocato nei frutteti un grave fenomeno di "cascola", la caduta anormale e prematura dei fiori e dei frutti. La confederazione parla di "un colpo durissimo, tanto più che la Puglia è la prima regione in Italia in termini di produzione di ciliegie, rappresentando il 40% del totale nazionale, con 17mila ettari investiti (di cui 15mila nella sola provincia di Bari), 600mila quintali prodotti, un volume d'affari di 300 milioni di euro e un fabbisogno annuo di manodopera stimato in 2 milioni di ore lavorative". Tempi difficili anche per peri e albicocchi del ferrarese, con perdite tra il 50 e il 60%. Qui a compromettere l’andamento sono state le brusche e improvvise variazioni di temperatura dalla fine di aprile con minime tra 0 e 4-5 gradi e fenomeni di brina seguiti da termometri schizzati, nei momenti centrali della giornata, anche a 28 gradi in pieno sole. Se è vero che da sempre una grandinata, una gelata o un botta di caldo possono facilmente rovinare il raccolto, è altrettanto vero però che quanto sta accadendo ora nei campi italiani è qualcosa di molto diverso dal naturale rischio che ogni contadino si assume nel momento in cui pianta un seme e sceglie di affidarsi alla clemenza del tempo. L'eccezionale si sta trasformando in normale e l'anomalo in consueto. Il riscaldamento globale aumenta infatti la sia frequenza che la violenza degli episodi meteo estremi e l’Italia, come certificano il IV e il V Rapporto realizzati dall'Ipcc (l'organismo Onu che analizza, valuta e sintetizza le pubblicazioni scientifiche in materia di clima), si trova nel cuore di un cosiddetto hot spot, ovvero in una zona particolarmente sensibile a cavallo di diverse fasce climatiche dove i cambiamenti saranno (e hanno iniziato ad essere prima di quanto stimato a suo tempo) particolarmente accentuati. Il puntuale "piagnisteo" che arriva dalle associazioni di coltivatori e agricoltori sui danni del maltempo non è più quindi maliziosamente attribuibile solo alla proverbiale furbizia contadina per mettere le mani avanti sui prezzi, ma è un problema concreto che purtroppo promette solo di peggiorare. Solo per rimanere alla produzione delle ciliege, il pezzo pregiato di questa stagione, in un articolo pubblicato sul sito dell’Accademia dei Georgofili, il professor Carlo Fideghelli del Centro ricerche per la frutticoltura, spiega: "La frutticoltura europea è prevalentemente concentrata nei paesi mediterranei e la maggior parte delle cultivar attualmente coltivate ha un fabbisogno in freddo invernale che varia da 6-700 a 1000-1200 ore (calcolate convenzionalmente da ottobre a febbraio al di sotto di 7,2°C), in linea con il normale andamento climatico. Il progressivo innalzamento delle temperature invernali, che ha avuto un’accelerazione negli ultimi anni, fa registrare, con sempre maggiore frequenza, un accumulo di freddo che non supera le 500-600 ore, riportando di attualità un problema che sembrava risolto". Anche le gravissime perdite con cui hanno dovuto fare i conti l'olivicoltura italiana nel 2014 in seguito all’attacco della mosca olearia, sono stata favorite dal clima che cambia. "Purtroppo gli eventi meteorologici estremi sono sempre più frequenti e hanno conseguenze dirette sulle coltivazioni: dal 2007 a oggi, per gli effetti combinati di maltempo e siccità, caldo e gelate improvvise, l’agricoltura ha già pagato un conto di 6 miliardi di euro.", commenta il presidente nazionale della Cia, Dino Scanavino. Il bilancio stilato da Coldiretti è persino più pesante: 14 miliardi di euro di danni nell'ultimo decennio a causa delle bizzarrie del tempo. "È chiaro, quindi - insiste la Cia - che ora come in futuro, c’è bisogno di azioni più incisive tanto per la prevenzione quanto per i risarcimenti alle perdite subite dagli agricoltori". In tal senso, conclude Scanavino, "è sempre più necessario rafforzare e rendere più tempestivi sia gli interventi in caso di crisi sia gli strumenti di gestione del rischio, come ad esempio quelli assicurativi e mutualistici".

Arance crack: prodotte a 20, vendute a 5, scrive Antonio Fraschilla. Una crisi senza fine. Ogni anno un nuovo record negativo. La produzione di quello che era una volta l’oro della Sicilia, adesso è soltanto un peso. Anche nell’ultima stagione la vendita di agrumi, arancia rossa su tutti e limoni, ha fatto registrare numeri a dir poco bassi e perdite per tutti i produttori.  "È stata un’annata disastrosa, credo sia stata la peggiore di sempre – dice Giovanni Pappalardo, agrumicoltore e direttore Coldiretti Catania – quest'anno i prezzi sono scesi a 5 centesimi al chilo e non si sono coperti i costi di produzione perché per il coltivatore il costo al chilo per le arance è di circa 20 centesimi. Insomma, nessuna remunerazione per il lavoro, ancora piante con arance non raccolte e dove le arance sono rimaste sulla pianta l’imprenditore non può fare i lavori per mantenere l’agrumeto pronto per la prossima stagione. Quindi crescerà ancora l’abbandono della coltivazione di quello che una volta era il fiore all’occhiello dell’agricoltura siciliana e italiana". I numeri dell’ultima stagione sono impietosi. Nell'Isola, leader assoluta nella coltivazione di agrumi in Italia, la superficie di arance coltivate è 53mila ettari: soltanto dieci anni fa erano 60mila. La produzione totale è scesa quest'anno a 11,7 milioni di quintali, nel 2006 si produceva un milione di quintali in più di arance. Ma il problema è che questi numeri non sono sufficienti a spiegare il calo della redditività: prima un quintale valeva quattro volte di più. Adesso il prezzo alla vendita scende di anno in anno a causa di una filiera troppo lunga, di una concorrenza agguerrita e per certi versi sleale dei paesi del Nord Africa e di un settore produttivo che non riesce a fare sistema: in Sicilia non vi sono grandi cooperative di produttori che possono imporre prezzi e marchi. L'arancia rossa nei supermercati di Catania è venduta a 1 euro e in alcuni casi anche 1,5 euro al chilo, nel resto d'Italia i prezzi sono stati ancora più alti. Qui ci guadagnano tutti: dal commerciante che acquista sulla pianta alla grande distribuzione. Tutti tranne i coltivatori. Ma a cosa è dovuto il crollo del prezzo? "La risposta è semplice – dice Pappalardo -  incide l'embargo russo, che di fatto riduce la domanda. E incidono gli accordi commerciali di Tunisia e Marocco con l’Unione Europea a dazio zero. Lì la mano d'opera costa 30 dollari al mese, noi un operaio lo paghiamo 50 euro al giorno più contributi. Loro in Nord Africa possono utilizzare pesticidi, noi no. Questa è concorrenza sleale". Secondo l’osservatorio Coldiretti il rischio è che la produzione di agrumi scompaia e con questa anche la spremuta di arancia rossa. Negli ultimi quindici anni una pianta di arance su tre è sparita, una su due se si parla di limoni. Se si allarga poi l'orizzonte a tutta la produzione agrumicola italiana, negli ultimi 15 anni sono andati persi 60mila ettari di agrumi e ne sono rimasti 124mila, dei quali 30mila in Calabria e 71mila in Sicilia. "Il disboscamento delle campagne italiane – sostiene la Coldiretti - è il risultato di una vera invasione di frutta straniera con le importazioni di agrumi freschi e secchi che negli ultimi 15 anni sono praticamente raddoppiate per raggiungere nel 2015 il massimo storico di 480 milioni di chili".

Asparago contro mais, vince chi salta la filiera, scrive Janner Meletti. Loris Braga, quando lo andiamo a trovare, sta seminando il mais nelle immense campagne del ferrarese, in quella che era la valle paludosa del Mezzano. Roberto Lodi sta raccogliendo gli asparagi nel suo fondo, Corte Roeli di Malalbergo. Due modi diversi di coltivare la terra, e soprattutto di affrontare il mercato. "Sto seminando – racconta Loris Braga – e ancora non ho venduto il mais dell’anno scorso. Prezzi troppo bassi, ci avrei rimesso. In questi giorni il prezzo sembra in leggera ripresa, sopra i 17 euro al quintale, e ogni settimana cresce di una decina di centesimi, che sono poi quelli che permettono di pagare il magazzino. Ma basta la notizia di una nave che arriva carica di mais per fare abbassare subito il prezzo. In sintesi: sto spendendo soldi e fatica per seminare e ancora non so se e a quanto venderò la produzione dello scorso anno". Sognando 20 euro al quintale. Grandi campi – qui imperava il latifondo – di soia, barbabietole e mais. "Il mercato dei cereali c’è sempre stato. A rovinare noi produttori è soprattutto la speculazione. Il 70% del mais viene comprato all’estero – anche se è meno ricco di proteine e grassi – e con il 30% italiano gli speculatori giocano come il gatto con il topo. Se in prezzo scende, comprano. Appena sale anche di poco, non si fanno più sentire, fino al nuovo ribasso. Fino a una ventina di anni fa c'era più stabilità dei prezzi ed era possibile programmare una rotazione delle colture sapendo che comunque il pane lo avresti portato a casa. Fino a quattro o cinque anni fa il mais era venduto ancora a 20 o 21 euro al quintale e si faceva reddito. Venti euro sarebbe un prezzo onesto anche oggi ma ormai sembra impossibile. Perché continuo a seminare? Questa è terra benedetta per i cereali e soprattutto per il mais. Qui vicino a Comacchio produciamo 120-130 quintali per ettaro contro un media della provincia di Ferrara di 90-100 e medie ancora più basse in quasi tutta la Valpadana. Chi produce molto meno di noi, e magari non ha ancora venduto i sacchi dell’anno passato, non so proprio come possa tirare avanti. Capisce adesso perché ogni anno l’agricoltura perde migliaia di ettari?". Davanti alla bottega di Campagna Amica alla Corte Roeli di Malalbergo c'è la fila. Al momento della nostra visita è tempo di asparagi verdi: i migliori sono venduti a 4 euro al chilo. Roberto Lodi ha 8 ettari di terra. “Inizio a fine marzo con gli asparagi e finisco a novembre con i miei cachi che hanno ormai cento anni. In mezzo, albicocche, pesche, prugne, pere, mele, con tanta attenzione a quelle specie che stavano scomparendo, come le pere dottor Guyot e abate Fetel". C'è anche l’agriturismo. Nei prossimi giorni arriveranno cuochi stranieri per imparare a cucinare gli asparagi e a preparare i tortelloni. “Ho capito da tempo che se non tagli la filiera non ci salti fuori. I miei asparagi a 4 euro costano comunque molto meno di quelli dei supermercati e sono più freschi e buoni. È per questo che i miei clienti arrivano da Ferrara, da Bologna, da Modena, in un raggio di 20-25 chilometri". Una posizione fortunata (poche centinaia di metri da un casello autostradale) e soprattutto la capacità di tenere aperta la Bottega tutto l’anno. "Vendo frutta e verdura fresche ma soprattutto le conservo. Faccio l’esempio delle pere Abate, che sono Igp. Se le do ai commercianti, prendo 0,37 euro al chilo. Nella Bottega, appena raccolte, sono vendute a 1,50 al chilo. Le altre le faccio sciroppare in un laboratorio e mezzo chilo è venduto a 3,5 euro. Ci sono spese in più, certo, per la lavorazione, il vasetto, lo sciroppo ma un chilo di Abate così mi viene pagato 7 euro. E posso incassare tutto l’anno". Le ricette valore aggiunto. Non pretende di insegnare agli altri agricoltori, Roberto Lodi. "E chiaro che chi produce migliaia di quintali di grano o di mais non può certo vendere a bottega in azienda. Io dico soltanto che, dove è possibile, questa è la strada giusta da prendere. Arrivi qui, vai nei campi di asparagi, li puoi anche mangiare nel nostro agriturismo, magari ti fai insegnare qualche ricetta… Ci sono verdurai di Bologna che mi telefonano e mi dicono: portami gli asparagi, il prezzo fallo tu, non importa. Sono soddisfazioni. Quando penso che ci sono colleghi che consegnano i frutti del loro lavoro ai commercianti o all’industria e non sanno quando e quanto saranno pagati, sto male per loro. L’agricoltura deve cambiare. Io posso solo indicare il pezzo di strada che ho scelto".

Stato, partito e ambientalisti sono la peste dell'agricoltura. Burocrazia, tasse, consorzi inutili inventati per piazzare amici degli amici. Una denuncia (ma divertente) sulla vita nei campi, scrive Camillo Langone, Sabato 28/05/2016, su "Il Giornale".  La Campagna e il Partito, ecco il titolo giusto per il Contromano Laterza che invece, per considerazioni credo più politiche che di marketing, si intitola Nella Valle senza nome. Storia tragicomica di un agricoltore. La Campagna è quella della Bassa Toscana, talmente bassa che un altro po' e diventa Tuscia, per non dire Lazio. Il Partito così come la valle non ha nome perché l'autore nella Bassa Toscana ci vive e vorrebbe continuare a farlo senza subire rappresaglie ma io, che abito altrove e non dipendo dall'arbitrio delle amministrazioni comunali, posso dirlo: è l'eterno Partito un tempo francamente comunista e oggi nominalmente democratico, quindi democratico nel senso della vecchia Ddr (Deutsche Demokratische Republik) o di Aristotele, che considerava la democrazia una degenerazione della buona politica. Leggo il libro di Antonio Leotti e ringrazio Dio di abitare in città. Nella stessa provincia di Siena in cui vennero girati gli spot del Mulino Bianco, un millennio fa, la vita dei campi risulta avara di soddisfazioni, nient'affatto bucolica, quasi miserabile. L'autore mette subito in guardia i lettori da eventuali slanci romantici: «Diffidate di chi vi esorta a ritornare ai mestieri della terra. A meno che non abbiate ingenti capitali, eredità da sperperare... E non credete a quello che dicono i media, non credete a questa storia che i giovani tornano in campagna. Ma dove sono? Io non ne ho visto neanche uno. E fanno bene a non venirci. Cosa ci verrebbero a fare? A confrontarsi con i fatturati, davvero degradanti, che l'agricoltura è in grado di esprimere? A farsi il fegato grosso con l'arroganza dei burocrati scelti accuratamente tra le schiere dei sadici patologici? Andate a trovare qualche agricoltore e per una volta, invece di soffermarvi sulla bellezza dei paesaggi, chiedete che vi mostrino i libri, la contabilità. Lì c'è la verità, tutto il resto è leggenda». In questa tirata quasi céliniana consiste il cuore del libro che è un assalto all'arma bianca contro i panzer dell'ambientalismo, dello statalismo e ovviamente del Partito, terribile entità che da settant'anni, con sigle diverse ma senza soluzione di continuità, «di padre in figlio, da zio a nipote, da cugino a cugino, da amico ad amico», in provincia di Siena produce sindaci, assessori, funzionari, dirigenti davanti ai quali il comune cittadino, o il comune contadino, può soltanto genuflettersi. Amministratori che senza posa inventano «consorzi di qualità per la promozione del territorio», ciascuno dotato di statuti cervellotici e ovviamente appiattenti, anti-qualitativi, fitti come sono di leggi, norme, regole. E che poi corrono a Firenze alla festa del Partito per un dibattito sull'agricoltura, durante il quale una bella parlamentare (chi sarà mai? Niente nomi nel libro) ripeterà la parola territorio come un disco rotto, e Leotti, che si trova sul palco in veste di scrittore-agricoltore, la parola territorio, dirigista e retorica, non la sopporta più. La bella parlamentare poi si metterà a elogiare il mondo contadino del bel tempo andato e Leotti, che quel mondo lo ha conosciuto davvero, sbotta: «Io me le ricordo le case senza bagno e senza riscaldamento». Gli amministratori che applaudono le belle parlamentari sono gli stessi che se lui vuole restaurare una vecchia casa gli vietano, adducendo motivi paesaggistici, di spostare anche una sola tegola, mentre a pochi metri autorizzano la costruzione di una scuola che sembra un omaggio all'architettura rumena «epoca Ceausescu». E che gli impediscono di abbattere le vecchie querce malate che incombono sulla strada mettendo a rischio automobili e passanti. Salvo poi, dopo anni di riunioni e costosi dossier, intimargli di procedere al taglio entro sei giorni. Il settimo scatterebbe la «denuncia all'Autorità Giudiziaria ai sensi dell'art. 650 del Codice Penale». L'autore vuole ottemperare e, grazie a una squadra di boscaioli macedoni sta per farlo, ma all'ultimo momento spuntano gli ambientalisti che, animati da «un'ideologia paranoide», lo accusano di ogni nefandezza, e per procedere bisogna chiamare i carabinieri. Mai una gioia nella vita di Leotti che ha lasciato Roma dove lavorava come sceneggiatore (Radiofreccia, Il partigiano Johnny, Vallanzasca...) con l'idea di campare sulle terre di famiglia, per accorgersi, dopo tante fatiche e spese, di essere caduto dalla padella alla brace, dalla crisi del cinema a quella dell'agricoltura, dal conformismo (in parte condiviso) della sinistra dei salotti al totalitarismo (tutto subito) del Partito innominato e innominabile. Un fiume di guai che almeno ha prodotto questo libro buffo e morale, dal messaggio martellante: che non vi venga in mente di darvi all'agricoltura.

Avetrana, 28 febbraio 2016. La strage degli alberi.

Il commento del Dr Antonio Giangrande, scrittore, blogger, youtuber. 

Mi ero ripromesso di non occuparmi più della politica locale per la sua inutilità, ritenuta stantia e stagnante e periodicamente riproposta da gente di destra e di sinistra ambiziosa e senza alcun valore, ma di fronte alla desertificazione che l’odierna amministrazione di destra di Avetrana sta attuando alla fine del suo mandato non è possibile rimanerne complici con il proprio silenzio. Questi signori stanno per finire di tagliare tutti gli alberi piantati dall’ultima amministrazione di sinistra, affinchè alla fine del loro mandato non ne rimanga nessuna testimonianza. Nessun motivo o giustificazione può essere avvalorato dalla logica. Hanno usato la scusa delle radici che spaccano il manto stradale; delle foglie che sporcano, del pericolo di cadute per cedimento. Hanno usato, addirittura, la scusa della presenza della Processionaria su qualche albero, per tagliarli tutti. Usano il metodo Xylella: Tabula Rasa. Come dire: se il cane ha le pulci o le zecche, il coglione non disinfesta i parassiti, ma uccide il cane suo e dei suoi vicini. E, comunque, anche se chi ha piantato gli alberi, lo ha fatto con negligenza o imperizia, sapendo della dannosità dell'albero cresciuto, non si uccide senza ritegno un essere vivente, istigati da gente più cattiva e ignoranti di se stessi. Di questo passo si tagliano gli alberi, prima piantati da qualcuno e poi ritenuti dannosi da altri; poi si uccidono i cani randagi nati senza colpa propria, ritenuti pericolosi; poi si uccidono gli esseri umani vecchi, malati e disabili inutili per la società, oppure i figli non voluti. Questi signori non hanno alcuna cultura ambientalista e naturalista. Usare la potatura o la disinfestazione, o limitare lo scempio non è ipotesi alla loro portata. Meglio eliminare ogni pianta dal paese. Il verde ci rende differenti dall’africa sahariana. Credevo che fosse il rosso il colore da costoro odiato…invece è il verde. Che peccato condividere il paese con gente che non ama la Natura, anche perché chi non ama la Natura, non ama l’uomo.

 “Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi. Chi inquina paghi, anche per il patema d'animo".

Ambiente ed ambientalismo ed ecologismo. Distinzione sui termini dietro cui si nascondono ideologie e fondamentalismi, bugie ed odio contro l'uomo.

"La grandezza di una nazione e il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui mangiano. Da ciò si può dedurre il trattamento delle sue risorse agro alimentari. L’Italia dove, addirittura, quello che mangiamo non è quello che appare ed è insito di dubbi sulla sua genuinità e provenienza. Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi".

"La grandezza di una nazione e il suo progresso morale si possono giudicare dal modo in cui tratta gli animali. Da ciò si può dedurre il trattamento che ella riserva alle persone. Ognuno pensa che le disgrazie colpiscano solo gli altri, senza tener conto che gli altri siamo anche noi. Solo allora ci accorgiamo quanto il sistema non funzioni. Ma le istituzioni colluse, i media omertosi e i cittadini codardi fanno sì che nulla cambi".

Animali ed animalisti. Distinzione sui termini dietro cui si nascondono ideologie e fondamentalismi, bugie ed odio contro l'uomo. 

IL VERDE PUBBLICO È SEMPRE PIÙ MARCIO. Senza fondi, a corto di personale e spesso costretti a bloccare gli appalti sulla scia degli scandali, i Comuni italiani faticano a garantire la manutenzione di parchi e giardini. Un problema che mobilita associazioni e comitati cittadini, ma completamente assente dalla campagna elettorale nelle grandi città. La legge nazionale impone censimenti, piani e regolamenti, ma sono rari i municipi che riescono a rispettare gli obblighi, compreso quello che prevede un nuovo albero per ogni neonato. E alla vigilia delle elezioni in pochi sanno che i sindaci sarebbero tenuti a presentare il loro "bilancio arboreo", scrive "La Repubblica" il 25 maggio 2016.

Mafie, incompetenza e leggi ignorate, scrive Alessandro Cecioni. La rappresentazione plastica del disastro sono le centinaia di portavasi lasciati vuoti nel semenzaio comunale di San Sisto, a Roma. Sopra c'erano piante di azalea ora sparite, depredate dalle coop di Mafia Capitale con la complicità ben retribuita di funzionari infedeli. È l’esempio, il peggiore certo, di quello che può accadere quando, con i Comuni senza più né uomini né risorse per far fronte alla manutenzione ordinaria e straordinaria, i 550 milioni di metri quadrati di alberi, prati, fiori, viali e parchi che compongono il verde pubblico italiano (dati riferiti ai 120 capoluoghi di provincia) vengono dati in gestione ai privati. Un patrimonio che diviso per il numero di italiani corrisponde a 30,3 metri quadrati per abitante, un dato che non ci metterebbe nemmeno male in un'ipotetica classifica mondiale. A New York, per dire, ogni cittadino ha a disposizione 23,1 metri quadrati, a Parigi 11 e mezzo: ma provate a cercare un arredo rotto o rifiuti abbandonati a Central Park o nel Giardino delle Tuileries. O nei parchi di Londra, che sono comunque immensi e fanno dei londinesi dei cittadini fortunati con i loro 105 metri quadrati a testa. Ai romani ne toccano 16,5 a testa, ma ci sono 20mila alberi ridotti a un mozzicone che aspettano di essere sostituiti, panchine spaccate, prati che sembrano giungle. Consola poco quindi il recentissimo rapporto Istat sul verde urbano che segnala qualche progresso quantitativo (nel 2014 ogni cittadino italiano che vive nelle città capoluogo disponeva in media di 31,1 metri quadri, con forti differenze regionali) ma non lo stato qualitativo. La foto sfocata delle statistiche. "Il problema è proprio questo: il degrado del verde pubblico. I dati statistici non riescono a cogliere l'aspetto decisivo della qualità di prati, alberi, attrezzature. Anche i dati che pubblichiamo nel nostro rapporto annuale 'Ecosistema urbano' ci dicono, per esempio, che Matera ha quasi mille metri quadrati di verde per abitante, ma non ci dicono in che condizioni si trovano e se per raggiungerlo devo prendere la macchina o ci posso andare a piedi, non ci dicono se le panchine ci sono o sono devastate", sottolinea Alberto Fiorillo, responsabile Aree urbane di Legambiente. La riprova sta nelle centinaia di comitati a difesa del verde che si contano in Italia. E sta nei dati del sondaggio fatto nel 2013 da Eurobarometro in 79 città e 4 agglomerati urbani europei sulla percezione della qualità del verde urbano. Il 71% dei napoletani e 6 palermitani su 10 si dichiarano insoddisfatti dello stato dei loro parchi e giardini. Un tesoro urbano. Eppure il verde urbano è un bene prezioso. "È importantissimo per i comportamenti della popolazione. Il verde è il colore della calma – dice Mariella Zoppi, dicente di Urbanistica, presidente del corso di laurea magistrale in Architettura del paesaggio all’Università di Firenze - quindi svolge una funzione psicologica, sociale. Sotto il profilo ambientale, poi, ha effetti benefici sulla qualità dell'aria. Io credo che sia un elemento fondamentale nella transizione verso una nuova società. Per questo considero sbagliato il taglio della spesa pubblica in questo settore". Legge quadro. Da tre anni è in vigore la legge 10/2013, una vera e propria legge quadro sullo sviluppo e la salvaguardia del verde pubblico in Italia. Il fulcro è il Comitato per lo sviluppo del verde pubblico istituito presso il ministero dell'Ambiente. E' al Comitato che è demandato il controllo sulle norme che riguardano la tutela degli alberi monumentali, del rispetto dell’obbligo per i Comuni sopra i 15mila abitanti di piantare un albero per ogni bambino nato o adottato. E' il Comitato, ancora, che emana circolari attuative della legge e che indica i criteri che le amministrazioni territoriali devono seguire in materia di urbanizzazione per mantenere e incrementare il verde pubblico con particolare riferimento agli alberi. Le sanzioni, amministrative e penali, sono previste solo nei casi di abbattimento o danneggiamento delle piante monumento dei Parchi della rimembranza nati dopo la Prima Guerra mondiale, ma ci si sta attrezzando anche per gli alberi monumentali (anche se la definizione "monumentale" è ancora oggetto di dibattito) il cui censimento nazionale è a buon punto, mentre per quanto riguarda il rispetto della norma "un albero per ogni nato o adottato" la sanzione può essere solo "politica". "La legge – spiega Massimiliano Atelli, presidente del Comitato – introduce il ‘Bilancio arboreo’, ovvero il computo di quanti alberi ha trovato un sindaco al suo insediamento e quanti ne lascia alla fine del mandato. Saranno poi i cittadini, con il voto, a sanzionare o premiare il suo operato". Strumenti ignorati. Le amministrazioni locali hanno tre strumenti di governo per parchi e giardini: Censimento del verde, Regolamento del verde e Piano del verde. Il primo fa una fotografia precisa di quello che c’è in una città: quanti alberi, di che specie e in quale condizione di salute si trovano. A redarlo sono stati 53 capoluogo di provincia sui 73 analizzati dal X rapporto Ispra. Il Regolamento deve indicare invece prescrizioni e indicazioni tecniche sulla progettazione del verde (sia pubblico che privato). Lo hanno adottato solo 36 Comuni, 7 dei quali solo per ciò che riguarda il verde pubblico. Poi c’è il Piano, lo strumento più ignorato. Dovrebbe integrare la pianificazione urbanistica per dare una "visione strategica sullo sviluppo del sistema del verde urbano e peri-urbano", come si legge nella Relazione 2015 del Comitato per lo sviluppo del verde pubblico. In Italia lo hanno approvato solo sei comuni capoluogo (Savona, Reggio Emilia, Bologna, Ravenna, Forlì e Taranto), mentre Milano e Bergamo hanno norme in materia nel Piano per il governo del territorio. Il tradimento dell'albero per ogni nato. In attesa del giudizio elettorale, però, sono pochi i Comuni che piantano un albero per ogni neonato. Nella legge è previsto che i municipi inviino a chi ha registrato il proprio figlio all’anagrafe un certificato in cui si dice che tipo di albero è stato piantato e dove. Fantascienza. A Firenze si pianta un albero per ogni classe d’età: c’è quello del 2001, del 2002 ecc. A Torino si è esteso il concetto anche agli arbusti, in altre città della norma si è persa traccia. "A Roma ci sono 25mila nuovi nati all’anno. Non saprei come pagarli considerando che ognuno costa 300 euro fra impianto e manutenzione nei primi due anni. E poi in 10 anni fa 250mila alberi, una foresta. Dove li mettiamo?", si giustifica Antonello Mori, direttore del dipartimento per la Gestione ambientale e del Verde del Comune di Roma. "Quella del territorio a disposizione è una scusa – sostiene Massimiliano Atelli – la legge prevede che si possano chiedere terreni in prestito al Demanio. O che si usino gli alberi previsti per i neonati per sostituire quelli abbattuti". E comunque 250mila alberi in dieci anni non possono spaventare se Sadiq Khan, neosindaco di Londra, ha annunciato di voler piantare due milioni di alberi in 10 anni. "In Cina ne vogliono piantare un miliardo da qui al 2020", chiosa Atelli. Risorse scarse. A preoccupare sono le risorse, sia in termini di soldi che di personale, con cui i responsabili del verde pubblico dei vari Comuni devono fare i conti. "Le faccio l’esempio del mio Comune – dice Stefano Cerea, presidente dell’Associazione italiana direttori e tecnici dei pubblici giardini – Da trent’anni lavoro a Treviglio, 30mila abitanti, provincia di Bergamo. Lo scorso anno per far fronte a tutta la gestione del nostro verde pubblico avevo un budget di 230mila euro, quest’anno saranno 150mila". "Noi - aggiunge Mori – oggi abbiamo mezzo centesimo per ognuno dei 40 milioni di metri quadrati di verde che gestiamo a Roma". L'associazione che Cerea presiede è nata 60 anni fa e conta 400 iscritti in rappresentanza di 200 Comuni. Prima erano ammessi solo i dipendenti degli enti locali, da tre anni è stata aperta ai funzionari delle municipalizzate perché spesso i Comuni ricorrono a loro per la gestione del verde. "Non sempre con grandi risultati – ammette Antonello Mori – a Roma con Ama, per esempio, si è aperto un contenzioso sulla gestione delle aree per i cani nei giardini pubblici. Chi deve raccogliere gli escrementi e disinfettare l’area? Per noi loro, si tratta pur sempre di rifiuti speciali. Ma Ama non la pensa così". "Poche risorse, ma oneri immensi per i responsabili dei Servizi giardini – dice ancora Stefano Cerea – perché se un albero cade, in città, stia sicuro che fa danni. A volte, purtroppo anche delle vittime. E’ accaduto ultimamente a Roma, a Catania, a Napoli. E l’avviso di garanzia dopo il sindaco colpisce il responsabile tecnico. Non solo, siamo anche indicati spesso come nemici del verde dagli ambientalisti, magari perché abbiamo tagliato degli alberi potenzialmente pericolosi. Tre anni fa il dirigente del verde pubblico di Padova si è visto recapitare una busta con un proiettile”. Sul fronte delle risorse umane il problema arriva da lontano, dal 1975 quando la chiamata diretta nella pubblica amministrazione è stata cancellata e non è stato più possibile assumere chi usciva dalle scuole giardinieri, le scuole di formazione dei Comuni. Dal 2001, poi, nel Pubblico Impiego c’è il blocco del turnover, è possibile un’assunzione ogni 5 pensionamenti. E questo ha riflessi sull’organico in termini quantitativi. "Ma da noi a Roma il blocco è iniziato prima, di fatto non ci sono assunzioni dal 1990 e dei 1800 addetti del Servizio Giardini presenti nel 1980 oggi di operativi ne restano 250, con un’età media che supera di gran lunga i 50 anni", dice ancora Antonello Mori. E' vero però che a Roma nel 2004 ci fu una corsa a trasformare i giardinieri in personale tecnico, così sul campo rimasero 270 persone in meno. Fu di fatto l'apertura agli appalti esterni, molto spesso per affidamento diretto, un meccanismo che ha permesso al sistema di Mafia Capitale di fare man bassa. Problemi di gestione che appaiono insormontabili, quindi, anche se proprio la legge 10 permette di affidarla ai privati. Due le strade che si possono seguire. La prima è quella della sponsorizzazione: un'azienda sceglie un giardino o un parco e si impegna nella sua manutenzione o al suo ripristino presentando un progetto all’amministrazione comunale che lo approva e poi controlla che tutto venga fatto secondo i criteri decisi. In cambio lo sponsor può utilizzare lo spazio per eventi, campagne pubblicitarie e altre iniziative, garantendo però sempre la fruibilità pubblica. Una modalità applicata con successo in particolare a Milano. La seconda strada la indica Antonello Mori, del servizio Verde pubblico di Roma: "E’ quella del mecenatismo. Ben vengano i privati, le aziende, ma niente uso esclusivo del bene. Un cartello ricorderà chi ha finanziato la manutenzione del giardino. Di più non concediamo. Sta funzionando. L'esempio più recente è il ripristino del Giardino degli aranci sull’Aventino". "Su questo – precisa Atelli – noi siamo a disposizione per consigli e aiuti pratici. Purtroppo molti ci ignorano, preferiscono fare da soli, o anche non fare niente". E intanto parchi e giardini vanno in malora.

Senza manutenzione Roma chiude i cancelli, scrive Cecilia Gentile. Un cancello serrato con un cartello: "Vietato entrare per rischio caduta alberi". È così che succede a Roma. Se un temporale fa ondeggiare pericolosamente le fronde non si procede alla messa in sicurezza ma si chiudono i parchi perché non ci sono i soldi e non c'è personale. È la Caporetto della manutenzione del verde: gli effetti si vedono nei giardini e nei parchi chiusi e nell'incuria imperante. Ora che è primavera inoltrata e che l'erba cresce prepotentemente prati e giardini si sono trasformati in giungle. Il colpo di grazia ad un settore già ridotto ad ancella del bilancio comunale lo ha dato lo scandalo Mafia Capitale. Una volta appurato che verde e migranti erano i pozzi senza fine da cui si alimentava il malaffare l'allora giunta Marino ha congelato tutti gli appalti con le Coop che per conto del Comune si occupavano della manutenzione. Una scelta obbligata quella del ricorso agli affidamenti esterni. Il Servizio Giardini del Campidoglio dispone infatti soltanto di 250 giardinieri per curare l'immenso patrimonio verde della capitale. Solo le alberature sono 330mila. Un tempo i giardinieri comunali erano 1.800 poi sono andati progressivamente riducendosi con i pensionamenti e il blocco del turn over. Appena insediata, l'allora assessore all'Ambiente della giunta di Ignazio Marino, Estella Marino, aveva annunciato un cosiddetto "appaltone" per il monitoraggio delle alberature di prima grandezza, pari a 86mila fusti, la cui altezza raggiunge almeno i venti metri. Ma la gara è stata bandita soltanto il 29 giugno 2015. Il termine per presentare le offerte, arrivate da 130 candidati, si è chiuso il 15 settembre 2015. Si è appena conclusa la fase dei controlli, ora si passa al vaglio delle offerte e probabilmente la pratica finirà nelle mani del prossimo sindaco. Da parte loro, i candidati sindaci non sembrano aver tenuto in gran conto l'emergenza del verde nel loro programma elettorale. Malgrado a Roma parchi e ville, un tempo vanto della capitale, siano agonizzanti. Gli appalti ponte banditi dal Comune in attesa dell'assegnazione dell'appaltone, 16 in otto mesi nel corso del 2015, del costo di 200 mila euro ciascuno, sono esauriti o in via di esaurimento. Inutile pensare che in queste condizioni la capitale possa dar corso alla legge del 1992 che prescrive di mettere a dimora un albero per ogni nuovo nato. In città nascono 25mila bambini all'anno. Il problema adesso è mettere in sicurezza e curare il patrimonio esistente che sta andando in malora.

Napoli, dopo 20 anni la città ancora aspetta, scrive Anna Laura De Rosa. Vent'anni per realizzare il Parco della Marinella in pieno centro. Ma quell'oasi verde ancora non c'è. Alberi, aiuole, giostrine e un piccolo campo sportivo. Il progetto firmato dall'architetto Aldo Loris Rossi nel 1997 mostra un polmone verde di 30mila metri quadrati atteso inutilmente da ragazzini ormai trentenni. L'intervento rientra nel Grande progetto Napoli Est. L'appalto finanziato con fondi Por vale 5 milioni ed è stato aggiudicato dopo una serie di affanni burocratici. È una saga fatta di sequestri e incendi dolosi, occupazioni abusive e ricorsi da parte delle ditte in graduatoria. I lavori non sono mai partiti. E sul parco restano le macerie. Montagne di rifiuti e topi tra l'erba alta. Una discarica nel centro di Napoli. L'area in cui dovrebbe sorgere il parco, detto anche Villa del Popolo, si trova di fronte a due quartieri senza spazi verdi abitati da circa 25mila persone. Il primo passo significativo per la realizzazione si ha nel 2010, con il trasferimento della proprietà dei terreni dal demanio al Comune. Un enorme campo rom abusivo occupa però l'area negli anni dell'abbandono. Nel 2012 cominciano lo sgombero delle baracche e una serie di interventi di rimozione rifiuti. Via quintali di copertoni, legno e materiale speciale. Una speranza si accende a settembre 2014, quando la gara d'appalto viene aggiudicata al consorzio temporaneo d'impresa Ream. Neanche il tempo di recintare l'area di cantiere che scatta il ricorso al Tar della seconda ditta in graduatoria. Le battaglie legali vanno avanti fino ad oggi mentre un incendio doloso appiccato da ignoti divampa nel parco che finisce sotto sequestro. Le sezioni unite si pronunceranno sulla gara il prossimo 22 giugno, ma i lavori non potranno partire subito poichè sono scadute le verifiche antimafia. Il vicesindaco Raffaele Del Giudice, in carica da 10 mesi con l'amministrazione de Magistris, ha avviato da qualche giorno la realizzazione di una fogna nel parco, in modo da sbloccare almeno una parte dei lavori. "E' assurdo. Un quartiere che per 20 anni ha sognato questo parco è ancora senza spazi verdi - protesta Del Giudice, ex responsabile di Legambiente Campania - Serve un osservatorio nazionale su ritardi e contenziosi nella realizzazione di opere pubbliche, non ci possiamo più permettere tempi biblici. I tribunali hanno bisogno di personale per la trascrizione delle sentenze. Ce la stiamo mettendo tutta, la nostra amministrazione ha dato un'accelerata". Del Giudice ha riattivato la prassi della messa a dimora di un albero per ogni nato, disattesa da anni: grazie a un accordo con la forestale, alberelli di piccoli dimensioni sono stati sistemati nel vivaio comunale e saranno piantati a breve. Pubblicato anche il bilancio arboreo di fine mandato. Il verde urbano attrezzato gestito dall'amministrazione è passato dai 4 milioni e 722 mila metri quadri del 2011 ai 4 milioni e 991 mila metri quadri del 2015 con un incremento del 4.41 per cento. In città ci sono più di 60 mila alberi di alto e basso fusto, di cui però molti hanno superato i 50 anni e richiedono quindi maggiore cura. In 5 anni sono stati abbattuti più di duemila alberi e piantati 4208 arbusti. La città spera di vedere finalmente l'arrivo di alberi al Parco della Marinella. Un sogno rimandato a dopo le elezioni. 

A Milano la svolta con Pisapia, scrive Ilaria Carra. Al settore verde la giunta guidata da Giuliano Pisapia ha prestato molta attenzione. In particolare si è cambiato l’approccio: sono 33mila i metri quadrati di aiuole trasformate da stagionali in perenni, in modo che siano sempreverdi tutto l’anno. Si è spinto molto poi sul fronte della partecipazione dei cittadini: sono 392 le aiuole condivise dai milanesi e 13 i nuovi giardini condivisi, 150 i condomini che hanno trasformato marciapiedi in aree verdi sottraendo spazi a parcheggi abusivi e 20mila metri quadrati di terreni in più per orti. Uno sforzo che ha conosciuto però anche contestazioni. Le critiche più dure sono arrivate dai difensori del verde sacrificato per i lavori del futuro metrò 4, circa 500 alberi tagliati per far spazio ai cantieri in vari punti della città oggetto di una battaglia di alcuni gruppi di cittadini. Dopo decenni, in tema verde, la giunta Pisapia ha dedicato tempo infine per risolvere la annosa questione della paulonia, secolare albero in Brera molto difeso dalle signore del quartiere che rischiava di dover lasciare il posto al progetto immobiliare della società proprietaria dello spicchio di area di grande pregio in via Madonnina: con una permuta di aree, la paulonia è salva e il quartiere è accontentato.

Alberi urbani vittime delle potature selvagge, scrive Alessandro Cecioni. L’intervento più visibile, e più criticato, sul verde pubblico sono le potature. "È un punto dolente nel quale noi ci troviamo fra due fuochi – dice Antonello Mori, direttore del dipartimento per la Gestione ambientale e del Verde del Comune di Roma – da una parte ci sono quelli che considerano gli alberi un pericolo, oppure che si sentono danneggiati da rami troppo vicini alle finestre, dall’altra ci sono i cittadini pronti a fare le barricate appena si sfoltisce una pianta. Quello che posso dire è che a Roma non si pota più in modo selvaggio da almeno 20 anni. Niente capitozzature per intenderci". "È falso, le capitozzature ci sono eccome – lamenta Sanzio Baldini, già docente universitario di Gestione del verde urbano e Tecnologia forestale, autore di diversi libri in materia – solo che le chiamano capitozzature lunghe, perché non sono più fatte dove si allargano i rami, ma un paio di metri più in alto. Però anche così si creano delle ferite che lasceranno spazio alle spore e ai funghi, agli insetti. Si condanna la pianta". "Capitozzare è un retaggio che viene dalla gestione contadina, quando si doveva fare frasca per gli animali. Oggi è realizzata nella versione 'lunga' (il modo descritto dal professor Baldini, ndr) anche perché è semplice e non richiede nessuna perizia", rincara la dose Carlo Mascioli, dottore forestale consulente di enti pubblici e di privati. "Il problema – aggiunge – è che sul verde pubblico c’è purtroppo una grandissima ignoranza di fondo, nella scelta degli alberi che vengono messi a dimora, nella scarsa programmazione e progettualità". "I problemi che può creare un albero in città vengono da lontano – spiega il professor Baldini – dalla distanza di un albero dall'altro, dalla vicinanza o meno delle case, dai lavori stradali che sono stati fatti con conseguente taglio delle radici. Poi a tutto questo si prova a porre rimedio con le potature. Con le capitozzature lunghe che di fatto spostano il baricentro dell’albero e lo rendono meno stabile, più pericoloso. Perché queste ferite alle piante vengono inferte da persone che non hanno la minima idea di quello che fanno. Non escono da scuole come quella di Monza, non hanno studiato la natura degli alberi. Sapesse quante volte ho sentito dire ‘tagliamo, tanto ramo più, ramo meno...’". "Lei lo sa quanto ci mette una pianta a dare copertura al taglio di un ramo di 5 centimetri di diametro? Dai 15 ai 18 anni. La ferita si rimargina in un tempo lunghissimo. Qualcuno crede di superare il problema mettendoci del mastice, ma gli alberi sono esseri viventi, si muovono”, dice ancora Baldini. "Non solo: un platano alto 35 metri, perché in quel posto quella è la sua altezza naturale, una volta potato drasticamente ripartirà verso l’alto, per tornare a 35 metri - aggiunge Mascioli – La natura è questo. Se lo si vuole più basso va curato in modo diverso, da persone competenti". "Il problema di fondo resta questo – dice Massimiliano Atelli, presidente del Comitato per lo sviluppo del verde pubblico – si deve distinguere fra verde orizzontale, i prati, verticale, gli alberi, e verde di pregio. Per il verde orizzontale si possono anche impiegare persone con conoscenze minori, per gli altri servono degli specialisti".

L'eccellenza perduta delle scuole giardinieri, scrive Alessandro Cecioni. "Disaffezione verso le professioni del verde, anche a causa della chiusura di fatto delle scuole giardinieri di maggiore tradizione". Così si legge nella Relazione annuale del Comitato per lo sviluppo del verde pubblico. "Erano, e in alcuni casi sono restate, un'eccellenza didattica, ma non più per il settore pubblico. Una delle tante eccellenze cui il nostro paese ha rinunciato", dice con amarezza Stefano Cerea, presidente dell’Associazione italiana direttori e tecnici pubblici giardini. Certo, quando nel 1975 furono cancellate tutte le deroghe che permettevano la chiamata diretta dei dipendenti comunali, le scuole giardinieri videro il loro destino segnato. Prima ci si iscriveva a una di queste, si facevano quattro anni di studio, sia teorico che pratico, e c’era la certezza di entrare a far parte dei giardinieri comunali. "A Roma negli anni 80 c'erano 2mila ettari di verde pubblico, la metà di ora - dice Antonello Mori, direttore del Servizio ambiente e giardini del Comune di Roma - e 2mila addetti al servizio. Ora con il doppio di verde i giardinieri sono 250, con molti ultracinquantenni, gli ultimi usciti dalla Scuola. Quando li vedo salire sui cestelli per le potature, magari a venti metri d'altezza, qualche paura ce l'ho”. Per loro niente corsi di "tree climbing", arrampicarsi sugli alberi per fare così la manutenzione straordinaria delle piante. È una tecnica che data un paio di decenni nata negli Usa. Si insegna, insieme a molte altre cose, nella Scuola agraria del Parco di Monza. "La scuola più famosa e più bella”, dice ancora Cerea. "Ormai i dipendenti pubblici che vengono da noi a specializzarsi non ci sono più - spiega Filippo Pizzoni, direttore della Scuola – siamo un centro di formazione professionale postdiploma accreditato alla Regione Lombardia, prepariamo personale che poi potrà lavorare in aziende, in proprio, in ogni campo legato alla cura, progettazione e realizzazione di giardini e parchi". I numeri parlano da soli: 150 corsi di formazione ogni anno, 1500 allievi. Fra i corsi più seguiti quello per giardiniere professionista (600 ore), quello per arboricoltore (320 ore). E ancora quello per imparare a fare il fiorista, oppure per avere il titolo a occuparsi di giardini storici. E, naturalmente, i due corsi per tree climbers tenuti dagli specialisti americani Mark Chisholm e Brian Noyes. A Roma la Scuola Giardinieri, nata nel 1926 e chiusa di fatto all’inizio degli anni 90, ha riaperto cambiando pelle. "Facciamo corsi per i privati cittadini che amano il giardinaggio – dice ancora Antonello Mori – durano 5 mesi, da febbraio a giugno, 20 lezioni di due ore l'una. Il costo è 150 euro. Abbiamo aperto le iscrizioni on line e in 4 giorni sono arrivate 520 domande". Per tenere delle lezioni verranno anche alcuni docenti della Scuola di Monza. 

Xylella fastidiosa, una gigantesca truffa. I Portavoce del Movimento 5 Stelle Puglia hanno presentato una mozione, riuscendo a fatica a farla votare all'unanimità dal Consiglio Regionale per impegnare la Giunta a richiedere all'Avvocatura una valutazione sulla legittimità formale e sostanziale dell'iter che ha portato al Piano Silletti delle eradicazioni degli ulivi. In una regione governata da un magistrato in aspettativa, mentre quest'ultimo deliberava con la sua Giunta per autorizzare le eradicazioni e ha lasciato che la Regione si costituisse contro gli agricoltori che si opponevano alle eradicazioni dei loro ulivi, i dubbi espressi dalla Magistratura li abbiamo anticipati noi, prima e unica forza di opposizione. Inoltre, giace in VII Commissione in attesa di essere discussa e votata la nostraproposta di legge per la costituzione di una Commissione Speciale Antimafia che si occuperà di mafia, ecomafia ed agromafia (essendo il caso Xylella contemplato nel I rapporto Antimafia di Legambiente coordinato da Caselli), scrive Petra Reski sul blog di Beppe Grillo il 14 febbraio 2016. Boschi di ulivi interminabili, terra rossa africana, fogliame scintillante – questo ha reso famoso il Salento, il tacco dell’Italia. In Puglia, ci sono 60 milioni di ulivi, alcuni di loro secolari, nel Salento 11 milioni. Per legge sono inseriti in un catasto, un registro che annota luogo ed età di ogni singolo albero: per ogni ulivo abbattuto ne deve essere piantato un altro. Fatto sta però che nella regione attorno a Gallipoli alcuni ulivi hanno perso le foglie, rami seccati si protendono verso il cielo, è come se qualcuno avesse sparso il defoliante Agent Orange. E con questo ci si avvicina probabilmente molto alla realtà, perché la presunta invasione dei batteri ricorda la trama di un romanzo poliziesco – come lo hanno scoperto alcuni ambientalisti del Salento. In ottobre 2013 stampa locale e tecnici della facoltà Agraria di Bari rendono pubblico la notizia della scoperta della xylella fastidiosa nel Salento: un’oscuro batterio avrebbe colpito gli ulivi del Salento, un batterio che sarebbe responsabile per il disseccamento rapido dell’ulivo: il sindrome CODIRO (complesso del disseccamento rapido dell’ulivo) – così informa il CNR di Bari. Gli agricoltori pugliesi si meravigliano: fino ad ora il batterio ha colpito vigne e agrumeti (in California, Costa Rica e in Brasile), ma mai oliveti. Anzi, della Xylella fastidiosa non c’è mai stata neanche una traccia in Europa. Tutte le altre cause che avrebbero potuto essere all’origine del seccamento vengono escluse. La Xylella sarebbe arrivata con piante infettate (oleandro) importato dal Costa Rica. Visto che erano importate in tutta Europa, ambientalisti e agricoltori si chiedono però: Perché il batterio avrebbe colpito solo nel Salento? Però non c’è spazio per dubbi: Con grande fretta, quattro zone colpite del batterio vengono individuate nel arco ionico del Leccese (che corrispondono, fatalità, con la zona del boom turistico: Gallipoli etc.) e sono etichettate da “zona rossa”, “zona arancio” e “zona rosa”. Visto che la xylella fastidiosa è un patogeno da quarantena, definita così dalla EPPO (European and Mediterranean Plant Protection Organisation), vengono decise misure drastiche nella “zona focolaio”: Regione, governo e Ue decidono deciso di varare un piano che prevede di sradicare gli ulivi infetti, oltre a quelli sani e ogni pianta nel raggio di cento metri, e lo spargimento di pesticidi, incaricando un commissario straordinario di eseguirlo: il generale della Forestale Giuseppe Silletti. In breve dovrebbero essere abbattuti 600 000 alberi senza la possibilità di piantarli nuovamente visto che si tratta di una infezione di un batterio pericoloso elencato sulla lista dei patogeni da quarantena. Sette tipi di pesticidi devono essere applicati – di cui alcuni sono stati già ritirati dal mercato come velenosi – ma chi si rifiuta deve pagare una multa di 1000 Euro. Per ogni albero abbattuto vengono pagati prima 146, poi 261 Euro di risarcimento. Giornalisti di tutto il mondo fanno il pellegrinaggio nel Salento, e dalla Neue Züricher Zeitung fino alla New York Times riferiscono unisono quello che dicono gli “scienziati”. Uno degli ambientalisti che non crede all’emergenza Xylella, è l’agricoltore biologico Ivano Gioffreda, che fa parte di una cooperativa di agricoltura organica “Spazi popolari” – una iniziativa per la difesa del Salento. Lui è riuscito a salvare ulivi seccati con mezzi tradizionali: rame, calce e potatura. Ma nessuno degli responsabili e scienziati per il piano “emergenza Xylella” gli dà retta, anzi. Neanche quando la commissione agricola parlamentare fa notare che vede le ragioni per il disseccamento piuttosto nell’eccessivo uso di pesticidi e fungici e nella potatura abnorme in estate - pratiche molto diffuse nel Salento: tanti agricoltori distruggono le “erbacce” sotto gli ulivi, perché non raccolgono gli ulivi dall’albero, ma quando sono caduti per terra, rastrellandoli. Anche queste osservazioni non hanno nessun effetto. C’è solo un fatto sicuro: la regione di emergenza Xylella è identica con il centro turistico del Salento. Da quando il Salento è stato scoperto dal turismo, una gran parte della costa sta sotto tutela ambientale, e gli speculatori vogliono infiltrarsi nell’entroterra. Però i complessi alberghieri, campi da golf, superstrade, centri commerciali, luoghi di vacanza possono essere costruiti solo se gli ulivi protetti sono eliminati – cosa estremamente difficile – se non si tratta di un batterio da abbattere drasticamente. Alcuni ambientalisti scoprono che già nel 2010 c’era un workshop tenutosi allo IAM (Istituto agronomico mediterraneo) di Bari nel 2010 sulla xylella fastidiosa e l’indicazione di un eventuale quarantena. Tra i relatori sono i massimi esperti di Xylella, Alexander Purcell e Rodrigo Almeida dell’università di Berkeley – scienziati che hanno anche lavorato come consulenti per la multinazionale Monsanto. In aprile 2014 parte il loro esposto alla procura di Lecce. La procura comincia ad indagare: Sono dieci i nomi che sono stati iscritti sul registro degli indagati. Tra loro, oltre a funzionari della Regione Puglia, ricercatori del Cnr e dello Iam e componenti del Servizio Fitosanitario centrale, c’è anche Giuseppe Silletti, comandante regionale del Corpo Forestale, nelle vesti di commissario straordinario per l’emergenza fitosanitaria. Rispondono dei reati di diffusione colposa di una malattia delle piante, inquinamento ambientale colposo, falsità materiale e ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, getto pericoloso di cose, distruzione o deturpamento di bellezze naturali. Indagando per una possibile diffusione colposa del batterio, i magistrati scoprono un thriller: gravi irregolarità per quanto riguarda l’introduzione degli organismi patogeni – uno degli scienziati ha portato il materiale persino nel suo bagaglio a mano – e nessun protocollo sulla distruzione del materiale infetto. Visto che sono stati anche denunciati episodi di persone in “tuta bianca” che giravano negli oliveti: Dal 2010 sono stati fatti “esperimenti non autorizzati” con pesticidi, a partire da 2013 anche ufficialmente con il best-seller di Monsanto: “Round up”, un glifosato dichiarato nel 2015 dalla WHO come “probabilmente cancerogeno”. Dopo l’applicazione di Round up, una pianta muore nel giro di 10 giorni. Dov’erano i “campi di sperimentazione” – la Procura non ha avuto nessuna risposta. Poi: L’università di Bari faceva parte anche del progetto di ricerca “Olviva” sullo sviluppo delle colture superintensive – e sarà un caso che alla fine, chiuso il progetto “Olviva” nel 2011 c’erano le prime segnalazioni di disseccamento degli ulivi. E gli stessi tre ricercatori dell’università di Bari del progetto “Olviva”, sostenitori delle colture superintensive avevano una mera “intuizione” di indagare fine agosto 2013 sulla presenza della Xylella. Poi: Alcuni protagonisti dell’emergenza Xylella hanno formalizzato un accordo con Agromillora Research SL (centro privato di ricerca e sviluppo del multinazionale agronomico spagnolo) sullo sviluppo di nuove specie di ulivi, aggiudicandosi 70 per cento delle royalties sul fatturato annuo derivante dallo sfruttamento del brevetto. In dicembre 2015, la procura di Lecce ha sequestrato le ulivi destinati da abbattere. Nel frattempo è stato noto che la Xylella era presente nel Salento probabilmente già da decenni. Almeno così a lungo per sviluppare variazioni genetiche. Però non c’è neanch’una prova che sia responsabile per il disseccamento degli ulivi. Anzi, come dice il procuratore di Lecce, Cataldo Motta: “Se c’è qui un ulivo disseccato che non è stato colpito dalla Xylella e, a due metri c’è un altro ulivo sano in cui la Xylella è presente – vuol dire che c’è qualcosa che non va nella presunta emergenza Xyella.” Per quanto riguarda l’olio di oliva extravergine della raccolta 2015: è il migliore in tutta la storia del Salento. Perché tanti agricoltori hanno raccolto per la prima volta le olive con la mano dall’albero.

Xylella: responsabilità di Stato.

Ramaglie e stoppie si possono bruciare. E' attività agricola. La Corte Costituzionale ha bocciato il ricorso governativo contro due leggi regionali, di Marche e Friuli Venezia Giulia, che permettono la bruciatura di sarmenti, considerandola normale pratica agricola. Il Codice dell'Ambiente (Dlgs. n. 152/2006) all’art. 184 classifica come “urbani” i “rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali” (comma 2/lettera e) e come “speciali” “i rifiuti da attività agricole e agro-industriali ai sensi e per gli effetti dell’art. 2135 cod. civ.” (comma 3/lettera a). Ramaglie e stoppie sono quindi da considerarsi rifiuti speciali e come tali andrebbero smaltiti. Lo stesso legislatore, con il Dlgs. n. 205/2010, ha riconosciuto l'evidente eccesso e ha voluto intervenire, introducendo l'articolo 184 nel Codice dell'Ambiente e modificando il testo dell'articolo 185 per escludere dalle procedure di smaltimento rifiuti “paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa mediante processi o metodi che non danneggino l’ambiente né mettono in pericolo la salute umana”. Il problema è: la bruciatura danneggia l'ambiente e mette in pericolo la salute umana? Diversi legislatori regionali sono intervenuti sulla questione, sottraendo la materia alla disciplina dei rifiuti e inquadrandola, invece, in quella agricola. Tra queste l’art. 9 della legge della Regione Marche 18 marzo 2014, n. 3 e l’art. 2 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 28 marzo 2014, su cui si è pronunciata la Corte Costituzionale, su ricorso del Governo, con la sentenza n. 16 depositata il 26 febbraio 2015. La Corte costituzionale, nella sentenza, ha ricordato che recentemente anche il legislatore statale è intervenuto sulla materia, con l’art. 14, comma 8, lettera b), del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91 (Disposizioni urgenti per il settore agricolo, la tutela ambientale e l’efficientamento energetico dell’edilizia scolastica e universitaria, il rilancio e lo sviluppo delle imprese, il contenimento dei costi gravanti sulle tariffe elettriche, nonché per la definizione immediata di adempimenti derivanti dalla normativa europea), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 11 agosto 2014, n. 116. Tale disposizione esplicita, con una novella al codice dell’ambiente, che "attività di raggruppamento e abbruciamento in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro dei materiali vegetali di cui all’articolo 185, comma 1, lettera f), effettuate nel luogo di produzione, costituiscono normali pratiche agricole consentite per il reimpiego dei materiali come sostanze concimanti o ammendanti, e non attività di gestione dei rifiuti" (art. 182, comma 6-bis, del d.lgs. n. 152 del 2006). Al tempo stesso, il legislatore statale ha vietato la combustione di residui vegetali agricoli "in periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni" e ha attribuito ai comuni e alle altre amministrazioni competenti in materia ambientale "la facoltà di sospendere, differire o vietare la combustione del materiale di cui al presente comma all’aperto in tutti i casi in cui sussistono condizioni meteorologiche, climatiche o ambientali sfavorevoli e in tutti i casi in cui da tale attività possano derivare rischi per la pubblica e privata incolumità e per la salute umana, con particolare riferimento al rispetto dei livelli annuali delle polveri sottili (PM10)". Così facendo, secondo la Corte Costituzionale, lo Stato ha riconosciuto di annoverare tra le attività escluse dall’ambito di applicazione della normativa sui rifiuti l’abbruciamento in loco dei residui vegetali, considerato ordinaria pratica applicata in agricoltura e nella selvicoltura. In questa chiave, dunque, la Corte Costituzionale ha ritenuto che il legislatore regionale sia legittimamente intervenuto sul punto, nell’esercizio della propria competenza nella materia agricoltura. Di R. T. pubblicato il 02 aprile 2015 in Strettamente Tecnico.

DECRETO DEL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE…

Dichiarazione dello stato di grave pericolosità per gli incendi boschivi nell’anno 2015, ai sensi della L. 353/2000 e della L.r. 7/2014. 

….Art. 14)

Norme transitorie

In deroga alle prescrizioni e divieti previsti dal presente Decreto potranno essere attuati interventi disposti dalla normativa vigente, per la gestione della lotta ai parassiti in quarantena, quali ad esempio la Xylella degli olivi.

L’inettitudine e l’imperizia dei governanti, la demagogia, l’ignoranza e la falsità di un certo mondo ambientalista e gli appetiti di coloro che ne vogliano fare un business sono più dannosi della malattia. Si vuol desertificare il Salento sterminando tutte le piante in loco. Come dire: c’è una persona malata, si annientano tutti i conviventi e tutti i suoi compaesani. E' l'Isis europea che si abbatte sul patrimonio ambientale salentino.

Il grido d’aiuto lanciato dagli alberi salentini che possono avere una vita millenaria comincia ad espandersi e diffondersi, purché non si affronti la questione con un allarmismo che non solo sarebbe inutile, ma rischia di essere dannoso. Certo, nemmeno il complottismo può funzionare quasi che i salentini siano stati vittime di chissà quale trama ordita da chi lo vuol vedere piegato agli interessi extralocali.

All’inizio il progressivo ammalarsi delle piante venne riferito ad una molteplicità di fattori tra i quali figurava anche un batterio parassita, la Xylella fastidiosa. Con il corollario della prospettazione di un pericolosissimo rischio di contagio. Quasi che il Salento fosse diventato una bomba pronta ad esplodere contaminando il resto del Paese e persino l’Europa.

Ed ecco allora che si cerca di capire chi è il responsabile.

Parlare di responsabilità dello Stato italiano: di questo sì che si può parlare.

Il dr Antonio Giangrande, scrittore e presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, autore del libro Agrofrodopolitania”, imputa al Governo la responsabilità della diffusione della malattia degli ulivi salentini e ne spiega analiticamente i motivi.

La Procura di Lecce apre un’inchiesta - al momento a carico di ignoti - per diffusione colposa della malattia degli ulivi nel Salento? I responsabili ci sono e non sono ignoti: è il Governo centrale e tutti quelli ambientalisti da strapazzo che si sciacquano la bocca con il termine “tutela dell’ambiente e della natura”, ma che in realtà sono più dannosi dei germi patogeni della Xylella. Non è una tesi campata in aria o di stampo complottistico. Ma la consapevolezza che i responsabili tanto ignoti non sono. Di sicuro vi è che il patrimonio olivicolo del Salento ha registrato un attacco grave ad opera di un processo chiamato CoDiRo (Complesso del disseccamento rapido degli ulivi).

Precisiamo che gli ulivi del Salento hanno centinaia di anni. Molti di loro erano centenari già all’epoca di Dante. Queste creature tante ne hanno viste e tanto ne avrebbero da raccontare sugli umani.  «I miei ulivi stanno bene - precisa a Leccenews24 l'anziano agricoltore con gli occhi lucidi che lasciano trapelare una certa preoccupazione -  ma ci sono campagne vicino alla mia dove è arrivata "quella cosa"». «Io non ci credo che non ci sia una cura, è impossibile. Guardi quest'albero, è storto, piegato su se stesso, sembra sul punto di spezzarsi da un momento all'altro. Eppure sono settant'anni che lo trovo sempre lì. Così mio padre. E mio nonno, non è bello?». Per un attimo stentiamo a capire come si fa a definire un albero "bello" poi basta guardarlo con un occhio diverso per rendersi conto che non esiste altro termine per descrivere quel tronco massiccio e contorto, che affonda le sue radici nel terreno puntellato di pietre e che si dirama verso il cielo con le sue chiome argentee e rigogliose. Queste lo sono ancora. Non una foglia marrone, non un ramo secco. Niente. A pensarci bene persino un genio della pittura come Renoir se n'era accorto, in una lettera datata 1889 scriveva testualmente «L'olivo, che brutta bestia! Non potete sapere quanti problemi mi ha causato. Un albero pieno di colori, neanche tanto grosso, e le sue foglioline, sapeste come mi hanno fatto penare! Un soffio di vento, e tutta la pianta cambia tonalità perché il colore non è nelle foglie ma nello spazio tra loro. Un artista non può essere davvero bravo se non capisce il paesaggio». L'anziano che abbiamo incontrato non sarà il maestro dell'impressionismo, ma il messaggio è più o meno lo stesso: la terra è un patrimonio naturalistico di inestimabile valore che deve essere tutelato, protetto. E i primi che dovrebbero farlo sono i contadini. Eppure sembrano essere diventati l’ultima ruota del carro, semplici spettatori di un dramma diventato ormai inarrestabile. «Le malattie ci sono da sempre, perché questa sarebbe diversa? Possibile che si possa combattere solo con l'eradicazione? Ma quando mai?  - prosegue il contadino convinto che una soluzione ci sia e che basta solo trovarla – prima di prendere qualunque decisione bisogna fare molta attenzione perché i nostri ulivi, millenari e non, sono stati ottenuti mediante l’innesto della varietà (Cellina di Nardò e Ogliarola) su ceppo di selvatico resistente a ogni tipo di malattia. Non a caso i nostri uliveti sono soprannominati “uliveti reali” (così come classificate nelle carte geografiche dell’IGM) per la bellezza delle piante e la bontà delle olive e degli oli prodotti». «Non bisogna dimenticare poi che questa tipologia di alberi è riuscita anche a resistere all’incuria grazie al suo legame con la terra da cui estrae la linfa vitale per sopravvivere». «L’unico torto di questi alberi ultra secolari e alcuni addirittura millenari che sono gli unici testimoni viventi della storia dell’uomo è che non hanno mai chiesto niente a nessuno, nemmeno alle istituzioni che investono fior di milioni per un edificio storico, dove per edificio storico si intende anche un fabbricato con meno di cento anni, e delle piante non si sono mai interessati. Adesso devono pensare pure agli ulivi, che sono veri e propri monumenti.  Glielo dobbiamo». «Queste cose succedono da quando abbiamo smesso di rispettare la terra –  ci dice – gli ulivi sono stati dimenticati in primis dall’uomo, sono stati bistrattati, sono stati relegati in uno stato di assoluto abbandono, che solo l’inversione di rotta degli ultimi anni, forse salverà…». «Lei è favorevole all’eradicazione?» chiediamo al 70enne pur conoscendo la risposta e, infatti, perentorio, pronuncia un secco NO «al massimo si più tagliare tanto dalla radice. Usciranno dei polloni che nel giro di pochi anni possono diventare nuovi alberi di pregio, mantenendo così facendo la varietà autoctona nel nostro territorio». E poi usa un termine che strappa quasi un sorriso “scattunare”, questo bisogna fare. Prima di salutarci ci dice una frase che ci lascia un po’ l’amaro in bocca «dai batteri dobbiamo difenderci, ma se dobbiamo difenderci anche dagli uomini, siamo davvero spacciati». Quando si dice vecchia saggezza contadina. 

Attenzione!!! Lo Stato Italiano, genuflesso al potere degli altri Stati europei, Francia in primis, gli ulivi li vuole eradicare, cioè sdradicare. Basterebbe tagliare il tronco in modo che germoglino nuove piante su quelle radici e in pochi anni tutto ritornerebbe allo status quo. Ma ciò non si può fare. Sarebbe troppo semplice e nessuno speculerebbe sulla disgrazia.

Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso internazionale con l'inerzia del Governo italiano che non difende il suo territorio. Nel Consiglio dei 28 ministri dell’agricoltura Ue del 16 marzo 2015, la sentenza per la Puglia: “Abbattere tutti gli alberi infettati dal batterio Xylella fastidiosa”. La richiesta è stata comunicata dal Commissario alla Salute Vytenis Andriukaitis, al Ministro italiano dell'Agricoltura, Maurizio Martina. L'eradicazione degli ulivi resta al centro della strategia Ue per contrastare la Xylella fastidiosa, il batterio killer che sta distruggendo gli ulivi del Salento. I paesi europei che si sentono più vulnerabili all'espansione del batterio Xylella, in particolare Francia, Grecia e Spagna, chiedono di abbattere almeno un decimo dei circa 9 milioni di alberi dell'area del Salento, mentre l'Italia ritiene sufficiente il piano del commissario Giuseppe Silletti, che prevede interventi più contenuti. In Italia, invece, lo scontro si è già spostato sul piano legale, dopo che la sezione di Lecce del Tar di Puglia ha accolto il ricorso di due avvocati proprietari di un uliveto a Oria, la località da cui dovrebbero partire le misure di emergenza. L’Europa ce lo chiede: “Prima di tutto dobbiamo essere molto chiari, tutti gli alberi colpiti dal batterio Xylella fastidiosa devono essere rimossi e questa è la prima cosa”. Colpi di accetta e motoseghe, dunque, su migliaia di ulivi e non solo. Anche su lecci, mandorli, ciliegi, albicocchi e tutte le altre piante, appartenenti ad almeno 150 specie, che risulteranno attaccate dal patogeno da quarantena arrivato dalle Americhe. Una raccomandazione che avrà come contraltare, in caso di mancato adempimento, l’avvio di una procedura di infrazione comunitaria. Non ha usato mezze misure il commissario europeo alla Salute e sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis, al termine del Consiglio dei 28 ministri dell’agricoltura. Per Bruxelles, il contagio va contenuto dentro i confini della Puglia meridionale, a costo di applicare la soluzione più “dolorosa”. Come dire: gli abbattimenti dovranno essere ovunque, pure nei diecimila ettari intorno a Gallipoli, epicentro del contagio originario, e non solo mirati nei dodici focolai individuati e nella “fascia di eradicazione”. È questa striscia la prima sorvegliata speciale, lunga 50 chilometri e profonda 15, una sorta di fossato immaginario a cavallo tra le province di Lecce, Brindisi e Taranto. Le ruspe entreranno in azione innanzitutto lì, a tutela di una “fascia cuscinetto” al momento indenne. Tutta la penisola salentina, invece, è dichiarata “zona infetta”, sebbene sia interessata dal fenomeno solo in parte, in quaranta comuni. Spetterà agli stessi proprietari l’obbligo di tagliare le piante colpite, concetto al limite della discrezionalità, visto che sono ritenute tali quelle identificate “sia con analisi di laboratorio che con riscontro dei sintomi ascrivibili all’infezione di Xylella fastidiosa”, ma anche quelle “individuate come probabilmente contagiate”. Per chi si opporrà? Sanzioni amministrative e interventi in sostituzione da parte dell’agenzia regionale Arif. Così anche per chi non effettuerà le arature entro aprile e per chi si rifiuterà da maggio di usare insetticidi chimici.

Eppure la strage degli ulivi in Salento ha delle chiare responsabilità dello Stato italiano che ha legiferato sotto la spinta di un pseudo ambientalismo da strapazzo senza sentire i contadini. Ma andiamo per ordine. Oggi, il tanto decantato prodotto biologico profuso dagli ambientalisti ha portato i proprietari dei terreni a non trattare con prodotti naturali o chimici terreni e piante. Questa neo cultura impedisce di lavorare i terreni o le piante, con arature e concimazioni. Dietro lo spirito ambientalista, spesso, però, si nasconde la grave crisi dell’agricoltura. Non si curano i terreni e le piante per mancanza di liquidità e, perciò, si abbandonano. L’abbandono provoca l’essiccamento delle piante. Per quanto riguarda la potatura delle piante e la produzione delle stoppie i nostri antenati bruciavano in loco quanto si era potato. Ciò produceva concime e, di fatto, impediva che si propagasse l’infezione da parte di qualche pianta malata. Ma i nostri governanti, spinti dai soliti ambientalisti, ha ribaltato secolari sistemi di coltivazioni. Ricordiamo che l’art. 13 del D.Lgs. 205/2010, modificando l’art. 185 del D.Lgs. 152/2006, stabiliva che “paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericolosi...", se non utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente o mettono in pericolo la salute umana devono essere considerati rifiuti e come tali devono essere trattati. Accendere falò in campagna per bruciare questi residui è quindi contro la legge poiché integrerebbe il reato, non solo amministrativo ma anche penale, di illecito smaltimento dei rifiuti. Sono già accaduti casi di verbali molto importanti a carico di agricoltori, sanzionati ai sensi dell'art. 256 del D.Lgs 152/2006 che prevede: “la pena dell'arresto da tre mesi a un anno o l'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi” come sono considerate stoppie e ramaglie.

Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso legislativo. Con il decreto legge del 24 giugno 2014 n. 91, in vigore dal 25 giugno, si risolve il problema della bruciatura delle stoppie e dei residui vegetali che ha creato tanti problemi negli ultimi anni in quanto considerati rifiuti speciali. Il comma 8 dell’art. 14 del decreto legge modifica l’articolo 256 – bis del decreto legislativo 152/2006 ( “Codice Ambientale”) relativo alla combustione illecita di rifiuti, prevedendo che tali disposizioni “non si applicano al materiale agricolo e forestale derivante da sfalci,  potatura o ripuliture in loco nel caso di combustione in loco delle stesse. Di tale materiale è consentita la combustione in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro nelle aree, periodi e orari individuati con apposita ordinanza del Sindaco competente per territorio. Nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata.”. Ergo: Il Parlamento riconosce di aver emanato una legge sbagliata. Dalla nuova norma si capisce che il legislatore aveva fatto una gran boiata nell’alterare il naturale smaltimento dei residui di potatura. Si riconosce, inoltre, che lo spostamento di quei residui in altre aree di smaltimento ha prodotto il propagarsi del contagio.

Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso giudiziario. La procura di Lecce indaga sull’origine del batterio Xylella fastidiosa che sta decimando gli alberi di ulivo salentini. L’inchiesta, secondo quanto riferiscono alcuni quotidiani, starebbe seguendo due possibili strade. La prima è che il batterio sia arrivato in Puglia in occasione di un convegno scientifico che fu organizzato nel settembre 2010 dall’Istituto agronomico mediterraneo. Con una particolarità. Uno dei possibili indiziati, l’Istituto agronomico mediterraneo di Valenzano (Bari), “gode per legge di immunità assoluta”, spiega il pm di Lecce, titolare dell’inchiesta Elsa Valeria Mignone in un’intervista a Famiglia Cristiana. “L’autorità giudiziaria italiana non può violare il domicilio dell’istituto, non può effettuare sequestri, perquisizioni o confische”, spiega il magistrato. La seconda pista ipotizza che il batterio killer sia stato introdotto con le piante ornamentali importate dall’Olanda e provenienti dal Costa Rica. Ergo: Mancato controllo dello Stato o di Organi pubblici sull’introduzione di organismi dannosi nel territorio nazionale.

Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso finanziario. Tredici milioni di euro a disposizione del commissario straordinario per l’emergenza-ulivi. Lo ha annunciato il direttore dell’area Politiche per lo sviluppo rurale della Regione, Gabriele Papa Pagliardini. Le attività riguarderanno prevalentemente la lotta ai vettori del batterio, attraverso arature, sfalciature, potature e utilizzo di principi attivi che dovranno impedire ai cicadellidi di diffondere Xylella. Ovviamente si dovrà investire anche sulla ricerca, per sconfiggere il batterio là dove ha già attecchito (si parla di circa 40mila ettari infetti su un totale di 95mila coltivati a uliveto). Ma sulla ricerca di somme di denaro non si è parlato. Ergo: lo Stato finanzia l’estirpazione delle piante, ma non finanzia la ricerca per debellare la causa. Eppure basta poco. Basta dar credibilità a chi di piante se ne intende ed aiutarli finanziariamente a praticarne la cura.

Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso mediatico. L’idea è nata sul web, per iniziativa dello scrittore Pino Aprile, scrive Flavia Serr. Su La Gazzetta del Mezzogiorno. E dopo una valanga di «post», «tweet» e «ri-tweet», ecco che la grande mobilitazione promette di portare in piazza migliaia di persone (11mila le adesioni raccolte sulla rete). Tutti uniti sotto lo slogan «Difendiamo gli ulivi». Lo stesso grido di battaglia che è diventato un hashtag e ha inondato i social network (Facebook, Twitter e Instagram), fino a coinvolgere decine di artisti e volti noti dello spettacolo, salentini e pugliesi di nascita o «de core», mobilitati da Nandu Popu dei Sud Sound System, agguerritissima «sentinella» degli ulivi. Fra gli altri, sono scesi in campo (e ci hanno messo la faccia) Federico Zampaglione dei Tiromancino, Claudia Gerini, Emma Marrone, Samuele Bersani, Marco Mater azzi, Elio degli Elio e le Storie Tese, Fabio Volo, Raffaele Casarano, Après la classe, solo per citarne alcuni. E nelle scorse ore, anche Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, direttamente da New York dove sta ultimando il nuovo disco del gruppo, ha pubblicato su Fb una sua foto con il cartello in mano «#Difendiamo gli ulivi». Allo scatto, ha aggiunto anche un messaggio: «Queste straordinarie creature che stanno per essere eradicate, questi alberi secolari, chiamati “ulivi”, rappresentano centinaia, per non dire migliaia, di anni della storia e della vita di un popolo, come il nostro. So poco di agricoltura o di botanica. Ma so per certo una cosa: loro (le straordinarie creature) meriterebbero una riflessione ampia e consapevole e tutti noi abbiamo diritto di conoscere, di sapere se e perchè “nostri simili” stanno per lasciare la vita terrena. Abbiamo diritto alla verità». Sangiorgi in piazza ci sarebbe venuto oggi, e col pensiero c’è. Ed è vicino a quel movimento che chiede maggiore chiarezza sulle cause del disseccamento rapido degli ulivi e su tutte le possibili cure per affrontarlo. Insieme a Sangiorgi, il resto della «famiglia» Negramaro sposa la battaglia, con il batterista Danilo Tasco e il chitarrista «Lele» Spedicat o. Già nei giorni scorsi, un fiume di altre «star» pugliesi si sono dette pronte a mobilitarsi in difesa degli ulivi: dal regista Edoardo Winspeare allo stilista Ennio Capasa, passando per i comici Nuzzo e Di Biase, i fotografi Flavio&Fr ank, fino ad arrivare al rapper Caparezza che su Twitter ha scritto: «Arruolatemi tra le sentinelle degli ulivi. Urge chiarezza sulla xylella». Così, Le Iene il 2 aprile 2015 hanno mandato in onda un servizio con Nadia Toffa sull'argomento. Fabio Ingrosso e Nadia Toffa si sono recati nel Salento dove moltissime coltivazioni di ulivi sono state infettate da un batterio molto pericoloso originario della California, di cui in Europa in precedenza non si era riscontrata alcuna traccia. Il parassita si chiama "xylella" e rischia di decimare migliaia di ulivi secolari. La UE ha chiesto misure drastiche di intervento che prevedono l'eradicazione degli alberi malati seguendo una precisa mappatura. Ma l'eradicazione, per la quale sono stati stanziati diversi milioni di euro, è davvero l'unica soluzione? La Iena lo chiede ad un gruppo di ricercatori e, in seguito, ad alcuni contadini del posto che hanno adottato delle cure naturali per provare a salvare gli ulivi. Testimonial del servizio Caparezza a Albano Carrisi, due musicisti che, come molti altri artisti si stanno schierando contro l'eradicazione degli ulivi. Toffa ha spiegato con parole molto semplici qual è la situazione, dal punto di vista geografico (cioè per quali zone si sta prevedendo l'eradicazione), ma anche dal punto di vista storico: «Fino a oggi la Xylella non aveva mai colpito gli ulivi, e non è detto che sia la Xylella a far ammalare gli ulivi» sono state le sue parole, che contribuiscono a sollevare molti dubbi su quello che sta accadendo. Sono meno di 300, ha detto Toffa, gli ulivi malati: e allora perché l'eradicazione si preannuncia tanto massiva? Il servizio de Le Iene suggerisce un metodo per risanare gli ulivi dalle parole di un agricoltore, che ha curato le sue piante malate, oggi in salute, in alcuni mesi, irrorandole con una mistura di calce e solfato di rame, un rimedio della nonna che a quanto pare, nel caso dell'agricoltore intervistato, ha sortito il suo effetto. La parola degli ulivicoltori è al momento molto importante nel Salento: un'eradicazione massiva li getterebbe sul lastrico.

Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa una denuncia per la mancanza di volontà di trovare un rimedio curativo naturale per le piante. Quelli del movimento 5 Stelle di Tuglie hanno intervistato un agricoltore.

Domanda: Poltiglia bordolese, suggestione o via percorribile?

Risposta. Noi non interveniamo sul batterio, rafforziamo le autodifese della pianta con rimedi naturali. Non è affatto una suggestione, io curo ancora molte patologie dell’apparato respiratorio con i rimedi della nonna a base di erbe. Abbiamo solo utilizzato vecchie pratiche agronomiche, il solfato di rame è un antibatterico e un antifungino, l’idrossido di calcio (calce) è un disinfettante naturale usato da secoli. La vecchia poltiglia bordolese autoprodotta non porta ricchezza alle casse delle multinazionali dell’agrochimica. Successivamente siamo intervenuti alla radice, con un prodotto naturale a base di aglio, che alcuni ricercatori spagnoli venuti fin qui ci hanno gratuitamente consegnato per la nostra sperimentazione empirica. Ci siamo accertati che fosse un prodotto naturale e registrato e lo abbiamo usato alla base della pianta, intervenendo sulle radici.

D. Quali i sintomi della malattia?

R. La sintomatologia si nota dall’alto della chioma per poi diffondersi su tutta la branca, sino al basso della pianta. Proprio come una verticillosi.

D. Che fare appena si sospetta che l’uliveto potrebbe essere stato contaminato?

R. Noi non ci sostituiamo agli organi preposti, di certo non ci atterremo a quelle norme scellerate previste dalla quarantena che prevedono l’uso massiccio di diserbanti e insetticidi per uccidere i fantomatici insetti “vettori”.

D. E in termini di prevenzione?

R. Curare la terra e gli olivi. Una buona potatura aiuta la pianta a rivegetare, ossigenare il terreno con un leggero coltivo, ritornare alle buone pratiche dell’innerbimento e del “sovescio”: così facendo si restituisce alla pianta sostanza organica a costo zero. Disinfettare la pianta con la solita poltiglia bordolese autoprodotta (grassello di calce e solfato di rame). All’occorrenza, disinfettare e nutrire i tronchi con solfato di ferro e calce alle dosi consigliate.

D. Come si trasmette il batterio?

R. Non capisco il perché alcuni soggetti si accaniscono sul batterio e non sulla moltitudine di funghi tracheomicosi presenti sulla pianta e sulla radice. Credo che si stia facendo cattiva informazione: abbiamo perso il contatto con la realtà, e quindi dobbiamo tornare a essere più umili, prima con noi stessi e poi con madre Terra. Con la rivoluzione “verde” dettata dall’agrochimica sponsorizzata da alcune Università, abbiamo contribuito a distruggere la biodiversità e rotto quell’equilibrio biologico perfetto, frutto del creato. Io non uccido nessun essere vivente!

D. La falda inquinata, magari da rifiuti tossici, da percolato, può essere una spiegazione alla xylella?

R. Una cosa è certa: la nostra Terra è martoriata.

D. L’uso scriteriato della chimica e la smania di far produrre ogni anno le piante può aver influito sulla diffusione del batterio?

R. L’altro giorno leggevo la retro etichetta di una nota multinazionale dei diserbanti, recita così: “Buona Pratica Agricola nel controllo delle malerbe, l’applicazione degli agrofarmaci non è corretta se viene realizzata con attrezzature inadeguate”. Come possiamo ben notare, le stesse multinazionali dell’agrochimica, che prima ci avvelenano e poi ci “curano”, stravolgono il senso delle parole.

Domenica 5 Ottobre 2014 a Trani abbiamo concluso la 3 giorni del 2° meeting “Terra e Salute”, tra i relatori spiccavano alcuni nomi noti del mondo accademico, il prof. Cristos Xiloyannis e il prof. Pietro Perrino, ed erano entrambi a conoscenza della drammatica situazione in cui versano i nostri olivi, ne abbiamo parlato a lungo, sono concordi con le nostre analisi e con i nostri metodi naturali di intervento. La flora batterica è completamente assente, le sostanze nutritive di origine organica sono granelli di sabbia, la chimica non aiuta certo la pianta, anzi, contribuisce ad abbassare le autodifese.

D. L’eradicazione di cui si parla può fermare il batterio?

R. Che facciamo, applichiamo l’eutanasia agli olivi viventi? Di olivi completamente morti non ce ne sono e l’eradicazione non è una via percorribile e non risolve il problema batterio. Con i batteri e altri patogeni dobbiamo convivere, Dio non ha creato animali per essere uccisi, dobbiamo cercare il giusto equilibrio. Gli olivi sono la bellezza del nostro paesaggio agro-culturale. I nostri olivi non si toccano!

D. Posto che si eradichi, il pollione che nascerà crescerà sano?

R. Nelle zone più interessate all’essiccamento, Li Sauli, Castellana, ecc., possiamo notare che l’arbusto olivo reagisce, ma non ha la forza per mantenere tutto il peso della chioma, perché mancano le sostanze nutrienti naturali. Quindi, è la pianta che lascia morire parte di se stessa. Quando viene potata e quindi alleggerita dal suo carico, l’olivo reagisce, perché concentra le proprie energie nutritive sui pochi rami rimasti.

D. Cosa pensa dell’ipotesi che la xylella sia stata portata per boicottare l’olio di Terra d’Otranto?

R. Se sia stata importata o no, non sta a noi verificarlo, avevamo dei dubbi e per questo presentammo un esposto in Procura. Una cosa è certa: questa nostra martoriata Terra è sotto attacco, e gli avvoltoi sono troppi, la nostra Terra fa gola a molti speculatori, fa gola pure alle mafie del cemento.

D. Che interessi si giocano sul nostro olio?

R. La nostra Regione era la terra più vitata d’Italia, poi ci convinsero a estirpare circa il 30-40% dei DSC_1301 nostri vitigni, con punte del 50% nel Salento in cambio di 10-12 milioni delle vecchie lire per ha, quote cedute alle Regioni del Nord. Non vorrei che si praticasse lo stesso parassitismo per i nostri olivi: il Sud ha già dato troppo al Nord.

D. La raccolta 2014 è iniziata, la produzione calerà. Dall’estero arrivano disdette di ordini: può rassicurare il consumatore che nonostante il batterio l’olio prodotto è di ottima qualità?

R. L’attuale annata è scarsa in tutto il Bacino del Mediterraneo, e non a causa del batterio. La nostra preoccupazione è per le prossime annate, fin quando i nostri olivi non si riprenderanno. Quest’anno la produzione non sarà sufficiente a soddisfare tutte le richieste, e l’essiccamento non incide minimamente sulla qualità del prodotto. Siamo preoccupati dell’invasione di olio proveniente dagli impianti ultra-intensivi dell’Australia.

Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa una denuncia sugli aspetti speculativi dell’ambiente. Scrive Antonio Bruno. La speculazione della Green Economy Industriale, la stessa che sta devastando impunemente il nostro Paese con pannelli e pale eoliche nelle campagne! La stessa lobby politico-imprenditoriale trasversale che ha devastato la campagna di Puglia con mega torri eoliche e che falcidia uccelli e stupra paesaggio, e con deserti sconfinati di pannelli fotovoltaici. Non un solo albero è stato piantato contro il “climate change” in Salento, contro la desertificazione, ma i suoli sono stati strappati all’agricoltura e alla vita, e desertificati artificialmente al fotovoltaico. E’ quello della Green Economy Industriale un mercato drogato da iperincentivazione pubblica e di rapina! A partire dalla costituzione della Banca Mondiale a Washington (accordi di Bretton Wood), uno dei primi obiettivi fissati fu quello di riportare ricchezza nel Salento a beneficio dei salentini, attraverso proprio l’ampio progetto di riforestazione del Salento, mediante la piantumazione massiccia di piante autoctone, ma non fu mai portato a termine! Il paradosso è che se ogni giorno sul Financial Times o sul The Guardian si parla di riforestazione inglese per combattere il “climate change”, non si riesce a capire come sia possibile che Governo, Regione e province ignorino del tutto questa necessità per il Salento, terra d’Italia con il minor numero di boschi, a causa di artificiali disboscamenti selvaggi. Mentre un tempo non lontano era tra le più verdi e pittoresche regioni d’Italia, ed era anche più ricca d’acqua in superficie, proprio grazie alla presenza del fitto manto boschivo! Una foga economica degenerante, sviluppatasi purtroppo a partire dal Protocollo di Kyoto, trasformato ingiustamente in cavallo di Troia della frode. Ora, con la scusa dei fuochi accesi stupidamente nei campi dai contadini per smaltire le ramaglie, si son giustificati inceneritori di biomasse-ramaglie, ed in realtà anche rifiuti, a fini termoelettrici, di potenze fino ad 1MW, realizzabili attraverso la incostituzionale L.R. 31/2008 della Puglia, con una semplice DIA Dichiarazione di Inizio Attività presentata al comune interessato! Un intero nocivo e pericoloso opificio industriale realizzato con una DIA! Tutto questo quando invece bastava un’ordinanza dei sindaci per vietare quei fuochi inutili fumosi ed indiscriminati nei campi, ed invitare i contadini a triturare le ramaglie e altri scarti in loco, al fine di farne compost. Non a caso nel mercato vi sono biotrituratori che triturano e spargono sminuzzati scarti vegetali e organici in generale sui suoli, che in piccolissime pezzature vanno incontro a rapidissimi processi di compostaggio naturale al suolo. Serviva alimentare queste centrali a biomasse solide con scarti locali, secondo la filiera corta, quale allora migliore trovata delle ramaglie e degli scarti di potatura dei prossimi uliveti e vigneti per giustificarne l’autorizzazione, spiegando che si sarebbe eliminato il problema dei fuochi nei campi! Problema risolto portando tutta la biomassa in uno stesso luogo, magari alle porte di una città, e accendendo lì nelle fornaci di quell’industria elettrica un fuoco perenne, 24 ore su 24! Questa l’hanno chiamata soluzione ecocompatibile! Ma allora non era meglio lasciar accendere quei fuochi sparsi nei campi, con un effetto di diluizione dei fumi anziché concentrarli tutti a danno di una comunità? E poi c'è il business del Pellet. Perché questo combustibile - definito eco - è ormai un business da diversi zero, vista l'enorme richiesta di questo combustibile. Mentre le analisi sui Pellet provenienti dalla Lituania della NaturKraft continuano ad essere eseguite nei laboratori dei reperti speciali dei Vigili del Fuoco di Roma, alcuni organi di stampa hanno riportato la notizia di altre anomalie riscontrate in Pellet prodotti da una decina di aziende italiane. Ricordiamo che i pellet devono essere prodotti con lo scarto della lavorazione di legno vergine. Ossia, è vietato il riutilizzo di legno già impiegato per altri scopi o altri prodotti. Quindi, per dirla in altre parole, deve trattarsi di materiale di scarto proveniente dalle industrie che producono e trasformano il legno vergine. Nel caso riportato da organi di stampa nazionale, sembrerebbe che questo non stia succedendo. Anzi, nei pellet si troverebbero tracce di legno utilizzate da mobilio vario, tra cui anche bare funerarie. Non solo. Il Nucleo operativo ecologico (Noe) di Treviso ha denunciato 14 persone di 10 aziende delle province di Treviso e Vicenza per la produzione di pellet da residui di lavorazione del legno di provenienza illegale. Gli investigatori hanno precisato che l’indagine non ha attinenze con i controlli sull’esistenza di presunto materiale radioattivo nei pellet in atto da alcuni giorni. La Procura di Treviso ha posto sotto sequestro un’azienda di San Michele di Piave (ritenuta la maggiore produttrice di pellet in Italia) assieme a oltre 20 mila tonnellate di legno trattato che sarebbe stato trasformato in combustibile per stufe e bruciatori. Insomma, in questi pellet si troverebbero residui di lavorazione di mobili, cornici, bare e altri prodotti trattati con vernici e colle. Perché questo? Perché gli scarti di legno trattato costano all’incirca la metà del legno vergine. Contaminato.

Ecco dimostrato. Responsabile di tutto è lo Stato e un certo ambientalismo speculativo.

Terremoto xylella. La Procura blocca le eradicazioni: dieci indagati (anche Silletti), ulivi sequestrati, scrive “Il Quotidiano di Puglia” del 18 dicembre 2015. Terremoto sul piano di contenimento della diffusione della xylella fastidiosa. La Procura di Lecce esce allo scoperto con un decreto di sequestro preventivo che blocca le eradicazioni degli ulivi. E mette sott’inchiesta i protagonisti della lotta contro l’essiccamento rapido. Primo fra tutti il colonnello della Forestale, Giuseppe Silletti, 62 anni, commissario per l'emergenza xylella e responsabile dei due piani di intervento che portano il suo nome. I nomi. Le 58 pagine di decreto di sequestro preventivo a firma del procuratore capo Cataldo Motta, dell’aggiunto Elsa Valeria Mignone e del sostituto Roberta Licci sono in corso di notificazione in queste ore e riguardano anche Antonio Guario, 64 anni, nel ruolo di ex dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale di Bari; Giuseppe D’Onghia, 59 anni, dirigente del Servizio Agricoltura area politiche per lo sviluppo rurale della Regione Puglia”; Silvio Schito, 59 anni, dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale di Bari, Giuseppe Blasi, 54 anni, capo dipartimento delle Politiche europee ed internazionali e dello Sviluppo rurale del Servizio fitosanitario centrale; Nicola Vito Savino, 66 anni, docente universitario e direttore del centro di ricerca, sperimentazione e formazione in agricoltura Basile Caramia” di Locorotondo; Franco Nigro, 53 anni, micologo di Patologia vegetale dell’università di Bari; Donato Boscia, 58 anni, responsabile della sede operativa del Cnr dell’istituto per la Protezione sostenibile delle piante; Maria Saponari, 43 anni, ricercatrice del Cnr dell’istituto per la Protezione sostenibile delle piante; e Franco Valentini, 44 anni, ricercatore dello Iam di Valenzano. I reati contestati. L’inchiesta dell’aggiunto Mignone e del sostituto Licci contesta violazioni colpose e dolose delle disposizioni ambientali, diffusione di una malattia delle piante, falso ideologico, turbativa violenta del possesso di cose immobili in merito all’obbligo delle eradicazioni, nonché deturpamento o distruzione di bellezze naturali. Gli sviluppi. La Procura di Lecce che indaga dopo gli esposti presentati nella primavera dell’anno scorso dalle associazioni ambientaliste, ribalta le certezze sull’efficacia del piano Silletti annunciate dall’Unione europea e dal Ministero delle Politiche agricole: non vi sarebbe prova - secondo la Procura - che la Xylella fastidiosa sia stata importata dal Costarica. Come non vi sarebbe prova dell’efficacia delle eradicazioni, anzi l’essiccamento non ha fatto altro che aumentare. Ci sarebbe invece un concreto pericolo per l’incolumità della salute pubblica con l’uso massiccio di pesticidi, alcuni dei quali vietati ed autorizzati in via straordinaria: già nel 2008, quando ancora non si parlava ufficialmente di Xylella, nel Salento ne furono impiegati 573mila 465 chili su 2 milioni 237mila 792 chili in tutta Italia. L’attenzione è tutta sui campi di sperimentazione della lebbra dell’ulivo: gli stessi dove si è poi diffusa la Xylella. Fra questi la zona fra Gallipoli, Alezio e Taviano, Lecce nel parco Rauccio, il Nord Salento fra Sud e Trepuzzi ed il Sud di Brindisi. Le istituzioni sono state accusate di aver avuto un approccio scientifico univoco che non ha fermato il disseccamento ed ha invece messo in pericolo la salute della popolazione. Gli avvisi di garanzia sono legati al provvedimento di sequestro preventivo, provvedimento che rende necessario informare le persone coinvolte nelle indagini. L'inchiesta prosegue.

Xylella, sequestrati tutti gli ulivi da abbattere: 10 indagati. C’è anche commissario straordinario Silletti. Il provvedimento della Procura di Lecce riguarda gli esemplari destinati all’abbattimento secondo il piano di contenimento del batterio. Iscritti nel registro degli indagati anche i ricercatori di Cnr e Iam. I reati contestati vanno dalla diffusione colposa di una malattia delle piante alla distruzione o deturpamento di bellezze naturali, scrive Tiziana Colluto il 18 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Svolta nell’inchiesta della Procura di Lecce sulla diffusione del batterio Xylella fastidiosa. Sono dieci i nomi che sono stati iscritti sul registro degli indagati. Tra loro, oltre a funzionari della Regione Puglia, ricercatori del Cnr e dello Iam e componenti del Servizio Fitosanitario centrale, c’è anche Giuseppe Silletti, comandante regionale del Corpo Forestale, nelle vesti di commissario straordinario per l’emergenza fitosanitaria. Rispondono dei reati di diffusione colposa di una malattia delle piante, inquinamento ambientale colposo, falsità materiale e ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, getto pericoloso di cose, distruzione o deturpamento di bellezze naturali. I nomi sono riportati nel decreto con cui le pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci dispongono il sequestro preventivo d’urgenza di tutte le piante di ulivo interessate dalle operazioni di rimozione immediata come previsto dal Piano Silletti e individuate nell’ordinanza del commissario del 10 dicembre scorso. Sotto chiave sono finiti anche tutti gli ulivi interessati dalla richiesta di rimozione volontaria “sulla base del verbale dell’Ispettore fitosanitario, in cui si rileva la presenza di sintomi ascrivibili a Xylella fastidiosa”, in esecuzione alle previsioni della nota di Silletti del 3 novembre scorso. Inoltre, sono sequestrate tutte le piante di olivo già destinatarie dei provvedimenti di ingiunzione e prescrizione di estirpazione di piante infette emessi dall’Osservatorio fitosanitario regionale. Su quei terreni, ad ogni modo, si consente qualunque intervento colturale che non sia il taglio degli alberi al colletto del tronco o la loro eradicazione. Il decreto è stato notificato a Silletti nel pomeriggio del 18 dicembre dagli agenti del Nucleo ispettivo del Corpo Forestale dello Stato. Gli altri indagati sono l’ex e l’attuale dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale, Antonio Guario e Silvio Schito; Giuseppe D’Onghia, dirigente del Servizio Agricoltura Area politiche per lo sviluppo rurale della Regione Puglia; Giuseppe Blasi, capo dipartimento delle Politiche europee e internazionali e dello sviluppo rurale del Servizio fitosanitario centrale; Vito Nicola Savino, docente dell’Università di Bari e direttore del Centro di ricerca Basile Caramia di Locorotondo; Franco Nigro, docente di Patologia vegetale presso Università di Bari; Donato Boscia, responsabile della sede operativa dell’Istituto per la protezione sostenibile delle Piante del Cnr; Maria Saponari, ricercatrice presso lo stesso istituto del Cnr; Franco Valentini, ricercatore presso lo Iam di Valenzano. Nelle 58 pagine di decreto, viene ripercorsa l’intera vicenda, a partire dalla prima segnalazione dei sintomi di disseccamento degli ulivi, già dal 2004-2006 e poi nel 2008. All’inizio, però, si attribuirono le cause solo alla lebbra dell’olivo, per la quale, tra il 2010 e il 2012, sono stati anche avviati campi sperimentali “per testare prodotti non autorizzati” per combattere la malattia e per il diserbo degli oliveti con fitofarmaci Monsanto. Nelle varie tappe anche i primi convegni italiani su Xylella, come quello nell’ottobre 2010 presso lo Iam di Bari. Infine, le analisi, fatte svolgere dalla Procura su ulivi di San Marzano (Ta) e Giovinazzo (Ba), con gli stessi sintomi delle piante salentine. Hanno dato esito negativo. E per gli inquirenti questa è la prova per cui “la sintomatologia del grave disseccamento degli alberi di ulivo non è necessariamente associata alla presenza del batterio, così come d’altronde non è, ancora allo stato, dimostrato che sia il batterio, e solo il batterio, la causa del disseccamento”.

Xylella, procura di Lecce: “Ue tratta in errore. Batterio presente in Salento da 20 anni. Indagheremo su fondi emergenza”. “Non voglio dire che l’Unione Europea sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti - ha detto il procuratore capo Cataldo Motta in conferenza stampa - l'inchiesta non è conclusa", continua Tiziana Colluto il 19 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". “L’Unione Europea è stata tratta in errore da quanto rappresentato dalle istituzioni regionali con dati impropri sulla vicenda Xylella”: è la stoccata lanciata dal procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, all’indomani del sequestro di tutti gli ulivi salentini destinati all’estirpazione e dell’avviso di garanzia a dieci indagati, tra cui il commissario straordinario Giuseppe Silletti. “Non voglio dire che l’Ue sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti – ha ribadito Motta durante la conferenza stampa convocata in mattinata in Procura, a Lecce –. Uno dei dati non esatti è legato proprio alla diffusione recente del batterio sul territorio, ciò che è stato dato per scontato e ha motivato i provvedimenti di applicazione dei protocolli da quarantena”. Viene capovolta, così, l’intera prospettiva: secondo la ricostruzione fatta dalle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, Xylella è presente nel Salento “da almeno 15 o 20 anni”. Cosa significa? Che “la quarantena per un batterio che sta sul territorio da tanto tempo dovrebbe essere assolutamente inutile” e, quindi, non sarebbe giustificata la proclamazione dello stato di emergenza fatta dal governo. “Ben altre sarebbero state le misure da attendersi anche a livello europeo a tutela dello Stato italiano e della Regione Puglia”, scrivono gli inquirenti. Sono bollate, infatti, come “inidonee” le drastiche misure di contenimento del parassita, quali l’uso massiccio di pesticidi e il taglio di migliaia di ulivi, tra l’altro senza la necessaria e preventiva valutazione di impatto ambientale. “I tentativi fatti in tutto il mondo – hanno spiegato i magistrati –hanno dimostrato l’inutilità dell’estirpazione. I rimedi vanno studiati e attuati con gradualità”. È quello che si ritiene sia mancato. E di fronte all’assunto, più volte ribadito dall’Osservatorio fitosanitario regionale, per cui basta la semplice rilevazione dell’esistenza di Xylella per applicare il regime di quarantena, la Procura ha ribattuto: “Quelle misure hanno un senso se l’introduzione è recente. È poi anche una questione di gradualità dei mezzi di contenimento. Se avete l’influenza non vi fate abbattere. A maggior ragione in un territorio che fonda non solo l’economia ma anche la propria immagine sugli oliveti, questo contemperamento di interessi doveva essere tenuto presente”. I test di fitofarmaci non autorizzati per combattere la lebbra dell’olivo e per diserbare i terreni sono i principali indiziati del disseccamento che ha colpito le piante. Tra il 2010 e il 2012, sono stati avviati dei campi sperimentali appositi nelle campagne intorno a Gallipoli, cuore del primo focolaio dell’infezione. In particolare, in quel periodo è stato concesso per due volte l’utilizzo in deroga, nel secondo caso prolungato, di un fitofarmaco di nome Insigna della Basf, distribuito in grossi quantitativi dai consorzi agrari ai coltivatori. “E’ possibile – scrivono i pm – che questo secondo impiego del prodotto per un periodo così lungo e senza limitazioni di trattamenti abbia scatenato l’esplosione della sintomatologia che ha poi portato alla ricerca di altri patogeni. Altamente probabile è dunque l’ipotesi che prodotti impiegati, unitamente ad altri fattori antropici e ambientali, abbiano causato un drastico abbassamento delle difese immunitarie degli alberi di olivo, favorendo la virulenza dell’azione dei funghi e batteri, tra i quali Xylella fastidiosa”. A questi si sono aggiunti i test del Roundup Platinum di Monsanto. “Quel che è dato acquisito – è riportato nel decreto – è che le due società interessate alle sperimentazioni in campo nel Salento sono collegate tra loro da investimenti comuni, avendo la Monsanto acquisito sin dal 2008 la società Allelyx (specchio di xylella…) dalla società brasiliana Canavialis ed avendo la Basf a sua volta investito 13,5 milioni di dollari in Allelyx nel marzo 2012”. Il workshop tenuto presso l’Istituto agronomico mediterraneo di Bari, nell’ottobre 2010, è una delle strade indicate dalla Procura per l’introduzione in Italia del batterio da quarantena “in violazione della normativa di settore”. Oltre al muro di gomma che i magistrati avrebbero, almeno all’inizio, riscontrato a causa del particolare regime di immunità giurisdizionale di cui gode lo Iam, gli occhi sono puntati sull’importazione di campioni di Xylella a fini di studio, in parte su vetrini e in parte tramite piantine già inoculate. I materiali, provenienti da Belgio e Olanda, avrebbero dovuto viaggiare scortati da specifici passaporti, di cui in parte, secondo gli inquirenti, si è persa traccia, tanto da parlare di “gravi irregolarità nella documentazione di accompagnamento”. “L’inchiesta non è conclusa”, ha specificato Motta. Sono almeno tre i filoni su cui si continuerà ad indagare. Il primo attiene alla destinazione dei finanziamenti piovuti sulla Pugliadopo la proclamazione dello stato di emergenza da parte del governo. Il secondo, invece, riguarda gli “inquietanti aspetti relativi al progettato stravolgimento della tradizione agroalimentare e della identità territoriale del Salento per effetto del ricorso a sistemi di coltivazione superintensiva e introduzione di nuove cultivar di olivo”. Il riferimento è all’accordo tra l’Università di Bari, “che ha gestito in maniera monopolistica lo studio” del batterio, e la spagnola Agromillora Research srl. L’intesa, approvata dal senato accademico nell’ottobre 2013, riguarda la valutazione e commercializzazione di nuove selezioni di olivo, nate dall’ibridazione di due cultivar, Leccino (considerata resistente a Xylella) e Ambrosiana. L’ateneo barese incasserà il 70 per cento delle royalties sul fatturato annuo derivante dallo sfruttamento del brevetto. Il terzo filone d’indagine riguarda la ricerca. “Da notizie in corso di verifica giunte alla polizia giudiziaria operante – è riportato nel decreto di sequestro – sembrerebbe che il Comitato (di natura tecnico-scientifica, istituito dal Ministero delle Politiche agricole e composto da 16 esperti, ndr) compia mera attività di facciata con poca possibilità di entrare nel merito dei fatti per i quali è stato istituito, in quanto i membri appartenenti al gruppo di ricerca di Bari non forniscono chiari risultati di ricerca da poter essere valutati in seno alle riunioni del Comitato”. È certo che su questo ci saranno nuovi ascolti. Ed è certo anche che ciò apre la porta all’individuazione di eventuali nuove responsabilità sull’omesso controllo in capo al Ministero delle Politiche agricole.

Ulivi malati, ricercatori sotto accusa. Motta: «Ingannata l’Unione europea». Il procuratore di Lecce parla dopo il sequestro delle piante malate. Dieci indagati, scrive Antonio Della Rocca il 19 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. «L’Unione Europea è stata tratta in errore da quanto è stato rappresentato con dati impropri e non del tutto esatti», ha spiegato il capo della Procura di Lecce, Cataldo Motta, illustrando i punti salienti dell’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Xylella fastidiosa, il patogeno considerato concausa del disseccamento rapido degli ulivi salentini. La Procura ha disposto il sequestro degli ulivi malati e tra gli indagati, oltre a studiosi, ricercatori e funzionari della Regione, vi è anche Giuseppe Silletti, il commissario governativo per l’emergenza Xylella. «Ci siamo trovati di fronte a direttive europee, in parte molto rigorose, come l’eradicazione degli ulivi, che sono state emesse dall’Unione europea sulla falsa rappresentazione della situazione», ha specificato Motta. La Procura, che nel corso delle indagini, peraltro ancora in corso, si è avvalsa della collaborazione di un pool di periti, ha anche emanato un decreto di sequestro di tutti gli ulivi che, in base alla più recente ordinanza commissariale, dovrebbero essere abbattuti nell’ambito delle misure di contrasto alla batteriosi scoperta nel 2013 nelle campagne di Gallipoli. Secondo la Procura, inoltre, non ci sarebbe stato finora il necessario «confronto allargato» tra organismi scientifici per poter stilare adeguate strategie di contenimento della diffusione del batterio. Piuttosto, lo studio si sarebbe concentrato in un regime quasi monopolistico nelle mani di pochi ricercatori. Inoltre, ha sottolineato Motta, «non è stato accertato il nesso di causalità tra il batterio Xylella fastidiosa e la malattia», e malgrado si possa ipotizzare che il fenomeno del disseccamento sia presente nel Salento da almeno 15 anni, si è deciso, in modo inappropriato, di procedere con l’abbattimento delle piante. Un metodo che, a giudizio della Procura, non rappresenta la soluzione più idonea per combattere un fenomeno ormai diffuso e radicato da molti anni.

Xylella, il procuratore di Lecce accusa: "Europa ingannata, lucrano sull'emergenza". Per il capo dei pm Cataldo Motta alla base del caos ci sarebbe una conoscenza incompleta del problema: "Il commissario ha privilegiato solo ipotesi che portavano all'eradicazione", scrive chiara Spagnolo il 19 dicembre 2015 su “La Repubblica”)"L'Unione europea è stata tratta in inganno con una falsa rappresentazione dell'emergenza xylella fastidiosa, basata su dati impropri e sull'inesistenza di un reale nesso di causalità tra il batterio e il disseccamento degli ulivi". Per questo l'inchiesta della Procura di Lecce "indagherà anche sui finanziamenti stanziati e usati per l'emergenza, considerato che di emergenza non si tratta". Il giorno dopo il sequestro di tutti gli ulivi salentini per cui è stata disposta l'eradicazione e l'invio di avvisi di garanzia al commissario di governo e a nove fra dirigenti e ricercatori che si sono occupati del caso, è il capo della Procura leccese, Cataldo Motta, a spiegare il motivo di un provvedimento che ha posto fine ai tagli di alberi e forse anche all'esperienza del commissario Giuseppe Silletti. Alcuni ambientalisti, entrati nella stanza del procuratore poco prima della conferenza stampa, hanno applaudito e mostrato un cartello di ringraziamento ai pm che hanno condotto l'inchiesta. Sul cartello la scritta: "C'è un giudice a Lecce, anzi due. Grazie". A quest'ultimo viene contestato di avere disposto Piani inappropriati e addirittura dannosi per l'ambiente salentino, a causa del massiccio uso di fitofarmaci. E di eradicazioni a tappeto, che non sembrano affatto risolutive. Il nodo sta tutto nel fatto che la xylella è presente in Puglia "da almeno venti anni" e che allo stato esistono ben nove ceppi diversi, che ne mostrano la mutazione genetica. "Ciò escluderebbe la necessità di interventi emergenziali - ha chiarito Motta - e la stessa legittimazione della quarantena, che è stata la base da cui l'Europa è partita per imporre misure drastiche". Secondo quanto hanno accertato gli uomini del Corpo forestale (di cui fra l'altro il commissario Silletti è comandante regionale), alla base del caos xylella ci sarebbe innanzitutto una conoscenza incompleta del problema, "determinata dalla scarsità di confronto scientifico e dall'aver privilegiato solo alcune ipotesi, che portavano inevitabilmente alle eradicazioni". Per questo il sostituto procuratore Elsa Valeria Mignone - che ha coordinato l'indagine assieme alla collega Roberta Licci - si è augurata che "inizi proprio da ora un confronto scientifico vero sulla materia", al fine di individuare la strada giusta per combattere il disseccamento rapido degli ulivi. Sul fatto che i tagli non siano la scelta migliore, i magistrati non hanno dubbi: "l'eradicazione del batterio non si fa con l'estirpazione delle piante - ha chiarito il procuratore capo - E anche l'Unione europea non ha mai imposto di abbattere immediatamente tutti gli alberi malati ma di contenere la malattia, provando prima altre soluzioni". Tentativi che, a quanto pare, non sono stati fatti. E sui quali, a questo punto, bisogna ragionare perché l'Ue chiede comunque risposte che fino a pochi giorni fa si pensava dovessero pagare dalle eradicazioni. Intanto gli indagati penseranno a difendersi. I reati contestati sono diffusione colposa della malattia delle piante, falso ideologico e materiale in atto pubblico, inquinamento ambientale e deturpamento delle bellezze naturali.

Procuratore di Lecce: «Falsi i dati sulla xylella inviati all'Europa», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 dicembre 2015. «L'Europa ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti sulla Xylella, così come realmente accaduto nel Salento. E’ stata tratta in errore da quanto rappresentato dalle istituzioni regionali con dati impropri». Lo ha detto il procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta nel corso di una conferenza stampa che si è tenuta stamattina per illustrare i presupposti dell’inchiesta che ha portato al sequestro di tutti gli ulivi delle province di Brindisi e Lecce interessati da provvedimenti di abbattimento decisi nel corso dell’ultimo piano redatto dal commissario straordinario Giuseppe Silletti. «L'indagine non è compiuta» ha specificato poi il procuratore Motta in riferimento all’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Xylella fastidiosa che ha portato ieri all’emissione di un decreto di sequestro d’urgenza a firma dei magistrati Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci che indagano su dieci persone tra cui anche il commissario straordinario per l'emergenza Xylella, Giuseppe Silletti. Accertamenti sarebbero in corso - a quanto si è appreso - anche sulla modalità di concessione e utilizzo dei finanziamenti pubblici. L’inchiesta parte dal presupposto, ha spiegato Motta: «che non è stato accertato il nesso di causalità tra il complesso del disseccamento rapido degli ulivi e la Xylella Fastidiosa». «Abbiamo trovato alberi non colpiti da disseccamento che sono però risultati positivi alla Xylella - ha detto Motta - e alberi secchi che non sono invece risultati contagiati». Hanno applaudito e mostrato un cartello di ringraziamento ai due pm che hanno condotto l'inchiesta, Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, alcuni ambientalisti che hanno fatto ingresso nella stanza del procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta, poco prima della conferenza stampa. Sul cartello mostrato c'è scritto: "C'è un giudice a Lecce, anzi due. Grazie".

Terremoto xylella, il governatore Emiliano: "Il provvedimento è una liberazione", scrive “Lecce Sette” sabato 19 dicembre 2015. Il commento del governatore di Puglia, Michele Emiliano, in relazione alla svolta nelle indagini della Procura di Lecce sull'affaire Xylella. “La notizia del provvedimento di sequestro da parte della Procura della Repubblica di Lecce è arrivata come una liberazione. Finalmente avremo a disposizione dati tecnici ed investigativi per discutere con l’Unione Europea della strategia finora attuata per contrastare la Xylella, fondata essenzialmente sull’eradicazione di massa di alberi malati e sani”. Così in una nota il governatore Michele Emiliano, a poche ore dalla notiza della clamorosa svolta nelle indagini della Procura di Lecce sull'affaire xylella. “Questa strategia viene messa totalmente in dubbio dalle indagini effettuate da magistrati scrupolosi, prestigiosi e notoriamente stimati per la prudenza che li ha sempre contraddistinti nell’esercizio delle funzioni – commenta - Credo anche che possiamo considerare chiusa la fase della cosiddetta emergenza. La malattia è ormai insediata, e non può più essere totalmente debellata. Dobbiamo dunque riscrivere da zero le direttive da impartire agli agricoltori e a tutti gli altri soggetti interessati, che potranno consistere in tutti quegli atti e quelle azioni che non comportino l’eradicazione delle piante”. “In questi mesi la Regione Puglia ha sempre ribadito alla Procura della repubblica di Lecce la sua disponibilità a fornire collaborazione alle indagini in corso. E anche oggi ribadisco questa disponibilità assieme alla piena fiducia negli uffici giudiziari leccesi. Mi sento di dire che questo intervento è l’equivalente di quello della magistratura tarantina nel caso Ilva”, si legge nella nota e conclude: “La Regione Puglia è persona offesa degli eventuali reati commessi si riserva di indicare elementi di prova che possano contribuire all’accertamento della verità. In caso di rinvio a giudizio si costituirà parte civile nei confronti di tutti gli imputati”.

Xylella, M5S: Emiliano chieda scusa agli agricoltori, scrive “Inchostro Verde” il 19 dicembre 2015. Accolgono con estrema soddisfazione la decisione della Procura di bloccare le eradicazioni i Consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle. Le indagini dei magistrati si incardinano infatti sulle stesse tesi che i pentastellati ribadivano da tempo sia in Consiglio regionale che nelle piazze pugliesi e che sono state oggetto di una mozione votata all’unanimità dal Consiglio solo qualche giorno fa. In merito alle dichiarazioni di Emiliano replicano così: “Oggi, Emiliano, con la sua Giunta, dovrebbe solo tacere” dichiarano Rosa Barone, Gianluca Bozzetti, Cristian Casili, Mario Conca, Grazia Di Bari, Marco Galante, Antonella Laricchia e Antonio Trevisi “proprio lui che aveva promesso di scatenare l’inferno in campagna elettorale contro la Xylella e che non ha fatto nulla se non limitarsi ad istituire un tavolo multidisciplinare sul tema identico a quello proposto dal M5S. Addirittura usando le stesse parole per definirlo e convocando gli stessi esperti che il M5S aveva dichiarato di voler coinvolgere. Proprio lui Presidente di una Regione che ha osato arrivare a costituirsi contro quei poveri agricoltori che hanno dovuto subire passivamente la distruzione dei loro terreni e che si “erano azzardati” a fare ricorso. Dopo aver deliberato per le eradicazioni, aver richiesto al Ministero l’accelerazione di queste procedure, questo dovrebbe essere il giorno della vergogna. Quelle parole che oggi usano per guadagnare qualche titolo sulla stampa piuttosto le usino per porgere le loro scuse agli agricoltori e ai cittadini nei comitati, con le loro decisioni li hanno soltanto umiliati. Oggi Emiliano parla di “soddisfazione perchè finalmente qualcuno ha portato delle prove” ma mente sapendo di mentire perchè quelle stesse prove le aveva portate il Movimento 5 Stelle in Regione Puglia da mesi, aveva convocato addirittura esperti che ripetevano le nostre stesse tesi ed aveva presentato una mozione votata all’unanimità dall’intero Consiglio Regionale (su cui Emiliano e la sua Giunta si erano invece vergognosamente astenuti) ed incardinata sulle stesse identiche tesi che oggi anche i magistrati portano avanti. Quali altre prove aspettava Emiliano che il Movimento 5 Stelle non gli avesse portato sotto gli occhi da tempo?”. I 5 Stelle non risparmiano una stoccata neanche le altre forze politiche: “Non possiamo non ricordare inoltre che, affinchè fosse votata in Consiglio Regionale, la nostra mozione ha dovuto subire delle modifiche perchè per i vecchi partiti ‘i nostri termini erano troppo forti’. Oggi invece tutti si spellano le mani nell’applaudire i magistrati. Saremmo felici di constatare che non è mai troppo tardi per cambiare idea se non fosse che la loro incoerenza ha lasciato morire migliaia di alberi e le speranze degli agricoltori. Se fossimo stati noi ad amministrare questa regione, tutto ciò non sarebbe mai successo”.

Xylella, la denuncia di "Nature": in Italia ricercatori sotto accusa come per il sisma a L'Aquila. La prestigiosa rivista scientifica dedica sul proprio sito un articolo sull'inchiesta della Procura di Lecce che ha chiamato in causa, insieme col commissario straordinario Silletti, anche nove ricercatori, scrive “La Repubblica” il 22 dicembre 2015. Indice puntato contro i ricercatori ancora una volta in Italia: lo rileva la rivista scientifica internazionale Nature, che sul suo sito dedica un articolo alla diffusione della xylella in Puglia e ai nove ricercatori sospettati di avere avuto un ruolo nella diffusione del batterio che ha gravemente danneggiato gli uliveti. Nell'inchiesta è coinvolto anche il commissario straordinario Giuseppe Silletti. Non è la prima volta che in Italia i ricercatori salgono sul bando degli accusati: è già accaduto nella vicenda giudiziaria seguita al terremoto dell'Aquila, con sette ricercatori sul banco degli accusati (sei dei quali assolti dalla Cassazione nel novembre scorso). Nella conferenza stampa del 18 dicembre scorso, citata anche da Nature, i magistrati avevano additato l'attività scientifica effettuata da ricercatori di Università di Bari, Istituto agronomico mediterraneo (Iam) di bari e Centro di ricerca e sperimentazione in agricoltura Basile Caramia di Locorotondo (Bari). Per i magistrati, come ha ampiamente riferito Repubblica nei giorni scorsi, sono i "protagonisti assoluti e incontrastati nella storia xylella". Nessuna dichiarazione in merito da parte dei ricercatori. Uno degli accusati, il responsabile dell'unità di Bari dell'Istituto per la protezione sostenibile delle piante del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), Donato Boscia, ha detto di essere "certo che emergerà quanto prima la nostra completa estraneità". Il sospetto, per lui come per gli altri ricercatori, è di aver diffuso il batterio e presentato false documentazioni alle autorità giudiziarie, oltre che di inquinamento ambientale e deturpazione del paesaggio naturale. "Sono accuse folli", ha detto a Nature Boscia, che non ha intenzione di commentare una vicenda sulla quale è in corso un'indagine. Computer e documentazione dei ricercatori erano stati confiscati nel maggio scorso e da allora, osserva la rivista, "non è stata resa nota alcuna evidenza contro i ricercatori". Eppure, prosegue Nature, permane il sospetto che la xylella sia stata importata dalla California in occasione di uno workshop organizzato nel 2010 dall'Istituto agronomico mediterraneo. Più volte in passato, tuttavia, i ricercatori hanno affermato che in quell'occasione non era stata utilizzata la xylella. Nature rileva che il ceppo di xylella diffuso in Puglia, originario di Costa Rica, Brasile e California, è stato identificato per la prima volta in Europa, nell'Italia meridionale, nel 2013. Per la maggior parte dei ricercatori, conclude la rivista, è molto probabile che il batterio sia arrivato in Italia con piante ornamentali importate dal Costa Rica.

Xylella, l'ombra del complotto con le multinazionali. I pm: "Il batterio importato durante un convegno". I magistrati leccesi sono convinti che, al contrario di quanto sostenuto da Università e Istituto agronomico del mediterraneo (Iam), il batterio sia stato importato dallo Iam nel corso dell'evento nel 2010, scrive Giuliano Foschini su "La Repubblica" del 20 dicembre 2015. Mettiamola così: se ha ragione la Procura di Lecce, si tratta del più grande complotto mai realizzato da attori istituzionali ai danni di un territorio e della loro principale ricchezza: la natura. Università, politica, centri di ricerca, multinazionali, tutti insieme per un piano diabolico e infame. Se invece i magistrati di Lecce stanno sbagliando, si tratta di un attacco violentissimo alla scienza. Per capire come stanno le cose sarà quindi necessario aspettare le prossime settimane, quando altre istituzioni, a partire dall'Unione europea passando dal governo italiano, dovranno evidentemente dire qualcosa. Prendere una posizione. Perché mai come in questo momento è opportuno sapere. La prima domanda da farsi è: il batterio della xylella causa l'essiccamento degli ulivi? Su questo la comunità scientifica aveva pochi dubbi: sì. E invece la Procura, sulla base di altre perizie, nel decreto di sequestro spiega esattamente il contrario. "E' stata fornita una falsa rappresentazione della realtà con riguardo all'asserito, ma assolutamente incerto, ruolo specifico svolto dalla xylella fastidiosa nella sindrome del disseccamento degli alberi di ulivo - si legge negli atti - e con riguardo all'asserita, ma assolutamente incerta, presenza nel Salento di una popolazione omogenea del batterio e della sua recente introduzione dal Costa Rica. I magistrati sono convinti che, al contrario di quanto sostenuto da Università e Istituto agronomico del mediterraneo (Iam), il batterio sia stato importato dallo Iam nel corso di un famoso convegno del 2010. Che dai documenti che attestavano l'ingresso in Italia della xylella "emergessero gravi irregolarità". E che la documentazione originale non è mai stata ritrovata anche perché i ricercatori dello Iam avrebbero finto di cercarle nel corso della perquisizione. Ma non basta: la Procura, senza per il momento fare contestazioni formali, nota due cose: la prima è che ci sono interessi nella diffusione del batterio. Chi, per esempio, ha puntato su nuovi tipo di coltivazioni dell'olivo come la Sinagri srl, spin off dell'Università di Bari, che lavora con Iam e Basile Caramia, gli enti incaricati dei controlli sulla xylella. E che ha tra i suoi 'amici' i professori Vito Savino, all'epoca preside della facoltà di Agraria; Angelo Godini, "fautore dell'eliminazione del deviato degli alberi di ulivo e in particolare di quelli monumentali ", e Giovanni Paolo Martelli, "lo stesso che poi suggerirà, in base a una mera "intuizione" di fine agosto 2013, di indagare la presenza della xylella quale causa dei fenomeni di disseccamento dell'ulivo". "Savino, Godini e Martelli - scrive ancora la Procura - condividono peraltro un medesimo approccio culturale nell'Accademia dei Georgofili, di cui fa parte anche il professor Paolo De Castro, già ministro dell'Agricoltura e attualmente eurodeputato, che ha riferito in commissione proprio sulla questione xylella". Negli atti è poi raccontato uno strano episodio: nel 2010-2011 in Salento si tengono "campi sperimentali di nuovi prodotti contro la 'lebbra dell'olivo', epoca prima della quale - nota la Procura - non era esploso il fenomeno del disseccamento rapido". Per questo motivo li ministero autorizza l'uso di alcuni diserbanti particolari, per un periodo limitato di qualche mese, in zone specifiche del Salento. La Forestale ha contattato alcuni dei proprietari dei terreni e altri testimoni: raccontavano di aver visto in quel periodo persone che "in abiti civili, con tute bianche modello 'usa e getta' in dotazione alla polizia scientifica, si aggiravano fra gli olivi con in mano dei barattoli di colore blu e bianco. Effettuavano anche alcune manovre, alla base degli alberi". Gli alberi avevano dei cartelli. Bene: durante il sopralluogo della polizia giudiziaria, si è notato che "la maggior parte degli alberi di olivo, sui quali erano stati appesi i cartelli, erano quasi completamente bruciati: alcuni mesi addietro si era sviluppato un incendio". Strano, perché aveva colpito alcuni alberi e alcuni no. "Sembrerebbe che abbiano colpito - dice la procura soltanto quelli legati alla sperimentazioni della "Lebbra dell'olivo" ovvero la prove in campo del Roundpop Platinum della Monsanto. L'incendio dovrebbe essere dunque di natura dolosa con finalità di eliminare ogni possibile traccia di quanto fatto sugli alberi ". Che cos'è la Monsanto? E' un leader nella realizzazione dei pesticidi. Ed è la stessa ditta che finanza un convegno sulla xylella nel 2010, nel quale "presenta un progetto di nome Gipp per la buona pratica di diserbo nell'oliveto di Puglia". La pratica prevede una serie di interventi compreso l'uso di un diserbante totale che serve per mantenere "pulito da erbacce l'oliveto". Bene, si tratta proprio del Roundpop, lo stesso che avrebbe potuto bruciare quegli ulivi. E' la stessa società che nel 2007 ha acquisito la società "Allelyx - scrive la Procura - Parola specchio di xylella...".

Xylella, Bruxelles a pm di Lecce: “Dati non sbagliati, avanti con taglio degli ulivi”. Ma i test furono condotti in serre bucate. Enrico Brivio, portavoce dell'Esecutivo comunitario per l'Ambiente, la Salute e la Sicurezza alimentare, risponde a Cataldo Motta, capo della procura salentina, che sabato scorso aveva parlato di una "falsa interpretazione dei fatti". La rimozione degli alberi, quindi, deve continuare. Ma dalle carte dell’inchiesta emerge uno dei dettagli più pesanti: le prove di patogenicità sono state condotte all’interno di vivai non a norma, scrive Tiziana Colluto il 22 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". L’Ue tira dritto sull’emergenza Xylella, nonostante l’alt della Procura di Lecce: la Commissione europea “non ha al momento alcuna indicazione del fatto che l’Italia le avrebbe comunicato dati sbagliati”, ha detto il portavoce dell’Esecutivo comunitario per l’Ambiente, la Salute e la Sicurezza alimentare, Enrico Brivio. Dunque, avanti con le procedure di eradicazione del batterio, comprese quelle di abbattimento degli ulivi. “Se gli alberi sono sotto sequestro, non si possono toccare”, si mette di traverso il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che ha chiesto ai pm di essere ascoltato come persona offesa e di acquisire il decreto di sequestro e le consulenze allegate per inviarle a Bruxelles. In quelle carte, tra le varie prove raccolte, c’è qualcosa di clamoroso: i test di patogenicità, vale a dire la prova del nove del rapporto di causa-effetto tra Xylella e disseccamento delle piante, sono stati condotti in serre bucate, non a norma, e sono stati avviati cinque mesi prima dell’autorizzazione rilasciata dall’Osservatorio fitosanitario nazionale. L’Ue: “Le misure vanno attuate” – Quella di Brivio è la risposta implicita alle parole del procuratore capo: “Non voglio dire che l’Ue sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti. E’ stata tratta in errore da quanto è stato rappresentato con dati impropri e non del tutto esatti”, aveva detto Cataldo Motta, nella conferenza stampa di sabato mattina. “La Commissione europea non commenta le inchieste giudiziarie in corso”, ha replicato il portavoce dell’Esecutivo comunitario, ricordando che due settimane fa l’Ue ha messo in mora l’Italia per non aver pienamente realizzato il piano contro la Xylella. “E’ molto importante che queste misure siano attuate”, ha ribadito, poiché, laddove si è diffusa, “la Xylella è uno dei patogeni delle piante più pericolosi, con un enorme impatto economico sull’agricoltura”. Come ammesso dallo stesso Brivio, “resta da capire pienamente il ruolo specifico svolto dalla Xylella e le sue implicazioni” nella diffusione della sindrome del disseccamento rapido degli ulivi in Salento; tuttavia, il batterio “è stato trovato in piante giovani che mostravano i segni della sindrome e che non avevano altri patogeni”. Dunque, nessun passo indietro su quanto dettato da Bruxelles nella decisione di esecuzione di maggio e recepito dal Ministero delle Politiche agricole e dal commissario straordinario Giuseppe Silletti, anche lui tra i dieci indagati. I provvedimenti prevedono la rimozione degli alberi infetti e delle piante potenziali ospiti in un raggio di cento metri, nei focolai fuori dalla provincia di Lecce, soprattutto nel Brindisino. Tagli congelati, per il momento, prima dal Tar Lazio e ora dalla Procura. Sulla stessa sponda dell’Ue ci sono la Società Italiana di Patologia Vegetale e la Società Entomologica Italiana, che si dicono “sconcertate” dal decreto di sequestro degli ulivi.  Per il tramite dei loro rispettivi presidenti, Giovanni Vannacci e Francesco Pennacchio, entrambe affermano di non essere a “conoscenza di nuove evidenze sperimentali, validate dalla comunità scientifica, tali da modificare le linee guida già espresse nel documento rilasciato al termine del convegno nazionale”, organizzato sull’argomento il 3 luglio scorso a Roma. “Le motivazioni degli interventi di contenimento – aggiungono – originano dal solo riscontro della presenza di un organismo da quarantena qual è Xylella fastidiosa, e non dal nesso di causalità tra questo e la sindrome di disseccamento rapido dell’olivo. Le solide basi di conoscenza fornite dalla ricerca internazionale, recepite dall’Ue e dalle organizzazioni fitoiatriche nazionali e internazionali, consentono di concludere che la diffusione di X. fastidiosa sul territorio nazionale ed europeo aprirebbe prospettive drammatiche per l’agricoltura. La misura del suo potenziale impatto economico può essere stimata dal confronto con episodi precedenti, quale la diffusione in Brasile di questo patogeno, ritenuto responsabile di danni per circa 100 milioni di euro l’anno”.  Eppure, per gli inquirenti a traballare è l’impianto stesso su cui si fondano i piani di contenimento del batterio. La consulenza allegata al decreto “ha posto in serio dubbio – hanno scritto i pm – l’attendibilità delle conclusioni scientifiche rappresentate all’Europa e che hanno costituito il presupposto delle determinazioni assunte sia a livello europeo che a livello nazionale”. Il riferimento è soprattutto alla presenza di più ceppi, e non di uno solo, di Xylella sul territorio: almeno nove, segno di una presenza del patogeno sul territorio “da 15-20 anni”, così tanti da non poter giustificare, secondo la Procura, lo stato di emergenza. I protocolli da quarantena, a suo avviso, sono stati tradotti in un “piano di interventi univocamente diretto alla drastica e sistematica distruzione del paesaggio salentino, benché costituisca ormai dato inconfutabile che l’estirpazione delle piante non è assolutamente idonea né a contenere la diffusione dell’organismo nocivo né a impedire la diffusione del disseccamento degli ulivi né tantomeno a contribuire in alcun modo al potenziamento delle difese immunitarie delle piante interessate”. Cuore delle indagini resta l’assenza di un dimostrato nesso di causalità tra Xylella e disseccamento degli ulivi. Ad appurarlo dovranno essere i test di patogenicità svolti dal Cnr di Bari. Ma quali? È su questo che, dalle carte dell’inchiesta, emerge uno dei dettagli più pesanti: quelle prove sono state condotte all’interno di serre non a norma. Il5 novembre scorso, infatti, la polizia giudiziaria e uno dei consulenti tecnici della Procura hanno fatto un sopralluogo nel vivaio dell’Arif (Agenzia regionale per le risorse irrigue e forestali), in contrada Li Foggi, a Gallipoli, culla dell’infezione. È quello uno dei luoghi in cui sono state messe a dimora numerose piantine di varie specie, nelle quali Xylella è stata veicolata mediante infezione naturale da parte del vettore e inoculo artificiale del batterio. I risultati sono destinati, molto probabilmente, ad essere invalidati: “La rete della serra presentava una grossa fessura che ne permette il contatto diretto con l’esterno e che pertanto non è garantito l’isolamento totale delle piante in essa allocate per la sperimentazione”. Non una sottigliezza, dunque. Tra l’altro, quelle prove sono iniziate a partire dal 4 luglio 2014, mentre il Cnr è entrato in possesso della necessaria autorizzazione alla detenzione e manipolazione del patogeno da parte del Servizio fitosanitario nazionale solo il 16 dicembre 2014.

«Xylella, attacco al paesaggio», scrive Pino Ciociola il 23 dicembre 2015 su “Avvenire”. Territorio sotto attacco. Affaire Xylella: dai «protagonisti istituzionali e non», c’è stata «perseveranza colposa, tale da sfiorare la previsione dell’evento se non il dolo eventuale, nell’adozione di un piano d’interventi univocamente diretto alla drastica e sistematica distruzione del paesaggio salentino». Si legge a pagina 51 dell’'Ordinanza di sequestro preventivo d’urgenza' degli ulivi, firmata dalle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci e dal capo della Procura leccese, Cataldo Motta. Altro «dato inconfutabile» (fra molti): «Proprio le misure imposte dai Piani Silletti, ivi compreso l’uso massiccio dei pesticidi, rappresentano un serio rischio per l’incolumità pubblica». E ancora, «è stata fornita una falsa rappresentazione della realtà riguardo all’asserito, ma assolutamente incerto, ruolo specifico svolto dalla Xylella nella sindrome del disseccamento degli ulivi». Insomma, la realtà è «molto più articolata e complessa» di quella riportata «alla Comunità Europea». E col «serio dubbio» sull’«attendibilità » di quelle conclusioni scientifiche rappresentate all’Europa», ma che sono state «il presupposto delle determinazioni assunte a livello europeo e nazionale». Il capo della Procura leccese l’aveva spiegato sabato scorso: «Le indagini non sono compiute» e ne appaiono chiari i motivi scorrendo l’ordinanza, emessa insieme a 10 avvisi di garanzia. Ricostruzione con prove e testimonianze (queste ultime a volte false o contraddittorie) di quanto 'accade' dal 2009, cioè quando «appare già indubbio sia databile il fenomeno del disseccamento degli ulivi in Salento». Lunga storia dalla quale, per gli inquirenti, «emerge chiaramente la colposa inerzia degli organi preposti al controllo fitosanitario nazionale e della Regione Puglia nell’attenzionare l’ingravescente fenomeno del disseccamento degli ulivi» e «l’assoluta imperizia dei suddetti organi e dei soggetti con essi interfacciatisi quali unici interlocutori, vale a dire Iam, Università di Bari e Cnr». Il lavoro della Procura appare certosino, le sue conclusioni anche. È «ormai dato inconfutabile – scrivono i magistrati – che la estirpazione delle piante non è assolutamente idonea né a contenere la diffusione del disseccamento, né a contribuire al potenziamento delle difese immunitarie delle piante», anzi dov’è stata realizzata, per esempio a Trepuzzi, «ha comportato una esplosione del fenomeno del disseccamento!». Fra gli altri dati «acquisiti», poi, c’è che «almeno dal 2013» si sapeva come «al disseccamento rapido dell’ulivo contribuissero diverse concause» e che «la manifestazione della sintomatologia del disseccamento non sia necessariamente correlata alla presenza della Xylella». Passo indietro. I primi anomali disseccamenti sugli ulivi vengono notati nel 2008 nelle campagne fra Gallipoli, Racale, Alezio, Taviano e Parabita. Ed è sempre «dato conclamato» che negli anni 2010/2011 e 2013 «sono state condotte in territorio salentino sperimentazioni anche con l’uso di prodotti fortemente invasivi». Torniamo ai giorni nostri. Da marzo scorso alcuni agricoltori si accorgono che uomini in tu- ta bianca («Modello 'usa e getta' in dotazione alla polizia scientifica», spiega la Procura) si aggirano fra gli ulivi con barattoli di vernice blu e bianca, affiggono cartelli con la scritta «Campo sperimentale». Accade che poi questi ulivi brucino e qualche volta stranamente o miratamente. Morale? «Si ritiene – scrive la Procura – che l’incendio di ulivi sui quali sarebbero avvenute le sperimentazioni legate alla 'lebbra dell’ulivo', ovvero le prove in campo del Roundop Platinum della Monsanto, sia di natura dolosa con finalità d’eliminare ogni possibile traccia di quanto fatto sugli alberi». Nuovo passo indietro: la multinazionale aveva promosso a Bari nel 2013 il 'Progetto Gipp', con l’utilizzo del 'Roundup Platinum' del Roundup 360 power con glifosato e l’'Area manager Centro Sud' della Monsanto, Lino Falcone, raccontava che «il 'Progetto Gipp' non nasce dal caso, abbiamo lavorato due anni per studiare la situazione malerbologica nell’uliveto pugliese e individuare gli aspetti critici». Infatti il Roundup è un diserbante totale – annota la Procura leccese – e il glisofato «si trasmette nel terreno, predispone le piante a malattie e tossine» e provoca diverse altre conseguenze. L’11 settembre 2014 c’è un’altra serata di presentazione del Progetto Gipp e del Roundup platinum, stavolta nel leccese, in un resort a Lequile. Detto che «non è pervenuta risposta» alla richiesta d’informazioni «sulle aree interessate da campi di sperimentazione all’Osservatorio Fitosanitario regionale», i magistrati vanno avanti: «Le due società interessate alle sperimentazioni in Salento, Monsanto e Basf, sono collegate da investimenti comuni, avendo la Monsanto acquisito dal 2008 la società Allelyx (leggete la parola al contrario... ndr) dalla società brasiliana Canavialis e avendo la Basf nel marzo 2012 investito 13,5 milioni di dollari nella 'Allelyx'». Contattata, l’azienda rimanda al suo blog: «Non c’è nessuna ragione plausibile per cui Monsanto, i cui prodotti servono ad aiutare gli agricoltori, farebbe qualcosa che può causare problemi agli olivicoltori italiani», si legge ad esempio sull’Affaire Xylella. La Procura non ha dubbi: dai primi disseccamenti e «senza che ne fossero state individuate le cause – si legge nell’Ordinanza –, sono state condotte in territorio salentino sperimentazioni anche con l’uso di prodotti fortemente invasivi, tanto da essere vietati per legge, in un contesto di grave compromissione ambientale» e senza «alcun previo studio sull’impatto che avrebbero avuto sull’ambiente». Ma l’Affaire Xylella è appunto complesso. Ci sono – sottolinea la Procura leccese – laboratori che «hanno effettuato analisi e ricerche su campioni di ulivo senza il necessario accreditamento» e 10 mesi prima di ottenerlo, come il Centro di ricerca, sperimentazione e formazione in agricoltura 'Basile Caramia' (a Locorotondo). L’Università di Bari che «ha effettuato prove in campo e serra senza la necessaria autorizzazione» e 4 mesi prima di ottenerla. A proposito. Pagina 35 fra le 59 dell’Ordinanza: «Ciò che è emerso è che in Salento potrebbero esserci più ceppi differenti» di Xylella, «per lo meno nove!» e «nonostante i ricercatori del Cnr di Bari Donato Boscia e Maria Saponari in più occasioni ufficiali sostengano essercene uno solo».

Fantathriller Xylella in Salento. La Xylella attacca l’oro della Puglia, scrive Erasmo De Angelis il 21 dicembre 2015 su “L’Unità”. Ora si cerchi una strategia condivisa con interventi selettivi e mirati, sperando di fermare se non le polemiche, almeno il contagio. È l’ultimo avvincente thriller rimasto senza colpevole. Anzi il fantathriller della Xylella fastidiosa, il batterio che sapevamo fino a due giorni fa untore della peste degli ulivi pugliesi, l’assassino di piante monumentali, millenarie o secolari che sono incredibili opere d’arte scolpite dal tempo e dal vento e raccontano identità, storia e paesaggio ma vengono seccate dal parassita che sfregia l’alto Salento e minaccia altre regioni e la risalita verso l’Europa. La Xylella attacca l’oro della Puglia, area con la quota maggiore di produzione nazionale di olio extra-vergine d’oliva (37%). Ma se l’ulivo è un sentimento, simbolo di identità e appartenenza, la difesa dal killer è finita nel caos e in alto mare e nella conflittualità tra apparati e organi dello Stato. A decidere cosa fare o non fare in un campo dove la prima e l’ultima parola spetta alla scienza, è stato un magistrato che ha dovuto sentenziare da giudice-scienziato-fitopatologo. Non la faccio lunga. La Procura di Lecce, con 58 pagine di decreto di sequestro, al termine di una indagine e dopo una precedente sentenza del Tar, ha buttato all’aria due giorni fa tutte le teorie scientifiche sull’epidemia e bloccato l’inizio del lavoro di contenimento ed eradicamento della Xylella. I Pm hanno sequestrato più o meno un milione di ulivi contaminati rivelando che «l’Unione Europea è stata tratta in errore da quanto rappresentato dalle istituzioni regionali con dati impropri sulla vicenda Xylella». Per il procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta e stando alla ricostruzione fatta dalle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, Xylella è presente nel Salento «da almeno 15 o 20 anni», non è giustificato lo stato di emergenza e sono «inidonee» le drastiche misure di contenimento, compreso l’uso massiccio di pesticidi e il taglio di migliaia di ulivi senza «la preventiva valutazione di impatto ambientale». I rimedi, insomma, vanno ancora studiati e nel caso attuati con gradualità. In un colpo solo, dieci indagati ed esautorati Giuseppe Silletti, il comandante regionale della Forestale che il governo ha nominato commissario straordinario per l’emergenza, il Comitato Fitosanitario di Bruxelles che ha definito il piano d’intervento d’intesa con il nostro governo e con la Commissione europea, il Piano di eradicazione in corso, le disposizioni del Ministero dell’Agricoltura, gli studi della comunità scientifica, la Regione, i docenti dell’Università di Bari, gli esperti dell’Osservatorio Fitosanitario della Puglia. Tutti concordavano sulle cause dell’epidemia e su misure di contenimento rigorose e molto dolorose anche con tagli al tappeto al limite dell’inaccettabile. Ma tant’è. Il giudice ha deciso che è tutto sbagliato ed è tutto da rifare. A oltre due anni dall’inizio dell’emergenza, torniamo quindi al punto di partenza, in uno scenario aggravato, e con la domanda rimasta appesa: ma chi è il colpevole dell’epidemia, e come si combatte? Sapevamo, infatti, che Xylella aveva come insetto-vettore la “cicala sputacchina”, che forse è stato introdotto per l’imperizia di alcuni scienziati durante un convegno scientifico anni fa a Valenzano, o forse era sbarcato in Salento appiccicato a piante ornamentali provenienti dal Sud America come è accaduto per il “Punteruolo Rosso” che colpisce la palma e il “Matsucoccus Feytaudi” il “vampiro dei pini marittimi”. La soluzione scientifica, in questi casi, è quella di estirpare. Ma il contrordine dei giudici non ammette repliche: “La estirpazione delle piante non è assolutamente idonea né a contenere la diffusione dell`organismo nocivo, né a impedire la diffusione del disseccamento degli ulivi, né a contribuire in alcun modo al potenziamento delle difese immunitarie delle piante”. C’è chi esulta, pensa di vedere confermate teorie complottarde che sono una sfilza e navigano nel web per le quali: la vera colpa è di “bioterroristi al soldo di multinazionali Ogm”, la Xylella è “un arma dei geoguerrieri di paesi concorrenti nella produzione olivicola come Spagna, Grecia, Portogallo, Tunisia, Algeria, Iran, Irak e Marocco contro il primato della Puglia nella produzione di olio”, è “prodotto dalle discariche salentine illegali di rifiuti industriali”, è frutto dei “tentacoli della Monsanto e della grande finanza internazionale controllori delle più grandi banche americane e delle più grandi multinazionali del petrolio e membri permanenti del club Bilderberg e fondatori dell’istituto Aspen e controllori della politica italiana ed europea”, è “l’arma batteriologica catalogata nel documento Plant-Pathogenic Bacteria as Biological WeaponsReala Threats per devastare ambienti naturali”, è stato introdotto da “immobiliaristi e magnati della finanza internazionale che vogliono trasformare costa e entroterra salentino come megalopoli modello Dubai che hanno il massimo del lusso e non hanno che deserto e mare”… Scherzi a parte, vorremmo sapere chi ha ragione tra il procuratore e i suoi pm e il resto del mondo scientifico, lo Stato e l’Europa che invece vede un “nesso causale” tra fenomeni di disseccamento rapido e contagio da Xylella? E soprattutto come si ferma il contagio? La cura dell’eradicazione a tappeto delle piante sospette, è impressionante ma esiste l’alternativa al dilagare dell’epidemia? Morale della favola. Su temi molto sensibili per i nervi scoperti dei cittadini – dai vaccini ai farmaci antitumorali alle scelte amministrative e al paesaggio agricolo – possiamo sempre delegare tutto a Tar e Procure che devono sostituire, loro malgrado, interi governi, premi Nobel, uffici brevetti, presidenti di regione e loro assessori, sindaci e giunte comunali, direttori di testate, dirigenti di azienda e capi del personale, Commissione Grandi Rischi, sindacati, associazioni di categoria? Diceva Romano Prodi, che “Il ricorso al Tar è diventato un comodo e poco costoso strumento di blocco contro ogni decisione che non fa comodo, penetrando ormai in ogni aspetto della vita del paese”. Il tema chiama in causa la qualità delle governance delle società moderne in rapidissima trasformazione e il rischio di un processo generale di de-responsabilizzazione dell’agire politico e di perdita di autorevolezza del mondo scientifico, anche agli occhi del cittadino. Fare a pezzi il primato dell’analisi scientifica e della definizione razionale di obiettivi e di programmi è un suicidio, ma lo è anche per la credibilità e l’affidabilità dell’amministrazione pubblica e dello Stato nel suo complesso. Nel frattempo, in attesa di capire quali sono le “ben altre misure da attendersi anche a livello europeo” sostenute dalla Procura, continui a tappeto in tutte le sedi la ricerca per curare le piante malate e per evitare che questa infezione si diffonda come una cicatrice indelebile. Si cerchi una strategia condivisa con interventi selettivi e mirati, le migliori e buone pratiche agricole, dall’aratura alla potatura. Sperando di fermare se non le polemiche, almeno il contagio.

Xylella punto e a capo. Salento. Stop allo sradicamento degli ulivi millenari. Grazie al Tar del Lazio, che ridà la palla alla Corte di giustizia europea accogliendo i ricorsi delle aziende bio. E alla Procura di Lecce, che ha sequestrato le piante «incriminate». Uliveti salentini attaccati dalla xylella, scrive Marilù Mastrogiovanni (il cui nome ricompare più volte successivamente), il 31.01.2016 su “Il Manifesto”. Xylella, punto e a capo. Finita l’emergenza scattata nel Salento per il ritrovamento sugli ulivi e su molte altre piante del batterio da quarantena xylella fastidiosa, quanto fatto finora potrebbe essere messo in discussione dalla Corte di Giustizia europea. Il Tar del Lazio infatti, con tre ordinanze diverse, ferma il gioco e ridà la palla all’arbitro del Lussemburgo. La disposizione della giustizia amministrativa arriva qualche settimana dopo l’intervento di quella penale: la Procura di Lecce infatti ha indagato tutti i protagonisti dell’emergenza xylella (ma nessun politico), incluso il commissario Silletti e gli scienziati del Cnr di Bari, e ha disposto il sequestro degli ulivi che dovevano essere sradicati, in base alle decisioni della Ue e del ministro Martina. Salvando un patrimonio di alberi secolari e millenari unico al mondo. Tutto è partito dal ricorso di 29 aziende agricole bio, che 10 mesi fa (era il 31 marzo 2015) contestarono dinanzi al Tar l’intero impianto normativo con cui la Regione Puglia, il Ministero delle Politiche agricole, la protezione civile e il Commissario per l’emergenza xylella, avevano, maldestramente e forzando le norme, cercato di ottemperare agli obblighi delle direttiva comunitaria 29/2000 che impone agli Stati membri di «eradicare» i patogeni da quarantena come la xylella. «Eradicare» il batterio, dice la norma. Non certo «sradicare» ulivi millenari. Le strategie della Commissione europea, secondo i ricorrenti e secondo il Tar del Lazio che ha accolto le richieste, e a cascata del Ministero delle Politiche agricole, della Regione Puglia e della Protezione civile, si sarebbero spinte oltre i paletti fissati dalla direttiva 29/2000. Insomma, la Commissione europea avrebbe travalicato i suoi poteri e le sue competenze, sconfinando nel terreno, cioè nel potere, proprio degli Stati membri, intaccandolo. Se il profilo di illiceità che il Tar del Lazio ha ravvisato nelle norme europee e, a cascata, nelle decisioni del Ministero delle politiche agricole del Piano del commissario governativo per l’emergenza xylella Giuseppe Silletti, dovesse essere confermato dalla Corte di giustizia Ue, si aprirebbe la strada a richieste di risarcimento danni milionarie. A quel primo ricorso, che bloccò, grazie alla sospensiva confermata in appello, l’attuazione del Piano per l’emergenza xylella di Martina e del suo commissario straordinario, ne sono seguiti altri, di altri proprietari di uliveti. E intanto, nell’attesa che il Tar si esprimesse, quelle imprese presentano numerosi motivi aggiunti, inseguendo la camaleontica e schizofrenica strategia anti xylella che, partita dalla Puglia, ha ormai preso la strada del parlamento europeo. Qui, trova facile sponda in Paolo De Castro, capogruppo Sde, già presidente della Commissione europea all’Agricoltura, già ministro dell’Agricoltura, brindisino doc. È De Castro a imporre ai suoi una linea dura contro la xylella, che poi si rivela essere una linea dura contro gli ulivi pugliesi: propone al Parlamento e fa approvare una risoluzione che impone di sradicare gli ulivi e di utilizzare a tappeto pesticidi. La risoluzione è approvata pochi giorni prima della decisione di esecuzione della Commissione Ue contestata dagli agricoltori bio, ed interamente assorbita in essa. È proprio in tale decisione di esecuzione, la 789/2015, e in tutti gli atti successivi e susseguenti, che il Tar del Lazio trova profili di illiceità, disponendo il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea. In quella decisione la Commissione decide d’imperio, tra le tante decisioni devastanti per l’ambiente e le persone, che a nord del brindisino per ogni ulivo positivo a xylella si debbano sradicare tutt’intorno per tre ettari e mezzo, anche gli alberi sani. Poiché tutto questo non è scritto nella direttiva del 29/2000 che la decisione di esecuzione 789/2015 applicherebbe, dunque potrebbero essere decisioni illegittime. A questo primo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue se ne aggiungono altri due. L’ultimo presentato in ordine di tempo, quello di 21 proprietari di uliveti di Torchiarolo, in provincia di Brindisi, ha utilizzato uno studio frutto di mesi di lavoro sulle norme europee e sulla xylella, che il gruppo Lair (Law and agroecology Ius et Rus), giuristi dell’Università del Salento, in collaborazione con il prof. Luigi De Bellis, ha messo a disposizione sulla rete, rinunciando ad ogni copyright. Il Tar del Lazio, rinviando anche questo ricorso in via pregiudiziale alla Corte di giustizia Ue, condivide integralmente le tesi del Lair, utilizzate dai ricorrenti. «Il Tar – dicono gli avvocati Paccione e Stamerra che difendono le aziende bio – riconosce il nuovo scenario in cui sul banco degli imputati compare anche la Commissione Europea, perché la Ue impone di fatto lo svellimento di milioni di alberi che costituiscono un patrimonio paesaggistico rilevante, precostituendo le condizioni per una drammatica desertificazione che andrebbe a spezzare il rapporto millenario tra la popolazione salentina e la cornice paesaggistica entro la quale la prima ha sviluppato nel tempo storico la propria identità culturale e socio-economica. Le misure adottate – proseguono i legali – non valutano i rischi che svellimenti senza reimpianti e somministrazione di tonnellate di pesticidi sui suoli agricoli possono comportare su parti di territorio pugliese specialmente protette dal diritto dell’Unione in quanto censite come zone protezione speciale, parchi naturali e siti di interesse comunitario». Secondo Paccione e Stamerra «il rischio che si corre è che con la desertificazione del suolo il popolo pugliese smarrisca anche la sua preziosa identità culturale, prima ancora di subire terribili conseguenze economiche e sull’eco-sistema. I cittadini hanno il diritto di autodeterminarsi nel quadro della legalità comunitaria e repubblicana, di difendere il loro paesaggio, di esercitare liberamente la propria attività d’impresa senza abnormi forme di espropriazione indiretta non codificata, di difendere il suolo agricolo contro l’aggressione di sostanze chimiche nocive che l’Unione pretende di imporre senza valutare previamente i rischi per la salute umana, animale e vegetale». Infine ai tre rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia europea disposti dal Tar del Lazio, si aggiunge un vero e proprio ricorso al Tribunale europeo, l’unico, presentato dagli stessi agricoltori bio riuniti nel «Comitato SOS salviamo ora il Salento», per l’annullamento della stessa decisione di esecuzione 789/2015 e un altro ricorso presentato da alcune associazioni, tra cui il Wwf, con la prof. De Giorgi, ordinaria di diritto Amministrativo all’Università del Salento in collaborazione con il Lair. Insomma, la Ue è accerchiata. In gioco c’è la più grande foresta d’ulivi secolari e millenari del mondo e l’identità del popolo pugliese.

Il caso xylella e la mafia “agricola” su Presa diretta, scrive "Xylella Report" il 17 gennaio 2016. I tentacoli della mafia sui soldi che l’Europa destina agli agricoltori. IL CASO XYLELLA, la storia del batterio killer che uccide gli olivi pugliesi, arriva a Presa diretta, che smaschera il grande business dei finanziamenti europei finiti nelle tasche della mafia. Tra gli autori e le autrici della trasmissione di Riccardo Iacona, anche Marilù Mastrogiovanni, autrice di “Xylella report”. “Da quando nel Salento è stata dichiarata l’epidemia Xylella, è cominciato il piano degli abbattimenti. Ma era vera emergenza”? E’ questo che si chiede PRESA DIRETTA, che racconta dell’inchiesta della Procura di Lecce, nella quale sono indagati tutti i responsabili, amministrativi e scientifici, della gestione dell’emergenza Xylella. Un vero terremoto in seguito al quale il Commissario di Governo Silletti si è dimesso. Con le indagini della magistratura, è stato vietato l’abbattimento di altri olivi, ma intanto centinaia di piante secolari non ci sono più. Le telecamere di PRESADIRETTA hanno raccolto le voci di tutti i protagonisti, raccontato la disperazione dei coltivatori mentre venivano abbattute le loro piante. Hanno filmato per la prima volta come si inocula il batterio della Xylella nella pianta sana in laboratorio, per il test di patogenicità. Hanno raccolto le esperienze positive di ricercatori e coltivatori che in tutta Italia provano a sconfiggere la Xylella senza abbattere le piante di olivo. E poi PRESADIRETTA si è occupata di raccontare il gigantesco giro di interessi legato ai fondi europei per l’Agricoltura. Come vengono assegnati i contributi che l’Europa stanzia per aiutare chi lavora la terra? Chi controlla che i milioni di euro distribuiti ogni anno vadano davvero a chi ne ha diritto? Nell’inchiesta di PRESADIRETTA dimostreremo come una parte di questi soldi è finita direttamente nelle mani della mafia. E chi doveva controllare che cosa ha fatto? “IL CASO XYLELLA” è un racconto di Riccardo Iacona con Giuseppe Laganà, Raffaella Pusceddu, Elena Stramentinoli, Antonella Bottini, Elisabetta Camilleri, Irene Sicurella, Cristiano Forti, Andrea Vignali, con la collaborazione di Marilù Mastrogiovanni.

La Puntata di Presa Diretta di domenica 17 gennaio. Il caso Xylella: processo alla scienza o ai furbetti dell’agricoltura? Scrive Aldo Funicelli domenica 17 gennaio 2016 su “Agora Vox”. Ancora prima di essere trasmessa, la puntata di Presa diretta di questa sera sta già suscitando delle polemiche: tratterà del caso Xylella, in Puglia, degli abbattimenti delle piante di ulivo, decisi dalla Asl e dai ricercatori della regione e dell'inchiesta del procuratore capo di Lecce. Sul caso Xylella sembra che non si possa avere una visione basata sui fatti: da una parte si legge della caccia agli untori portata avanti dalla magistratura leccese, che ha messo alla sbarra la scienza. Come nel processo ai tecnici della commissione Grandi Rischi. Condannati e poi assolti in appello per le rassicurazioni fatte alla popolazione aquilana poco prima della scossa mortale del 2009. Qui parliamo di piante di ulivo e di un insetto che le attacca, della decisione di abbattere le piante per contenere l'infezione. Decisione presa su parere degli esperti, i ricercatori scientifici e coordinata dal commissario Siletti (come spesso accade in Italia, dopo ogni emergenza) che ora si è dimesso. La decisione di abbattere le piante è stata ritenuto sbagliata dalla procura, che si è avvalsa del supporto di altri esperti e dalle indagini della forestale: “In un anno e mezzo le indagini, coordinate dai sostituti procuratori Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, condotte dal Corpo forestale dello Stato e basate sulle consulenze di esperti nominati dalla magistratura, hanno evidenziato come i dati presentati in ambito europeo (da cui è poi scaturita la direttiva di abbattimento nel raggio di 100 metri) abbiano tratto in errore la Comunità europea. Il procuratore ha parlato di “dubbi sulle conclusioni scientifiche presentate”. Da qui il decreto di sequestro preventivo d'urgenza di tutti gli ulivi salentini su cui pende il piano d’abbattimento. Un provvedimento già notificato nelle scorse ore a tutti gli interessati.” Chi ha ragione e chi ha torto? C'era l'emergenza o no, gli abbattimenti erano giustificati dal punto di vista scientifico o no? Siamo di fronte, come scrivono in tanti (e anche riviste scientifiche come Nature) di un processo intentato alla scienza? Così scriveva Paolo Mieli (citando poi un articolo de Il Foglio) la settimana scorsa sul corriere: L’Italia sta diventando sempre più un Paese ostile al metodo scientifico e amante delle teorie del complotto. L’ennesima dimostrazione viene dal caso della «Xylella fastidiosa», batterio che produce grave nocumento all’ulivo, penetrato in Europa diciotto anni fa e più recentemente in Italia, nel Salento. Nelle Americhe la si combatte da un secolo, purtroppo senza successo. Il Consiglio nazionale delle ricerche di Bari ha lavorato sodo per scoprire origini e modo di debellare quello che prende il nome di CoDiRO (Complesso del disseccamento rapido dell’olivo). Prendendo in seria considerazione anche l’ipotesi di sradicare gli ulivi già colpiti per provare a sterminare gli insetti diffusori dell’infezione e creare un cordone sanitario che isoli le piante infette. L'inchiesta di stasera dovrebbe servire a fare un po' di chiarezza: tra i giornalisti che hanno contribuito al servizio anche Marilù Castrogiovanni, autrice del libro“Xylella Report”. Ecco, il solito servizio a tesi: questi si leggeva sulla rete (luogo notoriamente popolato da persone use a giudicare prima di capire). Come se il giudizio dei giornalisti che parlavano di untori e di persecuzioni fosse più autorevole degli altri. Come se i tecnici a cui si è rivolta la procura di Lecce fossero meno “scienziati” degli altri. In un suo articolo, la giornalista punta il dito proprio su questo: sul pressapochismo della regione, sugli interessi in campo (per i fondi per l'agricoltura), sugli editoriali scritti senza conoscere troppo i fatti per criticare l'operato della procura leccese: si è creato un polverone che impedisce di capire come stanno le cose, “un’arma di distrazione di massa.” “Sono scesi in campo tutti contro tutti, ma soprattutto contro la Procura, “colpevole” di aver osato mettere in discussione la Scienza. Dimenticando che la “Scienza” è cosa diversa dallo scientismo perché essa stessa, se è tale, dovrebbe essere la prima a dubitare di ciò che fa, perché è fatta da uomini ed è il risultato di confronto, dibattito e di condivisione dei risultati. Un circolo virtuoso di accrescimento della conoscenza che in questo caso è mancato del tutto. La ricerca su xylella in Puglia è infatti in mano a pochi centri di ricerca, tutti pugliesi, e a pochi uomini. Ed è così che per dare la possibilità a tutti gli enti, pubblici e privati, di fare ricerca su xylella, la Regione Puglia ha fatto un bando da due milioni di euro, ma inserendo criteri di accesso che di fatto agevolano chi la ricerca la fa già. E si rimane sempre tutti nel solito brodo, a cantarsela e a suonarsela, senza possibilità di confronto. Ma la questione non è neanche questa. La questione è che spostando il fuoco su “sradicamento si, sradicamento no”, “procura contro scienza”, “scienziati contro complottasti”, “complotto si, complotto no”, si fa talk show e si ottiene il vuoto spinto. Dimenticando, ancora una volta, il cuore del problema: a chi conviene dire che la xylella fa seccare gli alberi anche se non è provato? Perché non è provato, lo sapete, vero? A chi conviene dire che si tratta di emergenza e di calamità naturale da fitopatologia? A chi conviene dire che servono i soldi per la ricerca e per la cura del disseccamento causato dalla xylella?”[..]Insomma: la Regione Puglia ha prodotto documentazioni e relazioni per dimostrare l’emergenza e la calamità sulla base di evidenze scientifiche inesistenti. Da una parte la Regione decideva a priori, già a partire dall’ottobre del 2013, che si trattava di emergenza da xylella e dichiarava alla Ue che l’intera provincia di Lecce era infetta, senza neanche aver fatto un monitoraggio, senza aver fatto uno studio epidemiologico (che ancora manca), senza aver dimostrato la prova causa effetto tra presenza di xylella e disseccamento degli ulivi (prova che ancora manca), senza neanche aver isolato il batterio in laboratorio, cosa che avverrà un anno dopo. Dall’altra la Scienza, anche perché a corto di soldi, arrancava negli esperimenti, si chiudeva a riccio, pubblicava qualche sparuta ricerca che si validavano da soli (ebbene si, anche questo è nel libro).Però, mentre la Regione non dava soldi alla Scienza ma pretendeva risposte, si affrettava d’altro canto a dare subito due milioni di euro al Consorzio Ugento Li Foggi, che il consorzio spendeva per fare “opere idrauliche” giustificandole con l’emergenza xylella, e 4,5 milioni all’Arif, per sradicare tutti gli alberi della Provincia di Lecce (sic!), perché aveva “i giusti uomini e giusti mezzi”. Per poi consentire ad Arif (direttore Giuseppe Taurino, già deputato pd), di predisporre un “Avviso pubblico” per reclutare uomini e mezzi, perché ne era sprovvisto (ma come? Non aveva “i giusti uomini e i giusti mezzi?). Leggi: incarichi e affidamenti ad alto tasso di clientelismo. Parte così, l’armata brancaleone della Regione Puglia all’arrembaggio degli infiniti soldi della Ue. E parte già nell’ottobre 2013.Parte con questi primi affidamenti pari a 6,5 milioni per tappare i buchi del Consorzio Li Foggi e per dare potere all’Arif, invece di dare spalle forti alla Scienza. Ci sono forti interessi dietro questa storia, i fondi per l'emergenza e poi per il ripopolamento delle aree dove si è abbattuto. Prima di esprimere un mio giudizio voglio capire e vedere: questo è quello che ha fatto il gruppo di giornalisti di Presa diretta nel servizio che vedremo questa sera.

La scheda del servizio: Il caso xylella. A PRESADIRETTA una puntata ricchissima, con tre diverse inchieste. IL CASO XYLELLA, la storia del batterio killer che uccide gli olivi pugliesi. Da quando nel Salento è stata dichiarata l’epidemia Xylella, è cominciato il piano degli abbattimenti. Ma era vera emergenza? La Procura di Lecce ha aperto un’inchiesta nella quale sono indagati tutti i responsabili, amministrativi e scientifici, della gestione dell’emergenza Xylella. Un vero terremoto in seguito al quale il Commissario di Governo Silletti si è dimesso. Con le indagini della magistratura, è stato vietato l’abbattimento di altri olivi, ma intanto centinaia di piante secolari non ci sono più. Le telecamere di PRESADIRETTA hanno raccolto le voci di tutti i protagonisti, raccontato la disperazione dei coltivatori mentre venivano abbattute le loro piante. Hanno filmato per la prima volta come si inocula il batterio della Xylella nella pianta sana in laboratorio, per il test di patogenicità. Hanno raccolto le esperienze positive di ricercatori e coltivatori che in tutta Italia provano a sconfiggere la Xylella senza abbattere le piante di olivo. E poi PRESADIRETTA si è occupata di raccontare il gigantesco giro di interessi legato ai fondi europei per l’Agricoltura. Come vengono assegnati i contributi che l’Europa stanzia per aiutare chi lavora la terra? Chi controlla che i milioni di euro distribuiti ogni anno vadano davvero a chi ne ha diritto? Nell’inchiesta di PRESADIRETTA dimostreremo come una parte di questi soldi è finita direttamente nelle mani della mafia. E chi doveva controllare che cosa ha fatto? E infine un’inchiesta sulla controversa applicazione della legge 194, sull’interruzione volontaria di gravidanza. Come mai nel nostro paese i medici obiettori sono in media il 70% del totale e in certe Regioni superano addirittura il 90%? Questi numeri garantiscono l’applicazione del diritto a interrompere la gravidanza?Le telecamere di PRESADIRETTA sono entrate negli ospedali, nei consultori e negli studi medici privati per capire se “la 194”, a distanza di 40 anni dalla sua entrata in vigore, sia una legge che funziona. “IL CASO XYLELLA” è un racconto di Riccardo Iacona con Giuseppe Laganà, Raffaella Pusceddu, Elena Stramentinoli, Antonella Bottini, Elisabetta Camilleri, Irene Sicurella, Cristiano Forti, Andrea Vignali, con la collaborazione di Marilù Mastrogiovanni.

XYLELLA: NO A MACCHINA DEL FANGO, SI AGISCA SUBITO CON MISURE ALTERNATIVE E SOSTENIBILI, scrive Rosa D'Amato il 16 gennaio 2016.

Lettera aperta. “La scienza alla sbarra”. “Quelli che odiano la scienza”. “Complottismo antiscientifico”. Sono questi alcuni dei titoli che giornalisti e opinionisti, più o meno autorevoli, hanno dato in queste settimane alle loro dotte dissertazioni sull’indagine che la Procura di Lecce ha avviato sulla gestione del disseccamento rapido dell’ulivo in Puglia (o più comunemente, sul caso Xylella). Siamo solo alla fase delle indagini, ma tanto è bastato per far sollevare dita inquisitorie non solo contro i magistrati ma contro tutto quel fronte eterogeneo che non condivide le misure anti-Xylella del cosiddetto Piano Silletti, ossia gli abbattimenti massicci di ulivi e l’uso di pesticidi su larga scala. L’accusa per i giudici e per questo fronte è di essere dei complottisti paranoici che si oppongono alla Scienza con la “s” maiuscola. Da un lato ci sarebbe la scienza (il piano Silletti), dall’altro dei folli oscurantisti. Peccato che di questo fronte finito sotto accusa facciano parte, oltre a semplici cittadini, anche esperti, agricoltori, organizzazioni di categoria e, si pensi un po’, scienziati. E non scienziati sedicenti, ma ricercatori internazionali che della Xylella si occupano da decenni. E che sono invitati come esperti a convegni promossi dall’Ue, ossia da chi ha avvallato e indirizzato il piano Silletti. Ora, non spetta a me difendere la Procura di Lecce: non so come andranno a finire le indagini e mi auguro che i giudici sapranno andare oltre le pressioni esercitate da alcuni mezzi d’informazione per fare luce sulla vicenda. Ma c’è una verità giuridica e c’è una verità politica. A me, da eurodeputata, interessa ristabilire la seconda, anche per soffiarmi via di dosso le fastidiose “dicerie dell’untore” che hanno colpito anche me. Lo faccio partendo da un assunto incontestabile: le misure anti-Xylella finite sotto la lente della Procura di Lecce non hanno alcuna base scientifica. Non lo dico io, la “complottista” Rosa D’Amato: lo dicono gli stessi attori, Ue e governo italiano, autori del famigerato Piano Silletti. Tale piano si basa sul fatto che non esiste nessuna cura contro la Xylella che sia scientificamente provata. Da qui, la decisione di adottare un protocollo di emergenza per fermare l’avanzata del batterio: abbattimenti e pesticidi. Ora, dinanzi a questo protocollo si può essere favorevoli o contrari. Ma dire che chi è contro "odia la scienza", oltre a essere una menzogna, è una grande mascalzonata. Significa affidarsi ciecamente e in modo fondamentalista al parere di una stretta cerchia di specialisti (quella del Cnr di Bari nel caso in questione), dimenticando tutti quei filoni di ricerche, condotte in mezzo mondo, che dicono che gli abbattimenti sono risultati nella maggior parte dei casi inutili e che l’uso di pesticidi, anziché fermare la Xyella, ha indebolito terreni e piante favorendone così la diffusione. Faccio l’esempio degli studi di Alexander Purcell, che dal 1978 conduce ricerche sulla Xylella in California e in altre zone del globo. In un suo articolo pubblicato sul Foglio lo scorso giugno si legge: “Ancorché non sia possibile prevedere dove e come la Xylella si diffonderà, è però un fatto che quando il batterio penetra in un territorio e vi si insedia, la sua eradicazione non è più possibile. La prevenzione è quindi l’unico efficace mezzo per affrontare questo patogeno”. Prevenire non significa abbattere, non vuol dire lavorare sull’eliminazione di un batterio che nessuno, in quasi 40 anni, è riuscito a eliminare: significa semmai agire sul complesso di cause che portano alle malattie di cui la Xylella (nelle sue diverse forme) è stata responsabile o corresponsabile. Significa rendere i terreni e le piante di una determinata area più resistenti attraverso pratiche agronomiche sostenibili. Ripeto: non lo dico io, Rosa D’Amato, da europarlamentare, ma ricercatori di mezzo mondo, dal Brasile alla California fino alla stessa Puglia. Già oggi in Salento ci sono casi accertati in cui, lavorando sulla malattia con pratiche sostenibili, non si è sconfitto il batterio ma si è eliminata la malattia, ossia il disseccamento degli ulivi. Eppure nessuno di questi casi è stato preso in considerazione da Bruxelles e Roma. Quello che ho chiesto più volte, sulla scorta di documenti congiunti elaborati con esperti, ricercatori e organizzazioni del settore agricolo e del biologico, è che nello stanziare fondi per la ricerca si tenessero in considerazione i diversi filoni possibili invece di concentrarsi solo sul Cnr di Bari e solo sul rigido protocollo abbattimenti/pesticidi. Non “meno scienza” chiediamo, ma “più scienza”. Perché, come dice sempre Purcell (citato più volte come ‘buon esempio di scienza’ proprio da chi attacca la Procura di Lecce), “le strategie di lotta che funzionano in una determinata regione o su di una specifica coltura possono non essere altrettanto efficaci su altre colture, o sulla medesima coltura ma in condizioni climatiche differenti”. Ad esempio, “in tre differenti aree californiane vengono adottati tre diversi metodi di lotta contro la malattia di Pierce”, ossia la malattia provocata dal ceppo di Xylella che ha attaccato le viti statunitensi. Ora, dato che il piano Silletti è bloccato per via dell’indagine della magistratura, perché non promuovere quelle pratiche alternative che hanno dato già buoni risultati e che eviterebbero l’abbattimento degli ulivi? Cosa c’è da perdere? Perché chiedere di allargare il campo della ricerca anche a questi filoni dovrebbe essere, come scritto da qualcuno, “odio per la scienza”? Rosa D’Amato, eurodeputata M5S.

Quando di Xylella parla chi sa, scrive, rimbrottando, il 21 gennaio 2016 by, Donatello Sandroni. Intervista ad Alexander Purcell della Berkeley University e uno dei massimi esperti mondiali di Xylella. E no: non ha mai detto che è inutile abbattere gli olivi. Oivicoltura specializzata: non è un mostro, è agricoltura. Quelli nella fotografia sono olivi sanissimi, catturati a Foggia. Ma basta scendere di un centinaio di chilometri e gli scenari cambiano, mostrando olivi affetti da Co.Di.RO, ovvero la sindrome cosiddetta del “complesso del disseccamento rapido degli olivi”. Abbatterli o non abbatterli, questo il dilemma. Per lo meno, lo si è fatto diventare un dilemma, perché i massimi esperti mondiali di Xylella non hanno dubbi: se vedi Xylella, abbatti tutto ciò che potrebbe contenerla, sia esso sintomatico o meno. E fallo pure in fretta e in modo “generoso”, altrimenti il patogeno ti scavalca nel territorio e ti obbliga poi a inseguirlo moltiplicando gli abbattimenti futuri. Non a caso, anche la Ue ha stabilito nel lontano 2000, con apposita Direttiva, che vanno abbattute sia le piante sintomatiche, sia quelle asintomatiche, prevedendo un raggio di contenimento pari a ben dieci chilometri. Questo perché la Xylella non deve muovere un solo passo da dove è stata trovata, sia che stia facendo ammalare le piante, sia che non lo stia facendo. L’azione contro il patogeno, invece, si è arenata proprio su questo punto: non essendoci la sicurezza matematica che il Co.Di.RO sia causato proprio da Xylella, tutto, come ormai si sa, è stato bloccato dalla Procura di Lecce, la quale non solo ha impedito gli abbattimenti, ma ha anche iscritto nel registro degli indagati anche dieci membri della task force dedicata alla gestione dell’epidemia. Nella querelle è stato poi tirato in ballo anche Alexander Purcell, della Berkeley University in California. Uno dei massimi esperti mondiali di Xylella e quindi anche uno dei relatori al workshop organizzato dall’Efsa nel novembre 2015. Dopo il convegno si diffuse in Italia la voce che Purcell avesse affermato che abbattere gli alberi fosse inutile. Una voce funzionale alle posizioni di coloro che fin dal primo momento si erano opposti agli abbattimenti degli ulivi. Una voce riportata su Videoandria.com, giornale online pugliese su cui compare la testimonianza di Rosa D’Amato, eurodeputata del Movimento 5 Stelle, la quale ha preso parte proprio al workshop dell’Efsa e si sarebbe quindi eletta a divulgatrice delle posizioni di Purcell stesso. Una voce riecheggiata perfino nelle riprese della conferenza stampa della Procura di Lecce, per come viene riportata da un altro organo di stampa locale, ovveroTrNews.it. Un filmato in cui si può ascoltare una delle due procuratrici aggiunte affermare che gli abbattimenti non servirebbero a niente e che a supporto di tale tesi si sarebbe perfino espresso, ça va sans dire, proprio un grande esperto di Xylella, ovvero Alexander Purcell. Una voce che ora si scopre che non è mai partita. Anzi, viene oggi seccamente smentita proprio dal medesimo Alexander Purcell, intervistato da Italia Unita per la Scienza, un’associazione di giovani (e meno giovani) appassionati di ricerca e, appunto, di Scienza. Pur mantenendosi “politically correct” circa gli avvenimenti giudiziari italiani, il professore emerito di Berkeley riafferma nell’intervista l’assoluta necessità di abbattere le piante e di combattere il vettore, come pure che l’azione deve essere intrapresa a fronte della semplice presenza del patogeno. A questo punto urge chiarirsi su alcuni punti: primo, perché l’europarlamentare pentastellata si è mai presa la briga di riportare affermazioni che oggi vengono smentite proprio dalla persona cui ella le avrebbe attribuite. Secondo, perché la Procura ha coltivato la convinzione che Purcell fosse d’accordo con la tesi dell’inutilità degli abbattimenti. Perché lo ha letto su VideoAndria? Oppure dove? E perché non ha verificato direttamente alla fonte, cioè presso il Professor Purcell, visto che l’azione stessa della Procura pare si sia sentita ancor più corroborata proprio da queste dichiarazioni oggi risultate mai rilasciate? Sono domande cui è bene venga data presto risposta, visto che la primavera è ormai alle porte e i diseccamenti cominciano a manifestarsi anche in Provincia di Taranto, ad Avetrana. E magari, sarebbe interessante conoscere le motivazioni per le quali un’europarlamentare diffonda affermazioni capaci di influenzare decisioni così importanti senza essere sicura di ciò che ha sentito. O forse lo era. Ma qui si dovrebbe fare un’analisi più attenta dell’atteggiamento che molti politici grillini hanno tenuto sul tema Xylella. Sia come sia, in considerazione della smentita di Purcell, sarebbe ora necessario che la suddetta europarlamentare, oltre a chiarire, fornisse anche delle scuse: al Professor Purcell e a tutti coloro che in nome di quelle affermazioni – mai rilasciate – hanno continuato a coltivare l’idea di essere nel giusto, quando molto probabilmente è vero esattamente il contrario. Come detto, la primavera batte ormai alle porte: la Xylella è lì, negli oliveti, sempre più pasciuta. Phylaenus anche, pronto a contagiare alberi su alberi, anche a distanza di chilometri grazie al trasporto passivo tramite mezzi, agricoli o meno. Se qualcuno ha da fare qualche marcia indietro, quindi, che la faccia subito. O potrebbe pentirsene per sempre.

Addendum post-pubblicazione: Poteva scusarsi per il malinteso. Oppure scegliere un opportunistico silenzio, per fare calare un pietoso velo sulla topica Purcell. Invece no. Lei, rilancia (Leggi l’articolo di NextQuotidiano). Parla di “giornalisti, opinionisti o sedicenti tali”, di “macchina del fango“. Di sedicente qui, semmai, c’è più che altro una portavoce che mistifica le parole di scienziati di fama mondiale, filtrandone i messaggi per renderli funzionali alle tesi farlocche che stanno sempre più contraddistinguendo un Movimento nato da uno spacciatore teatrale di bufale. Non solo vi state qualificando per quello che siete sull’affare Xylella, cara D’Amato, ma vi state confermando dei balenghi su tanti altri argomenti, come gli ogm, gli odiati pesticidi, oppure i vaccini. Perfino sulle scie chimiche e sulle sirene vi siete fatti prendere per i fondelli. Un esercito d’improvvisati presuntuosi che ha trovato alloggio nel ribollire di un’onda anomala più pericolosa del marciume stesso che si prefigge di abbattere. Altro che macchina del fango: in Puglia sono proprio nella merda. E in parte ci sono anche grazie alle pressioni mediatiche anti-abbattimento di cui soprattutto voi vi siete resi protagonisti all’urlo “Il popolo si sta svegliando!”. Di sedicenti giornalisti vi sono infatti quelli e quelle che hanno dato spazio a ogni bufala, a ogni falsità che permettesse loro di alimentare il loro personalissimo odio verso i soliti totem tanto cari ai dementi: ogm, pesticidi e complotti edilizi o energetici. Il tutto, seppellendo la verità dei fatti sotto una spessa coltre di disinformazione demagogica. Spero quindi che alla prossima tornata elettorale il M5S sappia filtrare meglio i candidati, anziché raccattare bizzarri soggetti in cerca di sistemazione, proponendo finalmente una classe politica con meno apriscatole in mano e più sale in zucca.

Rosa D’Amato torna a giocare con le parole di Alexander Purcell, scrive “Next Quotidiano” del 21 gennaio 2016. L’europarlamentare del Movimento 5 Stelle Rosa D’Amato, risponde su Facebook alle accuse di non saper leggere. E indovinate un po’? Lo fa dimostrando manipolando ancora una volta le parole altrui. L’eurodeputata M5S ha letto l’intervista di Alexander Purcell a Italia Unita per la Scienza dove viene rivelato al mondo che manipola scientemente le affermazioni degli esperti di Xylella al fine di sostenere le sue tesi senza fondamento scientifico (tesi per altro finite nell’ordinanza dei PM di Lecce). Per rispondere usa alcune frasi estrapolate da una lettera che Alexander Purcell scrisse al Foglio. A parte il lungo preambolo nel quale tenta di far passare delle misure di prevenzione come le uniche misure per poter porre fine ad un’epidemia (c’è bisogno sia di queste che di quelle, e la prevenzione dopo che l’epidemia si è diffusa da sola non basta), la D’Amato cita il pezzo del Foglio con la lettera di Purcell ma sa bene che nessuno dei suoi lettori andrà a leggere il testo integrale (così come nessuno dei giudici di Lecce è andato a vedersi l’intervento integrale di Purcell all’EFSA). E così la D’Amato può permettersi di citare Purcell in un modo tale che sembra darle ragione, ovvero così: la tempestiva eliminazione delle viti colpite dalla malattia di Pierce non ha sortito effetti degni di nota in California. Incredibile, Purcell smentisce sé stesso! E invece no, perché la frase intera è questa (e così l’abbiamo riportata anche noi su Next qui e qui). Le strategie di lotta che funzionano in una determinata regione o su di una specifica coltura possono non essere altrettanto efficaci su altre colture, o sulla medesima coltura ma in condizioni pedoclimatiche differenti. Ad esempio, la tempestiva eliminazione delle viti colpite dalla malattia di Pierce non ha sortito effetti degni di nota in California, mentre la stessa operazione condotta Brasile sugli agrumi è risultata essenziale per contenere gli attacchi di “clorosi variegata”, una malattia anch’essa indotta da X. fastidiosa. Inoltre, in tre differenti aree californiane vengono adottati tre diversi metodi di lotta contro la malattia di Pierce. Ciò a causa della presenza e attività di differenti insetti vettori e delle condizioni climatiche locali. E del resto sono gli stessi concetti che Purcell ha ribadito nell’intervista rilasciata a Italia Unita per la Scienza. Come si gestisce una nuova malattia? Due cose sono state nominate ripetutamente, la rimozione delle piante malate e il controllo di quello che sembra essere il principale insetto vettore, una sputacchina, Philaenus spumarius. Se il batterio si muove principalmente da olivo ad olivo, la rimozione degli alberi può rallentare la diffusione della malattia. La distribuzione spaziale e il tasso di diffusione della malattia (CoDiRO), sono coerenti con una diffusione esponenziale (logaritmica). La rimozione delle piante malate sembra essere efficace in Brasile per una malattia degli aranci provocata da Xylella (CVC). La diffusione del CoDiRO in Salento sembra simile a quella del CVC in Brasile, ma non simile a quella della malattia di Pierce della vite nella California settentrionale. Ci sono ragioni complesse – principalmente climatiche – per cui questo [la rimozione delle piante infette, NDT] non funziona con il morbo di Pierce nella California settentrionale.

Rosa D'Amato-portavoce M5S ha condiviso il post di Luigi Russo il 29 gennaio 2016 alle ore 9:36. XYLELLA - Ieri a Roma, l'Eurispes, il più grande istituto di ricerca privato europeo, ha presentato il suo 28^ rapporto sulla situazione dell'Italia, alla presenza dei massimi vertici dei ministeri, delle regioni, delle università, della giustizia, militari e dell'ordine pubblico. Accreditati decine di giornalisti di testate italiane e straniere. Ha suscitato grande sorpresa il fatto che il presidente Gian Maria Fara abbia aperto i lavori con una notizia riguardante il Salento: "Lo scorso anno il nostro istituto, in collaborazione con l'Osservatorio nazionale dell'Agromafia coordinato da Giancarlo Caselli, ha intrapreso una campagna di ricerca e informazione sul tema della Xylella fastidiosa. La Pubblicazione di un lavoro prodotto da Eurispes Puglia ha dato impulso a una nuova consapevolezza a livello nazionale e internazionale del fatto che l'Affaire Xylella potesse essere una tragedia inutile per il grande patrimonio olivicolo pugliese. Nell'ultimo mese la Procura di Lecce ha dato una svolta straordinaria a questa vicenda sequestrando tutti gli ulivi salentini a scopo cautelativo, e inviando 10 avvisi di garanzia ai massimi vertici militari e tecnici e politici e del mondo scientifico che avevano gestito tutto. Quindi gli ulivi non saranno toccati. E di questo il nostro Istituto è orgoglioso. E continueremo a ricercare e informare, contro ogni tentativo di fermare la ricerca della verità". Dopo queste parole un lungo applauso dei 500 presenti. Oggi la stampa salentina e pugliese, nonostante fosse a conoscenza di quanto accaduto a Roma, ha ignorato del tutto questa notizia, e peraltro ha ignorato del tutto anche il Rapporto Italia e i suoi 60 percorsi di ricerca di quest'anno... Censura o distrazione? Luigi Russo.

XYLELLA, PER IL CNR DI BARI IN SALENTO GLI ULIVI SONO SPACCIATI: “LASCIAMONE 50 COME MUSEO”, scrive Rosa d'Amato il 28 gennaio 2016.  Nei giorni scorsi è passato sotto traccia un servizio di Presa Diretta sul caso della Xylella in Puglia. Soprattutto, agli acuti osservatori e commentatori che in queste settimane stanno puntando il dito contro i presunti “nemici della scienza”, tra cui la sottoscritta, è sfuggito il parere di Donato Boscia, direttore dell’IPSP-CNR di Bari, sul futuro degli ulivi salentini. Boscia è uno dei principali esperi che ha collaborato alla stesura del famigerato Piano Silletti, quello degli abbattimenti selvaggi per intenderci. E che cosa dice Boscia fuori onda a proposito degli ulivi salentini? Semplice: l’olivicoltura del Salento è spacciata.

Boscia dichiara candidamente al giornalista di Presa Diretta, pensando di non essere ripreso: “E’ andata (sottinteso l’olivicoltura, ndr) perché per un trend che abbiamo osservato lì, sette – otto anni e resteranno soltanto queste isole verdi di questo germoplasma che sembra resistente, tipo il leccino. A questo punto che facciamo? Aspettiamo altri 8 anni ad aspettare un miracolo che non arriverà? O vogliamo prendere il toro per le corna, sederci al tavolino e pensare a come ripensare e rilanciare l’agricoltura salentina”?

Giornalista: “Cioè togliendo gli ulivi e mettendo un’altra cosa”?

Boscia: “Mettendo che ne so…c’è la viticoltura che è immune a Xylella, ci sono tutta una serie di coltivazioni orticole che possono essere promosse…”

Giornalista: “E gli alberi monumentali”?

Boscia: “Si può anche lasciare come museo 50 alberi e si dice “questi sono i tronchi di quelli che erano gli alberi…” però …quando muore una pianta che cosa ci possiamo fare”?

Io non ho parole. Voi?

Scrive ancora Rosa D'Amato-portavoce M5S il 21 gennaio 2016 alle ore 13:24. "In questi giorni, diversi giornalisti, opinionisti o sedicenti tali continuano ad accusarmi di aver riportato in un mio comunicato 'frasi false" di Alexander Purcell, ricercatore dell'Università di Berkley che dal 1978 conduce ricerche sulla Xylella. Ho già scritto una lettera aperta per spiegare come stanno le cose. Ma forse non è bastato. Ora, vorrei fare chiarezza una volta per tutte, ribadendo che non ho alcun interesse a stravolgere il pensiero di Purcell. Con lui ho parlato lungamente nel corso di un convegno a Bruxelles al quale siamo stati invitati (un convegno dell'Efsa, ossia dell'autorità Ue per la sicurezza alimentare, non un covo di complottisti). In quell'occasione Purcell disse alcune cose. Cose non nuove, dato che in un articolo scritto dallo stesso ricercatore sul Foglio lo scorso giugno si legge: “Ancorché non sia possibile prevedere dove e come la Xylella si diffonderà, è però un fatto che quando il batterio penetra in un territorio e vi si insedia, la sua eradicazione non è più possibile. La prevenzione è quindi l’unico efficace mezzo per affrontare questo patogeno”. L'articolo si può leggere. Sempre in questo articolo, Purcell scrive: "la tempestiva eliminazione delle viti colpite dalla malattia di Pierce non ha sortito effetti degni di nota in California". Perché vi cito questa frase? Il motivo è che, come sapete, l'Ue ha imposto il blocco all'esportazione delle viti pugliesi facendo un parallelo tra quanto sta accadendo in Puglia e quanto accaduto in California, ossia che la Xylella, insieme agli ulivi, potrebbe colpire anche le viti. Ora, perché questo parallelo ha funzionato per mettere in ginocchio i produttori pugliesi di viti e non dovrebbe funzionare per porre un freno agli abbattimenti che, come scrive Purcell, non hanno "sortito effetti degni di nota"? E perché, data l'assenza di prove scientifiche certe, si è voluto insistere "solo ed esclusivamente" su un protocollo (abbattimenti+pesticidi) senza tentare alcuna strada alternativa, anche solo in via sperimentale? Sono queste le domande che pongo a chi continua a prendersela con me, che sono il dito, anziché guardare a ciò che indico. Che se non è la luna, almeno è un fatto.

AVETRANA/ La xylella fastidiosa non c'è nel territorio, scrive “Il Giornale di Taranto” del 22 gennaio 2016. PARTECIPATISSIMA CONFERENZA STAMPA NEL COMUNE DEL TARANTINO. Espressa preoccupazione per la leggerezza con cui vengono diffuse notizie così importanti. All'incontro con i giornalisti organizzato dalle associazioni di categoria territoriali, CIA, Confagricoltura, Coldiretti ed Assiprol insieme all’Amministrazione Comunale di Avetrana, per fare il punto sulla situazione all’indomani della notizia veicolata tramite stampa, della presenza del batterio della xylella fastidiosa nel territorio di Avetrana, erano presenti il Sindaco Mario De Marco, l’assessore alle attività produttive dello stesso Comune, Enzo Tarantino, Nicola Spagnuolo (direzione provinciale CIA di Taranto), Piero De Padova (presidente CIA di Avetrana e Vicepresidente Cia Taranto), Renzo Grande (responsabile Confagricoltura di Avetrana), Francesco Reo (Assiprol di Avetrana) e Antonio Marasco (Coldiretti di Manduria). Il sindaco De Marco e l’assessore Tarantino, introducendo la conferenza stampa, hanno esternato la preoccupazione per la leggerezza con cui, notizie così gravi e non supportate da alcun fondamento scientifico, circa la presenza del batterio della xilella fastidiosa nel territorio Avetranese, siano state veicolate “dall’oggi a domani” dagli organi di stampa (e su imbeccata anche di un’associazione a livello regionale), generando preoccupazione, malcontento e rabbia negli agricoltori avetranesi, manifestatasi anche in sala durante la conferenza. Tarantino rimarcava che il suo Comune è stato l’unico in tutto il Salento, con la più alta percentuale delle buone pratiche agrarie operate, per far fronte alla diffusione della Xilella, arature, diserbi, potature etc. Spagnuolo, interpretando lo stato d’animo delle associazioni agricole, manifestava la rabbia e lo sconforto di tutti gli olivicoltori in un’annata in cui si sta producendo olio ottimo per quantità e qualità, come non se ne ricordano negli ultimi venti anni. Chiediamo che la stampa, ha detto Piero De Padova, con la stessa facilità con la quale ha diramato la notizia, dia con altrettanta solerzia la smentita, ribadendo il concetto semplice e basilare che senza prove supportate da evidenza scientifica, nessuno può sostenere la tesi teorica ed infondata della presenza del batterio della Xylella nel territorio di Avetrana. Ovviamente, concludeva Piero De Padova, se il fenomeno non dovesse attutirsi e dovesse continuare ad essere sventolato a casaccio, così come fatto in questa circostanza, allora ciascuno si assumerà le proprie responsabilità, a qualsiasi livello. Dopo la discussione molto partecipata dei rappresentanti associativi e delle aziende presenti, la conferenza stampa si è conclusa con l’auspicio che si ponderino, a qualsiasi livello, notizie devastanti come questa che potrebbero minare le sorti dal punto di vista economico e sociale di un intera comunità.

Le analisi della Procura confermano: la Xylella é arrivata nel Tarantino. Le analisi fatte svolgere dalla Procura di Lecce confermano la presenza di Xylella ad Avetrana: si sfonda, dunque, la linea del Tarantino. Chiesto all'Osservatorio fitosanitario di effettuare i controlli, scrive “TRNews” l'1 febbraio 2016. Dopo la notizia lanciata dieci giorni fa da Coldiretti e poi smentita sulla presenza di Xylella ad Avetrana, è la Procura di Lecce adesso a confermarla.  Sabato, infatti, ha dato comunicazione ufficiale all’Osservatorio fitosanitario regionale, chiedendo di effettuare ulteriori verifiche, in quanto dall’indagine svolta dagli inquirenti è emerso che sono state ritrovate due piante con “possibile presenza di Xylella”. I campioni sono stati prelevati su ulivi con sintomi blandi di disseccamento, lungo la strada che collega Salice Salentino ad Avetrana.Le analisi sono state poi eseguite nei laboratori dell’Ispa Cnr di Lecce, che le svolge per conto della Procura. Per la prima volta, dunque, il batterio sfonda anche la linea del Tarantino, dopo quella del Brindisino. Intanto, sul monitoraggio si affina la strumentazione: per mappare le aree con sintomi di disseccamento, saranno impiegati anche i droni. Il 17 febbraio a Roma, nell’ambito della conferenza “Droni per l’agricoltura”, nuovo appuntamento del ciclo “Roma Drone Conference 2015-16”, saranno presentati i primi risultati di alcune campagne di volo con droni multirotori sugli ulivi colpiti dal patogeno nel Salento, così come sulle palme aggredite dal punteruolo rosso nell’area di Albenga (Savona).

«La Xylella ad Avetrana c’è», lo dice il Cnr-Ispa e non i giornalisti, si affretta a puntualizzare “La Voce di Manduria”. Le analisi di laboratorio del Cnr-Ispa di Lecce hanno confermato la presenza del batterio della xylella fastidiosa negli uliveti di Avetrana. Il dato è emerso dall’accertamento disposto dal procuratore aggiunto Elsa Valeria Mignon e dal pubblico ministero Roberta Licci, titolari del fascicolo che ha dato luogo al sequestro preventivo di 4000 alberi d’ulivo interessati alle eradicazioni dei piani Silletti e che vede iscritte dieci persone sul registro degli indagati fra ricercatori e funzionai del Cnr e dell’Osservatorio fitosanitario regionale. I magistrati hanno dato incarico alla Forestale di effettuare alcuni prelievi nella zona indicata il 16 gennaio scorso dalla Coldiretti, sulla Avetrana-Salice Salentino. Insomma: gli esami di laboratorio hanno confermato che non erano solo “illazioni o ipotesi gratuite” da parte degli organi di informazione come hanno recentemente sostenuto in una discussa conferenza stampa gli amministratori comunali di Avetrana con i responsabili delle associazioni di categoria (nella foto). Il dato ufficiale è stato trasmesso all’Osservatorio fitosanitario regionale.

Xylella, giornalisti pugliesi insultati sui social, è il titolo di un articolo pubblicato su “Articolo21” del 22 gennaio 2016 di coloro che si sentono offesi dalla reazione di chi subisce la gogna mediatica di pennivendoli che nulla sanno del tema. Da mesi i giornalisti in Puglia sono oggetto di attacchi personali su Facebook da parte di numerosi ambientalisti che si definiscono componenti del “Popolo degli ulivi”, cioè del movimento di cittadini che si oppone allo sradicamento degli alberi imposto dalla Commissione europea per contenere il diffondersi del batterio della xylella fastidiosa. Dalle minacce velate a quelle esplicite, da offese volgari a insulti sessisti, se le giornaliste sono donne: il “Popolo degli ulivi” contesta così, quotidianamente, gli articoli che trattano di xylella quando questi riportano opinioni di esperti, scienziati, politici, non condivise dagli ambientalisti. Per il 24 gennaio “Il popolo degli ulivi” ha organizzato un boicottaggio di Nuovo quotidiano di Puglia e Gazzetta del Mezzogiorno, dichiarando che in quella data non compreranno i giornali, invitando, attraverso un manifesto diffuso su internet, tutti gli internauti a fare lo stesso. E aggiungendo: “E poi vedremo”. Ha denunciato pubblicamente la gravità di quest’azione Marilù Mastrogiovanni che sulla pagina Facebook del libro-inchiesta “Xylella report” ha invitato tutti i colleghi a prendere le distanze, manifestando solidarietà alle redazioni delle due testate e lanciando la proposta di fare un dibattito aperto a tutti, anche al mondo della cittadinanza attiva, sull’importanza dell’informazione e della libertà d’informazione sui temi ambientali. Prontamente la giornalista è stata raggiunta da improperi e allusioni di ogni tipo, come da tempo le accade quando scrive di xylella. “Da qui – scrive l’assemblea dei redattori di Quotidiano – il rischio che qualcuno, sentendosi coinvolto in un vortice di falsità e gratuite minacce, possa addirittura sentirsi autorizzato ad abbandonare il terreno delle parole per passare a qualcosa di ben più grave. Citiamo, a supporto di questo nostro timore, il contenuto di un post, registrato e fotografato, che alcuni mesi fa incitava a spiegare “a questi cretini” (i giornalisti di Quotidiano) “con le buone o con le cattive come stanno le cose”. Citiamo inoltre il caso di immagini dei giornalisti rubate sul web e associate a messaggi che incitano a dare non meglio precisate ritorsioni”. Solidarietà è stata espressa da Assostampa e dall’Ordine dei giornalisti di Puglia, mentre il comitato di redazione delle due testate ha dichiarato di aver dato mandato ai legali per identificare e denunciare chi si cela dietro i numerosi profili facebook attraverso i quali è partito l’attacco alla stampa.

EMERGENZA XYLELLA. TRE GIORNALISTI MINACCIATI IN SALENTO, scrive “Ossigeno” il 24 gennaio 2016. Hanno scritto articoli di cronaca sul disseccamento degli ulivi. Additati con la loro foto e frasi offensive sui social network. Solidarietà e proteste. “Il popolo degli ulivi”, il movimento che contesta il fondamento scientifico e l’efficacia della strategia adottata per contenere in Salento il diffondersi della diffusione della Xylella fastidiosa (il batterio che potrebbe essere la causa del disseccamento degli ulivi, ma il cui ruolo nel fenomeno non è ancora scientificamente dimostrato) ha invitato, con un manifesto diffuso via internet, a un boicottaggio delle testate giornalistiche Nuovo quotidiano di Puglia, foglio locale del Salento, e La Gazzetta del Mezzogiorno. Il boicottaggio, da attuarsi domenica 24 gennaio 2016, ha suscitato proteste e reazioni e attestazioni di solidarietà nei confronti dei quotidiani e dei giornalisti che lavorano per essi. La solidarietà è andata in particolare alle redattrici e ai redattori dei due giornali che, per aver pubblicato articoli di cronaca sull’emergenza Xylella, da mesi ricevono minacce via Facebook da persone che si richiamano al movimento contrario allo sradicamento degli alberi. Giovedì 21 gennaio 2016 i giornalisti minacciati hanno rotto il silenzio rendendo note le minacce. Fra i minacciati: Tonio Tondo e Marco Mangano de La Gazzetta del Mezzogiorno e Maria Claudia Minerva del Nuovo Quotidiano di Puglia. Le giornaliste hanno subito fra l’altro, insulti sessisti. In Salento il disseccamento degli ulivi ha cominciato a manifestarsi nel 2008. La lotta alla Xylella e i provvedimenti pubblici adottati per contenere il contagio sono da tempo oggetto di uno scontro che ha motivazioni politiche, economiche e scientifiche. Per condurre questa lotta è stato stabilito uno stato di emergenza. I provvedimenti adottati prevedono il sequestro e lo sradicamento degli alberi malati e di quelli vicini, anche sani, per evitare la diffusione del contagio. “Il popolo degli ulivi” si oppone allo sradicamento degli alberi imposto dalla Unione europea, contestando il fondamento scientifico delle misure adottate. La procura della Repubblica di Lecce sta conducendo una inchiesta sulla gestione dell’emergenza. Fra i dieci indagati c’è l’ex commissario straordinario Giuseppe Silletti. L‘assemblea dei redattori del Quotidiano ha condannato l’invito a boicottare il loro giornale e ha segnalato il rischio “che qualcuno, sentendosi coinvolto in un vortice di falsità e gratuite minacce, possa addirittura sentirsi autorizzato ad abbandonare il terreno delle parole per passare a qualcosa di ben più grave”. A questo proposito il documento dell’assemblea cita “un post, registrato e fotografato, che alcuni mesi fa incitava a spiegare ‘a questi cretini’ (i giornalisti di Quotidiano, ndr) “con le buone o con le cattive come stanno le cose”. Il documento fa inoltre riferimento alla pubblicazione di messaggi che incitano a “non meglio precisate ritorsioni” nei confronti di giornalisti di cui si forniscono identità e fotografie. Hanno espresso solidarietà ai giornalisti l’Associazione Stampa e l’Ordine dei Giornalisti della Puglia, la FNSI, Ossigeno per l’Informazione la Coldiretti Puglia, la CIA Agricoltori Italiani della Puglia, il presidente Copagri, il vicepresidente della Commissione Bilancio della Camera dei deputati, Rocco Palese, e Giovanni Seclì, del Forum Ambiente Salute. Seclì ha preso le distanze da chi minaccia i giornalisti. Le critiche ai giornali e le richieste di avere più spazio per esprimere le proprie opinioni, ha affermato, sono legittime, ma “la libertà di espressione sulla rete non legittima l’offesa, la trivalità, la banalità, l’approssimazione”. “La FNSI – affermano in una nota il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti – è al fianco dei colleghi del Quotidiano di Puglia e della Gazzetta del Mezzogiorno minacciati e diffamati sui social network per via del lavoro svolto nella vicenda della diffusione della Xylella in Salento. Esortiamo i colleghi ad intensificare i loro sforzi per far luce su una questione così importante per il loro territorio, senza lasciarsi intimidire dalla violenza di improvvisati scienziati e ‘leoni da tastiera’ che spesso si agitano nell’ombra dell’anonimato consentito dai social network. Il rispetto della verità e il diritto dei cittadini ad essere correttamente informati sono i pilastri del buon giornalismo e non saranno certo le minacce e le intimidazioni a fermare la diffusione delle notizie”. ASP (ha collaborato Marilù Mastrogiovanni). No alla diffamazione: tutela in tutte le sedi di onorabilità, professionalità e onestà

Puglia, Xylella: giornalisti del Quotidiano sotto tiro, scrive il 22/01/2016 "Giornalistitalia". L’assemblea dei redattori del Nuovo Quotidiano di Puglia ha dato mandato ai legali perché vengano tutelate in sede penale e in sede civile l’onorabilità, la professionalità e l’onestà dei colleghi impegnati a seguire le vicende che hanno anche fare con l’emergenza xylella e che da tempo sono oggetto di offese, diffamazioni gravissime e in qualche caso anche minacce da parte di alcuni utenti del social network Facebook. “È ormai da un anno – denunciano i giornalisti del Nuovo Quotidiano di Puglia – che assistiamo quotidianamente a prese di posizione che nulla hanno a che vedere con le dinamiche che dovrebbero animare un dibattito civile, un confronto tra posizioni anche distanti una dall’altra ma che mai dovrebbe prescindere dal rispetto della persona e delle opinioni. Invece, come la documentazione quotidianamente da noi raccolta potrà dimostrare, a nostro avviso è stato ormai abbondantemente superato il limite della decenza”. “Offese quotidiane, accostamenti con persone, fatti e fenomeni (vedi per esempio la mafia o non meglio specificati poteri forti interessati a distruggere il meraviglioso patrimonio naturale salentino e pugliese di cui ci sentiamo – invece – i primi difensori), incitazioni – sottolineano i giornalisti – all’insulto e al dileggio, accuse diffamatorie e circostanze del tutto inventate fanno ormai parte di un linguaggio che trova spazio nei post di pochi e che, però, sui social network finiscono per coinvolgere più persone che spesso condividono meccanicamente, senza avere gli strumenti per verificare la fondatezza delle stesse accuse”. “Da qui – denuncia l’assemblea del Nuovo Quotidiano di Puglia – anche, il rischio che qualcuno, sentendosi coinvolto in un vortice di falsità e gratuite minacce, possa addirittura sentirsi autorizzato ad abbandonare il terreno delle parole per passare a qualcosa di ben più grave. Citiamo, a supporto di questo nostro timore, il contenuto di un post, registrato e fotografato, che alcuni mesi fa incitava a spiegare «a questi cretini» (i giornalisti di Quotidiano) «con le buone o con le cattive come stanno le cose». Citiamo, inoltre, il caso di immagini dei giornalisti rubate sul web e associate a messaggi che incitano a dare non meglio precisate ritorsioni”. I giornalisti del Nuovo Quotidiano di Puglia, convinti che “ormai sia stato superato ogni limite di ragionevolezza”, hanno quindi dato mandato ai legali perché sottopongano uno per uno i messaggi alla valutazione della magistratura. “Chiarendo fin d’ora – concludono i giornalisti – che eventuali ristori dei danni che dovessero essere riconosciuti saranno devoluti a favore di iniziative finalizzate alla tutela e alla salvaguardia dell’ambiente”. Il Comitato di redazione del Nuovo Quotidiano di Puglia “fa sua e sostiene la volontà manifestata dall’assemblea dei redattori” e fin d’ora “si pone al fianco dei colleghi oggetto delle quotidiane diffamazioni, ai quali va l’incondizionata solidarietà. I giornalisti del Nuovo Quotidiano di Puglia – assicura il Cdr – non si faranno intimidire e continueranno a svolgere il loro lavoro come sempre, sostenuti dalla forza e dall’autorevolezza della testata e dal sempre più crescente gradimento dei lettori”. L’Associazione della Stampa, presieduta da Bepi Martellotta, si schiera al fianco dei colleghi del Quotidiano di Puglia e della Gazzetta del Mezzogiorno che seguono le vicende legate alla diffusione della Xylella in Salento, in queste settimane resi oggetto di pesanti minacce e diffamazioni sui social network. “Il diritto di cronaca e la libertà della stampa – afferma l’Assostampa – non potranno certo essere fermati dalla pubblica gogna incitata da qualche internauta né dai tanti agitatori, spesso nascosti nell’anonimato, che stanno maldestramente tentando di esercitare pressioni sui giornalisti pugliesi”. L’Ordine dei Giornalisti della Puglia esprime “piena solidarietà e fermo sostegno ai colleghi del Quotidiano di Puglia e della Gazzetta del Mezzogiorno che in queste ultime settimane hanno subito minacce e diffamazioni sui social network, per aver fatto il loro dovere di cronisti nel raccontare le vicende legate alla diffusione della Xylella in Salento. Il diritto di cronaca e la libertà della stampa – sottolinea l’Odg – sono valori inalienabili e non negoziabili in una società democratica e non potranno certo essere oscurati da chi ritenendo il web una zona franca, pensa di poter intimidire i giornalisti indicandoli alla pubblica gogna”. La Federazione Nazionale della Stampa Italiana è “al fianco dei colleghi del Quotidiano di Puglia e della Gazzetta del Mezzogiorno minacciati e diffamati sui social network per via del lavoro svolto nella vicenda della diffusione della Xylella in Salento”. Lo affermano il segretario generale e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti. Lorusso e Giulietti esortano i colleghi “ad intensificare i loro sforzi per far luce su una questione così importante per il loro territorio, senza lasciarsi intimidire dalla violenza di improvvisati scienziati e leoni da tastiera che spesso si agitano nell’ombra dell’anonimato consentito dai social network. Il rispetto della verità e il diritto dei cittadini ad essere correttamente informati – conclude la Fnsi – sono i pilastri del buon giornalismo e non saranno certo le minacce e le intimidazioni a fermare la diffusione delle notizie”.

Xylella: fonti procura, batterio Avetrana. Al vaglio anche data in cui sarebbe avvenuto contagio, scrive "L'Ansa" il 2 febbraio 2016. Dall'analisi di tre campioni prelevati su due ulivi diversi è stata fornita conferma della presenza del batterio Xylella anche in territorio di Avetrana (Taranto), in zona San Paolo. La conferma di quanto segnalato nelle scorse ore da Coldiretti Puglia viene data all'ANSA da fonti della procura di Lecce che ha delegato la Forestale e anche ricercatori del Cnr-Ispra i quali hanno prelevato il materiale su cui sono state eseguite poi indagini di laboratorio il 16 gennaio scorso. Non c'è alcuna notizia, però, in merito alla data in cui sarebbe avvenuto il contagio. Anche questo elemento è al vaglio del procuratore aggiunto Elsa Valeria Mignone e del pm Roberta Licci che indagano sulla gestione dell'emergenza Xylella e sulla diffusione del batterio in Puglia. Nell'ambito dell'inchiesta che conta dieci indagati, tra cui l'ex commissario straordinario per l'emergenza Giuseppe Silletti, dimessosi alla vigilia di Natale, il 18 dicembre scorso è stato eseguito il sequestro preventivo di tutti gli ulivi destinatari di un ordine di abbattimento. I Forestali hanno constatato intanto che fino a questo momento né l'Osservatorio fitosanitario regionale, né quello provinciale avevano avuto cognizione della presenza del batterio anche nel Tarantino.

Da ciò si desume che di diffusione è prematuro parlarne, non fosse altro che la zona avetranese collima con quella vegliese, una delle zone da cui l’infezione è partita. Ergo: è possibile che la pianta infettata sia stata colpita all’inizio dell’epidemia e non in seguito alla sua diffusione. Quindi l’infezione è vecchia e non recente. Ma ai giornalisti, specie quelli allarmistici, tale ipotesi non interessa.

Motta all’attacco sulla Xylella. «Il caso Avetrana ci dà ragione». Il procuratore di Lecce: «La scoperta nel Tarantino avvalora la tesi della nostra indagine. Il batterio è in Salento da diversi anni». Presentati due ricorsi: «Ma sono inammissibili», scrive Francesca Mandese il 19 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Ulivi con sintomi di disseccamento anche nel Tarantino. Il nuovo allarme sulla Xylella arriva direttamente da Coldiretti Puglia che chiede «immediatamente controlli e monitoraggi stringenti» nella zona di Avetrana, dove ci sarebbero ulivi che manifestano la presenza della malattia. E così, un’altra ondata di proteste, dopo quella sollevata in difesa degli scienziati, si abbatte sulla Procura di Lecce, che sta indagando dieci persone e ha emesso un decreto di sequestro per tutti gli ulivi condannati all’estirpazione dal piano Silletti bis. Il procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, però, non si scompone. E rilancia. «È la conferma della nostra teoria, cioè che il disseccamento degli ulivi ha origini ben più remote e non necessariamente deriva dalla sola presenza della Xylella». Nei prossimi mesi, comunque, la Xylella non potrà fare altri danni perché l’insetto vettore, la sputacchina, non riprenderà a volare prima dell’estate e non potrà, quindi, trasportare il batterio killer che, secondo i ricercatori, rischia di trasformare il Salento in un cimitero di ulivi.

Procuratore, il sequestro degli ulivi, e quindi il divieto di toccarli, non potrebbe pregiudicare la situazione e far avanzare l’infezione?

«Al contrario. Il decreto vieta espressamente solo l’estirpazione delle piante, ma nulla impedisce ai proprietari di somministrare i trattamenti necessari».

Adesso si apre il fronte Avetrana, e ciò significa che l’infezione potrebbe aver varcato anche i confini della provincia di Brindisi oltre che quella di Lecce. Questo cambia qualcosa rispetto all’inchiesta portata avanti dalle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci?

«No, semmai rafforza quello che abbiamo potuto accertare nel corso dell’inchiesta. Il disseccamento degli ulivi è un fenomeno presente da molti anni nel Salento e non c’è ancora nessuna evidenza scientifica del fatto che a causarlo sia esclusivamente la Xylella».

Quali elementi supportano questa tesi?

«Anche il fatto che siano stati trovati nove diversi ceppi mutati, e questo, in natura non avviene nel giro di pochi anni. Non sappiamo in realtà da quanti anni il batterio sia presente nel Salento».

Se non è la Xylella – o solo la Xylella -, cos’altro potrebbe causare la morte degli ulivi?

«Una serie di concause, dalla presenza di funghi alle modalità di coltivazione, dall’impoverimento biologico dei terreni alla diminuzione delle difese immunitarie da parte delle piante. Sono aspetti che necessitano di approfondimenti, ma nel frattempo era necessario fermare le estirpazioni».

Ci sono stati ricorsi contro il sequestro degli alberi?

«Non da parte degli indagati».

E da parte di chi?

«Di due privati, ma sono inammissibili».

Perché?

«Perché sono arrivati fuori termine e da persone non direttamente coinvolte nell’inchiesta. Il Tribunale del riesame, comunque, si pronuncerà nei prossimi giorni».

È possibile che l’inchiesta si allarghi fino a coinvolgere qualche politico?

«Mi piacerebbe rispondere con il classico “no comment”. Nell’inchiesta non ci sono politici indagati e non è nostra intenzione fare il processo alle intenzioni. Al momento, quindi, non è previsto un nuovo filone di indagine».

Carne e cibi di origine animale, quello che gli spot non dicono. Spot-verità nelle sale cinematografiche di 50 città italiane per mostrare cosa c’è dietro la produzione negli allevamenti intensivi. La campagna finanziata in crowdfunding, scrive Alessandro Sala il 19 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Un frame dello spot che sarà proiettato nei cinema di 50 città italiane. Mucche felici che trascorrono le giornate in un verde pascolo, galline che becchettano serene in una grande aia all’aperto, maiali sorridenti che ammiccano dalle confezioni di prosciutto a fette. Il cibo di origine animale che arriva nelle case degli italiani è spesso accompagnato da immagini rassicuranti, utilizzate negli spot pubblicitari, nelle campagne promozionali e sullo stesso packaging dei prodotti chiamato a catturare l’attenzione del consumatore dallo scaffale di un supermercato. Ma la realtà è ben diversa: gran parte delle derrate destinate al consumo di massa provengono da allevamenti intensivi dove non esiste nulla di quanto mostrato dalle pubblicità e dove gli animali conducono una (non) esistenza finalizzata all’ingrasso in gabbia, in un capannone o in una stalla da cui non vengono mai fatti uscire. Una situazione di malessere, di sofferenza e di disagio che trasforma esseri senzienti in semplice materia prima. Lo denunciano da sempre le associazioni animaliste ed ambientaliste (perché gli allevamenti intensivi hanno anche un forte impatto sull’ambiente e sull’inquinamento) e per la prima volta da giovedì il tema sarà oggetto di una campagna di informazione nelle sale cinematografiche di 50 città italiane: con quelli che definisce «spot-verità» l’associazione Ciwf Italia ha deciso di portare la questione direttamente all’attenzione del grande pubblico. L’iniziativa è stata finanziata con una raccolta di fondi in crowdfunding che ha visto la partecipazione di circa 450 donatori. I messaggi durano 30 secondi e parafrasano un vecchio claim televisivo degli anni Ottanta («Apri la bocca / chiudi gli occhi»). «Vogliamo mostrare quelle immagini che i consumatori non potranno mai vedere nelle pubblicità o sulle etichette dei prodotti di origine animale – spiegano dall’associazione -. Il nostro spot mostra le vere condizioni in cui gli animali vengono cresciuti nella grande maggioranza degli allevamenti italiani e invita le persone ad acquistare consapevolmente». Non tutta la carne, il latte e i loro derivati provengono dalla produzione intensiva. Ma è difficile per il consumatore comprendere la differenza tra un prodotto e l’altro. In alcuni casi, le uova per esempio, una possibilità di scelta è data dal codice stampigliato sul guscio: se il numero inizia con «0» si tratta di uova provenienti da animali allevati con metodo biologico, se inizia con «1» si tratta comunque di galline allevate all’aperto; se invece il codice inizia con il 2 o il 3 allora la provenienza è da un allevamento di tipo industriale al chiuso. Ma quello che è possibile con le uova non lo è con tutti gli altri prodotti e spesso la pubblicità trae volutamente in inganno. Di qui la scelta di Ciwf Italia di parlare ai consumatori con immagini vere, tratte dalle investigazioni in incognito condotte dai propri volontari, che raccontano in pochi secondi quel che spesso si cela dietro le produzioni animali. «Il benessere animale, in gran parte degli allevamenti, è il grande assente – commenta Annamaria Pisapia, direttrice di Ciwf Italia -. Un’assenza che l’industria che produce carne, latte e uova cerca di nascondere in tutti i modi con programmi di comunicazione pieni di informazioni ingannevoli che confondono i consumatori. Eppure il benessere animale dovrebbe essere considerato una componente basilare del cibo di qualità, quale quello italiano aspira ad essere». Il concetto è insomma che animali allevati in condizioni migliori siano animali anche più sani – non solo più felici, aspetto a cui magari parte della popolazione non è sensibile -, non subendo per esempio le conseguenze della immunodepressione causata dal confinamento di centinaia o migliaia di capi in spazi ristretti. Una situazione, quest’ultima, che rende necessario un maggiore ricorso ad antibiotici, con la conseguenza di uno sviluppo nel tempo di forme di antibioticoresistenza, di fatto la perdita di efficacia degli antibiotici stessi. Ma gli allevamenti intensivi portano con sé anche una serie di problematiche di tipo ambientale: per il consumo di grandi quantità di acqua, per la vasta occupazione di suolo (anche per coltivazioni intensive di cereali non destinati al consumo umano ma all’industria dei mangimi per animali), per l’enorme massa di liquami da smaltire, per le conseguente sull’inquinamento atmosferico causate sia dalle emissioni gassose degli stessi animali sia dagli scarichi dei mezzi di trasporto necessari a movimentare animali vivi o tagli di carni. Non tutto il cibo di origine animale proviene da allevamenti intensivi o di tipo industriale. Ma mentre per le uova esiste una normativa sull’etichettatura, quella dei codici stampigliati sui gusci appunto, che offre al consumatore un’indicazione chiara delle modalità di allevamento delle galline, per il resto dei prodotti è tutto lasciato alla volontarietà delle aziende. Va da sé che solo quelle che producono con metodi biologici o che ricorrono all’allevamento all’aperto hanno interesse a pubblicizzarlo. Le altre, in assenza di obblighi di legge, continueranno a mostrare mucche felici, prati verdi e maialini sorridenti.

"Disossatore a 5 euro l'ora": il lato nero della Food Valley di Parma. Dopo la denuncia di Flai Cgil sulle condizioni degli operai alimentaristi emerge che anche i salumifici del parmense non sono esenti da irregolarità, scrive Maria chiara Perri) il 19 gennaio 2016 su “la Repubblica”. "Offriamo lavoratore a 5 euro all'ora, giorno e notte". Questo è il tenore dei fax che alcuni titolari di salumifici del parmense hanno ricevuto da sedicenti cooperative pronte a fornire manodopera come al mercato. Un segno concreto, nero su bianco, che anche le produzioni di alta qualità della Food Valley non sono immuni dalle piaghe del lavoro irregolare e dello sfruttamento. Il caso è stato denunciato con forza da un rapporto di Flai Cgil a Modena, dove la situazione nei macelli rasenta lo schiavismo. Nel parmense il sindacato degli alimentaristi conduce da anni battaglie per la corretta applicazione del contratto. "Ci sono infinite sfumature di problemi - spiega Luca Ferrari di Flai Cgil Parma - probabilmente nel parmense questi fenomeni sono più isolati, di solito riusciamo a intercettarli nelle singole aziende e a intervenire. Abbiamo un contratto provinciale, concordato con l'Upi, che funziona un po' da regolatore e ci permette un migliore controllo". E' soprattutto nella filiera della carne che si verificano irregolarità. Dal momento che la lavorazione dei salumi prevede diverse fasi, alcune mansioni non vengono svolte da personale dipendente del salumificio ma affidate a lavoratori esterni. E qui si insinuano le cosiddette "false cooperative" e i fenomeni di caporalato. Ci sono "coop" gestite da veri e propri padroni che raggruppano operai di singole nazionalità, dalla Nigeria allo Sri Lanka, offrendoli prezzi stracciati per il lavoro di sugnatura e disossatura dei prosciutti. Gli operai vengono intercettati con il passaparola, ma non mancano casi di disperati che aspettano alle 7 di mattina in piazza Corridoni a Langhirano che venga un artigiano a sceglierli per il lavoro. "A volte i titolari degli stabilimenti ricevono anche offerte via fax, ci cascano e si servono di questi lavoratori perché costano poco. Ma ovviamente quelle realtà non pagano contributi, non forniscono l'attrezzatura e l'abbigliamento adatto, non rispettano alcuna norma di sicurezza - spiega Ferrari - questo va a discapito dei lavoratori e della qualità del prodotto. C'è anche il fenomeno dei falsi facchini, che abbiamo denunciato: con il contratto di facchinaggio dovrebbero fare solo movimentazione, invece sono impiegati nella produzione". Gli stabilimenti in attività nella Food Valley sono 200, con circa 4mila addetti tra personale dipendente e indotto. Flai Cgil si batte perché a tutti venga applicato il contratto degli alimentaristi. Contratto già scaduto, con un'agitazione a livello nazionale per il rinnovo. Il 29 gennaio è previsto lo sciopero di settore per l'intera giornata. Questa settimana, invece, le singole rappresentanze sindacali potranno gestire un pacchetto di quattro ore di sciopero nei vari stabilimenti.

I FORZATI DEL MATTATOIO. Oltre 5mila operai addetti alla preparazione dei prosciutti sono costretti a durissime condizioni di lavoro in cambio di paghe da fame. I turni possono durare anche 15 ore durante le quali viene ripetuto un unico movimento, lo stesso taglio ogni 3 o 4 secondi, con gravi danni a schiena, braccia e spalle. "Io faccio lo schiavo", ci ha raccontato uno di loro. La denuncia arriva dalla Flai Cgil che segnala anche il proliferare di società che cambiano nome e truccano i conti, i bilanci e le buste paga. False cooperative, confermano le inchieste della Finanza, che non applicano il contratto nazionale, non versano i contributi previdenziali ed evadono il fisco, scrive Valerio Teodonio il 18 gennaio 2016 su “La Repubblica”.

Pochi spiccioli per turni massacranti. Cesare ha 55 anni e le mani grandi. Gli occhi chiari e la voce profonda come le sue rughe. Lavora nei mattatoi da quando era ragazzino, macella i maiali che diventeranno prosciutti, che verranno firmati da aziende dai nomi importanti e con fatturati da milioni di euro. Cesare, dopo 38 anni di lavoro, fa turni massacranti. E viene pagato 4,50 euro l'ora. Prima della crisi era un operaio specializzato, oggi si deve accontentare per disperazione. Francesco, invece, ha 42 anni e ormai non riesce neanche più a tenere in mano un coltello. Ha i muscoli e i tendini usurati. Fa sempre lo stesso movimento, a ripetizione, senza sosta: lo stesso taglio ogni 3 o 4 secondi. Disossa polli per 12, spesso 15 ore al giorno. E gliene pagano meno della metà. Ma ha una moglie e un figlio. E nessuna alternativa. Succede nella provincia di Modena dove - dicono i dati che verranno pubblicati nel prossimo rapporto della Flai Cgil e che Repubblica è in grado di anticipare - 5mila operai sono gravemente sfruttati. Schiavi. Esistono irregolarità di ogni tipo, in Emilia Romagna. Abusi che, secondo l'Inea, l'Istituto Nazionale di Economia Agraria, si inquadrano soprattutto nella "sottodichiarazione delle ore e o dei giorni di lavoro o nella dichiarazione di mansioni inferiori a quelle svolte". Secondo i dati elaborati dal gruppo di studio della facoltà di Sociologia della Sapienza di Roma guidato dal professor Francesco Carchedi sulla base delle informazioni raccolte tra i lavoratori, in questa zona sono almeno 3.700 gli operai gravemente sfruttati nella zootecnia. Ma secondo le stime ci sono almeno altre mille persone che lavorano in condizioni anche peggiori, perché non hanno alcun contratto né tutela. Vengono pagate anche in nero per turni dagli orari estenuanti. Francesco e Cesare (i nomi sono di fantasia) si sono rovinati i polsi, i gomiti, le spalle. Prima del 2000 si occupavano dell'intero processo di lavorazione della carne: squartare, eviscerare, macellare, rifilare. Le loro mani e le loro braccia erano sottoposte a diversi tipi di sollecitazioni. Adesso il lavoro si è ridotto ad una sola mansione. Perché alle aziende conviene pagare poco un operaio non specializzato e fargli fare un'unica operazione, piuttosto che pagarne uno specializzato con compiti diversi. La meccanizzazione, poi, ha fatto il resto. E dunque Cesare rifila il maiale, Francesco disossa il pollo. "Ma un conto è stressare i muscoli e i tendini per otto ore al giorno - spiega Giacomo (ancora un nome inventato), operaio anziano e molto esperto - un altro è farlo per 15. Spesso capita che lavori dalle 4 di mattina alle 7 di sera. E poi, con un sms, vieni convocato dal capo della cooperativa per le 23 del giorno stesso. Come si chiama tutto questo? Io lo chiamo schiavismo. Non solo. Se la carne da lavorare tarda ad arrivare, gli operai vengono costretti a rimanere in azienda ad aspettare per ore e ore. Senza essere pagati. E senza sapere quando torneranno a casa. A completa disposizione della ditta. Ormai non c'è differenza con il fenomeno dei braccianti agricoli assoggettati dai caporali nel sud Italia". La dimensione esatta dello sfruttamento è impossibile da determinare perché a ingaggiare questi lavoratori non sono direttamente le grandi aziende, ma società appaltatrici, quasi sempre false cooperative, che cambiano spesso nome, che truccano i conti, i bilanci e le buste paga. Che non applicano il contratto nazionale, che non versano i contributi previdenziali, che evadono il fisco. E che occupano soprattutto stranieri, quasi sempre romeni, marocchini, cinesi. Persone che spesso non conoscono la lingua e che non hanno mai votato un bilancio sociale, come invece spetterebbe ai soci lavoratori. Ma su 100 operai sfruttati, 10 sono italiani. "Sono sempre di più - denuncia il segretario regionale della Flai Cgil, Umberto Franciosi - si tratta di uomini strozzati dalla crisi che per disperazione accettano di sottostare a queste condizioni". Poi ci sono i giovani, ragazzi senza alcuna esperienza, che vengono sfruttati più degli altri e che rischiano non solo malattie professionali, ma anche gravi infortuni sul lavoro. "Non sanno usare il coltello - ragiona Giacomo - un tempo era previsto un periodo di apprendistato, oggi non si fa più. Costa troppo. Così questi ragazzi usano troppa forza, perché non hanno tecnica. E succede che scappi la lama. Non è raro che se si diano una coltellata in pancia. Ma in ospedale raccontano che si è trattato di un incidente domestico. Perché chi parla rischia il lavoro. Quando va bene ti tengono a casa per qualche settimana, ma capita che non vieni più chiamato. Così nessuno denuncia". Accuse pesanti confermate nella sostanza dall'intervista al direttore del Servizio prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro della Ausl di Modena Renato Di Rico che potete leggere più sotto. Una serie di interventi della Guardia di Finanza, tra il 2012 e il 2014, ha scoperto che nella zona, su mille operai controllati, 900 non erano in regola. "In generale - argomenta il comandante provinciale Pasquale Russo - possiamo dire che nelle cooperative risultate spurie, 7 soci lavoratori su 10 sono falsi soci lavoratori. Tra il 2014 e il 2015 abbiamo riscontrato evasioni pari a 20,5 milioni in materia di Irap, 10,5 milioni per le imposte indirette, 10 milioni in termini di Iva, ritenute fiscali non versate per 1,5 milioni". Uno degli escamotage più usati per risparmiare sulle buste paga è il sistema della "Trasferta Italia". In pratica una percentuale dello stipendio viene pagato sotto la dicitura, appunto, di trasferta (mai avvenuta), che non prevede il versamento dei contributi previdenziali. "Tra le aziende che nella zona di Modena appaltano parte della produzione a società esterne - racconta Franciosi - possiamo citare Suincom, Alcar Uno, Fimar, San Francesco. Siamo nella zona di Castelnuovo Rangone. E da loro comprano tutti i grandi marchi italiani che troviamo negli scaffali dei supermercati, e che producono carni, salumi, mortadelle, pancetta. Le grandi aziende magari sono virtuose al loro interno, rispettano i contratti e pagano il giusto i loro dipendenti, ma quando si vanno ad approvvigionare dai loro fornitori, guardano il prezzo. E acquistano dove conviene di più. Non si domandano come mai la carne costa ogni giorno un centesimo in meno. Le aziende a cui si rivolgono, hanno, al loro interno, lavoratori pagati da false cooperative. Che, appunto, sfruttano il personale. In pratica, per mantenere invariata la qualità dei prodotti d'eccellenza, si risparmia sulla manodopera. E a volte sono le stesse aziende che creano le false cooperative, e ci mettono come capo una testa di legno". Repubblica ha provato a intervistare i responsabili delle società che possono appaltare parte del lavoro a ditte esterne (raggiungere direttamente le false cooperative non è stato possibile). Ci ha ricevuto solo la Suincom, uno dei più grandi stabilimenti della zona. "Qui è tutto in regola - è la replica del presidente Roberto Agnani - chi non ci crede può venire a controllare. Turni massacranti? Macché. Qui rispettiamo il contratto nazionale. Anzi, spesso sono i lavoratori extracomunitari che vogliono lavorare più ore e siamo noi che glielo impediamo". Mentre i grandi marchi che nella zona di Modena possono acquistare carni, come Grandi Salumifici, Consorzio del Prosciutto di Parma e Rovagnati rispondono all'unisono: "Non siamo a conoscenza di casi di sfruttamento". Secco no comment invece da Citterio. L'Emilia Romagna - secondo gli ultimi dati Istat - è tra le regioni che hanno il maggior numero di aziende zootecniche. In questo comparto impiega oltre 85mila lavoratori e ha una produzione dedicata alla macellazione tra le più importanti a livello nazionale, seconda soltanto alla provincia di Mantova. Lo stipendio medio degli operai zootecnici è difficile da quantificare. La Cgil calcola che la metà dei lavoratori stranieri riescono a raggiungere gli 800 euro mensili, ma, come si è detto, le ore lavorate sono spesso molte di più rispetto a quelle pagate. Il risparmio finale su ogni addetto arriva anche al 40 per cento, perché succede che un operaio specializzato venga pagato come un semplice apprendista, cioè la metà di quello che gli spetterebbe. Come Cesare, che da ragazzino sognava solo di fare bene il suo lavoro. "Invece faccio lo schiavo", racconta abbassando gli occhi stanchi. O come Francesco, che ha le braccia distrutte. E la sera, quando torna a casa, ha voglia solo di piangere.

La Asl conferma: "Infortuni oltre la media". Patologie invalidanti, ripetuti traumi e incidenti di vario tipo, omertà nel denunciare quanto accade. Renato Di Rico, direttore del Servizio prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro della Ausl di Modena, conferma le conseguenze della gravissima situazione di sfruttamento diffusa tra i lavoratori dei macelli fotografata dalla Flai Cgil.

Quali sono le malattie professionali più diffuse?

"Le più frequenti in assoluto sono quelle muscolo-scheletriche. In particolare della schiena e degli arti superiori. Spesso si scaricano dei prosciutti dai camion in posizioni molto scomode. Si fanno migliaia di operazioni al giorno. Perché spesso le giornate durano molte più delle otto ore previste. E poi c’è il sovraccarico biomeccanico: movimenti fini, ripetitivi, molto frequenti, con durante importanti. Come l’uso del coltello per rifilare i prosciutti".

Si parla di tagli ogni 3/4 secondi. Per molte al giorno.

"Sì, sono molto veloci e molto frequenti. Il problema è proprio questo: ritmo e frequenza eccessivi. Bisognerebbe introdurre delle pause, basterebbe anche fare un altro tipo di lavoro, e riposare quel segmento dell’arto. C’è un sovraccarico di lavoro. Ma ridurre il ritmo significherebbe ridurre la produzione".

Succede che i lavoratori non si facciano curare?

"E' chiaro che non tutte la malattie vengono a galla. Molte patologie non si vedono, quello che si vede è solo una parte di un iceberg semisommerso. Perché parecchie di queste sfuggono al controllo del medico competente".

Perché sfuggono?

"Perché non vengono denunciate. E poi perché c’è una sorta di selezione naturale. Chi ce la fa rimane, chi non ce la fa, se ne va. E poi molti dei lavoratori delle cooperative sono stranieri, e questo comporta tutta una serie di difficoltà, come la lingua, l'incapacità a rappresentare le proprie rimostranze. Una debolezza implicita del ruolo".

Quante sono le malattie professionali?

"Nel 2012, su 45 mila denunce in Italia, la metà riguardava problemi osteo-articolari. In Emilia Romagna la percentuale di malattie professionali è di un terzo più alta della media nazionale".

Molti lavoratori non riescono più a tenere un coltello in mano.

"C'è un aumento delle malattie della schiena di tipo degenerativo. E poi c'è l'arto superiore: dalla spalla fino all'articolazione del polso: i tendini, le guaine tendinee. Le malattie più frequenti sono la sindrome del tunnel carpale, ma anche le tendiniti del gomito e della spalla. Le infiammazioni colpiscono i tendini, ma anche i nervi. Che danno dolore, parestesie, difficoltà a compiere movimenti".

Che tipo di infortuni si verificano a causa dell’eccessivo lavoro?

"Aumentano gli incidenti perché diminuisce l’attenzione e cresce la possibilità di compiere errori. Gli operai sono tanti, molto vicini uno all’altro e succede che si facciano male tra loro, maneggiando dei coltelli molto affilati. Sono ambienti chiusi, bui, freddi. Per questioni anche igieniche. Ambienti disagevoli che costituiscono un rischio già di per sé. E poi ci sono le lesioni da sforzo, rotture di dischi intervertebrali. E anche lesioni legate all’uso del coltello o delle macchine".

Per esempio?

"Ci si conficca il coltello nel costato, se per esempio non si fa l’operazione in modo corretto. Bisognerebbe usare attrezzature sottoposte a manutenzione e maglie d’acciaio protettive sulle mani e sull’avambraccio. Gli incidenti sul lavoro sono diminuiti ovunque, in alcuni casi gli indici infortunistici sono in netto miglioramento. Anche in edilizia, un classico settore rischio. Mentre nel comparto della carne non c’è alcun miglioramento".

La replica delle aziende tra silenzi e smentite. Molti degli stabilimenti accusati dalla Cgil di avvalersi di manodopera procurata da cooperative esterne non hanno voluto rispondere alle nostre domande. Come AlcarUno, Fimar e San Francesco. Ci ha risposto invece il presidente della Suincom, uno dei più grandi stabilimenti della zona. "Qui è tutto in regola, chi non ci crede può venire a controllare. Turni massacranti? Macché. Qui rispettiamo il contratto nazionale. Anzi, spesso sono i lavoratori extracomunitari che vogliono lavorare più ore e siamo noi che glielo impediamo". Dal Consorzio Prosciutto di Parma l'ufficio stampa fa sapere: "Non ci risulta che ci siano casi di questo tipo legati alla produzione del Prosciutto di Parma". Rovagnati e Citterio non hanno voluto rilasciare interviste sul tema. Grandi Salumifici italiani dichiara che non risultano casi di sfruttamento e in una nota spiega che esige "dalle aziende appaltatrici, comprese le cooperative di soci lavoratori, l'applicazione ed il rispetto integrale e inderogabile delle norme contrattuali confederali del settore merceologico di appartenenza, nonché di tutte le norme previdenziali e antinfortunistiche e dei diritti sindacali".

Coldiretti, allarme in tavola: una mozzarella italiana su quattro prodotta con "finta cagliata", scrive “Libero Quotidiano” il 20 gennaio 2016. Una mozzarella su quattro è fatta senza latte, prodotta con "finta cagliata". È Coldiretti a lanciare l'allarme, a poche ore dal maxi-sequestro di 3 tonnellate e mezzo di cagliata mal conservata in un'azienda casearia della Murgia, in Puglia. L'abitudine, spiega Roberto Moncalvo, presidente Coldiretti, è quella di acquistare cagliate all'estero e poi trasformare i semilavorati industriali in prodotti caseari bollati con il titolo di "Made in Italy", senza però trasparenza e standard igienico-sanitari adeguati. Le conseguenze possono essere drammatiche per la salute dei consumatori ma anche per la fama della qualità gastronomica italiana e tutto l'indotto. "Questi comportamenti - spiega Moncalvo - provocano una distorsione del mercato, deprimono i prezzi pagati agli allevatori italiani e causano la chiusura degli allevamenti. Di fronte a questa escalation di truffe e inganni per salvare il Made in Italy non c'è più tempo da perdere e occorre rendere subito obbligatoria l'indicazione di origine del latte in tutti i prodotti lattiero caseari per garantire la trasparenza dell'informazione e la salute dei consumatori". "In Puglia, a fronte dei 1.939 allevamenti che producono 3,6 milioni di quintali di latte bovino, le importazioni di latte dall'estero raggiungono i 2,7 milioni di quintali e i 35mila quintali di prodotti semi-lavorati quali cagliate, caseine, caseinati e altro, utilizzati per fare prodotti lattiero-caseari che vengono, poi, manipolati e trasformati in prodotti lattiero-caseari made in Puglia - conclude Moncalvo -. Per questo in soli dieci anni hanno chiuso circa 3.800 stalle, una agonia veloce e drammatica degli allevamenti, con un crollo pari ad oltre il 58% del patrimonio zootecnico pugliese".

La truffa dell'olio d'oliva "clandestino". Scoperto con il test del Dna, scrive “Libero Quotidiano” il 3 dicembre 2015. Ci è voluto l'uso di una tecnica di investigazione innovativa per scoprire che 7mila tonnellate di olio spacciato per italiano veniva in realtà da Siria, Turchia, Marocco e Tunisia. Gli uomini del Corpo forestale dello Stato sono riusciti a scoprire la maxitruffa analizzando il Dna delle molecole di un carico di olio intercettato tra le province di Bari e Brindisi. L'olio non era solo destinato al mercato europeo, ma anche statunitense e giapponese con il marchio "100% italiano". Sei le persone indagate per frode e contraffazione attive in aziende di Fasano, nel Brindisino, Grumo Appula e Monopoli, nel Barese, oltre che un laboratorio di certificazione.

Carlo Petrini (Slowfood) e la legge beffa: "Truffa sul riso Carnaroli, non è quello vero. Ma...", scrive “Libero Quotidiano” ill 14 giugno 2015. Una truffa sulle tavole italiane. Siete proprio sicuri di mangiare riso Carnaroli quando lo acquistate al supermercato e lo cucinate a casa vostra? Il dubbio è venuto a Carlo Petrini, fondatore di Slowfood, dopo aver letto il libro di Beatrice Mautino e Dario Bressanini Contro natura. Si fa presto a dire Carnaroli, spiega un allarmato Petrini su Repubblica. Il punto è che occorre distinguere tra il risone, cioè la materia prima (il chicco grezzo, avvolto nella lolla), e il riso vero e proprio, quello lavorato e raffinato. Il risone dipende dalla varietà seminata, e "chi coltiva Carnaroli, produce risone Carnaroli". Ma qui arriva il difficile: "Per contro, il riso Carnaroli si può ricavare, legalmente, raffinando anche risone di varietà Carnise o Carnise precoce, o Karnak o Poseidone". L'escamotage, spiega Petrini, "si chiama omonimia: il riso venduto, per legge può essere chiamato con il nome della varietà da cui deriva il risone, oppure con uno dei nomi delle varietà che appartengono alla stessa categoria agricola. E nella categoria del Carnaroli ci sono appunto gli altri nomi di varietà (e quindi di risone) che abbiamo elencato prima". Il punto è che "il consumatore non sa che sta comprando una varietà di riso (Karnak) diversa da quella indicata sulla confezione (Carnaroli)". Tutto legale, ma non molto giusto. Né per chi compra né per chi produce, perché spesso, suggerisce Mister Slowfood, certe varietà di riso sono più facili da coltivare e permettono ad alcuni coltivatori di proporre come Carnaroli una varietà di riso non così pregiata. L'inghippo per una volta non nasce dall'Unione europea, sempre molto poco attenta a tutelare il made in Italy (in cucina e non solo), ma dal nostro Ministero dell'Agricoltura "E' ora di smettere con le scorciatoie e dare il vero, giusto peso al diritto di scelta - conclude Petrini -. Per questo non mi piace l'attuale progetto di legge sul riso che, se possibile, peggiorerà ancora le cose". "Se oggi infatti, un produttore di riso serio e attento può decidere di chiamare il proprio prodotto Karnak o Poseidone, quando derivi da queste varietà di risone, la nuova legge in discussione vorrebbe addirittura imporre la sinonimia: se il risone viene dal gruppo sui appartiene anche il Carnaroli, non potrà che chiamarsi Carnaroli", attacca Petrini. Risultato: presto per acquistare il Carnaroli "vero" dovremmo cercare sulla confezione la dicitura "Carnaroli classico", un po' come accade per il Prosecco "superiore" o l'aceto balsamico "tradizionale".

FURBETTI DEL BICCHIERINO. Ombre sul Prosecco: taroccati milioni di litri, scrive Alessia Pedrielli il 4 ottobre 2015 su “Libero Quotidiano”. Prosecco di scarsa qualità spacciato per squisito, nell’etichetta e pure nel prezzo. Stavolta però il prodotto taroccato arriva da casa nostra - e non da qualche paesetto esotico - addirittura dalla culla dello spumante più amato d’Italia: le colline del Trevigiano e la zona del Valdobbiadene. Qui i carabinieri del Nas hanno posto sotto sequestro migliaia di ettolitri di bollicine prodotte, a quanto pare, mescolando alle uve di pregio acini di qualità inferiore. Il prosecco «fuffa» era in lavorazione, pronto per arrivare sulle tavole di migliaia di bongustai che avrebbero brindato, senza saperlo, ad un nuovo tipo di frode. Questa volta, infatti, la concorrenza sleale non c’entra, il fattaccio è proprio tutto Made in Italy e ad essere coinvolte sarebbero decine di importanti aziende produttrici. Le ispezioni sono partite, una ventina di giorni fa, dall’annuale controllo di routine sui documenti di conferimento delle uve alle cantine specializzate, ma poi, visti i primi risultati, l’indagine è andata avanti e tutte le cantine con una produzione superiore ai diecimila ettolitri sono state passate al setaccio. Quello che non torna ai militari, che stanno ancora proseguendo nelle indagini, sono i dati delle bolle di carico delle uve conferite, paragonati ai quantitativi di vino prodotti. L’uva registrata in entrata di lavorazione, cioè, in molti casi è troppo poca per garantire i quantitativi di vino che stavano per essere immessi sul mercato. Segno che qualche grappolo non meglio identificato (e mai registrato né dai venditori né dalle cantine) era finito nel calderone delle uve di pregio registrate regolarmente e stava per finire imbottigliato quale Prosecco «di qualità». Dopo l’intervento dell’Arma, il vino sequestrato prodotto con le uve dell’ultima vendemmia (attualmente in lavorazione nelle cisterne) non potrà più fregiarsi dei marchi Docg o Doc e verrà declassato oppure, se non conforme per caratteristiche organolettiche a quanto previsto dalle norme, verrà addirittura distrutto. Per i produttori-furbetti si preannunciano multe da decine di migliaia di euro. Cifre importanti, ma che con ogni probabilità, per molti, verranno declassate alla voce «rischio calcolato». Come quasi sempre accade quando si parla di contraffazione alimentare nel nostro Paese, infatti, le multe conferite a chi sgarra non sono certo decisive per il destino delle aziende che decidono di alterare il prodotto. Ad accusare il colpo, invece, saranno ancora il buon nome di cura la qualità nonché la fiducia dei consumatori, già fiaccata da tante cattive notizie, tra cui anche l’inchiesta, ancora in corso, sul Sauvignon «dopato» prodotto nella zona di Cividale del Friuli, a cui veniva aggiunto durante la fase di lavorazione un preparato «capace di rendere stellata anche la peggiore delle vendemmie senza arrecare danni alla salute», per usare le parole degli inquirenti. Lo sa bene il Consorzio di tutela Conegliano Valdobbiadene che, con una nota relativa ai sequestri di Prosecco contraffatto ha precisato che «i controlli effettuati hanno riguardato aziende e prodotti delle province di Treviso, Belluno e Venezia» e non soltanto «dell’area Docg di Conegliano Valdobbiadene», che «le contestazioni dei Nas riguardano illeciti amministrativi e non penali» e che, per quanto riguarda il prodotto Docg, «prima di essere imbottigliato avrebbe comunque dovuto passare altre severe verifiche per ottenere i sigilli che lo identificano».

"Naturale uguale sano? Una bufala ormai scaduta". Lo studioso nel suo nuovo libro smonta le tesi di ambientalisti e nutrizionisti: "Se tutta l'agricoltura fosse biologica, la fame nel mondo aumenterebbe", scrive Eleonora Barbieri, Lunedì 01/02/2016, su "Il Giornale". Naturale. Però non si sa bene quanto, e in che termini. Che ciò che è o si spaccia per «naturale» sia anche tale e, per questa unica ragione, sia anche «meglio», è ormai dato perlopiù per scontato. Chi non sceglierebbe una mela naturale, un cosmetico naturale, un cibo prodotto con metodo naturale... Ma Naturale uguale buono? si intitola un libro appena pubblicato da Carocci (pagg. 256, euro 19): e la domanda è lecita, in un mondo in cui la «religione della natura», come la chiama l'autore Silvano Fuso (chimico e divulgatore scientifico) ha reso un aggettivo sinonimo di (presunta) garanzia di sicurezza e qualità, un'assicurazione di superiorità, di avere compiuto, in qualche modo, la scelta giusta.

Ma che cosa significa naturale?

«Ecco, io farei questo esempio. Le dighe dei castori o i termitai hanno una complessità avanzata, però li definiamo naturali. Invece i manufatti umani, per esempio stesse le dighe, li consideriamo artificiali».

Perché?

«Appunto. Perché? Anche l'homo sapiens appartiene alla natura. E i biologi evoluzionisti mostrano che ogni specie modifica l'ambiente in cui vive. Da decenni però esiste una religione della natura, che le attribuisce un'aura di sacralità per cui ogni sua modifica è considerata negativa».

Non è giusto difendere la natura, secondo lei?

«Ma a volte gli ambientalisti diventano dei fondamentalisti nella tutela della natura. Che non è né buona né cattiva: è sbagliato trasferire su di essa valori umani. Si pensi alla sessualità».

Che cosa c'entra la sessualità?

«Beh, molte persone ritengono che certi comportamenti siano contro natura, ma che cosa significa? Fra gli animali il campionario è sconfinato, dalla necrofilia alla pedofilia fino al sesso con altre specie... Cose che a noi ripugnano, però è assurdo definirle contro natura».

Perché in natura ci sono.

«Questo per dire che il naturale è un mito: ci sono tantissime cose perfettamente naturali e pericolose, dai veleni alle tossine, perfino le malattie... Che cosa c'è di più perfettamente naturale di una malattia?»

Quindi, per rispondere alla domanda che poi è il titolo del suo libro, naturale non è uguale a buono?

«È un mito privo di fondamento. Ogni cosa va valutata per quello che è, indipendentemente dalla sua origine. Come i prodotti biologici. Gli studi scientifici mostrano che non offrono vantaggi quanto a proprietà nutrizionali e organolettiche e a sicurezza».

Però alcuni difendono l'agricoltura biologica perché ha un impatto minore sull'ambiente.

«È vero solo se ci si riferisce all'unità di superficie agricola coltivata; non se si considera l'unità di prodotto ottenuto, perché la resa per ettaro è inferiore. Se tutta l'agricoltura fosse convertita al biologico, la fame nel mondo aumenterebbe a dismisura e il disboscamento arriverebbe a livelli folli. Con problemi ambientali enormi».

Però il biologico gode di grande popolarità.

«Diciamo che è il lusso che le società ricche possono permettersi. E deve rimanere tale, di nicchia, altrimenti non sarebbe sostenibile».

E la sicurezza alimentare?

«È dimostrato che le percentuali di pesticidi residui sui prodotti, anche in quelli dell'agricoltura tradizionale, sono minime e non compromettono la salute dei consumatori. Insomma non ci sono vantaggi».

E gli additivi? I conservanti?

«Se non usassimo i conservanti, i rischi per la salute sarebbero molto maggiori. Si parla tanto di quanto siano buone la marmellata e la salsa fatte in casa ma, senza competenze adeguate, il rischio di contaminazioni batteriche è alto, più che a livello industriale».

Spesso anche dai supermercati vengono ritirati prodotti contaminati.

«Certo, l'errore o la frode sono sempre in agguato. Però le norme esistono, e gli organi di controllo vigilano. Invece i prodotti casalinghi non li controlla nessuno. Ma poi, guardi, nessun prodotto è naturale».

In che senso?

«Mele, arance, patate: tutto quello che vediamo è frutto di selezioni e modifiche fatte dall'uomo nei secoli, attraverso le tecniche agricole. Una agricoltura naturale non esiste».

Tutto dipende da come si modifica...

«Per millenni l'uomo ha selezionato e modificato, ma in modo grossolano. Oggi con tecniche di ingegneria genetica possiamo farlo più velocemente e in maniera mirata. Molti ne hanno paura, ma i risultati dicono che i presunti rischi degli ogm in realtà non esistono».

Ma lei non preferisce un prodotto a chilometro zero a uno ogm?

«Guardi, c'è una frase che riporto nel libro, in cui Carlo Petrini parla dei peperoni astigiani sostituiti dai tulipani olandesi, lamentandosi della perdita di prodotti tipici».

E non è un peccato?

«Ma anche i bambini sanno che i peperoni sono arrivati in Europa dall'America, prima non li coltivava nessuno. Parliamo di una naturalità e una tipicità totalmente artificiose: sono solo ciò a cui la gente è abituata».

Vale anche nell'ambito della salute?

«Certo, si pensi al movimento contro i vaccini. È da scriteriati combatterli: hanno aiutato a salvare milioni di vite. Se le percentuali di popolazione vaccinata scendono sotto certi limiti rischiamo il ritorno di alcune malattie ormai quasi debellate. Come la difterite o il morbillo».

Ma i rischi delle vaccinazioni?

«Parliamo di effetti collaterali noti e in percentuali irrisorie di fronte a un beneficio enorme. Per non parlare poi dei rischi inventati di sana pianta, come quelli sui legami fra il vaccino trivalente e l'autismo: una frode di un medico inglese, poi radiato, che però ha ancora effetti sull'immaginario collettivo».

Ma perché il «naturale» ha così presa?

«Penso che questi atteggiamenti siano un lusso delle società ricche e progredite. Se vivessimo in condizioni più disagevoli nessuno proporrebbe di tornare all'agricoltura biologica o di rifiutare i vaccini».

È colpa del benessere?

«Il fatto è che, quando abbiamo il benessere, paradossalmente si crea una diffidenza verso ciò che l'ha creato, cioè scienza e tecnologia. Ogni specie cerca di difendere se stessa, anche a danno delle altre. Noi però, grazie alla scienza, siamo capaci di prevedere gli effetti sull'ambiente delle nostre scelte».

Quindi in certi casi sappiamo che stiamo sbagliando?

«Sappiamo che alcune scelte possono ritorcersi contro di noi, se distruggiamo l'ambiente in modo dissennato. Perciò dobbiamo fare dei bilanci fra rischi e benefici, però in modo razionale, non fideistico o ideologico».

OLIO TUNISINO: IL PD VOTA L'INVASIONE. Scrive “Il Blog Di Beppe Grillo" Lunedì 25 Gennaio 2016. Oggi muore il Made in Italy. Con i voti favorevoli di Alessia Mosca (Pd), Goffredo Bettini (Pd) e dei gruppi Ppe, S&D e Alde la Commissione Commercio Internazionale del Parlamento europeo ha approvato l'importazione senza dazi di una quota annua di 35.000 tonnellate di olio d'oliva dalla Tunisia. Questa ulteriore quota si aggiunge alle 56.700 tonnellate annue già previste dall'accordo di associazione UE-Tunisia e sarà in vigore per due anni. Un aumento del 40% di importazione di olio distruggerà la produzione olivicola pugliese, siciliana e non solo. È uno schema suicida per l'economia del Sud Europa, così come dimostrato dai precedenti accordi con il Marocco, che hanno contribuito a distruggere la produzione di arance nel Sud Italia e causato indirettamente tensioni sociali, come quelle vissute a Rosarno. Dietro l'invasione dell'olio tunisino ci sono precisi interessi economici in gioco: l'obiettivo è quello di affossare i piccoli e medi produttori del Sud Italia, mentre ai grandi viene data la possibilità di comprare a prezzo stracciato l'olio extraeuropeo per poi spacciarlo Made in Italy, come in passato già dimostrato dalle inchieste della magistratura. L'agricoltura italiana, ancora una volta, viene usata come merce di scambio per la politica internazionale. La Mogherini, che ha ideato il piano, conosce le conseguenze economico-sociali di questa politica iper-liberista? L'Europa sta già facendo molto per il popolo tunisino. Nel 2011 anni ha stanziato nel programma di macro assistenza finanziaria ben 800 milioni di euro. Nel 2015 sono stati erogati 100 milioni di euro, una prima tranche di un prestito complessivo di 300 milioni. Perché adesso questa ulteriore apertura? Alcuni sospetti nascono dagli interessi economici dell'attuale primo ministro tunisino. Habib Essid è, infatti, uno dei maggiori produttori di olio del Paese e dal 2004 al 2010 è stato persino direttore esecutivo del Consiglio oleicolo internazionale. Con questa importazione senza dazi si vuole aiutare il popolo tunisino o gli affari dei suoi governanti? Il MoVimento 5 Stelle si opporrà e difenderà con tutti i mezzi la produzione e l'eccellenza italiana, già a partire dalla prossima plenaria quando il testo verrà votato per l'approvazione definitiva. Il Pd può dire lo stesso?  

L'AGRICOLTURA BIODINAMICA.

Agricoltura biodinamica da Wikipedia, l'enciclopedia libera. L'agricoltura biodinamica è un metodo di coltivazione basato sulla visione spirituale antroposofica del mondo elaborata dal filosofo ed esoterista Rudolf Steiner per la produzione agricola, in particolare di cibo, che è ritenuto in maggiore equilibrio con l'ecosistema terrestre, incorporando l'idea di "agricoltura biologica" e invitando, con un approccio definito olistico, a considerare come un unico sistema il suolo e la vita che si sviluppa su di esso. Due principi che si possono ritenere tipici della teoria biodinamica di Steiner hanno a che vedere col compostaggio e con le fasi della Luna. La codificazione dei metodi biodinamici esclude l'utilizzo di qualsiasi innovazione scientifica o tecnologica collegabile alla rivoluzione verde. Se alcune delle pratiche codificate nella biodinamica hanno una radice scientifica e una loro intrinseca utilità (ad esempio il "sovescio", cioè l'interramento di particolari piante a scopo fertilizzante e la rotazione delle colture) altre pratiche risultano completamente prive di basi scientifiche. Ad esempio, una pratica ritenuta di fondamentale importanza consiste nello spruzzare il terreno con "preparati biodinamici", ottenuti da letame, polvere di quarzo o sostanze vegetali, in diluizione omeopatica, oppure il preparato 500 riguardante il trattamento di corna di mucche per aumentare la fertilità del terreno". In ragione di questi elementi e di altri ancora (ad esempio l'importanza attribuita alle "forze cosmiche" o il concetto di "energia vitale") la biodinamica è oggi considerata una pseudoscienza. Nel corso della sua vita, Rudolf Steiner si occupò di diverse materie e risale agli ultimi anni della sua esistenza l'interesse anche per l'agricoltura, con una serie di conferenze sul tema in cui enunciò una serie di principi generali, che sarebbero stati elaborati, in seguito, dai suoi seguaci, soprattutto l'agronomo Erhard Bartsch e il chimico Franz Dreidax, che particolareggiarono la dottrina biodinamica e fondarono, nel 1928, l'associazione Demeter (ora Demeter International). Mentre l'antroposofia steineriana fu osteggiata personalmente da Adolf Hitler, l'associazione Demeter e la "filosofia" agricola biodinamica ottennero un miglior trattamento dal regime della Germania nazista, in quanto propugnatrice di un ritorno a metodi di coltivazione considerati appartenenti agli antichi germani. Tra i gerarchi che apprezzarono il lavoro di Bartsch e Dreidax vi furono, in particolare, Rudolf Hess e la sua cerchia, cultori di dottrine esoteriche. Questa compromissione portò l'associazione Demeter a porsi sotto l'ombrello di con un'organizzazione nazista che perorava la "rigenerazione" del genere umano e giungendo a dichiarare di riconoscere il nazionalsocialismo come propria filosofia ispiratrice. Ne seguirono esplicite prese di posizione favorevoli in vari frangenti storici della politica espansionistica dello spazio vitale della Germania nazista (come l'Anschluss dell'Austria, l'annessione della Cecoslovacchia, l'invasione della Polonia). La caduta in disgrazia nell'ambiente nazista avvenne nel 1941, con l'uscita di scena di Hess a seguito del suo volo aereo verso la Scozia. Gli oppositori interni la nazismo, che consideravano invisa la sua cerchia esoterica, colsero l'occasione dell'atterraggio nel Regno Unito per far dichiarare fuorilegge tutte le associazioni mistiche legate al gerarca. Demeter seguì anch'essa lo stesso destino: sciolta in quell'occasione, potrà rinascere a nuova vita solo dopo la fine della seconda guerra mondiale. L'associazione disciolta nel 1941 fu rifondata nel secondo dopoguerra come Demeter International e le pratiche biodinamiche da essa teorizzate ripresero nuovo vigore. Per effetto dell'attivismo dell'associazione, il termine "agricoltura biodinamica" è divenuto un marchio commerciale detenuto dalla Demeter International, associazione di adepti della metodologia che, attraverso l'adozione di un disciplinare, si propone di mantenere i medesimi standard tra i coltivatori sia nella fase di produzione sia nella fase di trasformazione dei prodotti agricoli. In ogni nazione può esservi un'articolazione locale dell'associazione internazionale, che deve adeguarsi agli standard e ai protocolli dettati dalla organizzazione madre. Scopo del marchio è quello di garantire ai consumatori che cibi e prodotti agricoli etichettati come "biodinamici" provengano da produttori associati e certificati dalla Demeter International. Nel tempo, la Demeter International ha promosso azioni legali per ottenere l'utilizzabilità del marchio "agricoltura biodinamica" per i soli prodotti da essa certificati. Tale attività di pressione ha portato al riconoscimento negli Stati Uniti d'America e in altri paesi. Verso la Comunità Europea, che ha respinto tali pretese, la Demeter International ha intentato un contenzioso. Gli obiettivi della biodinamica non sono diversi da quelli dell'agricoltura tradizionale:

mantenere la terra fertile;

mantenere in buona salute le piante;

accrescere la qualità dei prodotti;

Secondo i sostenitori, si differenzierebbe dall'agricoltura tradizionale nella qualità delle sostanze, in particolare dei concimi, che vengono utilizzati per raggiungere quegli obbiettivi, che devono rispondere alle seguenti caratteristiche:

sono del tutto naturali;

non sono ammesse sostanze chimiche/tossiche;

apportano vita.

Occorre considerare, infatti, che, nell'ottica di Steiner, poiché una vita può crescere solo in un contesto già vivente, la buona concimazione consiste proprio nel rendere vivente un terreno: da qui la preferenza accordata al concime agricolo, proveniente dalle stalle, anziché a prodotti di sintesi che, non derivando da un processo vitale, vengono considerati puri minerali e per questo in grado di nutrire soltanto le radici delle piante. «Non è possibile comporre artificialmente il concime a partire dagli ingredienti che fanno parte dello sterco di mucca. Bisogna capire che per il fatto che lo sterco di mucca non proviene dal laboratorio del chimico, bensì dal laboratorio molto, molto più scientifico che sta nella mucca — sì, signori miei, è un laboratorio molto più scientifico! — per questo fatto il concime di mucca non solo rende forti le radici delle piante, ma agisce anche fortemente fin nei frutti, e perciò produce anche le giuste proteine nelle piante, il che poi rende forte anche l’uomo. Se si continua a concimare solo con concime minerale come è di moda ultimamente, o addirittura con l’azotoderivato dall'aria, i vostri figli e ancor più i figli dei vostri figli, si ritroveranno visi pallidi pallidi. Non potrete più distinguere i volti dalle mani.» (R. Steiner, Alimentazione per vivere sani, conferenze del 1923-24, Archiati Verlag, 2007, pp.82-83). Il metodo biodinamico considera ogni sostanza come un binomio di materia e forza vitale; più una sostanza è diluita (poco soluto in molto solvente), più avrebbe effetto sugli organismi con cui viene a contatto. Il principio è simile a quello che sta alla base dell'omeopatia e medesime le contestazioni: le leggi della chimica provano infatti che il prodotto finale è così diluito da non contenere più neppure una molecola della sostanza di partenza. Per migliorare la qualità del terreno, aumentandone la quantità di humus, e allo stesso tempo migliorare la qualità del raccolto, si impiegano delle sostanze di origine naturale appositamente trattate, che vengono chiamate "preparati". Ne esistono di due tipi: da spruzzo preparato 500, 501 e preparato Fladen e da cumulo, 502, 503, 504, 505, 506, 507. I preparati per il compostaggio ("da cumulo") vengono aggiunti al cumulo di materiale da compostare, al fine di facilitarne la decomposizione in humus e terriccio. Steiner suggeriva che la precisa composizione, posizione, forma e manipolazione di una pila di composta fosse critica per raggiungere il risultato migliore. I preparati da cumulo sono in tutto sei e sono ottenuti a partire da erbe officinali (Achillea millefolium 502, Matricaria chamomilla 503, Urtica dioica 504, Quercus robur 505, Taraxacum officinalis 506, Valeriana officinalis 507) ognuna fatta compostare o macerare in condizioni ambientali particolari e impiegando come contenitori parti dei corpi di animali. Questo perché, sempre secondo la teoria delle forze vitali, ambiente e contenitore influenzano le caratteristiche del materiale finale. I preparati da spruzzo sono invece tre, "cornosilice", 501, a base di quarzo macinato, e "cornoletame", 500, a base di letame bovino e il preparato "Fladen". Nei primi due casi il contenitore che serve alla loro preparazione è il corno del medesimo animale. Le corna vengono svuotate e riempite con quarzo o letame, e sotterrate per sei mesi. Trascorso questo periodo il preparato può essere conservato per diverso tempo. Il cornosilice viene spruzzato sulle piante e ne stimolerebbe la fruttificazione e i processi legati alla fotosintesi e alla luce. Il cornoletame viene spruzzato sul suolo e ne aumenterebbe il contenuto in humus, agendo di conseguenza sullo sviluppo radicale e sulla nutrizione della pianta. Il Fladen si ottiene dinamizzando il letame fresco per un'ora con farina di roccia e gusci d'uovo, e lasciato maturare/trasformare sotto terra per un certo periodo: spruzzato nel terreno ha la funzione di migliorare la struttura e la fertilità del terreno. Tutti i preparati vengono usati in piccolissime quantità, quelli da spruzzo vengono distribuiti dopo essere stati "dinamizzati", ossia mescolati secondo un certo metodo e per un certo tempo. Utilizzando i preparati, l'irrigazione del terreno sembrerebbe non necessaria, ma se lo fosse, deve seguire un vero e proprio rituale (movimenti circolari, tempi definiti, ecc..). Viene data grande importanza per tutte le lavorazioni del terreno, le semine, i trapianti, le potature, ecc., alla posizione degli astri seguendo un calendario Astronomico appositamente realizzato. Gli steineriani Lilly Kolisko prima e Maria Thun in seguito, avrebbero, a loro dire, evidenziato l'esistenza di relazioni fra l'esito delle coltivazioni e la posizione della luna e di altri pianeti al momento dell'operazione colturale svolta. Maria Thun pubblica ogni anno un calendario delle semine, basato su effemeridi diverse da quelle astrologiche, nel quale illustra l'esito degli ultimi studi e indica i momenti critici per il buon esito delle operazioni agricole. Secondo i seguaci della biodinamica le tradizionali analisi, basate sul riduzionismo, non permetterebbero di cogliere l'insieme di un fenomeno. Per tali ragioni nella biodinamica, per analizzare una caratteristica definita qualitativa come la “vitalità” (o energia vitale) di un alimento o di un suolo, sono stati messi a punto vari metodi di analisi che si basano sull'osservazione di cromatografie e di cristallizzazioni, ottenute da soluzioni del campione miste a soluzioni reagenti. Le analisi per immagini sono uno strumento di verifica del buon andamento dell'applicazione del metodo biodinamico, che ha come scopo un incremento della qualità e della vitalità del suolo e degli alimenti prodotti. Si tratta tuttavia di analisi prive di alcun riscontro scientifico, ad esempio la cristallizzazione è un processo in larga parte casuale e pretendere di misurare l'energia vitale dall'esame dei cristalli equivale a esercitare un'arte divinatoria; così anche i cosiddetti "biofotoni" sono elementi del tutto sconosciuti alla scienza. In generale non esistono studi che attestino una qualche efficacia delle tecniche biodinamiche[9]. Esistono alcuni studi che espongono risultati favorevoli alla biodinamica, che avrebbero confrontato i metodi di coltivazione di quest'ultima sia con altri metodi di coltivazione biologica, sia con l'agricoltura convenzionale, ma si tratta spesso di studi poco rigorosi e non conclusivi. Uno studio sugli effetti della preparazione biodinamica del compost avrebbe appurato che questo, trattato in modo biodinamico, contiene il 65% in più di nitrati di quello non trattato. Vi sono inoltre significative differenze nella vita microbica, nella temperatura del compost, nella respirazione del biossido di carbonio. Uno studio del 1993 ha confrontato la qualità del suolo e il rendimento economico tra coltivazioni biodinamiche e coltivazioni convenzionali in Nuova Zelanda. Lo studio riporta che "Le fattorie biodinamiche hanno dimostrato in molte fattorie di avere suoli di più alta qualità biologica e fisica: materia organica in quantità significativamente maggiore, migliore struttura del suolo, minore densità di massa, più facile penetrabilità, e una crosta più sottile". Lo studio ha confrontato fattorie biodinamiche con fattorie convenzionali adiacenti, senza tuttavia mirare a confrontare fattorie di grandezza simile, o di similare raccolto. Un ulteriore studio si è occupato di verificare se i preparati biodinamici avessero qualche effetto sulla coltivazione di lenticchia e frumento. Si è trovato che "in generale, il terreno e le coltivazioni trattate con preparati biodinamici mostravano poche differenze rispetto a quelle non trattate". Qualche cambiamento è stato osservato nella chimica dei composti azotati del suolo e dei semi, tuttavia questa differenza non avrebbe - secondo questo studio - nessun significato biologico. La conclusione dello studio nota che "ogni beneficio a breve termine delle preparazione biodinamiche rimane discutibile". Uno studio a lungo termine ha paragonato gli effetti sulla qualità del suolo e delle uve ottenute da vigneti biodinamici rispetto a vigneti coltivati seguendo metodi generali di coltivazione biologica. Dopo i primi sei anni di studio, "non sono state trovate differenze nella qualità del suolo" tra le viti coltivate secondo l'uno o l'altro metodo di coltivazione. Nessuna differenza statisticamente significativa in termini di resa per pianta, numero di grappoli per pianta o peso di grappoli e singoli acini. In un anno particolare, l'uva trattata biodinamicamente ha mostrato un grado Brix significativamente più alto e un numero notevolmente più alto di fenoli e antociani. Lo studio conclude che i preparati biodinamici "possono modificare" la struttura della vite e la sua chimica, ma non hanno nessun effetto a livello dei parametri del suolo e dei nutrienti misurati. In un editoriale, Peter Treue argomentò che simili o del tutto analoghi risultati potevano essere ottenuti attraverso i principi standard dell'agricoltura biologica e che la biodinamica assomigliava all'alchimia o alla magia o alla geomanzia. In un'analisi del 1994 Holger Kirchman conclude che le istruzioni di Steiner sono oscure e dogmatiche tali da non potere contribuire alla realizzazione di una agricoltura alternativa e sostenibile e che le affermazioni di Steiner non sono provabili poiché da esse non è formulabile alcuna chiara ipotesi scientifica. Kirchmann chiosa infine che laddove i metodi biodinamici sono stati testati scientificamente, i risultati non sono affatto convincenti. Nel 2004 Linda Chalker-Scott notò che in molti studi comparativi tra la biodinamica e l'agricoltura tradizionale non si separano i metodi biodinamici da quelli dell'agricoltura biologica. Il termine biodinamica infatti non dovrebbe essere interscambiabile con quello di agricoltura biologica. Linda Chalker-Scott conclude che non c'è alcuna prova che la biodinamica accresca la qualità del cibo.

Agricoltura biodinamica: principi, certificazioni e spiegazione, scrive Claudio Riccardi il 29 gennaio 2013. Andiamo a scoprire insieme i principi dell’agricoltura biodinamica e come si differenzi da quella biologica. Quando si parla di agricoltura biodinamica in realtà si dovrebbe parlare di un ‘modo di fare agricoltura’ dove è tutta la fattoria ad essere un vero e proprio organismo vivente che opera in modo complesso. Piante, terreno e animali sono parte di un unico sistema le cui relazioni si bilanciano tra loro senza bisogno di input esterni, in un ciclo dove tutto rinasce e muore. Si tratta di un metodo che alcuni ritengono ancora più in sintonia con la Natura di quello biologico anche se comunque ne sposa alcuni principi – come il divieto di utilizzo di fertilizzanti e pesticidi di origine chimica – pur differenziandosi per l’uso di preparati particolari a base di erbe e minerali, irrorati sulle piante, e perché segue i cicli lunari sia per la semina che per i lavori nei campi. I principi dell’agricoltura biodinamica sono stati impostati da Rudolf Steiner, filosofo e ideatore anche del metodo educativo di Waldorf. Nel 1924 infatti, il famoso antroposofo tedesco tenne una serie di incontri con degli agricoltori che non erano soddisfatti dei risultati dati dall’impiego di additivi ‘chimici’ per l’allevamento e la coltivazione nelle loro fattorie. Steiner qui formulò in pubblico la sua idea di biodinamica. Il principio base della disciplina nasce dal concetto che la fattoria è un organismo a se stante in cui tutti i suoi abitanti sono sì elementi autonomi ma interconnessi tra loro da relazioni che ne permettono la sopravvivenza reciproca. Su questa base poi le piante, gli animali e lo stesso contadino – ma anche i loro scarti (dalle deiezioni degli animali alle parti della pianta che restano al suolo dopo il raccolto) – concorrono a fertilizzare, nutrire e mantenere in salute l’intero eco-sistema. Gli strumenti utilizzati sono: il calendario lunare; i preparati; la bio-diversità. Pur adottando questi metodi antichi, che da sempre sono utilizzati nei nostri campi, come la rotazione delle colture, le colture di copertura, i metodi di concimazione naturale, i cicli lunari, la biodinamica però si discosta dalla tradizione agricola perché considera fondamentale su tutto l’organismo-fattoria l’influsso di una dimensione cosmica e di conseguenza i preparati, le varietà di piante e le fasi lunari dovrebbero intensificarne gli effetti. L’equilibrio che coinvolge l’organismo-fattoria porta a rispettare il bio-sistema e i suoi organismi, che sono considerati utili, per cui, ad esempio, non esistono piante da eliminare perché infestanti. Steiner ha sviluppato un metodo che ha ricadute anche sul sistema sociale, così la comunità in cui si trova la fattoria diventa anche un nuovo modello culturale di aggregato dove valgono gli stessi principi alla base della biodinamica. I preparati sono gli strumenti fondamentali per fertilizzare il suolo perché capaci di trasferire le forze cosmiche e soprannaturali alla terra. Steiner ne individua 9 tipi di cui dà anche indicazioni specifiche su come devono essere ottenuti. Alcuni studi hanno poi dimostrato che in effetti i micro-organismi e la stessa struttura del suolo sembrano godere di effetti positivi quali maggiore fertilità e bio-diversità, addirittura accelerando la fase di compostaggio, e maggiore stimolo allo sviluppo della crescita delle piante. Tra gli elementi utilizzati per creare questi preparati si contano erbe e minerali già adoperati in fitoterapia come l’achillea, il tarassaco, l’equiseto e la valeriana. E la modalità è simile ai preparati omeopatici, in cui ogni preparato serve per uno specifico processo di decomposizione del suolo e la dose è minima rispetto alla massa dell’organismo da trattare.  Agricoltura Biodinamica e certificazione Demeter: come si differenzia dall’agricoltura biologica. L’Agricoltura Biodinamica ha oltre 80 anni di storia e si affianca ovviamente all’agricoltura Biologica dato che tutti i prodotti dell’agricoltura biodinamica devono anche essere certificati secondi le linee guida dell’Agricoltura Biologica, oltre che possedere una certificazione ad hoc, lo standard Demeter. Esiste oggi un marchio internazionale che certifica la provenienza del cibo da metodi di coltivazione biodinamica, si chiama Demeter, e costituisce l’unica garanzia che un vino, un cereale o un formaggio siano veramente prodotti seguendo i principi di questa ‘filosofia’ della coltivazione. I prodotti biodinamici offrono quindi una duplice tutela per i consumatori in quanto sono controllati sia dagli Organismi di Controllo per il biologico e che dalla Demeter Italia. Seguendo il principio dell’Agricoltura Biodinamica la concimazione, la coltivazione e l’allevamento vengono attuati rispettando e promuovendo la fertilità e la vitalità del terreno e tutelando al contempo le qualità tipiche delle specie vegetali e animali. Sono aboliti l’utilizzo di fertilizzanti minerali sintetici e di pesticidi chimici, e il terreno viene gestito seguendo i cicli cosmici e lunari utilizzando materiali vegetali come fertilizzanti, rotazioni colturali, lotta antiparassitaria meccanica e pesticidi a base di sostanze minerali e vegetali. Ogni azienda agricola biodinamica ideale ha anche un allevamento di bestiame dove il concime prodotto dagli animali va a fornire il fertilizzante, da usare dopo il compostaggio per incrementare la vitalità del terreno.

Qual’è la differenza tra agricoltura biologica e biodinamica? Scrive “Movimento Sereno”. Come anticipato nel mio precedente articolo, cercherò di spiegare, in maniera semplice, le principali differenze tra agricoltura biologica e biodinamica e, per farlo, dovrò cominciare da quest’ultima. L’agricoltura biodinamica nasce ben prima dell’agricoltura biologica, che in sostanza ne è una semplificazione. Il suo ideatore è il famoso Rudolf Steiner, che, sollecitato da un gruppo di alcuni grossi produttori agricoli, preoccupati per la perdita di sapore e di qualità dei propri raccolti, nel lontano 1924 tiene otto conferenze denominate “corso di agricoltura”, nelle quali illustra dei concetti e dei metodi per risolvere i problemi dell’agricoltura. Steiner è lo studioso dell‘antroposofia, che dal greco significa “saggezza umana”, e dà un’impronta scientifico-spirituale alla nascente agricoltura biodinamica. Ora, non voglio addentrarmi nei meriti dell’antroposofia, in quanto sicuramente non ho le adeguate conoscenze per affrontarli (ne conosco solo i principi fondamentali), ma cerco di riassumere, soprattutto dal punto di vista pratico, le operazioni principali che fa l’agricoltore biodinamico. A volte si pensa che l’agricoltura biodinamica e biologica sia quasi un modo di coltivazione spontanea delle colture, senza o con limitati interventi dell’uomo. In realtà proprio nell’agricoltura biodinamica è l’uomo il fulcro principale di tutto che, grazie alla sua capacità anche “spirituale”, coordina le varie forze per la realizzazione della sua azienda agricola. La vera azienda agricola biodinamica (come quella biologica) cerca di limitare la monocultura e integrando più specie coltivate con il bosco, con delle zone con presenza di acqua (esempio laghetti), con l’allevamento, per favorire il giusto equilibrio tra le colture ed il mondo degli insetti, dei microrganismi e della fauna in genere, la quale produce l’alimento per il terreno e per le piante coltivate, limitando così al minimo l’utilizzo di prodotti provenienti dall’esterno dell’azienda. L’azienda agricola diventa come un organismo indivisibile. Infatti come un individuo è indivisibile ed ogni singolo organo partecipa alla funzionalità dell’intero sistema, così, ogni tipo di pianta, di animale dell’azienda agricola partecipano in maniera funzionale ed indivisibile “all’individuo azienda” coordinata dal lavoro non solo fisico dell’uomo. Ma oltre a questo, l’agricoltore biodinamico cerca di attrarre e valorizzare al meglio le forze cosmiche capaci di migliorare notevolmente la qualità dei prodotti agricoli e quindi degli alimenti indispensabili per una corretta crescita dell’individuo non solo materiale. Fondamentale in biodinamica è seguire il calendario delle lavorazioni nel quale sono indicati i giorni favorevoli per determinate operazioni (esempio la semina, la lavorazione del terreno, la potatura etc.) che riguardano una specifica categoria di vegetali. Tutti gli agricoltori sanno, anche se non si studia a scuola, che la luna ha effetti notevoli sulla coltivazione (ma non solo, vedi maree), e l’agricoltore biodinamico oltre a guardare con attenzione le varie fasi della stessa, per le lavorazioni osserva i giorni in cui c’è una maggior influenza dei pianeti favorevoli per la buona riuscita di quel determinato lavoro da eseguire. In poche parole la luna fa da ponte alle costellazioni che ha alle sue spalle, anche molto lontane. Ovviamente non è che tutti gli agricoltori possono diventare degli astronomi, ma cercano di seguire il calendario biodinamico, nel quale sono specificati i giorni ARIA, ACQUA, LUCE e TERRA ossia quando ha maggior effetto quel tipo di lavorazione perchè viene favorita la parte di pianta che interessa nella specifica coltura. Così i giorni acqua favoriscono la parte foglia della pianta, i giorni terra le radici, i giorni aria/luce i fiori ed i giorni luce i frutti. In base a queste indicazioni l’orticoltore ad esempio che vuole coltivare l’insalata sa che deve guardare maggiormente i giorni acqua che hanno maggior influenza sull’organo della pianta “foglia”, in quanto è la parte che interessa maggiormente della coltura (dell’insalata si mangia la foglia). E così per le altre colture come la patata o la carota si farà attenzione ai giorni terra (organo radici), per i pomodori i giorni luce (organo frutti) e i cavolfiori i giorni aria (organo fiori). Un’altra differenza importante tra agricoltura biologica e biodinamica è che questa prevede l’utilizzo di alcuni preparati a base minerale, vegetale e animale detti “preparati biodinamici”. Questi preparati si dividono in due gruppi, i preparati da spruzzo e i preparati da cumulo. I primi sono utilizzati sciolti in acqua dinamizzata e distribuiti nel terreno o direttamente nella pianta, gli altri vengono utilizzati nei cumuli di sostanza organica per migliorarne la qualità ed il grado di umificazione. Questi preparati vengono utilizzati in dosi quasi omeopatiche e quindi, contengono pochissime sostanze al di fuori dell’acqua. Ma, come per l’omeopatia il cui successo è sempre più riconosciuto, sembra che il loro utilizzo migliori notevolmente sia il terreno che la pianta, incrementando la produzione e soprattutto la qualità.

I due principali preparati da spruzzo sono:

-  il cornoletame (o 500): si tratta di letame di mucca maturato e conservato in modo specifico e che, una volta “pronto”, si distribuisce diluito in acqua tiepida accuratamente dinamizzata, direttamente sul terreno, in gocce piuttosto grossolane (tipo pioggia). La sua funzione principale è quella di migliorare l’attività microbica del terreno favorendo quindi i processi di umificazione della sostanza organica.

- il cornosilice (o 501): è un impasto costituito da una polvere di quarzo purissimo frantumato ed acqua, opportunamente conservata in modo specifico e che, una volta pronta, si distribuisce dopo averla   diluita in acqua dinamizzata, direttamente sulle piante, migliorandone la capacità di assorbimento della luce e la qualità dei frutti.

Ci sono altri preparati, i così detti preparati da cumulo, che derivano da alcune piante (achillea, camomilla, ortica, tarassaco e valeriana) che hanno particolari proprietà e che, una volta preparate e conservate in modo adeguato, vengono introdotte all’interno del mucchio (cumulo) di sostanza organica (in genere letame di mucca) e ne migliorano sia la qualità sia il processo di umificazione. Ma vorrei parlare soprattutto dell’effetto che questi preparati hanno sulle colture. Si sono fatti vari studi, sia in Italia che all’estero e soprattutto in Svizzera. I risultati sono sorprendenti, si è visto ad esempio come l’apparato radicale delle piante poste in terreni ripetutamente irrorati con il preparato 500 sia notevolmente aumentato. La maggior quantità di radici fini e profonde (rispetto alle coltivazioni convenzionali o biologiche) ha garantito un miglioramento della capacità di penetrazione ed esplorazione del terreno da parte delle piante. Si è notato l’aumento di reattività enzimatica nei terreni trattati con il 500, la qualità degli alimenti e soprattutto il gusto ed il sapore (è’ stato sperimentato con gruppi di degustatori che alla cieca hanno sempre preferito i frutti da agricoltura biodinamica invece che gli stessi prodotti derivanti da agricoltura biologica o convenzionale). In altri esperimenti anche i topi hanno preferito alimentarsi dei semi ottenuti da piante coltivate secondo il metodo biodinamico rispetto a sementi coltivate secondo i metodi convenzionali. Si è visto anche che la conservazione dei prodotti biodinamici è di gran lunga migliore rispetto a quelli biologici. La biodinamica è molto più complessa dell’agricoltura biologica, ne è la madre ed anche la fonte ispiratrice. Una cosa è certa, la diffusione di entrambi questi sistemi di coltivazione innalzerebbe notevolmente sia la qualità della vita che la salvaguardia dell’ambiente. Ultime ricerche: Vista l’esigenza sempre più forte di un’agricoltura specializzata, che ha portato alla monocultura e alla mancanza di allevamenti nelle aziende agricole, l’ “agricoltura naturale” ha cercato di concentrare gli studi sull’utilizzo dei prodotti vegetali di scarto al posto di quelli animali. Una pratica davvero interessante è quella di raccogliere i sarmenti o tralci di potatura dei frutteti o dei vigneti, di accumularli in modo adeguato mantenendo il giusto grado di umidità, in modo da favorire il lavoro di alcuni microrganismi specifici responsabili della loro decomposizione. Una volta raggiunto il giusto grado di decomposizione o trasformazione e distribuiti nel terreno, apportano sostanza organica ricca di carbonio e non più di azoto come avviene nel caso di utilizzo degli escrementi animali. Ciò favorisce l’aumento del sapore dei frutti, l’equilibrio vegeto - produttivo delle piante, la sanità delle stesse, la vita microbica del terreno. In questi ultimi anni inoltre, molti ricercatori stanno approfondendo sempre più gli studi sull’utilizzo dei così detti microrganismi utili. Una volta moltiplicati in un determinato substrato (esempio farine di farro e avena con acqua e tisane di specifiche erbe, o melassa, oppure semplice terra), questi microrganismi vengono spruzzati direttamente sulle piante coltivate, e poichè appartengono alla stessa famiglia di lieviti e batteri responsabili delle principali malattie, ne bloccano lo sviluppo perchè si nutrono delle stesse sostanze. E’ il così detto fenomeno della prevalenza, ma non solo, alcune ricerche mettono in evidenza come solamente il 15% di microrganismi detti “DOMINANTI” riescono ad influenzare il rimanente 85 % di microrganismi facoltativi o “opportunisti”. Quindi distribuendo pochi di questi microrganismi utili dominanti si ha un effetto su tutti gli altri, anche quelli più nocivi presenti nelle piante o nel terreno.  Molti viticoltori hanno provato questi prodotti per il controllo dell’oidio della vite ed i risultati ottenuti sono davvero straordinari. La divulgazione di questi metodi, opportunamente supportati da continui studi e ricerche, eviterebbe l’utilizzo anche di rame e zolfo, unici trattamenti “chimici” autorizzati (se pur con limitazione) dall’agricoltura biologica e biodinamica . A cura di Alessandro Filippi enologo-consulente vitivinicolo, specializzato in agricoltura biologica-biodinamica e vinificazioni naturali.

Giulia Maria Crespi: «Colture biodinamiche spaventano i poteri». La presidente del Fondo Ambiente Italia (Fai): «So che andiamo a incidere su poteri forti e una parte di Accademia italiana ci boicotta. Dicono che facciamo stregonerie», scrive Simona Brandolini il 12 novembre 2016 su "Il Corriere della Sera”. «Sono una donna libera, ma anche schiava delle cose in cui credo», un manifesto politico quello di Giulia Maria Crespi, fondatrice del Fai e «agricoltore da 50 anni». Ambientalista, da tempo è paladina della biodinamica, che fonda le proprie radici nell’antroposofia di Rudolf Steiner e per questo vista con sospetto da pezzi di Accademia italiana. «Più che sospetto direi che ci attaccano e boicottano, ma io ne rido», precisa. Le strade del Fai e della biodinamica hanno corso parallele nella vita della signora Crespi, per poi incrociarsi. I tanti terreni gestiti dal Fondo ambiente Italia verranno, col tempo, convertiti ai principi steineriani. «Perché tutto è collegato nella vita. E l’Italia è quella rappresentata dal dipinto del Buon governo nel Palazzo ducale di Siena: da una parte la città, con le chiese, le torri, dall’altra la campagna, le case coloniche, i contadini al lavoro». Giulia Maria Crespi si riposa, sorseggiando una tisana, in una sala del complesso monumentale Donnaregina a Napoli dove si è tenuta la due giorni «Per la Rinascita del Sud: le nuove frontiere dell’agroecologia».

Cosa unisce la sua battaglia per la salvaguardia del patrimonio artistico italiano con l’impegno per un’agricoltura ecologica?

«Agricoltura è paesaggio, che vuol dire biodiversità, tener viva la natura. Vuol dire anche resistere alla cementificazione selvaggia, lavorare contro il dissesto idrogeologico e anche prevenire i danni causati dai terremoti mettendo in sicurezza questi meravigliosi borghi e i loro beni artistici. E vuol dire turismo, cucina, artigianato. Tutto è collegato, sempre».

Vuol dire quindi economia e occupazione?

«Certo. Prendiamo il Sud, è pieno di terre abbandonate in zone bellissime, la percentuale di disoccupati è altissima, chi lavora spesso viene pagato in nero oppure per pochi euro al giorno e ci sono centinaia di extracomunitari rinchiusi, inutilizzati, e il fare nulla porta alla delinquenza. Le aziende biodinamiche occupano molte più persone rispetto a quelle destinate alle monocolture. Nella mia, Cascina Orsine, lavorano 30 persone per 600 ettari, se avessimo monocolture ne impiegheremmo 5 o 6».

Secondo il piano strategico del ministro dell’Agricoltura, Maurizio Martina, sul biodinamico ci dovrebbero essere un «approfondimento professionale e sperimentazione in due atenei» e la «costituzione di un comitato permanente di coordinamento per la ricerca». Ma lei lo ha criticato perché assente al convegno di Napoli.

«Un caso strano, vero? Un virus ha fatto ammalare un ministro, un viceministro e il rettore della Federico II. E, in nome di questo virus, sono stati invitati alcuni oratori della facoltà di Agraria a non partecipare a questo convegno. Sono grata ai partecipanti che non si sono ammalati».

La biodinamica è osteggiata perché non si baserebbe su criteri scientifici, questa è l’accusa. Lei cosa risponde?

«Ci attaccano, ma io rido. So che andiamo a incidere su poteri forti e una parte di Accademia italiana ci boicotta. Dicono che facciamo stregonerie. Noi al contrario da tempo chiediamo invece che si faccia ricerca su questo settore».

Cosa pensa, invece, della riforma museale del ministro Dario Franceschini? Va nella direzione giusta?

«È servita a dare respiro ai musei, ma c’è anche molta confusione nelle sovrintendenze: ruoli non chiariti, assenza di personale e strumenti. In queste condizioni è difficile che cambi qualcosa strutturalmente».

LA FABBRICA DEL VINO.

Presa Diretta in onda il domenica 21 febbraio 2016 alle 21:45. LA FABBRICA DEL VINO. Un'industria da 9 miliardi e mezzo di fatturato all’anno, la concorrenza sui prezzi al consumo, la contrapposizione tra piccoli e grandi produttori, tra aziende artigianali e marchi industriali. Quanto pesano gli interessi di un settore industriale così importante sulla qualità e sulle caratteristiche del vino che arriva sulle nostre tavole? Quasi 50 milioni di ettolitri prodotti ogni anno. Sempre più terra dedicata alla coltivazione intensiva della vite e il mercato che spinge per aumentare la produzione per ettaro. E l'uso dei fitofarmaci nei vigneti in che modo impatta sulla nostra salute? Le telecamere di PRESADIRETTA hanno viaggiato da nord a sud per capire cosa c'è davvero nel vino che beviamo. Sono circa 60 le sostanze consentite dalla legge che si possono usare nella preparazione del vino seguendo le indicazioni di vere e proprie ricette. Lieviti, fermenti, tannini, stabilizzanti, correttori di acidità, chiarificanti.

Presadiretta e la Fabbrica del Vino: per fortuna non è stata la replica di Report sulla pizza, scrive Luciano Pignataro il 22 febbraio 2016. La Fabbrica del Vino su Presadiretta? Ok, Raffaella Pusceddu non è Bernardo Iovene o Stefano Maria Bianco e, soprattutto Massimiliano Montes (medico ed esperto) non è Pagano Vincenzo (l’assaggiatore autocertificato amico di Iovene), ma il timore che la Fabbrica del Vino fosse la replica di Report sulla pizza e sul vino o di Servizio Pubblico sulla mozzarella c’era. La stampa specializzata guarda sempre con fastidio a queste incursioni della generalista ed è per questo che quando ci sono casi, in un qualsiasi settore, il pezzo principale viene assegnato ad un cronista. Esemplare come i media tradizionali hanno affrontato lo scandalo delle auto truccate dello scorso anno. In effetti il rischio cazzata è sempre dietro l’angolo, però in questa puntata la Pusceddu ha detto molte banalità ma nessuna imprecisione. Banalità poi per gli addetti ai lavori ma non per il grande pubblico al quale la comunicazione del vino non riesce ad arrivare perché succube di cenacoli esclusivisti autoconsegnatisi nelle cripte. Presadiretta sulla Fabbrica del Vino invece ha fatto un po’ di generalizzazioni (avvicinare lo scandalo di Montalcino, peraltro vecchio, al kit del vino significa solo cercare l’effetto) ma alla fine, sì, secondo me ha centrato la questione di fondo che riguarda il vino e tutte le produzioni agroalimentari di successo in Italia. Ossia la spinta alla superproduzione quantitativa piuttosto che all’apprezzamento del valore della singola bottiglia. E’ un po’ l’eterno scontro italiano fra industria e artigianato, in cui alla fine ciascuno dei due modi di essere ha bisogno dell’altro ma che non riescono da noi a convivere perché vogliono imporre il proprio modo di vedere la cosa anche all’altro arrivando alle crociate etiche, tipiche di un Paese che mantiene forte il sottofondo cattocomunista anche se di cattolici e ancora meno di comunisti, ne sono rimasti pochi. In fondo è la immaturità commerciale che crea confusioni tra docg, doc e igt mentre in Francia la gerarchia, anche a livello di prezzi, è abbastanza chiara (come del resto fra i tre stellati e il resto), la stessa immaturità che vuole mettere merlot nel sangiovese e la stessa immaturità che porterà prima o poi alla docg Italia Prosecco di Valdobbiadene visto che questo prodotto si sta spandendo a macchia d’olio. In poche parole è come se fossimo attraversati da uno stabile senso di precarietà che tende a sfruttare il momento invece di costruire imprese in grado di superare sia i momenti espansivi che quelli di crisi. Questo tema riguarda tutto, ad esempio la mozzarella che nonostante veda il comparto crescere a ritmi asiatici negli ultimi anni mentre quasi tutti gli altri consorzi sono in difficoltà. Io non penso che grande sia cattivo e piccolo sia buono. L’esempio della pasta è chiaro: abbiamo il migliore livello al mondo sui grandi numeri e la migliore eccellenza al mondo di artigianato. Presadiretta sulla Fabbrica del Vino invece ci fa riflettere proprio su questo: che per vendere di più molte grandi aziende (anche però tante medie e piccole) usano prodotti legali ma le cui conseguenze sull’ambiente e sulla salute non sono positive. E’ bello vedere il Prosecco sbancare, ma è proprio necessario arrivare a un miliardo di bottiglie? E qual è il prezzo che si paga per questo obiettivo? Quando si spinge solo sul contenimento dei costi il risultato è evidente: ad una crescita repentina segue il calo, non a caso in Australia, ossia il modello del vino omologato a prezzi bassissimi che ha tanto colpito sul mercato americano, ora le viti si spiantano. Però, su una cosa dobbiamo chiarirci bene: quello che fa più male di tutto nel vino è la sua stessa ragion d’essere, ossia l’alcol. Ecco perché a me tante discussioni sui solfiti e dintorni fanno un po’ sorridere. Il nocciolo del vino è che non è salutare ma fa bene perché è buono. E da sempre, per resistere in questa valle di lacrime, ci ha aiutato a stare meglio. E far star bene l’animo è molto più importante di far star bene il corpo, anche se in questa epoca di estetica senza etica, di questi muscoli esibiti senza progetto, è difficile da capire.

Presa Diretta e la fabbrica del vino italiano: cosa ci è piaciuto e cosa no, scrive Antonio Tomacelli il 22/02/2016. Pretendere che una giornalista possa discettare contemporaneamente di vino e stepchild adoption è forse chiedere troppo, ma queste inchieste della tivù generalista hanno una loro utilità perché ci aiutano a vedere il nostro pollaio da una certa distanza. Al netto di qualche imprecisione e confusione d’intenti vediamo, a mente fredda, cosa ci è piaciuto e cosa no.

Cosa non ci è piaciuto: Brunellopoli again, se ne poteva fare a meno ma ormai anche in tivù si va avanti a tag che portano accessi. Doppio salto mortale e si passa alle commissioni di assaggio delle doc. L’intervista a Franco Maria Ricci e Daniela Scrobogna non chiarisce che la doc non è certificazione di qualità ma di territorio. Se poi in commissione viene bocciato un vino perché poco aderente a quelle quattro cazzate organolettiche uguali per tutti i disciplinari, poco importa agli ascoltatori. Il colpo di grazia alle denominazioni di origine controllata arriva dai transfughi del consorzio dell’Oltrepò pavese, fuoriusciti perché la cantina cooperativa spadroneggiava e giocava con i registri di carico e scarico. Sappiamo com’è finita ma sarebbe stato bello intervistare qualche presidente di consorzio di quelli che funzionano ma, si sa, il contraddittorio richiede tempo e di tempo, in tivù, non ce n’è. Altro salto doppio carpiato e si vola in Toscana a far le pulci al Chianti a due euro senza che nessuno accenni alle rese per ettaro che possono variare eccome. Possibile che nessuno abbia spiegato alla giornalista Raffaella Pusceddu che da un ettaro di vigneto puoi tirar fuori un numero di bottiglie variabile da 3.000 a 12.000? Evidentemente no, e questo è uno dei punti cardine di tutta la trasmissione: a dispetto di tutte le chiacchiere sulla comunicazione, i produttori di vino sono, sì e no, alla terza elementare mentre il resto del mondo è già al suo terzo master. Aggiornatevi, per dio, o il mondo del vino è destinato all’estinzione. Smettetela di riempirvi la bocca di tecnicismi che nessuno capirà e spiegateci il vino come se fossimo dei bambini di cinque anni. O delle giornaliste di Rai3. Tralascio per carità di patria il teatrino sul wine kit che, ormai, è come il culo di Belen: alza l’audience e poco altro.

Cosa ci è piaciuto: Buona e ben documentata la parte sui fitofarmaci e sul loro uso francamente eccessivo ma non si può fare di tutta una vigna un fascio. C’è chi, all’interno di ogni denominazione, si spacca la schiena e il portafoglio per evitare al minimo gli interventi chimici ma a far notizia sono gli elicotteristi che diserbano colline manco fossimo in Vietnam. C’è vita oltre quelle colline (e quegli abitanti) inondate dai veleni? Sì, c’è, ma fa fatica ad emergere. I produttori virtuosi sono ancora una minoranza in tutte le denominazioni e guardarli con sospetto non giova a nessuno. La speranza è che qualcuno del consorzio si renda conto che la scelta ecosostenibile paga in termini di immagine e vendite. Chiedere alla Franciacorta che si appresta a rendere obbligatoria la certificazione biologica per tutti gli associati.

Conclusioni: Il pollaio, ieri sera, è stato visitato dalle volpi. C’è stata una mezza strage che, speriamo, servirà di lezione a tutti ma non biasimo le volpi che, in definitiva, fanno bene il loro mestiere. I polli, invece, hanno ancora molto da imparare e non basterà una recinzione più forte a salvarli. Servono strategie, programmi e una diversa coscienza sociale, di quelle che vanno ben oltre il profitto calcolato dal business plan del vostro commercialista pratico di paradisi fiscali e poco altro. Servono contadini, con le scarpe grosse, il cervello fino e tanto, tanto coraggio.

Report indaga sul Prosecco. Il Consorzio si difende (prima della messa in onda di Lunedì 14 novembre), scrive "Oggi Treviso" l'11/11/2016. “Ogni giorno nel mondo si stappano un milione di bottiglie di prosecco. Quindi in Veneto conviene trasformare le zone edificabili in agricole perché coltivare il prosecco conviene di più. E poi come in tutte le cose c’è il rovescio della medaglia”. Indaga proprio su quel rovescio, Report, trasmissione televisiva di Rai 3 che nella puntata di lunedì 14 novembre porterà gli spettatori alla scoperta dei colli di Conegliano e Valdobbiadene dove si coltiva un’uva che vale più dell’oro. E dove i residenti, da anni, combattono e protestano contro ciò che li costringe a chiedersi in casa e, in casi estremi, a trasferirsi: l’uso dei fitofarmaci. Il rovescio della medaglia. Occhi e telecamere di Report sono arrivati nella terra del Prosecco la scorsa estate. E la troupe, composta Bernardo Iovene e Carla Falzone, ha bussato alla porta del Consorzio del Prosecco a Treviso per un’inchiesta a tutto campo sugli aspetti commerciali, economici ed ecologici a fine ottobre. Il Consorzio di Tutela del Prosecco Doc fa sapere di essersi “messo a disposizione dei giornalisti, sottolineando come sostenibilità, lotta ai fitofarmaci e difesa del territorio siano una priorità nel calendario delle attività già da tempo in programma”. Ma - la difesa preventiva lo dimostra - non è di certo tranquillo: “Sono convinto - ha dichiarato al Gazzettino il presidente del Consorzio Innocente Nardi - che qualcuno sta cavalcando la questione a fini politici”.

LA FRAZIONE DI PROSECCO di Bernardo Iovene - Report, puntata del 14/11/2016. Nella zona Doc e Docg si producono circa cinquecento milioni di bottiglie di Prosecco, un successo mondiale del vino storicamente prodotto in Veneto, tra Conegliano e Valdobbiadene. Ma lo spumante che oggi viene bevuto nel mondo prende il nome da Prosecco, una piccola frazione che nasce sul costone carsico del comune di Trieste. Dal 2009 un decreto ministeriale ha stabilito che l’uva chiamata prosecco per legge sin dal 1969 dovesse cambiare nome e diventare glera. Il cambio di denominazione venne definito dai produttori locali un’operazione intelligente. Dal giorno dell’entrata in vigore del regolamento, infatti, al di fuori dalle nove province a cavallo tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, nessuna azienda ha mai più potuto produrre spumante da quel vitigno e venderlo con l’etichetta di “prosecco”. L’enorme richiesta di mercato e il business delle bottiglie in crescita hanno inevitabilmente determinato un’espansione delle vigne in tutto il Veneto, e il rovescio della medaglia sono le colture intensive, con trattamenti spinti, che arrivano a ridosso di case, scuole, strade. Quello che si è rivelato un affare per i veneti, per gli abitanti di Prosecco invece si è trasformata in una beffa. Nella frazione triestina che si trova sull’altopiano carsico, coltivare la vite è complicato. Per questo, i viticoltori di Prosecco nel 2009 hanno chiesto dei finanziamenti per avviare i vigneti sul loro territorio. A oggi il protocollo di intesa che hanno firmato in cambio dell’utilizzo del nome con il ministero e la Regione è stato disatteso. Per questo gli abitanti di Prosecco chiedono delle royalty su ogni bottiglia venduta altrimenti sono pronti a fare battaglia per impedire da parte di altri l’utilizzo del nome della loro frazione.

La guerra del Prosecco. Report scopre che non è sempre bio. Ogni giorno nel mondo si stappano un milione di bottiglie di prosecco. Un affare da 2 miliardi l'anno. Da anni c'è dietro una guerra silenziosa. E Report scopre una biotruffa, scrive Bernardo Iovene il 13 novembre 2016 su "Il Corriere della sera". Nella zona Doc e Docg si producono circa cinquecento milioni di bottiglie di Prosecco, un successo mondiale del vino storicamente prodotto in Veneto, tra Conegliano e Valdobbiadene. Ma lo spumante che oggi viene bevuto nel mondo prende il nome da Prosecco, una piccola frazione che nasce sul costone carsico del comune di Trieste e che invece è stato strategico per far ottenere al vino la "denominazione". Dal 2009 il ministro veneto Zaia con decreto ministeriale ha stabilito che l’uva chiamata prosecco per legge sin dal 1969 dovesse cambiare nome e diventare glera. Il cambio di denominazione venne definito dai produttori locali un’operazione intelligente. Dal giorno dell’entrata in vigore del regolamento, infatti, al di fuori dalle nove province a cavallo tra Veneto e Friuli Venezia Giulia, nessun altro al mondo ha mai più potuto produrre spumante da quel vitigno e venderlo con l’etichetta di “prosecco”. L’enorme richiesta di mercato e il business delle bottiglie in crescita hanno inevitabilmente determinato un’espansione delle vigne in tutto il Veneto, e il rovescio della medaglia sono le colture intensive, con trattamenti chimici, che vengono spruzzati a ridosso di case, scuole, strade. Nel corso dell'inchiesta Report ha anche scoperto che su 4 coltivatori bio, uno nasconde anche una biotruffa. Quello che si è rivelato un affare per tutto il triveneto, per gli abitanti di Prosecco, che hanno dato il nome al vino più venduto al mondo invece, si è trasformata in una beffa. Nella frazione triestina che si trova sull’altopiano carsico, coltivare la vite è complicato. Per questo, i viticoltori nel 2009 hanno chiesto dei finanziamenti per bonificare i terreni e avviare la coltivazione di uva prosecco anche sul loro territorio. Ma ancora oggi il protocollo di intesa che hanno firmato in cambio dell’utilizzo del nome con il ministero e la Regione è stato disatteso. Per questo gli abitanti di Prosecco chiedono delle royalty su ogni bottiglia venduta altrimenti sono pronti a fare battaglia per impedire da parte di altri l’utilizzo del nome della loro frazione.

Il duello sul nome del Prosecco. La contrada omonima sul Carso reclama quota sul ricco business. Le bollicine più alla moda e l’inchiesta di «Report». Tra prezzi stracciati e accuse sui pesticidi è scontro pure sul nome. Un giro d’affari da due miliardi di euro, scrive Gian Antonio Stella il 13 novembre 2016 su “Il Corriere della Sera”. La bolla delle bollicine rischia di venir bucata? Dopo le polemiche tra gli stessi viticoltori sull’eccesso di produzione di prosecco, che ha inondato il pianeta, «Report» lancia due sassate. Sull’abuso di pesticidi utilizzati per le ormai sconfinate distese di vigneti. E sul nome stesso di quello che oggi è il vino più «alla moda» del mondo: gli abitanti della contrada triestina di Prosecco, che grazie al «loro» toponimo hanno permesso di strappare all’Europa il divieto per chiunque altro di incollare sulle bottiglie l’ambitissima etichetta, sbuffa perché vorrebbe avere almeno una fettina del business da due miliardi di euro. Pretesa cui i padroni del Prosecco rispondono a muso duro: mai. Le accuse ai produttori sui pesticidi, liquidate come «puttanate» dal presidente del settore vitivinicolo di Confcooperative Corrado Giacomini, non sono inedite. I giornali locali, i social network, vari comitati di cittadini battono e ribattono da anni. Le testimonianze raccolte da Bernardo Iovene e Carla Falzone per la trasmissione di Milena Gabanelli, in onda oggi su Rai3, però, tolgono il fiato. E a dispetto delle parole delle autorità sanitarie per le quali «il notevole uso di prodotti fitosanitari in questa Ulss non ha comportato comunque un aumento delle patologie», le immagini seminano dubbi e inquietudini. Completamente circondato da filari di viti che un tempo (quando non occupavano ogni centimetro quadrato) erano cantati da Andrea Zanzotto come una «cartolina degli dei», l’ingegner Luciano Bortolamiol si è barricato in casa con le finestre chiuse e un sistema di filtri e bocchettoni che gli puliscono l’aria. Deve difendersi dai trattori che passano su e giù spargendo nuvole di pesticidi: «La nebulizzazione arriva soprattutto la sera, quando il vento viene dalla pianura verso la collina. E qua si crepa». Daniela Castiglione, mentre il reporter mostra Farra di Soligo dove le case sono disabitate perché «le famiglie che abitavano in questo borgo sono andate via», spiega: «Su sei famiglie due morti di tumore alle ovaie, due con endometriosi e un Parkinson. E un altro tumore ai bambini». E accusa: «Qui sotto è pieno di falde acquifere inquinate. Ho visto coi miei occhi lavare le taniche dei prodotti nell’acqua. Mentre passano le mamme con i passeggini irrorano. L’ho visto io, miliardi di volte. Ho abitato 15 anni qua. La zona qui dietro era tutto bosco. Piano piano è stata disboscata. Qui c’era biodiversità, qui c’era il gelso. C’era il mais. C’erano i pascoli. C’erano gli alberi da noce». Adesso solo vigne, vigne, vigne. Per carità, Dio benedica il Prosecco che ha permesso alla gente di Valdobbiadene, di Follina, di questi colli ancora qua e là meravigliosi di lasciarsi alle spalle l’emigrazione, la disoccupazione, la miseria. Come quella raccontata dal medico di Conegliano Luigi Alpago Novello agli sgoccioli dell’800: «Gli individui di una famiglia di contadini son valutati in ragione dell’utile che apportano. La morte di quelli che sono impotenti o poco adatti al lavoro o giacciono a letto da qualche tempo è un fatto che ha minore importanza e cagiona molte volte minor dolore della morte, non dirò di un grosso animale bovino, ma di una semplice pecora». È stato una fortuna, il boom del Prosecco. Che perfino nel 2012, anno di lacrime e suicidi per l’imprenditoria italiana e veneta, mostrò un aumento sbalorditivo del 15% dell’export e permise a migliaia di famiglie di respirare. Ma come un eccesso di capannoni sfregiò l’entusiasmante successo imprenditoriale del Nordest, gli eccessi della monocultura del Prosecco dovrebbero far riflettere i cantori del trionfo delle bollicine venete. Stando ai dati ufficiali raccolti da «Report», nel 2015 ben 15 mila aziende e 527 cantine sparse nelle province di Treviso, Padova, Vicenza, Belluno, Venezia, Pordenone, Udine, Gorizia, Trieste, hanno prodotto 438.698.000 bottiglie per un fatturato di due miliardi e 100 milioni di euro. Evviva. Si tratta, però, di meno di cinque euro a bottiglia: se c’è chi le vende a venti euro, c’è chi le svende online a un euro e 80 centesimi. Ne vale la pena? Vale la pena di infettare il buon nome di un grande vino per l’ingordigia di qualche bulimico imprenditore gettatosi negli ultimi anni ad arraffare ettari e ettari di terreni anche dove mai nei secoli si era fatto Prosecco con la ferma intenzione di fare soldi, soldi, soldi e scartando a priori i metodi «bio» perché spargere veleni chimici (magari nei limiti generosamente fissati dalla legge: ma chimici) costa di meno? Con le «irroratrici» i trattamenti delle vigne, spiega Bernardo Iovene, «sono permessi fino a 20 metri da strade e case nel periodo estivo e a 30 metri in primavera». Lo stesso reportage, però, mostra come le prescrizioni siano troppo spesso violate. Ai danni dei produttori più seri, che finiscono per essere messi nel mazzo, ma soprattutto dei cittadini che vivono lì. Bambini delle materne compresi: «Spruzzano le viti ogni tre, quattro giorni. Indifferentemente se i bambini sono fuori o no. Sabato hanno buttato il diserbante», racconta Alina, «Si sentiva un odore molto strano in gola e un fastidio agli occhi…» Una signora sospira: è assediata da quattro diversi proprietari che innaffiano in quattro giorni diversi: «Dovremmo tenere dentro i bambini per quattro giorni a settimana, non aprire le finestre per quattro giorni a settimana, non stendere il bucato per quattro giorni a settimana…». Un incubo. Sullo sfondo incombe un altro nuvolone. Nel 2009, per non correre il rischio che altri cercassero di abbeverarsi alla fonte d’oro, l’allora ministro dell’agricoltura Luca Zaia ebbe una pensata: legare il nome del vino a un luogo fisico che inchiodasse la Ue a riconoscere quel vino come unico e inimitabile. C’era, un po’ fuori mano, la frazione di Prosecco. Sul Carso. «Il problema è che loro hanno un vitigno che si chiama Glera», spiega Milena Gabanelli nel servizio, «ma qui entra in azione il grande genio di Zaia, che stabilisce per decreto che Glera è sinonimo di Prosecco, Prosecco non è più il nome di una vite, ma di un posto, e quindi bisogna tirarlo dentro, estendendo le zone di produzione dalle colline di Treviso fino alla Venezia Giulia passando dalle lagune…». Una furbata, per i critici. Intelligenza, per i produttori. Fatto sta che, a distanza di anni, la gente di Prosecco dice di non aver avuto quanto concordato. E pretende l’1% di copyright. Tanti soldi, su un fatturato di due miliardi: «Sennò ci riprendiamo il nome». I veneti, per ora, rispondono marameo. Certo, se dopo il Tocai (oggi ungherese: esclusiva) dovessero perdere pure il Prosecco… 

I CIBOMANIACI.

Bacche, birra e spezie Così ci si cura mangiando, scrive Barbara Giglioli, Sabato 26/10/2013, su "Il Giornale". Se «siamo ciò che mangiamo» allora siamo «mediterranei». E non è un gioco di parole tra dieta e provenienza geografica. «Dieta mediterranea» è ormai sinonimo di mangiar bene e in maniera equilibrata, tant'è che con il cibo ci si può anche curare. Non hanno i dubbi i nutrizionisti che credono nella genuinità della cucina italiana e nell'importanza della stagionalità dei prodotti e ne parlano i dietologhi che prendono spunto per regimi alimentari sempre più improntati al salutismo. Ma soprattutto se ne sono accorti gli chef. Il che vuol dire coniugare i cibi curativi al gusto. Specialista in questa ricerca è ad esempio David Gallantini, chef stellato e curatore della parte gastronomica del dodicesimo Congresso Simit (dal 27 al 30 ottobre al San Raffaele) sulla cura delle malattie infettive e tropicali. Un'alimentazione ricca di frutta, verdura e cibi con pochi grassi, favorisce la longevità: «Non è necessario diventare vegetariani- dice lo chef- ma ridurre il consumo di carne sì». Gallantini spiega: «Ormai mangiare le cose giuste per ogni stagione si può ritenere efficace quanto certi farmaci per la prevenzione». Ci sono cibi anti-infarto, che contengono Omega 3, come i pesci azzurri, le noci, l'olio, i semi di lino e il tofu di soia. Tali alimenti contrastano l'accumulo di colesterolo cattivo e favoriscono il mantenimento di quello buono. Stessa cosa anche per il vino, all'interno del quale c'è il resveratrolo. I nonni lo insegnano: «Un bicchiere di vino al giorno fa sangue». Un luogo comune da sfatare è il fatto che la frutta secca faccia male. Al suo interno sono presenti i fitosteroli, che riducono l'assorbimento del colesterolo. Gallantini svela poi: «Il cancro si previene anche a tavola attraverso cibi che aiutano l'organismo a liberarsi dalle scorie». È bene quindi mangiare frutta, verdura e cereali integrali perché ricchi di antiossidanti e di fibre. È sempre meglio sostituire il pane bianco con quello integrale, che allontana le allergie anche nei bambini. I pomodori, poi, contengono il licopene, che aiuta a bloccare il processo di mutazione delle cellule cancerogene, soprattutto se in cottura e in presenza di olio. Per quanto riguarda poi la frutta e la verdura ci sono molti alimenti che fanno bene. I broccoli sono ottimi per la prevenzione del cancro al seno, al colon e al retto. Le mele sono ricche di pectina, che fermentando produce l'acido butirrico. Inoltre secondo alcuni studi il luppolo è in grado di contrastare la proliferazione dei vasi sanguinei che «nutrono» i tumori. Per gli amanti del pesce crudo, c'è una sorpresa: è ottimo contro il tumore ai polmoni, grazie al contenuto di Omega 3. In Giappone, patria del sushi e del sashimi, infatti, questa tipologia di cancro è rarissimo. Sempre per gli estimatori della cucina orientale anche il curry ha ottime proprietà: il curcumino (il suo pigmento giallo) potrebbe perfino contrastare l'insorgere delle malattie neurovegetative, prima tra tutte l'Alzheimer. Infine un'ultima dritta per le signore e anche per i più vanesi degli uomini. Le mele e la birra aiutano a conservare le chiome fluenti. Le armi vincenti sarebbero i fitormoni del luppolo e la vitamina B2 delle mele, che è un potente anticaduta e anti-grigio. A ognuno la propria pillola, dunque. Curarsi non è mai stato tanto dolce.

La crisi a tavola: crolla il consumo di carne, frutta, verdura e pesce, scrive il 26 ottobre 2016 "Sky Tg 24". Uno studio del Censis sottolinea come le differenze sociali stiano tornando a riflettersi anche in ciò che si mangia. Nel periodo 2007-2015 la spesa alimentare delle famiglie italiane è diminuita in media del 12,2%. Gli italiani che mangiano carne, pesce, frutta e verdura sono sempre meno. E le differenze di ceto sociale tornano a riflettersi in tavola. È quanto emerge da uno studio del Censis, presentato al Senato, intitolato: “Gli italiani a tavola: cosa sta cambiando. Il valore sociale dell'alimento carne e le nuove disuguaglianze”. Giù consumo carne, pesce, frutta, verdura - Secondo la ricerca, sono 16,6 milioni gli italiani che nell’ultimo anno hanno ridotto il consumo di carne, 10,6 milioni quello di pesce, 3,6 milioni quello di frutta e 3,5 milioni quello di verdura. Questi alimenti, nella maggior parte dei casi, sono stati “sostituiti con prodotti artefatti e iper-elaborati a basso contenuto nutrizionale”: un’abitudine che, come spiega Massimiliano Valerii, direttore generale del Censis, “minaccia la dieta mediterranea e mette a rischio la salute”. Social food gap - Stando ai dati Censis, che parla del fenomeno come “social food gap”, sono le famiglie meno abbienti a ridurre di più gli alimenti di base della dieta mediterranea. Alcuni esempi: ha ridotto il consumo di carne il 45,8% delle famiglie a basso reddito contro il 32% di quelle benestanti (per quella bovina si parla di 52% e 37,3%); del pesce il 35,8% delle famiglie meno abbienti e il 12,6% delle più ricche; delle verdure il 15,9% delle prime e il 4,4% delle seconde; della frutta il 16,3% delle famiglie a basso reddito e il 2,6% di quelle benestanti. Nel periodo 2007-2015 la spesa alimentare delle famiglie italiane è diminuita in media del 12,2% in termini reali, ma nelle famiglie operaie è crollata del 19,4% e in quelle con a capo un disoccupato del 28,9%. Dieta italiana a rischio - “Se nell'Italia del ceto medio vinceva la dieta equilibrata – spiega ancora Valerii – nell'Italia delle disuguaglianze il buon cibo lo acquista solo chi può permetterselo”. Il pericolo, dice il Censis, è che la dieta italiana, considerata un modello “che ci ha portato ad essere uno fra i popoli più longevi al mondo, con un'aspettativa di vita media di 85 anni per le donne e di 80 anni per gli uomini, rischia di sparire dal quotidiano delle nostre tavole”. Con gravi rischi per la salute, soprattutto per i ceti meno ricchi. I tassi di obesità, ad esempio, sono più alti nelle regioni con redditi inferiori e con una spesa alimentare in picchiata. Nel Sud, dove il reddito è inferiore del 24,2% rispetto al valore medio nazionale e la spesa alimentare è diminuita del 16,6% nel periodo 2007-2015, gli obesi e le persone in sovrappeso sono il 49,3% della popolazione. Più che al Nord (42,1%) e al Centro (45%), dove i redditi medi sono più alti e la spesa alimentare ha registrato nella crisi una riduzione minore. Consumi di carne tra più bassi d’Europa - Nel periodo 2007-2015, la spesa alimentare per la carne è scesa nel nostro Paese del 16,1% (probabilmente non solo per la crisi, ma anche per ragioni etiche o salutiste): solo i greci (-24%), in Europa, hanno tagliato più degli italiani (-23%) il consumo pro-capite annuo di carne bovina. I consumi di carne in Italia, che erano già tra i più bassi del Continente, ora posizionano il Paese al terz’ultimo posto per consumo “apparente” (cioè al lordo delle parti non edibili) delle diverse tipologie di carne (pollo, suino, bovino, ovino) con 79 Kg pro-capite annui (i danesi 109,8 Kg; i portoghesi 101 Kg; gli spagnoli 99,5 Kg; i francesi e i tedeschi 85,8 e 86 Kg). Maggiore attenzione per prodotti locali - Un lato “positivo” della crisi a tavola lo sottolinea Roberto Moncalvo, presidente Coldiretti, secondo il quale il cambiamento delle abitudini alimentari fa crescere l’attenzione “per l’acquisto diretto dagli agricoltori, per i prodotti a chilometro zero e Made in Italy". Secondo Moncalvo, sono 43,4 milioni gli italiani che acquistano prodotti locali e a chilometri zero (tra questi, 18 milioni regolarmente e 25,4 milioni di tanto in tanto).

Bacche di goji, fagioli azuchi, zenzero e curcuma: il trionfo del "super-food". Un'indagine di Coldiretti/Censis registra la svolta iper-salutista degli italiani. Comprano meno, mangiano meglio anche se a volte esagerano, scrive "La Repubblica" l'11 novembre 2016. Il bisogno di stare in forma, di stare bene ma, soprattutto, la paura di ammalarsi. Sono le componenti che negli ultimi tempi hanno modificato il rapporto degli italiani con il cibo, tanto da spingerli a stilare una sorta di “lista dei cibi cattivi”, che vanno evitati per salvaguardare a propria salute. Secondo un’indagine Coldiretti/Censis che indaga sul rapporto italiani e food, quasi 1 italiano su 3 (il 30,4%) è convinto di dovere ormai escludere dalla propria dieta determinati tipi di alimenti per preservare la propria salute. Dimenticato il vecchio adagio secondo cui mangiare poco di tutto è la migliore ricetta per stare in salute, gli italiani tendono sempre con maggiore insistenza a tagliare le quantità di cibo consumate, ma anche a selezionare con più attenzione i piatti che si portano in tavola. Le conseguenze si fanno sentire, in termini di peso, sul carrello alimentare delle famiglie, che con appena 18,9 chili alla settimana è il più leggero da dieci anni a questa parte, con un taglio netto nelle quantità di 2,5 chili. Alla minore quantità si associa un’attenzione altissima, se non ossessiva, per le caratteristiche qualitative degli alimenti, abbinata a una curiosità per nuovi alimenti soprattutto con proprietà salutistiche. A influire sulle scelta sono i gusti -  il 41,5% continua ad acquistare gli alimenti seguendo il proprio palato; poi la ricerca della qualità e della genuinità (39,4%), seguita dalla voglia di alimenti che facciano bene alla salute e prevengano malattie (29,5%). Solo 28,4% del campione intervistato indica i prezzi come leva dei suoi acquisti. In questo contesto hanno acquistato un peso enorme i cosiddetti “superfood”, alimenti ai quali sono abbinate proprietà salutistiche eccezionali. Ecco quindi il boom di bacche di goji, fagioli azuchi ma anche zenzero e curcuma, che non sempre - precisa Coldiretti - mantengono le promesse miracolistiche, ma piuttosto provengono da Paesi come Cina e India, che hanno bassissimi livelli di sicurezza alimentare. In questo contesto va segnalato però anche un rinnovato interesse tra gli italiani per i principi della dieta mediterranea. Il 2015 ha segnato un aumento di consumi di alimenti come il pesce (+5%), olio di oliva (+19%), frutta (+5%), ortaggi freschi (+3%) e pasta secca (+1%). Una storica inversione di tendenza che – precisa Coldiretti - ha fatto registrare un boom nel 2016: in questo anno i consumi di frutta e verdura hanno raggiunto il picco massimo dell’ultimo quadriennio. Quest’anno – stima l’associazione degli agricoltori - il consumo procapite di frutta e verdura sfiorerà i 320 chili a testa.

Iper salutisti e scettici a tavola. La generazione dei cibomaniaci. Al Nord Italia c’è il boom del bio mentre al Sud crescono gli obesi. Ecco come le scelte della generazione millennial stanno mettendo in crisi l’industria, scrive Dario Di Vico il 13 novembre 2016 su "Il Corriere della Sera". Per tentare di capire i giovani di oggi non si può prescindere dal cibo. Siamo in presenza infatti di una profonda trasformazione della cultura dell’alimentazione dei ragazzi nati tra gli 80 e il 2000. Si lasciano alle spalle il mito della quantità e l’equazione cibo = salute, che aveva accomunato i loro genitori e i loro nonni, e hanno maturato nel frattempo un forte scetticismo nei confronti della trasparenza dell’industria alimentare. Il passaggio del cibo da mero nutrimento a fattore identitario non è nuovo, è un filone che dura almeno dagli anni 90 e ha sorretto la rivalutazione dei prodotti tipici e del made in Italy contro quella che veniva chiamata la McDonaldizzazione. I giovani di oggi vanno oltre. Non demonizzano la globalizzazione e infatti adorano la varietà dei cibi etnici, usano la Rete come veicolo principale di informazioni sul cibo, in tv non si fanno mancare le puntate di Masterchef e dello show cooking ma hanno anche mutuato l’idea pessimistica che dal cibo bisogna anche difendersi. E del resto è difficile separare la loro cultura alimentare da quella dello sviluppo: hanno introiettato infatti una visione complessiva di un mondo «precario» che deve fare i conti con i limiti delle risorse e con una modernità che crea danni all’ambiente e al corpo. Nella vita di tutti i giorni tutto ciò emerge di continuo e l’avanzata del bio ne è il fenomeno più evidente. Oltre un quinto dei millennial compra solo prodotti biologici. La seconda tendenza «forte» è la riduzione di consumi di carne: 16 milioni di italiani nel 2015 ne hanno mangiata meno e i giovani sono il nocciolo duro di questa ritirata, lo testimonia la crescita del movimento vegetariano e vegano aumentata di due punti (dal 6 all’8% della popolazione). Di conseguenza sono i giovani a far ripartire i consumi di frutta e verdura, con mele, patate e pomodori che trainano il gruppo. Ovviamente quando si parla dei giovani a tavola entra in ballo l’autonomia di scelta (sono 3-4 milioni, secondo Albino Russo, dell’ufficio studi di Lega Coop, quelli che possono decidere cosa comprare). Le famiglie con un 35enne a capo non sono tante ma è anche vero che i giovani che vivono con i genitori non si attengono al menù familiare ma si sono conquistati, in virtù della nuova consapevolezza alimentare, larghi spazi di autonomia. Sono 7,7 milioni i millennial che dichiarano di consumare abitualmente cibi etnici e infatti quinoa, zenzero e curcuma sono i «superfood» che crescono a ritmi vertiginosi nelle vendite dei supermercati al contrario di olio d’oliva, pomodori, pasta. Chi tra i giovani si diletta anche a cucinare va su Google con lo smartphone alla ricerca di ricette e consigli culinari. Aperti agli influssi in verità lo sono stati anche da bambini, una buona fetta di loro ha festeggiato i primi compleanni da Mc Donald’s con palloncini, happy meal e bibite gassate ma adesso è più attratta dal kebab, dal bistrot coreano e dal sushi. Sui social impazza la condivisione di foto che documentano colazione, pranzo e cena e uno degli hashtag più diffusi è Foodporn, per indicare la mania e il piacere voyeuristico del cibo. I food blogger poi sono diventati icone capaci di sfidare in popolarità gli chef stellati. Quanto hanno contato i fattori economici (e la Grande crisi) nel modellare queste trasformazioni? Hanno portato i millennial ad assorbire l’idea di una modernità inceppata e incapace di risolvere i vecchi problemi e i nuovi. E hanno prodotto anche quella che, secondo il Censis, è una disuguaglianza alimentare con la sostituzione della dieta mediterranea con «prodotti artefatti e iperelaborati a basso contenuto di nutrienti». Siamo dunque in presenza di un nuovo food social gap, una tavola differenziata per ceti sociali. Le diete prima ancora che da valori e stili di vita, per il Censis, tornano a essere condizionate dalle diversificate disponibilità di reddito e di spesa delle famiglie. «Dalla crisi stiamo uscendo con una forte divaricazione nel consumo di cibo — conferma Russo, della LegaCoop —. In Puglia la spesa nel discount ha raggiunto quota 32% e in generale si registra un impoverimento del carrello». Non tutti gli analisti sono però d’accordo su un’interpretazione centrata sull’economia a scapito dei fattori culturali e sostengono che la carne è diventata l’emblema del pessimismo gastronomico perché i giovani pensano che sia difficile da tracciare e manchino nella filiera qualità e certificazione. Ci sono anche gruppi che guardano al benessere degli animali e quindi lo «sciopero della carne» è una contestazione che tende a colpire l’industria di trasformazione. Si spiega così il raddoppio della quota di vendite dirette a km zero e il successo dei mercatini dei contadini. Insomma la dieta è figlia della sfiducia: vuoi controllare cosa metti nel piatto, sapere da dove viene e come è stato trasformato. L’ossessione compulsiva nel controllo delle etichette dei prodotti fa il resto, come testimonia la caccia all’olio di palma, ai coloranti e agli additivi di qualsiasi tipo. In questo filone possiamo anche catalogare il ritorno alla terra testimoniato dall’aumento delle partite Iva dell’agricoltura e delle start up legate al cibo. Chi si dedica alla birra, al mais corvino, chi coltiva lo zafferano in Lombardia, chi lancia la nuova formula del gelato arrotolato senza cono. «Che il cibo stia focalizzando le attenzione dei giovani — commenta Oscar Farinetti, fondatore di Eataly — non deve stupirci. Riconoscono l’importanza di ciò che ingeriamo e, visto il livello di istruzione più elevato, si vuole sapere tutto e non si delega più. Girando il mondo vedo però che i giovani italiani si nutrono meglio di quelli di altri Paesi. La provincia americana è tremenda». Le differenze territoriali sono forti anche in Italia e del resto la nostra tradizione vive anche di campanilismo culinario. Milano e le città metropolitane del Nord sono quelle dove nascono i food blogger, in cui i nuovi ristoranti e persino i supermercati delle grandi catene strizzano l’occhio al consumo sostenibile e ai giovani. Davide Paolini, che ha scritto un pamphlet dal titolo «Il crepuscolo degli chef», addirittura paragona il sistema cibo dei nostri giorni alla febbre del tulipano, quando in Olanda si compravano bulbi sperando di diventar ricchi. «Un’analoga frenesia si vede a Milano nell’apertura di locali alla ricerca di una nuova fortuna». In provincia però le cose cambiano, i giovani restano orgogliosi delle tradizioni gastronomiche emiliane, venete o piemontesi, non rompono con il tratto identitario dei loro padri e restano più abitudinari «ma comunque si nutrono con maggiore intelligenza di prima», secondo Farinetti. I problemi li troviamo a Sud. Dice Gabriele Riccardi, docente all’università Federico II di Napoli: «Nel Meridione ci sono tassi di sovrappeso e obesità giovanile più elevati rispetto al Nord, dovuti a un mix di questioni culturali e socioeconomiche. La fascia più povera continua a scegliere la quantità come valore positivo predominante sulla qualità». Il Rapporto Osservasalute evidenzia infatti come in Italia ci siano picchi di obesità nel Molise del 14%, del 13% in Abruzzo e del 12% in Puglia. Spiega lo stesso Riccardi: «Il consumo di cibi ipercalorici fuori pasto è la causa principale del fenomeno dei giovani obesi, la sedentarietà e la bassa pratica sportiva fanno il resto». Purtroppo, conclude Farinetti, «nelle regioni povere la gente è più obesa e si tratta di un rovesciamento delle parti rispetto alla storia. Nel Risorgimento i ricchi erano obesi e in qualche maniera se ne vantavano. La contraddizione però che è nel Sud ci sono le materie prime più sane e invece i cibi più controllati si mangiano al Nord. Di mezzo come sempre c’è la cultura e infatti i giovani settentrionali fanno più moto perché hanno preso le abitudini delle grandi metropoli del mondo».

"La dieta più salutista? È quella del carnivoro". Niente frutta né verdura, via libera a bistecche e lardo. Un esperto di alimentazione smentisce le tendenze consolidate: "Gli attacchi cardiaci sono colpa dei carboidrati", scrive Camillo Langone, Giovedì 20/03/2014, su "Il Giornale".  Ecco un libro che potrebbe cambiare la vita di milioni di persone sovrappeso o semplicemente desiderose di essere più magre. E fare infuriare milioni di dietologi, di pizzaioli, di spaghettivori e di vegani. Perché si diventa grassi (e come fare per evitarlo) è la bomba lanciata con la complicità dell'editore Sonzogno da uno dei più importanti giornalisti scientifici americani, Gary Taubes, collaboratore del New York Times e vincitore di un mucchio di premi roboanti e presumibilmente danarosi quali il «The Best of the Best American Science Writing». Quest'uomo non teme di ribaltare tutte o quasi tutte le idee correnti in fatto di alimentazione: ha il coraggio di affermare che la dieta mediterranea fa ingrassare, che le carote fanno male, che la frutta fa peggio. Ma Taubes non si limita a proibire. Consapevole che una dieta per funzionare debba anche essere appagante, consente di mangiare ad libitum, fino a sazietà, moltissimi cibi quali salsicce, salami, lardo... Avete letto bene, lardo: proprio il salume considerato l'archetipo del grasso che uccide. Taubes gli dedica alcune pagine dettagliatissime in cui, citando analisi che si presentano inoppugnabili, piene di dati su acido oleico e acido stearico, grassi monoinsaturi e grassi polinsaturi, colesterolo HDL e colesterolo LDL (non ho capito bene la differenza ma ho capito che la differenza c'è), arriva alla seguente conclusione: «Per quanto possa essere difficile da credere, sostituire i carboidrati della dieta con un uguale quantità di lardo ridurrà il rischio di avere un attacco cardiaco». Si capisce perché un professore di nutrizione della New York University abbia detto a Taubes che il «tipo di cambiamento che sta perorando potrebbe necessitare di una vita intera per essere accettato». Forse anche due, di vite, pensando a quanto sia radicata, non solo presso i salutisti accaniti, l'idea che il grasso faccia ingrassare e che frutta e verdura siano il non plus ultra per quanto riguarda la salute. Io stesso, che sono un acceso carnivorista per motivi sia edonistici sia mistici (Gesù mangiava carne e invitava a farlo), davanti a certe affermazioni ho barcollato. Possibile che faccia bene mangiare carne tutti i giorni e tutto il giorno, colazione-pranzo-merenda-cena? Possibile che mele e pere ingrassino? Possibile che perfino i verdi, teneri piselli siano da guardare con sospetto? Possibile, almeno secondo Taubes che ha analizzato nel dettaglio tutti i dati di tutte le ricerche nutrizionistiche in circolazione. Gli ci sono voluti oltre dieci anni ma ne ha ricavato, assicura, abbastanza materiale per «confutare i pregiudizi spacciati per salute pubblica». Sarà scontenta Michelle Obama, l'orticultrice della Casa Bianca. Saranno scontentissimi Guido Barilla e gli azionisti Peroni Riso Scotti Heineken De Cecco Coca-Cola, siccome il nemico numero uno del peso forma pare siano i carboidrati. E cosa sono i carboidrati? «Qualunque cosa fatta con farine raffinate (pane, cereali e pasta), carboidrati liquidi (birra, succhi di frutta e bevande gassate), e amidi (patate, riso e mais)». Non è una dieta per poveri, la dieta consigliata da Taubes. Se domani tutto il pianeta si convertisse al suo credo, dopodomani dal macellaio la fettina di vitello schizzerebbe a cento euri il chilo. L'Italia, come nazione, avrebbe notevoli danni economici: già adesso dobbiamo importare sia carne che pesce, se Perché si diventa grassi diventasse un best-seller dovremmo importarne il doppio. Io dopo aver letto le bozze sono corso dal macellaio per fare scorta, tre salsiccione fresche, quattro fette di lonza, due belle bistecche di manzo (niente pesce perché abito a Parma dove al massimo si può fare scorta di merluzzo Findus). Ma con i ritmi suggeriti da Taubes questa provvista proteica mi basta solo fino a stasera. Insomma sono già pentito di avere scritto il presente articolo, metti che scateni una corsa alla cotoletta e al filetto, sono nei guai.

IDEOLOGIA VEGANA.

Perché odiamo i vegani? Scrive Daniele Zaccaria l'1 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Equiparata all’omofobia e al sessismo misogino, l’avversione per chi rinuncia a mangiare prodotti animali è l’ennesima variante del moderno “hate speech”. Una rappresaglia alimentata dalla rete, ma che nasce nella notte dei tempi. Quando ha deciso di farla finita Louie Tom Fenton aveva appena 12 anni, si è impiccato nel bagno di casa mentre i genitori erano assenti. Da mesi i compagni di scuola lo prendevano di mira, lo chiamavano «il vegano bastardo», gli tiravano addosso pezzi di carne marcia, lo umiliavano in pubblico con estrema crudeltà. Il classico incubo fatto di angherie quotidiane, di depressione e attacchi di panico, uno stress troppo forte per un ragazzino della sua età, tanto che Louie aveva anche iniziato a fumare, pesantemente, decine di sigarette al giorno. A mensa ormai mangiava in un tavolo separato perché lo scopo dei bulli, di ogni bullo, non è solo vessarti ma isolarti dalla tua comunità. Quella di Hertford, cittadina britannica di 24mila anime nel cuore dell’omonima contea dell’Hertfordshire, non era poi un modello di coesione e solidarietà. Il caso del piccolo Louie Tom Fenton è soltanto il picco tragico di un discorso sottostante, di una cultura diffusa: l’odio per i vegetariani e in particolare per i vegani. Un’ostilità talmente accesa che diversi sociologi hanno coniato un termine ad hoc: “vegephobia” paragonandola addirittura all’omofobia, al sessismo misogino e al razzismo, una variante tra le altre del contemporaneo hate speech. Un nuovo bersaglio globale su cui indirizzare le proprie frustrazioni. In uno studio apparso sul British Journal of Sociology, gli accademici Karen Morgan e Matthew Cole analizzano centinaia e centinaia di articoli di giornale e sui siti web da cui emerge un’opinione molto sfavorevole nei confronti di vegetariani e vegani, in sostanza in oltre il 75% delle pubblicazioni l’immagine è fortemente negativa. In un’altra ricerca promossa dal Journal of the American Dietetic Association emerge con chiarezza l’isolamento sociale subito, anche tra membri della stessa famiglia, spesso poco disposti a condividere ma anche semplicemente a tollerare le scelte dei loro cari, specie tra le classi sociali più basse. L’espansione vertiginosa di internet e dei socialnetwork avvenuta negli ultimi anni ha permesso la creazione di comunità virtuali di vegetariani e vegani ma allo stesso tempo ha consentito ai loro nemici di organizzarsi in autentiche falangi di bulli assetate di sangue. Sangue vegano ovviamente. Basta scorrere la cassa di risonanza del web per inciampare su insulti, minacce, prese in giro, un lepido sarcasmo in cui il vegano nel migliore dei casi fa la figura del gran coglione e nel peggiore dello stronzo che preferisce la vita dei lombrichi a quella dei bambini. Caricature entrate da un po’ di tempo a far parte del senso comune. Negli Stati Uniti un imprenditore ha lanciato una fortunata linea di tee-shirt in cui campeggia la scritta Nobody likes a vegetarian venduta a centinaia di migliaia di esemplari, segno che quello dell’anti- veganesimo è un mercato in piena espansione. Per giustificare il malanimo spesso viene chiamato in causa il «fanatismo», l’ «intolleranza» nei confronti dei carnivori equiparati a spietati assassini o, bene che vada, a complici silenti del genocidio animale, ma si tratta di casi estremi, di piccoli gruppi organizzati che rappresentano a malapena se stessi. Nella gran parte dei casi chi rinuncia a consumare carne, pesce e latticini compie una scelta etica individuale, non ha intenti settari, né intenzione di convertire il pianeta o il vicino di pianerottolo a chissà quale culto, magari vuole soltanto mangiare in pace il suo piatto di fagioli senza dover subire lo stalking continuo di amici e parenti. «La percezione del vegano- predicatore detentore della verità assoluta è quella più in voga, ma si tratta di esempi piuttosto rari», spiega Matthew Cole. Conosco personalmente decine di vegetariani e vegani e quando ci si riunisce intorno a una tavola è sempre (ma proprio sempre) il commensale carnivoro che va in cerca di guai. Quasi un format da cui esce fuori la conversazione tipo: – Tu non mangi gli animali per sentirti superiore – Veramente no, è una scelta etica personale – Non è vero, lo so che ci disprezzi!

– Guarda, non disprezzo nessuno, credo il mio che sia un modo di ridurre la sofferenza degli animali, ma tu fai come vuoi.

– Anche io amo gli animali, non mi va di passare per un assassino!

– Non metto in dubbio che ami gli animali e non sei un assassino.

– Comunque gli animali non hanno una coscienza vera e propria, non soffrono come noi.

– Veramente hanno un sistema nervoso e soffrono quanto gli esseri umani.

– Se fossi coerente non mangeresti neanche la verdura, lo sai che anche le piante sono sensibili?!

A questo punto i paradossi della malafede chiudono lo scambio che però si ripeterà uguale a se stesso chissà quante altre volte. Per andare alle radici di questa singolare forma di avversione, così pregnante da distorcere anche la logica, la piscologia cognitiva ci fornisce buoni strumenti di comprensione. Secondo il professore e filosofo canadese Martin Gilbert, autore del saggio Voir son steak comme un animal mort (Vedere la propria bistecca come un animale morto) il sentimento conflittuale che genera il vegano nella mente del carnivoro deriva dal concetto di “dissonanza cognitiva”, una teoria elaborata alla fine degli anni 50 dal sociologo e psicologo americano Leon Festinger. Quasi tutte le persone sono empatiche con gli animali, molti trovano deliziosi cani e gattini e mai si sognerebbero di fare del male a una povera bestia, trovarsi di fronte a qualcuno che rinuncia a mangiare la povera bestia per motivi puramente etici crea il cortocircuito: «Amo gli animali ma non mi faccio problemi a mangiarli: per uscire da questo schema dissonante ci sono diverse opzioni: a) smetto di consumare carne per essere coerente, b) minimizzo gli effetti negativi del mio comportamento e mi convinco che gli animali non soffrono. Dicendogli che per lui “non è vitale mangiare carne” il vegano mette l’onnivoro sulla difensiva. La vegephobia gli è necessaria per confortarlo nell’idea che invece no, è impossibile essere vegano e che di fronte a lui c’è un “religioso”, un “settario”, un “hippy”, è un modo di proteggersi attaccando». Il libro che forse più di tutti “incarna” questa tendenza è Apologie du carnivoredell’etologo francese Dominique Lestel, un saggio uscito nel 2011 ai limiti del macchiettistico in cui l’autore pretende che i carnivori «in realtà» sono molti più vicini agli animali in quanto «mangiando carne prendono coscienza della loro natura animale, mentre il rifiuto dei vegetariani è un modo di negare, di sopprimere l’animalità della natura». Per Lestel, inoltre, rifiutare la carne è sintomo di «una concezione waltdysneiana del mondo» Ragionamenti degni del peggior Gorgia, ma senza il sagace umorismo del sofista di Lentini. “Dissonanza cognitiva” o coda di paglia che sia, il conflitto tra carnivori e vegetariani non nasce certo con il web, la rete amplifica e rimaneggia idee e concetti che risalgono davvero agli albori della nostra civiltà. Pensiamo alle divergenze tra pitagorici e stoici nell’antica Grecia, con i primi, vegetariani integrali, che rifiutavano di partecipare ai sacrifici e i secondi che invece vedevano gli animali come oggetti creati dagli dei per far piacere e nutrire gli uomini. Nel terzo secolo dopo Cristo, il filosofo Porfirio rompe il dogma della “separazione” naturale tra le specie e immagina una società mista, una società interspecifica in cui l’animale sia parte integrante della polis, della cittadinanza, andando oltre le visioni bucoliche e primordiali di Ovidio che nelle Metamorfosi rimpiange quell’età dell’oro pre-sociale in cui uomini e bestie vivevano insieme in armonia.Renan Larue, professore di lettere all’Università di Montréal, autore di Le végétarisme et ses ennemis (“Il vegetarianesimo e i suoi nemici”), è convinto che il culto spasmodico della carne, da lui definito “carnismo” si sia strutturato intorno all’antropocentrismo di matrice cristiana, che reclamare l’idea di esseri viventi “fatti e concepiti per noi” suppone l’esistenza di un creatore, di un essere superiore che avrebbe eletto l’uomo a creatura prediletto. Questo non vuol dire che ogni volta che mangiamo un hamburger stiamo cauzionando il nostro rapporto privilegiato con il divino ma che la religione cristiana, l’unica tra i monoteismi a idolatrare un Dio “incarnato”, l’unica a mettere in scena l’ingestione del sangue e della carne di Cristo, non può rinnegare il suo Dna carnivoro. La Chiesa ha sempre difeso questo principio accordando generalmente poca importanza alla vita animale fino a quando non è stata contestata dagli illuministi anche su questo punto: «Rifiutarsi di mangiare carne per motivi morali è una scelta teologicamente pericolosa perché rompe il dogma antropocentrico. I carnisti sottovalutano la dimensione metafisica della loro posizione, rivendicare con veemenza la centralità del consumare carne significa accettare l’ordine immutabile delle cose stabilito dalla religione», scrive Larue. Un pregiudizio molto meno invasivo nella religione e nella cultura ebraica; basti pensare al mitzva (precetto da osservare) chiamato tsaar baalei hayim, letteralmente “divieto di torturare un animale” alla base di numerosi interdizioni come quella di castrare una bestia o di separare un vitello appena nato dalla madre, diversi rabbini citano il mitzva per predicare il veganesimo come giusta scelta spirituale e aderenza alla Legge.

La scienza sbugiarda i vegani: "La carne ci ha resi intelligenti". Una ricerca pubblicata su Nature evidenza l'importanza della carne nello sviluppo dell'uomo, scrive Claudio Cartaldo, Venerdì 11/03/2016, su "Il Giornale". Non c'è molto altro da dire: la carne ci ha reso quello che siamo. Più intelligenti, insomma. E i vegani dovranno quindi ricredersi, almeno così dice la rivista "Nature", sulle loro credenze. Tanto che oggi il Time titola "Ci dispiace, vegani" e riporta l'articolo di Nature secondo cui, mangiare le proteine animali è ciò che ha reso capace all'uomo di essere cioè che è. Trasformandolo, scrive l'Huffingtonpost, non solo "a livello anatomico (con volti e denti di dimensioni ridotte)" ma anche "a livello intellettivo (sviluppando la sua capacità di parlare)". Le motivazioni della ricerca sono chiare: una volta, i nostri avi, mangiavano molta frutta e verdura. Ma non era sufficiente. Così ci si attaccava alle barbabietole, alle radici e alle patate. Che, però, erano ben più difficili da mangiare. Così, quando l'uomo ha "scoperto" la carne, tutto è cambiato. Era più facile da masticare, più calorica e le proteine aiutavano lo sviluppo. L'unico, piccolo problema, era la caccia. Ma si quello l'uomo si è adattato abbastanza in fretta. Stessa cosa vale per la lavorazione, il taglio e la masticazione. Insomma, scoprire la carne ci ha fatto evolvere. La cucina dei cibi, infatti, arriva "solo" 500mila anni fa. "Cucinare è un fattore importante, ma non è l'unico da prendere in considerazione - ha spiegato Daniel Lieberman dell'Harvard University - Anche il cibo lavorato, tagliato o fatto a pezzi, ha avuto effetti profondi su di noi". Infatti, se non avessimo cominciato a mangiare la carne, se non avessimo avuto bisogno di strapparla dai cadaveri degli animali, i denti dell'uomo non si sarebbero sviluppati. E sarebbero quindi stati più piccoli. Lo stesso discorso vale per le ossa del collo e il cranio. "Questi cambiamenti - dicono i ricercatori - non sarebbero forse stati possibili senza il consumo di carne insieme all'acquisizione di tecniche per lavorarla e cucinarla". I vegani sono avvertiti.

Dalle scuole agli affari: avanza il partito vegano. Ideologia, salute, cultura o business? Cresce e alza la voce il popolo di chi rinuncia alla carne e alle proteine animali. Mentre lo scontro entra in Parlamento, in famiglia e a scuola, gli italiani sono sempre più divisi, scrivono Emanuele Coen e Francesca Sironi il 23 settembre 2016 su "L'Espresso". Il programma c’è. E anche lo zoccolo di attivisti duri e puri, diventati avanguardia di una base sempre più ampia di simpatizzanti. Ci sono i simboli e gli slogan, le feste e i raduni, i corsi di formazione e i gruppi di pressione. E i testimonial, i teorici, i sostenitori in Parlamento. Avrebbero tutto per diventare un partito: il “Partito Vegano italiano”. Stando alle stime più recenti i vegani, nel nostro Paese, rappresentano l’uno per cento della popolazione. Tra 500 e 600 mila persone, soprattutto donne: più o meno gli elettori di Fratelli d’Italia alle ultime politiche. Una minoranza, certo, ma rumorosa, e destinata ad aumentare. Perché la rinuncia a qualsiasi prodotto di origine animale, dalla mozzarella alle uova, dal cuoio alla lana, non è più patrimonio ideologico di pochi. È diventata una tendenza. Quindi un business. Un tema di confronto culturale. E ora anche una questione pubblica di diritti e salute, con medici, sindaci, scuole e famiglie chiamati a prendere posizione. I vegani contano perché comprano. Se gli italiani che si definiscono tali sfiorano solo l’uno per cento, sono 10 milioni le famiglie che nel 2015 hanno provato almeno una volta ad avventurarsi nei territori alimentari dei “veg”, mettendo nel carrello della spesa seitan o tofu, acquistando latte di riso o di mandorla, o uno yogurt di soia al posto di quello di mucca, come mostrano i dati elaborati per “l’Espresso” da italiani.coop (il nuovo portale di indagine sulla vita quotidiana degli italiani curato dall' Ufficio Studi Coop). I sostituti vegetali di prodotti tradizionali hanno portato negli ultimi dodici mesi 356 milioni e 787mila euro di ricavi. Con le bistecche di manzo e le cotolette di maiale in continua picchiata, i menu si riempiono di semi di girasole e bacche di goji, di lenticchie e di fagioli, fino alla quinoa o alla “polpa di baobab in polvere” (200 grammi costano 15,90 euro). L’elettorato vegano, prima che partito di governo, è diventato un buon partito per il business. «La fuga dalla carne è ormai evidente. Mentre le nuove scelte di consumo sono mobili. Molti sono vegani part-time, sperimentano soltanto», spiega Albino Russo, responsabile dell’ufficio studi Coop. Intanto: spendono. Guardati con disprezzo dai “veganisti” radicali, quelli che organizzano picchetti contro i carnivori e promettono guerra ai macellai, i vegani della domenica sono diventati una realtà economica sulla quale è partita una corsa all’oro - anche perché sono disposti a spendere di più per i prodotti marchiati per loro. «La vera novità dell’anno è il vino vegano, che entra in piena regola tra i trend del 2016», sostiene l’Osservatorio di settore di Nomisma: «L’8,7 per cento dei Millennials mostra molto interesse». Come il vino vegano c’è anche il gelato. E l’olio, il prosciutto, persino l’eyeliner. Mentre sta per salpare nel Mediterraneo la “prima crociera Costa vegana”. «Assaggi pure: ha 160 principi attivi. È prodotta in Molise, abbiamo duemila piante in serra». Giuliano versa siero d’Aloe pura e ammette: «Certo, è un sapore difficile. Ma fa bene».  Alle rassicurazioni sul benessere s’alterna l’ansia sul presente. Franca vende “materassi vegani”: «Sono fatti di cocco e di cotone, biodegradabili», ma soprattutto associati, per chi vuole, a un circuito brevettato per «proteggersi dalle onde elettromagnetiche: non veniamo informati, ma i raggi gamma e le reti di Hartmann sono terribilmente dannosi alla salute». Il 9 settembre la Fiera di Bologna ha inaugurato il “Sana”, salone delle aziende bio. Il padiglione 30 è interamente dedicato ai puristi di legumi e verdure. A gestirlo è “VeganOk”, marchio del fiorentino Sauro Martella e di Cesare Patara, che con la loro società di servizi pubblicitari alimentano una catena di siti d’informazione e vendono alle imprese una “certificazione”. In realtà, si tratta di una semplice auto-dichiarazione, dov’è l’azienda a garantire di essere al cento per cento vegana. Costa da 500 a mille euro all’anno, più una piccola percentuale sul fatturato, racconta chi ha aderito. Altre società - come il “consorzio etico Icea” - fanno controlli rigidi, pubblicando bilanci dettagliati, regolamenti e scadenze; VeganOk «è più che altro marketing», spiega un produttore: «Ma danno grande visibilità», oltre alla grossa V cerchiata di vendetta animale da appiccicare all’etichetta. Nel padiglione “cruelty free”, di fianco al banco che vende occhiali vegani di legno, ci sono i sieri anti-rughe vegani, gli arrosti vegani fatti di “muscolo di grano”, i detersivi vegani non-testati sulle cavie, le macchine vegane per estrarre principi dalla frutta e una cascata di presenze veg-esotiche come “yacon crudo”, “shitake in polvere”, “reshi biologica”. In mezzo c’è l’olio Farchioni che presenta la nuova linea vegana. «Mi scusi, ma è olio». «Sì, è un prodotto naturalmente vegano», risponde un ragazzo in abito grigio (senza lana?): «Ma noi abbiamo voluto la certificazione, attestando che usiamo per le etichette solo colla non di origine animale. È la filosofia dell’azienda». Fra volantini di crociere e ricettari, esperti di salute e cantanti, ci sono però storie come quella di Raul Pennino: napoletano, 37 anni, fotografo, soffriva di ipertensione e cervicale. Ha provato a togliere latte e carne da tavola: «E sono stato meglio. Il seitan, però, non lo digerivo proprio», racconta. Così ha iniziato a preparare delle sue ricette, con meno glutine e più sapore: «Se non fai il ragù, la domenica, non sei campano», dice. Gli amici l’hanno convinto, e a settembre hanno aperto “Tutt’altro”, una vera start-up che produce salumi e polpette veg. «Sta andando bene, siamo più di dieci a occuparcene, adesso. Ci stiamo per trasferire nelle Marche». Si allontanano dalla camorra, spiega. «Per me diventare vegano è stata un’occasione, ma non sono ideologico: ognuno mangi quello che gli pare». Purché sia buono. Anche Giampiero Barbera è rimasto onnivoro. La dieta vegana l’ha imposta piuttosto ai suoi vini: il barbera che vende qui ha la V di VeganOk in bella mostra. «È stata una scelta enologica», commenta. Le sue bottiglie sono vegane, spiega, perché per la fermentazione evita, ad esempio, «un insetto che andrebbe a morire», preferendo «fermenti dai funghi»; ma anche perché le viti non sono concimate col letame, neanche bio. «Solo concimi chimici, che non impattano però sull’ambiente». Le contraddizioni del partito vegano si ritrovano anche in politica. La “veg-mania” è diventata infatti terreno di scontro pubblico come di inaspettate convergenze bipartisan. A Torino, terra di brasato e fassona, la nuova giunta della sindaca Cinque stelle Chiara Appendino ha individuato la promozione della dieta vegana e vegetariana come atto fondamentale per salvaguardare l’ambiente, la salute e gli animali. «Ognuno è libero di mangiare ciò che preferisce e lo sarà sempre, almeno fin quando sarò la sindaca di questa città», si è affrettata a precisare Appendino sul suo profilo Facebook, dopo essere stata sommersa dalle critiche. Certo è che il Comune sta per stampare migliaia di pieghevoli con la mappa dei ristoranti e dei bar verdi “al 100 per cento”, da distribuire in tutti gli infopoint turistici della città. Monica Cirinnà, senatrice del Pd e vegetariana da 25 anni, invece, intende rilanciare il disegno di legge - fermo dal 2013 alla commissione Sanità del Senato - secondo il quale le mense pubbliche devono offrire almeno un menu vegetariano e uno vegano. «La possibilità di scelta deve riguardare tutti. Solo così l’accesso è reale», precisa la senatrice Cirinnà: «A breve solleciterò l’inserimento del provvedimento all’ordine del giorno: si tratta di un tema che riguarda non solo i diritti di milioni di persone, ma ognuno di noi, perché poter scegliere di mangiare prodotti sani e biologici fa bene a chiunque». Non che “veg” e “bio” siano sinonimi. Ma è la filosofia che conta. Su cui si spinge ancora più in là il deputato (vegano) Cinque stelle Mirko Busto, primo firmatario di una proposta di legge ora in commissione Affari sociali alla Camera: «Nei luoghi di ristorazione è obbligatorio, per un giorno alla settimana, somministrare solo menu privi di qualsiasi alimento di origine animale», prevede l’articolo 4. E se i parlamentari pentastellati organizzano convegni a ruota su educazione alimentare, cibo sostenibile e prevenzione, Forza Italia non si tira indietro. Seppur con due proposte di legge di segno opposto: una della deputata Michela Brambilla, che garantisce la dieta senza proteine animali nelle mense pubbliche e private; l’altra strenuamente anti-vegana, depositata a luglio dalla collega di partito Elvira Savino (vedi intervista), che prevede fino a un anno di carcere - due se il bimbo ha meno di 3 anni - per i genitori o i tutori che adottino per i minori di 16 anni a loro sottoposti una «dieta priva di elementi essenziali per la crescita». La proposta di legge ha fatto discutere anche all’estero. In Italia è la cronaca ad averla suggerita: i nuovi casi di giudici chiamati a intervenire per “salvare” bambini ai quali mancavano peso e nutrienti a causa dei dogmi alimentari imposti da mamma e papà. I rischi sono gravi: le carenze, nei primi mille giorni di vita e nella crescita, possono avere conseguenze definitive. La Società italiana di Pediatria, nelle sue linee guida, sul punto è netta: servono proteine animali. Ma nutrizionisti e pediatri si dividono. Alcuni neuropsichiatri infantili sostengono che la dieta vegana per un bambino può portare all’anoressia. Altri che invece è sostenibile integrandola con vitamina B12 e altre sostanze. «È sacrosanto andare incontro alla richiesta delle famiglie che scelgono la dieta vegana per i propri figli. Anche perché cinque pasti senza carne né pesce non causano carenze nutritive», spiega Debora Rasio, oncologa, nutrizionista e docente alla Sapienza di Roma, che poi precisa: «Sono però contraria a un’alimentazione strettamente vegana, soprattutto durante la fase cruciale dello sviluppo». Fase che secondo il medico comincia prima della nascita: «Già nei nove mesi che precedono il concepimento e fino ai primi 3 anni del bambino», aggiunge, «perché i prodotti animali offrono un insieme di nutrienti preziosi e fondamentali per la crescita». Sabina Sieri, biologa dell’Istituto nazionale dei tumori a Milano, coordina il gruppo di ricerca sulla dieta vegetariana e vegana della Società italiana di nutrizione umana. «Un’alimentazione vegana ben bilanciata non preclude nulla, anche se lo sviluppo in questi bambini può essere più lento. In ogni caso, è opportuno che i genitori siano accompagnati da un pediatra nelle loro scelte, soprattutto nei primi 6 anni di vita del bambino». Insomma, per seguire le proprie rinunce etiche a tavola serve un commissario a fianco. Un tutore del menu. Evitando assolutamente il fai-da-te, ricorda Umberto Veronesi. Se a casa sono i genitori a decidere, con l’inizio dell’anno scolastico si riaccendono le polemiche a scuola. Perché sono sempre più numerose le famiglie che chiedono al preside di modificare i piatti per venire incontro alla loro scelta vegetariana o vegana: in loro sostegno interviene in molti casi la Lega anti vivisezione. La mappa dei comuni è varia, con Milano che spicca come la città più veg del Paese: già da tempo le scuole forniscono pasti privi di alimenti di origine animale oppure senza carne né pesce su semplice richiesta dei genitori. Nell’ultimo anno scolastico hanno voluto un menu esclusivamente vegano 199 bambini, contro i 170 dell’anno precedente, mentre sono stati in 293 a chiedere quello vegetariano, rispetto ai 266 del 2014. Pochi mesi fa l’ospedale Fatebenefratelli ha inaugurato anche il primo ambulatorio pediatrico vegano d’Italia. A Roma quasi tutti i municipi prevedono menu vegani; di recente anche Torino e Bologna si sono allineate. In molte altre città, invece, le scuole continuano a richiedere il certificato medico, e in altre (tra le quali Ferrara e Napoli) non danno corso alla richiesta per ragioni sanitarie oppure organizzative. A maggio il ministero della Salute ha diramato una nota agli assessorati alla Sanità, alle Regioni e alle province autonome chiedendo loro di adeguarsi alle Linee guida per la ristorazione scolastica, in vigore dal 2010, che prevedono la sostituzione - su semplice domanda dei genitori - delle diete a scuola in forza di «ragioni etico-religiose o culturali». Se si fa eccezione per ebrei e musulmani, insomma, è giusto farlo anche per vegani e vegetariani. In caso contrario, sono pronte le carte bollate: l’ufficio legale della Lav sta mandando diffide ai sindaci di tutte le città d’Italia che chiedono l’attestazione del pediatra per adeguare i menu, e in diversi casi ottengono risposte positive. «C’è un clima nuovo: famiglie, scuole e Comuni sono sempre più consapevoli della legittimità della scelta vegana», commenta Gianluca Felicetti, presidente Lav. «Ma non basta eliminare la carne o il pesce dai pasti a scuola; bisogna garantire piatti vari e bilanciati che includano anche soia, seitan e tofu. E magari proporre questi ingredienti una volta alla settimana anche ai bambini onnivori, nel rispetto delle scelte alimentari di ciascuno», conclude Felicetti. In attesa che altre famiglie scelgano di convertirsi.

"Assassini da tavola!. No: "Erbivori da galera": una super-vegana e una carnivora a confronto. Daniela Martani, già hostess e concorrente del Grande Fratello, che lotta per la «liberazione animale». E dice: «Ricevo minacce, sono pronta denunciare tutti». Contro Elvira Savino da Conversano, fedelissima di Berlusconi e deputata di Forza Italia che ha proposto un disegno di legge contro i genitori che impongono diete «troppo restrittive» ai figli, scrive Susanna Turco il 23 settembre 2016, su "L'Espresso". Avrei voluto essere nata vegana, crescere senza mai aver ingerito un pezzo di cadavere o fluido mammario di altre specie viventi». Sospira Daniela Martani, 43 anni, già hostess-icona della vertenza Alitalia (sventolava il cappio), già concorrente del Grande fratello, in tv con Chiambretti Giletti, Santoro, ora dj («faccio serate per mantenermi») e, appunto, vegana integrale. Anzi: nazi-vegana, come la chiamano taluni. «Ma quale nazi! È inaccettabile: i nazisti hanno ammazzato milioni di persone, un vegano lotta per la vita», protesta. Lei lotta da quattro anni, fulminata da un servizio di Report: da allora va in tv a dare dell’assassino a macellai ed allevatori, frequenta oasi con capre e cinghiali, fa proselitismo a botte di aperitivi vegan, dal sushi con le carote all’amatriciana al tofu. «Ma non è una dieta, è un movimento di liberazione animale, la scelta etica di non essere più complici del massacro», chiarisce. Perché «uomini e animali hanno lo stesso diritto di vivere» e invece «considerarsi superiori ad altri ha portato ai più grandi crimini: pensiamo agli ebrei, ai neri, alle donne». La battaglia, racconta, è difficile: «Siamo sotto attacco, tocchiamo interessi, ci considerano pazzi». Un ruolo scomodo, fare la testimonial: «Sta diventando una guerra spietata, ho ricevuto tante minacce». Le ultime («almeno cinquemila», sta facendo un censimento), sono arrivate dopo un post sul karma di Amatrice, che giura non aver scritto lei, ma che le ha ispirato una ulteriore missione: «Mi voglio battere contro il cyber bullismo, li denuncio tutti». Non vuol far la «caccia al vegano», dice, ma sembra pronta per indossare la coroncina della no-vegan in Parlamento. Elvira Savino da Conversano, 39 anni, deputata di Fi, fedelissima a Berlusconi che le fece da testimone di nozze, si è infatti già beccata della «cannibale assassina» e della «pazza» perché ha scritto un progetto di legge che propone il carcere per i genitori che impongono diete «troppo restrittive» (leggasi: vegane) ai minori, equiparando il fatto a un «maltrattamento in famiglia». «Non si possono usare i figli per combattere le battaglie dei genitori», dice: «Dopo tanti fatti di cronaca, volevo aprire il dibattito: invece ho acceso l’ira invereconda di questi pacifici erbivori, che in realtà sono di una aggressività assoluta». Vegana non potrebbe diventare mai, spiega, per questione di “benessere fisico” («non ho evidenze che la dieta vegana sia meglio, anzi»), ma anche «di benessere mentale: non posso vivere chiedendomi se nel biscotto che sto per addentare ci sia un residuo di uovo, e quindi la traccia della sofferenza di una gallina: oltretutto ci vuole un sacco di tempo per stare appresso a un regime del genere». Non che le istanze vegane non siano sottoscrivibili, ma «è l’estremizzazione che non funziona: sembra una specie di fede, un credo, una crociata. Una moda, per molti. Che porta anche contraddizioni: diciamo no alla coppa del contadino a chilometri zero, sì al tofu delle multinazionali?».

Vegani liberi. Ma con buon senso. Un adulto può scegliere la sua alimentazione in piena autonomia. Ma non può imporla ai figli. Michele Ainis interviene in quello che, spiega, è un dibattito che ci coinvolge. Perché riguarda il ruolo dello Stato di fronte a scelte che riguardano la salute, i diritti delle minoranze. E la voce dei bambini, scrive Michele Ainis il 23 settembre 2016. Non c’è in gioco soltanto una bistecca. Sotto la cenere delle polemiche attorno all’alimentazione vegetariana o vegana degli alunni, brucia il fuoco dei diritti, delle garanzie costituzionali. Il diritto alla salute, degli adulti e soprattutto dei bambini. Il rispetto delle minoranze, delle loro scelte culturali. La dignità degli animali, che la Costituzione tedesca protegge espressamente. La libertà di religione, quando confligge con le leggi che proibiscono pratiche aggressive (è il caso della macellazione senza stordimento dell’animale, secondo il rito ebraico e islamico). Infine la sovranità sul corpo, sul nostro corpo fisico. A chi spetta? A noi stessi? Ai nostri genitori, finché nuotiamo in quel tempo della vita in cui loro decidono per noi? O invece il corpo dei cittadini è dello Stato? Come insegnò Foucault, il corpo è sempre stato oggetto e bersaglio del potere. Nei secoli mutano le forme di questo controllo esterno, non il controllo in sé. Semmai la tecnologia lo ha reso più invasivo, come ben sanno i 300 mila abitanti dell’Islanda: nel 1998 il Parlamento islandese autorizzò la creazione d’una banca dati del loro patrimonio genetico, senza chiedergli se fossero d’accordo, e per giunta vendendo in esclusiva tali informazioni a una casa farmaceutica. Ma ne sappiamo qualcosa pure noi italiani: per dirne una, la legge n. 91 del 1999 permette di prelevare i nostri organi al momento della morte, anche se in vita non avevamo mai manifestato un consenso esplicito. E c’è poi il salutismo di Stato, con tutti i suoi furori. La caccia agli obesi, per esempio attraverso la fat tax, la tassa sul grasso: nel 2011 la Danimarca fu il primo Paese al mondo ad introdurla. I controlli di qualità sugli alimenti, spesso figli di norme parossistiche; è il caso dei regolamenti europei (rispettivamente del 1998 e del 1994) sulla lunghezza delle banane e dei cetrioli. La scomunica delle droghe leggere, del tabacco, dell’alcol, anche se negli ultimi due casi lo Stato ci guadagna con le accise, mentre nel primo caso ci guadagnano le mafie. Diciamolo senza mezzi termini: si tratta di un abuso. Perché la Costituzione declina la salute come un diritto, non già come un dovere. E perché impernia la nostra convivenza sulla libertà reciproca, che significa autonomia dei singoli e dei gruppi, nelle proprie scelte esistenziali, nei propri stili di vita. Quand’anche fossero dannosi a chi li pratica: dopotutto, se mangio carne a colazione, se l’accompagno a un whisky e a uno spinello, sono fatti miei. Idem se non indosso il casco in motorino, o la cintura di sicurezza in automobile; in questi casi metto in pericolo me stesso, non il prossimo. E il tentato suicidio non è mica un reato. Dice: ma i traumatizzati costano, se aumenta la spesa sanitaria aumentano le tasse. E allora? Anche una pastasciutta ben condita fa crescere il colesterolo; dovremmo vietarla con tutti i crismi della legge? Questo principio di autonomia protegge i costumi collettivi, oltre quelli individuali. Non a caso, negli Stati Uniti e in Canada vigono antiche esenzioni per alcune comunità (come gli Amish o i Mennoniti) che rifiutano l’istruzione obbligatoria per i loro figli, allo scopo d’impedirne l’omologazione culturale. Tuttavia l’autonomia presuppone una scelta consapevole, e quando sei bambino non hai ancora la capacità di scegliere. Un adulto può anche decidere di farsi del male, ma non può fare del male ai suoi bambini. Ecco perché i Testimoni di Geova hanno tutto il diritto di respingere le trasfusioni di sangue, però non possono impedirle ai minori in pericolo di vita. Al modo stesso, è quantomeno dubbio che una coppia di genitori vegani possa imporre questa dieta ai propri figli, quando molti neuropsichiatri infantili ne denunciano i pericoli nell’età dello sviluppo. Si chiama principio di precauzione (nel dubbio, evita rischi). Ma tutto sommato è un principio di buon senso.

Vegani, Carlo Petrini: abbasso le etichette, viva i "consapevoliani". Stagionalità, varietà, agricoltura e allevamento locali. Sono queste le parole chiave. Perché il punto non è cosa mangiare, forse. Ma come. Ovvero la nostra maniera di alimentarci. Facendo del bene alla nostra salute e non minacciando la biodiversità, scrive Carlo Petrini il 23 settembre 2016, su "L'Espresso". Onnivori o vegani? Vegetariani o crudisti? Devo dire che il dibattito sulle “etichette” da affibbiare alle abitudini alimentari mi appassiona poco. Non perché non sia importante porsi la questione delle nostre scelte in fatto di alimentazione, al contrario perché mi trovo un po’ in difficoltà a parlare di cibo, quanto di più complesso e diversificato, quanto di più culturale e radicato nell’identità dei popoli, in termini di categorie e di comportamenti correlati. Non me ne vogliano i lettori e non me ne vogliano nutrizionisti, gastronomi, ghiottoni o tifosi di sorta ma, a mio modesto parere, il punto non è quanti limiti o paletti (e di quale natura) io introduca nella mia dieta; al contrario la questione centrale è quella dell’approccio a ciò che mangio, come lo mangio, come lo scelgo e quanto sono consapevole di ciò che sto facendo quando lo acquisto. Il cibo è innanzitutto un prodotto della terra, che cresce nella terra e che da essa trae il suo sostentamento per poi trasferirlo a noi sotto forma di energia e di elementi nutritivi. Fin qui tutto bene. l cibo, però, ha anche a che fare con ciò che siamo, ha a che fare con il modo in cui vediamo il mondo, con cui lo abitiamo e con cui ci interfacciamo con esso. Il cibo parla di noi, e così fanno le nostre abitudini alimentari. Fatta questa premessa diventa difficile esprimere giudizi sulle scelte altrui. Ciò che mi pare però evidente è che, se c’è qualcosa da cui non possiamo astenerci, è proprio il ragionamento sulla nostra maniera di alimentarci. Ecco allora che impattare meno sulle risorse naturali, cercare di fare del bene alla nostra salute e non minacciare la biodiversità del mondo sono basi solide da cui partire. Stagionalità, varietà, agricoltura e allevamento locali. Questo abbinato a una moderazione di fondo, in particolare per quanto riguarda la carne (al di là delle posizioni etiche è una scelta di salute), ci consente in ogni caso di mangiare meglio. E se poi dovremo a tutti i costi darci un’etichetta sceglieremo “consapevoliani”.

Umberto Veronesi: dieta vegana? Sì, ma evitiamo il fai-da-te. Il grande oncologo parla degli effetti sulla salute di un'alimentazione senza proteine di origine animale. Confermando che è possibile, e che può far bene. Ma che per seguirla bisogna evitare squilibri, scrive Francesca Sironi il 23 settembre 2016, su "L'Espresso". C’è chi arriva a dire: “Cura il cancro”. Chi semplicemente che fa bene alla salute: i vegani stanno meglio degli onnivori? Le risposte di Umberto Veronesi, il grande oncologo, fondatore della Fondazione Veronesi.

Professore, diventare vegani è una scelta “salutista”?

«Non sono le “etichette” a rendere una alimentazione sana o meno, ma ciò che nella pratica si mangia e in quali quantità. Vero è che, in linea generale, una dieta vegetariana è globalmente il regime alimentare più sano».

I vegani rinunciano anche a latte e uova.

«Per seguire una dieta vegana e stare bene è importante conoscere i fabbisogni nutrizionali dell’uomo. E quindi come possono essere soddisfatti con il mondo vegetale, affidandosi a specialisti per impostare uno stile alimentare corretto anche in questa scelta più estrema, poiché il rischio del fai-da-te, concreto, è quello di incorrere in squilibri, soprattutto di alcuni micronutrienti come la vitamina B12».

Le carenze possono essere molte?

«Il nostro organismo, se in salute, impara a ottimizzare l’assorbimento dei nutrienti. L’unica vitamina a rischio per i vegani è appunto la B12 che è di produzione microbica ed è presente nel mondo vegetale solamente in alcune alghe e nella soia fermentata. Molti prodotti industriali per vegani però sono fortificati con B12, tanto da rendere spesso l’apporto sufficiente senza che sia necessaria un’integrazione farmacologica».

La dieta vegan può combattere il cancro, come dicono alcuni?

«In letteratura scientifica è assodato che un’alimentazione a prevalenza vegetale sia protettiva nei confronti non solo dei tumori ma anche di malattie cardiovascolari e neurodegenerative. Meno consistenti sono i dati che esprimono un vantaggio significativo di una dieta vegana rispetto ad una vegetariana od onnivora di tipo mediterraneo, in cui i derivati animali, consumati con moderazione, sono soprattutto pesce e latticini freschi a basso contenuto in grassi».

A dividere di più sono i bambini. «Le proteine animali sono fondamentali per la crescita», dice il ministero della Salute.

«Sia dopo lo svezzamento che durante la crescita, è ancora più fondamentale rispetto all’adulto avere un’alimentazione adeguata in apporti energetici e completa in macro e micronutrienti, più semplici da ottenere con una dieta onnivora o vegetariana rispetto a una vegana, che necessita di frequenti analisi per verificare lo stato nutrizionale del bambino. Non dimentichiamo però che la malnutrizione può essere anche per eccesso: l’obesità infantile è un problema allarmante».

Il credo veg fra cinema e libreria. Romanzi, film, reality. Così il contagio "cruelty-free" invade la cultura, scrive Caterina Bonvicini il 23 settembre 2016, su "L'Espresso". In letteratura e nel cinema, il filone vegano ha due nature: una è tragica, al confine con il noir, l’altra è filosofica, di denuncia, più vicina al reportage. Nei romanzi del primo tipo, come “La vegetariana” della coreana Han Kang (uscirà per Adelphi il 13 ottobre, tradotto da Milena Zemira Ciccimarra) o come “Il bambino indaco” (Einaudi) di Marco Franzoso, da cui Saverio Costanzo ha tratto il film “Hungry Hearts”, la scelta vegan si trasforma in follia. In queste storie, dove il credo vegano portato all’estremo degenera in anoressia, c’è qualcosa di finale: un’ossessione per la vita che in realtà è un’ossessione di morte, un’ansia di purificazione che diventa rifiuto di tutto, del corpo degli animali come del proprio. “La vegetariana” di Han Kang, meritato Man Booker Prize del 2016, è un romanzo bellissimo, potente e perturbante. La storia di Yeong-hye viene raccontata all’inizio dal marito (incipit folgorante: «Prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante»), poi dal cognato innamorato di lei e poi dalla sorella che va a trovarla in un ospedale psichiatrico. Prima di rifiutare la carne, Yeong-hye rifiuta di portare il reggiseno. La sua scelta vegana equivale alla nudità: è un modo di ribellarsi a un padre e a un marito violento. È un Bartleby che trasporta la sua gentile negazione - «Preferirei di no» - sul fronte alimentare. Tutto comincia da un sogno. Come nel film di Costanzo (il libro di Franzoso è altrettanto bello, ma sono diversi: l’immaginario onirico appartiene solo al regista, il romanzo invece è secco, composto, per niente visionario). Yeong-hye sogna di essere coperta di sangue di carne macellata. Da lì, pur di non mangiare carne, è disposta a tagliarsi le vene con un coltello durante un pranzo in famiglia. L’unico che capirà la sua dimensione interiore, fatta di piante e libertà, sarà il cognato, ossessionato dal desiderio per lei. Ma quella che riporterà tutto alla realtà sarà la sorella, un personaggio simile al protagonista del libro di Franzoso, che si accorge che sua moglie Isabel sta uccidendo il figlio di pochi mesi, per denutrizione. Sono trame scorrette, ma sguardi intelligenti, che disturbano tanta retorica sul tema. A questo filone può appartenere persino l’ultimo libro di Fausto Brizzi, “Ho sposato una vegana” (Einaudi), un noir suo malgrado, nonostante il tono da commedia facile. Al di là del rapporto sadomasochista che ne esce (dal romanzo, naturalmente), è inevitabile preoccuparsi per sua moglie. Brizzi la racconta con leggerezza (la parodia di una scelta vegana), ma lei emerge come un personaggio tragico, ossessionato dalla morte. Come gli altri, di Han Kang, Franzoso e Costanzo. I libri del secondo tipo, invece, come “Se niente importa” (Guanda) di Jonathan Safran Foer o “La vita degli animali” (Adelphi) di J. M. Coetzee, che siano in forma di reportage o di romanzo filosofico, sono di denuncia e possono convertire qualunque carnivoro. Quello di Foer racconta così bene le torture agli animali, soprattutto negli allevamenti intensivi, che diventa impossibile mangiare un hamburger senza ricordarsi di quelle pagine. Un percorso inaugurato da docufilm come quel “Super Size Me” di Morgan Spurlock nei panni di se stesso, che già nel 2004 raccontò l’esperimento di tre pasti al giorno in un McDonald per un mese: undici chili in più e organismo intossicato. Sulla stessa scia “Fast Food Nation”, film del 2006 di Richard Linklater, o “Cowspiracy”, del 2014, di Kip Andersen e Keegan Kuhn, sul disastro ambientale provocato dall’industria della carne. L’attesa è ora per “The Founder”, di John Lee Hancock, che uscirà a dicembre negli Usa: la storia dei fratelli McDonald e di Ray Croc che ha acquisito il marchio. Chissà quante polemiche solleverà.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

TUTELA DEL MADE IN ITALY. FALSI ED OGM: QUANDO IL TROPPO, STROPPIA.

Dal Prosciutto di Parma tarocco al Prosecco alla spina: stop del Mipaaf al falso made in Italy. Il ministero delle Politiche agricole, grazie all’intervento dell’Ispettorato repressioni frodi, ha bloccato la vendita di prodotti contraffatti in Olanda e Gran Bretagna. Salgono a quota 110mila i controlli in Italia e all'estero contro le frodi alimentari, scrive Monica Rubino su “La Repubblica”. Avevano provato a vendere falso Prosecco dop alla spina in negozi, locali, supermercati e siti web della Gran Bretagna. Mentre in Olanda alcune catene della grande distribuzione smerciavano un salume pre-confenzionato, il "Parma Ham", spacciandolo per vero Prosciutto di Parma, come il ministero delle Politiche Agricole (Mipaaf) ha anticipato a Repubblica.it. Ma le truffe sono state scoperte e bloccate dal Mipaaf tramite l'Ispettorato repressioni frodi (Icqrf). E oggi i produttori delle 'bollicine' trevigiane e del rinomato salume emiliano ringraziano il ministro Maurizio Martina per il lavoro svolto a difesa di alcune delle produzioni enogastronomiche italiane di maggior successo nel mondo. L'inganno del Prosecco è stato stoppato grazie alla collaborazione del Department for Environment Food and Rural affairs (Defra), il ministero britannico dell'Ambiente, alimentazione e agricoltura, che ha effettuato decine di controlli dopo le segnalazioni ricevute dal nostro Icqrf, a sua volta sollecitato dai tre consorzi di tutela dei vini a denominazione protetta. Le catene olandesi "Jumbo" e "C1000", invece, proponevano sotto il loro marchio di fabbrica prosciutto affettato e confezionato direttamente dai punti vendita con la dicitura "Prosciutto di Parma" posta sull'etichetta degli scaffali. Evocavano perciò chiaramente la Dop italiana, che può essere prodotta, confezionata (eventualmente affettata) e commercializzata solo a norma di legge e del disciplinare di produzione. E traevano così in inganno i consumatori. Le autorità olandesi sono quindi intervenute bloccando la commercializzazione del prodotto tarocco. Grazie alla normativa europea, fortemente voluta dall'Italia (reg. Ue 1151/12), la protezione delle nostre produzioni Igp e Dop può essere attivata su tutto il territorio dell'Ue con il pieno coinvolgimento degli Stati membri in cui avviene la vendita irregolare. "Queste operazioni ci dimostrano ancora una volta - sottolinea Martina - quanto sia efficace ed autorevole il nostro sistema di controlli che, non a caso, viene preso a modello da molti Paesi. Siamo primi in Europa - continua il ministro - nella tutela del settore agroalimentare, come ha sottolineato anche di recente la Commissione Ue. Nel 2014 sono state più di 110 mila le verifiche sulla filiera agroalimentare italiana, con sequestri per oltre 40 milioni di euro. Quest’anno abbiamo decuplicato gli interventi, passando da una decina a 145 casi di ritiro dal commercio dei prodotti. Stiamo lavorando intensamente anche sul web. Abbiamo stretto un accordo con 'eBay' che ci consente di far rimuovere falsi prodotti dagli scaffali virtuali. In vista di Expo organizzeremo il Forum europeo sulla lotta alla contraffazione agroalimentare. Vogliamo fare un salto di qualità su questo fronte dialogando anche con Paesi come gli Stati Uniti o la Cina". "Dal Mipaaf arriva un segnale positivo - commenta Innocente Nardi, presidente del Consorzio di tutela Prosecco Superiore di Conegliano Valdobbiadene Docg - di efficacia. Riconosciamo la tempestività dell'intervento che ha portato avanti la segnalazione congiunta dei tre Consorzi di tutela. Il nome Prosecco appartiene al nostro territorio, rappresenta una eccellenza made in Italy, e come tale non può non essere tutelata. Frodi simili ci sono state segnalate pure in Canada e anche lì stiamo operando per tutelare il nostro marchio". Una truffa, quella del Prosecco alla spina, che fa il paio con quella segnalata circa due anni fa della sambuca colorata che ha invaso i mercati europei. Milioni di bottiglie di un liquore multicolor, che sfrutta il nome e la fama del tradizionale prodotto italiano ma che ha caratteristiche completamente diverse, sono state esportate nel mercato europeo, soprattutto britannico. E non dimentichiamo l'altro inganno scoperto un anno fa sempre nel Regno Unito, dove il famoso grande magazzino Harrods vendeva con il proprio marchio un olio imbottigliato nel Regno Unito e spacciato come extravergine di oliva IGP Toscano, un'altra denominazione protetta in ambito Ue.

L'Italia ha scelto: niente cibi ogm. Un decreto firmato da tre ministri proroga il il bando al masi MON 810 anticipando la nuova direttiva Ue che sancisce il diritto dei singoli paesi a decidere se accettare o meno i prodotti transgenici, scrive Antonio Cianciullo su “la Repubblica”. Niente ogm in Italia. Su questo punto si sono trovati d'accordo il ministro della Salute Beatrice Lorenzin, il ministro delle Politiche agricole Maurizio Martina e il ministro dell'Ambiente Gian Luca Galletti che hanno firmato un decreto per mettere al bando il mais MON810. Dal punto di vista pratico cambia poco. Il provvedimento proroga per altri 18 mesi un precedente decreto. Ma dal punto di vista politico l'atto è rilevante perché anticipa il recepimento della nuova direttiva che sancisce il diritto degli Stati membri della Ue di proibire la coltivazione di organismi geneticamente modificati sul territorio nazionale. Mentre finora l'opposizione di un singolo paese alla coltivazione di prodotti transgenici era stata giuridicamente complessa, adesso  -  proprio alla vigilia dell'Expo di Milano dedicata al cibo - la procedura viene semplificata in sede comunitaria e si riconosce il diritto all'autodeterminazione del modo di produrre quello che finisce nel piatto. Le nuove norme permetteranno inoltre ai paesi Ue di adottare misure ulteriori per evitare la presenza accidentale di ogm nelle colture tradizionali e biologiche oltre che nei prodotti alimentari e nei mangimi. Gli stati membri potranno infatti intervenire direttamente sull'etichettatura e potranno abbassare la soglia limite attualmente consentita (lo 0,9%) per la presenza di elementi transgenici finiti accidentalmente in un prodotto definito "libero da ogm". "La decisione di mantenere in Italia il divieto di coltivare ogm come chiedono quasi otto italiani su dieci è un ottimo biglietto da visita per il made in Italy alimentare in vista dell'Expo", afferma il presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo."Gli ogm infatti non pongono solo seri problemi di sicurezza ambientale, ma perseguono un modello di sviluppo che è il grande alleato dell'omologazione". La Coldiretti precisa che nei 28 paesi dell'Unione Europea, nonostante l'azione delle lobbies che producono ogm, nel 2013 solo 5 hanno coltivato ogm (Spagna, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania), con appena 148 mila ettari di mais transgenico MON810 piantati per la quasi totalità in Spagna. "L'Italia si conferma leader nella battaglia per l'alimentazione di altissima qualità", aggiunge Vincenzo Vizioli presidente di Aiab, l'associazione del biologico. "Il governo ha dato un segnale chiaro. Ci auguriamo che questo indirizzo venga al più presto reso definitivo in modo da dare certezze al paese e permettere un rilancio ulteriore dell'agricoltura biologica e delle eccellenze del made in Italy". "Decisione tempestiva, atto dovuto in difesa di ambiente, agricoltura e cittadini", commenta Federica Ferrario, responsabile della campagna Agricoltura sostenibile di Greenpeace, alla firma del decreto che proroga per altri 18 mesi il divieto di coltivazione di mais Ogm MON810 sul territorio italiano. "Sventato il tentativo delle multinazionali di imporre in Italia, Paese che ospiterà EXPO 2015, la forzosa coltivazione di Ogm. Un atto dovuto, per proteggere ambiente, agricoltura e cittadini". L'associazione sostiene che l'agricoltura, e "in particolare l'agricoltura italiana, può e deve fare a meno degli Ogm. Ci sono biotecnologie che evitano la manipolazione genetica, con ottimi risultati".

Ogm, l’esperto attacca la Regione: cavalcate le paure. L’israeliano Fait contesta il divieto: i politici non conoscono la realtà Bolzonello: non siamo contro la scienza, ma no a quelle produzioni, scrive Michela Zanutto su “Il Messaggero Veneto”. L’esperto attacca la Regione sugli Ogm. E’ accaduto ieri nel primo convegno di Agriest. A parlare è stato uno dei relatori, il professore israeliano Aaron Fait dell’università Ben Gurion di Tel Aviv. Chiare le sue parole, davanti al vice presidente del Friuli Venezia Giulia Sergio Bolzonello. «Capisco i timori dei cittadini sugli Ogm – ha detto Fait –, ma il ruolo del politico dovrebbe essere diverso. Non dovrebbe cavalcare le paure degli elettori, ma informarsi e spiegare la realtà. Da ricercatore spero che le sperimentazioni su sementi geneticamente modificate continuino. E anche in un territorio senza Ogm le persone mangiano mediamente il 30 per cento di prodotti geneticamente modificati». Ma la posizione della Regione che è l’unica in Italia a essere Ogm free, e in particolare quella di Bolzonello è altrettanto limpida. «La nostra posizione non è legata soltanto a un ragionamento scientifico – spiega –, ma è anche economico e di presenza del Friuli Venezia Giulia sul futuro del mercato della produzione agricola. Da questo presupposto è nata la legge che certifica l’impossibilità di semine Ogm sul territorio. Questo non significa essere contro la scienza, ma volere un certo tipo di produzione». Tra gli altri temi discussi c’è stato quello dell’Imu sui terreni agricoli. Dopo la bocciatura della sospensione dei pagamenti arrivata ieri dal Tar del Lazio, lunedì scatta la mannaia. Obbligatorio pagare. Ma Bolzonello, lascia aperto uno spiraglio: «Stiamo facendo pressioni sul Governo perché riveda la norma – spiega –, speriamo in un risultato nel più breve tempo possibile perché le spinte arrivano da tutti gli enti locali. Questo dell’Imu sarebbe un colpo impressionante, un colpo che i nostri agricoltori non si possono permettere». Clima ballerino e raccolti inferiori alle attese vanno di paro passo con la riduzione dei compensi degli agricoltori. Ma in Friuli Venezia Giulia c’è un problema in più che «in questo momento non dà la possibilità di retribuire in modo adeguato i nostri agricoltori – sottolinea Bolzonello parlando dai lavori di Agriest davanti agli assessori provinciale Leonardo Barberio e comunale Alessandro Venanzi, oltre al sindaco di Gorizia Ettore Romoli e all’ex assessore regionale Claudio Violino – ed è la necessità di un grande sforzo di disegno strategico rispetto alla trasformazione: dobbiamo dotarci di impianti all’avanguardia. Impianti che in questo momento mancano nei settori vitivinicolo, lattiero caseario e cerealicolo. Abbiamo la necessità di un’agricoltura che sia sempre più di grande livello professionale, un’agricoltura che riesca a cogliere l’aspetto dell’innovazione e della ricerca che il mondo delle università propone». Intanto sono in arrivo 30 milioni in tre anni per il nuovo Piano di irrigazione del Friuli Venezia Giulia. «Fondi già stanziati in parte in Finanziaria, 3 milioni, cui in sede di assestamento si aggiungeranno altri 7 milioni. Il prossimo anno ne arriveranno altri 10 e altrettanti nel 2017», spiega Bolzonello. E quello stanziamento potrebbe crescere perché «il Ministero sta ragionando su un piano nazionale da 300 milioni con due canali di finanziamento separati, centro-nord e centro-sud, e quindi in regione potrebbero arrivare fra gli 8 e i 10 milioni che farebbero salire il fondo del triennio a 40 milioni – auspica Bolzonello –. Una cifra ancora non sufficiente per il comparto irriguo, ma un buon inizio perché abbiano molte aree non infrastrutturate, penso al Collinare, ma anche zone con irrigazione a scorrimento da sostituire con l’irrigazione a pioggia». Un plauso è andato ai Consorzi di Bonifica Bassa Friulana e Ledra Tagliamento, capaci di raggrupparsi in un unico Consorzio per razionalizzare l’operatività, gli interventi e i costi.

Ogm, Associazione Coscioni: Napolitano e Monti ascoltino gli scienziati. Niente ricatti da Slow Food, Coop e Coldiretti. Sul sito web dichiarazione congiunta  dell'avvocato Filomena Gallo, Segretario dell'Associazione Luca Coscioni, del professore Giulio Cossu, co-presidente dell'Associazione Luca Coscioni, e del professore Gilberto Corbellini. "Nelle democrazie liberali, la libertà di ricerca scientifica e la libertà d’impresa, garantite anche dalla Costituzione Italiana, sono le principali risorse per uscire dalle crisi economiche. Per questo motivo l’Associazione Luca Coscioni per la Libertà di Ricerca Scientifica chiede al Presidente della Repubblica e al Presidente del Consiglio dei Ministri di ascoltare gli scienziati che chiedono di poter fare ricerca con piante geneticamente modificate di interesse agricolo, e gli agricoltori, che vogliono coltivare le piante già approvate a livello di Comunità Europea e da cui è possibile ricavare una resa e un prodotto superiori. Se l’Italia vuole davvero salvare l’Unione Europea dovrebbe in primo luogo far valere i principi di trasparenza che sono alla base delle decisioni politiche. Ora nel 2010, la Commissione Europea ha tirato le somme di progetti sulla sicurezza degli ogm finanziati con soldi pubblici (circa 70 milioni di euro), concludendo che “non esistono prove scientifiche che gli OGM provochino rischi più elevati per l’ambiente o per la sicurezza dei prodotti alimentari e animali, rispetto alle colture e agli organismi tradizionali”. Se le cose stanno così, e se comunque importiamo milioni di tonnellate di mangimi derivati da ogm, per alimentare il settore zootecnico da cui vengono i nostri prodotti ‘tipici’, qualcuno vuole dire perché in Italia non si può fare ricerca sugli ogm e coltivare quelli che già 15milioni di agricoltori nel mondo stanno usando? Con oggettivi vantaggi per l’ambiente e l’economia dei Paesi in cui gli ogm vengono coltivati? Forse che i furori antimoderni e tecnofobici capricci dell’ex sessantottino Capanna, gli interessi economici e le strategie di marketing di Slow Food o di Coop o i ricatti politici di Coldiretti sono al di sopra dei fatti scientifici e dell’interesse nazionale? E’ di ieri la notizia che l’Unione Europea non consentirà agli Stati di vietare a livello nazionale la coltivazione di organismi geneticamente modificati. A questo punto non ci sono davvero più motivi per non consentire agli agricoltori che, sui terreni di loro proprietà, vogliono coltivare ogm di farlo. Continuare a vietarlo non è solo una scelta illiberale, ma anche una grave responsabilità morale, in quanto determinerà il fallimento di altre aziende agricole, accanto alle migliaia che hanno cessato le attività quest’anno, e quindi aggraverà la crisi economica del paese".

Il primo studioso di Ogm: "Chi non li vuole uccide il made in Italy". Francesco Sala: Il cibo naturale non è mai stato naturale. E nessun prodotto tipico è tipico. I verdi non capiscono ciò che era già chiaro a Giacomo Leopardi nel 1824. E profetizza: O l'agricoltura sarà geneticamente modificata o non sarà, scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. Un campo di battaglia. Silvano Dalla Libera, agricoltore di Vivaro (Pordenone), dopo tre anni di cause giudiziarie ha vinto al Consiglio di Stato e attende che entro 90 giorni il ministro delle Politiche agricole lo autorizzi a seminare mais geneticamente modificato. Luca Zaia, nemico giurato degli Ogm, ha annunciato che ricorrerà in tutte le sedi contro la sentenza. La Confagricoltura plaude alla decisione del Consiglio di Stato. La Coldiretti minaccia la raccolta di firme per un referendum qualora gli Ogm venissero ammessi. Cinquecento agricoltori abbandonano per protesta la confederazione fondata da Paolo Bonomi e s’iscrivono alla Futuragra di Dalla Libera. L’Espresso strepita in copertina: «Gli Ogm nascosti», e denuncia: «Consumatori senza difese». L’opinione pubblica continua a non capirci nulla. In questo bailamme, scende in campo l’unico che di campi se ne intende davvero, il professor Francesco Sala, biotecnologo vegetale. Con un giudizio più inappellabile di quello pronunciato dal Consiglio di Stato: «I prodotti tipici non sono mai stati tipici e il cibo naturale non è per nulla naturale. Fermare gli Ogm significa cancellare il made in Italy. È come se si costringesse la Fiat a costruire auto prive di tutto ciò che è stato inventato negli ultimi 30 anni, dall’Abs al navigatore satellitare. Gli anti Ogm questo stanno facendo: uccidono l’agricoltura italiana, che o sarà geneticamente modificata o non sarà. Lavorano - senza saperlo, mi auguro - proprio per le multinazionali che affermano di combattere, come la Monsanto, e anche per la lobby chimica che impesta l’ambiente di insetticidi, fungicidi, diserbanti, fertilizzanti. Stanno ripetendo l’errore compiuto nel 1948, quando gli avversari dell’innovazione andavano nel Bresciano a bruciare le coltivazioni dei loro colleghi che avevano messo a dimora il mais ibrido F1, lo stesso con cui oggi si prepara l’ottima polenta che piace tanto al ministro Zaia». A favore del professor Sala depone il curriculum: laureato due volte (farmacia e scienze biologiche), è stato il primo in Italia, fin dal 1980, a occuparsi con sistematicità degli organismi geneticamente modificati, per 13 anni al Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) e poi insegnando botanica generale e biochimica vegetale all’Università di Parma e alla Statale di Milano. In cattedra fino al 2008, ha diretto i tre orti botanici del capoluogo lombardo e a 71 anni continua le sue sperimentazioni in quello di Cascina Rosa. È responsabile di un progetto di ricerca Italia-Cina, finanziato dal ministero dell’Ambiente, sulla sicurezza ambientale delle piante Ogm. Con le modifiche genetiche ha aiutato i cinesi a sconfiggere gli insetti parassiti del riso e del pioppo. Loro si sono sdebitati nominandolo guest professor della Chinese academy of forestry di Pechino e docente ad honorem della Nanjing forestry university di Nanchino. Sala ha avuto per maestro uno dei più illustri scienziati viventi, il professor Luca Cavalli Sforza, il genetista che ha ricostruito l’evoluzione dell’homo sapiens, a sua volta allievo del grande Adriano Buzzati Traverso, fratello dello scrittore Dino.

«Cominciai con lui nel 1959. Me lo ricordo nel 1968, mentre impaccava le sue poche cose in università con la canea dei contestatori sotto le finestre: “Basta, mi trasferisco in America”. Convinse ad andarci anche me per tre anni. Lo ritrovai al dipartimento di genetica della Stanford University. Lavorava col microbiologo Joshua Lederberg e altri sette premi Nobel».

Il professor Sala e la figlia Monica, biologa che si occupa di Aids all’Istituto Pasteur di Parigi, hanno messo a punto un vaccino contro l’epatite B ricavandolo da una sequenza di Dna del tabacco geneticamente modificato. Sperimentato sulle cavie, l’estratto grezzo ha indotto una reazione immunitaria. Non pare, ma Ogm significa anche questo.

Che cos’è un Ogm?

«Un organismo in cui è stato introdotto stabilmente un frammento di codice genetico isolato da un altro organismo vegetale».

Solo vegetale? C’è molta informazione horror sugli Ogm, definiti cibi Frankenstein: il Dna dei topi nei carciofi, i geni dei salmoni messi nelle fragole per renderle più resistenti al freddo, il gene dello scorpione nel riso...

«Ribadisco: al 100% vegetale. Il resto è fantasia. Vero che fra uomo e scimmia vi è solo una differenza genetica dell’1,64% e che uomo e pianta hanno il 40% dei geni in comune. Ma sarebbe difficilissimo e costosissimo cercare altrove ciò che già si può trovare nel Dna delle piante. E comunque guardi che vegetale non è sinonimo di sano. Le faccio un esempio. Il basilico appena spuntato contiene metil-eugenolo, una sostanza estremamente cancerogena. Quindi chi volesse prepararsi un pesto alla genovese strappando le foglioline da una pianta alta 2-3 centimetri si esporrebbe a gravi rischi, visto che contiene 600 volte la dose massima consentita dalla farmacopea statunitense degli alimenti. Nel basilico alto 10 centimetri sparisce il metil è resta solo l’eugenolo, che è innocuo». 

Perché decise di occuparsi degli Ogm?

«Per interesse intellettuale, non certo per soldi. E mi ritrovo a vivere, pensi che beffa, nell’unico Paese al mondo che ne abbia vietato non solo la coltivazione per scopi commerciali ma addirittura lo studio in campi sperimentali. Dal 1999 ci hanno bloccato i fondi per la ricerca. Intanto oltre 3 miliardi di individui producono e mangiano Ogm e 7 dei 27 Paesi dell’Unione europea li coltivano, la Spagna addirittura da un decennio».

I verdi dicono che così il Belpaese difende il cibo naturale.

«Non sanno di che parlano. Il pomodoro del loro orto è il risultato della ricerca fatta nell’ultimo secolo dai genetisti agrari italiani, che erano all’avanguardia nel mondo. Ficchiamoci bene in testa un concetto: le piante che crescono spontanee sono una cosa, quelle coltivate un’altra. Persino Giacomo Leopardi, nelle Operette morali, anno 1824, scriveva che “una grandissima parte di quello che noi chiamiamo naturale, non è, anzi è piuttosto artificiale” e citava “i campi lavorati, gli alberi e le altre piante educate e disposte in ordine”. I verdi questo non lo capiscono. Loro sostengono che siccome in Italia c’erano 400 qualità di mele, mentre adesso se ne contano tre o quattro, gli Ogm sarebbero il colpo di grazia alla biodiversità».

A me risulta che nel giro di un secolo siano scomparse 500 varietà di mele nel solo Piemonte: la grigia di Torriana, la runsé, la calvilla, la buras, la gamba fina...

«E viene dirlo a me? Ero riuscito a salvare il melo della Val d’Aosta, coltivato fin dal Medioevo e decimato dal maggiolino Melolonta melolonta che si ciba delle sue radici. Avevo introdotto nell’apparato radicale un gene che rendeva la pianta immune dal coleottero. Solo la radice, badi bene, era Ogm. Il tronco e il frutto non contenevano nessun gene esogeno. Niente da fare: le hanno considerate mele Ogm e quindi proibite».

Assurdo.

«Il consumatore compra solo le golden delicious e le red stark col bollino, che però subiscono 34 trattamenti chimici l’anno per risultare così belle e così sane. Si torna al punto di partenza: i prodotti tipici non sono affatto doni della natura. Il grano duro, il riso Carnaroli, la vite Nero d’Avola, il pomodoro San Marzano, il basilico ligure, la cipolla rossa di Tropea, il broccolo romanesco sono stati ottenuti con gli incroci e con la mutagenesi sui semi. La quale si fa con mutageni fisici, tipo le radiazioni nucleari e i raggi gamma, o chimici, tipo l’etil-metan-sulfonato e l’acido nitroso, che sono cancerogeni».

Che bisogno c’era?

«L’agricoltura è sempre stata protesa ad aumentare la produttività e a migliorare la qualità. Ma le varietà coltivate non durano in eterno. Vengono attaccate dai parassiti: funghi, batteri, virus, insetti. Oggi il 25% del raccolto di Carnaroli, il riso più pregiato, viene distrutto dal Magnaporthe grisea, un fungo che aggredisce foglie e pannocchia. Basterebbe inserire un gene che gli conferisca resistenza all’attacco fungino. Una celebrità nazionale come il San Marzano, indispensabile su spaghetti e pizza, rappresentava il 20% della produzione di pomodoro in Campania. Un virus l’ha distrutto. Oggi è sceso a meno dell’1%. Prima dei divieti del 1999 era stato sperimentato in campo un ottimo San Marzano Ogm che resisteva al virus. Si poteva salvarlo».

Che spreco.

«Niente a confronto con quello che è accaduto al golden rice, il riso Ogm del professor Ingo Potrykus, un mio caro amico tedesco che presentai a Papa Wojtyla e che ora siede nella Pontificia accademia delle scienze. Contiene la provitamina A che diventa vitamina A nel corpo umano. Mangiandolo, milioni di bambini africani potrebbero salvarsi dalla cecità. Ma i fondamentalisti di Greenpeace lo bloccano da dieci anni. Ingo ne ha 76. “Prima di morire, spero di vederlo in produzione”, mi ha detto. A un convegno ho chiesto a uno dei caporioni di Greenpeace per quale motivo fosse contrario. La risposta è stata: “Se apriamo a un Ogm, poi passano tutti”. Non gliene fregava niente che fosse un riso sicuro».

Chi può garantire che gli Ogm non facciano male?

«Non vi è un solo studio al mondo che documenti un presunto danno arrecato dagli Ogm. E per studio intendo la pubblicazione dei dati su una rivista scientifica qualificata, la loro discussione e la loro riproduzione in altri laboratori. Le rare ricerche che paventavano un qualche rischio non hanno mai superato il successivo stadio di validazione».

Non è un po’ poco?

«Aggiungo che nel 2001, dopo 15 anni di studi costati 70 milioni di euro, l’Unione europea ha emesso una nota ufficiale nella quale si afferma che l’indagine svolta da 400 gruppi di ricerca pubblici “non ha mostrato alcun nuovo rischio per la salute umana o per l’ambiente”, semmai “diventano sempre più evidenti i benefici di queste piante”. Il 93% della soia importata in Italia è Ogm, per cui latte, parmigiano reggiano, grana padano, prosciutto crudo di Parma, salumi e carni già adesso provengono da animali alimentati con soia geneticamente modificata. Allora perché rinunciare a una vite Ogm con un alto contenuto di resveratrolo, sostanza naturale che combatte l’aterosclerosi e protegge il cuore? Invece ci beviamo insieme col vino una spremuta di antiparassitari. Il futuro del cibo biologico è solo negli Ogm».

Ma così gli agricoltori dipenderanno per sempre dai brevetti della Monsanto, obiettano gli ambientalisti.

«Siamo seri. È dal 1945 che i contadini italiani comprano la semente dell’ibrido F1 dalla Monsanto piuttosto che dalla Syngenta. Mica per altro: produce il 30-40% di mais in più. I semi Ogm potrebbero benissimo provenire dalle università italiane, senza dover dipendere dall’estero. Io ci ho parlato con Hugh Grant, presidente della Monsanto. Mi ha spiegato che a loro interessano solo mais, soia, cotone e orzo Ogm, neanche il riso, perché, nonostante 3,8 miliardi di asiatici lo mangino, i volumi di esportazione sono troppo bassi. Le pare che le multinazionali investirebbero soldi sul miglioramento genetico del San Marzano?».

Presumo di no.

«Appunto. E infatti sono stati i nostri laboratori di ricerca molecolare a produrre e a sperimentare in campo 24 specie di vegetali Ogm resistenti a insetti, erbicidi, funghi e virus - dalla patata al ciliegio, dalla melanzana alla fragola - ai quali la Monsanto non sarà mai interessata. La verità è che le multinazionali traggono profitti enormi dal blocco degli Ogm in Europa, perché in questo modo possono capitalizzare i risultati delle loro scoperte e non devono confrontarsi con la ricerca pubblica. Quindi se io fossi Hugh Grant darei un premio al presidente della Fondazione diritti genetici, Mario Capanna, contrarissimo agli Ogm, che di fatto è il suo miglior alleato. Anche se fossi presidente della Bayer darei un premio all’ex sessantottino».

Con quale motivazione?

«Benemerito della chimica in agricoltura. Le statistiche parlano chiaro: gli unici Paesi dove da 10 anni sta diminuendo l’uso di fitofarmaci sono quelli che hanno introdotto gli Ogm. Viceversa, dove gli Ogm sono proibiti, il commercio di veleni è in costante crescita».

Ma lei, oltre che con Grant, ha mai provato a parlarne anche col ministro Zaia?

«L’ho incontrato solo una volta, otto anni fa. Mi ha chiesto a bruciapelo: “Ma lei è favorevole o contrario agli Ogm?”. Io sono favorevole alla scienza, gli ho risposto. Ne ho concluso che se il 60% degli elettori fossero favorevoli agli Ogm, anche i politici lo sarebbero».

Gli agricoltori contrari agli Ogm sono la stragrande maggioranza e non vogliono che i loro campi siano contaminati da coltivazione transgeniche.

«I dati che ho io dicono che il 50% è contro e il 50% è pro, se non altro perché un ettaro di mais Ogm rende 266 euro in più. A parte questo, una ricerca promossa da Gianni Alemanno, all’epoca ministro dell’Ambiente, avversario degli Ogm, dimostra che il polline del granoturco vola al massimo fino a 20-30 metri. Basterebbe una distanza di sicurezza di 50 metri per evitare qualsiasi commistione. Il polline di riso ha due ore di vita e non va oltre i 40 centimetri. Il camminamento fra una risaia e l’altra già impedirebbe lo scambio».

L’Eco di Bergamo ha lanciato un sondaggio on line sul tema: «Mangeresti la polenta Ogm?». Fino a ieri avevano votato in 1.487. Sì 67%, no 33%.

«Interessante».

Quel divieto di Ogm: ipocrisia pagata cara, scrive  Massimo Riva su “L’Espresso”. Non possiamo coltivarli. Ma ne importiamo (e ne mangiamo) in grande quantità. Così l’Italia resta indietro in una biotecnologia decisiva per il futuro. Il conto alla rovescia per l’apertura dell’Expo milanese è ormai questione di una manciata di giorni. Dopo tanti scandali e vicissitudini frustranti ci si può solo augurare che tutto vada per il meglio. Alla fin fine, come dicono gli inglesi: “Rigth or wrong, my country”. Ma nemmeno il più generoso dei patriottismi può far sorvolare sulle incongruenze dell’approccio italiano al bel tema centrale della manifestazione: l’alimentazione nel pianeta Terra. Al riguardo il ministero delle Politiche agricole e forestali ha indicato come priorità la difesa della “specificità” delle produzioni agro-alimentari nazionali. Scelta che si sostanzia nel ribadire il più fermo divieto all’uso di sementi geneticamente modificate (Ogm). Che quella della biodiversità domestica sia una bandiera gloriosa non v’è dubbio: il nostro paese vanta una quantità di prodotti d’eccellenza da far invidia al mondo intero che, infatti, si cimenta spesso in truffaldini tentativi di imitazione. Peccato che, alla luce dello stato dei fatti, il rigoroso impegno assunto dal ministro Maurizio Martina risuoni stonato come i rintocchi di una campana fessa. Accade, infatti, che le già ricordate produzioni di specifica eccellenza convivano con una larghissima maggioranza di attività per le quali il riparo della biodiversità è una maschera artificiosa e ingannevole. E non mi riferisco soltanto a qualche caso di azione fraudolenta come quella, per esempio, di chi mette sul mercato col marchio Italia prosciutti ricavati da suini allevati chissà poi come in Turchia. No, c’è una questione in materia di ben più seria e diffusa valenza economica e politica che, a dispetto dei veti ministeriali, tiene più che mai aperto il tema degli Ogm. La catena alimentare che porta alla produzione di beni di largo consumo - quali latte, formaggi, carni e salumi - fa capo a due fondamentali nutrimenti per gli animali: il mais e la soia. Ebbene la produzione nazionale al riguardo è da tempo largamente carente per cui da anni il deficit viene colmato con importazioni dall’estero. Nel caso della soia le cifre sono addirittura impressionanti perché gli acquisti oltre confine sfiorano ormai il novanta per cento del fabbisogno interno. Quanto al mais la situazione sta progressivamente peggiorando: una dozzina d’anni fa ce la facevamo da soli, ora l’autonomia nazionale è scesa attorno al 60 per cento. E qui scatta la trappola: gran parte di queste importazioni di mais e soia viene fatta da paesi che fanno ampio ricorso alle coltivazioni Ogm, come qualche listino delle Borse Merci ha almeno il pudore di confessare. Questa malcelata verità apre la strada a una serie di incresciose deduzioni. La prima: alla faccia dei divieti e delle prediche identitarie del ministero, sulle tavole degli italiani i prodotti da Ogm sono presenti in massa ovvero li si mangia ma non li si può coltivare. La seconda è che, quando si avvolge nella bandiera della biodiversità italiana, il ministro Martina finisce per vestire i panni vuoi del candido negligente vuoi del callido ipocrita: scelga lui. La terza è che questa dipendenza dagli Ogm altrui ha tutte le premesse per aggravarsi. Intanto, perché le coltivazioni Ogm vantano una competitività inarrivabile con rese per ettaro superiori fino al 50 per cento rispetto alle colture naturali. Con tali riflessi ribassisti sui prezzi da emarginare gli agricoltori tradizionali. Poi c’è il piccolo particolare che Bruxelles ha demandato a scelte nazionali il via o lo stop alle semine Ogm e così presto avremo importazioni di mais Ogm, per esempio dalla Spagna, ancor meno arginabili di quelle extracomunitarie. Infine, col passare del tempo, il gap italiano risulterà sempre più incolmabile perché al divieto domestico di coltivazione si è pure accompagnata la paralisi della sperimentazione scientifica in materia. Non so quali novità potranno venire dall’Expo per l’alimentazione del pianeta, ma per l’Italia già sarebbe un successo se si riuscisse a liberare la nostra agricoltura dalla tassa occulta del tartufismo ministeriale in tema di Ogm.

Chi ha paura della scienza in Italia? Una legge che vieta le sperimentazioni. Pregiudizi su vaccini e Ogm. Poi i santoni che tengono banco. Nel paese trionfano ignoranti e retrogradi. Anche per colpa della politica, scrive Daniela Minerva su “L’Espresso”. La perfezione del cervello da cui nasce il pensiero umano? Un reticolo di molecole assemblate a caso dall’evoluzione. La bellezza di uno sguardo capace di rapire il nostro cuore per sempre? Anche. La gioia di un recupero repentino che illumina mesi di malattia nostra o di un nostro caro? Episodico, inessenziale al vero decorso del male. Giorni di pioggia che ci obbligano a un agosto col maglioncino? Irrilevanti per capire se la Terra si scalda o no. Potremmo continuare per pagine, a elencare tutte le volte che la scienza ci sbatte la porta delle nostre emozioni in faccia, in una corsa senza fine a ridurre le nostre esperienze a “episodi”, e a contraddire quel che ci sembra ovvio. Eppure non possiamo che fidarci. Dobbiamo far tacere la personalissima percezione del mondo che nasce dalla realtà della nostra vita. La scienza è la scienza, un’impresa quasi perfetta capace di generare conoscenze condivise; autocorreggersi e restituirci la cosa più vicina possibile alla verità. Sappiamo che i risultati di quest’impresa ci sono utili (farmaci, energia, iPhone e aeroplani), e fin qui ci possiamo dire tutti scientisti. Ma se si tratta di accettarne le conclusioni anche quando contraddicono le nostre credenze e le nostre esperienze, allora cominciano i mal di pancia. E nascono i movimenti: contro gli Ogm, contro i vaccini, contro la sperimentazione animale; a favore di Stamina...Attorno a questo bisticcio si gioca la capacità del nostro paese di entrare nella modernità, di seppellire una volta per tutte Don Benedetto Croce e la sua sciagurata convinzione che le conoscenze scientifiche altro non siano che robe astratte capaci solo di «mutilare la vivente realtà del mondo». Basti pensare a quanto «vivente» sia stata la speranza dei genitori della piccola Celeste che hanno affidato la loro bambina agli intrugli di quel Vannoni arrivando persino a illudersi che le facessero bene. Noi lo chiamiamo “ caso Stamina ”, ma per decine di persone è stata una viventissima illusione. Che, come sempre accade quando un santone buca il video, ha contagiato per mesi l’opinione pubbica, comprensibilmente eccitata all’idea che si potesse fare qualcosa per quei bambini, ma del tutto indifferente alla notizia, arrivata nei giorni scorsi della prima terapia a base di cellule staminali scientificamente dimostrata e registrata dalle autorità europee, scoperta dagli scienziati dell’università di Modena. Fiumi di inchiostro e ore di talk show per la baggianata di Stamina, qualche trafiletto per la scoperta dei modenesi. Colpevoli, forse, di avere messo sotto i nostri occhi dati solidi e dimostrazioni inoppugnabili della capacità di cura della loro terapia, e non malati disperati, la «vivente realtà» cara a Don Benedetto. L’affaire Stamina è una faccenda recente. L’ultima a ricordarci l’opposizione apparentemente insanabile tra la comunità scientifica con le sue verità e noi con le nostre esperienze. Che si saldano con sistemi di valori collettivi fino a creare dei veri e propri movimenti. E così l’Oms aveva un bel puntare a sconfiggere il morbillo entro il 2015, e noi avevamo un bel pensare alla malattia come a una piaga dei paesi poveri; il 7 marzo proprio a Roma una bambina di 4 anni, Giulia, è morta per le complicanze di questa malattia. Non era stata vaccinata. Perché? Perché, insomma, molte delle conoscenze scientifiche diventano oggetto di opposizione sociale, anche violenta? Cominciamo col dire che non accade solo in Italia. Ma in tutte le democrazie occidentali. Se persino una buona fetta degli americani - coi loro quasi 200 premi Nobel, i più potenti centri di ricerca del mondo, i milioni di dollari investiti e i migliori scienziati del pianeta - è convinta che a metterci su questa Terra è stato un signore con la barba bianca qualche migliaio di anni fa e non un processo durato milioni di anni di evoluzione della vita. Centinaia di genitori inglesi si oppongono ai vaccini ben più violentemente dei nostri, forti di un antico principio che lo Stato non può interferire con le decisioni di una famiglia britannica. I tedeschi sono i maggiori consumatori di medicine “oliatiche” nel mondo. E i casi di terapie anticancro miracolose che infiammano l’opinione pubblica sono ovunque all’ordine del giorno. Quindi, sbagliano quelli che tacciano gli italiani di oscurantismo, e ignoranza scientifica. Siamo oscurantisti e ignoranti tanto quanto gli altri. Quel che fa la differenza è che altrove l’opposizione sociale alle conoscenze scientifiche non trova una sponda politica così forte come quella che trova a Roma, che non detta le leggi e i provvedimenti come invece fa nel nostro Parlamento. Lo dimostrano i dati raccolti dall’“Annuario Scienza Tecnologia Società” (edito da Il Mulino). Stando a quanto riportato nell’edizione 2015 appena pubblicata, ad esempio: «il livello di alfabetismo scientifico dei cittadini ha raggiunto un picco mai toccato». E, aggiunge Massimiano Bucchi, professore di Sociologia della scienza all’Università di Trento: «Lo stereotipo dell’italiano ottuso è largamente infondato. Ce lo dimostrano i dati raccolti in questi anni. Che, anzi, esplicitano quanto interesse ci sia per le questioni scientifiche nel nostro paese. Pensiamo solo al fatto che in nessun’altra parte del mondo i Festival della scienza sono così frequentati come i nostri; e che nessuna trasmissione televisiva, del settore, al mondo fa gli ascolti di Superquark». Già, però, poi abbiamo la peggiore legge sulla sperimentazione animale possibile, un’opposizione agli Ogm che manipola tutti i ministri dell’Agricoltura da dieci anni, e una regione come il Veneto che, nel 2007, scrive un’apposita legge per dire che non è obbligatorio vaccinare i bambini. Salvo poi scoprire, come ha fatto una ricerca della Asl di Verona, che cinque anni dopo i tassi di vaccinazione sono rimasti gli stessi. E scoprire che lo zoccolo duro dei nemici dell’immunizzazione salvavita è composto essenzialmente da laureati, informati e impegnati politicamente. Proprio come i genitori della piccola Giulia morta a Roma per le complicanze del morbillo, due medici. Fatti questi che diventano regola nel panorama italiano narrati dall’Annuario. E che Bucchi riassume: «L’opposizione ai vaccini, come agli Ogm, come la predilezione per l’omeopatia sono più diffuse tra le persone scolarizzate. Che si sentono istruite e quindi competenti a scegliere». Le ricerche dei sociologi indicano che siamo nel pieno di quella che Bucchi chiama «crisi dei mediatori». La gente non si informa più sui giornali, dall’amico scienziato, dal medico di famiglia. Va su Internet. Ma, attenzione, non a cercare vaghezze sui social network, i più vanno direttamente alla fonte: leggono i lavori scientifici, surfano i siti delle grandi università, seguono i blog dei ricercatori. Così entrano in contatto con una marea indistinta di informazioni (tutte attendibilissime), ma troppe perché un cittadino comune possa orientarsi, e men che meno fare una sintesi. E allora, di fronte a questo oceano, per farsi un’idea usano il loro personalissimo sentimento. Il professore della Yale University Dan Kahan si è chiesto in che modo i cittadini decidano di avere o meno paura degli Ogm, del riscaldamento globale, delle biotecnologie, o, magari, di fidarsi di Vannoni. E ha scoperto che lo fanno sulla base di «valori profondi», selezionando con cura sia le informazioni che sono conformi a questi valori sia riconoscendo autorevolezza agli esperti che li confermano tenendo, invece, in poco conto quelli che sostengono posizioni contrarie. E così persone con culture diverse si formano opinioni diverse sul medesimo fatto, senza tener conto della verità scientifica. Questo accade, aggiunge Bucchi, perché «i temi su cui l’opinione pubblica si trova in conflitto con le acquisizioni scientifiche hanno una natura ibrida. Sono questioni tecniche, ma il pubblico le percepisce come politiche». E così a formare il giudizio concorrono atteggiamenti che non hanno niente a che fare con la verità fattuale: la critica alle multinazionali dei semi o dei farmaci, percepite come invasive e luciferine; il rapporto col cibo; la sfiducia nelle istituzioni che si allarga a quelle scientifiche; l’adesione a dogmi religiosi. Atteggiamenti che coagulano gruppi molto coesi, attorno a una credenza che sembra quasi una fede. E un gruppo molto coeso attorno a una fede sono anche gli scienziati che oppongono apoditticamente la loro verità mentre sarebbe di gran lunga meglio, aggiunge Bucchi: «far crescere un atteggiamento critico, aperto ed equilibrato. Laico». Ovvero spingere l’acceleratore più sulla validità del metodo scientifico, sul valore del dubbio che muove ogni ricerca scientifica, sui suoi limiti e le sue potenzialità. Mentre, suggerisce Bucchi: «I paladini della scienza fanno troppo spesso dichiarazioni di principio». Altezzosi, spesso odiosi perché chiusi nelle loro torri d’avorio. Ma nello scontro tra fedi, c’è un convitato di pietra. Che finisce il più delle volte col prendere le decisioni sbagliate. È la politica che asseconda gli umori dei movimenti. Sono gli uomini e le donne del Parlamento che si dimostrano i veri oscurantisti e, chiosa Bucchi: «si comportano pensando di assecondare i desideri del pubblico. Ma spesso non hanno una rappresentazione corretta di quello che vogliono davvero i cittadini». I quali, ad esempio, sono nella stragrande maggioranza (il 67 per cento) favorevoli alla procreazione medicalmente assistita, regolamentata dal Parlamento con la legge più oscurantista che si potesse mai scrivere. Legge peraltro confermata da un referendum che chiamava in causa gli stessi cittadini. Un bel pasticcio. «Non tanto», chiosa Bucchi: «Al momento di andare a votare il merito passa in secondo piano e prevale l’affiliazione con la propria parte». Quello che di certo non ha avuto peso sono state le decine di prese di posizioni degli scienziati che spiegavano come e perché quella legge non ha senso. Perché, nelle mille sfumature del complesso rapporto tra gli italiani e la scienza, vi è di certo che la comunità scientifica è del tutto incapace di influenzare le scelte dei governi. Quando non ne è completamente subalterna. E l’opinione pubblica lo sa. L’84,4 per cento degli italiani, secondo l’Annuario 2015, ritiene che la scienza sia «troppo condizionata dalla politica». Basta vedere la pantomina andata in scena a L’Aquila. Con i tecnici condannati in primo grado (e poi assolti) perché nei giorni precedenti il sisma - sostennero i giudici - avevano rassicurato la popolazione, trasmettendo informazioni «inesatte, incomplete e contraddittorie». I membri della Commissione tecnico scientifica hanno avallato le dichiarazioni del vice della Protezione Civile, Bernardo De Bernardinis, il quale ha rassicurato la popolazione, a suo dire, proprio sulla base delle rassicurazioni a sua volta ricevute dagli scienziati. Certo non colpevoli perché nessuno può prevedere un terremoto, ma di certo anche ambigui nell’avallare implicitamente le rassicurazioni di De Bernardinis. Senza nemmeno suggerire l’ombra del dubbio. A L’Aquila è andata in scena la subalternità dei tecnici nei confronti della politica. E la vicenda è una triste parabola dei rapporti tra la scienza e il potere nel nostro paese. Dove vince sempre la ragion politica.

Elena Cattaneo: "Per molti politici non c'è differenza tra ciarlatani e medicina". Vaccini, Ogm, Stamina. Non è l'Italia ad essere oscurantista, ma la politica a dar retta alle spinte meno serie della gente. E i media non aiutano, continua di Daniela Minerva su "L'Espresso". La rivista "Nature" l'ha salutata con un “Brava Elena”, attribuendole, giustamente, la vittoria nell'affaire Stamina. Ma Elena Cattaneo è molto di più. Scienziata dell'Università di Milano, seduta su una pila di riconoscimenti internazionali, è stata nominata da Giorgio Napolitano senatore a vita. Ed è convinta che educare la politica alla scienza sia la mossa vincente. Ma non solo. Caso Stamina, sperimentazione animale. Ma non solo. Spesso gli orientamenti degli italiani vanno contro i risultati della scienza. Perché secondo lei? Benchè gli italiani, come tutti, siano immersi ed indissolubilmente legati a quanto conseguito dalla scienza, succede che venga vissuta, paradossalmente, come poco accessibile e poco vicina al sentire dei cittadini. Per un verso gli scienziati dovrebbero fare di più per spiegare non tanto i risultati ma la fatica, il coraggio, i fallimenti e raccontare come le conquiste scientifiche sono di tutti e per tutti. Anche i media hanno la responsabilità di fare da cinghia di trasmissione dei fatti. Spesso, invece, tra semplificazione del messaggio e ricerca del clamore si tradisce il significato ed il portato della "nuova conoscenza". Spesso scienziati e media comunicano il “risultato”, il “prodotto” trascurando il processo, il percorso che ha condotto a quel risultato. Così i cittadini sono privati della consapevolezza necessaria per comprendere che una cura, ad esempio, non è “un coniglio che esce dal cilindro”. Nello stesso tempo li si priva anche della grande opportunità formativa e costruttiva che il metodo scientifico porta con sé per chiunque vi si accosti. Così gli italiani non percepiscono “veramente” cosa significhi fare scienza e quale straordinario strumento sia per appurare la realtà, ogni giorno, al meglio della nostra possibilità. Se ne parla poco sui media. Pochissimo in TV. Si predilige una comunicazione fatta di "narrazioni umorali" anche quando si trattano temi che obbligherebbero ad ancorarsi ai fatti, a ciò che è stato verificato. Quindi, se è ovvio che la scienza non possa che dire come stanno le cose, anche quando è doloroso, i ciarlatani, al contrario, promettono miracoli (che ogni volta si dissolvono nel nulla). Questo rende la scienza debole, a prima vista, agli occhi di un pubblico che ha una dieta mediatica composta essenzialmente di grandi miracoli o grandi catastrofi. Invece, i Paesi in cui i cittadini sanno cosa sia la scienza hanno grandi vantaggi, prima di tutto il prezioso strumento di comprendere che il metodo scientifico, nelle condizione date, è l’unico strumento che consente di appurare al meglio i fatti dell'oggi, coltivando fiducia nel domani. I dati dell'Annuario Scienza Tecnologia e Società indicano che, in maggioranza variabile a seconda dei temi, gli italiani sono sempre meno ignoranti scientificamente. Che hanno in grande considerazione il lavoro degli scienziati. Che accettano in maniera strumentale i benefici delle scienze, soprattutto biomediche. E che sono favorevoli a molte delle innovazioni scientifiche osteggiate invece dalla politica. (ricerca biotech, fecondazione assistita ad esempio). E i sociologi della scienza affermano che spesso la percezione che i politici hanno dei desideri dei cittadini in materie scientifiche non corrisponda affatto alla realtà di questi desideri. Non è che i politici sono più antiscientifici degli italiani? Cosa ne pensa? La categoria del politico in astratto rispetto al cittadino è una pericolosa semplificazione. Il tema sotteso alla domanda è quanto il personale politico del Paese sia in grado di rappresentare il sentire e il volere dei cittadini in generale. Restando alla scienza, sulla base dei dati a cui si riferisce, si può osservare come, forse, i cittadini che si confrontano quotidianamente con le difficoltà e la speranza della vita abbiano sempre di più il polso di quanto un’innovazione scientifica possa incidere sul loro benessere e sulla libertà più di quanto, i loro politici, riescano a immaginare che siano in grado di fare. Politici che, inoltre, rispondono spesso a logiche di appartenenza che - paradossalmente - potrebbero allontanarli dal sentire comune e dal comprenderlo e guidarlo in modo più razionale, basato sulla conoscenza dei fatti. Sulla "antiscientificità dei politici", da quando frequento le aule parlamentari, posso però testimoniare come la situazione sia molto eterogenea. Così come vi sono alcuni con profonde competenze in ambito umanistico e aperti ed interessati anche a capire altre discipline, vi sono pure parlamentari che su temi scientifici sarebbero pronti a approvare qualunque legge sulla scorta del sentito dire e senza alcun indispensabile approfondimento tecnico. Ci sono un bel po’ di esempi: non hanno alcuna idea di cosa sia in concreto la sperimentazione animale, ma chiedono che sia abolita; non hanno idea di come si arrivi a identificare un trattamento per una malattia umana e ti dicono che puoi arrivarci comunque con un computer o un piattino di cellule. Magari sono anche gli stessi che non capiscono la differenza tra i ciarlatani e la medicina. Ci sono persino parlamentari che, ribaltando la realtà delle cose, cercano di far passare lo scienziato come “persona con pregiudizi”, ad esempio semplicemente perché si avvale delle prove della scienza per argomentare a sostegno dell’innocuità di specifici Ogm. Alcuni politici, sempre restando a questo esempio, li definiscono “pericolosi per la salute umana” e poi accettano che vengano importati a tonnellate per nutrire le nostre filiere alimentari. Sono posizioni incoerenti oltre che non documentate. Sta al cittadino, in definitiva, non solo percepire quanto gli sia utile la scienza, ma orientarsi verso rappresentanti, diciamo così, in grado di comprendere e includere le conquiste fatte per tutti nelle scelte per il Paese. Sempre, di fronte a fatti come quello di Stamina o a questioni come Ogm o vaccini le posizioni si polarizzano: da una parte la comunità scientifica che afferma le sue conclusioni in maniera apodittica, senza esplicitare quelli che sono i limiti della conoscenza scientifica. Dall'altra una parte dell'opinione pubblica che nel formarsi il giudizio fa prevalere un atteggiamento politico o etico. Sembrano entrambe posizioni fideistiche. Insomma, l'impressione è che nessuna delle parti abbia un atteggiamento “laico” che metta in campo i pro e i contro. Cosa ne pensa? Non so se la comunità scientifica non espliciti i limiti della conoscenza scientifica, mi pare piuttosto che, a volte, rinunci ad adeguare il suo linguaggio alle modalità della divulgazione. Talvolta in Italia, a differenza dei paesi di cultura anglosassone, c’è una ritrosia di una parte della comunità scientifica circa l’opportunità di impegnarsi, al pari dell’attività accademica, nel portare la scienza al pubblico. Parallelamente c’è un apparato mediatico che, non di rado per incapacità o disinteresse o tornaconto, trova ben più comodo dello studio e della preparazione che servirebbe per proporre un ragionamento degno di questo nome, rifugiarsi in schemi di narrazione ideologici che in questo paese sembrano buoni per ogni occasione. Molto spesso il giudizio distorto del pubblico, il prevalere di atteggiamenti incomprensibilmente irrazionali, dipende dalla sciatteria di ciò che si comunica o dalla sua parzialità, che è anche peggio. È indubbio che la comunità scientifica in Italia sia meno capace di influenzare il dibattito pubblico di quanto non lo sia in altri paesi. Perché? Quel che forse fa più male è quando lo scienziato addirittura si autolimita perché teme che la sua esposizione pubblica possa nuocere alla carriera, ai finanziamenti o semplicemente alienare simpatie politiche. Talvolta qualcuno nella comunità scientifica è troppo silente, poco coraggioso. Oppure si chiude in se stesso forse perché da sempre non considerato, e questo ha peggiorato le cose. Bisogna anche dire che nel paese manca un’educazione, anche politica, che ritenga necessario, come avviene in tante democrazie avanzate, l’ascoltare con serietà massima i dati empirici dei fenomeni, prima di adottare le scelte di politiche pubbliche decisive per la società. Questo punto richiama le responsabilità della classe politica, che troppo spesso ha mostrato di seguire furbescamente il richiamo “della pancia delle piazze” piuttosto che onorare con senso di responsabilità il proprio compito, primo fra tutto quello di volere (e far) conoscere prima di deliberare. Invece, spesso, si sono trattate le raccomandazioni della scienza, legate ai fatti, come opinioni alla stregua di tutte le altre opinioni. Questo è un atto di colpevole irresponsabilità, le cui conseguenze gravano poi sugli stessi cittadini e sui più deboli tra loro, oltre che sulla credibilità delle istituzioni del nostro paese. La comunità scientifica dal canto suo ha gli argomenti per essere utile al paese: tirarsi indietro per poi lamentarsi non è un atteggiamento che condivido. Così come da parte delle Istituzioni, non è giustificabile che la scienza la si invochi a tratti, spesso come spauracchio, senza riconoscerne gli indubbi meriti e competenze. La fiducia nelle istituzioni nel nostro paese è debole. E le istituzioni scientifiche sono vittima di questo handicap di contesto. Cosa ne pensa? In realtà le competenze in Italia le abbiamo. Molteplici sono le eccellenze mondiali, proprio in campo scientifico, di cui possiamo andare orgogliosi. Nell'immediato è necessario che ciascuno svolga il proprio lavoro al massimo della propria professionalità, cercando le evidenze e stando lontani dalle convenienze. Così si recupera fiducia. Ciascuna Istituzione Scientifica rifletta su quali siano gli aspetti su cui può migliorare nell'aprirsi alla comunità e senza timori si mostri per quel che quotidianamente fa per la collettività. Per altro, verso lo Stato, dati empirici alla mano, serve che vi sia un rinnovato impegno - anche di risorse - nel rilanciare la formazione e le attività del Paese in materie ad alto tasso di scientificità, perché ogni ritardo arreca un grave danno alla nostra competitività. Bisogna preservare almeno la ricerca pubblica di base da politiche squisitamente depressive, rilanciare un patrimonio di conoscenza che ancora sopravvive, ma che se non difeso (e in questo campo la stasi è equiparabile alla regressione) potrebbe definitivamente depauperarsi in pochi anni, "bruciando" molta più speranza per il futuro di quanto si possa immaginare.

Vaccini, Ogm, cavie animali e Stamina. Ecco le principali controversie antiscientifiche. Sono i temi più dibattuti del momento, cause di polemiche e liti. Li abbiamo analizzati uno per uno, conclude Daniela Minerva su "L'Espresso". Era il 1998 quando Andrew Wakefield confezionava la sua truffa, spingendo il piede sull’acceleratore nella nascita dei movimenti contro i vaccini. In quell’anno il medico inglese consegnava alla prestigiosa rivista Lancet uno studio nel quale sosteneva una correlazione tra somministrazione del vaccino trivalente contro morbillo, parotite e rosolia (Mpr) e autismo. Tutto falso: si trattava di una mera frode, orchestrata dietro compenso per sostenere i risarcimenti nelle cause dei genitori contro i produttori dei vaccini e per favorire la diffusione di vaccini separati (non trivalenti, come quello sotto accusa) brevettati dallo stesso Wakefield. Lui, il medico inglese, venne radiato dall’albo e il suo studio ritirato e malgrado la comunità scientifica abbia più volte ribadito che non esiste nessuna correlazione tra autismo e vaccino trivalente (e più in generale con nessun vaccino dell’infanzia), le credenze generate dal caso sono tutt’oggi dure a morire. Lo dimostra il dilagare delle campagne contro i vaccini e il ritorno del morbillo negli Usa, dove era stato eliminato nel 2000, e lo dimostra il calo di vaccinazioni in Italia, dove nel 2013 si è registrato il più basso tasso di vaccinazioni obbligatorie degli ultimi dieci anni. In calo anche quelle consigliate, come quella per il morbillo. È di pochi giorni fa la notizia della bimba non vaccinata morta per un’encefalite da morbillo e il nostro paese - tra i più colpiti dalla malattia tra il 2014 e 2015 in Europa - è lontano dal raggiungimento degli obiettivi di copertura vaccinale necessaria a bloccare la circolazione del virus alla fine del 2015 dal Vecchio continente, come auspicato dall’Organizzazione mondiale della sanità. Ictus, sclerosi multipla, leucodistrofia metacromatica, morbo Parkinson, lesioni spinali e sclerosi laterale amiotrofica sono solo alcune delle condizioni neurologiche che il metodo Stamina prometteva di curare, con una ricetta alquanto semplice e senza basi scientifiche: prelievo delle cellule staminali mesenchimali dal midollo osseo del paziente e re-infusione dopo la presunta (e dubbia, per la comunità scientifica) trasformazione in neuroni. Ideatore del metodo Stamina (in realtà importato dall’Ucraina) Davide Vannoni, una laurea in lettere e filosofia e una cattedra di psicologia a Udine. Dopo i primi periodi passati a somministrare le sue cellule in uno scantinato torinese e un centro estetico a San Marino, Vannoni arriva al Burlo Garofolo di Trieste e quindi agli Spedali Civili di Brescia. Nel maggio del 2012 però l’Aifa blocca la somministrazione delle staminali, giudicando inadeguati i laboratori di Stamina e sospende i trattamenti ai pazienti. Complice la visibilità offerta dalla tv, i trattamenti però continuano a essere applicati, anche grazie alle ordinanze di alcuni giudici del lavoro, tra lo sdegno unanime della comunità scientifica che ribadisce l’assenza di prove scientifiche a sostegno del metodo. La spinta mediatica apre le porte a una sperimentazione clinica, sospesa in seguito ai pareri negativi di ben due comitati scientifici chiamati a giudicare il metodo. Vannoni, indagato per associazione a delinquere finalizzata alla truffa ed esercizio abusivo della professione medica, tenta quindi di porre fine alla vicenda avanzando richiesta di patteggiamento (la decisione, in tal proposito, è attesa per il 18 marzo). Una scossa di magnitudo 6,3 nella notte del 6 aprile 2009 causa 309 vittime a L’Aquila, oltre 1600 feriti e lascia senza casa 65 mila persone. Di chi furono le responsabilità di un bilancio così infausto? Degli scienziati che nei mesi precedenti il sisma avevano rassicurato la popolazione, trasmettendo informazioni “inesatte, incomplete e contraddittorie”. Così almeno si espressero i giudici al processo di primo grado nei confronti dei membri della Commissione Grandi Rischi, che si riunì sei giorni prima del sisma, nella tristemente famosa riunione del 31 marzo 2009, per rispondere ai timori della popolazione. Furono giudicati colpevoli (condannati a sei anni per omicidio e lesioni colpose) di leggerezza: sì, i terremoti non si possono prevedere (che ne dicesse Giampaolo Guliani), ma gli scienziati avrebbero comunque inciampato in errori di comunicazione. Ovvero, invece di prevedere e prevenire il rischio, rassicurarono la popolazione, laddove invece la condizione predominante era l’incertezza. La sentenza del processo di primo grado creò non poche polemiche, soprattutto tra la comunità scientifica che riteneva ingiusto attribuire la colpa dell’accaduto al lavoro degli scienziati. E così ritenne la corte d’appello dell’Aquila, che lo scorso novembre ha ribaltato la sentenza di primo grado assolvendo sei (scienziati) dei sette membri della Commissione Grandi Rischi (Giulio Selvaggi, Franco Barberi, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Claudio Eva, Michele Calvi) e riducendo la pena a Bernardo de Bernardinis della Protezione Civile. Contro la decisione è stato appena depositato il ricorso in Cassazione. Che ognuno faccia per sé, decidendo o meno se coltivare organismi geneticamente modificati sulla propria terra. Così ha deciso, lo scorso gennaio, il Parlamento europeo in materia di coltivazioni geneticamente modificate (e l’entrata in vigore della nuova norma è attesa proprio per questa primavera). Totale libertà dunque ai singoli stati membri, che potranno dire “no” già durante le fasi di approvazione di nuovi organismi geneticamente modificati. L’Italia è così autorizzata a proseguire la tradizione di vietare le colture transgeniche sul suolo della penisola. Lo ha fatto nel 2013 con un decreto che proibiva la coltivazione del mais ogm sul territorio italiano (mais Mon810 della Monsanto); prorogato per ulteriori 18 mesi lo scorso 23 gennaio e ribadito, per così dire, dalla decisione del Consiglio di Stato, che a febbraio ha respinto il ricorso dell’imprenditore agricolo Giorgio Fidenato, che voleva coltivare mais gm in Friuli Venezia Giulia. Le ragioni? Sempre le stesse: questa coltura minerebbe la biodiversità delle specie del nostro paese. Ma le tesi di chi si dice contrario alle colture transgeniche si ripetono ormai da anni: metterebbero a rischio anche la tipicità dei nostri prodotti, la tradizione delle nostre colture, senza contare il rischio di omologazione. Il tutto condito di vaghe allusioni alla dubbia sicurezza alimentare degli ogm. Finora però di prove che le coltivazioni transgeniche siano più dannose per l’ambiente o la salute di quelle tradizionali non ce ne sono e i nostri prodotti “tradizionali”, dai salumi ai formaggi, provengono da animali alimentati da mangimi contenenti ogm, come la soia. L’innovazione, in Italia, preferiamo importarla. Siamo arrivati tardi, consegnando per ultimi il compito e uscendo anche fuori tema. La “consegna” è quella della nuova norma sulla sperimentazione animale, che l’Italia ha confezionato appena un anno fa, in ritardo rispetto al resto degli stati membri sul recepimento della direttiva europea 63/2010 per la “protezione degli animali utilizzati a fini scientifici”. La norma sulla sperimentazione animale che ne è uscita è, a detta degli scienziati, una legge fin troppo restrittiva ai fini della ricerca e a tratti anche paradossale. La nuova legge introduce, dal 2017, il divieto di utilizzare animali per gli xenotrapianti (trasferimento di organi da una specie all’altra) o di effettuare test sugli effetti delle sostanze stupefacenti, complicando la strada delle ricerche che si occupano di sviluppare organi artificiali, testare l’efficacia di nuovi farmaci antitumorali e di studiare le tossicodipendenze. Ma non è tutto: secondo le nuove disposizioni, è vietato allevare su territorio italiano cani, gatti e primati non umani da destinare alla ricerca scientifica, senza però vietare che questi possano essere utilizzati, giungendo dall’estero (un po’ quello che facciamo con gli ogm), con aumento dello stress per gli animali stessi e innalzamento dei costi. Una legge che accontenta (ma solo in parte) il fronte animalista che, secondo alcuni esperti, spera così di rendere talmente difficile fare sperimentazione animale in Italia da costringere gli scienziati a portare le loro ricerche all’estero. Ma sappiamo che i modelli animali sono ancora necessari alla ricerca biomedica.

IL FALSO BIO.

I boss a Kilometro, scrive Marco Omizzolo il 25 marzo 2018 su "La Repubblica". Marco Omizzolo - Giornalista, saggista, sociologo, responsabile scientifico della Onlus “In Migrazione”. L'agricoltura biologica è considerata una produzione pulita, ecologicamente sostenibile, di grande qualità. È ancora oggi la punta avanzata della migliore produzione agricola Made in Italy. Nel “mondo del bio” hanno storicamente trovato spazio piccoli contadini autonomi, cooperative di lavoratori, in alcuni casi anche ex braccianti, aziende familiari che hanno investito nella qualità della loro filiera produttiva e del prodotto finale. Da una produzione originariamente di nicchia, l'agricoltura biologica sta conquistando in Italia e nel mondo uno spazio crescente. Nel solo 2014 in Italia gli operatori biologici sono cresciuti del 5,8% toccando quota 55.433, il numero più elevato in Europa. Un primato che si conferma anche nella produzione dell'agroalimentare di qualità, se si considera che il nostro paese si colloca al primo posto in Europa per numero di prodotti Dop e Igp. Una classifica guidata da ortofrutta e cereali (38%), formaggi (18%), oli extravergine d'oliva (16%) e salumi (14%). Stesso primato per i vini di qualità: 405 vini tra Docg e Doc. A seguire Francia (357) e Spagna (90). Eppure, insieme a grandi eccellenze e a moltissimi produttori attenti, non mancano inquietanti zone d'ombra. Si sono infatti affacciati nel bio italiano alcuni grandi marchi di produzione, aziende che stanno trasformando il settore in un'occasione di business a volte criminale. Cresce anche nel mondo bio il numero delle frodi, le sofisticazioni alimentare, si diffondono casi di sfruttamento lavorativo, addirittura caporalato. Fare chiarezza è importante. Francesco Carchedi, docente di sociologia a Roma e co-curatore del dossier “Agromafie e Caporalato” dell'Osservatorio Placido Rizzotto, è chiaro su questo punto. “Le agro-mafie si inseriscono – afferma Carchedi - laddove fiutano affari. Affari puliti, con aziende pulite ma sovente colluse, o direttamente controllate da esse stesse, oppure da aziende assoggettate che subiscono l'intimidazione/violenza. Ciò vale anche nel comparto della produzione biologica, nel comparto dell'immagazzinamento/confezionamento dei produtti e nella logistica. La distanza dai luoghi di produzione a quelli di vendita non rappresenta nessuna barriera e non ne limita le modalità di accaparramento. Esse possono insinuarsi anche nelle produzioni localistiche, di qualità e di eccellenza, pure a km 0”. Una delle frodi più diffuse, come afferma l'ultimo rapporto Agromafie di Eurispes e Coldiretti, è rappresentata dalla “produzione e commercio di prodotti ottenuti con tecniche agricole tradizionali ma spacciati per biologici”. Una delle inchieste più interessanti è stata denominata “Vertical Bio”, condotta dal Nucleo della Guardia di Finanza di Pesaro insieme agli ispettori del Ministero dell'Agricoltura, conclusasi con 33 persone rinviate a giudizio, indagati per associazione per delinquere, frode nell'esercizio del commercio, reati aggravati dalla circostanza che si trattava di prodotti derivanti da agricoltura biologica, la cui specialità è protetta dall'ordinamento italiano. Una produzione peraltro contaminata da glifosato e brachizzanti particolarmente pericolosi per la salute umana. Il sistema fraudolento, ancora secondo Eurispes, “prevedeva la creazione di aziende produttrici (sotto il controllo o di diretta emanazione delle aziende importatrici) strategicamente posizionate in paesi terzi quale Moldavia, Ucraina, Kazakistan, Romania e Malta, affiancando alle stesse compiacenti organismi di controllo paralleli, nazionali ed esteri, incaricati di svolgere le verifiche propedeutiche alla certificazione dei metodi da agricoltura biologica, costituiti tra l'altro in società autonome o filiali aventi sedi reali o fittizie, ma sempre strettamente collegate (e cointeressate) con le aziende produttrici ed importatrici”. In alcuni casi, a dimostrazione dell'articolata organizzazione del sistema criminale, l'importazione dei prodotti agricoli falsamente biologici avveniva mediante una triangolazione con una compiacente società maltese creata “ad hoc” dai sodali. Una truffa internazionale, dunque, con un fatturato di circa 126 milioni di euro. Insieme alle truffe non mancano situazioni di grave sfruttamento lavorativo. Il bio infatti non è esente da questa forma di criminalità che vede soccombere non la qualità del prodotto ma i diritti dei lavoratori. In provincia di Latina, ad esempio, una delle aziende biologiche e a Km 0 più note, peraltro ripetutamente presente in diversi programmi televisivi Rai, è stata coinvolta in vertenze importanti da parte dei suoi lavoratori, soprattutto indiani. Davanti ai suoi cancelli, infatti, già nel 2012, alcuni braccianti con l'aiuto della Flai Cgil organizzarono un presidio denunciando condizioni di grave sfruttamento lavorativo e caporalato. Tutti loro non percepivano alcuna retribuzione da diversi mesi nonostante avessero lavorato tutti i giorni anche per 12 ore consecutive. Il presidio, primo caso di ribellione dei braccianti indiani nel pontino, fu sistematicamente intimidito con continue minacciati di licenziamento. I lavoratori risultavano reclutati mediante caporale indiano e retribuiti circa 2,50 euro l'ora. Eppure i suoi prodotti erano e sono di grande qualità, venduti come biologici e a Km 0. Solo recentemente uno dei proprietari di quella azienda è stato arrestato grazie all'applicazione della nuova normativa contro il caporalato (la legge 199/2016) a dimostrazione della fondatezza delle ragioni di quei lavoratori e del sindacato. Situazioni in realtà diffuse anche in altre aree del Paese. Nel bresciano sono molte le vertenze portate avanti dalla Flai Cgil locale in favore di lavoratori migranti, soprattutto indiani, bangladesi e rumeni, contro rinomate aziende agricole e vitivinicole locali che vantano produzione di grande qualità, spesso anche biologica. D'altro canto le mafie certo non si fermano dinanzi al marchio bio ed anzi ambiscono ad includerlo nel loro core business. Leonardo Palmisano, scrittore e sociologo ritiene che “gli investimenti nel biologico, vero o finto che sia, da parte delle organizzazioni criminali rispondono all'esigenza di lavare denaro sporco dentro un settore che tira. Purtroppo il consumatore italiano medio guarda i marchi, non la qualità morale del produttore. Basta che legga bio per convincersi dell'acquisto. Ecco, di questo si avvantaggiano le agromafie italiane”. Analoga è la situazione nelle prestigiose campagne del Chianti, in Toscana. Molti braccianti, spesso bulgari, rumeni, moldavi, bangladesi e albanesi, iniziano a lavorare nelle campagne più rinomate al mondo grazie all'attività criminale di numerosi “caporali”, pronti a smistarli nelle aziende agricole tra Siena e Grosseto. Aziende di grande eccellenza che in alcuni casi hanno prodotto vini di altissima qualità sfruttando però i lavoratori migranti e lucrando sul loro lavoro. La legislazione in materia va modificata e, soprattutto senza denigrare un settore vitale e importante, è necessario espellere dalla sua filiera ogni criminale, ogni mafioso e qualunque forma di sfruttamento. Sono troppi i braccianti, anche donne, che producono beni di grande eccellenza bio sui quali si monta, spesso a scopo promozionale, una diffusa retorica, reclutati da un caporale, gravemente sfruttati e privati in alcuni casi dei loro fondamentali diritti. È importante sostenere il biologico purché libero da ogni truffa, sfruttamento e criminalità.

Report e il mondo del finto bio. Report che si occuperà con Piero Riccardi del riso e dei cosmetici bio: quanto sono veramente biologici? Domenica 14 dicembre 2014 alle 21.45 su Ra3. “Il biologico secondo me fa le stesse cose del non biologico. Stessi trattamenti... Bisogna prenderli nel momento in cui diserbano. In quei momenti li bisogna andarli a prendere quelli che fanno il riso biologico!” Risicoltori che accusano altri risicoltori. I diserbanti in agricoltura biologica ovviamente non sono ammessi, ma sembra che qualcuno non ci creda molto. L’accusa è pesante perché il riso bio viene pagato anche 3 volte tanto rispetto a quello prodotto con agricoltura convenzionale, quella che può usare i diserbanti per combattere le erbe infestanti. Il bio viene pagato di più perché produce di meno. O almeno dovrebbe essere così. Dal sito del Sinab, del Ministero dell’agricoltura vediamo però che il riso bio prodotto in Italia ammonta a 570.217 mila quintali, prodotti su 8405 ettari, che fa una media di 67,84 quintali a ettaro, cioè in pratica la stessa media del riso convenzionale. E i risicoltori piemontesi che fanno convenzionale non ci stanno e chiedono controlli. Ma come funzionano i controlli e chi deve controllare? Report è stata nelle campagne intorno a Vercelli, la capitale del riso italiano. Attorno al canale Cavour, distese di riso. Tra poco verrà raccolto, ma i prezzi del riso stanno crollando per via di importazioni in Europa di riso asiatico a prezzi stracciati. Cambogia, Birmania, forti di un accordo commerciale con l’Europa per esportare a dazio zero, stanno conquistando i mercati europei. Eppure fino a ieri noi eravamo i signori del riso italiano.

Report, comunque si era già interessata al biologico, nella puntata del 26 novembre 2000. Come bio comanda, di Sabrina Giannini. Agricoltura biologica, questa sconosciuta. Perfino i consumatori di biologico conoscono poco le regole del settore e il fatto è abbastanza sorprendente se si pensa che il sistema alimentare biologico è l'unico controllato garantito e che si può definire "sicuro". Infatti tutta la filiera (dal seme al piatto) è certificata da uno dei nove enti di certificazione italiani o da tutti gli europei che per il principio della reciprocità valgono anche in Italia (anche alcuni non europei sono accettati automaticamente dalla UE). Per esempio un alimento con più ingredienti (come un biscotto) ha una certificazione per ogni ingrediente e quando non si usa un ingrediente biologico si deve specificare (la normativa consente di definire biologico un prodotto con almeno il 95 per cento di ingredienti, nel caso in cui la percentuale di ingredienti biologici sia al di sotto del 95 per cento va specificata in etichetta la percentuale esatta). E' chiaro che l'etichetta "biologica" è trasparente ma soprattutto consente la "rintracciabilità", ovvero di risalire all'origine di tutta la filiera. Questo è di fondamentale importanza. Per capire l'importanza della "rintracciabilità" prendo ad esempio la carne convenzionale, sotto accusa in questo periodo, dove è difficile risalire a tutti i passaggi (allevamento dove il capo nasce, dove cresce, dove ingrassa, dove viene macellato e non è per nulla possibile risalire al mangime con il quale è stato alimentato). Nel sistema biologico tutti i passaggi sono certificati, inclusi gli alimenti e garantiti da un certificatore diverso che si prende le responsabilità della certificazione. Poichè il sistema alimentare "modello" è quello biologico, per trasparenza e sicurezza, ci siamo chiesti perchè la maggior parte delle persone ignori tutto ciò. La risposta è: mancanza di informazione. Eppure, nonostante l'assenza di informazione, è in atto una rivoluzione nel mondo dei consumi che vede un aumento esponenziale del numero di consumatori che acquistano biologico (l'uno per cento in Italia, ma perchè si tiene conto della media nazionale penalizzata dalla quasi totale assenza di consumi al Sud). Un direttore di un supermercato del naturale ha dichiarato che dopo lo scandalo dei polli alla diossina gli introiti sono aumentati del 20 cento. L'alimentazione biologica cresce sull'onda dell'emotività non per una reale conoscenza del metodo di coltura. E questo permette una serie di speculazioni. Le parole "naturale", "ecologico" sono tra le più abusate in pubblicità e sulle etichette. Questo penalizza il settore "veramente" biologico e consente una serie di speculazioni a danno di chi non riesce a districarsi nella giungla del "naturale". Naturale non vuole dire niente, ecologica neppure. Quasi tutte le grandi distribuzioni vendono prodotti che evocano una agricoltura "naturale", ma non sono certificate e neppure biologiche quindi non si spiega perchè devono costare di più. La Novartis (multinazionale della chimica e della biotecnologia) ha creato una linea biologica (ma non sempre), La Ce'real. Tra alcuni prodotti alcuni sono certificati secondo la legge come biologici, altri riportano sulla scatola la scritta "cereali non trattati" (definizione alquanto ingannevole ma che non vuole dire nulla), ma se si telefona al numero verde disposto dalla Novartis al servizio dei consumatori viene dichiarato che sono biologici, ma è un falso poichè non vi è nessuna conferma o certificazione che provi che ciò sia vero. E' un diritto della Novartis avere una linea biologica ma non è un suo diritto confondere le idee sull'unico sistema alimentare che bandisce la chimica e gli organismi geneticamente modificati. C'è da fare attenzione anche ad alcuni prodotti in commercio che riportano in etichetta la scritta "bio" (un nota marca di yogurt francese, un parmigiano, un sale, per esempio). L'Unione Europea ha deciso di recente che i prodotti che riportano in etichetta la parola "bio" senza esserlo possono continuare a farlo fino al 2006 se hanno depositato il marchio prima del 1991 (devono farlo subito se hanno depositato il marchio dopo il 1991, anno dell'entrata in vigore del regolamento CEE sull'agricoltura biologica), in alternativa dovranno diventare davvero biologici. Inoltre vanno fatte alcune precisazioni: lotta integrata è un sistema che non elimina i pesticidi ma li riduce cercando di adottare un metodo che si pone a metà strada tra la lotta biologica e quella chimica. L'alimentazione biologica è soltanto una, quella certificata, e ha una etichetta trasparente che deve riportare le seguenti scritte: "da agricoltura biologica", "regime di controllo CEE", il codice dell'azienda produttrice, varie autorizzazioni ministeriali e il marchio dell'ente di certificazione (per esempio BIOS, CODEX, AIAB, ECOCERT Italia, QC&I, IMC (Istituto Mediterraneo di Certificazione), Suolo e Salute, CCPB (Consorzio per il Controllo dei Prodotti Biologici), Bioagricert, inoltre per la sola provincia autonoma di Bolzano è stato riconosciuto l'ente di certificazione BIOZERT (che è tedesco). Una delle ennesime concessioni antinazionaliste concesse all'Alto Adige dallo Stato italiano (in questo caso dal Ministero delle Politiche Agricole). Queste informazioni fondamentali dovrebbero essere conosciute da tutti. Non è così e c'è una ragione: non sono mai stati stanziati soldi dal nostro governo per promuovere un'informazione adeguata. Sono stati stanziati invece dall'Unione Europea che ha promosso nel 1999 un "Decalogo per la sicurezza alimentare" costato più di un miliardo. Soldi buttati visto che la sua pubblicazione ha sollevato un vespaio di polemiche a causa di una imprecisione nella definizione del biologico, si scriveva infatti che nel metodo biologico "l'impiego di concimi chimici e di antiparassitari è stato ridotto all'essenziale". E' una definizione falsa che può andare bene per la lotta integrata. Inoltre vengono inseriti nello stesso capitolo il biologico e il geneticamente modificato, chissà perchè, visto che nel biologico è vietato categoricamente l'OGM. Responsabili di questa disinformazione sono in tanti: primo tra tutti l'Unione Nazionale Consumatori che coordinava il progetto, poi numerose associazioni di consumatori, Legambiente, una lunga serie di gruppi di produttori, distributori (tra cui la Coop, che ha distribuito il decalogo), perfino la McDonald's e il tutto è stato fatto sotto il patrocinio del Ministero della Sanità e delle Politiche Agricole. Assenti a quel tavolo erano gli operatori del settore del biologico. Come spiegarsi tutto questo? Forte è il sospetto che il sistema alimentare dominante stia tentando una sorta di boicottaggio e depistaggio per confondere le idee ai consumatori. Nell'attesa che le autorità informino adeguatamente i consumatori cerchiamo di capire cos'è il metodo biologico usato in agricoltura. Prima di tutto la chimica viene bandita categoricamente. Oggi è possibile trovare concimi e insetticidi naturali già preparati dall'industria. Per concimare si usa il letame o preparati a base di leguminose, ricche di azoto. Per combattere i parassiti e gli insetti dannosi si usa anche la lotta biologica che inserisce gli insetti utili che si nutrono dei parassiti delle piante o le trappole ai ferormoni che attirano i maschi di alcune specie di insetti dannosi alle piante. In questi ultimi anni l'agroecologica ha messo a punto sistemi scientifici di difesa naturali migliorando il sistema agricolo usato per millenni dall'uomo (prima che arrivasse la chimica, soltanto 50 anni fa). Comunque sono ancora molto in uso antiparassitari e antifungicidi tradizionali come il solfato di rame, che essendo un metallo viene ammesso nel metodo biologico. Mentre sui terreni convenzionali si usano i pesticidi per togliere le erbacce, nell'agricoltura biologica il diserbo e' a macchina o a mano. Anche nel biologico si possono ottenere frutta e verdura di serra, al posto degli ormoni sintetici si utilizzano impollinatori naturali come i bombi (simili ai calabroni). Nel metodo biologico non sono ammessi i conservanti chimici per mantenere a lungo la frutta ma esclusivamente la conservazione con il freddo. Tutti questi sistemi alternativi alla chimica aumentano i costi, la mano d'opera e la perdita del prodotto e giustificano in parte i prezzi più alti rispetto ai prodotti convenzionali. Guardando bene le etichette si può notare che il biologico non è l'unico metodo che bandisce la chimica, esiste infatti la biodinamica che si distingue sul mercato grazie al il marchio Demeter. La biodinamica usa la lotta biologica ma ha come obiettivo principale quello di rendere la terra più ricca di vita, per fare questo si utilizzano preparati naturali da unire al terreno al momento dell'irrorazione, della semina e da unire ai concimi che si ottengono dal compostaggio del letame. L'agricoltura biodinamica deriva da una teoria filosofica (antroposofia) elaborata negli anni '20 dal filosofo austriaco Rudolf Steiner. E' un metodo che rispecchia il principio dell'armonia della terra con le forze della natura. Ogni trattamento infatti, dalla semina alla concimazione, rispetta il calendario lunare, i ritmi cosmici. Spesso i biodinamici vengono considerati "stregoni" per questo pedissequo rispetto dei ritmi cosmici. E in molti sorge il dubbio che questo sistema sia in armonia con la natura ma non abbastanza produttivo. Le prove che la biodinamica sia anche produttiva sono sempre più numerose. Noi abbiamo trovato un'azienda nel Lazio, dove si trova Agrilatina, che produce frutta e verdura che arrivano sulle tavole di tutta Europa. Ma i prodotti biologici sono anche i trasformati: burro, biscotti, pane, marmellate...La grande differenza tra questi prodotti e quelli comuni (oltre all'origine biologica degli ingredienti) sono i processi industriali diversi che tendono a non alterare le proprietà organolettiche dell'alimento. Inoltre viene ridotta all'essenziale la lista degli additivi, quella degli aromi, che devono essere naturali, e quella dei conservanti (sono ammessi, incredibilmente, i nitrati nei salumi in deroga al regolamento, ma molti produttori non ne fanno uso). I grassi industriali devono avere una chiara origine e non sono ammessi quelli dalla definizione poco chiara che si trovano nei prodotti convenzionali. Per definirsi produttori biologici o biodinamici bisogna seguire un regolamento ben preciso e sottoporsi al controllo da parte di uno dei nove enti di certificazione autorizzati dal Ministero delle Politiche Agricole. Il controllo viene fatto da ispettori regionali. Gli enti di controllo devono fare rispettare la legge che regolamenta il metodo biologico in agricoltura (che è del 1991) e quello nell'allevamento (che è dell'agosto 2000). Gli enti possono anche essere più restrittivi del regolamento rifacendosi a norme private di organismi internazionali o a proprie regole. In altre parole ci sono enti più severi di altri. Il punto debole del sistema sta nel fatto che a pagare gli enti di certificazione siano le aziende. Il controllato paga il controllore con una quota annuale e con una percentuale sulle vendite. E' così in tutta Europa, ad esclusione di un paio di nazioni. La severità di un ente si vede per esempio quando deve accettare la richiesta di conversione di un produttore, ovvero quando un'azienda convenzionale decide di abbandonare la chimica. Per poter essere ammesso deve sottostare a determinate regole tra le quali produrre esclusivamente biologico, limitare al massimo le fonti di contaminazione esterna e quindi attivarsi per esempio inserendo siepi tra il proprio appezzamento e quello del vicino che usa la chimica, oppure usare depuratori per l'acqua. La fase di conversione dura dai due ai tre anni per coltivazioni in terra e molto meno per quelle in serra. Durante questo periodo non e' possibile vendere i propri prodotti come biologici. L'ente di certificazione può anticipare la fase di conversione ma soltanto a determinate condizioni e solo se l'azienda dimostra che da tempo usa la lotta biologica. Il dubbio è che ci siano troppe conversioni miracolose, dato il momento storico che stiamo vivendo, di grande esplosione del mercato del biologico (negli ultimi cinque anni le aziende italiane biologiche sono passate da quattromila a quarantamila). La serietà di un ente si vede anche durante le ispezioni annuali, che vengono fatte soprattutto sulle carte e sui terreni. Gli ispettori devono essere sufficientemente esperti (e onesti) nell'individuare eventuali irregolarità (come l'uso di pesticidi). Nel caso di sospetti di avvenute irregolarità l'ente può procedere con una analisi chimica del terreno o del prodotto. Un solo ente di certificazione (BIOS) prevede un'analisi annuale obbligatoria per ogni azienda. Il controllo viene fatto soprattutto sulle fatture che devono dimostrare l'acquisto di concimi e prodotti per la lotta biologica, oppure di mangimi biologici, o, per chi trasforma, sugli acquisti degli ingredienti base biologici. Qualsiasi decisione presa in merito alle aziende (valutazione delle richieste di conversione, ammissioni, abbandoni, sanzioni, sospensioni, espulsioni) vengono prese da commissioni interne agli enti composte anche da rappresentanti dei consumatori e vanno poi segnalate agli uffici degli assessorati agricoltura delle Regioni delegate alle ispezioni e al controllo degli enti (relativamente alle aziende della regione di appartenenza) e al Ministero delle Politiche Agricole che si occupa di supervisionare il sistema che, come abbiamo detto, è pagato dai controllati. Purtroppo il sistema di vigilanza delle varie Regioni funziona a macchia di leopardo (inoltre gli operatori regionali sono stati addestrati soltanto un anno fa con un corso del Ministero delle Politiche Agricole). Lo stesso Ministero delle Politiche Agricole dovrebbe vigilare ma ha poco personale ispettivo a disposizione. Lo stesso dipartimento che si occupa di biologico arruola un pugno di funzionari. Gli enti hanno per anni lavorato in quasi totale autonomia e anarchia, soprattutto nel campo dell'allevamento biologico, mai incentivato dai nostri politici che, a differenza di altri colleghi europei, hanno atteso il tardivo regolamento comunitario (giunto nel 1999). Il vuoto legislativo che ha frenato lo sviluppo del settore ha dichiaratamente privilegiato il sistema produttivo intensivo, quello basato su mangimi industriali (anche a base di farine di carne), sul sistema crudele e innaturale degli spazi angusti per gli animali trattati come macchine e non come essere viventi, ingrassati a ritmo continuo e sostenuti da considerevoli dosi di farmaci (che finiscono nel piatto). il sistema alimentare dominante è stato evidentemente l'unico possibile per i nostri ministri (ad esclusione di De Castro e Pecoraro Scanio, gli unici che hanno invertito la rotta). L'aspetto più evidente rispetto ai prodotti coltivati secondo il metodo convenzionale (uso della chimica) è nel prezzo. Di fatto il prezzo più alto dei prodotti biologici è motivato proprio dal tipo non intensivo di coltivazione, da una esigenza maggiore di mano d'opera e da un maggiore scarto di prodotto (poichè è severamente vietato l'uso di conservanti chimici). Ma la ragione del prezzo alto che più pesa sta nel circuito distributivo, che è nelle mani di pochi che possono permettersi di governare il sistema dei prezzi. Sono i distributori, infatti, che determinano i prezzi d'acquisto ai fornitori e agli acquirenti. E c'e' ancora molta arbitrarietà nel determinare i prezzi, che spesso non rispecchiano il reale costo ma (per esempio) la difficoltà ad andarlo a recuperare. Questo potere nelle mani di pochi distributori che fino ad oggi ha giocato sulla esclusività del prodotto verrebbe meno se i prodotti biologici fossero diffusi capillarmente. Infatti i costi aumentano per i distributori quando con un carico devono girare per una provincia (o per una regione o per l'Italia) e scaricare più volte. Guardando l'evoluzione del mercato del biologico in altri Paesi europei dove è più diffuso (Olanda, Germania, Austria) i prezzi sono notevolmente più bassi. Adesso anche la grande distribuzione italiana ha creato una linea biologica (primi tra tutti Esselunga, seguita da Coop) i costi della distribuzione si allineano su parametri standard. Noi abbiamo fatto una spesa parallela in una di queste catene distributive acquistando prodotti alimentari fondamentali alla dieta (latte, pane, uova, pasta, eccetera) biologici da una parte e convenzionali (di marca) dall'altra e abbiamo speso il 15 per cento in più per la spesa biologica. Se non avessimo acquistato prodotti di marca il divario sarebbe stato maggiore, ma questo spiega anche i costi della pubblicità che nel biologico (per ora) ancora non ci sono, fatta esclusione per poche realtà note (che infatti costano molto di più rispetto a prodotti biologici equivalenti). Esistono ancora molti prodotti che costano anche il doppio rispetto ad altri convenzionali, per esempio la frutta esotica, ma a ben guardare ci sono valide ragioni come situazioni di sfruttamento sia di personale impiegato che della terra, situazioni che nel biologico non vengono attivate (per esempio le banane biologiche sono prodotte da cooperative e non da multinazionali che riescono ad abbassare i costi sfruttando i lavoratori e impiegando molti pesticidi e conservanti dannosi per la salute sia di consuma che di chi maneggia certe sostanze durante le fasi di lavorazione). Si dice che il prezzo giusto del prodotto biologico non dovrebbe superare il 30 per cento del prezzo di un equivalente non biologico. Ma non è sempre un indice esatto, poichè all'interno dello stesso prodotto biologico ci sono differenze di metodo. Esistono molti produttori biologici "puri", che utilizzano mangimi biologici al 100 per cento e rispettano al massimo l'animale concedendogli spazi di movimento notevoli, anche il pascolo, ma va detto che il nuovo regolamento comunitario recepito in agosto dall'Italia e da molti altri Paesi europei concede molte deroghe, per esempio spazi ristretti e perfino la catena ai bovini purchè si inizi la conversione dimostrando di avere iniziato l'adeguamento degli spazi. Tutto questo per incentivare la conversione. Ma dieci anni sembrano troppi (il ministro delle politiche agricole Pecoraro Scanio ha posto il limite a due anni, ma le associazioni del mondo del biologico sono insorte, quindi vedremo chi la spunta dopo la postilla che si farà alla legge proprio in seguito alle reazioni del mondo produttivo). Noi speriamo che da una parte si pensi a incentivare il mercato pur senza penalizzare chi produce biologico puro e soprattutto i consumatori che non possono capire le differenze dall'etichetta. Lo stesso vale per la deroga sui mangimi che possono contenere anche il 15 per cento di ingredienti non biologici (soprattutto la soia, monopolizzata dal mercato del transgenico). Per informazione va detto che chi adotta il metodo biodinamico non si appella a questa deroga sul mangime. E' l'unica indicazione che posso dare a chi acquista, ma auspichiamo che i produttori scrivano sull'etichetta più indicazioni possibili per orientarci nell'acquisto e farci capire per esempio cosa c'è dietro la produzione del latte, delle uova, della carne. Noi abbiamo fatto un parallelismo tra un allevatore avicolo che produce uova secondo il metodo biologico in provincia di Treviso e un altro che adotta il metodo biodinamico in provincia di Civitavecchia. Notevoli sono le differenze, eccole: il primo ha il pascolo obbligatorio per legge (4 m2 per gallina) ma nel capannone stipa diecimila galline (neanche libere di uscire quando vogliono visto che viene lasciato libero l'accesso al pascolo soltanto se non piove perchè la produzione di uova diminuisce se le galline si bagnano le zampe); l'altro lascia le galline libere di entrare e uscire dalle casette che condividono con poche "colleghe", permettendo così lo strutturarsi della loro vita sociale naturale; inoltre lo spazio di movimento è notevole (19 m2 per gallina). Visto che "gallina vecchia fa buon brodo" ma poche uova l'allevatore di Treviso uccide le galline dopo il secondo anno di produzione, l'allevatore di Civitavecchia invece le fa vivere fino a tre anni, sebbene la produzione di uova cali considerevolmente dal secondo anno in poi (negli allevamenti convenzionali, oltre ad essere in gabbie o allevate a terra ma in spazi molto ristretti, le galline vivono un anno). Sul prezzo dei prodotti incide anche il costo della certificazione che il produttore deve sostenere e che alla fine paga il consumatore. E' assurdo che chi sostiene l'unico sistema alimentare sicuro debba pagare per garantire che i veleni stiano alla larga. Infatti il sistema del biologico è l'unico al momento che garantisce un controllo dal seme al piatto. E' il modello della sicurezza alimentare. Ma è una lampante contraddizione che questo modello non venga adottato dal sistema produttivo dominante, quello che porta con sè i veleni, e i grandi numeri, quello del consumo spinto della chimica e dell'allevamento intensivo, quello che sempre più spesso sfugge al controllo, come provano il caso dei polli alla diossina e della mucca pazza. Andiamo per ordine: i pesticidi, i fitofarmaci, i concimi, i diserbanti chimici. Siamo il paese europeo che ne usa di più, subito dopo l'Olanda. Sono passati dieci anni dal referendum che voleva una legge che ne limitasse l'uso. In occasione di quel referendum, che non passò soltanto perchè non si raggiunse il quorum, ben 18milioni di italiani votarono "no" ai pesticidi nel piatto. Una chiara richiesta di regolamentare l'uso dei veleni. Ripetiamo: 18 milioni di italiani che per i nostri governanti evidentemente valgono meno delle lobbies della chimica e degli interessi degli agricoltori, enorme serbatoio di voti. E allora via libera ai signori della chimica, con uno Stato che per non mettere i bastoni tra le ruote consente la compravendita di veleni come se fossero caramelle. Da anni si chiede un controllo reale, una ricetta per chi acquista. Non esiste. Esiste un patentino che gli agricoltori devono procurarsi per comprare i pesticidi considerati più tossici. Ma chi vigila sull'uso corretto dei pesticidi? I controlli vengono fatti a campione dalle ASL. L'1,6 per cento di campioni prelevati è fuori dai limiti sui residui. Ma ciò non toglie che portiamo in tavola numerosi veleni, come rivela una indagine fatta raccogliendo i dati ufficiali di Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Toscana, Campania e Trentino dall'associazione Verdi Ambiente e Società, secondo la quale quasi la metà della frutta e verdura è contaminato da pesticidi. Dentro i limiti decisi chissà da chi. Limiti che tengono conto delle relazioni con il corpo adulto e mai di quello del bambino. E questo sistema di controllo, se così si può chiamare, non tiene conto della somma di più pesticidi. Nonostante il mondo della ricerca oncologica da anni ribadisca il concetto che l'associazione tra più sostanze attive può avere potere cancerogeno. I pesticidi sospettati di essere pericolosi vengono ugualmente usati? Per capire quanto sicuro sia il sistema alimentare dominante abbiamo preso ad esempio uno dei pesticidi più usati: il mancozeb, un fungicida tra i più diffusi, viene usato su frutta e verdura per prevenire le muffe da circa 40 anni. Evidentemente il principio di cautela non viene adottato. Le prove sono in una lista nera dove vengono elencati i fitofarmaci più pericolosi, tra cui compare il mancozeb. Da non crederci: secondo l'Unione Europea il mancozeb viene catalogato come possibile teratogeno (ovvero può creare dei danni al feto), per lo IARC (Centro Internazionale di ricerca sul cancro) viene considerato probabile cancerogeno, e secondo la Commissione Consultiva Tossicologica Nazionale del Ministero della Sanità c'è una convincente evidenza di cancerogenicità. Questo mentre un altro ufficio del Ministero della Sanità autorizza il commercio del mancozeb (e purtroppo anche di molti altri principi attivi inclusi nella lista nera). Non si capisce quale prova serva ai tutori della nostra salute per proibire l'uso di certe sostanze. Il solo sospetto non basta? Perchè non cercare le prove allora? Non lo ha fatto il nostro governo (e nessun'altro) ma la Fondazione Europea di Oncologia e Scienze Ambientali B: Ramazzini di Bologna che ha sperimentalmente provato che il mancozeb è un cancerogeno multipotente, in grado di essere cancerogeno per diversi organi. La ricerca sarà pubblicata su una rivista scientifica nel 2001. Nel frattempo il mancozeb continuerà a riempire la nostra frutta, la nostra terra, le nostre acque. Forse continuerà anche dopo.

A proposito di cosmesi eco-bio, anche qui, purtroppo, non ci sono buone notizie, scrive Rossella su Terraemadre: uno studio inglese di qualche mese fa, condotto da Organic Monitor, intitolata “Natural Cosmetics Brand Assessment”, ha preso in esame 50 prodotti di marca che si definiscono naturali o biologici, analizzandone gli ingredienti e assegnando loro un punteggio in base a criteri scientifici di “naturalità”. I criteri di valutazione indicavano con 9-10 punti le marche certificate biologiche, con 4-7 punti i cosmetici naturali puri, con 3 i cosmetici semi naturali, con 1 quelli convenzionali. Non è stata una sorpresa scoprire che molti dei cosmetici promossi come naturali o addirittura biologici abbiano ottenuto i punteggi più bassi. Perchè questo? Per truffare l’acquirente, che è sempre più alla ricerca di prodotti naturali. In realtà la frode avviene in diversi modi: alcuni di questi marchi promuovevano i loro cosmetici per la pelle come biologici solo perché la formula conteneva oli essenziali bio. Altri mettevano il marchio della certificazione biologica sulla scatola avendo in realtà certificato solo l’ingrediente principale. Alcuni addirittura definivano biologici i cosmetici solo perché alcuni ingredienti erano naturali (e comunque non certificati). Ecco perchè bisogna essere molto attenti alle etichette e comprare prodotti bio con le giuste certificazioni. “Non c’è niente di illegale – spiega Fabrizio Piva, amministratore delegato di CCPB, organismo di controllo e certificazione che opera prevalentemente nel settore del biologico – semplicemente perché non ci sono leggi. Un prodotto in cui si evidenzi solo una parte certificata è una scorrettezza, anche perché non si sa quanto il singolo ingrediente pesi all’interno della ricetta complessiva”. Ecco perchè è importante una normativa che faccia chiarezza in questo “Far West del biologico”.

Dilaga il “falso” anche nel biologico. Dalla frutta con i pesticidi ai cosmetici scorretti, scrive Giovanni Bertizzolo su “Blogbiologico”. Prende più piede il “falso” anche nel biologico. Il Codacons fa sapere che “l’imminente deposito di un esposto presso le Procure della Repubblica di Agrigento, Catania, Messina, Enna, Caltanissetta, Palermo, Siracusa, Ragusa Trapani è volto a fare luce sulle bio-truffe”. Il Codacons, assieme alle associazioni del comparto agricolo, si dichiarano indignati da quanto emerso a seguito delle verifiche recentemente effettuate dai Nas presso alcune eco-aziende agricole siciliane. In realtà, sostiene il Codacons, quello che si intende portare alla luce con le indagini è l’esistenza di un mercato di prodotti biologici che di biologico non hanno nulla, ma che finiscono sulle nostre tavole perché da noi ritenuti privi di anticrittogamici e di sostanze chimiche. Infatti, sono molti coloro che per il rispetto dell’ambiente e del mangiar sano acquistano oggi prodotti biologici , tuttavia, taluni di quegli ortaggi o di quella frutta portata in casa perché ritenuta genuina si potrebbe rivelare realizzata con pesticidi, concimi chimici, coloranti e conservanti. Di scorrettezza clamorosa si parla anche nel mondo dei cosmetici. Il sito greenplanet.net (che a sua volta si riferisce al blog di certificatori http://web.ccpb.it/blog) segnala il caso dell’arcinota crema Nivea, e in particolare la linea Nivea Pure&Natural, lanciata nei mesi scorsi come contenente “ingredienti naturali, derivanti da coltivazioni biologiche”, come Bio Olio di Argan e Bio Aloe Vera. La ricerca di cui si parla nell’articolo di greenplanet.net è intitolata “Natural Cosmetics Brand Assessment”, ed è studio inglese condotto da Organic Monitor: prende in esame 50 prodotti di marca che si definiscono naturali o biologici, analizzandone gli ingredienti e assegnando loro un punteggio in base a criteri scientifici di “naturalità”. “I criteri di valutazione indicavano con 9-10 punti le marche certificate biologiche, con 4-7 punti i cosmetici naturali puri, con 3 i cosmetici semi naturali, con 1 quelli convenzionali – spiega greenplanet.it. -. Dispiace ma non sorprende scoprire che molti dei cosmetici promossi come naturali o addirittura biologici abbiano ottenuto i punteggi più bassi”. “E la truffa ai danni del consumatore è ben orchestrata – continua il sito, perché – non si tratta di vere e proprie bugie, ma di mezze verità. Alcuni marchi promuovevano i loro cosmetici per la pelle come biologici solo perché la formula conteneva oli essenziali bio. Altri mettevano il marchio della certificazione biologica sulla scatola avendo in realtà certificato solo l’ingrediente principale. Alcuni addirittura definivano biologici i cosmetici solo perché alcuni ingredienti erano naturali (e comunque non certificati). Una babele di false etichette, detti e non detti, suggestioni senza riscontro. Così si prende in giro chi compra, si risparmia e si fa bella figura”. Passando agli esempi di questa pratica – eticamente scorretta ma non punibile per legge – si cita “un caso eclatante, quello dell’arcinota Nivea”. Secondo Fabrizio Piva, amministratore delegato di Ccpb, organismo di controllo e certificazione che opera prevalentemente nel settore del biologico, “questa azienda, che è una delle maggiori d’Europa, ha prodotto una linea cosmetica che ha definito biologica ma che non ha nessun tipo di certificazione né di standard che permetta di definirla tale. In questo modo si arriva ad un Far West del biologico che non solo non tutela i consumatori ma limita anche le possibilità di crescita del settore”.

«FINTO BIO, URGONO CONTROLLI», scrive “Riso Italiano”. Nel mondo del riso è scoppiato il “caso bio”. Dopo la trilogia di Sarasso su Risoitaliano.eu, che ha focalizzato i punti deboli delle produzioni biologiche, i risicoltori hanno iniziato a dividersi su questo metodo di produzione ed è emerso un forte malcontento dei produttori di riso convenzionale, provocato sostanzialmente dal differenziale di prezzo del risone, ma anche una turbolenza tra i risicoltori biologici, un malessere che in verità covava da tempo, a proposito dell’esistenza di produttori di “finto bio”. Leggenda metropolitana (pardon, rurale) o verità? Man mano che passano i giorni il caso monta. Contribuisce al nervosismo la notizia che Report, la popolare trasmissione Rai, sta preparando una puntata proprio su questo caso. Insomma, ci sono gli ingredienti per una polemica nazionale, se non uno scandalo vero e proprio, che farebbe male a tutta la filiera. Per questa ragione i giovani risicoltori di Anga-Confagricoltura delle province in cui si coltiva riso si sono mobilitati e hanno elaborato un documento che, partendo dalla segnalazione di Risoitaliano, fa il punto sulla vicenda e prende una posizione molto chiara e coraggiosa, chiedendo di riformare il settore a tutela dei produttori biologici onesti. Il documento è diretto alle istituzioni del settore ma è opportuno che sia conosciuto da tutti i risicoltori e per questo lo pubblichiamo integralmente: «Le sezioni A.N.G.A. delle province risicole di Piemonte, Lombardia, Veneto e Calabria intendono con il presente documento portare all’attenzione del Legislatore Europeo alcune evidenze in merito al fenomeno del “finto riso biologico” a tutela dell’intero comparto risicolo ed in particolare delle Aziende Agricole Italiane che producono o intendono produrre riso biologico nel rispetto della regolamentazione. Tale documento vuole inoltre essere parere tecnico e istanza per la revisione del regolamento sulle produzioni biologiche in ambito risicolo. Mentre in passato si è assistito alla scoperta di truffe sul riso biologico che hanno visto coinvolte ditte di trasformazione e di intermediazione in relazione al commercio di “finto riso biologico”, ora sembra che il problema nasca dalla fase di produzione, come ormai evidenziato anche dagli organi di stampa. Da un confronto tra le diverse sezioni A.N.G.A. risulta che il fenomeno sia esteso pressoché su tutte le maggiori province risicole italiane. In riferimento al Regolamento Europeo n.834/07, dove si definisce la produzione biologica come “… un sistema globale di gestione dell’azienda agricola e di produzione agroalimentare basato sull’interazione tra le migliori pratiche ambientali, un alto livello di biodiversità, la salvaguardia delle risorse naturali, l’applicazione di criteri rigorosi in materia di benessere degli animali e una produzione confacente alle preferenze di taluni consumatori per prodotti ottenuti con sostanze e procedimenti naturali”, si rileva infatti, che l’attuale regolamento sulle produzioni biologiche impone una serie di divieti e obblighi per la Aziende produttrici, che nel comparto risicolo paiono assolutamente inadeguati poiché le condizioni di coltivazione sono differenti rispetto ad altre colture e conseguentemente divengono inadeguati i mezzi di controllo previsti dalla norma. Confidare fideisticamente sull’utilità degli attuali protocolli di verifica significa quindi negare a priori il problema, significa sostenere che il problema non esiste perché esistono strumenti di verifica anziché interrogarsi sulla validità di tali strumenti. Questo è un problema che i giovani di A.N.G.A riscontrano sul territorio dove alcune aziende risicole di tipo misto riescono a produrre in modo ottimale, senza infestanti, tanto da non distinguere gli appezzamenti biologici da quelli convenzionali, essendo peraltro condotti tutti in monosuccessione colturale e in totale assenza delle corrette pratiche agronomiche come sovescio invernale, rotazione, riposo, che come indicato dai testi di scienze agrarie sono indispensabili per l’ottenimento e la sostenibilità delle produzioni biologiche. Sulle suddette SAU aziendali non si rilevano inoltre, tra particelle convenzionali e biologiche, differenze ambientali apprezzabili, non si osserva nessuna applicazione di salvaguardia delle risorse naturali o di criteri rigorosi per il benessere degli animali oltre ad alcuna differenza in termini di biodiversità; persino gli argini di delimitazione tra le particelle paiono esattamente trattati nello stesso modo. Si precisa che la pratica della monosuccessione è permessa dall’art. 3 D.M. MIPAAF 18354 del 27/11/09, che prevede, per la risaia biologica, in deroga rispetto alle altre colture, la possibilità di eseguire la monosuccessione per un periodo di 3 anni seguiti poi da altre colture per almeno due anni; per quanto riguarda la Regione Piemonte tale vincolo è stato cancellato dalla D.G.R. 55-.954 del 03/11/2010 che permette la monosuccessione per un periodo illimitato a fronte di sovescio invernale. Oltre alla pratica agricola adottata e all’aspetto visivo degli appezzamenti è poi chiaro, visibile e misurabile il dato produttivo. Sarebbe quindi altrettanto interessante misurare in campo la produzione dei campi “bio” e confrontarla a quelli più vicini di tipo convenzionale. Del resto non si vuole affermare che la totalità del prodotto risicolo bio sia “finto riso biologico”, però sicuramente sorgono interrogativi sulla percentuale reale. Con la possibilità per un’Azienda di essere “mista” (convenzionale e bio) ci si trova di fronte a realtà in cui convivono parallelamente la coltivazione del riso convenzionale e “biologico”, rendendo così agevole ed ingovernabile il controllo delle pratiche agricole adottate sulle singole particelle di terra destinate a produzioni biologiche o convenzionali e conseguentemente sulla qualifica delle derrate alimentari da esse derivanti. La volontà del Legislatore di definire la produzione biologica come sistema globale di gestione dell’Azienda Agricola nasce certamente dalla maggior facilità di applicazione dei protocolli di controllo in un contesto univoco rispetto a uno misto ma anche dalla volontà di sposare da parte dell’Imprenditore agricolo la “filosofia bio”. In particolare per il comparto risicolo, il sistema globale di gestione dell’azienda agricola deve trovare piena applicazione in quanto la pratica risicola necessita più di ogni altra coltura di uno degli elementi di trasporto per eccellenza: l’acqua. Esprimiamo la nostra perplessità sulla possibile esistenza per il comparto risicolo di aziende miste, cioè particelle di coltivazione prossime o adiacenti che utilizzano la medesima acqua di sommersione e che per il solo principio dei vasi comunicanti defluisce da particelle convenzionali, trattate con prodotti chimici, a particelle bio poi a fossi, in cui scaricano altre particelle convenzionali, e poi di nuovo a bio ed il tutto all’interno della medesima SAU aziendale; questo appare in pieno contrasto con la volontà del Legislatore e con l’applicazione della norma soprattutto nei confronti del Consumatore che pretende e immagina di acquistare un prodotto sano. Anche riporre l’attenzione del controllo a tutela del Consumatore sulle verifiche analitiche del prodotto biologico ottenuto a posteriori del ciclo colturale (il parametro sui residui chimici di 0,01 mg/kg di prodotto) non è di per sé indicativo per stabilire se un prodotto sia stato trattato o meno in coltivazione con prodotti chimici poiché nel caso del riso, essendo un cereale “vestito”, il residuo sul prodotto finale ottenuto risulta inferiore a tali limiti anche per i prodotti derivati da agricoltura convenzionale e quindi trattati con prodotti chimici. Una volta accertato che le risaie biologiche delle aziende miste, gestite in monosuccessione, si presentano sostanzialmente identiche a quelle convenzionali per assenza di infestanti e quantità di prodotto presente, e accertato che i residui presenti sul prodotto finale di entrambe le colture sono identici e conformi ai valori previsti dalla legge, risulta evidente che l’attuale modello di verifica è inadeguato, anche in ragione del gap di prezzo esistente tra risone convenzionale (240€/ton) e risone biologico (800€/ton). Tale differenza alimenta quindi, vista l’assenza di regolamentazione funzionale di tutela, oltre che la frode verso il consumatore, la scorretta competitività industriale nei riguardi delle Aziende Agricole unicamente convenzionali, ma soprattutto nei confronti di quelle che svolgono e seguono correttamente i protocolli BIO e che si vedono minare il corretto prezzo di vendita da un’offerta al mercato drogata da partite di “finto riso biologico”. Le sezioni A.N.G.A. sottoscritte ritengono che una revisione del regolamento più restrittiva, che non preveda per il settore risicolo alcuna deroga per aziende “miste”, di per se’ potrebbe limitare il fenomeno del “finto riso bio”, essendo nell’azienda totalmente bio più difficoltoso reperire ed utilizzare i vari agro farmaci e fertilizzanti di sintesi banditi dai protocolli di pratica del biologico; inoltre tale restrizione renderebbe di più facile attuazione l’applicazione di controlli non programmati da parte degli organi preposti che non dovranno essere costituiti da soli organismi privati ma anche istituzionali. A maggior tutela del consumatore e conseguentemente dell’intero sistema produttivo, si propone inoltre che l’organismo certificatore privato non sia pagato dall’Azienda Agricola bensì dal Consumatore a mezzo di una quota percentuale del prezzo del prodotto. L’azienda mista avendo la possibilità di avere in carico presso i depositi aziendali gli agro farmaci comunemente utilizzati nella coltivazione convenzionale, ha di conseguenza la possibilità di operare con irroratrici colme di agro farmaci sui diversi appezzamenti limitrofi. Da non sottovalutare poi il preoccupante aumento del numero di furti di fitofarmaci nelle aziende agricole che potenzialmente potrebbe alimentare un consumo parallelo che va a soddisfare chi i prodotti li può comperare solo in misura limitata per la parte di azienda convenzionale. La ventilata proposta di revisione del regolamento, che vuole nuovamente consentire il bio su aziende miste ma con appezzamenti ben delineati, non trova riscontro alcuno nel comparto risicolo delle province citate, poiché strutturalmente il territorio risicolo è composto da aziende con campi ben delineati e divisi gli uni dagli altri da confini naturali come argini, strade, fossi, ovvero la naturale e fisiologica delimitazione di una risaia indispensabile per il trattenimento dell’acqua e quindi per la sua coltivazione. Pare quindi ovvio che la modifica che consentirebbe la coltivazione di bio in aziende miste purché su appezzamenti ben delineati e distinguibili, non potrà avere alcun effetto restrittivo sulla pratica scorretta usata ed attuata dai produttori del “finto riso biologico”; anzi servirebbe solo ad incrementare il plotone dei potenziali produttori bio pronti a sfruttare la falla del sistema il tutto a danno del Consumatore, che non potrà godere con certezza di una produzione confacente alle proprie preferenze per prodotti ottenuti con sostanze e procedimenti naturali e nella tutela dell’ambiente circostante. Le sezioni A.N.G.A. succitate ritengono che l’obbiettivo non sia quello di incrementare le statistiche di questo “bio finto” ma di costruire un’immagine di certezza per il consumatore, obbiettivo raggiungibile solo con le dovute restrizioni. Solo se è imposta all’intera azienda agricola la gestione biologica, per quanto riguarda il comparto risicolo, possiamo sperare che venga stroncata questa pratica scorretta che alcuni, attirati da un guadagno facile stanno attuando con una concorrenza sleale che di fatto porta a modificare nel tempo il panorama strutturale del territorio risicolo e dei propri Cittadini. Chiediamo quindi a gran voce una revisione del sistema che regolamenta la produzione biologica nel suo insieme nel comparto risicolo in modo che sia gli onesti Produttori biologici sia quelli che operano nel convenzionale, oltre chiaramente al Consumatore, vengano tutelati dalla frode del “finto biologico”. Chiediamo una riforma seria, basata sui binari fondamentali del “vero bio su tutta l’azienda risicola” certificato da Organi di controllo pubblici, senza preavviso e senza indulgenza.
Cordiali Saluti, I presidenti delle sezioni A.N.G.A. Lombardia, Piemonte, Veneto, Pavia, Vercelli-Biella, Novara-VerbanoCusiOssola, Milano-Lodi-Monza- Brianza, Torino, Cosenza».

Falso Bio, un milione di truffe. Etichette stampate in casa. Pesticidi e agenti chimici vietati. Nei cibi biologici si trova di tutto. La richiesta aumenta, e aumentano anche le frodi: solo nel 2013 la Guardia di Finanza ha sequestrato migliaia di prodotti. E ora interviene la Ue, scrive Arianna Giunti su “L’Espresso”. Il colore è giallo brillante. L’odore è appetitoso. Il sapore, dolce e deciso. E poi c’è quell’etichetta rotonda, con una sigla che dà istintivamente fiducia: “D.O.P- di origine protetta”. In realtà, di protetto, in quella confezione c’è ben poco: fra agenti chimici e conservanti tossici si tratta del mais meno salutare che possa esserci in commercio. Truffe alimentari di questo genere sono quasi all’ordine del giorno. Quintali di prodotti che vengono fatti passare per delizie biologiche sottoposte a severi controlli ma che invece aggirano ogni norma falsificando le etichette e utilizzando, spesso, pericolosi pesticidi, liquidi non commestibili o persino sostanze destinate all’alimentazione zootecnica. Ovvero mangimi per animali. L’ultima frode è stata scoperta a Roma, dove sono state sequestrate duemila confezioni di finti cibi biologici destinati al commercio su internet. C’era di tutto: dalle tisane alle salse di pomodoro passando per gli integratori alimentari. Ma la portata del fenomeno è vastissima: solo nel 2013 il Nucleo Antifrode dei Carabinieri ha sequestrato in tutta Italia due milioni di finte etichette biologiche e confezioni “ingannevoli” e più di 77 mila prodotti agroalimentari. La Guardia di Finanza, invece, ne ha ritirati dal mercato quasi un milione in un anno. Un giro d’affari enorme che ha un doppio fine: truffare i clienti e accaparrarsi i finanziamenti europei elargiti per favorire l’agricoltura biologica in Italia. In un anno, sempre i militari dell’Arma hanno accertato frodi ai danni dell’Ue per oltre 12 milioni di euro. Tanto che ora Bruxelles per scongiurare altre truffe “all’italiana” potrebbe decidere di chiudere i rubinetti dei finanziamenti decurtando per il 2014-2020 le assegnazioni dei fondi per la Politica Agricola Comune. E sarebbe un grave danno, visto che in Italia gli agricoltori impegnati nel biologico sono più di 50 mila e nonostante la crisi il nostro paese si conferma come uno dei leader per produzioni “green”. La chiave di tutto infatti è proprio questa: cresce a dismisura la domanda di prodotti “bio” o di origine protetta e aumentano in maniera simmetrica le truffe. Soprattutto nell’e-commerce, il commercio via internet, che sta diventando sempre più pratico e popolare e dà la possibilità di esportare il prodotto “finto bio” in breve tempo su larghissima scala o di importare quello contraffatto dall’estero. Ma come si comportano, esattamente, i professionisti delle truffe alimentari? I modi per ingannare gli ignari consumatori sono tre. Il primo è ovviamente quello di falsificare l’etichetta grazie a tipografi compiacenti che riproducono alla perfezione i marchi “DOP”, “IGP”,”STG-biologico”: sigle che attestano la provenienza protetta del cibo e il trattamento senza pesticidi. Mentre in realtà per quegli alimenti non c’è tracciabilità, non si sa dove sono stati prodotti né come. Negli ultimi anni gli organi di controllo hanno incrementato la vigilanza sulle confezioni alimentari, ma molte truffe continuano a resistere. Il secondo modo è quello di violare le più basilari norme igienico-sanitarie o addirittura di utilizzare elevati contenuti di Ogm o agenti chimici vietati secondo le norme europee nell’agricoltura biologica. Poi c’è – appunto – chi cerca di ottenere i finanziamenti europei riservati agli imprenditori agricoli non rispettando le norme e i parametri sulla produzione biologica. O chi, addirittura, si finge un agricoltore mentre in realtà svolge tutt’altro mestiere. Racconta a l’Espresso il comandante del Nucleo Antifrodi dei Carabinieri di Roma Riccardo Raggiotti: «L’universo dei truffatori è variegato: in questi anni c’è capitato di tutto. Uno dei casi più classici è però quello di inserire nel Sistema Informativo Agricolo Nazionale dati sui terreni completamente fasulli. In pratica: pur di avere i soldi dicono di essere possidenti di un immenso terreno coltivabile mentre in realtà inseriscono i dati catastali del parco pubblico o del campo da calcio cittadino». E se i controlli non sono attenti e severi rischiano pure di ottenerli. La truffe di alimenti bio riguardano principalmente i prodotti ortofrutticoli oppure in scatola: dalle minestre alla soia. Però in questi anni le forze dell’ordine si sono trovate a doversi occupare di tutto: dai latticini ai prodotti surgelati da forno fino alla pasta fatta con la farina di riso. In alcuni casi si tratta semplicemente di alimenti di scarsa qualità o al di sotto dello standard qualitativo che ci si aspetta da un prodotto “green”. In altri casi, invece, sono proprio prodotti tossici. Proprio come quelli “low cost” sequestrati in tutta Italia lo scorso aprile dalla Guardia di Finanza di Pesaro e dall’Ispettorato repressione frodi del ministero della Politiche Agricole di Roma. Mille e cinquecento tonnellate di mais, 800 tonnellate di semi di soia e 340 tonnellate di panello e olio di colza provenienti dall’Europa dell’Est che stavano per finire sulle nostre tavole e che contenevano il “clormequat”, un pericolosissimo pesticida. Nei chicchi di grano, poi, sono state trovate tracce di prodotti chimici “destinati all’industria mangimistica per l’alimentazione zootecnica”. Per animali, insomma. Nella maxi truffa internazionale erano coinvolte 23 società fra italiane e straniere, che per evitare i controlli nazionali sdoganavano i cibi a Malta prima di portarli nel nostro paese. Erano vendute a carissimo prezzo, invece, le oltre 100 mila tonnellate di falsi prodotti biologici sequestrate lo scorso giugno sempre dalle Fiamme Gialle a Cagliari. Mais, grano, soia, semi di girasoli: l’organizzazione criminale era riuscita a mettere in piedi un giro da oltre 135 milioni di euro evadendo – tra l’altro – l’Iva per cinque milioni. Il gruppo con sede a Capoterra poteva contare sull’appoggio di molte società fantasma nel comparto dell’intermediazione di prodotti cerealicoli biologici. E tossico era anche il miele sequestrato ad Ascoli Piceno dal Corpo Forestale dello Stato nel maggio del 2012 durante l’operazione “Ape Maia Bio”. Migliaia di confezioni destinate agli scaffali dei piccoli supermercati “di nicchia” che contenevano miele e preparati biologici a base di propoli nei quali erano stati utilizzati farmaci nocivi e vietati. Un vero classico poi è la vendita all’estero di finto olio biologico. Si tratta infatti del prodotto “made in Italy” più ambito al mondo, e cadere in una truffa, soprattutto online, è facilissimo. L’ultimo maxi sequestro di questo genere è stato portato a segno dalle Fiamme Gialle di Trani: un’organizzatissima associazione per delinquere aveva messo in piedi il commercio di bottiglie spacciandole per “olio pugliese extravergine e biologico”. In realtà, perquisendo i frantoi i finanzieri hanno trovato due silos contenenti due diversi tipi di olio che venivano miscelati. Alla faccia della qualità dichiarata. Fra questi, poi, c’era anche il “lampante”: l’olio che un tempo veniva usato per le lampadine. E che ovviamente non è commestibile. Questa impennata di truffe sta preoccupando l’Unione Europea. E proprio di recente l’ha spinta a correre ai ripari varando norme di controllo più severe che entreranno in vigore il prossimo gennaio. Fra le tante, questa è la più significativa: ogni anno ciascun Paese Ue si dovrà impegnare a prelevare forzatamente un numero minimo di campioni di prodotti “bio” sul proprio territorio da analizzare, valutare e - se è il caso – bocciare. Prima ancora che ci pensino le forze dell’ordine.

MADE IN ITALY, LA GRANDE FUGA.

Made in Italy, la grande fuga. Dall'industria alla moda, passando per l'agroalimentare, il 2014 è un annus horribilis per tanti marchi storici italiani passati in mano straniere per effetto della crisi economica, scrive “Today”. C'era una volta il made in Italy. Quello di cui andare fieri in giro per il mondo, quello che ci faceva gonfiare il petto per l'orgoglio. Oggi, complice un'economia in fase di stagnazione, i nostri fiori all'occhiello - sempre di più - "scappano" all'estero, finendo in mani straniere. Che siano di oligarchi russi o di emiri del Qatar. Uno dopo l'altro. Dall'industria alla moda, fino all'agroalimentare, è un'escalation quella dei marchi italiani venduti. Soprattutto nell'anno in corso, dove - come ci dice Coldiretti - le operazioni di acquisizione hanno fruttato un giro d'affari di due miliardi di euro. L'ultimo addio, proprio ieri, è toccato alla Indesit, ceduta all'americana Whirlpool per 758 milioni di euro. Se la tecnologia applicata all'abitare piange, il comparto alimentare non ride. L'operazione Indesit segue di qualche giorno l'acquisizione della storica gelateria Fassi a Roma da parte della società coreana Haitai Confectionery and Foods Co, mentre appena il mese scorso l'antico Pastificio Lucio Garofalo ha siglato un accordo preliminare per l'ingresso nella propria compagine azionaria, con il 52%, di Ebro Foods, gruppo multinazionale spagnolo che opera nei settori del riso, della pasta e dei condimenti. Nel mese di febbraio c'è stato - sottolinea la Coldiretti - l'acquisto da parte di Blackstone, fondo d'investimento americano, del 20% delle quote di Versace, la terza operazione nella moda dall'inizio dell'anno a finire nel mirino di investitori stranieri, dopo Krizia e Poltrona Frau. Nel 2013 - ricorda la Coldiretti - era stata la volta di Loro Piana finire al gruppo francese Lvmh per due miliardi di euro. Alla fine del mese di giugno 2013 la stessa multinazionale del lusso Lvmh aveva acquisito una partecipazione di maggioranza nel capitale sociale della pasticceria Confetteria Cova proprietaria della società Cova Montenapoleone Srl, che gestisce la nota pasticceria milanese. La Lvmh di Bernard Arnault aveva già in portafoglio Bulgari ed è proprietario di Fendi, Emilio Pucci e Acqua di Parma mentre - continua la Coldiretti - la sua rivale francese Ppr di Francois-Henry Pinault controlla Gucci, Bottega Veneta e Sergio Rossi. Il colpo più grosso nell'alimentare i francesi lo hanno messo a segno nel 2011 con la Lactalis che è stata, invece, protagonista dell'operazione che ha portato la Parmalat a finire sotto controllo transalpino, dopo aver già acquisito in passato la Galbani, la Locatelli e l'Invernizzi. Se nella moda gli emiri del Qatar si sono assicurati lo scorso anno lo storico marchio Valentino, assieme alla licenza Missoni nel settore vitivinicolo, quest'anno - continua la Coldiretti - un imprenditore cinese della farmaceutica di Hong Kong ha acquistato per la prima volta un'azienda vitivinicola agricola nel Chianti, terra simbolo della Toscana per la produzione di vino: l'azienda agricola Casanova - La Ripintura, a Greve in Chianti, nel cuore della docg del Gallo Nero. Nel 2013 - continua la Coldiretti - si sono verificate la cessione da parte della società Averna dell'intero capitale dell'azienda piemontese Pernigotti al gruppo turco Toksoz, e il passaggio di mano del 25% della proprietà del riso Scotti ceduto dalla famiglia pavese al colosso industriale spagnolo Ebro Foods. Nel 2012 la Princes Limited (Princes), una controllata dalla giapponese Mitsubishi, aveva siglato un contratto con AR Industrie Alimentari (Aria), leader italiana nella produzione di pelati, per creare una nuova società denominata «Princes Industrie Alimentari SrL» (Pia), controllata al 51% dalla Princes, mentre il marchio Star passa definitivamente in mano spagnola con il gruppo Agrolimen che ha aumentato la propria partecipazione in Gallina Blanca Star al 75%. Nel 2011 la società Gancia, casa storica per la produzione di spumante, è divenuta di proprietà per il 70% dell'oligarca Rustam Tariko, proprietario della banca e della vodka Russki Standard, mentre il 49% di Eridania Italia Spa operante nello zucchero è stato acquisito dalla francese Cristalalco Sas e la Fiorucci salumi è passata alla spagnola Campofrio Food Group, la quale ha ora in corso una ristrutturazione degli impianti di lavorazione a Pomezia che sta mettendo a rischio numerosi posti di lavoro. Nel 2010 il 27% del gruppo lattiero caseario Ferrari Giovanni Industria Caseari fondata nel 1823 - che vende tra l'altro Parmigiano Reggiano e Grana Padano - è stato acquisito dalla francese Bongrain Europe Sas e la Boschetti Alimentare Spa, che produce confetture dal 1981, è diventata di proprietà della francese Financière Lubersac che ne detiene il 95%. L'anno precedente, nel 2009 - prosegue la Coldiretti - è iniziata la cessione di quote della Del Verde industrie alimentari che è divenuta di proprietà della spagnola Molinos Delplata Sl, la quale fa parte del gruppo argentino Molinos Rio de la Plata. Nel 2008 la Bertolli era stata venduta all'Unilever per poi essere acquisita dal gruppo spagnolo Sos. E' iniziata la cessione di Rigamonti salumificio, divenuta di proprietà dei brasiliani attraverso la società olandese Hitaholb International, mentre la Orzo Bimbo è stata acquisita dalla francese Nutrition&Santè S.A. del gruppo Novartis. Nel 2003 hanno cambiato bandiera anche la birra Peroni, passata all'azienda sudafricana SAB Miller, mentre negli anni Novanta era stata la San Pellegrino ad entrare nel gruppo Nestlè e la Stock ad essere venduta alla tedesca Eckes A.G per poi essere acquisita nel 2007 dagli americani della Oaktree Capital Management. La stessa Nestlè possedeva già dal 1993 il marchio Antica gelateria del Corso e addirittura dal 1988 la Buitoni e la Perugina. Può bastare per parlare di emergenza?

Pernigotti e le dieci aziende alimentari vendute all'estero. Beviamo latte di proprietà francese, spumante di proprietà russa, acqua svizzera, birra sudafricana e chianti cinese. ll made in Italy alimentare parla sempre meno italiano, scrive Cinzia Meoni su “Panorama”. Le eccellenze tricolori nel settore alimentare, per cui il made in Italy è famoso nel mondo, parlano sempre meno italiano. L’ultimo caso è quello di Pernigotti, celebre brand noto per i gianduiotti, venduto, dopo oltre 150 anni di storia, al gruppo turco Sanset della famiglia Toksoz dalla famiglia Averna. Ma non c’è da stupirsi. Beviamo latte di proprietà francese, spumante di proprietà russa, acqua svizzera, birra sudafricana e chianti cinese (l’azienda Casanova-La Ripintura, nel Chianti, è stata recentemente acquisita da un imprenditore di Hong Kong), mangiamo ravioli svizzeri, usiamo olio e dadi spagnoli e pelati giapponesi. E sempre nel settore dolciario non si può dimenticare che i baci Perugina appartengono, dal 1988, alla svizzera Nestlè così come i gelati della Antica gelateria del corso (confluiti nel gruppo elvetico nel 1993). "C’è da augurarsi che il cambiamento di proprietà non significhi lo spostamento delle fonti di approvvigionamento della materia prima" nota in merito la Coldiretti. Ma qualche dubbio comunque rimane. È lecito. Peraltro, sempre secondo Coldiretti, "con la vendita di Pernigotti, sale a oltre 10 miliardi il valore dei marchi storici dell'agroalimentare italiano passati in mani straniere dall’inizio della crisi". Senza considerare infine che chiaramente, in tutti questi casi, anche i profitti (e quindi, spesso, i relativi investimenti) varcano il confine.

Spulciando tra le acquisizioni più o meno recenti, ecco la top ten dei più noti brand del made in Italy che ormai, da tempo, non sono più italiani.

1) Ar Pelati, primo produttore italiano di pomodori pelati. Finito nella galassia anglo-nipponica Princes controllata dal gigante Mitsubishi nel 2012. L'azienda, nata nei primi Anni '60, ha un fatturato di circa 300 milioni di euro (solo il 20% dei ricavi peraltro è generato in Italia) con stabilimenti in Campania e in Puglia a Borgo Incoronata.

2) Buitoni: L'azienda fondata nel 1927 a Sansepolcro dall'omonima famiglia è passata sotto le insegne di Nestlè nel 1988.

3) Gancia: le note bollicine sono in mano all’oligarca russo Rustam Tariko (proprietario tra l’altro della vodka Russki Standard) dal 2011.

4) Carapelli è nella galassia del gruppo spagnolo Sos dal 2006, cosi come Sasso e Bertolli.

5) Parmalat dal 2011 è in mano a Lactalis che, peraltro, vanta nel proprio gruppo (sempre nel settore latte-caseario) anche Galbani (dal 2006), Invernizzi (dal 2003) e Locatelli. Peraltro l’acquisizione del gruppo fondato da Calisto Tanzi, effettuata più per la cassaforte rimasta a Collecchio che non per l'eccellenza del brand, ha avuto un seguito polemico con strascichi giudiziari (nel mirino in particolare l’acquisizione infragruppo di Lag) che non hanno ancora trovato conclusione.

6) Star. Il 75% della società fondata dalla famiglia Fossati (oggi azionisti di Telecom Italia) nel primo dopoguerra, è in mano alla spagnola Galina Blanca (entrata nel 2006 e poi salita del capitale del gruppo).

7) Salumi Fiorucci: sono in mano agli spagnoli di Campofrio Food Holding dal 2011.

8) San Pellegrino è stata acquisita da Nestlè dal 1998.

9) Peroni è stata comperata dalla sudafricana Sabmiller nel 2003.

10) Orzo Bimbo acquisita da Nutrition&Santè di Novartis nel 2008.

ALTRO CHE BIOLOGICO......

Attacco hacker al biologico italiano. Il caso dei fertilizzanti a base di matrina. Anche i fertilizzanti e i prodotti fitosanitari naturali hanno un impatto su ambiente, salute umana e animale. Finti fertilizzanti biologici acquistabili all'estero conterrebbero sostanze i cui effetti non sono ancora chiari e verrebbero usati anche in Italia grazie a regole poco efficaci sulle autorizzazioni nel settore dei mezzi tecnici bio, scrive Barbara D’Amico (Agriconnection) su “La Stampa”. C'è una falla nell'agricoltura biologica italiana. O meglio, nelle leggi che regolano il commercio dei fertilizzanti per l'agricoltura bio. Un bug – direbbero gli esperti informatici – che produttori di mezzi tecnici sfrutterebbero a proprio vantaggio, come dei bravi hacker, per far rientrare dalla finestra ciò che governi e associazioni fanno uscire dalla porta: sostanze che potrebbero alterare la biodiversità e inquinare le falde acquifere con effetti poco chiari sulla salute umana e animale. Non sempre ciò che è naturale fa bene all'ambiente. E per scoprire l'impatto che un concime, l'estratto di una radice o un minerale hanno in agricoltura occorre fare degli studi. Invece, prodotti che dovrebbero essere sottoposti a costosi processi di misurazione e verifica prima di finire in commercio, riescono a saltare una complessa rete di controlli perché imbottigliati o inscatolati con la dicitura "naturale" o "organico". Danneggiando il buon nome dell'agricoltura biologica e facendo concorrenza sleale a produttori di mezzi tecnici testati e sicuri. Per risparmiare centinaia di migliaia di euro in esami preliminari sarebbe sufficiente importare dall'estero insetticidi ed erbicidi spacciati come fertilizzanti naturali che, come tali, non sono sottoposti ai rigidi controlli preventivi previsti invece per i fitofarmaci (sostanze che curano le malattie delle piante o ne regolano i processi vitali). Sui siti di e-commerce  è possibile trovare molti di questi prodotti e quasi tutti provengono da India e Cina. Come quelli a base di matrina, una sostanza naturale molto diffusa in Oriente ma il cui uso in agricoltura non è ancora contemplato o permesso in Europa e in Italia. Non tutte le aziende straniere la vendono come fitofarmaco, ciò che invece è nella realtà, anzi spesso nelle etichette la definizione è poco chiara. In altri casi la dicitura "fertilizzante" è invece espressa: un chiaro caso di falsificazione, perché, dicono gli esperti, la matrina tutto è meno che un concime. Eppure, poiché è estratta dalla radice di una pianta, la matrina è facilmente spacciabile come fertilizzante bio. Quanto basta per indurre in errore un agricoltore. Il buon senso, infatti, non sempre è sufficiente a decidere sulla tossicità delle molecole utilizzate nei campi: anche un fungo colto in montagna, per quanto naturale, può essere nocivo per la salute umana o animale.

Il paradosso di tutto ciò? Il settore che ha fatto della sostenibilità e dell'impatto zero la sua vocazione rischia di diventare, suo malgrado, il punto debole della sicurezza alimentare italiana . Veicolo di prodotti destinati non solo al biologico ma anche al sistema di coltivazione convenzionale. Quello dei mezzi tecnici – cioè il settore di chi realizza e commercializza prodotti per gli agricoltori, come concimi, ammendanti, fertilizzanti e agrofarmaci – è un mondo poco conosciuto dai non addetti ai lavori. E' il dietro le quinte di tutto ciò che mangiamo perché fornisce gli strumenti chimici per soddisfare le esigenze dell'agricoltura, tanto convenzionale quanto biologica. «In agricoltura biologica i normali agrofarmaci sono banditi ma è possibile utilizzare alcune tipologie di fertilizzanti – spiega Paolo Carnemolla, presidente di Federbio, associazione italiana che riunisce agricoltori biologici e biodinamici – A differenza di quanto avviene nell'agricoltura convenzionale, però, dobbiamo attenerci ad un elenco di prodotti indicati dalla legge italiana: i fertilizzanti devono essere organici». Quindi, se un agricoltore biologico vuole impiegare sostanze additive, deve accertarsi che il prodotto sia tra quelli consentiti. Per farlo esiste un apposito elenco, di cui parleremo più avanti, e che però non sembra garantire da un utilizzo improprio di questi mezzi tecnici. «I fertilizzanti sono per le piante quello che gli alimenti sono per l'uomo e gli animali», spiega Assofertilizzanti, l'organizzazione che riunisce i principali produttori italiani del settore.  I concimi, naturali o sintetizzati, sono elementi che aiutano a integrare (o reintegrare) le sostanze nutritive del terreno, come azoto fosforo e potassio. Sostanze che, a causa delle tecniche di coltivazione intensiva, si riducono progressivamente. Per questo gli integratori diventano indispensabili. Tanto per l'agricoltura convenzionale quanto per quella biologica. E i numeri lo dimostrano. In base a dati Istat, nel 2012 l'Italia avrebbe consumato complessivamente 4,75 milioni di tonnellate di fertilizzanti . Anche se negli ultimi anni sia il consumo che la produzione delle sostanze è costantemente diminuito, la Penisola continua a utilizzare e importare i prodotti dall'estero.  Più precisamente, almeno il 50% del mercato dei fertilizzanti minerali oggi è costituito da prodotti di importazione. Anche nelle coltivazioni  biologiche l'impiego dei nutrienti, anche se ridotto, si assesta comunque sugli 1,35 milioni di tonnellate. Una quantità che conferma l'esistenza di un mercato rilevante per l'Italia che solo nel 2013 ha speso 863 milioni di euro per i prodotti stranieri e che conta, sul territorio, tra produttori, importatori e utilizzatori circa 500 mila aziende. Il 90% delle quali di piccola dimensione e, per questo, più difficili da tenere sotto controllo (ecco di seguito una mappa con il numero di produttori aggiornato a dicembre 2013 dal Ministero dell'Agricoltura in base alle aziende iscritte nel Registro dei Fabbricanti di fertilizzanti – Il record lo detengono le città del Nord: nella sola provincia di Milano le imprese registrate sono 85).

Mappa del numero di produttori di fertilizzanti per provincia in Italia. Questo quadro dimostra quanto ancora sia lontana l'idea di una agricoltura di massa che faccia a meno dei mezzi tecnici. E non solo in Italia. In questa mappa è rappresentato l'uso di fertilizzanti a base di fosforo, azoto e potassio in milioni di tonnellate in tutto il Mondo dal 2001 al 2011: salvo Africa, Alaska e qualche area dell'America Latina, non c'è nemmeno un lembo di terra che resti scoperto. Ciò che dovrebbe essere semplice concime o semplice sostanza nutritiva ha in realtà un impatto rilevante sull'ambiente. Per questo gli stessi produttori investono in ricerca e sviluppo per migliorarne la sostenibilità. E i motivi sono evidenti. Secondo un rapporto di Green Peace pubblicato nel 2008 (ma le conclusioni sono condivise anche da organizzazioni come la FAO e l'Earth Policy Institute) «fra tutti i prodotti chimici, i fertilizzanti sono tra le sostanze che maggiormente contribuiscono alle emissioni di gas serra». Questo perché « o ltre il 50 per cento di tutti i fertilizzanti cosparsi sul suolo finisce nell’atmosfera o nei corsi d’acqua locali ». Tra i componenti chimici dei concimi vi è anche il protossido di azoto (N20), «uno dei gas serra più potenti con un potenziale di riscaldamento globale 296 volte maggiore di quello del biossido di carbonio – si legge nel Rapporto – L’uso eccessivo di fertilizzanti e le conseguenti emissioni di protossido di azoto giocano il ruolo maggiore nel contributo dell’agricoltura al cambiamento climatico: l’equivalente di 2,1 miliardi di tonnellate di CO2 ogni anno. Inoltre il dispendio energetico richiesto per la produzione di fertilizzanti aggiunge altri 410 milioni di tonnellate di CO2 equivalente ». Queste conclusioni, a detta dei produttori di fertilizzanti, per quanto veritiere non terrebbero conto dei progressi dell'industria chimica nel settore dei concimi e soprattutto dei fitofarmaci, altra categoria di mezzi tecnici (si tratta di vere e proprie medicine per le piante, utilizzate per combattere parassiti o prevenire la diffusione di virus) spesso considerata come principale causa di scandali alimentari e avvelenamento dei terreni e delle acque.

Ma siamo sicuri che l'agricoltura italiana sia rimasta ai tempi del DDT? I protocolli  qualitativi interni adottati da associazioni e organizzazioni di produttori come Assofertilizzanti e Agrofarma sembrano dire il contrario. Le imprese associate, oltre ad essere sottoposte alla rigida regolamentazione europea e italiana sui mezzi tecnici, si sottopongo a un Codice di Autodisciplina interno e a regole proprie per aumentare la qualità e la sicurezza dei prodotti. Un esempio è il Progetto Qualità avviato di concerto con il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali e che, grazie a un sistema di punteggio basato sui risultati delle ispezioni, aumenta i controlli all'interno del settore dei fertilizzanti e assegna un marchio di qualità ai produttori più virtuosi. Lo stesso impegno è quello delle associazioni di produttori biologici come Federbio che conta tra i suoi soci anche IBMA Italia (International Biocontrol Manifacturer association), l'Associazione italiana delle aziende operanti nel settore dei mezzi tecnici per l'agricoltura biologica ed ecocompatibile e con cui gli agricoltori bio hanno avviato un Gruppo di Lavoro «allo scopo – si legge sul sito dell'associazione – di esprimere un parere motivato sull’ammissibilità dei formulati commerciali impiegabili per approntare un elenco sempre aggiornabile dei prodotti fitosanitari impiegabili in agricoltura biologica. Il tutto con l’intento non di penalizzare la filiera ma di supportare gli operatori e gli organismi di certificazione, semplificandone il lavoro». Ma tutti questi sforzi "privati" fanno pensare a delle lacune talmente grandi da richiedere alle aziende di provvedere da sole a tappare le falle... I dati sui residui chimici che non fanno notizia Capire la differenza tra le regole sui fertilizzanti e quelle sugli agrofarmaci è fondamentale per capire dove sia sia prodotta la falla che permette a finti fertilizzanti bio di essere applicati in agricoltura. Saltando i controlli. Per via dei loro componenti chimici, gli agrofarmaci (fungicidi, erbicidi e insetticidi) sono sottoposti a un processo di autorizzazione e verifica preliminare molto più rigido di quello previsto per i concimi. Non a caso il Ministero competente a dare l'ok per la commercializzazione è quello della Salute. In passato queste medicine per l'agricoltura hanno causato danni all'ambiente e sono tutt'ora considerate prodotti estremamente poco sostenibili. Ma le cose non stanno esattamente così. A confermarlo sono i dati dell'Agenzia europea per la sicurezza alimentare  Efsa che ogni anno pubblica un report sui residui di agrofarmaci negli alimenti. In base alle regole europee, infatti, ogni cibo non può contenere sostanze in misura superiore a una determinata soglia. Se in un campione di pomodoro o mais vengono riscontrati livelli maggiori, gli alimenti devono essere rintracciati e sequestrati. E in questo l'Italia vanta un ottimo primato. Nel 2014, in base all’analisi effettuata su circa 79 mila campioni prelevati su 647 diversi tipi di alimenti, in più del 97% dei casi i limiti sui residui fissati dalla normativa europea sono stati rispettati. Vuol dire che quasi il 100% del cibo italiano praticamente non ha residui chimici o se li ha questi restano ben ben al di sotto della soglia di legge. «L'Italia si conferma leader in tema di sicurezza alimentare con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui superiori ai limiti consentiti (0,4%)» commenta in un comunicato Agrofarma, l'associazione di categoria aderente a Federchimica e che riunisce i produttori di fitofarmaci italiani. La Penisola, dunque, sarebbe il luogo più sicuro al mondo in cui cibarsi. Eppure questi dati, lamentano ricercatori e produttori, non vengono percepiti dall'opinione pubblica.  «Sui giornali fanno più scandalo le mozzarelle blu e i cetrioli che esplodono anziché le buone notizie. A ben vedere, tutti i più gravi scandali alimentari degli ultimi 15/20 anni hanno avuto origine in altri Paesi e mai in Italia, proprio grazie al nostro sistema di controlli», ha affermato nel corso di una conferenza sul tema della sostenibilità ambientale Maria Lodovica Gullino, direttrice di Agroinnova, Centro di ricerca e competenza agroalimentare dell'Università di Torino . Se i fitofarmaci italiani attuali sono prodotti considerati sicuri è perché, prima di essere messi in commercio, devono superare analisi e ricevere l'autorizzazione dal Ministero della Salute. Un processo costosissimo ( fino a 200 milioni di euro per quelli chimici e tra i due e i 4 milioni per quelli biologici) che però riduce il rischio di danni all'ambiente. Questo sistema iper controllato ha le sue radici nella normativa comunitaria. In Europa tutte le sostanze chimiche sono sottoposte alle norme REACH (Registration, Evalutaion, Authorization of Chemicals), il Regolamento comunitario adottato nel 2006 che obbliga le industrie a registrare ogni sostanza chimica prodotta o importata se la quantità è pari o superiore a una tonnellata all'anno. Al momento sarebbero 30 mila le sostanze sottoposte al processo di registrazione. Pur non essendo classificati come fitofarmaci, anche i fertilizzanti sono fatti di sostanze chimiche e come tali sottoposti a un regime di registrazione obbligatorio. In Italia sono previsti un Registro dei fertilizzanti e un Registro dei fabbricanti di fertilizzanti (ma al momento solo quest'ultimo è accessibile). Strumenti di trasparenza a cui si aggiunge una tabella tecnica prevista sempre dalla legge italiana (l'allegato 13 al decreto legislativo 75/2010) e che riporta da un lato la tipologia e e la descrizione dei concimi, dei fertilizzanti e degli ammendanti ammessi sul territorio europeo e dell'altra le corrispettive definizioni e tipologie ammesse in Italia: solo se un prodotto fa parte di entrambe le categorie può essere utilizzato in agricoltura biologica.

La semplice menzione in un elenco è sufficiente a garantire la sicurezza del prodotto? E ci dice qualcosa del suo impatto sull'ambiente? In realtà, no. Leggendo la normativa italiana si scopre che i controlli sul contenuto chimico dei fertilizzanti avvengono solo dopo l'iscrizione nel registro , a campione, e mai prima come avviene invece per i fitofarmaci. E' questo controllo ex post che causa la falla nel settore biologico italiano? Per registrare un fertilizzante e ottenerne la commercializzazione occorre inviare una serie di informazioni al Ministero dell'Agricoltura (gli stessi indicati dal Decreto Ministeriale 17 luglio 2012  ). Tra questi figura la descrizione del contenuto del prodotto e del processo di produzione. Il Ministero infatti è dotato di un organismo interno, il COSVIR XI, ovvero il Servizio fitosanitario centrale, che deve esaminare tutta la documentazione inviata dal produttore prima di dare l'ok all'inserimento del registro che, poi, equivale a un ok alla commercializzazione. Questa verifica, però, avviene solo sul contenuto dei documenti e non sui prodotti. La conferma arriva da fonti del Ministero secondo cui non c'è l'obbligo di effettuare analisi di laboratorio preliminari. N emmeno il COSVIR le effettuerebbe come prassi prima della registrazione. Unico obbligo è quello dell'autocertificazione. Basta, cioè, scrivere che il fertilizzante contiene le sostanze X e Y ammesse dalla legislazione italiana. Ma nessuno verifica prima se le sostanze descritte sono davvero sostanze ammesse. Il controllo fai-da-te, consentito per legge, renderebbe i fertilizzanti organici (soprattutto quelli importati dall'estero) meno sicuri dei fitofarmaci prodotti in Italia. E aprirebbe le porte a sostanze e fertilizzanti, non testati, da trasformare direttamente nella Penisola.  Dando vita a un potenziale sistema di frodi e concorrenza sleale che farebbe vendere fitofarmaci evitando i costosi controlli e soprattutto applicando una aliquota Iva inferiore sul prodotto: il 4% contro il 10% degli agrofarmaci. Il tutto giocando semplicemente sullo stereotipo che naturale è buono e non necessita di controlli restrittivi mentre chimico è cattivo e quindi impone un apparato di controllo più efficiente. Dimenticando che in entrambi i casi i controlli dovrebbero essere rigidi, preliminari e  costanti. «L'industria chimica paga lo scotto di un progresso tecnologico e innovativo che si è sviluppato più in fretta dei sistemi di misurazione e analisi che quindi non sempre hanno registrato per tempo i miglioramenti fatti dal settore – dichiara Lorenzo Faregna, direttore di Agrofarma – Uno squilibrio che ha lasciato al comparto l'etichetta di "industria dell'inquinamento". Così, nonostante siano stati fatti sforzi enormi per ridurre l'impatto ambientale continuiamo a scontrarci con preconcetti ideologici basati sul sentito dire. Non a caso la parola pesticida continua ad avere una connotazione estremamente negativa. Oggi è più corretto parlare di fitofarmaci proprio perché la ricerca e lo sviluppo che vi sono dietro ne garantiscono alti livelli di sicurezza » .  Gli stessi livelli che invece sembrano diventare più elastici per i prodotti organici. «L'opinione pubblica è portata a pensare che il biologico sia "buono" perché non usa prodotti chimici, ma in realtà il prodotto principe del biologico è il rame, che è un metallo», conclude Faregna. Un problema di immagine, dunque, di cui Federbio, l'associazione dei produttori biologici, è consapevole tanto che ha istituito un apposito gruppo di lavoro per far luce su quali siano i fertilizzanti davvero naturali e sostenibili. «Mentre i controlli a valle, sugli agricoltori biologici, sono efficienti e rigidissimi non altrettanto può dirsi di quelli a monte – denuncia il presidente di Federbio, Paolo Carnemolla - Il risultato è che viene punito l'agricoltore magari ignaro del contenuto del prodotto usato e questo non è giusto». Il tentativo di spacciarsi per un agricoltore italiano in cerca di prodotti tecnici bio si arresta qui. Ciò che è interessante è che scorrendo i cataloghi di altri produttori, nelle etichette la matrina è definita come fertilizzante, salvo poi scoprire nelle istruzioni che va benissimo anche come insetticida. Sul portale di e-commerce Alibaba (che non è responsabile per il contenuto della merce commercializzata) è possibile acquistare prodotti a base di matrina, una sostanza utilizzata come antitumorale e molto diffusa nell'agricoltura cinese. Ma non ancora contemplata o permessa in Europa e in Italia. Proviamo allora a selezionare dall'elenco un biopesticida a base di matrina per acquistarlo e scriviamo al produttore per saperne di più. La risposta arriva via mail dalla Qingdao Future Group. La società, con base a Shandong, in Cina, è  specializzata nella produzione di «organic and biological fertilizers», fertilizzanti organici  e biologici. Tra i suoi prodotti ha anche biopesticidi a base di matrina, che indica come tali. Nella mail avevamo chiesto informazioni specifiche sulle proprietà della matrina e sul suo possibile impiego in agricoltura biologica, ma l'azienda non risponde direttamente in merito. Ci dice solo di guardare il catalogo perché la società fornisce prodotti adatti al nostro caso e comunque «esporta già in Italia pur non avendo un agente di commercio sul luogo».

Ma in Italia sarebbe possibile etichettare e imballare sostanze chimiche in modo così ambiguo? «Un prodotto venduto come fertilizzante non può essere pubblicizzato o segnalato come erbicida»,  conferma Lorenzo Faregna, direttore di Assofertilizzanti e  Agrofarma. «E questo proprio perché le regole per la produzione e la registrazione dei fertilizzanti sono diverse da quelle previste per i fitofarmaci. Se uno dei nostri associati spacciasse per fertilizzante naturale un fitofarmaco la nostra associazione e il comitato ontologico esterno lo denuncerebbero e assumerebbero provvedimenti anche pesanti nei suoi confronti». Queste sanzioni però non sempre hanno degli equivalenti all'estero. Dove, pur esistendo protocolli di certificazione – qui un esempio inviatoci dalla stessa Qingdao, azienda che rispetterebbe i criteri IMO, istituto internazionale di certificazione ecologica– si adottano criteri di registrazione e di analisi non sempre equiparabili a quelli europei: ergo, ciò che è considerato sicuro in un Paese non è detto lo sia anche per gli standard del Vecchio Continente.

La matrina è pericolosa o no?  Come tutti i retroscena, anche il settore dei mezzi tecnici per l'agricoltura non sempre è illuminato a dovere. Mentre le regole per la produzione e la commercializzazione di sostanze chimiche per l'agricoltura tradizionale sono molto chiare e rigide, quelle sulle autorizzazioni dei fertilizzanti biologici sarebbero più elastiche. Proprio a causa dell'adagio per cui ciò che è organico, in fondo, non può danneggiare l'ambiente. Quanto basta per consentire di importare dall'estero prodotti a base di sostanze di cui poco o nulla si sa sugli effetti per il suolo, l'acqua, l'uomo. E' il caso della matrina. Nel database realizzato dalla Pesticide Action Network, una rete americana che promuove la classificazione dei pesticidi per sostituirne l'utilizzo con prodotti ecologici, la sostanza è indicata appunto come pesticida e non come fertilizzante ma non si hanno dati ufficiali sulla sua tossicità. Nemmeno la Food and Agriculture Organization (la FAO, organismo delle Nazioni Unite che si occupa delle regole internazionali nel settore alimentare e agricolo) sa di che sostanza parliamo . «Non ho mai sentito parlare della matrina», spiega Mark Devis, esperto Fao in produzione  vegetale e protezione delle piante.  «Certo è che il numero di sostanze classificate come biopesticidi sta aumentando a vista d'occhio, specie nei Paesi in via di sviluppo» continua il funzionario. «La registrazione dei biopesticidi è obbligatoria, mentre per i fertilizzanti il processo è diverso ma occorre comunque un monitoraggio». Gli agricoltori cinesi conoscono gli effetti dei biopesticidi sull'ambiente? «Li conoscono molto bene e ne conoscono anche i problemi. Per questo è importante aiutare i governi e gli agricoltori ad addottare regolamenti sempre più trasparenti e che garantiscano un uso corretto di queste sostanze». La Fao ha attivato un panel per raccogliere informazioni e diffondere buone prassi nel settore dei fertilizzanti e dei fitofarmaci. Esiste anche un  prontuario  sull'uso corretto delle sostanze chimiche in agricoltura, approvato anche dall'Organizzazione Mondiale della Sanità. Ma se le norme non vengono rispettate è impossibile tenere sotto controllo gli effetti collaterali di un utilizzo improprio di fertilizzanti e agrofarmaci.

Gli esperimenti e le conclusioni in due studi Le Nazioni Unite non avranno informazioni certe sulla matrina. Ma alcuni studi condotti in India e in Korea forniscono dettagli utili. Una  ricerca coreana, infatti, confermerebbe le proprietà antibatteriche e il basso impatto ambientale dell'estratto di radice cinese , ma uno studio realizzato dal Benazir College di Bhopal (pubblicato nel 2012 ) arriva a conclusioni opposte per quanto riguarda le conseguenze sulla salute animale. I ricercatori indiani hanno condotto un esperimento iniettando nelle vasche di allevamento di un pesce molto diffuso nel Paese, il labeo rohita, determinate quantità di matrina. Dimostrando che dosi superiori allo 0,2% possono uccidere. E molti dei fertilizzanti o biopesticidi a base di questo estratto naturale ne contengono in soluzione dallo 0,3% in su. Nel caso di specie, più della metà degli esemplari presenti nella vasche – circa 20 – non sarebbero sopravvissuti. La tossicità dei biopesticidi a base di matrina, inoltre, sarebbe nota già dalla fine degli anni Novanta.  «I nuovi pesticidi a base di estratti vegetali sono molto popolari per via della loro grande efficacia e bassa tossicità e al fatto che lascerebbero pochi residui - si legge in una conclusione menzionata a partire da altri studi indiani risalenti al 1998, 1999 e 2007 - Eppure, è stato rilevato che molti di questi biopesticidi sono tossici per organismi non-target poiché indurrebbero alterazioni nelle specie animali».

Queste conclusioni non lascerebbero dubbi sulla nocività della matrina. Ma quanto è attendibile lo studio indiano? «Questa ricerca utilizza specie e protocolli non internazionali ed è pubblicato su una rivista di basso livello, tuttavia potrebbe essere un elemento importante per definire dosaggi e modalità di utilizzo del prodotto (di certo non riversandolo direttamente in acqua come fatto dai ricercatori indiani), così come normalmente si fa in Europa», spiega Massimo Pugliese, ricercatore del Centro di ricerca e competenza agroalimentare dell'Università degli Studi di Torino,  Agroinnova.  «Tutte le sostanze registrate come fitofarmaci sono soggette a studi tossicologici molto rigidi, soprattutto in Europa, su organismi, test e secondo protocolli internazionali. L'aspetto che ritengo più preoccupante è il fatto che i prodotti alimentari importati non dovrebbero contenere questa né altre sostanze non autorizzate (e molte volte ben più pericolose), proprio per garantire standard di sicurezza ai consumatori. Ma purtroppo prevalgono spesso logiche commerciali internazionali». Il fatto che la matrina sia utilizzata tranquillamente nell'agricoltura cinese vuol dire che è ammessa anche in Italia? «Assolutamente no. La matrina non è autorizzata in Europa e quindi in Italia non possono essere utilizzati prodotti a base di matrina », precisa Pugliese. Elenco delle sostanze ammesse in Europa e in Italia alla mano (anche in base alla tabella tecnica  dell'allegato 13 al Dlgs 75/2010),  non esistono riscontri su sostanze e fertilizzanti a base di estratti di radice o che menzionano la matrina. « Ho avuto a che fare con queste sostanze lavorando in Cina. Si tratta di un estratto di piante molto usato nel Paese e non solo (ma non in Europa) come insetticida (matrine) e come battericida (oxymatrine) - conclude Pugliese - Inoltre, in Cina esistono anche prodotti chimici di sintesi (e quindi non estratti di piante come nel caso della matrina) ormai obsoleti e non più utilizzabili in Europa da diversi anni».

A chi spettano i controlli? In Italia e in Europa non si potrebbero commercializzare fertilizzanti o fitofarmaci che non siano stati studiati secondo i protocolli UE. Eppure prodotti a base di matrina non solo arrivano in Italia ma verrebbero utilizzati in agricoltura come fitofarmaci. « Più che di falle nell'agricoltura biologica io parlerei di falle nelle regole sui mezzi tecnici per l'agricoltura biologica »,  afferma Paolo Carnemolla, presidente di Federbio, l'associazione dei produttori biologici che si è dotata di un gruppo di lavoro per analizzare meglio l'elenco dei fertilizzanti organici in mano al Mipaaf. « Il sistema di controlli sugli agricoltori bio è molto rigido - continua Carnemolla -  le nostre aziende subiscono due ordini di ispezione, quelli per l'agricoltura convenzionale e quella per il biologico. Al contrario, nel settore dei mezzi tecnici ci sono requisiti da rispettare che non vengono controllati adeguatamente dal Ministero delle Politiche Agricole e Forestali per via delle regole esistenti: basta una autocertificazione per far registrare il prodotto come fertilizzante biologico e se poi viene fuori che quel prodotto è nocivo o illegale vengono puniti gli agricoltori, spesso inconsapevoli del reale contenuto dei fertilizzanti utilizzati, e non i produttori di queste sostanze».

Ma cos'è che viene controllato? Giorgio Cingolani è un agricoltore biologico specializzato in farro. Ha un piccolo appezzamento di terreno nelle Marche a cui non applica nessun tipo di sostanza chimica (né naturale né ovviamente sintetizzata). «Appena due ore fa ho ricevuto la visita del certificatore - ci dice al telefono - Un tecnico mandato dal mio ente di controllo, l'ICEA (istituto di certificazione etico ambientale, ndr) ». Sono questi centri, infatti, a effettuare le verifiche sugli agricoltori biologici, per assicurarsi che coltivino davvero secondo le regole di sostenibilità imposte dalla legge (in particolare, dal Regolamento europeo 889/2008). In ballo infatti non c'è solo l'etichetta "bio" ma un intero sistema di sussidi e agevolazioni che la normativa europea sulla Politica Agricola Comunitaria destina esclusivamente a questo settore. Gli organismi che svolgono le verifiche sono privati e autorizzati a loro volta dal Ministero dell'Agricoltura che aggiorna periodicamente l'elenco degli enti. «Gli organismi possono fare ispezioni in qualsiasi momento, ma esiste un controllo annuale standard, concordato con l'agricoltore, che serve a rinnovare il certificato necessario per essere inquadrati come produttori biologici ». Di che tipo di controllo parliamo? «Sostanzialmente è un controllo cartaceo. Faccio un esempio pratico: per legge devo usare solo sementi certificate biologiche, quindi devo avere traccia di tutte le fatture e dei certificati che attestano che quel prodotto è un prodotto bio: il tecnico quindi si accerta che tra le fatture e i certificati ci sia congruità». A produttori come Cingolani vengono controllati anche i sacchetti e i cartellini dei semi utilizzati . Se qualcosa non torna il certificatore segnala le incongruenze e può anche prelevare un campione di terreno per farlo analizzare in laboratorio e accertarsi che non siano stati utilizzati fitofarmaci o fertilizzanti non ammessi. Ma tutto questo accade solo dopo che eventuali prodotti nocivi siano stati venduti e applicati. «Gli agricoltori biologici non hanno interesse a frodare il sistema - spiega Cingolani - primo perché questo comparto ha una forte impronta etica». E secondo, aggiungiamo noi, perché non conviene rinunciare alle agevolazioni del settore e al marchio biologico come sinonimo di alta qualità. Spesso però chi coltiva è  impreparato a utilizzare i prodotti e non sa cosa contengano davvero. L'inconsapevolezza incolpevole e il paradosso della formazione Dove non arriva il controllo, però, potrebbe arrivare la formazione. Produttori associati ad organizzazioni come Assofertilizzanti o Agrofarma possono realizzare i fertilizzanti e i fitofarmaci più sicuri al mondo, ma non potranno mai sapere che uso ne facciano davvero contadini e allevatori. Anche un innocuo sciroppo può diventare tossico se ne bevo una bottiglietta intera, in barba alle istruzioni sul bugiardino.

Chi insegna a usare in modo corretto fertilizzanti e fitofarmaci? «Normalmente le stesse aziende che li producono - spiega Lorenzo Faregna, direttore di Agrofarma - Nessuno vuole legare il proprio nome ad un abuso di prodotto ed è prassi, quando si presenta un nuovo mezzo tecnico, che vengano fatte anche dimostrazioni pratiche del suo utilizzo. Il problema è che, appunto, restano dimostrazioni volontarie che non sono valide come corsi certificati». Il Piano d'azione nazionale per l'uso sostenibile dei prodotti fitosanitari, infatti, prevede corsi obbligatori per i rivenditori e gli utilizzatori professionali dei prodotti, con tanto di superamento di esami e assegnazione di un patentino se ad essere impiegati sono i fitofarmaci. «L’impiego dei fertilizzanti, in particolar modo di quelli di sintesi, comporta rischi per l’ambiente e per l’uomo quando le quantità di principi nutritivi distribuiti sono eccedenti le capacità di assorbimento da parte del terreno e delle piante stesse », si legge sul sito dell'Arpa della Regione Veneto. Un adagio ripetuto da tutte le organizzazioni pubbliche deputate alla tutela dell'ambiente e che sottolineano lo stesso problema: le quantità, oltre che la qualità dei prodotti applicati, sono importanti e possono fare la differenza tra il rispetto per il suolo e il suo inquinamento. Eppure, i corsi obbligatori non possono essere svolti direttamente dai produttori dei mezzi tecnici. «Come Agrofarma ambiremmo ad aumentare la conoscenza sul corretto impiego dei prodotti, ma per un ipotetico conflitto di interessi siamo stati esclusi dalla formazione per l'ottenimento del patentino. Vale a dire: facciamo formazione, ma questa formazione – cioè quella svolta direttamente dalle nostre aziende – non vale per ottenere il certificato sul corretto utilizzo dei fitofarmaci. Ciò implica escludere dalla filiera dal processo di formazione proprio chi conosce meglio il prodotto, perché lo ha realizzato ed è un esperto del settore». Invece, gli stessi esperti collaborano con gli enti pubblici per effettuare i controlli sui prodotti e sulle frodi. Un esempio: Assofertilizzanti e Federchimica hanno sottoscritto un accordo con l'ICQRF, l'Ispettorato Centrale della tutela della Qualità e Repressione Frodi dei prodotti agroalimentari del Ministro dell'Agricoltura. Perché le aziende produttrici possono fare da consulenti agli ispettori ma non possono formare direttamente sull'uso dei propri prodotti? Un paradosso, secondo Agrofarma, che dimostrerebbe quanto labile sia il conflitto di interesse come motivo di esclusione dalla formazione obbligatoria. Posizione condivisa anche dai produttori di mezzi tecnici biologici riuniti in IBMA Italia. Possibile che una parte dei danni ambientali – specie al di fuori dei confini italiani – sia dovuto non tanto al tipo di sostanze applicate ma a un modo errato di applicarle da parte di tecnici e agricoltori?  «Sull'aspetto dei danni ambientali al di fuori dell'Italia le cause sono molteplici, non c'entra solo la formazione. Sicuramente la formazione ha una grossa e fondamentale importanza. Non la individuerei come unica causa, ma sicuramente una delle più importanti», conclude Faregna. Ognuno, insomma, faccia la sua parte se non vuole che del biologico resti solo la forma. Senza più la sostanza.

IL DUBBIO SISTEMA INFORMATICO DI ASSEGNAZIONE DEI CONTRIBUTI UE.

Ministero Agricoltura, quel sistema informatico da 780 milioni. Tanto è costato finora il Sian, che distribuisce 7 miliardi l'anno di contributi europei. Gestito da privati, sempre gli stessi da 20 anni, con un contratto di recente aumentato di altri 90 milioni. Nell'assegnazione dei fondi troppe cose poco chiare, nomine tutt'altro che limpide. E ora indaga la procura di Roma, scrivono Giuliano Foschini e Fabio Tonacci. Su “La Repubblica”. Immaginate di avere un'automobile in affitto. Un'automobile che vi costa un sacco di soldi ogni mese, però non funziona. Alle volte non parte, alle volte non frena, non si accendono le luci, o si accendono quando non servono. Insomma un disastro. Ecco, quell'automobile sgangherata assomiglia molto al Sian, il Sistema informatico che del ministero dell'Agricoltura è il cuore pulsante, perché distribuisce 7 miliardi di euro all'anno di contributi europei. Dal 2010 ad oggi sono stati prodotti almeno una decina di dossier, tra relazioni di collaudo, audit interni, perizie legali che dimostrano come il Sian sia un costosissimo colabrodo, un sistema che ha drenato fino ad oggi dalle casse dello Stato la bellezza di 780 milioni di euro. Motivo, forse, per ritoccare i termini del contratto con i privati che lo gestiscono, suggerirebbe la logica. Invece no, anzi. Poche settimane fa, nel pieno del marasma del caso De Girolamo, quel contratto è stato ulteriormente ingrassato, aumentandone la provvigione di altri 90 milioni di euro per il triennio 2014-2016. E il Sian si è rivelato, ancora una volta, per quello che è: una torta che scatena appetiti, e la prima grana che piomba come un macigno sulla scrivania del neo ministro renziano Maurizio Martina.

A CHI VANNO I FONDI DELL'AGRICOLTURA?

A giudicare dalle 62 pagine dell'ultima di queste relazioni di collaudo, certificata dallo studio dell'ingegner Giuseppe Felice e finita nel fascicolo aperto dal pm di Roma Alberto Pioletti proprio sul funzionamento del Sian, di cose che non tornano ce ne sono parecchie. Le superfici dei terreni, ad esempio. Quelle inserite via internet nel sistema dagli agricoltori in molti casi sarebbero diverse da quelle reali. C'è un fienile nel comune di Mistretta di 900 metri quadrati per cui sono stati erogati fondi come se fosse di 2000. Ci sono pratiche per cui il software si accorge di "scostamenti tra le superfici richieste e quelle effettive del 100 per cento", eppure i soldi partono lo stesso, in automatico. Ci sono società agricole che accumulano penalità di 200 mila euro e ottengono comunque il denaro e ci sono finestre del software in cui un soggetto compare prima come intestatario di 2 fabbricati agricoli, poi all'improvviso di 23. Alla stessa data. I finanzieri del Nucleo speciale di Tutela Spesa Pubblica, oltre a valutare la relazione di Felice, da mesi passano al setaccio tutti i rimborsi ottenuti dagli agricoltori italiani negli ultimi anni: i risultati di questa maxi inchiesta sono ancora coperti da segreto, ma secondo indiscrezioni ci sarebbero milioni di euro pagati a chi non ha nemmeno un fazzoletto di terra coltivato, a prestanomi di clan mafiosi, a chi ha un garage e lo spaccia per fattoria. E spunta un finanziamento da 50 milioni finito nel nulla.

DA 20 ANNI SEMPRE GLI STESSI. A questo punto bisogna fare più di un passo indietro, per capire la fibrillazione che si provoca nelle stanze del dicastero dell'Agricoltura quando il discorso finisce sul Sian, la banca dati più grande e complessa del comparto agricolo e forestale. Perché da vent'anni a gestirlo sono sempre gli stessi imprenditori privati. Cambiano i governi, ma loro no. Dal 2007 il sistema è in mano alla Sin, spa partecipata per il 51 per cento da Agea (società del ministero), per il 49 per cento da un raggruppamento temporaneo di imprese Rti: Almaviva è mandataria con il 20,02%, poi ci sono Auselda1, Sofiter2, Telespazio, Cooprogetti, Ibm, Agriconsulting, Agrifuturo. Sono loro, quell'anno, ad aggiudicarsi il super appalto da 1,1 miliardi di euro per gestire il Sian fino al 2016, ed erano loro che avevano fornito ad Agea lo stesso servizio dal 2001 al 2007, riuniti in consorzio sotto il nome "Agrisian". "Ed erano loro anche prima - si legge nell'esposto alla procura firmato da Ernesto Carbone, ex presidente e amministratore delegato di Sin, deputato vicinissimo a Matteo Renzi - i fornitori di Agea sono stati sempre gli stessi, sebbene in compagnie societarie diverse nella forma, ma immutate nella sostanza". Carbone, con il suo esposto, ha dato il via all'inchiesta di Pioletti. Nei pochi mesi in cui è stato amministratore di Sin (da fine aprile 2012 a marzo 2013) ha disposto una consulenza legale su un altro nodo di questa storia, la trasformazione da srl in spa della Sin decisa nell'agosto del 2011. Scrive l'avvocato Francesco Carluccio nella relazione finale, anche questa depositata in procura: "Fino a quella data si evidenziava una rigorosa e costante verifica del rispetto degli impegni da parte del Rti fornitore. La conseguenza della trasformazione in spa è stato una sorta di favore nei confronti dei soci privati... la Sin sembra aver impegnato i suoi maggiori sforzi quasi unicamente per aumentare i compensi e i rimborsi agli amministratori". In altre parole, "peggioramento nella gestione della società" e "aumento ingiustificato dei costi".

"NON SO NIENTE DI AGRICOLTURA", E LO NOMINANO DIRETTORE... E alla Sin che dicono? Per il momento nulla. Anche perché c'è molto imbarazzo. La De Girolamo, infatti, "per portare legalità" aveva nominato come commissario straordinario di Agea il generale della Finanza, Giovanni Mainolfi, il cui nome era rimbalzato più volte nell'inchiesta della P4. E' sua la decisione, durante l'interim di Enrico Letta all'Agricoltura dopo le dimissioni della De Girolamo, di rinnovare al rialzo il contratto con i soci privati, aumentando di 30 milioni l'anno la provvigione. Tra i primi atti di Mainolfi, anche la nomina di Antonio Tozzi alla direzione generale della Sin. Ruolo delicato, il suo. È l'uomo che deve gestire i 7 miliardi di euro. Ma chi è Tozzi? Trentacinquenne commercialista di Benevento, su facebook i suoi amici lo definiscono "re della movida locale", ex fidanzato di Nunzia De Girolamo, di cui è stato portavoce e capo segreteria. Non esattamente un esperto di agricoltura. "Non ho competenze specifiche. Ma per partecipare non erano richiesti requisiti particolari. E' sufficiente una laurea, poi io sono stato commissario liquidatore e amministratore di alcune aziende. Sì è vero, conosco bene Nunzia, sono un amico di famiglia, ma l'incarico non l'ho avuto direttamente da lei". Il dottor Tozzi guadagna 175 mila euro lordi all'anno.

... CON CONSULENTE AL SEGUITO. E nonostante la Sin abbia un'area della Direzione Audit e Comunicazione dedicata all'organizzazione della società, con un direttore che percepisce 163mila euro l'anno, e nonostante abbia anche una direzione amministrativa per le questioni finanziarie, con un altro direttore che di euro ne prende 123mila, il primo febbraio è stato stipulato un contratto di consulenza da 43.084 euro con Antonio D'Angelo, il quale dovrà "affiancare il direttore generale nella supervisione degli aspetti amministrativi, organizzativi, finanziari, procedurali della società... che abbia caratteristiche di terzietà che ovviamente non è possibile riscontrare nell'ambito di Sin". Una clausola che da sola racconta il clima di veleno e di sfiducia che si respira in azienda e che ha toccato anche lo stesso Carbone, accusato dall'attuale presidente Sin, Francesco Martinelli, di aver utilizzato in modo improprio 23mila euro per spese personali e di rappresentanza. "Tutte falsità", si difende Carbone. Di certo c'è che negli ultimi due anni alla Sin hanno visto avvicendarsi 4 presidenti e 5 amministratori delegati. "C'è fortissima preoccupazione per il mantenimento sia del livello occupazionale sia della professionalità dei lavoratori di Sin - dichiara la Rsa Cgil in una nota - confidiamo nel nuovo Ministro De Martina perché il cosiddetto "Collegato Agricoltura", pur in linea con l'obiettivo di riorganizzazione degli enti vigilati del suo dicastero, tuteli i nostri posti di lavoro insieme con le competenze". Se il nuovo ministro cercava un punto da cui partire per svolgere il suo mandato, lo ha trovato.

Quando Repubblica ne diede conto, a gennaio, l'allora ministro De Girolamo si arrabbiò molto promettendo querele e spiegando che l'indagine era partita prima del suo arrivo al ministero (verissimo) e che lei aveva provato ad arginare il fenomeno. Evidentemente il nuovo capogruppo dell'Ncd però dimenticava che una parte, anche consistente, dell'inchiesta riguarda proprio il mal funzionamento del Sian così come testimonia la perizia tecnica di collaudo depositata in procura a settembre. Dove finiscono i soldi dell’agricoltura italiana? A chi Nunzia De Girolamo, e prima di lei gli altri ministri che si sono seduti su quella poltrona, concede i miliardi di euro che ogni anno arrivano dall’Europa per i produttori di casa nostra? È attorno a queste due domande che si muove un’indagine molto delicata della guardia di Finanza di Roma che, ancora qualche giorno fa, per acquisire documenti, fatture, mandati di pagamento, verbali di gare d’appalto ha bussato alle porte del ministero dell’Agricoltura e dell’Agea, la società controllata al 51 per cento, che ha il compito di erogare proprio i fondi. L’agenzia, cioè, dove la De Girolamo ha posizionato alcuni suoi fidati collaboratori. Il sospetto è che per anni, e fino a oggi, un’associazione a delinquere abbia lavorato di nascosto per ingannare l’Unione europea e frodare milioni e milioni di euro. Il tema sono i Pac, i contributi destinati a sostenere chi in Italia coltiva la terra e alleva bestiame. Le cifre che ballano sono elevatissime: dal 2007 al 2013 sono arrivati da Strasburgo 8,9 miliardi di euro. A novembre sono stati ripartiti quelli per il periodo 2014-2020, e per l’Italia ci sono 44 miliardi. Insomma, una montagna di denaro. In parte gestita direttamente dell’Unione europea che sceglie che tipo di produzioni sovvenzionare. Un’altra parte però è in capo allo Stato che decide quali sono le priorità: in queste settimane sono arrivate al ministero richieste perché non vengano privilegiati alcuni territori a svantaggio di altri. Perché tra le regioni più “fortunate” ci sarebbe proprio la Campania, terra da cui proviene e ha il feudo elettorale la De Girolamo. «Le nomine — spiega Enzo Lavarra, responsabile agricoltura del Pd — che il ministro ha fatto all’Agea sono assolutamente inadeguate. Serve gente esperta e invece...». Il riferimento è a Giovanni Mainolfi, generale della Finanza, scelto proprio per «mettere ordine nell’agenzia». Tornando all’Agea, la preoccupazione del ministro nasceva dai continui ingressi dei finanzieri del Nucleo Spesa pubblica e frodi comunitarie, guidati dal generale Bruno Bartoloni, che stanno portando avanti l’inchiesta della procura di Roma. Il fascicolo non è contro ignoti, ma i nomi iscritti sono al momento top secret. Certo è però che l’indagine si muove in due direzioni: la prima riguarda il monte dei contributi, che spesso invece di finire ai produttori si perdono nei meandri della burocrazia interna tra appalti e software milionari mai realizzati. La seconda ha come oggetto un buco di 50 milioni: l’Agea nel corso dal 1999 al 2012 anni ha riscontrato una serie di irregolarità nella gestione dei fondi comunitari, quantificati dalla Corte dei Conti in 1,9 miliardi di rettifiche finanziare che l’Italia ha dovuto restituire. Secondo i finanzieri, però, l’Agea non ha rendicontato con regolarità ai revisori a Bruxelles. Risultato, l’Unione potrebbe bloccare i nuovi finanziamenti. Non solo. Sotto osservazione è finita anche la Sin (il direttore generale nominato è Antonio Tozzi, ex fidanzato di Nunzia), una delle agenzie satellite dell’Agea, che ha il compito di gestire il sistema informativo tra il ministero e le singole Regioni. Non a caso tra i soci di Agea in questo progetto figurano anche Finmeccanica e Ibm. Ma c’è soprattutto Almaviva, un’azienda che —come segnalato dall’Espresso — vince nel 2007 un appalto da 1,1 miliardi di euro in cambio di servizi informatici fino al 2016. «Un servizio scadente» ha denunciato alla procura il deputato del Pd, Ernesto Carbone, epurato dalla Sin di cui è stato presidente fino ad aprile. Carbone è accusato di spese pazze. Ma lui ha ribaltato il tavolo denunciando appunto il mal funzionamento del software e la cattiva gestione dei vecchi amministratori.

CHI HA PAURA DELLE NUOVE TECNOLOGIE: HYST ED OGM?

Antonio Giangrande: “Fame nel mondo: disinformazione e scienza”.

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Ogni qualvolta c’è una nuova tecnologia o una nuova terapia, che non sia abilitata e di proprietà intellettuale delle grandi lobbies, ecco lì che interviene la magistratura a stoppare il tutto. Dei metodi Di Bella e Stamina sono argomenti che ho trattato nei miei libri nel tema della sanità. In questa sede voglio parlare delle tecnologie HYST e degli OGM, trattati nei miei libri nel tema delle frodi agro alimentari.»

“L’Italia sfamerà il Mondo grazie alla tecnica BioHyst. Gli scienziati italiani hanno scoperto un nuovo metodo per ricavare farine proteiche dai sottoprodotti dell’industria molitoria attraverso un processo di frammentazione degli scarti-  scrive Anna Germoni su “Panorama” – Nel mondo, 800 milioni di persone soffrono di fame. In Italia da alcuni anni c’è una tecnologia, denominata Hyst, in grado di valorizzare a fini alimentari i residui di attività agricole. A sperimentarlo un’associazione onlus, Scienza per Amore, che conta 200 soci, ha la titolarità del brevetto e un progetto internazionale, Bits of Future: food for all. Con questa tecnologia si ricavano farine proteiche dai sottoprodotti dell’industria molitoria, attraverso un processo di frammentazione degli scarti. Il ministero della Salute, il 19 dicembre del 2012 ha dato «parere positivo alla produzione e commercializzazione di integratore alimentare di vitamina B1, manganese e fosforo prodotto con il sistema Hyst»; anche quello delle Politiche agricole il 18 dicembre del 2012 si è espresso favorevolmente «per la produzione e commercializzazione di frumento prodotto da crusca». Sei paesi africani: Burkina Faso, Camerun, Congo, Ruanda, Senegal, Somalia e Burundi, interessati a questa tecnologia, hanno ottenuto l’ok dalla World Bank di Washington e della Banca Africana di Sviluppo di Tunisi per installarla. L’impianto è stato sperimentato da universitari e persone altamente qualificate che ne hanno attestato l’efficacia Fra le certificazioni, quelle delle università de La Sapienza di Roma, di Milano, la Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, l’Asl di Pavia, Confindustria energia. Il macchinario, su cui girano miliardi di euro, viene inghiottito da due filoni giudiziari. Da una parte i ministeri della Salute e delle Politiche agricole, esprimono pareri favorevoli sulla validità e potenzialità di tale impianto e della tecnologia che usa, dall’altra la polizia municipale boccia l’utilità e l’adeguatezza del metodo Hyst. I soci della onlus hanno chiesto il dissequestro alla Procura di Roma e che sia disposto incidente probatorio al fine di testare l’efficacia di impianto e tecnologia alla presenza di consulenti nominati dal  giudice. Tali istanze sono state per ora rigettate, impedendo agli indagati di smontare in concreto le accuse di vigili urbani e PM di Roma. Chi ha titolo per valutare l’efficacia di una tecnologia, i dicasteri competenti o la polizia municipale? I soci di una onlus che si autofinanzia possono truffare se stessi? Chi ha interesse a bloccare questo impianto?” Si chiede ancora Anna Germoni su “Panorama”.

Tecnologia Hyst: truffa o rivoluzione umanitaria? – Si chiede Patrizia Notarnicola su “L’Indro”. –  La tecnologia Hyst (Hypercritical Separation Technology) è un sistema, inventato e perfezionato negli ultimi 40 anni dall’ingegnere Umberto Manola, per trasformare scarti dell’industria alimentare (cruscame) e biomasse agricole (ad esempio paglia e legno)  in componenti per l’alimentazione umana, per la zootecnica e per la produzione di biocarburanti. In poche parole, dagli scarti si otterrebbero soprattutto farine alimentari a basso costo e senza alcun impatto ambientale, con un grandissimo vantaggio per i Paesi più poveri.”

“Una setta? Forse solo degli illusi che voglio fare arte e mettere a disposizione dei governi nuovi strumenti tecnologici per sopperire alla carenza alimentare dei paesi più poveri? Sta di fatto che l’associazione Scienza per l’Amore ha visto sequestrati preventivamente entrambi i siti web dove promuovevano le loro attività e progetti. Il Tribunale di Roma, con la Procura della Repubblica – Direzione distrettuale antimafia, ha dato mandato alla Polizia locale di Roma Capitale, con il suo Gruppo di elite sulla Sicurezza Sociale Urbana, all’oscuramento in base al Proc. Pen. N. 13650/11 R.G.I.P. e il Proc. Pen. N. 25093/10 R.G.N.R., probabilmente perché sospettati di essere dei truffatori con il voler contribuire alla crescita e al benessere dell’Africa, mettendo in grado gli stessi africani di sfruttare al meglio le risorse locali, dove sono endemiche le carenza alimentari ed energetiche – scrive Nero Penna – Il Progetto Bits of Future: Food For All può lasciare alcuni per lo meno perplessi sulla possibilità che un macchinario trasformi degli scarti in cibo, ma sequestrare la loro vetrina senza specificarne le motivazioni. Bisogna diffidare dei soci e simpatizzanti dell’associazione, e perché? Magari sono contagiosi ed è consigliabile non stringere loro la mano. Sul sito veniva sbandierata l’adesione di una serie di stati africani (Repubblica del Senegal, Governo di Transizione della Repubblica Somala, Repubblica del Burkina Faso, Repubblica del Camerun, Repubblica del Ruanda, Repubblica del Burundi, Repubblica del Congo Brazzaville) al Progetto con lettere di ministri e rappresentanze diplomatiche. Forse sono solo il frutto di millantato credito o come è spesso accade un’occasione per dei governanti di fare un po’ di business?”

CHI HA PAURA DELL’OGM?

“«Ogm? L’unica cosa di cui dovete aver paura è il terrorismo pseudo-scientifico che uccide il biotech», – scrive Emmanuele Michela su “Tempi” – Pierdomenico Perata, rettore della Sant’Anna di Pisa, smonta tutte le leggende sugli organismi “giornalisticamente modificati”. Ma ammette: «Purtroppo in questo campo chi fa disinformazione è più abile di chi informa». Nel clima di sospetto che verte attorno ai cibi transgenici la stampa ha giocato un ruolo chiave, e a Tempi Perata cerca di fare luce sui tanti limiti e pericoli addebitati a questo genere di colture. «Ai giornalisti piace inventare titoli a effetto. E così nascono anche leggende che non esistono, come la “fragola-pesce”, o la storia che i semi Ogm sarebbero sterili. Eppure, tra ricercatori, scienziati e biotecnologi il fronte sembra compatto nel guardare con favore agli Ogm.»”

“Fino ad oggi un solo coltivatore, a Vivaro in Friuli, aveva seminato mais ogm – su un piccolo appezzamento di poco più di mezzo ettaro – fra proteste, denunce e mobilitazioni di ambientalisti e soprattutto di contadini – scrive Jenner  Meletti su “La Repubblica” – Adesso invece una “Petizione pro mais transgenico Mon 810″ viene firmata da oltre 600 imprenditori agricoli del mantovano (associati alla Confagricoltura) e inviata alla Regione Lombardia.”

“Stessa biodiversità campi ogm e non. Lo indica il primo studio sulle coltivazioni in Africa – scrive “L’Ansa” – Il primo studio sui campi di mais geneticamente modificato (gm) in Africa indica che la biodiversità degli insetti è uguale a quella presente nelle colture tradizionali, sia per la varietà delle specie che per il numero di individui. Condotto in Sudafrica e pubblicato sulla rivista Environmental Entomology, il risultato si deve al gruppo di ricerca coordinato da Johnnie van den Berg, della North-West University. I dati confermano quelli raccolti finora dalle ricerche condotte in Cina, Spagna, e Stati Uniti su campi di riso, cotone e mais gm. La biodiversità di un ecosistema agricolo, scrivono gli autori dello studio, è importante non solo per il suo valore intrinseco, ma perché influenza le funzioni ecologiche vitali per la produzione vegetale nei sistemi agricoli sostenibili e nell’ambiente circostante. Una delle preoccupazioni più comuni in merito alle colture geneticamente modificate è il potenziale impatto negativo che potrebbero avere sulla diversità e l’abbondanza degli organismi che ospitano, e successivamente sulle funzioni degli ecosistemi. Pertanto, proseguono gli autori, è essenziale valutare il potenziale rischio ambientale di queste colture e il loro effetto sulle specie. Tuttavia la valutazione dell’impatto del granturco ogm sull’ecosistema è stata finora ostacolata dalla mancanza di liste di controllo delle specie presenti nelle coltivazioni di mais. Il primo obiettivo dello studio è stato quindi compilare una lista degli insetti che popolano queste colture per confrontare la diversità e l’abbondanza nelle coltivazioni ogm. In due anni in entrambi i campi considerati nella ricerca sono stati censiti 8.771 insetti di 288 specie, fra decompositori, erbivori, predatori, e parassiti. I dati indicano che, per quanto riguarda i campi di mais in Sudafrica, ”la diversità di insetti nei sistemi agricoli ogm – sottolinea van den Berg – è elevata come nei sistemi di agricoltura tradizionali”.”

“La comunicazione della scienza nell’era dei social: emozionare o informare? – Si chiede Moreno Colaiacovo su “I Mille” – Organismi geneticamente modificati, metodo Stamina, sperimentazione animale: il dibattito pubblico su temi scientifici è più acceso che mai. Incalzata dai media e dai gruppi di pressione, la politica si è trovata ad affrontare – spesso con scarsi risultati – problemi complessi, in cui l’aspetto scientifico e quello sociale si sono mescolati a tal punto da risultare molte volte indistinguibili. E se alla classe politica possiamo rimproverare di non aver affrontato razionalmente questi problemi, concedendo troppo alla demagogia, d’altra parte non si può dire che la popolazione avesse gli strumenti per valutare lucidamente le questioni che di volta in volta venivano sollevate: raramente i media hanno scelto di spiegare, quasi sempre hanno preferito scandalizzare, commuovere o spaventare. Impostare un dibattito sui binari dell’emotività è il modo più semplice per muovere le coscienze, soprattutto in un Paese come il nostro, dove la cultura scientifica è da sempre trattata con supponenza e sospetto. Parte di questa strategia ha a che fare con l’uso delle immagini. Puoi fare un discorso perfettamente logico e convincente, puoi presentare numeri e tabelle, ma il castello della razionalità crolla miseramente se dall’altra parte c’è un’immagine vincente. Con le immagini è tutto più facile: basta una foto per far scattare a piacimento sentimenti come la rabbia, l’indignazione, la paura, la pietà. E i tre temi menzionati all’inizio di questo articolo, in effetti, hanno tutti un denominatore comune: in tutti questi casi l’opinione pubblica è stata condizionata e plasmata anche grazie all’uso di immagini forti. Immagini che passano in TV e sui giornali, ma che diventano virali soprattutto sui social network, Facebook in particolare. Nel caso degli OGM si è voluto spaventare. Basta cercare “OGM” su Google per rendersene conto: le immagini neutrali o favorevoli agli organismi geneticamente modificati sono una minima parte rispetto ai mostruosi fotomontaggi che hanno accompagnato questa tecnologia fin dalla sua nascita. Pensiamo alla fragola-pesce, una creatura mitologica che è ormai entrata a far parte dell’immaginario collettivo. Una vera e propria leggenda metropolitana che si è rivelata essere lo strumento perfetto per allontanare l’interlocutore dal sentiero della razionalità e spingerlo verso le pulsioni più istintive, che ci portano a fuggire da tutto ciò che è nuovo e sconosciuto, invitandoci ad approdare al porto sicuro della tradizione e dei bei tempi andati. Ovviamente non è mai esistita nessuna fragola-pesce, ma l’immagine era così evocativa da resistere ancora oggi, a distanza di anni dalla sua comparsa sui media. Cosa dire invece del metodo Stamina? Il caso è diventato di pubblico dominio grazie alle Iene, il cui messaggio è passato in gran parte attraverso la strumentalizzazione di immagini di bambini malati e sofferenti. Gli scienziati, dal canto loro, hanno dovuto subire l’accusa infamante di essere persone insensibili, fredde macchine razionali impossibili da scalfire persino con la più straziante delle tragedie umane. Eppure è esclusivamente con la razionalità e la lucidità che si può fare scienza, e trasformare le nuove conoscenze in soluzioni terapeutiche concrete ed efficaci. Ma quando dall’altra parte c’è il dolore di un bambino sbattuto in prima pagina (o in prima serata), qualunque considerazione ancorché giusta svanisce istantaneamente. Infine, la questione più scottante e attuale, quella relativa alla sperimentazione animale. Anche qui, la battaglia tra le due fazioni (perché di guerra si tratta, in molti casi) si è combattuta a suon di immagini. I movimenti animalisti hanno fatto abbondante uso di fotografie terribili, con animali costretti a subire tremende torture, ma non hanno disdegnato nemmeno sapienti fotomontaggi volti a screditare quei ricercatori che avevano difeso pubblicamente l’utilità della vivisezione (come viene impropriamente chiamata). Poco importa se le immagini cruente di animali straziati non corrispondano alla realtà, almeno non qui in Europa, e ancor meno importa il fatto che circa il 92% degli scienziati ritenga che purtroppo non si possa fare a meno della sperimentazione animale. L’impatto emotivo di quelle foto e di quei camici insanguinati è semplicemente devastante. Le immagini sono uno strumento potentissimo all’interno di una discussione, specie se gli interlocutori non sono molto informati sul tema. Spesso raggiungono l’obiettivo, muovendo le masse verso una posizione piuttosto che un’altra. E ad avvantaggiarsene sono stati anche coloro che stanno dalla parte della scienza, come dimostra la recente vicenda di Caterina Simonsen, suo malgrado divenuta nel giro di poche settimane una celebrità della rete. Il coinvolgimento emotivo è un’arma micidiale, che può essere usato sia dagli oppositori della scienza, sia da quelli che dovrebbero esserne i paladini. Ma è davvero la strategia migliore? Dal punto di vista etico, sfruttare immagini di persone sofferenti per portare avanti una causa non sembra certo il massimo della correttezza. Tuttavia, non è a questo che mi riferisco, quanto piuttosto all’efficacia di questo approccio nel lungo periodo. Le immagini scioccanti sono perfette per orientare l’opinione pubblica in merito al singolo episodio (i movimenti animalisti hanno obiettivamente accusato il colpo dopo la vicenda di Caterina), ma hanno il difetto di mancare il bersaglio grosso, quello che un amante della scienza dovrebbe considerare come l’obiettivo prioritario: insegnare a valutare un problema in modo razionale, informandosi e pesando pro e contro. In teoria, viviamo in una democrazia moderna, relativamente colta e istruita. Dovremmo quindi smetterla di trattare le persone come un gregge da guidare da una valle all’altra ogni volta che si presenta un nuovo argomento di discussione. Oggi è la sperimentazione animale, domani potrebbe essere qualcos’altro. La verità è che esiste soltanto una bussola che permette di trovare sempre, in ogni circostanza, la via giusta: è la bussola del pensiero critico, della logica e della corretta informazione. Educare le persone a usarla le renderà cittadini liberi, e realmente consapevoli delle proprie opinioni. Fare informazione corretta paga. Prendiamo ad esempio il recentissimo sondaggio IPSOS sulla sperimentazione animale: la percentuale di favorevoli saliva dal 49% al 57% se agli intervistati venivano fornite informazioni di base sull’argomento. In modo analogo, all’ultimo Festival della Letteratura di Mantova, il ricercatore Dario Bressanini e la giornalista Beatrice Mautino erano riusciti a vincere un confronto Oxford-style sul tema degli OGM, convincendo molti scettici a passare dalla loro parte. Comunicare la scienza in modo pacato, chiaro e oggettivo rimane ancora la strategia vincente. Anche nell’era di Twitter e Facebook.”

CHI HA PAURA DELLE NUOVE TECNOLOGIE: HYST ED OGM?

CHI HA PAURA DELLA TECNOLOGIA HYST PER SFAMARE IL MONDO?

Quando la carestia sarà un ricordo, scrive Nero Penna. Una setta? Forse solo degli illusi che voglio fare arte e mettere a disposizione dei governi nuovi strumenti tecnologici per sopperire alla carenza alimentare dei paesi più poveri? Sta di fatto che l’associazione Scienza per l’Amore ha visto sequestrati preventivamente entrambi i siti web dove promuovevano le loro attività e progetti. Il Tribunale di Roma, con la Procura della Repubblica – Direzione distrettuale antimafia, ha dato mandato alla Polizia locale di Roma Capitale, con il suo Gruppo di elite sulla Sicurezza Sociale Urbana, all’oscuramento in base al Proc. Pen. N. 13650/11 R.G.I.P. e il Proc. Pen. N. 25093/10 R.G.N.R., probabilmente perché sospettati d essere dei truffatori con il voler contribuire alla crescita e al benessere dell’Africa, mettendo in grado gli stessi africani di sfruttare al meglio le risorse locali, dove sono endemiche le carenza alimentari ed energetiche. Lo strumento per realizzare questi obiettivi è la tecnologia Hyst, che consente di impiegare a fini alimentari ed energetici qualsiasi scarto proveniente dalle lavorazioni agricole. Si produrranno così farine per alimentazione umana, zootecnica ed energia pulita. L’Hyst è un sistema innovativo che anticipa quello che, nelle pubblicazioni scientifiche del settore, si auspica di realizzare fra 10-20 anni. Una tecnologia che trasforma gli scarti di cereali e frutta in prodotto alimentare appare molto simile al sottoporsi a una cura staminale con cellule trattate in ambiente difficilmente ritenuto sterile. Il Progetto Bits of Future: Food For All lascia per lo meno perplessi sulla possibilità che un macchinario trasformi degli scarti in cibo, ma sequestrare la loro vetrina senza specificarne le motivazioni. Bisogna diffidare dei soci e simpatizzanti dell’associazione, e perché? Magari sono contagiosi ed è consigliabile non stringere loro la mano. Sul sito veniva sbandierata l’adesione di una serie di stati africani (Repubblica del Senegal, Governo di Transizione della Repubblica Somala, Repubblica del Burkina Faso, Repubblica del Camerun, Repubblica del Ruanda, Repubblica del Burundi, Repubblica del Congo Brazzaville) al Progetto con lettere di ministri e rappresentanze diplomatiche. Forse sono solo il frutto di millantato credito o come è spesso accade un’occasione per dei governanti di fare un po’ di business? L’Ifad (Fondo Internazionale per la Sviluppo Agricolo) interpellato sull’essere a conoscenza del progetto Bits of Future: Food for All ha risposto chiarendo le competenze dell’organizzazione impegnata nello sviluppo agricolo e ha tenuto a chiarire che la Fao (Food and Agriculture Organization of the United Nations: Employment) potrebbe rispondere. Mentre alle richieste inviate alla Fao di essere a conoscenza del progetto e confermare un loro interesse non è a tutt’oggi giunto alcun commento. Come non ha fatto seguito alcuna risposta con il Wfp (Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite).

L'Italia sfamerà il Mondo grazie alla tecnica BioHyst. Gli scienziati italiani hanno scoperto un nuovo metodo per ricavare farine proteiche dai sottoprodotti dell’industria molitoria attraverso un processo di frammentazione degli scarti, scrive Anna Germoni su “Panorama”. Nel mondo, 800 milioni di persone soffrono di fame. In Italia da alcuni anni c’è una tecnologia, denominata Hyst, in grado di valorizzare a fini alimentari i residui di attività agricole. A sperimentarlo un’associazione onlus, Scienza per Amore, che conta 200 soci, ha la titolarità del brevetto e un progetto internazionale, Bits of Future: food for all. Con questa tecnologia si ricavano farine proteiche dai sottoprodotti dell’industria molitoria, attraverso un processo di frammentazione degli scarti. L’ingegnere Pier Paolo Dell’Omo, presidente della onlus, nonché ricercatore del dipartimento di ingegneria astronautica, elettrica ed energetica de La Sapienza di Roma dice: «Con un chilo di pula prodotta dalle riserie, che costa 15 centesimi di euro, si producono 40 dosi di integratori, prodotti ideali per ovviare ai deficit proteici sulla malnutrizione». Il ministero della Salute, il 19 dicembre del 2012 ha dato «parere positivo alla produzione e commercializzazione di integratore alimentare di vitamina B1, manganese e fosforo prodotto con il sistema Hyst»; anche quello delle Politiche agricole il 18 dicembre del 2012 si è espresso favorevolmente «per la produzione e commercializzazione di frumento prodotto da crusca». Sei paesi africani: Burkina Faso, Camerun, Congo, Ruanda, Senegal, Somalia e Burundi, interessati a questa tecnologia, hanno ottenuto l’ok dalla World Bank di Washington e della Banca Africana di Sviluppo di Tunisi per installarla. L’impianto è stato sperimentato da universitari e persone altamente qualificate che ne hanno attestato l’efficacia Fra le certificazioni, quelle delle università de La Sapienza di Roma, di Milano, la Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza, l’Asl di Pavia, Confindustria energia. Il dottor Vito Pignatelli, responsabile del coordinamento tecnologie biomasse e bioenergie per le fonti rinnovali dell’Enea, interpellato da Panorama sull’efficacia dell’impianto risponde: «Da quel che ho avuto modo di vedere, e dai documenti che riportano i risultati delle prove effettuate presso laboratori universitari, la tecnologia in esame presenta indubbiamente interessanti potenzialità. Migliora la qualità nutrizionale delle farine ottenute dalla macinazione dei cereali. Poi è chiaro che, utilizzando la capacità degli impianti, si può pensare ad un uso degli stessi per ottenere un’elevata produzione di biogas anche da biomasse ricche di zuccheri non fermentiscibili, come sono appunto le paglie, o, in prospettiva, per la produzione di etanolo di seconda generazione. E con ulteriori prove sperimentali, sarà certamente in grado di dimostrare tutte le sue potenzialità, anche nel campo della bioenergia». Panorama ha consultato un altro parere, quello dell’ingegnere Franco Del Manso, responsabile dei rapporti internazionali ambientali e tecnici dell’Unione petrolifera, che riferisce: «Nel campo dei biocarburanti abbiamo individuato nella tecnologia BioHyst una delle possibili risposte all’esigenza di trasformare residui delle lavorazioni agricole in biometano per l’impiego nel settore dei trasporti. Sulla base dei risultati preliminari che ci sono stati forniti dai tecnici che hanno sviluppato la tecnologia, l'Unione Petrolifera e le società ad essa associate, sono molto interessate alla verifica di tali risultati con sperimentazioni ad hoc da effettuarsi con prove su strada. Il biometano prodotto con questa tecnologia è configurabile come biocarburante di seconda generazione, cui viene riconosciuto un valore energetico doppio e dunque faciliterebbe il raggiungimento degli obblighi di miscelazione dei biocarburanti». Ma l’impianto è fermo, posto sotto sequestro dalla Procura di Roma dal marzo 2011 per indagini della polizia municipale capitolina, nei confronti sia di alcuni soci finanziatori della onlus con l’ipotesi di reato di associazione a delinquere e truffa nei confronti degli altri associati, sia dell’ideatore di tale progetto di cooperazione, sotto processo a Tivoli per presunti abusi sessuali su due minori e per aver “inventato” il metodo Hyst al fine di spillare soldi agli associati. Il macchinario, su cui girano miliardi di euro, viene inghiottito da due filoni giudiziari. Da una parte i ministeri della Salute e delle Politiche agricole, esprimono pareri favorevoli sulla validità e potenzialità di tale impianto e della tecnologia che usa, dall’altra la polizia municipale boccia l’utilità e l’adeguatezza del metodo Hyst. I soci della onlus hanno chiesto il dissequestro alla Procura di Roma e che sia disposto incidente probatorio al fine di testare l’efficacia di impianto e tecnologia alla presenza di consulenti nominati dal  giudice. Tali istanze sono state per ora rigettate, impedendo agli indagati di smontare in concreto le accuse di vigili urbani e PM di Roma. Chi ha titolo per valutare l’efficacia di una tecnologia, i dicasteri competenti o la polizia municipale? I soci di una onlus che si autofinanzia possono truffare se stessi? Chi ha interesse a bloccare questo impianto?

Tecnologia Hyst: truffa o rivoluzione umanitaria? Si chiede Patrizia Notarnicola su “L’Indro”. Intervista con Daniele Lattanzi, responsabile Business Development Manager di BioHyst. La tecnologia Hyst (Hypercritical Separation Technology) è un sistema, inventato e perfezionato negli ultimi 40 anni dall'ingegnere Umberto Manola, per trasformare scarti dell'industria alimentare (cruscame) e biomasse agricole (ad esempio paglia e legno)  in componenti per l'alimentazione umana, per la zootecnica e per la produzione di biocarburanti. In poche parole, dagli scarti si otterrebbero soprattutto farine alimentari a basso costo e senza alcun impatto ambientale, con un grandissimo vantaggio per i Paesi più poveri. A questo risultato rivoluzionario si arriva, secondo il suo inventore,  con l'uso di una sola macchina, capace di separare i componenti della materia prima e di provocare l’urto, ad alta velocità e con forti correnti d’aria, delle particelle di biomassa. In questo modo amido e proteine, importantissimi per l’alimentazione umana, vengono isolati dalla parte fibrosa, che invece non è digeribile dall’uomo. Della validità scientifica di questa ricerca, che è finanziata dall’associazione 'Scienza per Amore',ci occuperemo in una seconda puntata della nostra inchiesta. Ci interessa intanto capire perché sul Presidente di questa associazione,  Danilo Speranza, siano cadute come un macigno pesantissime accuse nell’ambito di due procedimenti penali diversi: truffa da un lato, abusi sessuali su due minori dall’altro. Per cercare di saperne di più, abbiamo intervistato Daniele Lattanzi, membro di Scienza per amore e responsabile Business Development Manager di BioHyst.

A che punto è la ricerca per l’applicazione della tecnologia Hyst?

«Al momento abbiamo operato su due installazioni pilota per testarla insieme al suo inventore, l’ing. Manola. Tuttavia i due impianti in questione (ndr. San Giuseppe di Comacchio e a Chignolo Po, in provincia di Pavia) sono sotto sequestro dell’autorità giudiziaria per ragioni probatorie.»

Perché nel 2011 è scattato il sequestro?

«Per valutarne il funzionamento e i risultati. Contro Danilo Speranza è stato avviato un procedimento penale per truffa. È stato accusato di millantare la validità della tecnologia per estorcere denaro agli altri associati di “Scienza per amore”. Chi ha sollevato le accuse, pur non avendo prove scientifiche, sostiene  che gli impianti producevano sostanze velenose. Siamo ancora in fase di indagini preliminari. Una prima perizia tecnica, disposta dal pm, ha dato riscontro alle valutazioni precedentemente condotte dall’Università di Milano a nostro vantaggio.»

Prima ancora, nel 2010, Speranza, ex maestro di yoga,  è stato arrestato a Roma per abusi sessuali su minori. Oggi è agli arresti domiciliari. Ma chi è Danilo Speranza e che relazione ha con la tecnologia Hyst?

«Danilo Speranza si occupa da anni di progetti filantropici. Circa 20 anni fa ha incontrato l’ing. Manola e ha inizialmente finanziato da solo il progetto, come persona fisica. Poi ha proposto all’associazione di dare un secondo finanziamento ma in maniera molto libera. In questo modo si voleva dare una prospettiva diversa alla tecnologia. Questo accadeva agli inizi degli anni ’90. L’associazione si chiamava ancora R.e. Maya.»

Perché l’associazione R.e. Maya, accusata di essere una setta, ha cambiato nome in “Scienza per amore” dopo l’arresto?

«L’associazione ha voluto prendere le distanze dalle accuse degli ex associati di R.e. Maya. Il boom mediatico aveva imposto un rifacimento della comunicazione del progetto Hyst. In questo modo abbiamo voluto tutelare sia la tecnologia sia coloro che l’hanno finanziata e portata avanti.»

Quanti sono oggi  gli associati di “Scienza per amore”?

«Circa 200, tutti su Roma».

Nessuno tra voi ha voluto prendere le distanze da Speranza?

«Le accuse che hanno colpito Speranza riguardavano fatti di cui gli associati non potevano avere notizia o riscontro oggettivo. Il percorso seguito per la tecnologia Hyst è sempre stato alla luce del giorno e a conoscenza di tutti.»

Dalle nostre indagini (ndr. riscontri della Polizia Giudiziaria di Roma) risulta che alcuni ex associati si sono sentiti raggirati e plagiati dallo Speranza. Non temete che entrambi i procedimenti penali in corso compromettano l’attendibilità del vostro progetto?

«Credo che questo sia l’ obiettivo di chi ha fatto la denuncia: screditare il promotore e gettare fango sull’associazione chiamandola “setta”, in modo da adombrare il progetto. Ma contro la tecnologia Hyst non è stato portato uno straccio di prova scientifica. La tecnologia è stata invece valutata positivamente dall’università di Milano, dall’università La Sapienza di Roma, dall’Enea. Abbiamo avuto riscontro dal ministero della Salute e dal ministero delle politiche agricole.»

Che rapporti ci sono tra la vostra associazione e l’inventore Manola in questo momento?

«Manola ci ha ceduto i diritti sulla sua invenzione. Con lui in questo momento abbiamo rapporti marginali.»

Avete contatti con i  Governi africani in cui vorreste esportare la vostra tecnologia?

«Abbiamo esposto il progetto al vicepresidente della banca Africana di Sviluppo , il professor Mthuli Ncube, e su sua iniziativa, lo abbiamo presentato a Tunisi a tutto il suo staff. Abbiamo riscontri da parte di moltissimi  governi africani, come Congo Brazzaville, Burundi, Senegal, Somalia, Rwanda e Camerun. Il nostro è un progetto commerciale attraverso il quale intendiamo reperire  risorse per un progetto di cooperazione internazionale. Il nostro fine è dare a questo Paesi  gli strumenti sia per lavorare sia per produrre da soli quanto necessario per una esistenza dignitosa.»

CHI HA PAURA DELL’OGM?

Ruminano tranquille, nella grande stalla, le 140 vacche dell'azienda Lasagna. La campagna mantovana è la più grande "fabbrica" italiana di formaggi e di carne. Cinquecentomila vacche da latte, 1,3 milioni di maiali, 150.000 bovini da carne. Tutti animali nutriti soprattutto a mais e soia. Ed è proprio in questa enorme fabbrica (dove vengono lavorati parmigiano e grana padano, cosce per il prosciutto di Parma e per il San Daniele, bistecche e braciole per macellerie e supermercati) che si spacca la linea Maginot dei contadini italiani, fino ad oggi uniti e compatti contro gli ogm, organismi geneticamente modificati, scrive Jenner  Meletti su “La Repubblica”. Fino ad oggi un solo coltivatore, a Vivaro in Friuli, aveva seminato mais ogm - su un piccolo appezzamento di poco più di mezzo ettaro - fra proteste, denunce e mobilitazioni di ambientalisti e soprattutto di contadini. Adesso invece una "Petizione pro mais transgenico Mon 810" viene firmata da oltre 600 imprenditori agricoli del mantovano (associati alla Confagricoltura) e inviata alla Regione Lombardia. "Noi non vogliamo fare la guerra a nessuno" racconta il presidente Lasagna. "Vogliamo una discussione laica, senza ideologie. Vogliamo una ricerca scientifica - fatta dalle università, non dalla Monsanto - che dia risposte precise. Gli ogm sono già nel nostro Paese. Il 90% della soia mangiata dai nostri animali è geneticamente modificata, come il 40% del mais.

Stessa biodiversità campi ogm e non. Lo indica il primo studio sulle coltivazioni in Africa, scrive “L’Ansa”. Il primo studio sui campi di mais geneticamente modificato (gm) in Africa indica che la biodiversità degli insetti è uguale a quella presente nelle colture tradizionali, sia per la varietà delle specie che per il numero di individui. Condotto in Sudafrica e pubblicato sulla rivista Environmental Entomology, il risultato si deve al gruppo di ricerca coordinato da Johnnie van den Berg, della North-West University. I dati confermano quelli raccolti finora dalle ricerche condotte in Cina, Spagna, e Stati Uniti su campi di riso, cotone e mais gm. La biodiversità di un ecosistema agricolo, scrivono gli autori dello studio, è importante non solo per il suo valore intrinseco, ma perché influenza le funzioni ecologiche vitali per la produzione vegetale nei sistemi agricoli sostenibili e nell'ambiente circostante. Una delle preoccupazioni più comuni in merito alle colture geneticamente modificate è il potenziale impatto negativo che potrebbero avere sulla diversità e l'abbondanza degli organismi che ospitano, e successivamente sulle funzioni degli ecosistemi. Pertanto, proseguono gli autori, è essenziale valutare il potenziale rischio ambientale di queste colture e il loro effetto sulle specie. Tuttavia la valutazione dell'impatto del granturco ogm sull'ecosistema è stata finora ostacolata dalla mancanza di liste di controllo delle specie presenti nelle coltivazioni di mais. Il primo obiettivo dello studio è stato quindi compilare una lista degli insetti che popolano queste colture per confrontare la diversità e l'abbondanza nelle coltivazioni ogm. In due anni in entrambi i campi considerati nella ricerca sono stati censiti 8.771 insetti di 288 specie, fra decompositori, erbivori, predatori, e parassiti. I dati indicano che, per quanto riguarda i campi di mais in Sudafrica, ''la diversità di insetti nei sistemi agricoli ogm - sottolinea van den Berg - è elevata come nei sistemi di agricoltura tradizionali''.

«Ogm? L’unica cosa di cui dovete aver paura è il terrorismo pseudo-scientifico che uccide il biotech», scrive Emmanuele Michela su “Tempi”. Pierdomenico Perata, rettore della Sant’Anna di Pisa, smonta tutte le leggende sugli organismi “giornalisticamente modificati”. Ma ammette: «Purtroppo in questo campo chi fa disinformazione è più abile di chi informa». Si potrebbe parlare di Ogm partendo da Eric-Gilles Séralini, il ricercatore francese che nel novembre 2012 aveva dimostrato che un certo mais transgenico induceva tumori, salvo poi essere scaricato dalla Food and Chemical Toxicology, rivista che a inizio dicembre ha ritirato lo studio in oggetto per evidenti lacune metodologiche. Oppure, si potrebbe ricordare la posizione statuaria dell’Italia di fronte alle biotecnologie, che sul nostro territorio non possono essere usate per coltivare. O ancora, si potrebbe guardare all’Expo 2015, evento che verterà attorno alla nutrizione del mondo, tema che però gli ambientalisti vorrebbero ridurre solo al biologico e alle pratiche agricole minimaliste, escludendo gli sviluppi più freschi del settore agroalimentare. Tutte tematiche che lasciano intendere quanto sia urgente un dibattito non ideologizzato sull’argomento: «Ma purtroppo chi fa disinformazione in questo campo è più abile di chi invece fa informazione». C’è fastidio e rassegnazione nelle parole di Pierdomenico Perata, docente ordinario di Fisiologia vegetale e ricercatore nel settore delle biotecnologie, e dalla scorsa primavera rettore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa (ha preso il posto di Maria Chiara Carrozza, diventata ministro dell’Istruzione). Sorride al ricordo di quel soprannome con cui la scienza motteggia l’atteggiamento molto scoopistico con cui i media guardano agli Ogm: organismi giornalisticamente modificati. Nel clima di sospetto che verte attorno ai cibi transgenici la stampa ha giocato un ruolo chiave, e a Tempi Perata cerca di fare luce sui tanti limiti e pericoli addebitati a questo genere di colture.

«Ai giornalisti piace inventare titoli a effetto. E così nascono anche leggende che non esistono, come la “fragola-pesce”, o la storia che i semi Ogm sarebbero sterili».

Eppure, tra ricercatori, scienziati e biotecnologi il fronte sembra compatto nel guardare con favore agli Ogm.»

«Tutte le accademie scientifiche nazionali hanno preso posizione: non esiste un problema Ogm a livello scientifico. Ormai non sono considerati una minaccia per la salute delle persone o dell’ambiente, su questo proprio non c’è più dibattito. Può starci invece la considerazione che a ciò debba fare seguito una liberalizzazione del commercio di questi prodotti, ma non si capisce perché la politica deve offrire pseudo-ragioni scientifiche per supportare la propria obiezione agli Ogm, e non possa usare invece argomentazioni politiche. È scorretto trasmettere un’immagine di pericolo all’opinione pubblica per giustificare queste scelte politiche. Forse a livello economico non conviene aprire agli Ogm, o forse sì, però sta qui il punto del dibattito.»

A fine novembre sul Corriere della Sera gli accademici dei Lincei lanciavano l’allarme: il no italiano agli Ogm mette in pericolo l’economia italiana.

«Sì, e il primo danno è per gli agricoltori: molti, specie nel nord Italia, dicono che coltivare Ogm sarebbe un grande vantaggio per loro. D’altronde, c’è un motivo per cui alcuni organismi geneticamente modificati, penso al mais Bt o alla soia, hanno avuto un enorme successo a livello planetario. Non vengono attaccati dagli insetti, consentono pratiche agricole più agevoli. Impedire ai nostri agricoltori di sfruttare queste tecnologie significa metterli in una posizione di inferiorità competitiva rispetto a quelli degli altri paesi. Il fatto che la soia è comunque necessaria per l’alimentazione del bestiame, innesta un corto circuito: in Italia non coltiviamo quella transgenica, ma alla fine la importiamo per darla ai nostri maiali. È abbastanza stupido. Preoccupanti sono poi le previsioni sul lungo periodo.»

In che senso?

«La ricerca biotech in Italia è ormai inesistente, non è più finanziata. Il nostro paese ha ancora delle competenze residuali rimaste dall’ultimo decennio, ma nell’arco di 10-20 anni perderemo tutto e saremo totalmente inermi di fronte alle nuove tecnologie transgeniche portate avanti da altre nazioni. Non solo non saremo più in grado di proporle noi italiani, ma non saremo neanche in grado di valutare quelle che ci verranno proposte. Non si vuole comprendere che il progresso di questo settore è talmente veloce che nell’arco di uno o due decenni avremo tecnologie di modifica delle piante totalmente diverse da quelle odierne: il nostro paese non avrà altra scelta se non adottarle. Da acquirente però, non da venditore.»

Parliamo dello studio di Séralini ritirato dalla rivista Food and Chemical Toxicology. Come spiega questo stop?

«La storia della pubblicazione di Séralini è un pasticcio combinato in prevalenza dalla rivista. È abbastanza inusuale che un articolo venga ritirato su basi che avrebbero giustificato una non accettazione dello stesso all’origine. Spesso è stato criticato proprio sul piano metodologico, la retraction di oggi sembra un goffo tentativo per rimediare all’errore precedente. Vorrei poi ricordare una cosa: ciò che scrive un ricercatore su una rivista scientifica non rappresenta la verità, ma rappresenta un punto di vista basato più o meno su risultati scientifici. Ciò che conta è l’opinione che la comunità scientifica ha di quei risultati, e la verifica degli stessi col tempo. Un lavoro come quello di Séralini ha richiesto anni, per cui servirà tempo perché ricercatori indipendenti lo verifichino. Rimandando quindi il giudizio su questo studio, ciò che risulta bizzarro è che un singolo lavoro è riuscito a determinare posizioni politiche sugli Ogm. A differenza di altri temi come il cambiamento climatico, sulle colture transgeniche la politica decide in base all’opinione del 5 per cento dei ricercatori, ignorando i migliaia di articoli che invece mostrano quanto innocue siano queste coltivazioni.»

Per quanto riguarda l’Expo, come giudica questa paura nei confronti degli organismi geneticamente modificati? Teme che questo possa ritardare gli investimenti di espositori stranieri?

«Non lo so, non sono convinto che l’Expo avrebbe avuto dalle multinazionali del transgenico delle iniezioni di liquidità così consistenti. Si può credere a un contrasto dell’Europa (non solo dell’Italia) agli Ogm anche a causa dell’origine di queste tecnologie, prevalentemente americane. Come se ci fosse un protezionismo, magari anche giustificato: siccome gli Ogm sono nelle mani delle multinazionali americane, perché dovremmo dargli spazio? È anche vero, però, che l’Europa fin qui ha giocato malissimo: vi sono realtà importanti dell’industria tedesca, come la Basf che ha spostato all’estero tutta la sua ricerca biotech. Quindi il nostro continente perde tanto in ricerca quanto in aziende, e da questo punto di vista l’Expo può essere un’occasione per dibattere di colture transgeniche. Purtroppo non so se verrà fatto. Temo invece che ci sarà offerta una visione più bucolica dell’agricoltura, non industriale. Un’agricoltura che esiste solo nella testa degli italiani, quella secondo cui nel secolo scorso si coltivava meglio di oggi, cosa ovviamente non vera.»

Ma un evento simile dedicato al cibo può permettersi di chiudere totalmente gli occhi davanti a queste innovazioni?

«Il mio timore è che l’Expo diventi un’occasione persa per affrontare uno dei temi principali della nutrizione, ossia la mancanza di cibo in una quota considerevole del mondo. Nei prossimi cinquant’anni la popolazione aumenterà, e con essa la carenza alimentare, specie nei paesi dove già non si è in grado di sfamare la gente. Senza un dibattito su ciò, l’Expo rischia di diventare una vetrina delle eccellenze agroalimentari solo dei paesi ricchi. Non so se sarà così, se lo fosse sarebbe un grave errore.»

Ma siamo sicuri che lo sviluppo degli Ogm possa davvero ridurre i problemi di nutrizione nel mondo? In fondo, la fame è dovuta alla povertà, non alla carenza di risorse alimentari.

«Nei paesi poveri la fame dipende dal fatto che la produzione agricola non è in grado di soddisfare la richiesta interna, figuriamoci se sono in grado di acquistarne altrove. Ma se la produttività agricola degli stati sviluppati è già al massimo, in quelli poveri c’è una potenzialità enorme, ed è qui che serve l’utilizzo di tutte le tecnologie. Gli Ogm sono incidentalmente la meno costosa: è più facile ed economico sviluppare una pianta resistente agli insetti piuttosto che comprare e distribuire l’antiparassitario. Per quest’ultimo servono trattori, macchinari e competenza, per gli Ogm basta sapere piantare. Il loro alto costo è legato alle procedure di registrazione: è la burocrazia a renderli onerosi. E bisogna aggiungere che la questione delle sementi è un falso problema: i semi sterili non esistono. Al massimo possiamo dire che qualunque mais coltivato in Italia è ibrido: dai suoi semi si ottiene la segregazione dei diversi caratteri presenti nella pianta, e in questo modo ciò che nascerà sorà diverso da ciò che abbiamo seminato in origine. Ma questo accade con tutti i moderni ibridi, non solo con gli Ogm.»

In questo modo, però, se vuole ottenere piante commerciabili, l’agricoltore è obbligato a rivolgersi all’azienda da cui ha acquistato le sementi: è la tanto contestata brevettatura dei semi.

«Ma l’agricoltore è già vincolato alle aziende. I coltivatori della Pianura Padana comprano i semi dalle multinazionali americane e se vogliono una determinata produttività devono rimanere legati a quell’azienda. Se volessero utilizzare i semi prodotti dalla pianta non ci sarebbero problemi per le multinazionali. E per gli agricoltori? Semplicemente raccoglierebbero prodotti diversi, proprio per la segregazione dei caratteri.»

Un altro punto contestato è che queste colture porterebbero alla perdita progressiva delle tipicità di casa nostra.

«Sfido chiunque a dire che soia e mais sono prodotti tipici italiani. Sono specie che vengono da altri continenti (America e Asia), non vedo in che modo il mais Ogm può colpire la tipicità italiana. Se andiamo invece su altre colture bisogna fare un discorso a sé. Il pomodoro San Marzano, ad esempio, non lo coltiva più nessuno perché è terribilmente suscettibile ai virus. È stato soppiantato da altre varietà non transgeniche, prodotte da multinazionali non italiane. Attualmente il pomodoro da industria, il perino, non è più San Marzano. Non c’è bisogno di evocare gli Ogm per ipotizzare una perdita di agrobiodiversità, che invece è insita nel concetto di agricoltura: da sempre varietà meno produttive sono sostituite con varietà più produttive.»

È possibile che gli Ogm vengano incontro a queste varietà italiane, come accaduto con la papaya delle Hawaii, salvata proprio con colture transgeniche?

«Potrebbero sicuramente. Ad esempio, alcuni centri di ricerca della zona di Napoli avevano proprio pensato a un pomodoro San Marzano resistente ai virus, che quindi potesse essere coltivato senza problemi. Ma in Italia non si possono coltivare gli Ogm, e quindi lo studio non ha avuto futuro.»

Perché la scienza fa così fatica a comunicare con l’opinione pubblica italiana?

«Perché il ricercatore, purtroppo, tende ad adottare nella comunicazione lo stesso rigore metodologico che segue nel fare ricerca. E quindi di fronte alla domanda: «Gli Ogm fanno bene o fanno male?», l’attivista risponde: «Fanno male», lo scienziato inizia a fare dei distinguo, e a quel punto la comunicazione è già persa. E così il timore arriva alla gente, dove c’è un’innegabile paura di quel che si mangia: probabilmente l’uomo è arrivato fino a oggi perché ha sempre avuto paura di cibarsi di ciò che non conosceva. E mentre siamo pronti a comprare un nuovo modello di cellulare perché su queste tecnologie non abbiamo alcuna diffidenza, nei confronti del cibo abbiamo invece migliaia di anni di evoluzione che ci hanno educato a diffidare dei prodotti che non conosciamo.»

E gli agricoltori? Come guardano agli Ogm? Da una parte la Coldiretti è sempre rigida nel suo no, dall’altra ci sono coltivatori come Silvano Dalla Libera e gli altri di Futuragra, apertissimi alle innovazioni…

«Bisognerebbe chiedere a questi agricoltori cosa coltivano. Se seminano mais è probabile che siano a favore degli Ogm, se coltivano pomodori non gli costa nulla essere contro, dato che non ci sono pomodori geneticamente modificati in commercio. Probabilmente sta anche qui l’origine della posizione della Coldiretti: i loro agricoltori sono coltivatori di mais o no? Oggi in Italia la questione Ogm riguarda mais e soia, nient’altro. Mi chiedo quante di queste posizioni riflettono gli interessi dei propri associati.»

La comunicazione della scienza nell’era dei social: emozionare o informare? Si chiede Moreno Colaiacovo su “I Mille”. Organismi geneticamente modificati, metodo Stamina, sperimentazione animale: il dibattito pubblico su temi scientifici è più acceso che mai. Incalzata dai media e dai gruppi di pressione, la politica si è trovata ad affrontare – spesso con scarsi risultati – problemi complessi, in cui l’aspetto scientifico e quello sociale si sono mescolati a tal punto da risultare molte volte indistinguibili. E se alla classe politica possiamo rimproverare di non aver affrontato razionalmente questi problemi, concedendo troppo alla demagogia, d’altra parte non si può dire che la popolazione avesse gli strumenti per valutare lucidamente le questioni che di volta in volta venivano sollevate: raramente i media hanno scelto di spiegare, quasi sempre hanno preferito scandalizzare, commuovere o spaventare. Impostare un dibattito sui binari dell’emotività è il modo più semplice per muovere le coscienze, soprattutto in un Paese come il nostro, dove la cultura scientifica è da sempre trattata con supponenza e sospetto. Parte di questa strategia ha a che fare con l’uso delle immagini. Puoi fare un discorso perfettamente logico e convincente, puoi presentare numeri e tabelle, ma il castello della razionalità crolla miseramente se dall’altra parte c’è un’immagine vincente. Con le immagini è tutto più facile: basta una foto per far scattare a piacimento sentimenti come la rabbia, l’indignazione, la paura, la pietà. E i tre temi menzionati all’inizio di questo articolo, in effetti, hanno tutti un denominatore comune: in tutti questi casi l’opinione pubblica è stata condizionata e plasmata anche grazie all’uso di immagini forti. Immagini che passano in TV e sui giornali, ma che diventano virali soprattutto sui social network, Facebook in particolare. Nel caso degli OGM si è voluto spaventare. Basta cercare “OGM” su Google per rendersene conto: le immagini neutrali o favorevoli agli organismi geneticamente modificati sono una minima parte rispetto ai mostruosi fotomontaggi che hanno accompagnato questa tecnologia fin dalla sua nascita. Pensiamo alla fragola-pesce, una creatura mitologica che è ormai entrata a far parte dell’immaginario collettivo. Una vera e propria leggenda metropolitana che si è rivelata essere lo strumento perfetto per allontanare l’interlocutore dal sentiero della razionalità e spingerlo verso le pulsioni più istintive, che ci portano a fuggire da tutto ciò che è nuovo e sconosciuto, invitandoci ad approdare al porto sicuro della tradizione e dei bei tempi andati. Ovviamente non è mai esistita nessuna fragola-pesce, ma l’immagine era così evocativa da resistere ancora oggi, a distanza di anni dalla sua comparsa sui media. Cosa dire invece del metodo Stamina? Il caso è diventato di pubblico dominio grazie alle Iene, il cui messaggio è passato in gran parte attraverso la strumentalizzazione di immagini di bambini malati e sofferenti. Gli scienziati, dal canto loro, hanno dovuto subire l’accusa infamante di essere persone insensibili, fredde macchine razionali impossibili da scalfire persino con la più straziante delle tragedie umane. Eppure è esclusivamente con la razionalità e la lucidità che si può fare scienza, e trasformare le nuove conoscenze in soluzioni terapeutiche concrete ed efficaci. Ma quando dall’altra parte c’è il dolore di un bambino sbattuto in prima pagina (o in prima serata), qualunque considerazione ancorché giusta svanisce istantaneamente. Infine, la questione più scottante e attuale, quella relativa alla sperimentazione animale. Anche qui, la battaglia tra le due fazioni (perché di guerra si tratta, in molti casi) si è combattuta a suon di immagini. I movimenti animalisti hanno fatto abbondante uso di fotografie terribili, con animali costretti a subire tremende torture, ma non hanno disdegnato nemmeno sapienti fotomontaggi volti a screditare quei ricercatori che avevano difeso pubblicamente l’utilità della vivisezione (come viene impropriamente chiamata). Poco importa se le immagini cruente di animali straziati non corrispondano alla realtà, almeno non qui in Europa, e ancor meno importa il fatto che circa il 92% degli scienziati ritenga che purtroppo non si possa fare a meno della sperimentazione animale. L’impatto emotivo di quelle foto e di quei camici insanguinati è semplicemente devastante. Le immagini sono uno strumento potentissimo all’interno di una discussione, specie se gli interlocutori non sono molto informati sul tema. Spesso raggiungono l’obiettivo, muovendo le masse verso una posizione piuttosto che un’altra. E ad avvantaggiarsene sono stati anche coloro che stanno dalla parte della scienza, come dimostra la recente vicenda di Caterina Simonsen, suo malgrado divenuta nel giro di poche settimane una celebrità della rete. Il coinvolgimento emotivo è un’arma micidiale, che può essere usato sia dagli oppositori della scienza, sia da quelli che dovrebbero esserne i paladini. Ma è davvero la strategia migliore? Dal punto di vista etico, sfruttare immagini di persone sofferenti per portare avanti una causa non sembra certo il massimo della correttezza. Tuttavia, non è a questo che mi riferisco, quanto piuttosto all’efficacia di questo approccio nel lungo periodo. Le immagini scioccanti sono perfette per orientare l’opinione pubblica in merito al singolo episodio (i movimenti animalisti hanno obiettivamente accusato il colpo dopo la vicenda di Caterina), ma hanno il difetto di mancare il bersaglio grosso, quello che un amante della scienza dovrebbe considerare come l’obiettivo prioritario: insegnare a valutare un problema in modo razionale, informandosi e pesando pro e contro. In teoria, viviamo in una democrazia moderna, relativamente colta e istruita. Dovremmo quindi smetterla di trattare le persone come un gregge da guidare da una valle all’altra ogni volta che si presenta un nuovo argomento di discussione. Oggi è la sperimentazione animale, domani potrebbe essere qualcos’altro. La verità è che esiste soltanto una bussola che permette di trovare sempre, in ogni circostanza, la via giusta: è la bussola del pensiero critico, della logica e della corretta informazione. Educare le persone a usarla le renderà cittadini liberi, e realmente consapevoli delle proprie opinioni. Fare informazione corretta paga. Prendiamo ad esempio il recentissimo sondaggio IPSOS sulla sperimentazione animale: la percentuale di favorevoli saliva dal 49% al 57% se agli intervistati venivano fornite informazioni di base sull’argomento. In modo analogo, all’ultimo Festival della Letteratura di Mantova, il ricercatore Dario Bressanini e la giornalista Beatrice Mautino erano riusciti a vincere un confronto Oxford-style sul tema degli OGM, convincendo molti scettici a passare dalla loro parte. Comunicare la scienza in modo pacato, chiaro e oggettivo rimane ancora la strategia vincente. Anche nell’era di Twitter e Facebook.

IL TERRORISMO ALIMENTARE.

Facciamo un po' di terrorismo alimentare, scrive di Alberto Grimelli. Sarebbe facile fare terrorismo alimentare, suscitando legittime preoccupazioni e inquietudini, utilizzando argomenti di portata planetaria, come la scarsità di cibo di qui a pochi anni (entro il 2050 va raddoppiata la produzione secondo la Fao), oppure come il land grabbing (la concentrazione della risorsa terra nelle mani di pochi gruppi), oppure l'impatto dei cambiamenti climatici sull'agricoltura (desertificazioni, fenomeni meteo estremi...), o ancora la sicurezza alimentare (concentrazione dell'offerta e abbandono delle campagne nei paesi industrializzati). Sono temi che vengono affrontati, di tanto in tanto. Raramente si tratta di riflettori, più spesso di deboli fiammelle. E' strano, perchè sarebbe facile fare titoli ad effetto sui media. Giornali e tv, sempre di più, giocano con le emozioni delle persone e la loro capacità di attrazione dipende da quanto riescono a suscitare una reazione del pubblico. Purtroppo tali argomenti sono per le “anime belle”, coloro che possono preoccuparsi di una prospettiva lontana, mentre c'è da barcamenarsi nella quotidianità e futuro lontano è considerato ciò che può accadere di qui a qualche settimana. Ecco allora che il terrorismo alimentare è terra terra. Si lanciano allarmi su vere o presunte falsificazioni, frodi, adulterazioni. Una ghiotta occasione che fa tutti felici. I media vendono copie o fanno share. Le autorità dimostrano la loro efficienza e utilità. Le associazioni chiedono, e spesso ottengono, nuove leggi, che significa nuova burocrazia da gestire a loro vantaggio. I consumatori, dopo il procurato allarme, ottengono le rassicurazioni necessarie con maggiori controlli o una presunta maggiore trasparenza. I terrorismo alimentare, sottolineano i fautori, mette in moto l'economia perchè fa sorgere nuove aspettative che vanno appagate. Il vero problema è che il soddisfacimento di queste aspettative non crea valore aggiunto in quanto l'intervento, sia esso normativo, burocratico o di altra natura, è di riparazione a una situazione irregolare, illecita o comunque molesta. Il settore alimentare ha creato il danno, tocca a lui rimediare, a spese sue. In altre parole chi rompe paga e i cocci sono suoi. Una spirale perversa che, tra l'altro, alimenta un clima di diffidenza e sfiducia sia tra gli operatori sia tra i consumatori. Il passo successivo è la caccia alle streghe o agli untori, di manzoniana memoria, cui attribuire tutte le responsabilità e un colpevole da additare si trova sempre. Si arriva così alla fase finale. L'apoteosi del terrorismo alimentare. Una guerra totale, tutti contro tutti, dove non mancano colpi bassi, denunce e scandali che a loro volta forniscono materiale per nuovi allarmi, nuovi titoloni sui giornali. Una spirale senza fine e senza uscita. L'untore non è tra noi. Il vero colpevole è il meccanismo stesso del terrorismo alimentare.

Batteri, bufale e terrorismo alimentare, scrive Gian Luca Mazzella su “Il Fatto Quotidiano”. Tutto l’allarmismo e la disinformazione che si vanno manifestando attorno al batterio Escherichia coli, richiama alla mente tutti quei chili di bufale che abbiamo dovuto ingollare negli ultimi tempi. L’ambito alimentare è non di rado trattato con insipienza. Ad esempio, mesi fa, senza che fosse vero e verificato nulla, avevamo saputo da quasi tutti i quotidiani e media nazionali (tranne qualche testata specifica) che fosse stata abrogata la legge contro i reati alimentari. Finché il Ministro della Salute e la Corte di Cassazione hanno smentito. Lo strillo della comunicazione è ormai il contenuto della stessa. Non importa ciò che accade, e se sia vero che sia accaduto (il “perché” è ormai un vezzo anacronistico), ciò che importa è strillare. Cioè ululare e sbandierare come in una televendita, col pretesto non di raccontare ma di divulgare alla presunta e defunta casalinga di Voghera, trasfigurando i fatti. Banalizzarli non basta più. Così, pur di non perdere la notizia, non ci astiene dal terrorismo alimentare. Ma c’è da stare tranquilli, fra non molto ci abitueremo anche a questo. Frattanto, quanto al batterio tossico, si legge che il Codacons ha inviato un esposto a 104 Procure della Repubblica di tutta Italia. Nel testo dell’esposto si legge: “Il Ministero della Salute continua a minimizzare, sottolineando che non è giustificato l’allarmismo verso il consumo di ortaggi crudi, e si limita a diffondere alcune norme di prevenzione che coincidono con le consuete norme igieniche per la sicurezza alimentare. A fronte del quadro generale, tali misure sembrerebbero insufficienti e inadeguate… Un principio cautelativo dovrebbe essere ampiamente utilizzato dagli stati in funzione delle proprie capacità. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l’assenza di una piena certezza scientifica non deve costituire un motivo per deferire l’adozione di misure adeguate ed effettive. Lo stesso Codacons spiega: “Visto l’effettivo rischio di un grave danno alla salute della collettività e il maggior pericolo a cui la stessa potrebbe essere esposta a causa del protrarsi del tempo senza un effettivo e risolutivo intervento delle autorità competenti, il Codacons ha chiesto di accertare la sussistenza di fattispecie penalmente rilevanti a carico del Ministero della Salute o di altri organi competenti. Occorre fornire maggiori garanzie ai cittadini – spiega il Presidente Carlo Rienzi – non basta dire che è tutto sotto controllo e che se si lava l’ortofrutta i rischi spariscono. Servono controlli a tappeto sugli alimenti destinati all’uomo e agli animali provenienti dall’estero, al fine di individuare subito i prodotti contaminati ed evitare il diffondersi dell’epidemia anche nel nostro paese”. Difficile non domandarsi se tale esposto sia uno strillo o una notizia, un comunicato stampa o un messaggio promozionale. O forse è solo un necessario esposto?

Terrorismo alimentare SpA. Per quale ragione alimenti di uso comune come la carne, la farina, lo zucchero, il latte, sono sempre più spesso ritenuti la causa di gravissimi danni per la propria salute? Chi ci guadagna dal terrorismo alimentare? Scrive Pierluigi De Pascalis. Il terrorismo alimentare è sempre esistito ma, nel corso degli ultimi anni, ha raggiunto dimensioni che è certamente possibile ritenere preoccupanti. Nel corso del tempo si sono evolute non soltanto le modalità e la rapidità con le quali messaggi allarmistici vengono diffusi, ma anche le ragioni alla base di questo genere di messaggi. Nei secoli scorsi ad esempio il terrorismo alimentare si sposava perfino con il cattivo auspicio, la rottura di una bottiglia contenente olio era considerata male augurante e, probabilmente, questo timore di incorrere nella malasorte invitava a porre particolare attenzione nel maneggiarla, con l'indubbio vantaggio di preservare un bene (l'olio) il cui valore intrinseco era certamente elevato. Si trattava di una sorta di terrorismo "buono" o comunque a fin di bene, volto a evitare possibili sprechi in periodi in cui l'abbondanza alimentare non era certamente cosa comune. Al giorno d'oggi il terrorismo alimentare ha connotati nuovi e radicati, che spingono spesso verso forme di fondamentalismo di tale misura che su alcuni soggetti particolarmente influenzabili possono sfociare nel patologico. Innanzitutto occorre considerare il terrorismo alimentare nelle due forme in cui si presenta. Quella più comune è volta a demonizzare un alimento, in genere si prediligono alimenti di uso comune, poichè proprio la grande diffusione permette di far attecchire meglio il messaggio allarmistico. Se l'alimento messo alla sbarra è di uso comune si può contare su un bacino di consumatori certamente elevato, e quindi anche una piccola percentuale di soggetti suggestionabili permette il radicarsi del timore in un numero di individui sufficientemente elevato in termini assoluti. Questo meccanismo non solo consente di fare rapidamente nuovi proseliti, ma ovviamente conta sul fatto che ogni nuova persona in cui si radica il timore verso un cibo o una bevanda, diverrà essa stessa portatrice del messaggio allarmistico. Viceversa scegliendo prodotti di nicchia, poco diffusi, le probabilità che il messaggio non venga considerato e muoia sul nascere sono maggiori. Innanzitutto perchè l'informazione sarà ignorata dalla gran parte delle persone, e poi perchè i pochi utilizzatori di prodotti di nicchia sono generalmente ben informati e difficilmente influenzabili. Prendere di mira prodotti a larga diffusione ha anche un altro vantaggio, permette infatti di sfruttare come una cassa di risonanza l'indignazione che si scatena, indignazione per un prodotto che si riteneva salubre o perfino raccomandato, per poi scoprire che invece è un alimento a rischio, dannoso per la salute. Il terrorismo alimentare può agire anche al contrario, ossia considerando un alimento di uso comune come ricco di proprietà salutistiche, con virtù quasi miracolose, magari anche rispetto a patologie estremamente gravi come il cancro. In questo caso i messaggi lanciati tendono a prendere di mira le case farmaceutiche, colpevoli di non voler diffondere tali conoscenze per conservare il loro potere economico attraverso la dipendenza dai farmaci che producono. Ma perchè questi messaggi terroristico-alimentari stanno cominciando a diffondersi con tanta rapidità, e perchè parliamo di "Terrorismo Alimentare SpA"? La ragione è molto semplice, se non ci si limita a cogliere l'aspetto shockante che ogni campagna cerca di generare, ma si guarda più dettagliatamente cosa ciascun messaggio comunica, ci si rende facilmente conto che praticamente sempre la demonizzazione di un alimento determina in maniera più o meno esplicita il suggerimento di un prodotto alternativo, magari meno diffuso, il quale si considera privo di ogni effetto collaterale. Ed è proprio su questo secondo aspetto che occorrerebbe soffermarsi, chiedendosi in primo luogo "cui prodest?", chi ci guadagna da un simile messaggio? Si ritiene infatti in maniera troppo disinvolta, semplicistica e, probabilmente ingenua, che gli interessi commerciali riguardino solo i prodotti "cattivi", associati frequentemente ad una lobby, quasi che chi vende prodotti alternativi, tra l'altro quasi sempre molto più costosi, lo faccia mosso esclusivamente dal desiderio di fare del bene all'umanità, e non certo per un vantaggio di natura economica. In altri termini, a leggere bene i messaggi terroristico-alimentari, quello che comunicano è "attenzione l'alimento X è fortemente rischioso per la salute, meglio sarebbe l'uso del prodotto Y". La prima parte del messaggi viene "urlata" attraverso titoli ad hoc ed immagini che colpiscono, la seconda parte del messaggio, quello che è il "consiglio per l'acquisto alternativo" viene invece sussurrato, in modo da non innescare diffidenza. Ancora più efficaci sono le strategie terroristiche dove il vantaggio per chi lancia l'allarme è di tipo indiretto. In questo caso la gran parte delle persone non farà minimamente caso agli interessi economici che realmente muovono queste campagne. Ad esempio inondare di messaggi allarmistici rispetto ad un alimento X segnalando che la spiegazione sul perchè faccia male è contenuta in un libro Y può segnare il successo editoriale del libro in questione. Altre volte, soprattutto quando i messaggi vengono diffusi attraverso internet o per tramite dei social network l'obiettivo è quello di creare grandi quantità di traffico verso un dato sito internet per poi guadagnarci attraverso la pubblicità. Non è un caso che esistano siti internet monotematici dalle cui campagne alimentari non sfugge nessun alimento, che sia il latte, il caffè, i cereali, lo zucchero, la farina. Ogni prodotto viene descritto come un veleno. Non vendendo direttamente altri prodotti, ma facendo profitto proprio attraverso il clamore che si genera, e quindi gli accessi generati, la maggior parte dei visitatori finisce con l'abboccare all'amo, diffondendo a sua volta quanto ha letto presso i propri amici, divenendo veri e propri testimonial gratuiti per questo genere di iniziative. Nessuno che si fermi a considerare che se davvero ogni singolo prodotto etichettato come pericoloso lo fosse veramente, il numero di persone con problemi cronici di salute sarebbe esponenzialmente maggiore, invece (e per fortuna) la vita media si allunga di continuo. Il punto di forza del terrorismo alimentare però è anche un altro. Qualsiasi affermazione, qualsiasi ricerca, sia essa una conferma delle teorie promulgate, sia essa una smentita, può facilmente essere utilizzata a proprio vantaggio. Ad esempio sebbene la vita media delle persone si sia allungata di diversi decenni rispetto a secoli fa, anche grazie all'alimentazione (oltre che grazie alle temutissime case farmaceutiche), l'invecchiamento fisiologico ha portato alla nascita di malattie tipiche della fase senile. Alcune forme tumorali, come il cancro alla prostata o il cancro al colon, sono tipicamente correlate all'avanzare degli anni. Quando la vita media era al di sotto dei 40 anni difficilmente ci si poteva ammalare di cancro alla prostata e morire a causa di questa forma tumorale. Le nuove aspettative di vita determino una probabilità di contrarre queste forme tumorali molto più alta, proprio perchè legate all'invecchiamento. Chi vive grazie al business del terrorismo alimentare ha saputo sfruttare a suo vantaggio questa situazione affermando che un "un tempo" alcune malattie non esistevano, se oggi esistono e sono diffuse, la causa è da ricercare negli alimenti di largo consumo. Ribaltando di fatto la verità a proprio favore. Inulte contestare con dati scientifici perchè anche in questo caso i fautori del terrorismo alimentare hanno trovato il modo di capovolgere a proprio vantaggio ogni cosa semplicemente etichettando chiunque esprima un parere differente come un complottista facente parte ora delle lobby farmaceutiche, ora di qualche altra cosa, sfruttando l'idea secondo cui l'intera comunità scientifica desidera creare intere popolazioni malate, al solo scopo di fare profitto dalla vendita di farmaci. È evidente che giocando a rigirare le cose sempre a favore delle teorie terroristiche che si vogliono veicolare, non c'è verso di dimostrare quanto fragili siano i punti su cui si basano. Se non si è in accordo con loro allora si fa parte del complotto. Qualunque medico, ricercatore, biologo affermi che ci sono errori clamorosi viene etichettato come "venduto" e facente parte di un sistema. Si è perfettamente capaci di essere non solo dei moderni untori di terrore, ma si pretende anche di apparire come martiri e vittime del complotto. Se non fosse una condizione tragica quella che scatenano, occorrerebbe certamente dare atto della profonda capacità imprenditoriale. Il giro d'affari che viene annualmente mosso dal terrorismo alimentare può apparire banale, in realtà si parla di decine di milioni di euro che vengono fatturati dall'intero indotto. Non solo attraverso la vendita di prodotti alternativi, ma anche grazie alla vendita di libri, alla partecipazione a meeting formativi, alla vendita di spazi pubblicitari ecc. Il vero successo è poi determinato quando questi messaggi incontrano persone più facilmente suggestionabili, spesso prive di competenze specifiche nè desiderose di acquisirle, poichè la semplicità dei messaggi terroristici in ogni caso per loro è rassicurante. Si ritengono depositari di un sapere e di una conoscenza superiore che la massa delle altre persone non possiede. Così il fondamentalismo alimentare diviene analogo al fondamentalismo religioso, e mangiare quello che si ritiene "giusto" è uno strumento per proseguire nella giusta strada, restando puri, mentre gli altri (sciocchi che sono) continuano a perseverare in quel "peccato" alimentare che li porterà alla catastrofe.

LA MODA ALIMENTARE.

Come si crea una moda alimentare, scrive “Albanesi.it”. Una ricerca statistica condotta negli USA (2005) ha mostrato che tre principali diete (a punti Weight Watchers, a zona, Atkins) non avevano superato il 10% di successi nel dimagrimento a un anno. Poiché la migliore risultava quella a punti, alcuni hanno pensato a una ricerca pilotata; anche se fosse, il dato del 10% è talmente basso che qualche punto in più o in meno non sposterebbe il grado di soddisfazione di questi modelli. Dai dati che abbiamo, non c'è da stupirsi. Chi ha seguito la dieta italiana ha una probabilità di successo a un anno dell'86%. Dieta miracolosa? No, solo che non illude nessuno. Poiché richiede una coscienza alimentare e quindi un piccolo sforzo da parte del soggetto (che deve capire!) non è certo per tutti. Gli altri modelli alimentari promettono, promettono, ma, sparando nel mucchio e basandosi su illusioni, alla fine spuntano numeri decisamente deludenti. Perché questo comportamento? Perché molti modelli alimentari nascono espressamente per fare business e "devono" lavorare sulla grande popolazione. I loro insuccessi non fanno comunque che sottolineare che persone pigre e sostanzialmente incapaci di comprendere ciò che mangiano non arriveranno mai a uno stile di vita corretto. Come si fa a lanciare una moda alimentare? Incredibilmente si scopre un trend comune a tutte le mode del momento. Volete inventare un modello alimentare che vi dia (provvisoriamente) celebrità e/o un ritorno economico interessante? Sì? E allora usate la strategia del terrorismo alimentare! Cos'è? Semplice: si demonizzano gruppi di alimenti in modo che il soggetto non li assuma e, indirettamente, mangi di meno e quindi dimagrisca. Quasi sempre si consiglia l'esercizio fisico per cui da sedentario il soggetto fa un po' di moto e dimagrisce un altro po'. Esempi di terrorismo alimentare:

le diete vegetariane e vegane che demonizzano le proteine e i grassi di origine animale

la dieta a zona e quelle iperproteiche che demonizzano i carboidrati

le diete salutiste che demonizzano i grassi di qualunque natura e/o gli zuccheri e i dolci

il metodo Montignac che demonizza i cibi ad alto indice glicemico

le false intolleranze alimentari, dove un nutrizionista con test a scientificità nulla convince il paziente che è intollerante a cibi ipercalorici come pasta, formaggi ecc.

Tutti questi metodi all'inizio sortiscono qualche effetto, perché il soggetto mangia di meno; poi l'effetto svanisce per due motivi:

a) il naturale appetito del soggetto viene convertito a ciò che può mangiare, riaumenta le dosi (tanto le calorie non contano, basta evitare certi alimenti!) ed è nuovamente spacciato. Chi per esempio segue la dieta a zona, all'inizio, abbandonando pasta e dolci, ovviamente mangia di meno; il gusto però a poco a poco si sposta sul proteico (pensiamo a quanti hanno cambiato la propria colazione sostituendo la brioche con tonno) e/o sul grasso (un ottimo tonno con l'olio extravergine d'oliva!) e le calorie ritornano quelle di prima. Idem chi si è convinto di essere intollerante alla pasta: all'inizio, senza primo, dimagrisce, poi scopre il riso in tutte le sue salse e il peso rilievita nuovamente.

b) Ogni eccezione alimentare non può essere recuperata con una diminuzione delle calorie (le calorie non si contano! Conta solo evitare i cibi cattivi). Una cena con amici vuol dire magari 900 kcal in più, cioè due etti (considerando l'acqua legata al grasso). Anche due sole cene al mese e in un anno si mettono su cinque kg che non si riesce a recuperare solo mangiando cibi buoni e fregandosene delle calorie. Il vero danno sociale di questo terrorismo alimentare è che il soggetto deluso si convince che per lui è impossibile dimagrire e si incanala verso una storia di patologie da stile di vita errato.

IL BUSINESS DELLE INTOLLERANZE.

Il business delle intolleranze. Sulle allergie alimentari test falsati e cure da 300 mln di euro,scrive Ulisse Spinnato Vega su “Lettera 43”. Sulle intolleranze alimentari c'è un giro d’affari di centinaia di milioni di euro. La confusione popolare tra allergie e intolleranze alimentari vere o presunte. I test e i kit che spesso danno risultati ingannevoli. I disagi psicologici e le mode che rovinano la vita delle persone. Senza dimenticare il giro d’affari di centinaia di milioni di euro del settore food e non solo che ruota intorno alle «allergie non allergiche», come 20 anni fa lo studioso Allen P. Kaplan descriveva appunto le intolleranze alimentari. Il sorbitolo killer ha scoperchiato il pentolone in cui ribollono le sofferenze e i disagi dei pazienti, la passione di esperti e ricercatori, ma anche i falsi miti, l’astuzia degli imbroglioni, gli abusi e le contraffazioni. L’intolleranza permanente più celebre è la celiachia, che viene scatenata dalla gliadina, componente alcool-solubile del glutine. Gli ultimi dati parlano di 122 mila casi accertati in Italia su un sommerso di 500-600 mila persone affette e oltre 3 milioni di falsi celiaci. Questa patologia, a differenza di altre intolleranze, «è ben conosciuta e studiata da molti anni», dice a Lettera43.it Esther Tattoli, presidente Imid (Associazione nazionale pazienti infiammatori cronici e immunopatici), gode di buona comunicazione, qualche testimonial importante e ha visto già fiorire un mercato notevole, soprattutto in relazione al settore alimentare. Infatti, i celiaci non possono ingerire nessun cibo che contenga glutine (ad esempio proteina del grano, dell’orzo, del farro), quindi non possono mangiare pane, pasta, biscotti, pizza, birra, fritture con impanatura e tanto altro. Il grosso dell’offerta arriva per loro dalle farmacie, ma anche la grande distribuzione e i marchi industriali si stanno organizzando con linee sempre più diversificate di prodotti gluten free. E pure 2 mila strutture di ristorazione (dagli alberghi alle gelaterie) possono ormai accogliere i celiaci garantendo massima sicurezza alimentare. Solo in un anno un giro d'affari di 176 milioni di euro. Gli ultimi dati parlano di 122 mila casi accertati in Italia su un sommerso di 500-600 mila persone affette e oltre 3 milioni di falsi celiaci. Secondo dati Nielsen, tra il marzo 2011 e il febbraio 2012 nelle sole farmacie (circa quattro quinti del mercato) sono stati acquistati prodotti senza glutine per 176 milioni di euro, con una crescita di quasi il 2% sull’anno precedente. Ben 60 milioni si spendono in pane e sostitutivi, 50 milioni di euro in dolci e 30 milioni in pasta, solo per citare le voci principali. Mangiare, se si è celiaci, costa salato e molte aziende hanno fiutato il business. La Fondazione Irccs San Matteo di Pavia ha calcolato che ci vogliono 16 euro per un chilo di lasagne e quasi 10 per una confezione di bucatini, 240 grammi di pizza valgono 4,40 euro e 300 grammi di mini-baguette superano i 6 euro. In più, dall’Associazione italiana celiachia anticipano a Lettera43.it che «stanno arrivando anche le carni senza glutine. Un colosso come Amadori sta per lanciarsi nel settore e dunque, presto, si dovrà rivedere al rialzo il volume d’affari». Insomma, il mercato, la pubblicistica, la comunicazione e la ricerca fanno crescere la consapevolezza di chi appartiene a questa schiera di pazienti. E il ministero della Salute nel 2006 ha fissato persino un pur minimo contributo di sostegno alimentare per i celiaci, sostegno che ammonta a 140 euro per gli uomini, 99 per le donne e cifre inferiori per i bambini. Erogazioni che vengono anche integrate da alcune Regioni per garantire la parità tra i sessi. Una moda (dannosa) che sta contagiando anche chi non ha intolleranze. Circa 100 mila bambini utilizzano latte ipoallergenico per una spesa di oltre 50 milioni di euro l’anno. Eppure l’altra faccia della medaglia è la moda dei cibi senza glutine anche per chi non ne ha bisogno. Negli Stati Uniti la tendenza ha testimonial d’eccezione come Oprah Winfrey, tuttavia spesso si trascurano le carenze e i contraccolpi per la salute di una celiac diet ingiustificata. «Un problema invece poco noto e sul quale è previsto un lavoro scientifico enorme l’anno prossimo è quello della sensibilità al glutine senza celiachia», dice Mauro Minelli, direttore del già citato Imid di Campi Salentina che precisa: «Si tratta una patologia molto più subdola, senza marcatori caratteristici rilevabili e che colpisce addirittura il 6-8% della popolazione mondiale». Mentre sul fronte delle intolleranze alimentari ai metalli (nichel, cobalto, cromo) che riguardano in genere i vegetali in dipendenza dal terreno da cui provengono, Minelli spiega: «Sul nichel ancora stiamo cercando di fare un registro epidemiologico. Da noi in ospedale, a Campi Salentina, Asl Lecce, si presentano un 5-600 casi l’anno. E spesso le patologie da nichel sono associate a quelle da glutine». Cifre precise d’impatto demografico della patologia, dunque, non ce ne sono e un mercato dei consumi non è ben delineato. Stessa cosa si può dire per il favismo, un deficit enzimatico ereditario. Michela Calderaro, presidente Aif (Associazione italiana favismo) confessa con amarezza: «Non esiste una stima vera e propria dei fabici in Italia. Persino le aziende farmaceutiche ci hanno dimenticato e la maggioranza delle medicine ci provoca crisi emolitiche. Dobbiamo usare sempre gli stessi farmaci e, a differenza dei celiaci, non è facile per noi rintracciare gli alimenti, soprattutto il pane e le panature, che non contengano farina di fave». Poi Calderaro rincara: «Ci sono ottimi centri di riferimento per il dosaggio dell’enzima. Ma, a differenza di quanto avviene negli Stati Uniti, in Italia non sono in commercio kit per il dosaggio dell’emoglobina cosa che ci consentirebbe un certo controllo». Dunque una situazione di abbandono, molto diversa da quella di chi non sopporta il glutine. L'intolleranza al lattosio che colpisce circa 100 mila bambini. Un’altra intolleranza – questa sì piuttosto conosciuta dal mercato food – riguarda il lattosio (carenza di lattasi). Si tratta di un disturbo secondario, che cioè consegue a un’infiammazione cronica dell’intestino provocata da altre sostanze. E spesso si associa al nichel, per cui le due casistiche hanno numeri equiparabili. In questo caso un mercato di prodotti alimentari ad hoc si sta delineando. Si sa, per esempio, che circa 100 mila bambini utilizzano latte ipoallergenico per una spesa di oltre 50 milioni di euro l’anno. Ed è in stretta misura correlata a tale disturbo la crescita del settore dei prodotti a base di soia, soprattutto i dessert, che ormai valgono in Italia quasi 10milioni di euro annui. D’altronde un litro di latte di soia o di riso costa in media due volte, due volte e mezza un litro di latte normale a lunga conservazione. Tattoli riflette: «L’impatto delle intolleranze alimentari non è mai stato soppesato in modo giusto, perché poi genera altre problematiche a catena» che in qualche modo possono depistare. Infatti, le intolleranze, a differenza delle allergie, riguardano il metabolismo e non il sistema immunitario, spesso non hanno una sintomatologia codificata, sono a volte imprevedibili e magari legate all’intervento di migliaia di possibili fattori diversi. Inoltre c’è un aspetto di coinvolgimento psicologico, per cui soggetti particolarmente fragili o suggestionabili identificano nelle intolleranze tutti quei presunti mali oscuri e misteriosi che ci affliggono senza causare vere e proprie malattie. La truffa dei falsi test allergologici. Su false credenze, ipocondria e spiritualismo inconsapevole può innestarsi la truffa dei falsi test non effettuati in centri specialistici, esami che secondo la Società italiana di allergologia costano da 50 a 500 euro e da cui spesso scaturiscono falsi risultati di positività, generando così un esercito di allergici immaginari. Infine c’è da considerare il giro d’affari non trascurabile dell’omeopatia legata ad allergie e intolleranze. La medicina alternativa ha un fatturato complessivo di 300 milioni di euro su una trentina di aziende e «le allergie assieme ai problemi gastrointestinali», dice Simonetta Bernardini, presidente Siomi (Società italiana di omeopatia e medicina integrata), «sono ad oggi in testa nella domanda di prestazioni sanitarie omeopatiche». 

I NOSTRI VELENI QUOTIDIANI.

Il grande assedio al nostro cibo, la salute minacciata dalle truffe, scrive Monica Rubino su “La Repubblica”. In aumento gli allarmi legati a cibi potenzialmente pericolosi che nel 2013 sono già stati 268. L'ultimo caso, il pesto al botulino. Cresce la preoccupazione dei consumatori: sette famiglie su dieci temono di trovarsi nel piatto sostanze nocive. Ogni anno una grossa catena di supermercati ritira dai propri scaffali 4-500 prodotti per motivi diversi. Come funzionano i controlli in Italia e in Europa. L'ultimo allarme è quello del pesto al botulino. Ed è scattato dallo stesso produttore, la ditta Ferrari-Bruzzone di Genova: il sospetto è che in alcune migliaia di vasetti sia contenuto uno dei tipici batteri da intossicazione alimentare, il clostridium botulinum, che in alcuni casi può portare alla morte. Ma se è vero che finora il pesto genovese non ha intossicato nessuno, non possiamo permetterci di abbassare la guardia sulla sicurezza alimentare. Lo dicono i numeri diffusi dalla Coldiretti che segnala un aumento degli allarmi per cibi potenzialmente pericolosi che nel 2013 sono già stati 268. I casi riguardano ogni genere alimentare e agli inganni ai danni del consumatore o del made in Italy si sommano veri e propri attentati alla salute. Ecco la mozzarella di bufala prodotta con latte vaccino, gli ormoni usati negli allevamenti, l'olio deodorato e colorato, il latte contaminato da sostanze cancerogene, le conserve di San Marzano ricavate da pomodori provenienti da paesi lontani, la carne di cavallo fatta passare per manzo, fino a uno degli ultimi casi alla ribalta delle cronache: i frutti di bosco infetti dal virus dell'epatite A. Senza dimenticare l'emergenza Escherichia Coli, che tanto ha spaventato e confuso i cittadini di tutta Europa.

Italiani preoccupati. Gli episodi sempre più frequenti di alterazioni, falsificazioni e contraffazioni di prodotti alimentari mettono in allerta un numero vastissimo di italiani. Secondo un'indagine di Accredia (Ente unico di accreditamento) e Censis sul tema della sicurezza e della certificazione dei prodotti alimentari, quasi 18 milioni di famiglie, pari al 71% del totale, sono spaventate dalla possibilità di imbattersi in cibo adulterato, mentre il 70% dichiara di leggere frequentemente le etichette e di prestare attenzione ai marchi di qualità del cibo che sta per acquistare.

Oltre le contraffazioni: i nemici invisibili. A spaventare non sono solo le sofisticazioni dei prodotti. I pericoli nel mondo alimentare non si vedono nel piatto e non si avvertono in bocca, come è accaduto per l’epidemia di Escherichia coli in Germania. In genere, si tratta di microrganismi come Salmonella, Listeria, Campylobacter, oppure di aflatossine e micotossine. Per non parlare della temibile diossina. Il topo nei surgelati o l'insetto nello yogurt sono eventi rari; mentre la presenza di corpi estranei nel cibo, le contaminazioni da sostanze pericolose e da batteri patogeni sono problemi abbastanza diffusi. Ogni anno una grossa catena di supermercati ritira dagli scaffali 400/500 prodotti alimentari per diversi motivi: etichette scorrette, difetti di produzione, avviso spedito dall'azienda alimentare. Solo Carrefour ha iniziato timidamente a pubblicare in rete la lista dei prodotti con il suo marchio sottoposti a richiamo.

I dati sui controlli. Le cifre di Coldiretti, elaborate sulla base delle relazioni sul sistema di allerta comunitario, dicono che nel 2013 sono state 268 le segnalazioni di rischi alimentari arrivate dall'Italia. La tendenza rispetto al 2012 è in aumento. Un anno fa infatti i casi furono 517 in totale. In Europa nessun paese dirama più segnalazioni dell'Italia. Ma è un buon segno. La prova che il nostro sistema dei controlli è capillare e riesce a scoprire  -  quasi sempre in tempo  -  i pericoli che minacciano i nostri pranzi e le nostre cene. E in otto casi su dieci l'allarme riguarda un prodotto proveniente dall'estero. Se il 2013 potrebbe concludersi con più casi rispetto al 2012, l'anno scorso a sua volta è stato peggiore del precedente. Nella terza edizione del rapporto sull'agropirateria pubblicata dall'associazione FareAmbiente-Movimento ecologista europeo emerge infatti che le frodi alimentari sono cresciute del 5% nel 2012 rispetto al 2011, con sequestri per un valore di 467.653.967 euro. Lo scorso anno, inoltre, sul fronte delle truffe sul cibo sono state registrate sanzioni amministrative per 18.268.460, ben 36.540 i controlli effettuati e 12.927 gli illeciti riscontrati. E ancora, 17.546 le sanzioni amministrative, 3612 quelle penali, 10.465 le persone segnalate all'autorità amministrative, 2096 a quella giudiziaria, 12 gli arrestati.

Il sistema dei controlli. Dopo lo scandalo mucca pazza, l'Unione europea si è dotata di un avanzato centro di controllo e allarme (Rasff), che nel 2012 ha gestito più di 3000 casi. Il Rasff, acronimo inglese di Rapid alert aystem on food and feed, Sistema di allerta europeo per cibo e mangimi, è stato inaugurato otto anni fa a Bruxelles per segnalare i prodotti alimentari contaminati presenti sul mercato. Come ci spiega il Fatto alimentare.it, sito specializzato in materia, il meccanismo è semplice. Ogni settimana, le autorità sanitarie dei vari Paesi inviano a Bruxelles l'elenco dei prodotti esportati, o importati da altri Stati, che sono stati ritirati dal commercio. L'ufficio raccoglie le informazioni e le dirama in rete con tutti i riferimenti per procedere al blocco delle merci. In Italia le notifiche arrivano al ministero della Salute che le smista alle Asl, cui spetta il compito di contattare le aziende e i punti vendita per procedere al ritiro del prodotto. I problemi più diffusi riguardano la presenza di micotossine nella frutta secca importata da paesi extra-Ue, la contaminazione da Salmonella e Campylocter nelle carni. Altri elementi abbastanza frequenti sono la presenza del batterio Listeria nel salmone affumicato, mentre il pesce spada in arrivo dalla Spagna e dal Vietnam contiene spesso mercurio. Sono anche frequenti i ritiri di gamberetti e crostacei importati dal Sud-Est asiatico, trattati con additivi non consentiti. A volte le motivazioni del ritiro sono più banali, come la presenza di micotossine nei semi di arachidi e nei pistacchi.

Le segnalazioni vengono classificate dal Rasff in tre categorie.

Allarme. Si tratta del livello più urgente e richiede un intervento rapido da parte delle autorità sanitarie. La notifica viene inviata a Bruxelles entro 48 ore dal momento in cui lo Stato viene a conoscenza e deve essere diffusa entro 24 ore.

Informazione. È una segnalazione di routine e riguarda il ritiro di un prodotto con un livello di rischio che non richiede un'azione rapida.

Respingimenti alla frontiera. Si tratta di merci importate da Paesi extra-Ue bloccate dalle autorità sanitarie alla frontiera, che non arrivano al dettaglio. Le segnalazioni settimanali del Rasff oscillano da 60 a 80 e riguardano solo la merce importata o esportata. A questo gruppo si aggiungono centinaia di altri ritiri e sequestri che le autorità sanitarie effettuano per prodotti alimentari fuori norma commercializzati all'interno del loro Paese.

Il ruolo dell'Efsa. A livello europeo il primo passo verso la comunicazione del rischio è stato l'istituzione dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare (European food safety authority), che ha sede a Parma. Come agenzia indipendente, si presta a offrire ai consumatori informazioni obiettive e attendibili, basate su dati scientifici aggiornati, in merito ai rischi sulla catena alimentare. Dall'aspartame agli ogm, dai pesticidi al bisfenolo, dagli integratori agli additivi alimentari come i coloranti, fino ai fabbisogni nutrizionali: sul sito internet dell'agenzia sono disponibili tutti i pareri scientifici delle varie commissioni e molteplici indicazioni sui temi di attualità.

Le falle nel sistema: il caso delle mozzarelle blu. Non sempre il sistema di allerta funziona come dovrebbe. Ce lo spiega Roberto La Pira, direttore del Fatto Alimentare: "Nel caso delle mozzarelle blu, la prima segnalazione italiana inviata al Rasff di Bruxelles è datata 9 giugno 2011, e riguarda lotti della società tedesca Milchwerk Jager Gmbh & Co venduta a Verona. Il sistema però si inceppa perché l'azienda tedesca non si attiva, non avverte i fornitori e quindi non si procede al ritiro immediato". Una settimana dopo, il 17 giugno, a Torino, una signora fotografa il corpo del reato, si rivolge alle Asl e la notizia arriva ai giornali. "Da quel momento  -  continua La Pira - la mozzarella blu diventa una notizia da prima pagina. La vicenda si trasforma in un evento nazionale perché l'azienda casearia tedesca non rispetta le regole. La lista con i marchi delle mozzarelle contaminate vendute in 13 paesi viene comunicata solo dopo due settimane, nonostante l'invio di tre richieste da parte del ministero della Salute italiano per avere informazioni precise sui prodotti coinvolti".

Il Piano del ministero della Salute. Da noi c'è un documento vasto e articolato che riassume i dati di tutti i controlli effettuati su sicurezza alimentare e qualità merceologica di cibi e bevande. Si tratta del Piano nazionale Integrato (Pni o Mancp), che nel rispetto del Regolamento (CE) n.882/2004, descrive il "Sistema Italia" dei controlli ufficiali in materia di alimenti, mangimi, benessere animale e sanità delle piante ed ha una durata triennale (2011-2014). Il Piano costituisce il livello massimo di coordinamento tra tutte le numerose autorità che vigilano sulle catene di produzione e commercializzazione dei nostri alimenti. Di sicurezza e nutrizione, per esempio, si occupano il ministero della Salute, le Regioni, le Province autonome, le Asl e i Nas (nuclei antisofisticazioni) dei Carabinieri. Un dato aiuta a capire la portata del fenomeno: nelle Asl della sola Emilia Romagna, il personale deputato ai controlli di sicurezza alimentare  -  tra medici igienisti, medici veterinari e tecnici della prevenzione  -  ammonta a oltre 800 persone. Di qualità merceologica, invece, si occupano il ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, le Capitanerie di porto, i Nac (nuclei antifrodi dei Carabinieri) e la Forestale. Senza contare il coinvolgimento generale delle autorità doganali e della Guardia di Finanza. Una macchina complessa, dunque, impegnata in un'azione capillare e quotidiana sul territorio.

Mense e ristoranti. "Uno dei principali strumenti per combattere le frodi - ha spiegato Vincenzo Pepe presidente nazionale di FareAmbiente - è la tracciabilità degli alimenti, anche nei menù degli esercizi pubblici". Per questo l'associazione è tra i promotori di una proposta di legge sulla tracciabilità dei prodotti nelle mense e nei ristoranti: "Dai dati raccolti sui controlli effettuati dalle diverse forze dell'ordine  -  ha aggiunto Pepe  -  si è visto che uno dei settori più problematici ed esposti alle truffe è proprio quello della ristorazione. Per questo proponiamo di realizzare un sistema informatico per tracciare i prodotti utilizzati nei menu dei ristoranti e un apparato informativo che consenta di leggere meglio le etichette e le allert rapide dell'Ue".

Ue, nuove etichette alimentari, più dettagli e più sicurezza.

Un regolamento della Commissione stabilisce tutte le caratteristiche dei fogli che accompagnano i cibi, dalle calorie alle indicazioni del paese di provenienza, scrive Monica Rubino su “La Repubblica”. Dopo 32 anni di onorato servizio va in pensione la vecchia direttiva sulle etichette alimentari (la 79/112/CEE), sostituita da un un nuovo regolamento (UE 1169/2011 ), varato dalla Commissione europea. Dopo anni di dibattiti è arrivata finalmente una legge univoca, tradotta nelle 24 lingue ufficiali dell'Unione (dal 1° luglio 2013 si è aggiunto il croato), da applicare contestualmente in tutti gli stati membri. La riforma europea dell'etichetta ha lo scopo di armonizzare tutte le norme nazionali su tre fronti: la presentazione e la pubblicità degli alimenti, l'indicazione corretta dei principi nutritivi e del relativo apporto calorico e l'informazione sulla presenza di ingredienti che possono provocare allergie. Il regolamento si compone di 55 articoli e descrive in modo molto dettagliato quali devono essere le indicazioni da fornire ai consumatori. In breve, l'intento è rafforzare la salvaguardia della salute dei cittadini senza intaccare la libera circolazione delle merci - preoccupazione costante di Bruxelles. I paesi Ue hanno ancora un anno e mezzo di tempo per adeguarsi alle nuove norme, che entreranno in vigore inderogabilmente il 13 dicembre 2014.

Ecco allora le principali novità sulle etichette dei prodotti che metteremo nel carrello.

Tabella nutrizionale. Oltre agli ingredienti di cui è costituito un alimento, è importante che vengano indicate le calorie in esso contenute. Gli alimenti confezionati devono avere una tabella nutrizionale con sette elementi (valore energetico, grassi, acidi grassi saturi, carboidrati, proteine, zuccheri e sale) riferiti a 100 g o 100 ml di prodotto, che potrà essere affiancata da dati riferiti a una singola porzione. Si possono utilizzare altri schemi come i semafori attualmente in auge nel Regno Unito, solo se di facile comprensione. L’eccesso di consumo di sale può provocare dei problemi alla salute, per questo si deve evitare la dicitura "cloruro di sodio" e scrivere più semplicemente "sale". Entro tre anni, inoltre, sarà necessario stabilire nuove norme per l’etichettatura dei prodotti contenenti alcol.

Caratteristiche delle scritte. Le diciture devono avere un carattere tipografico di 1,2 mm (0,9 mm per le confezioni più piccole). Le informazioni obbligatorie, le indicazioni nutrizionali e quelle relative all’origine devono essere nello stesso campo visivo della denominazione di vendita. Quando la superficie della confezione è inferiore a 10 cm quadrati è sufficiente riportare le notizie essenziali: denominazione di vendita, allergeni eventualmente presenti, peso netto, termine minimo di conservazione ("da consumarsi preferibilmente entro …") o data di scadenza ("da consumarsi entro …"). L’elenco degli ingredienti può essere indicato anche con altre modalità (ad esempio negli stand di vendita) e deve essere disponibile su richiesta del consumatore.

Indicazione d'origine. È obbligatorio indicare il Paese d’origine o il luogo di provenienza per la carne suina, ovina, caprina e il pollame (l’obbligo scatta entro due anni dall'entrata in vigore del regolamento). La Commissione europea valuterà entro il 2016 se estendere l’origine a latte e prodotti non trasformati o mono-ingrediente e ad alcuni ingredienti come il latte nei prodotti lattiero-caseari, la carne nella preparazione di altri cibi, o altri quando rappresentano più del 50% dell’alimento. Tuttavia i legislatori nazionali potranno introdurre ulteriori prescrizioni sulla provenienza quando esista "un nesso tra qualità dell'alimento e la sua origine", come nel caso delle indicazioni geografiche italiane DOP e IGP. Inoltre l'informazione sull'origine del prodotto è obbligatoria quando la sua omissione possa indurre in errore il consumatore, ad esempio nel caso di una mozzarella fabbricata in Germania e venduta in Italia. Una precisazione utile a ostacolare il fenomeno dell'Italian sounding, ossia alimenti presentati come made in Italy ma fabbricati altrove.

Surgelati. Un alimento congelato o surgelato venduto scongelato deve riportare sull’etichetta la parola "scongelato".

Preparati a base di carne e pesce. La carne, le preparazioni a base di carne e i prodotti della pesca venduti come filetti, fette, o porzioni che sono stati arricchiti con una quantità di acqua superiore al 5% devono indicarne la presenza sull’etichetta. Le porzioni, i filetti o le preparazioni composti da diversi pezzetti uniti con additivi o enzimi, devono specificare che il prodotto è ottenuto dalla combinazione di più parti (per esempio: la carne separata meccanicamente).

Insaccati. I salumi insaccati devono indicare quando l’involucro non è commestibile.

Sostanze allergizzanti. Gli allergeni devono essere evidenziati nella lista degli ingredienti con accorgimenti grafici (grassetto o colore).

Oli e grassi. La scritta "oli e grassi" deve essere abbinata all’indicazione del tipo di olio o grasso utilizzato (es. soia, palma, arachide). Nelle miscele è ammessa la dicitura "in proporzione variabile". Entro tre anni dall'entrata in vigore del regolamento, inoltre, verrà redatto un rapporto per valutare l’opportunità di riportare la presenza di acidi grassi 'trans' (una tipologia di grassi insaturi, i cosiddetti TFA's) nella tabella nutrizionale.

Caffeina. Le bevande diverse da tè, caffè e dai drink a base di tè e caffè con un tenore di caffeina maggiore di 150 mg/l devono riportare sull'etichetta, oltre alla scritta "Tenore elevato di caffeina" (introdotta nel 2003), anche l’avvertenza "Non raccomandato per bambini e donne in gravidanza o nel periodo di allattamento".

Scadenza. La data di scadenza deve essere riportata, oltre che sulla scatole, anche sull'incarto interno del cibo. La carne, le preparazioni a base di carne e i prodotti ittici surgelati o congelati non lavorati, devono indicare il giorno, il mese e l’anno della surgelazione o del congelamento.

Rimangono esclusi dal regolamento le bevande alcoliche, gli alimenti sfusi (come l'ortofrutta) e quelli pre-incartati dai supermercati, come carni, formaggi e salumi che la grande distribuzione "porziona", avvolge nel cellophane e colloca sui banchi di vendita. Per cinque anni dall'entrata in vigore verrà fatto un monitoraggio per verificare l'applicazione delle nuove norme che, se sarà necessario, potranno essere aggiornate alla luce delle informazioni acquisite.

GLI SCANDALI CHE HANNO SPAVENTATO L'ITALIA.

Metanolo, mucca pazza, maiali alla diossina, scrive Federica Formica su “La Repubblica”.

1. VINO AL METANOLO - 1986. Il primo grande scandalo alimentare italiano colpisce al cuore uno dei nostri prodotti più amati, sia in patria che all'estero: il vino. Tutto nasce dalla sofisticazione di un vino di bassa qualità: per alzarne la gradazione alcolica i produttori aumentavano infatti la concentrazione di metanolo, trasformando la bevanda in un veleno mortale. Il bilancio è gravissimo: 19 morti tra Lombardia, Liguria e Piemonte. Diverse altre persone hanno subito danni permanenti alla vista. Il metanolo, infatti, è un prodotto naturale della fermentazione dell'uva e in piccole quantità è innocuo. Nelle bottiglie, che nella maggior parte provenivano da cantine del Nord Italia questa sostanza era presente molto al di sopra della soglia minima consentita. Il composto che ha ucciso quei 19 consumatori, oltretutto, normalmente era usato per le vernici. Lo scandalo fu talmente grave che il personale dei Nas (nati nel 1962) è stato quadruplicato subito dopo la fine della vicenda.

2. MUCCA PAZZA - 2000. Esaurita la psicosi collettiva del millennium bug, ecco che ne arriva un'altra, stavolta molto più seria. Tra il 2000 e il 2001 si diffonde dal Regno Unito la notizia che decine di migliaia di mucche, alimentate con farine prodotte con carcasse di animali infetti, avevano contratto la Bse (encefalopatia spongiforme bovina). Una malattia neurologica degenerativa che portava gli animali a stati di ansia e forte aggressività: da qui termine "mucca pazza". La malattia, però, si poteva trasmettere all'uomo, che consumando carne infetta rischiava di contrarre una variante del morbo di Creutzfeldt-Jakob (vCJD), un male incurabile. Nonostante gli allarmismi, comunque, le vittime della vCJD saranno 41 in tutto: 40 in Inghilterra e una in Francia. Nessuna in Italia. Tutti gli altri casi sono risultati slegati dal consumo di carne bovina. Tuttavia, la Bse almeno qualcosa di buono lo ha portato: da allora l'Italia ha istituito l'anagrafe bovina e l'etichettatura delle carne bovine, per consentire al consumatore di verificarne la provenienza.

3. INFLUENZA AVIARIA - 2003. La malattia dei volatili è nota da oltre un secolo. Nel 2003, però, viene accertato che un ceppo - il virus H5N1 - si può trasmettere anche agli umani. Sviluppatosi nel Sudest asiatico, il virus si è diffuso in tutta l'Asia per poi arrivare anche in Europa, Italia compresa. I sintomi per gli esseri umani sono quelli di una forte influenza che, in alcuni casi, può portare anche alla morte. Oltre a diffondersi con grande rapidità, H5N1 è un virus in grado di attaccare diverse specie: uccelli, uomini, maiali, ma anche gatti e topi moltiplicando così il rischio di pandemia. In Italia l'impatto dell'aviaria è bassissimo, ma l'allarme che si è generato ha comunque portato a un crollo dei consumi di pollo, tacchino e galline. Contro l’aviaria nel 2005 è stata introdotta in Italia l’etichettatura del pollame nazionale che ricostruisce tutta la storia del prodotto, dall'allevamento alla distribuzione.

4. MAIALI E DIOSSINA - 2008 E 2011. Nel 2008 tocca ai maiali: alcuni animali allevati in Irlanda presentano tracce di diossina - una sostanza cancerogena - superiori anche di cento volte ai limiti massimi consentiti all'interno dell'Unione Europea. Le autorità irlandesi ritirano tutta la carne suina prodotta sull'isola e l'allarme si estende in tutta Europa. Nel 2011 succede più o meno la stessa cosa, ma in quel caso la carne di maiale è tedesca. E la diossina è presente anche in tacchini, galline e, di conseguenza, uova. In entrambi i casi la sostanza nociva proviene da mangimi contaminati. Nel caso della Germania all'origine dello scandalo c'era una partita di olii prodotti da una fabbrica di bio-diesel e utilizzati per produrre il mangime.

5. FEBBRE SUINA - 2009. Il quadriennio 2008-2011 è un inferno per i produttori di carne suina. Nel 2009 lo scandalo diossina nei maiali irlandesi è ancora caldo, quando si sviluppa una nuova psicosi. Dal Messico, infatti, circa 20 persone sono morte a causa di una forte influenza (un sottotipo della A) trasmessa proprio dai maiali. Nei primi giorni il Messico arriva a sospendere ogni attività pubblica per limitare il contagio. Ma ormai è troppo tardi: il virus AH1N1 arriva presto anche in Italia, dove la percentuale di decessi è però inferiore persino rispetto alla normale influenza. C'è però una profonda differenza tra la "swine flu", e il caso Mucca Pazza: la febbre suina non si trasmette mangiando carne infetta (la cottura elimina il virus) ma come una normale influenza. Cioè soprattutto per via aerea. Sulle etichette delle carni di maiale, di cavallo e di pecora e capra (eccetto eventuali DOP o IGP) non è obbligatorio indicare l’origine sino all’entrata in vigore del nuovo regolamento UE n. 1169/2011. Occorre attendere quindi fino il 13 dicembre 2014 per la sua applicazione.

6. MOZZARELLA BLU - 2010. Aprire il frigorifero, scartare una mozzarella e accorgersi che il candore ha lasciato il posto a un'inquietante colorazione bluastra. E' successo a due donne di Trento e Torino. Ed è stato il principio di un nuovo tormentone alimentare che non si è ancora del tutto spento. Dietro allo scandalo della mozzarella blu c'è quasi sempre un batterio, lo Pseudomonas Fluorescens, che non ha alcun effetto nocivo sulla salute dell'uomo. Ma al di là dei rischi, inesistenti, la mozzarella blu ha indotto i consumatori a riflettere sulle condizioni igieniche con cui vengono prodotti gli alimenti. Il batterio infatti entra nella filiera proprio durante la lavorazione attraverso le acque di raffreddamento o perché i locali non sono sterili.

7. OLIO DEODORATO. E' una pratica piuttosto diffusa da anni: chi produce un olio di qualità inferiore - succede soprattutto quando tra raccolta e spremitura delle olive passa molto tempo - lo riscalda leggermente per togliere il cattivo odore che si crea. L'obiettivo: camuffare un normale olio di oliva da "extravergine di oliva", con maggiore valore commerciale proprio perché di miglior qualità. E' sempre stato molto difficile scoprire queste frodi ma dall'università di Bologna potrebbe essere arrivata una svolta: i ricercatori hanno individuato un particolare tipo di analisi chimiche dalle quali si riescono a individuare gli olii "taroccati". Nel frattempo, per tutelare i produttori italiani, l'Unione Europea ha stabilito regole piuttosto ferree sull'etichettatura dell'olio che entreranno in vigore dal 2014. Origine e categoria commerciale dovranno essere ben visibili e le nuove bottiglie avranno un metodo di chiusura che impedirà il riutilizzo dopo l'esaurimento del contenuto originale.

8. ESCHERICHIA COLI - 2008 e 2010. Nella galleria degli scandali c'è spazio anche per il latte. Sia nel 2008 che nel 2010 alcuni bambini si ammalano di sindrome emolitico-uremica, un'infezione renale molto grave. In entrambi i casi, il responsabile viene individuato nel latte crudo. Latte che viene venduto senza pastorizzazione e - spesso - bevuto senza bollitura. L'infezione è provocata dal batterio dell'Escherichia coli, che vive "ospite" nell'intestino delle mucche senza causare alcun sintomo. Il guaio, però, è quando le mucche vengono munte senza una pulizia perfetta delle mammelle, che durante la giornata si trovano spesso a contatto con le feci. Nel 2010 si ammalano 40 bambini; una bimba muore.

9. CARNE DI CAVALLO - 2013. In pieno inverno 2013 gli italiani scoprono che non si può stare tranquilli neanche con i ravioli e i tortellini. La Nestlè infatti è costretta a ritirare due prodotti dai supermercati di Italia, Spagna, Francia e Portogallo. Il motivo? Nel ripieno di carne, che teoricamente sarebbe dovuto essere 100% manzo, vengono trovate tracce minime di carne di cavallo. Di per sé il fatto non costituisce un pericolo per la salute dell'uomo, ma una frode commerciale. I dubbi sulla salute però rimangono: il sospetto che i cavalli macellati provenissero dal mondo delle corse è forte. In questo caso i rischi vengono dagli anti-infiammatori che gli animali da competizione assumono nel corso della loro carriera. Non a caso i cavalli da corsa non possono entrare in alcun modo nel circuito alimentare. In Italia, però, i Nas non trovano alcuna traccia né di anti-infiammatori né di sostanze dopanti neanche nei prodotti ritirati dal mercato.

10. FRUTTI DI BOSCO ED EPATITE A - 2013. L'ultimo allarme a livello europeo in termini di tempo è quello dei frutti di bosco contaminati con il virus dell'epatite A. Tutto nasce da una segnalazione della Danimarca, che osserva un aumento anomalo di casi di epatite A attribuendo la responsabilità a un frullato a base di frutti di bosco congelati. In breve anche altri paesi europei - tra i quali il nostro - osservano la stessa anomalia e anche dagli scaffali dei supermercati italiani vengono ritirati alcuni prodotti a rischio. All'origine di tutto ci sarebbero frutti di bosco provenienti da Bulgaria, Polonia, Serbia e Canada. Intanto nel Trentino Alto Adige sono stati registrati 27 contagi solo nei primi cinque mesi dell'anno. Cifre sproporzionate rispetto alla normalità.

OGGETTI PERICOLOSI INTORNO A NOI.

Siamo circondati da oggetti pericolosi. Triplicati i sequestri di prodotti tossici, scrive Valeria Ferrante su “La Repubblica”. Solo nei primi sei mesi del 2013 sono state bloccate dai Nas 848 mila merci fuori regola e con sostanze chimiche rischiose soprattutto per i bambini. Se non ci sarà un'inversione di tendenza il bilancio finale porterà a 1 milione e 800 mila i 600 mila oggetti interdetti l'anno scorso. Un aumento dei controlli. Ma soprattutto un segnale dell'aumento degli agguati alla nostra salute. Scarpe, abiti, borse. Oggetti di bigiotteria. Piastre per capelli. Contenitori monouso per il cibo. Padelle, scodelle, cucchiai in plastica. Pellicole trasparenti. Accendini. Prodotti cosmetici. Coprivolante, candele decorative. Ecco i nostri veleni quotidiani. Privi di etichettatura in lingua italiana. Pericolosi per la loro somiglianza con alimenti. A rischio chimico se a contatto con l'organismo o i cibi. Sprovvisti di marchiatura CE, o con il marchio contraffatto, per trarre in inganno gli acquirenti. Solo nei primi sei mesi del 2013, 848.697 prodotti sono stati sequestrati dal Comando dei Carabinieri Tutela per la Salute (Nas), per un valore di 6.491.000 euro. Tutta merce senza le obbligatorie norme di sicurezza e con sostanze chimiche in percentuali pericolose. Un fenomeno decisamente in crescita rispetto al 2012, quando i sequestri eseguiti dal Nas erano stati in tutto 603.298. Un aumento dei controlli, certo, ma anche e soprattutto un segnale della crescita dei prodotti rischiosi: mantenendo questo ritmo il risultato finale sarà quasi triplicato rispetto ai dodici mesi precedenti. Negli utensili che circondano la nostra vita in cucina. Nelle stoviglie che abitualmente adoperiamo. Nelle giacche, nei pantaloni, nelle magliette, nell'intimo, con i quali ci vestiamo. In quegli orecchini, nelle collane, nei bracciali che amiamo indossare. In ognuno di questi oggetti è stato trovato di tutto. Nichel nei bijoux e nelle scarpe. Cromo, in alcuni stivaletti di pelle. Piombo, nelle scatole composte da carta riciclata, in cui viene chiusa la pizza d'asporto. Formaldeide nelle ciotole in plastica. Mercurio su rossetti, ombretti, smalti per unghie, cosmetici e creme schiarenti. Un lungo e dettagliato elenco che chiunque può consultare sul sito del ministero della Salute dove puntualmente si segnalano ( e si aggiornano) tutti quei prodotti a rischio e ritirati dal commercio, con il decisivo contributo delle attività di controllo delle forze dell'ordine (oltre ai Nas è impegnata la Guardia di Finanza) e le analisi di laboratorio effettuate dall'Istituto Superiore della Sanità.

La classifica. Un problema che non interessa solamente l'Italia ma tutta l'Unione Europea. Secondo il rapporto RAPEX 2012 sono state 2.278 le misure prese contro i prodotti pericolosi (non alimentari) commercializzati fra gli Stati dell'Eurozona. Le notifiche sono avvenute proprio grazie al sistema europeo di allerta rapido per i prodotti non alimentari, chiamato Rapex, che ha registrato una crescita del 26% rispetto al 2011. In cima alla classifica delle merci con sostanze chimiche nei confronti dei quali sono state prese misure correttive, ci sono vestiti e capi di moda, apparecchiature elettriche, veicoli a motore, cosmetici. Nella maggioranza dei casi si tratta di di oggetti di consumo provenienti da paesi extraeuropoei. In particolare: Cina, Indonesia, Hong Kong, Taiwan, Malesia. "Quando si parla di stanze chimiche bisogna stare attenti", spiega la dottoressa Rosaria Milana dell'Istituto Superiore di Sanità. "Nessun oggetto che entra in contatto con il consumatore è inerte. Questo è un concetto importante perché in chimica non esiste l'immobilità tra gli elementi, c'è sempre un'interazione: più usiamo un oggetto, più le sostanze sono migrabili. Bisogna anche dire che non esiste un prodotto che sia tossico in assoluto. Tutto dipende sempre dal contatto, dall'uso che se ne fa e dal soggetto a cui è destinata la merce. Per esempio se si tratta di un adulto o di un bambino. Negli oggetti esistono dei livelli, stabiliti attraverso studi e sperimentazioni, da rispettare per salvaguardare la salute degli esseri umani, ed evitare quindi l'eccesiva migrabilità delle sostanze e di conseguenza la loro contaminazione". Criteri di sicurezza che purtroppo non sempre vengono rispettati. Così un'innocua scodella di plastica dura, acquistata al mercato, può rilasciare percentuali eccessive di formaldeide. "Nel caso delle ciotole da noi analizzate", precisa Milana, "provenienti quasi tutte dalla Cina, i livelli di tossicità, e quindi il rischio chimico, va considerato a lungo termine. Non esistono cioè veleni acuti, ma percentuali minime; parliamo di milligrammi che distribuiti nel tempo e assimilati di volta in volta dall'organismo, possono creare problemi più o meno gravi a seconda della sensibilità di ciascun individuo, peso corporeo, età".

I più esposti. I bambini restano i soggetti più esposti. La maggior parte degli allarmi riguardano prodotti loro rivolti. Sempre secondo il rapporto Rapex 2012, i rischi maggiori si trovano nel 19% dei casi nei giocattoli. Anche per questa categoria l'elenco fornito dal ministero della Salute è purtroppo lungo. Spade di plastica al cromo, bolle di sapone con batteri mesofili (psedomonas aeruginosa) in grado di provocare infezioni. Torce elettriche, come gadget-sorpresa racchiusi all'interno di patatine e uova di Pasqua, che si surriscaldano e si sciolgono. Giocattoli con sostanze pericolose (come acetofenone, isottanolo, cromo) rilevate nelle confezioni di plastica e classificate irritanti se poste a contatto con gli occhi o ingerite. Così quella splendida principessa da vestire con abiti scintillanti, quei teneri bambolotti da coccolare, quelle colorate maschere con cui travestirsi a Carnevale, quelle eroine e supereroi che appassionano e fanno sognare schiere di bambini, possono trasformarsi in potenziali mostri "farciti"di ftalati dalla testa ai piedi. Si tratta di composti chimici usati come agenti plastificanti, per modellare i giocattoli e renderli più morbidi. L'allarme aumenta in modo considerevole a seconda dei periodi dell'anno: durante le vacanze estive (quando si usano braccioli e materassini), alla ripresa della scuola (per gli zainetti, le matite, le gomme per cancellare), le festività natalizie (con i giocattoli, 60 mila dei quali sequestrati dai Nas solo nel 2012), il periodo di Carnevale. Tutte occasioni legate all'acquisto di doni e giocattoli. Il ministero della Salute li considera periodi di massima attenzione la nostra difesa. Ha redatto una sorta di guida sui prodotti a rischio e sui comportamenti da adottare. Si può consultare online ed è scaricabile in pdf. Il titolo spiega tutto: "Attenzione agli ftalati. Difendiamo i nostri bambini".

I sequestri. "Le verifiche, gli accertamenti, i sequestri sono costanti", spiega il capitano Dario Praturlon, ufficiale dei carabinieri del Nas. "Facciamo ispezioni presso i distributori e i negozianti. Molti prodotti per fortuna vengono immediatamente bloccati alla dogana. In questo modo si evita che entrino nel territorio italiano e vengano commercializzati". È il caso dei container sequestrati, nel porto di La Spezia, pieni di confezioni di "bolle di sapone", provenienti dalla Repubblica Popolare Cinese ed importati da un operatore commerciale fiorentino. Prodotti privi di idonea certificazione sanitaria, nei quali sono state evidenziate massicce presenze di microrganismi (tra i quali il micidiale "pseudomonas aeruginosa") in quantità tale da costituire un concreto pericolo per la salute pubblica. Persino i "tappetini a mattoncini" dove i bambini di un anno di solito gattonano e giocano, sono stati ritirati dal commercio per la presenza, nell'amalgama plastica, di sostanze chimiche (acetofenone ed isoottanolo), irritanti e tossiche se ingerite. Cosa fare? Come comportarsi? Come difendersi da pericoli invisibili ma spesso presenti? "Ci vuole molta prudenza", suggerisce il capitano Praturlon. "Bisogna sempre acquistare i giocattoli nei negozi specializzati, autorizzati, di fiducia". La fretta, le occasioni, i facili risparmi possono essere deleteri. "Evitate i rivenditori estemporanei", esorta l'investigatore. "Verificate sempre la presenza di istruzioni in italiano, soprattutto in fatto di precauzioni e modalità d'impiego. Accertate la presenza della certificazione CE. Diffidate dei prezzi troppo bassi". Suggerimento quest'ultimo difficile da seguire, soprattutto per una famiglia in cui, pur di non negare un gioco al proprio bambino, si compra, ma cercando di risparmiare.

Creme al mercurio e rossetti al piombo, scrive Valeria Ferrante su “La Repubblica”. Cresce la richiesta di prodotti schiarenti. Soprattutto su internet. Ma nella maggior parte dei casi di tratta di materiale insicuro nel quale, spesso, sono state scoperte alte concentrazioni di sostanze velenose, come l'idrochinone il cui uso è vietato. Ma il loro uso alla fine crea delle vere e proprie dipendenze che genera malattie di tipo psicologico. Tanto che oggi si comincia a parlare di "bulimia da cosmetici". G. ha vent'anni e una carnagione olivastra. Ma ha deciso di diventare bionda e quindi pensa di dover schiarire il più possibile il colore naturale del suo viso. C'è poi B. che vorrebbe a tutti i costi eliminare le fastidiose macchie scure formatesi sulla pelle. C'è la trentaseienne R. che dichiara guerra al sole e ai raggi UV. E per questo pensa che bisogna mantenere, in ogni modo, la pelle chiara. Infine fra la folta schiera di donne di colore c'è chi considera necessario, per superare discriminazioni razziali ed essere accettate nelle società occidentali, sbiancare il più possibile la pelle scura. La richiesta di cosmetici schiarenti è in continua crescita. Ma non sempre si tratta di prodotti sicuri. Anzi. In molte di queste lozioni sono state trovate alte percentuali di mercurio, tanto da destare serie preoccupazioni e indurre l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ad intervenire. Tra i maggiori prodotti ritirati dal mercato dell'Unione Europea nel 2012 ci sono proprio gli sbiancanti per la pelle: contenevano idrochinone, il cui uso è vietato nei cosmetici e nei prodotti per l'igiene personale. All'appello non mancano certo i makeup per le più piccole: kit cosmetici, dedicati alle bambine, trovati privi delle prescritte indicazioni in etichetta, di marcatura CE. Sono risultati pieni di nichel e piombo. La pubblicizzazione e la vendita di questi prodotti avvengono anche su internet; ed è sulla rete, attraverso siti, forum, blog, video, che molte donne si scambiano opinioni, consigli, suggerimenti. Parole, frasi che rivelano, spesso sotto traccia, il sintomo di un malessere più diffuso di quello che sembra che andrebbe affrontato non tanto con delle lozioni, tra l'altro non del tutto sicure, ma con il contributo di esperti. Il ricorso a qualsiasi tipo di cosmesi, quando non è oculato, libero da implicazioni psicologiche, aspettative miracolose, è un boomerang: genera vere e proprie dipendenze. È un disagio sottovalutato e sottostimato, mentre invece risulta diffusissimo tra adolescenti e donne più mature. Non è un caso che si cominci a parlare di "vittime da cosmetici", "bulimia da cosmetici". Anche in questo caso basta consultare i tanti forum al femminile presenti su internet per farsi un'idea. Nell'universo dei prodotti estetici, soprattutto quelli non convenzionali, non prodotti nei paesi UE (nonostante esistano purtroppo delle eccezioni) è bene muoversi con cautela. Il rischio è incorrere in prodotti che possono rivelarsi di scarsa qualità o peggio dannosi quando le sostanze contenute non sono nelle percentuali giuste, non sono autorizzate o non sono riportate correttamente nell'INCI (International Nomenclature of Cosmetic Ingredients), denominazione internazionale utilizzata per indicare in etichetta i diversi ingredienti del prodotto cosmetico. L'Organizzazione mondiale della sanità ha infatti lanciato un allarme: "Attenzione a creme e saponi, soprattutto quelle acquistabili sul mercato online". Alcuni prodotti contenevano mercurio come agente attivo. Il mercurio è un metallo, può procurare danni ai reni, alla pelle, perché tossico. Eppure c'è ancora chi lo usa nei prodotti detergenti per gli occhi, come il mascara o le creme schiarenti, dove può provocare: decolorazione, cicatrici, riduzione della resistenza della pelle a infezioni batteriche e fungine. L'utilizzo del mercurio è stato proibito sia nell'Unione Europea che in varie nazioni africane, dove il fenomeno della decolorizzazione è maggiormente diffuso, mentre i sali di mercurio fenile per i trucchi e i detergenti degli occhi sono consentiti in concentrazioni fino allo 0.007%. Negli Stati Uniti invece la concentrazione è di 65 mg/kg. In Italia il consiglio lanciato dal Ministero della Salute è identico ad altri del settore: "Leggere sempre le etichette". Ma chi ha delle conoscenze chimiche elementari o nulle, come può decifrare le composizioni presenti in un flaconcino beauty per il viso, corpo, capelli? Sembra un'impresa impossibile. "In questo caso conviene scegliere prodotti di qualità, in grado di offrire garanzie al consumatore", spiega la dottoressa Rosaria Milana, dell'Istituto Superiore della Sanità. Il punto però è che con una riduzione delle possibilità economiche da parte degli acquirenti, comprare prodotti di marca, in genere costosi, diventa difficile. E spesso pur di mantenere una certa abitudine legata al benessere personale o a esigenze estetiche, si ricorre a prodotti sconosciuti, sottomarche distribuite un po' ovunque. Ed è così che si può diventare facilmente vittime del prodotto acquistato. Un'azienda, nella provincia di Bologna, si era improvvisata nell'attività di produzione e confezionamento di cosmetici. Creme di bellezza, a basso costo: "Utilizzavano materie prime, di provenienza tedesca e cinese", ricordano i carabinieri dei Nas di Bologna, "senza disporre di personale qualificato, né dei prescritti dossier tecnici, relativi alle caratteristiche ed alla composizione dei prodotti". Il lavoro dei militari, sempre più attivi sui sequestri, sembra però vanificato da abitudini difficili da cambiare. Il settore della cosmetica è tra i pochissimi a non essere toccato dalla crisi. Donne e uomini spendono sempre molto per la cura del proprio corpo. E chi non se la può permettere è anche disposto a mettere a rischio la salute.

Dilagano i traffici dei rifiuti tossici nelle fabbriche dei lavoratori in nero, scrive ancora Valeria Ferrante. La delocalizzazione di migliaia di industrie ha lasciato il posto  ad altrettante aziende con manodopera clandestina. Tutto questo ha incrementato il sommerso, azzerato le misure di prevenzione, aumentato i rischi per la salute dei lavoratori. Con smaltimento in roghi velenosi delle sostanze nocive utilizzate, inquinamento dell'aria, del terreno, delle falde acquifere. Un pericolo che ci riguarda tutti. Nell'ultimo anno e mezzo la recessione ha investito tutti i principali settori produttivi. Lo sostiene il rapporto annuale 2013 dell'Istat. Circa 3.000 imprese, pari al 13,4 per cento delle grandi e medie aziende, dei servizi, pur di abbattere i costi, hanno avviato processi di delocalizzazione. E non è certo un caso che la Cina, il Bangladesh, siano diventati i due maggiori "importatori" di lavoro. Tutto questo in Italia si è tradotto con una riduzione dell'occupazione. Solo nel 2012 sono andati perduti 34 mila posti di lavoro. Uno scenario preoccupante. E c'è dell'altro. La contrazione della crescita industriale, la minore disponibilità di risorse economiche, l'assenza di incentivi alle imprese, la difficoltà di accesso al credito per le piccole realtà produttive, incrementa il lavoro nero. «Se esitono dei rischi per la salute dei lavoratori, si amplificano nel momento in cui entra in gioco il "sommerso". Un mondo dove, è chiaro, non possiamo intervenire  - piega Liliana Frusteri, chimico Inail per la consulenza tecnica accertamento rischi e prevenzione- E dove soprattutto non esistono regole». Lavoro in nero è sinonimo di: manodopera clandestina. E ancora: di smaltimento illecito dei rifiuti, roghi tossici. Inquinamento dell'aria, del terreno, delle falde acquifere. A Nord di Napoli, in particolare nelle zone del basso casertano, ad Acerra, San Giuseppe Vesuviano, Nola, Polvica, Marigliano, Roccarainola, Tufino, Palma Campania  San Gennaro. Qui è localizzato, il "Triangolo della morte". Qui si concentrano le fabbriche abusive, soprattutto per abbigliamento. E sempre qui lo sversamento degli scarti di produzione è a dir poco selvaggio. A San Giuseppe Vesuviano è stata scoperta una ditta di confezionamento abiti del tutto fuorilegge che operava nel più completo degrado igienico. Perché gli extra comunitari che lì lavoravano, senza mai essere stati assunti, in quegli stessi locali ci vivevano. Mangiavano. Dormivano. Dentro un ambiente interrato senza alcuna areazione. Ammassati in 200 mq con macchine e apparecchiature, tagliavano, cucivano gli abiti, vi apponevano i marchi di note aziende tessili. Una condizione del tutto simile alla schiavitù. Più di un "operaio", hanno scoperto i Vigili Urbani durante il blitz, era clandestino. Infine sacchi pieni di ritagli di stoffa erano pronti per finire nelle tante discariche abusive dislocate nel territorio. In attesa di essere bruciati. E basta fare un giro tra via Macedonio Melloni (a San Giuseppe Vesuviano), via Lavinaio (a Poggiomarino) per trovare kilometri e kilometri di tonnellate di balle di pezze che vengono scaricate dalle industrie tessili. Ma insieme a queste si trova di tutto: liquidi tossici, copertoni, resti di roghi precedentemente appiccati. A denunciare i continui attentati che il territorio campano subisce sono i componenti di rifiutarsi.it. Nel loro sito internet, nella loro pagina di facebook, pubblicano foto, caricano video, che puntualmente documentano un disastro ambientale dalle proporzioni gigantesche. Un sfregio che avviene nell'indifferenza o forse peggio nell'impotenza delle amministrazioni locali. «I clan approfittano delle strade al confine o, meglio ancora, di quelle contese tra più enti, per smaltire illegalmente i rifiuti - scrive a commento alle immagini il team di rifiutarsi.it - Per facilitare il lavoro e aumentare ulteriormente il loro guadagno, i camorristi hanno pensato bene di installare due discariche di pneumatici. Le gomme vengono usate per aumentare il potere calorifico della combustione tossica e sono posizionate alla base del rogo, su cui poi vengono gettati gli scarti tessili. Un mix che bruciando rilascia nell'aria grandi quantità di diossina. Non è escluso che i panni tessili siano anche utilizzati come spugne per assorbire i rifiuti tossici liquidi. In questo modo si brucia tutto in un sol colpo, si eliminano le prove e si crea spazio per i nuovi scarichi». La quantità di diossina che si disperde nell'aria è incalcolabile. Per questo non si esita a definirlo un vero e proprio "Biocidio". Sono in aumento anche i casi di incidenza tumorale: più del 15% delle donne tra i 30 e 35 anni, contrae un cancro alla mammella, tumori allo stomaco, linfomi. Gravi patologie, che in altri territori hanno percentuali molto più basse. Sempre in Campania i Carabinieri del Noe di Caserta hanno bloccato un traffico di rifiuti illeciti e d'indumenti, destinati poi alla vendita nel mercato di Resina. Un business superiore ai 10 milioni di euro. Perché la "monnezza" per la camorra vale oro. I rifiuti tessili, importati soprattutto dalla Germania, venivano poi esportati all'estero (Bolivia, India, Tunisia ecc.):  etichettati falsamente come merci recuperate, e senza alcuna igienizzazione, come invece previsto dalle norme ambientali e sanitarie. «La "merce" -si legge nel comunicato della Direzione Distrettuale Antimafia della Procura di Napoli- venduta verso i Paesi "poveri" dell'America Latina, Asia, Africa, era frammista a rifiuti di ogni altra tipologia: escrementi, farmaci scaduti, cibi avariati e simili». Ma la situazione non è migliore neppure nel distretto industriale di Prati. Loculi dormitorio, nascosti con tramezzi e impalcature, erano diventati la casa per alcuni immigrati, che in nero lavoravano dentro fabbriche dove si confezionavano capi di abbigliamento. A gestire la produzione erano persone di nazionalità cinese, che avevano importato circa 74mila rotoli di tessuto sprovvisto d'etichettatura, per un peso complessivo di 1.265 tonnellate e un valore commerciale di 13 milioni di euro.

Massima allerta nei vestiti che indossiamo, uno su dieci provoca infezioni sulla pelle, continua Valeria Ferrante. Riguardano questo settore il 34 per cento delle misure del Rapex, la struttura che sorveglia i prodotti non alimentari. Una denuncia della Lega antivivisezione sulle pellicce tossiche negli abiti per bambini è sul tavolo del pm Guariniello. Una situazione preoccupante confermata anche dal rapporto RAPEX 2012 (sistema europeo di allerta rapido per i prodotti non alimentari) che mette al primo posto della classifica per sostanze chimiche a rischio: vestiti e capi di moda, con il 34% di misure correttive avviate. Non più solo un'esigenza estetica. Non più solo un modo per proteggere, coprire il corpo. Vestirsi rischia adesso di trasformarsi in un serio problema. Se l'abito, la t-shirt, l'intimo, il jeans sono stati trattati con inchiostri plastisol o contengono nichel, pentaclorofenolo, coloranti. Tutte sostanze chimiche che superiori ai parametri eco-tossicologici possono diventare pericolose. Non è un caso che il 7-8 % delle patologie dermatologiche sono dovute a capi d'abbigliamento. Ed è proprio l'Associazione Tessile e Salute diretta da Massimo Rossetti a rendere noto il dato. Dopo aver svolto un'indagine sul territorio nazionale, analizzato campioni prelevati dal mercato per cercare la presenza di sostanze pericolose, il resoconto che ne viene fuori non è affatto positivo. Tra i tessuti analizzati dall'Associazione, responsabile dell'Osservatorio Nazionale Tessile, voluto dal Ministero della Salute, si è riscontrato che i livelli di PH nel 29% dei casi non venivano rispettati. Non solo. Nei tessuti è stata riscontrata la presenza di metalli pesanti (6%), ammine aromatiche cancerogene (4%), coloranti allergenici (4%), formaldeide (4%). Mentre su calzature in pelle o cuoio, soprattutto d'importazione, si è scoperto che il 50% di queste conteneva cromo VI: un agente cancerogeno. Secondo un'altra inchiesta svolta dalla SIDAPA (Società Italiana di Dermatologia Allergologica Professionale e Ambientale sulle dermatiti da tessuti) su 401 pazienti (dai 5 agli 84 anni) i tessuti erano causa di allergie per il 69,1% dei casi; gli accessori metallici dell'abbigliamento per il 16,5%;  le scarpe per il 14,4%. Una situazione preoccupante confermata anche dal rapporto RAPEX 2012 (sistema europeo di allerta rapido per i prodotti non alimentari) che mette al primo posto della classifica per sostanze chimiche a rischio: vestiti e capi di moda, con il 34% di misure correttive avviate. E non va meglio neppure per l'abbigliamento dei bambini. "Abbiamo acquistato 6 capi, piumini, cappottini, per minori dai 18 mesi ai 12 anni, delle migliori marche italiane", racconta Simone Pavesi responsabile LAV (Lega Anti Vivisezione), "un laboratorio specializzato ne ha analizzato le parti in pelliccia. Abbiamo trovato: pentaclorofenolo, formaldeide, tetraclorofenolo, nonilfenolo etossilato". Un caso shock. I dati elaborati dalla LAV sono finiti in mano alla magistratura, al Pm Raffaele Guariniello, della Procura di Torino, che sta aspettando adesso il risultato delle nuove analisi, rielaborate proprio dall'Associazione Tessile e Salute, per volere del Ministero. La merce intanto è stata tutta ritirata dal commercio e posta sotto sequestro. "Le leggi vigenti in materia di tutela del consumatore sono obsolete o carenti", afferma Massimo Rossetti, "in più, nel 34% dei casi, la composizione delle fibre riportate in etichetta è sbagliata". Ma come difendersi allora? Alcuni consigli per orientarsi nel mondo dell'abbigliamento tra fibre sintetiche, cotoni Ogm, falsi tessuti certificati bio, coloranti e altro sono disponibili nel sito dell'Associazione Tessile e Salute. "Cerchiamo di informare gli utenti sulle normative, sull'acquisto dei prodotti e su come interpretare le etichette di composizione", spiega sempre Rossetti. Tra le altre sostanze ad avere un forte impatto sul tessile, considerate dannose, ci sono le SVHC  -  Substances of Very Hight Concern- che comprendono le sostanze CMR  -cancerogene, mutagene e tossiche per il sistema riproduttivo; le sostanze PBT -persistenti, bioaccumulabili e tossiche; le sostanze vPvB -molto persistenti e molto bioaccumulabili. Purtroppo nono sono le uniche. "Nei nostri vestiti, in ogni fase del loro ciclo di vita, quantità apparentemente piccole di NPE (nonilfenoloetossilati) permangono sui tessuti", dichiara Chiara Campione responsabile Greenpeace, "Queste sostanze, oltre ad essere potenzialmente rischiose per la salute, cumulandosi negli scarichi, durante il lavaggio, possono disperdersi nelle acque, contaminando l'ambiente". Questo fatto non sembra proprio in cima ai pensieri del mercato, che soprattutto nella moda esige collezioni nuove a tempi record, chiedendo ai fornitori  consegne sempre più rapide. A quale prezzo? La cosiddetta "moda veloce", condiziona i cicli produttivi delle imprese italiane, battute sui tempi da Cina, Vietnam, Taiwan, Arabia Saudita. Paesi dove il rispetto per i lavoratori o il territorio non è garantito. Dove i prodotti spesso non sono conformi ai requisiti eco-tossicologici. Eppure lo stesso vengono importati e venduti in Europa. Una situazione paradossale. Le imprese della UE devono rispondere a requisiti inerenti la sicurezza della merce, dei processi produttivi, come prevede il REACH (il Regolamento per la Registrazione, la valutazione, l'autorizzazione e la restrizione delle sostanze chimiche). Però articoli tessili contenenti sostanze tossico-nocive, il cui utilizzo è vietato o ristretto in Europa, sono comunque introdotti nel territorio comunitario. E così non sono poche le aziende che hanno deciso di delocalizzare parti delle loro fasi produttive in paesi extra UE. "Nei casi in cui è stato possibile correlare la patologia al tessuto che l'ha determinata si è trattato nel 100% dei casi di capi d'importazione", sostiene lo studio dell'Associazione Tessile e Salute. E il consumatore? Non è messo in condizioni di conoscere la provenienza delle merci, e neppure le potenziali criticità eco-tossicologiche correlate.

LA MAFIA IN TAVOLA ED IL CIBO CRIMINALE.

"La Mafia a tavola", un libro scritto da Jacques Kermoal - Martine Bartolomei. Incipit. "Dodici anni di permanenza in Italia mi hanno insegnato che mafia e gastronomia sono strettamente intrecciate. I pezzi da novanta, come vengono chiamati i capi dell’Onorata società, in virtù della loro importanza, rifiniscono i propri menù con la stessa cura che mettono nella preparazione dei crimini. «Cucinare il delitto» è un’espressione insulare il cui significato è tutt’altro che casuale. Dalla data della sua fondazione, che coincide pressappoco con quella del trattato di Vienna del 1738, le gesta della mafia sono state segnate da pasti, banchetti, festini, pranzi, cene clandestini nel corso dei quali i capi si riuniscono o si incontrano per celebrare compleanni, festeggiare successi o organizzare la riscossione del pizzo." Quando nel 1862 Garibaldi partì da Caprera per le coste della Sicilia, da dove intendeva risalire la penisola per conquistare Roma, l’Eroe dei due mondi non poteva certo aspettarsi un invito a cena da parte dei notabili siciliani, scrive Angelo Piero Cappello. E invece ciò avvenne: sulla tavola imbandita, prosciutto affumicato della Conca d’Oro e agghiotta di pesce spada. Il baccalà alla messinese e lo stufato di gallinelle farcite al tartufo furono il giusto intermezzo prima della portata più pesante: cosciotto di capriolo marinato all’acquavite di prugne d’Agrigento e agnello arrostito con olio extravergine di olive di Caltanissetta. Alcuni cavolfiori, carciofi e sedano, formaggio di capra sicula. E per chiudere: creme, gelati, torta a più piani, pignolata e mele alla cannella, il tutto innaffiato da marsala all’uovo… Il 12 marzo 1909, in uno dei mercoledì dedicati al pranzo con l’amico deputato Michele Ferrantelli, il capomafia don Vito Cascio Ferro interrompe il suo desinare per andare a sparare in bocca  a Joe Petrosino, poliziotto italo-americano giunto in Trinacria per indagare sui traffici internazionali della mafia. Rientrato al suo pranzo con il deputato, Don Vito si scuserà dell’inconveniente con il commensale, tornando prontamente ad affondare il cucchiaio nella cassata servita come dessert… Il 27 agosto 1970, a pranzo in casa del Procuratore antimafia Scaglione, il giornalista Mauro De Mauro racconta come è stato ucciso Enrico  Mattei: polpa di aragosta alla maniera di Castellammare del Golfo, insalata di pasta tiepida alla panna. Prima che fosse servita la carne, una confessione che costò, poi, la vita a De Mauro… Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nel giugno 1982, cena in compagnia del figlio Nando e del procuratore generale della Repubblica Pajno: vermicelli alla maniera di Siracusa, vermicelli al nero di seppia, tonno alla siracusana e cernia al forno. Fra una portata e l’altra, il procuratore avverte: il clan di  Nitto Santapaola, al soldo di Luciano Liggio, adopera spietatamente i kalashnikov contro i tutori della legge…Gastronomia isolana e storie di stragi e sangue del nostro Belpaese: il binomio non è certamente tra i più azzeccati, né d’altra parte credo ci sia alcuno, tra i lettori, a cui si possa stimolare l’appetito con 55 ricette di cucina siciliana se poi il ‘contorno’ narrativo è quello delle peggiori e più spietate stragi mafiose. Se l’idea di raccontare la mafia attraverso la tradizione gastronomica siciliana (o, forse, ma non si capisce bene, l’intento è viceversa di raccontare la gastronomia isolana legandola ai dati salienti della storia della criminalità organizzata e dei suoi legami con politica, banche e occulti poteri ecclesiastici) è già balzana in sé, ancora più fuori luogo trovo il mettere insieme il soffritto di cipolle all’agro ibleo con i rivoli di sangue raggrumati, e lasciati per sempre sul selciato, dal morto ammazzato di turno. Mafia e gastronomia, dunque, sarà forse anche un binomio indissolubile - come recita la quarta di copertina - ma è davvero improbabile trovare degli estimatori di pasta al nero di seppia e rigor mortis del cadavere ammazzato a colpi di lupara!

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La contraffazione dei prodotti alimentari e dei marchi è il segnale di organizzazioni mafiose a monte. Oltre ad arrecare danni all’UE, le manipolazioni alimentari vanno a danneggiare in primis i cittadini, la loro salute e le loro tasche ma nonostante tutto il fenomeno è in aumento. Esiste, poi, la criminalità agricola che negli ultimi 5 anni ha visto circa 25 mila imprese chiudere per usura e debiti e oltre 350 mila agricoltori subire danni della criminalità. E intanto sulle nostre tavole arrivano prodotti ortofrutticoli ricchi di pesticidi cancerogeni., scrive Maria Cristina Giovannitti su “L’Infiltrato”. La criminalità alimentare è un fenomeno, soprattutto negli ultimi anni, in forte aumento e vista la dannosità di massa che può apportare ai cittadini diventa sempre più un terrorismo alimentare. La criminalità - camorra,’ndrangheta e mafia - in toto è interessata, indistintamente, all’agro-alimentare perché ‘terreno’ fertile e duraturo, visto che gli alimenti sono bisogni primari necessari. Per le mafie investire nell’agricoltura e nell’alimentazione significa avere garanzie certe. E così accade sempre più spesso che i clan accorpano ettari di terreni, li acquistano e lì investono costruendo centri commerciali che servono a sbaragliare la concorrenza, strozzando il mercato locale e tenendo in pugno l’economia del posto. L’agricoltore, sfavorito dal suo lavoro isolato, molto spesso è una preda vulnerabile ed agognata dalla malavita e cede a certi compromessi. Secondo questa logica un terzo degli agricoltori - 350 mila - subisce danni dalla criminalità e sono colpiti da 240 reati al giorno - 8 ogni ora: in aumento l’abigeato – il rapimento di bestiame -, le contraffazioni dei marchi alimentari a danno dell’Unione Europea, le macellazioni clandestine e le discariche abusive. Il business delle mafie sull’agricoltura è molto alto: si stima un guadagno di circa 50 miliardi di euro all’anno. Secondo il dossier ‘Pesticidi nel piatto’ i prodotti ortofrutticoli sono pieni di pesticidi, usati in agricoltura per preservare il prodotto ma cancerogeni per la nostra salute. La tossicità delle sostanze pesticidi deriva dalla loro unione con altri principi attivi resi dannosi.  Per esempio nella frutta c’è gran parte dei multi residui – è il quantitativo di residui chimici/ tossici che si trovano negli alimenti - in particolare il 52, 4 per cento è nelle pere, il 44,7 per cento è nell’uva, 43,3 per cento nelle mele e 42 per cento di sostanze chimiche si trovano nelle fragole. Nella provincia di Bolzano circa il 65 per cento delle mele contiene multi residui. Tra gli illeciti alimentari si riscontra un alto numero di irregolarità in Emilia Romagna con campioni di pere, fragole, pesche e ciliegie di cui non sappiamo neanche la provenienza europea o non e in Veneto dove in fragole e piselli sono state riscontrate sostanze chimiche in Italia bandite da anni. Il problema riguarda la salute del cittadino e anche l’ambiente perché nel momento in cui i pesticidi vengono utilizzati in agricoltura, si inquina il terreno e le acque. Teniamo conto che una sostanza può essere innocua da sola ma combinata con altre può dare tossicità. La lunga esposizione ai pesticidi porta problemi alla tiroide - in particolare sviluppa l’ipotiroidismo - e il morbo di Parkinson. Gli effetti si riscontrano anche dopo decenni. Per esempio l’uso del DDT, proibito in Italia dagli anni ’50, oggi è usato sottoforma di DDE ed aumenta i rischi di tumore al seno. Il grande problema è reso da una NORMATIVA del tutto inesistente in Italia, manca un regolamento specifico che si esprima in merito al problema dei multi residui negli alimenti e che studi l’azione combinata dei vari principi chimici, che è causa di tossicità. Bisognerebbe mettere appunto quali sono i rischi combinati dall’uso e dall’esposizione ai pesticidi anche se il Governo si muove indifferente in tal senso: sulla questione pesticidi c’è un disegno di legge che giace in Senato ormai da anni.

La tavola è il luogo dove ogni giorno milioni di persone consumano i loro pasti e il tutto rappresenta, che vi piaccia o no, uno dei più grandi snodi dell’illegalità all’italiana. Solo per citare qualche esempio possiamo ricordare che un’anguria, appena raccolta, vale circa 10 centesimi per poi esser venduta con un prezzo di quasi 12 volte in più o anche il pomodoro pachino che parte dalla Sicilia per arrivare in Campania per esser ripulito e confezionato per poi far ritorno al mercato di Ragusa e successivamente distribuito in tutta Italia, naturalmente con il prezzo lievitato. Ci sono tanti esempi che possiamo riportare, come ricorda anche A. Pergolizzi di Legambiente che ha denunciato nel 2011 le infiltrazioni mafiose nel settore agroalimentare alla Commissione agricoltura della Camera. La tavola nasconde sotto i nostri occhi, posto all’interno dei nostri piatti un giro d’affari di oltre 50 miliardi di euro per la mafia, quindi come voce si pone alla pari a quello del traffico di droga, all’usura, commercio o del pizzo sugli appalti. Da Napoli il procuratore aggiunto Cafiero De Raho insieme ad un suo collega, Franco Roberti, parlano di come Cosa Nostra controlla i grossi mercati, mentre i Casalesi gestiscono i trasporti della merce su gomma, la ‘Ndrangheta invece si è infiltrata in modo particolare nei mercati del Nord. In Puglia le organizzazioni criminali gestiscono il lavoro degli extracomunitari, circa 27 mila in tutta la regione nel 2008. Certo, quando parliamo di caporalato non possiamo non ricordare i fatti ormai tristemente famosi di Rosarno nel 2010 e la rivolta degli “schiavi“. Da quando il prodotto nasce dalla terra vi è un’attività di intermediazione che ha come scopo quello di far lievitare i prezzi, portando il contadino all’esasperazione, visto che i suoi di prodotti vengono comprati a pochi centesimi al kg. In questo contesto nasce “Libera” l’associazione antimafia di don Ciotti che tra le tante cose si occupa di REGALARSI, con l'aiuto degli amici comunisti tra le istituzioni, i prodotti delle terre confiscate alla mafia in tutta Italia. Il clan Schiavone controlla, dal canto suo, tutti i trasporti su gomma e proprio grazie ad una intercettazione telefonica è venuto fuori il nome di Costantino Pagano ovvero colui che gestiva la ditta di trasporti La Paganese. Loro e centinaia di proprietari di piccoli tir sono stati arruolati nel corso del tempo per trasportare principalmente l’insalata, prodotto molto leggero, fragole e castagne, come del resto ha confermato il pentito Felice Graziani che procurava alla Paganese la materia prima. Molte volte nei Tir al loro interno, oltre le varie verdure, si potevano trovare, tra le cassette, anche armi e cocaina, altri due settori prolifici per l’attività mafiosa in quelle terre. In questo mercato i nomi importanti si sprecano, possiamo citare i fratelli Sfraga, referenti di Riina e Provenzano, Matteo Messina Denaro, in Sicilia il suo clan oltre a gestire questo importante mercato controlla anche una parte notevole della vita politica dell’isola. A Trapani e provincia Denaro ha addirittura imposto una tassa sui Tir che si aggira sui 50 euro, veicolando anche l’emergenza idrica tra Enna e Agrigento; infatti non dobbiamo dimenticare che la mafia in quelle terre è, tra le tante cose, proprietaria dei pozzi quindi sono loro a portare l’acqua agli agricoltori facendola pagare a livelli altissimi e se a questo aggiungiamo che gli intermediatori tra il prodotto raccolto e la vendita sono per lo più collusi col sistema mafioso, il tutto porta l’agricoltore a vendere le sue terre e il gioco è fatto. Il rapporto “Ecomafia” del 2008 parla chiaro: ogni giorno nel Sud Italia vengono commessi qualcosa come 761 reati legati all’agricoltura, quindi abbiamo estorsioni, controllo dei prezzi, mercati, “mediatori“, furti di animali per il mercato clandestino e anche furti di macchinari agricoli, che poi vengono smontati e rivenduti. Nella grande distribuzione dalle intercettazioni escono i nomi di aziende importanti a livello nazionale e non solo, Carrefour, Gs, Conad, Esselunga, solo per citarne alcuni. Naturalmente non possiamo dimenticare alcuni prodotti tipici del Centro-Sud come l’aceto balsamico di Modena, infatti l’oro nero è stato venduto come Dop quando in realtà era solamente un derivato e il tutto ha coinvolto circa 20 industrie tra Lazio, Puglia, Toscana e naturalmente Emilia Romagna. Anche le famose mozzarelle di bufala campane sono state vendute come Dop quando in realtà venivano contraffatte con latte proveniente da varie città del Nord. Tra i prodotti possiamo trovare anche il vino di bassa qualità e i tartufi neri provenienti dai paesi dell’Est Europa che in alcuni casi erano addirittura radioattivi, mentre a Mondovì sono stati trovati in una stalla molti bovini denutriti con tanti capi già morti e in avanzato stato di decomposizione e in ultimo come non parlare dell’olio extravergine di oliva, spogliato di ogni suo sapore che è tra i prodotti tipici quello più contraffatto per poi esser esportato anche fuori i nostri confini nazionali. Carni macellate, acqua, latte e latticini. E poi frutti di mare, caffè, interi mercati ortofrutticoli. Le mafie a tavola sono il nuovo fronte della criminalità organizzata, dichiara Legambiente: «Un’aggressione senza precedenti al made in Italy gastronomico», è la denuncia lanciata da “FestAmbiente”, manifestazione nazionale di metà agosto a Rispescia, Grosseto. Sommando i dati messi a disposizione dai carabinieri (comando tutela salute e politiche agricole), dalla Forestale e dalle capitanerie di porto, il secondo “Rapporto Ecomafia” di Legambiente spiega che nel 2011 «i reati accertati nel settore agroalimentare sono stati 13.867, più che triplicati rispetto al 2010, mentre i sequestri sono stati pari a 1,2 miliardi di euro, con un danno erariale di oltre 113 milioni». I clan con le “mani in pasta” sono 27, segnala “GreenReport”. E secondo il “Cigno Verde”, «a tavola è seduto il gotha delle mafie: dai Gambino ai Casalesi, dai Mallardo alla mafia di Matteo Messina Denaro, dai Morabito ai Rinzivillo. Clan potentissimi, che investono anche nella ristorazione: sulla base delle recenti inchieste e dei sequestri di beni, si è stimato in almeno 5.000 il numero dei locali nelle mani della criminalità, fra ristoranti, pizzerie e bar, intestati soprattutto a prestanome e usati come copertura per riciclare i soldi sporchi. «Si tratta di numeri che meritano un approfondimento – rileva “GreenReport” – proprio per la particolare gravità di queste attività illegali, che impattano su un settore economico, quello agroalimentare, di grande rilievo per il nostro paese e minacciano la salute dei cittadini». Le inchieste e le relazioni della magistratura antimafia hanno rintracciato la mano delle cosche su ogni tipo di generi alimentari. Secondo la Direzione nazionale antimafia, «i gruppi criminali sono in grado di gestire tutte le attività relative alla produzione e allo smercio dei prodotti agricoli, lungo tutta la filiera che va dalla produzione, al trasporto e alla distribuzione». Sotto la lente degli investigatori, in particolare, i grandi mercati ortofrutticoli come quelli di Fondi, Vittoria e Milano: è qui che le varie famiglie mafiose stringono affari, senza pestarsi troppo i piedi. «Si dividono i compiti e accumulano profitti illeciti soprattutto nelle fasi intermedie, a cominciare dai trasporti». Alle mafie, aggiunge “GreenReport”, non interessa certamente chi coltiva la terra e non riesce a ricavarne un reddito, per non parlare dei consumatori colpiti dalla crisi, che faticano ad arrivare alla fine del mese. «L’entità degli interessi mafiosi nel settore agroalimentare, in tutto il paese ma soprattutto al Sud, si misura anche attraverso altri indicatori», spiegano a “FestAmbiente”. La relazione dell’Agenzia nazionale per i beni confiscati e sequestrati relativa all’anno 2011, per esempio, censisce 83 aziende del settore agricoltura, caccia e silvicoltura, il 5,47% del totale di quelle confiscate al 31 dicembre dello scorso anno, cui andrebbe aggiunta una quota delle aziende del settore pesca, trasporti e commercio. Va poi aggiunto che 2.062 dei 10.438 beni immobili confiscati sono terreni agricoli. Legambiente evidenzia un altro punto critico: il cosiddetto “italian sounding”, una delle forme più diffuse di imitazione del made in Italy nel settore agroalimentare, «rappresentato da quei prodotti che, pur non essendo tecnicamente contraffatti, richiamano in qualche modo, nei colori o nei nomi, l’italianità degli ingredienti, della lavorazione o del prodotto stesso senza però che le materie prime e la relativa lavorazione siano effettivamente italiane. Il famigerato “italian sounding” ha un valore pari a circa 60 miliardi di euro l’anno, su scala mondiale: qualcosa come 164 milioni di euro al giorno. Una cifra che è 2,6 volte superiore rispetto all’attuale valore delle esportazioni italiane di prodotti agroalimentari, 23,3 miliardi di euro nel 2009.

Sul tema della criminalità organizzata ed il reparto agro alimentare si sono scritti molti libri.

Tra questi vi è "Cibo Criminale: il nuovo Business della mafia italiana". Il libro-inchiesta che racconta dei crimini legati al cibo: molti prodotti made in Italy vengono il più delle volte importati dall'estero e spacciati per prodotti tipici locali attraverso la falsificazione del marchio di provenienza. Può un cibo essere criminale? Anche se può sembrare strano, sembrerebbe proprio di si risponde Earth Day Italia. Tra i tanti aggettivi che possiamo spontaneamente accostare al sostantivo cibo, criminale davvero non ci verrebbe in mente. Eppure, a leggere il libro-inchiesta “Cibo criminale. Il nuovo business della mafia italiana” scritto dai giornalisti Luca Ponzi (Rai di Bologna) e Mara Monti (gruppo Sole 24Ore) si scopre che purtroppo può calzare perfettamente. Il volume, che ricostruisce con documenti e sentenze i traffici illeciti legati ai prodotti alimentari e dei processi che avvengono prima che questi falsi finiscano sulle nostre tavole. Come il prosciutto di Parma, per esempio, apprezzato in tutto il mondo, ma importato dall’estero e trasformato in prodotto locale falsificando il marchio di provenienza. Per nascondere la truffa, un macellaio tunisino che ricattava i suoi capi è stato ucciso. La carne di cavallo nelle lasagne alla bolognese e nel ragù delle confezioni di pasta fresca, o l’inquietante ipotesi della carne di cane utilizzata per la preparazione dei cibi. Batteri coliformi solitamente presenti nelle feci scoperti in Cina nelle torte al cioccolato dell’Ikea, tranci di carne scaduta da otto anni trovati nei congelatori di un grossista di Milano. Mozzarella di bufala ricavata, con lo zampino dei Casalesi, da cagliate proveniente dalla Germania; concentrato di pomodoro spacciato come italiano ma ottenuto allungando passata cinese; formaggi confezionati con scarti avariati, dannosi per la salute; olio proveniente da olive tutt’altro che nostrane. I consumatori si sono dovuti improvvisamente rendere conto di non sapere che cosa avevano nel piatto. I crimini legati al cibo che si raccontano nel libro riguardano le truffe nell'utilizzo improprio di denominazioni di origine controllata, come il marchio Made in Italy associato a cibi di qualità, ma che in realtà nasconde prodotti scadenti o provenienti da altri paesi. Il fenomeno si chiama “Italian sounding” e sarebbe quel valore aggiunto che viene automaticamente attribuito a certi prodotti per il solo fatto di richiamare l'Italia e rende i consumatori disposti a pagare di più per acquistare un prodotto ritenuto di qualità. A livello mondiale il giro d'affari dell'Italian sounding supera i 60 miliardi di euro (164 milioni al giorno), cifra 2,6 volte superiore al valore delle esportazioni agroalimentari. Per ogni scatola di pelati veramente italiani, per esempio, ce ne sono tre la cui materia prima, pur avendo nomi come Vesuvio o Dolce Vita, proviene dall'estero. Ed è così anche per i prosciutti, l'olio, la mozzarella e moltissimi altri prodotti fiore all’occhiello del nostro mercato agroalimentare. È stato calcolato che basterebbe recuperare una quota del 6,5% dell'Italian sounding sul mercato estero per riportare in pareggio la bilancia commerciale del settore. La presenza della criminalità organizzata nel settore agroalimentare viene spiegata bene riportando le parole pronunciate da Pietro Grasso, oggi Presidente del Senato e allora procuratore nazionale antimafia: «Oggi, sotto il profilo dell’agroalimentare, è come se ogni italiano avesse aggiunto un posto a tavola per la criminalità organizzata: c’è un criminale che oggi sta seduto attorno a noi e che gode del fatto che, dovendo noi consumare dei pasti, paghiamo una parte di denaro in più rispetto a quanto dovremmo, a fronte di una qualità inferiore». Le mafie si sono infiltrate in ogni attività economica e in tutto il territorio nazionale e molti dei prodotti simbolo del made in Italy e della dieta mediterranea, che ogni giorno vengono venduti in tutto il mondo, sono il nuovo business di mafia, camorra e 'ndrangheta. Difficile stabilire con certezza il fatturato, ma secondo Eurispes è di circa 220 miliardi di euro all’anno, l’11% del prodotto interno lordo del Paese. La criminalità organizzata è abile e per finanziarsi è riuscita a fare incetta degli aiuti comunitari: per anni nomi di spicco di mafiosi e camorristi hanno incassato i finanziamenti all’agricoltura stanziati da Bruxelles, nonostante non ne avessero diritto. Ed è così che in un mercato sempre più globale, con regole non omogenee, la criminalità riesce a sfruttare ogni smagliatura nei controlli, arrivando a incrinare uno dei pilastri dell’economia nazionale, a tutto rischio del consumatore.

LA BUFALA SUGLI OGM.

Toh, il mais Ogm non fa male. Para-guru sconfitti, scrive Giuseppe Marino, Venerdì 16/02/2018, su "Il Giornale". Fa uno strano effetto tendere l'orecchio sul web e ascoltare solo silenzio. Dove sono finiti i capipopolo che hanno scagliato l'anatema sul letale pop corn Ogm? Lo studio della Scuola Superiore Sant'Anna e dell'Università di Pisa è tombale: il mais transgenico non fa male alla salute né all'ambiente, punto. Ma si può stare tranquilli, mentre la scienza manda in archivio una paura decennale che è riuscita a penetrare a fondo nella coscienza del Paese, particolarmente ricettiva a ogni verità anti scientifica, le balle sull'agricoltura biotech continueranno a circolare in Rete. Come quelle di Mario Capanna, il demoproletario che aveva cercato di ricostruirsi una carriera politica sulla lotta genetica, o Beppe Grillo, che saliva sul palco con un pesce e un pomodoro e raccontava la barzelletta dei 60 ragazzi morti perché allergici al pesce, i cui geni erano stati «infilati» in un pomodoro che loro, ignari, avevano addentato. Un aneddoto impressionante. Peccato che non fosse vero. Basterà aspettare e inventeranno qualche altra balla, tanto a loro mica servono ventuno anni di ricerche per comprovare le favole che raccontano a milioni di adepti. Favole che fanno presa, basta vedere i sondaggi di Coldiretti secondo cui per sette italiani su dieci i cibi Ogm sono meno salutari di quelli tradizionali. Ad alimentarle non solo l'antiscientismo grillino, ma decenni di retorica sullo slow food alla Carlin Petrini, di marketing «biologico» e «verde», dello sciocchezzaio a chilometro zero che fa sentire così vicine alla natura le signore bene che fanno la spesa solo al mercato-gioielleria. Non resta che goderci per qualche ora il silenzio degli stregoni del bio, l'imbarazzo dei reduci del sole che ride, i tentativi di arrampicarsi sugli specchi di Greenpeace che, dopo aver sparso terrore per anni sui presunti effetti catastrofici delle biotecnologie alimentari, ieri tentava di sminuire la portata della ricerca degli atenei di Pisa sostenendo che il problema non sono gli effetti sulla salute, ma che ci sono altre tecnologie migliori. Neanche una parola sul fatto che, mentre l'Italia diventava uno dei Paesi con le regole più restrittive in Europa sugli Ogm e la nostra ricerca scientifica sul biotech, che era stata all'avanguardia, perdeva drammaticamente terreno, come ha ben spiegato la senatrice a vita Elena Cattaneo, l'agricoltura mancava un treno il cui valore è stimato in oltre 100 milioni l'anno. Con la beffa finale che contemporaneamente continuavamo a importare mais Ogm dall'estero. Non ci resta che usare questa breve pausa di sbigottimento tra una fake news e l'altra per chiedere ai politici di destra e di sinistra che si sono accodati alla vulgata anti scientifica, avallando i divieti di coltura Ogm, di fare mea culpa e ammettere che hanno contribuito ad aprire la strada al populismo peggiore, quello delle scie chimiche e dei no vax. Quello che fa danni alla salute. Per un giorno dimentichiamo questi para-guru e ricordiamo gente come Giorgio Fidenato, l'agricoltore friulano che ha creduto nel suo diritto alla libertà di fare agricoltura moderna al punto di portarla fino alla Corte europea. Che ha dato ragione a lui e sconfitto l'Italia più ottusa.

In Italia non è reato piantare ogm. Giorgio Fidenato assolto dall'accusa. Campagnolo, presidente di Futuragra, a Panorama.it: "Sentenza storica", scrive Marino Petrelli su “Panorama”. Giorgio Fidenato, leader di Agricoltori federati, è stato assolto dall’accusa di aver seminato mais ogm “Mon 810” nei suoi poderi vicino Pordenone senza la preventiva autorizzazione. Lo ha stabilito il 17 luglio 2013 il giudice del Tribunale di Pordenone in relazione ai fatti risalenti all’aprile 2010, quando avvenne la prima semina di mais transgenico in Italia. Questa sentenza ripropone il mai sopito dilemma se coltivare o meno gli ogm in Italia, anche alla luce del decreto firmato dai ministri De Girolamo, Lorenzin e Orlando che, di fatto, ne blocca la semina. Abbiamo chiesto al ministro De Girolamo di spiegarci le “ragioni del no”, ma impegni istituzionali hanno impedito di poter rispondere alle nostre domande. "La nostra agricoltura si basa sulla biodiversità e sulla qualità e su queste dobbiamo continuare a puntare, senza avventure che anche dal punto di vista economico non ci vedrebbero competitivi - aveva detto la titolare del dicastero delle Politiche agricole - Il decreto è solo il primo elemento, quello più urgente, di una serie di ulteriori iniziative, con le quali “definiremo un nuovo assetto nella materia della coltivazione di ogm nel nostro Paese”. Aveva ricevuto il plauso di Coldiretti e della Confederazione italiana degli agricoltori. Critica invece Assobiotec. “Questo provvedimento sposta indietro le lancette di oltre dieci anni quando il governo Amato vietò l'import di tre tipologie di mais ogm – dice il presidente Alessandro Sidoli -. Ancora una volta si ricorre ad argomentazioni ideologiche e anacronistiche senza considerare il potenziale produttivo dell'innovazione e il suo ruolo per la valorizzazione delle filiere italiane dei formaggi e prosciutti Dop che esistono anche grazie ai mangimi Ogm".

Duilio Campagnolo, presidente di Futuragra, si schiera apertamente a favore degli organismi geneticamente modificati.

«Questa sentenza di assoluzione dimostra che gli agricoltori italiani hanno il diritto a seminare ogm, come la legge autorizza da oltre 10 anni, periodo in cui l’agricoltura italiana ha perso 5 miliardi di euro, oltre 500 mila imprese agricole sono state costrette a chiudere e quasi un terzo del mais italiano prodotto nel 2012 è rimasto fuori dal mercato alimentare poiché cancerogeno, a causa della contaminazione da aflatossina B1, a cui il miasi biotech è resistente - attacca subito Campagnolo -. Grazie alla coltivazione di mais ogm rispetto a quello tradizionale sarebbe possibile un incremento del margine operativo lordo delle aziende agricole italiane di 450 euro ad ettaro».

Quali scenari si aprono in Italia con l’assoluzione di Fidenato?

«Finalmente una sentenza riconosce agli agricoltori italiani il diritto a coltivare quello che oggi sono costretti ad acquistare dall’estero, cioè i mangimi ogm con cui vengono nutriti il 90 per cento degli animali d’allevamento e che sono all’origine di tutto il made in Italy. Nel nostro Paese si è sistematicamente impedito di produrre cibo sano, nel rispetto della salute degli agricoltori, dei consumatori e dell’ambiente garantendo anche un maggiore guadagno per le imprese».

Come giudica il decreto “anti ogm” approvato dai ministri De Girolamo e Lorenzin?

«E’ un decreto destinato a vita breve, visto che la Commissione europea ci ha già comunicato che non ci sono i motivi per adottare le misure di emergenza e di questo il Governo italiano è stato già informato. Si rischia così di duplicare il decreto siglato nel 2010 dai Ministri Zaia e Prestigiacomo, poi annullato dal Tar del Lazio. L’Italia va così incontro a una procedura di infrazione da parte dell’Unione europea, con il risultato di una multa salata che pagheranno i cittadini e tutto questo perché la nostra politica ha scelto la via dell’oscurantismo e rifiuta l’innovazione in agricoltura. Un altro esempio efficace è quello francese: già nel 2011 infatti il Consiglio di Stato ha dichiarato il divieto francese agli ogm privo di fondamenti scientifici e ora si attende a giorni una nuova sentenza che confermerà lo stesso esito per la nuova richiesta di divieto presentata».

Perchè in Italia c’è un così forte ostracismo nei confronti dell’ogm e quanto tempo dovrà passare per vedere qualche apertura, dal punto di vista legislativo e di sperimentazione?

«È prima di tutto un problema legato alla disinformazione sull’argomento. Da un sondaggio Ispo del novembre 2012 è emerso infatti che il 33 per cento della popolazione dichiara di non avere mai sentito parlare di ogm e che solo il 7 per cento sa esattamente di cosa si tratta. Un dato che non deve sorprendere, visto che, come spiega il Centro di ascolto dell’informazione radiotelevisiva, delle circa 370 mila notizie trasmesse dalle 7 reti televisive e dalle 15 emittenti radiofoniche nazionali tra il 1 gennaio 2011 e il 25 settembre 2012, solo 61, appena lo 0,02 per cento, hanno trattato il tema e per un tempo pari allo 0,03 per cento. Questo continuo e ossessivo tentativo di bloccare l’introduzione degli ogm nel nostro paese è un fatto esclusivamente politico e ideologico, in spregio non solo al diritto europeo, ma anche alla scienza. Per questo è fondamentale che la ricerca scientifica sulle biotecnologie possa riprendere dopo essere sta azzerata negli ultimi 10 anni».

Ci fa un breve resoconto di cosa avviene in Europa,sia a livello di ricerca che di sperimentazione? Quali sono i paesi più aperti agli ogm?

«Secondo una legge comunitaria, in Europa può essere coltivato il mais Mon810. Questo mais, dopo aver passato tutti i controlli sanitari e ambientali che assicurano la sicurezza per l’ambiente e per la salute umana e animale, è stato iscritto nel catalogo comune delle varietà europee e può essere commercializzato e coltivato ovunque in Europa, a meno di un divieto nazionale che comunque non è stato concesso nella stragrande maggioranza dei paesi europei, visto che né l’Efsa né la Commissione europea hanno mai riscontrato evidenze scientifiche sufficienti per giustificarlo. In Europa sono 5 i paesi in cui si semina ogm: Spagna, Portogallo, Repubblica Ceca, Slovacchia e Romania, con vantaggi enormi per il loro settore agricolo. La ricerca scientifica aiuterebbe a portare alla luce tutte queste evidenze, ma da noi non viene resa possibile. Così, mentre in Germania esistono centri sperimentali in cui sono studiate piante che rappresentano il futuro della medicina e dell’agricoltura, l’Italia è l’unico membro dell’Unione europea a rimanere al palo, rischiando così di restare isolata dal resto del mondo».

L'Italia dice no agli Ogm. "È una caccia alle streghe". Un decreto approvato blocca la coltivazione del mais geneticamente modificato. L'ira del presidente di Confagricoltura, Mario Guidi: "Gli studi confermano che è più sano del tradizionale", scrive Andrea Cuomo su “Il Giornale”. Stop alla coltivazione del mais geneticamente modificato «MON810» sul territorio italiano. Lo stabilisce un decreto interministeriale firmato ieri dai ministri delle Politiche Agricole Nunzia De Girolamo, della Salute Beatrice Lorenzin e dell'Ambiente Andrea Orlando. Una notizia che fa felice secondo Coldiretti il 76 per cento degli italiani, chissà quanto informati, poi, ma che lascia perplessi molti. Tra i quali Mario Guidi, presidente di Confagricoltura. Per lui la lotta agli Ogm è «solo caccia alle streghe».

Guidi, il no agli Ogm è saggezza o paura del progresso?

«Noi gradiremmo che le scelte del nostro Stato siano fatte sulla base di evidenze scientifiche e non di generiche enunciazioni. Gli Ogm nel mondo sono un elemento di successo, ci sono 170 milioni di ettari coltivati a Ogm nel 2012 negli Usa, in Brasile, in Argentina, in Canada, in Spagna. È chiaro che dove si adottano misure anti-Ogm non c'è nessuna spinta a un'ipotesi di verifica delle performance produttive del mais Ogm o dell'impatto della sua produzione nell'ecosistema».

Insomma, il mais Ogm è solo demonizzato?

«Secondo tantissime ricerche e studi, è assodato che il mais Ogm è più sano di quello convenzionale. Il mais transgenico produce da solo il Bacillus thuringiensis che lo difende dalla piralide e dagli insetti. Si tratta di un mais con molte meno microtossine, che sono uno dei fattori cancerogenetici più importanti. Mi piacerebbe che fosse la ricerca italiana a dire che con l'Ogm vengono compromessi la biodiversità e il made in Italy».

Slogan, slogan, slogan.

«Sì, è così. Io capisco che il Parlamento nazionale sulla spinta emotiva non potesse prendere una decisione differente da quella di oggi, tra l'altro forse impugnabile come in Francia, ma avrei preferito che si fosse percorsa la strada della clausola di salvaguardia che prevede che il motivo del divieto sia adeguatamente supportato dalla ricerca scientifica. Ventisei accademie hanno detto che gli Ogm, almeno certi tipi, sono positivi e non negativi».

Altro slogan è quello per cui il km zero sarebbe la salvezza dell'agricoltura italiana.

«In questo momento in Italia si dà attenzione solo al km zero facendo un assioma errato tra questo e il made in Italy. Il km zero è un percorso e un messaggio, ma il nostro Paese per conformazione e orografia non può avere un'alimentazione a km zero, a meno che non si voglia che il radicchio venga mangiato solo a Treviso o le arance solo in Sicilia. Chiamiamola autarchia: scommettiamo che ci piace molto meno? E poi prenda il vino».

Il vino?

«Certo. Oggi siamo i primi esportatori mondiali. Davvero vogliamo il vino a km zero?».

C'è però chi dice che il km zero possa sconfiggere la contraffazione alimentare...

«Ma no, la contraffazione è solo il segnale di come l'Italia abbia creduto poco nell'internazionalizzazione, non presidiando tutti i mercati. Forse se la politica agricola nazionale avesse aiutato i produttori a conquistare quei mercati non ci sarebbe stato il parmesan».

Aiutato come?

«La riforma dell'Ice è dell'anno scorso, l'inserimento dei soggetti agricoli nella cabina di regia a opera del ministro De Girolamo è dell'altro ieri dopo anni di attesa. Stiamo parlando di promozione, di affiancamento, di tutto quello che un Paese dovrebbe fare per avere una strategia agroalimentare come Germania e Francia».

Eppure il made in Italy è sempre un «plus»...

«Certo, ma grazie ai grandi imprenditori che lo hanno portato nel mondo, non certo grazie al governo e ai media, che premiano solo l'agricoltura a km zero».

Quantità e qualità possono andare d'accordo?

«È sbagliato pensare che la qualità debba essere remunerata all'infinito. Intanto dobbiamo essere più umili e considerare che il made in Italy va in concorrenza con il made in France, il made in Germany e qualsiasi altro made in... E poi da un certo punto in poi la competizione si gioca anche sul giusto prezzo, e cioè sull'equilibrio tra quantità e qualità. Noi abbiamo conquistato il mondo con prodotti anche industriali, che non vanno demonizzati. Anzi, dobbiamo ricongiungere agricoltura e industria in un percorso che ci renda tutti più competitivi».

Il MoVimento 5 Stelle e la minaccia OGM, scrive Chiara Lalli su “Giornalettismo”. Metà untori, metà Big Pharma: tutti quelli che attentano alle nostre placide e biologiche vite. Nell’intervento di Adriano Zaccagnini alla Camera dei Deputati “Contro gli OGM”, si agitano i soliti fantasmi contro gli organismi geneticamente modificati (OGM). Questi fantasmi si radicano un po’ in un pigro tradizionalismo, un po’ nell’ignoranza, un po’ in un’ostinata e generica nostalgia per il bel tempo che fu. Quando parlo di ignoranza penso sempre ai “pomodori senza geni”: in una delle rilevazioni sulla conoscenza delle biotecnologie, condotte qualche anno fa da Observa, il 28% degli intervistati rispose che è vero che “i comuni pomodori non contengono geni mentre quelli geneticamente modificati sì” (cui va aggiunto il 19,5% che non sapeva). E i geni, si sa, sono molto pericolosi. Quasi il 45% ha risposto poi che “gli animali geneticamente modificati sono sempre più grandi di quelli comuni” – e un animale più grande in genere fa più paura, è più minaccioso. Questo è più o meno il contesto in cui nasce e viene nutrito il sospetto verso gli OGM, cullato da allucinazioni “biologiche” a chilometro zero. Zaccagnini non dice nulla di nuovo, ma tocca più o meno le corde ormai inspessite a forza di ripetere gli stessi luoghi comuni. Il primo è proprio quello di considerare gli OGM come un insieme omogeneo per i quali è possibile parlare in generale, e sui quali ci si può domandare: sono pericolosi? Dipende, appunto. Vanno valutati caso per caso, ma anni e anni di ricerche indicano un livello di rischio minimo (non esiste il rischio zero, mettiamoci l’anima in pace). Gli OGM sono organismi nei quali vengono inseriti alcuni geni estranei utilizzando la tecnica del DNA ricombinante (sono passati 30 anni dalla prima volta, come ci ricorda Anna Meldolesi  qualche settimana fa). Non costituiscono una riserva indiana nel mondo vegetale, ma sono organismi definiti così per le modalità con cui sono stati prodotti. L’agricoltura da sempre sperimenta, modifica, incrocia. Oggi è possibile farlo con una tecnica più precisa. Perché scatena tanto terrore? La precisione della tecnica, per Zaccagnini e i fautori del “biologico”, rappresenta una minaccia terribile, tanto che è “doveroso intervenire urgentemente per fermare la prossima semina che minaccia di essere OGM e che nel periodo di fioritura contaminerà irreversibilmente le nostre coltivazioni”. La minaccia di organismi untori, che infetteranno tutte gli altri, fa certamente molta paura: già ci immaginiamo mais altissimi, con poteri incontrastabili e con effetti terrificanti. Ma il mais geneticamente modificato è mais, non è una specie di mostro mitologico che ci si rivolta contro, per punirci della nostra tracotanza e per avere tradito l’arcadia dei campi che non è mai esistita. La contaminazione è un’idea da distopia agricola, disinteressata – la distopia – a conoscere come sono fatti gli organismi che vengono presentati come i distruttori della prateria. “Il mercato – continua Zaccagnini – rappresenta un volano di interessi economici di enorme portata. Questi introiti andrebbero solo alle grandi multinazionali del biotech, come Monsanto”. L’applauso è inevitabile. Ogni volta che si trova il cattivo, vero o presunto, si può tirare un sospiro di sollievo. Big Pharma in versione biotech cospira contro di noi, vuole guadagnare a scapito della nostra salute, mentre Slow Food è una specie di Caritas biologica, un’associazione disinteressata al profitto e intrinsecamente buona. Identificare gli OGM con un’azienda X è scorretto, e anche se quell’azienda ha commesso errori non potremmo da questo trarre alcuna implicazione sugli OGM stessi. E se non bastasse l’ombra degli interessi economici, se non fermiamo l’esercito OGM il rischio è di causare una “contaminazione delle colture europee che minano pratiche millenarie”, come il cacao (arrivato in Europa all’inizio del XVI secolo) o come le patate (arrivate un po’ dopo il cacao). O come anche il mais, sbarcato in Europa più o meno negli stessi anni. La vulgata vuole che gli OGM costituiscano una “minaccia per la salute dei cittadini”. Come già ho detto è scorretto parlare di OGM come gruppo omogeneo. Ancora più scorretto credere che la radice della loro pericolosità stia nella “non naturalità”, come se tutto ciò che è naturale fosse benefico. Come l’amanita virosa – un fungo mortale, ma perfettamente naturale (chiamato anche angelo distruttore). O come le numerose e naturalissime piante velenose o tossiche. Non essendo dei mostri mitologici non si capisce come gli OGM avrebbero la capacità di distruggere i terreni, di compromettere la biodiversità, di andare esclusivamente a vantaggio dei giganti latifondisti e di avviare una “spirale di dipendenza” dei piccoli coltivatori, costretti secondo Zaccagnini, a comprare ogni anno “sementi brevettati e non riproducibili” (il cosiddetto e inesistente “terminator”,  bufala agricola come la fragola-pesce). Da qui il tracollo economico e i suicidi, “lampante testimonianza”.  Mentre cerco gli studi secondo cui – come ha sostenuto Zaccagnini verso la fine del suo intervento – sarebbe una fandonia che alcuni OGM porterebbero a usare meno pesticidi – è una balla accertata negli Usa, dice, perché gli OGM diventerebbero resistenti ai pesticidi e quindi ciao – dicevo mentre cerco questi studi, vi elenco un breve vademecum sugli OGM.

Sull’allarmismo contro gli OGM. Marco Cattaneo racconta come stanno le cose sulla discussa ricerca che ha ipotizzato legami tra tumori e consumo di organismi geneticamente modificati. Diversi giornali italiani hanno ripreso la notizia di una ricerca scientifica condotta in Francia sulla presunta pericolosità dei cosiddetti organismi modificati geneticamente (OGM). I risultati dello studio erano stati anticipati dal settimanale francese Le Nouvel Observateur proprio grazie al responsabile della ricerca, il professore di biologia molecolare Gilles-Eric Séralini presso l’Università di Caen. La ricerca ha fatto molto discutere ed è stata raccontata da diversi giornali, come il Corriere della Sera e il Sole 24 Ore con i dovuti condizionali, ma senza particolari approfondimenti. L’argomento, molto delicato e di cui si parla da decenni, è stato ripreso anche da Michele Serra nella sua rubrica “L’Amaca” su Repubblica, inserito in un discorso più ampio sugli OGM. Il settimanale Nouvel Observateur ha anticipato i risultati di uno studio piuttosto spaventoso sugli effetti che il mais ogm avrebbe sui ratti da laboratorio. In Francia (e altrove) la polemica è destinata a divampare. Sul suo blog ospitato su Le Scienze, l’edizione italiana della rivista statunitense Scientific American, Marco Cattaneo si occupa della ricerca di Séralini, spiegando che le cose stanno diversamente da come sono state raccontate negli ultimi giorni. Dopo la pubblicazione lo studio scientifico si è rivelato molto controverso ed è stato duramente criticato da buona parte della comunità scientifica. A Séralini sono contestati i metodi utilizzati per dimostrare la tossicità degli OGM, che avrebbero portato all’insorgenza di alcuni tumori nelle cavie di laboratorio, e i metodi stessi di selezione delle cavie e del gruppo di controllo per la doppia verifica degli esiti dei suoi esperimenti. La preoccupazione di Cattaneo, e di molti altri che si occupano di divulgazione scientifica, è che a causa della rapida diffusione delle notizie poco verificate sullo studio di Séralini si possa creare un precedente pericoloso per gli OGM, che ci porteremo dietro per anni come accadde in passato con altre cantonate scientifiche come quelle della memoria dell’acqua e del legame (rivelatosi inconsistente) tra la somministrazione di vaccini e lo sviluppo di forme di autismo.

Quella di cui parliamo è una brutta storia, scrive Marco Cattaneo sul suo Blog. Che rischia di lasciare gravi strascichi nei decenni a venire grazie a una delle più spregiudicate operazioni di marketing che la comunicazione della scienza (scienza?) ricordi. Un po’ come la memoria dell’acqua di Jacques Benveniste, una ricerca manipolata e dagli esiti falsi che costrinse John Maddox, storico direttore di “Nature” a una clamorosa smentita dell’articolo. Eppure ancora oggi molti sostenitori delle cure omeopatiche la portano a conforto delle loro tesi. O ancora come il presunto legame tra vaccini e autismo, ipotizzato in un articolo su “Lancet” nel 1998 da Andrew Wakefield, smentito da decine di studi e definitivamente ritrattato dalla rivista nel 2010. Lo scorso anno una serie di articoli sul “British Medical Journal” ha evidenziato il comportamento fraudolento di Wakefield, che ne ha motivato l’espulsione dal’ordine dei medici britannico. Eppure il suo studio fasullo resta l’indiscusso cavallo di battaglia di chi si oppone ai vaccini senza il sostegno di una, dico una, prova. Tenetele bene presente, queste due storiacce, perché sono la lampante dimostrazione delle spirito acritico con cui affrontiamo, come specie irrazionale e ignorante dei metodi della scienza, molte questioni scientifiche di cui non afferriamo la complessità. In fondo quelle affermazioni – per quanto infondate – confermano i più intimi sospetti e le più radicate convinzioni di molte persone. Perciò devono essere vere. Non importa se sono state dimostrate false da decine di altri ricercatori e laboratori. Ci confortano, ci confermano. Ci rassicurano che siamo nel giusto. Perché alla fine non ci interessa la verità, ci interessano le nostre certezze. E perché sono il degno preludio di ciò che accadrà negli anni a venire, quando vi sentirete ripetere fino allo sfinimento che gli OGM provocano il cancro. Ma eccoci alla storia. Il 18 settembre il settimanale francese “Le Nouvel Observateur” pubblicava un’anticipazione sulla tossicità “degli OGM” basata su uno studio dell’équipe di Gilles-Eric Séralini, professore di biologia molecolare all’Università di Caen. Dal titolo Long term toxicity of a Roundup herbicide and a Roundup-tolerant genetically modified maize, il lavoro è apparso su “Food and Chemical Toxicology”, una rivista di buon impact factor. Non appena il lavoro di Séralini e colleghi è stato disponibile alla comunità scientifica, però, si sono scatenate enormi polemiche. La quasi totalità degli esperti si è detta scettica sul design dell’esperimento, sul ceppo di topi scelto per l’esperimento, sulla durata dello stesso, sui metodi di analisi dei risultati, persino sulla selezione delle fotografie pubblicate (ci sono le foto dei topi trattati che hanno sviluppato tumori ma non di quelli di controllo…), sul metodo di analisi statistica, sul cherrypicking, ovvero la scelta accurata dei dati ritenuti rilevanti ai fini di dimostrare ciò che si vuole dimostrare. Insomma, secondo la comunità scientifica l’articolo di Séralini e colleghi non ha le caratteristiche della “buona scienza”, e secondo alcuni non dimostra proprio nulla. Alcune reazioni rilevanti le trovate sul sito del Science Media Centre britannico (sì, lì hanno un Science Media Centre, giusto per segnalare l’abissale distanza che ci separa dai paesi civili e avanzati…). E una discussione davvero ricca dei dettagli dello studio, delle critiche e delle controreazioni è in corso sul forum biofortified.org. Altre critiche sul fronte dell’analisi statistica piovono su Stats Chat. (Se vi fate un giro in rete ne trovate ormai a centinaia, di critiche pesantissime e articolatissime nel merito scientifico allo studio in oggetto.) Ma l’analisi più impietosa la fa Andrew Kniss, Assistant Professor Weed Biology & Ecology all’Università del Wyoming, su Control Freaks. Dove dimostra con poche righe di codice che i risultati di Séralini emergono anche senza fare l’esperimento, semplicemente dalla randomizzazione dei gruppi di topi sottoposti al trattamento. Una fluttuazione statistica, insomma. E qui sorge il primo problema. Forse l’articolo di Séralini e colleghi avrebbe dovuto essere sottoposto a una peer review più seria, dati i risultati che pretende di dimostrare. Perché, come si dice, affermazioni eccezionali richiedono prove eccezionali, e i test sulla tossicità di questa varietà di mais RR non avevano mai dato adito a sospetti come quelli avanzati da Séralini. Peggio ancora, se possibile, la notizia riportata da Business Recorder e altre fonti, secondo cui Séralini non permetterebbe all’EFSA, l’Autorità europea sulla sicurezza alimentare, di verificare i dati ottenuti dal suo gruppo. Poi viene la questione della divulgazione. In barba a tutta l’etica possibile, il gruppo di Séralini ha concesso in anteprima l’articolo ad alcuni giornalisti, tra cui evidentemente quelli del “Nouvel Observateur” ma anche di “Le Monde”, chiedendo loro di sottoscrivere una clausola in cui accettavano di NON far leggere l’articolo ad altri scienziati prima della pubblicazione. Il grado di scorrettezza di un simile comportamento è lampante. Per quanto preparato e attento, nessun giornalista scientifico (o meno) è un esperto in grado di giudicare nei dettagli il contenuto di un articolo scientifico. È normale. Nessuno di noi ha la presunzione di poter conoscere un argomento con il grado approfondimento di uno specialista. Ed è meglio così. Così, quando ci troviamo davanti a un articolo, ci affidiamo ad altri perché ce lo spieghino, ce ne illustrino la portata, ci diano insomma la chiave per poter fare buona informazione. Lo facciamo leggere ad altri esperti. NON quelli che l’articolo l’hanno scritto. “Stenografi?”, si chiede Ivan Oranski sul suo blog EmbargoWatch. E rincara la dose Maggie Koerth-Baker intitolando il suo intervento Authors of study linking GM corn with rat tumors manipulated media to prevent criticism of their work. Media manipolati. È abbastanza chiaro? Una riflessione acida e condivisibile la fa anche Carl Zimmer, uno dei migliori giornalisti scientifici del mondo, dal blog The Loom, su “Discover”. E noi? Beh, la notizia la trovate su diverse fonti. Su “La Stampa”, per esempio, con qualche condizionale del caso, o “Il Sole-24 Ore”, che riporta solo un commento del direttore scientifico della Fondazione diritti genetici, che non fa mistero della propria opposizione agli OGM ma non chiede lumi a qualcuno che se ne occupa nella nostra università. Meglio ha fatto il “Corriere della Sera”, che ha subito segnalato i dubbi sollevati dalla comunità scientifica. Terrificante invece il titolo di “Affari Italiani”, perché anche i topi non trattati hanno sviluppato tumori come palline, ma di quelli Séralini non ha pubblicato le foto… Molto meglio Alberto D’Argenzio sull’“Espresso”. Ma a suggerirmi di dedicare tanto tempo e tanto spazio a tutta questa storia è stata l’Amaca di Michele Serra del 21 settembre, dove la notizia è riportata in un inciso di tre righe. Perché? Perché Michele Serra è un influencer, per dirla con quelli che la sanno lunga. Perché i suoi quotidiani interventi sono tra le righe più lette d’Italia, e più sei in grado di influenzare gli altri maggiore è la responsabilità che ti assumi. Questa, dicevamo, è una brutta storia. Da cui non esce bene nessuno. Non ne esce bene un gruppo di ricerca che non sembra voler avere nessuna trasparenza. Non ne esce bene il processo di peer review. Non ne esce bene la stampa, e per una volta quella italiana non è in prima fila. E forse Séralini ha ottenuto quello che voleva, un po’ di attenzione in vista dell’uscita del suo libro, Tous cobayes!, tutti cavie, nelle librerie da domani. Dove naturalmente esporrà le sue tesi infischiandosene allegramente di tutto il resto della comunità scientifica. E probabilmente colpirà ancora una volta la Single-Study Syndrome. Perciò prepariamoci, negli anni a venire, a sentir citare fino allo sfinimento quello studio di quello scienziato francese, come si chiamava, che ha dimostrato che “gli OGM provocano i tumori”.

P.S. Disclaimer per tutti quelli che sono pronti a dirmi che sono pagato dalla Monsanto, che gli scienziati sono tutti pagati dalla Monsanto, che la Monsanto si sta impadronendo del mondo, che è la multinazionale malvagia che vuole renderci tutti schiavi dei suoi semi diabolici e via discorrendo. Nell’anno fiscale 2011 la Monsanto (un nano della finanza mondiale) ha fatturato 11,8 miliardi di dollari, contro 112,2 miliardi di euro di Carrefour e 44,4 di Auchan. E chi, tra gli altri, ha finanziato lo studio di Séralini? Scorrete l’articolo del “Nouvel Observateur” e troverete la risposta.

Pomodoro nero: non è OGM ed ha proprietà anticancro. Bufala del Corriere? Scrive Marina Perotta su “Eco Blog”. Non ne posso più: basta che una notizia la spari in rete il Corsera, che sia seguita da altre tre, quattro testate cosidette di prestigio, che Google news per qualche arcano mistero decida di aggregarle et voilà viene fuori che una nuova varietà di pomodoro OGM protegge dal cancro. Falso! Falso! Falso! La ricerca menzionata dal Corriere della Sera (nella foto) è stata pubblicata il 26 ottobre da Nature Biotechnology e intitolata: “Enrichment of tomato fruit with health-promoting anthocyanins by expression of select transcription factors“. In pratica sono stati accumulate all’interno dei pomodori due molecole fortemente antiossidanti: i licopeni e gli antociani. Era già da mesi che questa notizia del pomodoro nero girava sulla rete (a proposito ad esempio, del black sun che però ha solo la buccia nera mentre all’interno resta rosso quindi ha meno licopeni e antociano) diciamo almeno da marzo, da quando l’università degli Studi di Milano presentò parte dei risultati del Progetto Flora, finanziato dalla Comunità Europea, ossia arricchire grazie a incroci genetici alcune piante: FLORA nasce con l’obiettivo di approfondire le dinamiche attivate dagli antiossidanti, con lo scopo di istituire in Europa un gruppo all’avanguardia per lo studio delle correlazioni tra questi preziosi elementi e malattie cardiovascolari, infarto e tumori. I ricercatori di FLORA sono impegnati sul fronte degli antiossidanti contenuti in diversi vegetali, come il mais, i pomodori ed una pianta sperimentale chiamata Arabidopsis. Altre protagoniste dello studio sono le arance. Già ricche di flavonoidi e polifenoli, le arance di FLORA hanno una marcia in più: sono infatti potenziate le quantità di antiossidanti al fine di esaltare le proprietà benefiche del prodotto naturale. A differenza degli altri prodotti, studiati su cellule e animali da laboratorio, gli agrumi vengono usati nei trial umani perchè assolutamente privi di additivi e conservanti e coltivati nel pieno rispetto dei parametri salutistici. Nessun rischio di spiacevoli sorprese, dunque, ma solo un incremento controllato in termini di nutrizione. Promuovere la salute attraverso un’alimentazione corretta ed equilibrata, nel rispetto delle tradizioni alimentari dei diversi Paesi europei, rappresenta la missione di Flora. Al Progetto partecipano Centri di ricerca italiani e di altri Paesi Europei. Al centro degli studi la molecola dell’antociano dal caratteristico colore blu, che è stato dimostrato possedere qualità antiossidanti e di prevenzione di tumori e infarti. Ovviamente tra gli Istituti elencati c’è proprio il John Innes Centre di Norwich in Gran Bretagna. Dunque i pomodori in questione sono transgenici e non OGM come dichiarato da Ansa, Corriere della sera e anche Daily Mail che ha lanciato la sua notizia scrivendo proprio di OGM. Nell’accezione comune sin tende a sovrapporre al termine transgenico il termine OGM, ma in termini di comunicazione il messaggio che ne viene fuori è grave: i pomodori OGM sono anticancro, il che è falso! Ho telefonato al IEO (Istituto Europeo di Oncologia) diretto dal Prof. Veronesi, poichè citato da Corsera come uno dei partecipanti al progetto per chiedere delucidazioni in merito. Ma l’addetto stampa mi ha risposto che mi dovevo mettere in coda per avere la possibilità di parlare con l’unico ricercatore disponibile, peraltro impegnato in un meeting e neanche troppo disposto a rilasciare interviste. Mi sono detta disposta a smentire il mio post qualora abbiano notizie da riferirmi. Rispetto ai pomodori neri OGM, è vero che ne esiste uno prodotto da Syngenta, il kumato, ma dall’abstract dello studio non sembra emergere che per l’esperimento si sia usato questo. Dunque ne è stato creato uno nuovo? Ma il progetto Flora non prevede che si usino solo prodotti sani e non geneticamente modificati?

Quattro bufale sugli Ogm.

La fragola antigelo è una chimera. Mai esistita. Si è prodotta, per esempio, una fragola che è stata resa resistente al gelo inserendo dei geni di pesci che vivevano in zone fredde. Questa fragola ha cominciato a produrre un prodotto secondario che era il glicoletilenico, il comune liquido antigelo dei radiatori. Quindi sono diventate immangiabili. Report, Rai3

Il pomodoro pesce non esiste e non può esistere. L’ingegneria genetica prende uno o più geni da un organismo, per esempio un pesce, e li inserisce a caso nel DNA di un’altra specie, anche molto diversa. Per esempio nel DNA di un pomodoro, per fare un pomodoropesce. Chi è allergico al pesce si mangia il pomodoro in tutta tranquillità, ma se il pomodoro contiene i geni del pesce? Greenpeace

Il pomodoro antigelo che non resisteva al gelo. Nel ’91 i ricercatori della DNA Plant Technology hanno identificato il gene responsabile della proteina antigelo in un pesce artico. Si riporta raramente che gli scienziati non hanno trasferito il gene dal pesce al pomodoro, ma lo hanno usato come “modello” per costruirne uno di effetto simile da inserire nel genoma del pomodoro. Il pomodoro è stato ottenuto, ma non era (purtroppo) resistente al gelo.

Il mais Bt uccide la farfalla monarca. Nel 1999 uno studio lancia l’allarme per la sorte della farfalla monarca minacciata dal mais transgenico. Questi risultati saranno smontati da una dettagliata documentazione tecnica. Si scoprirà addirittura che in corrispondenza delle colture di mais Bt la popolazione di farfalla monarca è aumentata sensibilmente. La smentita non troverà alcun risalto mediatico. 

Miti, leggende e disinformazione sugli ogm.

Presentiamo le più famose “bufale” mediatiche relative agli organismi geneticamente modificati (ogm). Mostriamo come le informazioni che demonizzano gli ogm, paventandone ipotetici rischi, trovino spazi ben maggiori rispetto a quelle che ne sottolineano gli aspetti positivi e a quelle basate su corrette evidenze scientifiche, scrive di Silvano Fuso su Ecohysteria. L’informazione scientifica nel nostro paese è affetta da gravi problemi. In una sorta di perverso gioco di «telefono senza fili», le posizioni della comunità scientifica arrivano fortemente distorte e manipolate all’opinione pubblica. Questo accade talvolta per semplice ignoranza da parte di chi deve gestire o trasmettere l’informazione, ma spesso dipende da scelte deliberate, alimentate da motivazioni di carattere ideologico o addirittura da interessi di parte. Se questo è vero in generale per moltissime problematiche di carattere scientifico, nel caso degli OGM la disinformazione raggiunge livelli che destano seria preoccupazione. Alcuni esempi lo confermano purtroppo in modo evidente.

LA FRAGOLA-PESCE. Dal 15 settembre al 15 novembre 2007 è stata promossa in Italia una Consultazione Nazionale sul seguente tema «Vuoi che l’agroalimentare, il cibo e la sua genuinità, siano il cuore dello sviluppo, fatto di persone e territori, salute e qualità, sostenibile e innovativo, fondato sulla biodiversità, libero da OGM?». L’iniziativa è stata promossa dalla Coalizione «Italia Europa – Liberi da OGM». La coalizione è costituita da un vasto schieramento composto da diverse organizzazioni degli agricoltori, del commercio, della distribuzione, dell’artigianato, della piccola e media impresa, dei consumatori, delle autonomie locali e, naturalmente, delle principali associazioni dell’ambientalismo. Coordinatore della coalizione è stato Mario Capanna, noto ex leader del movimento studentesco, uomo politico e attualmente presidente della Fondazione Diritti Genetici. Secondo quanto dichiarato dallo stesso Capanna, la consultazione ha ottenuto circa 3 milioni e 600 mila “voti firmati” contro l’uso degli OGM. Durante una sua partecipazione televisiva il 30 luglio 2007, Mario Capanna, di fronte alla domanda dell’intervistatrice che gli chiedeva innanzi tutto di chiarire che cosa sono gli OGM, ha citato come esempio quello della fragola-pesce. Ovvero una fragola che sarebbe stata resa resistente al gelo attraverso l’inserimento di un gene di un pesce artico all’interno del suo patrimonio genetico. Anche Luca Giurato, a Uno mattina, disse di averne assaggiata una!! Tale manipolazione, a detta di Capanna, conferirebbe al frutto uno stranissimo sapore. Nel diffondere queste affermazioni Capanna è in buona compagnia perché l’esempio della fragola-pesce (o fishberry) è citatissimo in molti scritti ambientalisti, in Internet, in altre trasmissioni televisive e sulla stampa.

Alcuni esempi sono i seguenti:

Trasmissione Report di Rai3: Si è prodotta, per esempio, una fragola che è stata resa resistente al gelo inserendo dei geni di pesci che vivevano in zone fredde. Questa fragola ha cominciato a produrre un prodotto secondario che era il glicoletilenico, il comune liquido antigelo dei radiatori. Quindi sono diventate immangiabili.

La Repubblica delle Donne (supplemento settimanale del quotidiano La Repubblica): La cosiddetta fragogliola, la fragola con il gene di una sogliola del mar Baltico che doveva renderla resistente al freddo, è stata un disastro: il risultato è una fragola che sa di antigelo. Gli esperimenti sono stati subito interrotti, e la fragogliola è finita sullo scaffale dei «cibi Frankenstein».

Piemonte Parchi, rivista della Regione Piemonte: In campo agricolo, lo scopo degli ogm è modificare una pianta inserendo nel suo DNA uno o più geni che le conferiscano le caratteristiche desiderate. Il caso dell’introduzione di geni di passera di mare nelle fragole per aumentarne la conservabilità è un tipico esempio.

Dossier Biotecnologie e prodotti alimentari della COOP: Un gene prelevato dal pesce artico inserito in fragole e patate conferisce la resistenza al freddo e permette la coltivazione di questi prodotti in zone caratterizzate da bassissime temperature. È il caso della Finlandia, che ormai ha interrotto quasi del tutto le importazioni di fragole, consumando quelle coltivate sul proprio territorio, per lunghi periodi dell’anno costantemente coperto da spessi strati di ghiaccio.

Il 23 gennaio 2010, il Corriere della Sera ha citato a sua volta la fragola pesce come esempio di incrocio transgenico, nella scheda grafica allegata a un articolo sugli OGM.Si tratta di affermazioni che colpiscono molto l’opinione pubblica sul piano emotivo. In realtà però, per la tranquillità di tutti i consumatori e con buona pace degli ambientalisti, la fragola-pesce non esiste e non è mai esistita. Nessuna multinazionale biotech ha mai annunciato lo sviluppo di un prodotto del genere. Nessuna università l’ha mai studiata. Nessuno scienziato ha mai pubblicato degli studi su questa chimera. Nessuna azienda ha mai neanche lontanamente suggerito che sarebbe stata interessata a sviluppare fragole antigelo. Eppure la «fishberry» è ormai leggendaria. Ma da leggenda urbana. E come ogni leggenda urbana che si rispetti, non è possibile risalire all’origine della storia. Sarebbe interessante sapere come fa Capanna a giudicarne il sapore. E meno male che la prima finalità che si propone la dichiarazione dei presidenti nazionali delle associazioni che hanno dato vita alla coalizione «Italia Europa -Liberi da OGM» consiste nel: coinvolgere l’intera comunità nazionale in un processo di elevamento delle conoscenze scientifiche e della consapevolezza culturale, di ricoesione sociale, di democrazia partecipata, ampia e reale, su tematiche di così decisiva portata per l’Italia, l’Europa e il mondo; e che, come ha dichiarato il coordinatore della coalizione Mario Capanna nella trasmissione citata, lo scopo è: Rivolgersi alla totalità della comunità nazionale per far sì che, anzi tutto, conosca che cosa realmente sono gli OGM; secondo perché possa pronunciarsi e cioè avere un modello di sviluppo agroalimentare nel nostro paese che sia libero da OGM.

IL CASO SCHMEISER.

La propaganda anti OGM è martellante, continua e purtroppo efficace, nonostante la sua totale infondatezza scientifica. Molte notizie vengono deliberatamente distorte pur di gettar fango sugli OGM e sulle aziende che li producono. E il caso ad esempio della vicenda dell’agricoltore canadese Percy Schmeiser. Diverse organizzazioni ambientaliste e molta stampa a esse vicina hanno ampiamente pubblicizzato la vicenda, presentando Percy Schmeiser come vittima degli OGM e della multinazionale Monsanto. Secondo la «versione ambientalista», Schmeiser avrebbe tranquillamente coltivato colza non OGM nei suoi campi. Pollini di colza transgenica (resistente all’erbicida Roundup) venduta dalla Monsanto avrebbero però accidentalmente contaminato le colture di Schmeiser. Gli ispettori della Monsanto, esaminando il suo raccolto, nel 1997 hanno accertato la presenza di colza OGM. La Monsanto ha allora intrapreso un’azione legale contro l’agricoltore, accusandolo di aver utilizzato illegalmente le sementi biotech, eludendo le previste royalties. Attraverso diversi gradi di giudizio, l’agricoltore è stato definitivamente ritenuto colpevole dalla Corte Suprema canadese e condannato a risarcire la Monsanto. Insomma: oltre al danno la beffa e «Golia che batte Davide», secondo il titolo usato da alcuni giornali ambientalisti. In realtà le cose sono andate in maniera molto diversa. Come risulta dagli atti processuali, vi sono infatti inequivocabili evidenze che dimostrano come Schmeiser abbia deliberatamente coltivato colza OGM. Non vi è stata quindi alcuna contaminazione causata da pollini trasportati dal vento. Prova ne è che le colture OGM più vicine erano a 8 km di distanza. È stato inoltre accertato che Schmeiser ha irrorato consapevolmente con l’erbicida Roundup la propria coltura. Cosa che evidentemente non avrebbe avuto alcun senso se l’agricoltore, come ha sempre sostenuto, avesse ignorato la presenza di colza OGM nei suoi campi.

LA LOTTA DI VANDANA SHIVA CONTRO GLI OGM. Pur di screditare l’oggetto delle loro campagne denigratorie, alcuni ambientalisti non esitano ad assumere posizioni totalmente contraddittorie. E il caso ad esempio della leader ambientalista indiana Vandana Shiva (n. 1952). Il cosiddetto golden rice è una varietà di riso geneticamente modificato ricco di provitamina A (ß carotene) che potrebbe contribuire significativamente a risolvere i problemi di avitaminosi di molte popolazioni asiatiche che si cibano quasi esclusivamente di riso. Per giustificare la sua opposizione nei confronti del golden rice, Vandana Shiva in un articolo del 2000 scriveva: Poiché il riso è mangiato in grandi quantità nelle società asiatiche, questo riso potrebbe portare a un apporto eccessivo di vitamina A. Shiva elencava quindi una serie di conseguenze negative causate da un eccesso di vitamina A. Smentita dalle repliche della comunità scientifica che esclude categoricamente questo rischio, la stessa Vandana Shiva in un articolo successivo ha sostenuto impunemente che il golden rice non contiene abbastanza provitamina A e quindi finirà per aggravare ulteriormente il problema della deficienza vitaminica nei paesi in via di sviluppo. Un altro cavallo di battaglia di Vandana Shiva è il riferimento ai suicidi dei contadini indiani. Tra i contadini indiani vi è effettivamente un elevato e drammatico numero di suicidi. Secondo l’attivista indiana i suicidi sarebbero dovuti al dramma vissuto dai contadini in seguito all’indebitamento contratto con le multinazionali per l’acquisto di sementi OGM: non riuscendo poi a saldare il debito i poveri contadini maturerebbero la tragica decisione di farla finita. Vandana Shiva ha addirittura scritto un libro per sostenere questa sua tesi. In questa campagna di denuncia, Vandana Shiva ha numerosi alleati, talvolta anche illustri come il principe Carlo d’Inghilterra. Ma è proprio vero che l’uso degli OGM sia all’origine dei suicidi dei contadini indiani? Se si lasciano da parte le ideologie e si analizzano obiettivamente i fatti, non si può che rispondere negativamente. Uno studio dal titolo «Bt Cotton and Farmer Suicides in India», curato dell’International Food and Policy Research Institute (19) lo dimostra chiaramente (…) Si vede che, all’aumentare della diffusione della coltivazione del cotone OGM in India, le rese aumentano, ma il numero dei suicidi dei contadini rimane pressoché costante o addirittura diminuisce rispetto all’andamento precedente. Quella di Vandana Shiva quindi è l’ennesima storiella, molto toccante emotivamente, ma del tutto priva di ogni fondamento.

IL CASO MAIS BT DELL’IRAN. Spesso le forze ambientaliste accusano gli scienziati, le multinazionali e gli organi di informazione di nascondere al pubblico i gravi rischi (mai dimostrati) degli OGM. In realtà però le cose stanno molto diversamente. Le notizie che possono in qualche modo contribuire a demonizzare gli OGM, benché infondate, trovano amplissima risonanza e influenzano pesantemente le scelte politiche, soprattutto italiane. Viceversa le notizie, scientificamente fondate, che mostrano gli aspetti positivi degli OGM e delle biotecnologie vengono mantenute quanto più possibile nascoste. Un esempio recente e purtroppo molto significativo riguarda uno studio sul mais OGM, condotto in Italia, commissionato nel 2005 dall’Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione (INRAN) del Ministero per le politiche agricole a un docente dell’Università di Milano, il Prof. Tommaso Maggiore. Il caso ha assunto livelli talmente scandalosi che persine la prestigiosa rivista scientifica Nature ha sentito il dovere di occuparsene per stigmatizzare quanto accaduto in Italia in un duro editoriale dal titolo «Another inconvenient truth. In Europe, no one apparently wants to listen if you bave good news about genetically modified organisms (GMOs)». («Un’altra scomoda verità. In Europa, a quanto pare, nessuno vuole ascoltare se avete delle buone notizie riguardo agli OGM»). Lo studio ha mostrato come nelle condizioni di campo il mais Bt MON810 può aiutare a mantenere rese che sono del 28-43% più alte rispetto alle controparti non transgeniche (i risultati sono quasi sicuramente atipici perché le condizioni, climatiche e altro, durante il 2005 sono state particolarmente felici per la piralide e particolarmente cattive per i coltivatori italiani di mais. In un anno più tipico, la perdita di resa dovuta all’insetto avrebbe potuto essere solo del 10-15% del raccolto). A parte i benefici della produttività, il MON810 ha anche surclassato il mais convenzionale in termini di livelli di fumonisine, tossine che sono prodotte da funghi capaci di infettare la pianta attraverso le lesioni causate dalla piralide. Il MON810 contiene 60 parti per miliardo o meno di fumonisine, mentre la varietà non OGM ne contiene 6000, un livello non adatto per il consumo umano per la legge Italiana e Europea. I risultati dovevano essere presentati al pubblico nel 2006, ma sono stati taciuti non solo da tutti media, ma anche dallo stesso Ministero dell’Agricoltura. Per rompere la vergognosa censura, il 13 novembre 2006 è stata organizzata una conferenza stampa da parte degli scienziati del cosiddetto SAgRI (SAlute, AGRicoltura, Ricerca). Si tratta di un coordinamento tra ricercatori, la Società Italiana di Genetica Agraria, la Società Italiana di Tossicologia, l’Associazione di Imprenditori Agricoli Futuragra, l’Associazione per la libertà di ricerca scientifica Luca Coscioni e alla quale hanno aderito anche l’Associazione Galileo 2001, l’Istituto Bruno Leoni, l’Associazione dei Cristiani per l’Ambiente e la Fondazione Umberto Veronesi. La risposta dei media alla clamorosa conferenza stampa, ancora una volta, è stata tiepida. Ben poche testate ne hanno infatti dato notizia. Un rispettabile settimanale, «L’Espresso», si è rifiutato di riportare la storia perché la sua politica editoriale è di «opposizione agli OGM».

SENSO DI RESPONSABILITÀ. Gli esempi fin qui citati (ma ce ne sarebbero tanti altri) mostrano drammaticamente quali siano i gravi problemi di cui soffre, soprattutto in Italia, l’informazione relativa agli OGM. La questione è stata efficacemente sintetizzata da Edoardo Boncinelli, genetista dell’Istituto San Raffaele di Milano, che aderisce al SAgRI: Non c’è pericolo per la salute. Lo ripeto da quando ho iniziato a scrivere di questi argomenti, 10 anni fa. E nel frattempo nessuno fra coloro che hanno mangiato il cibo Ogm nel resto del mondo ha sperimentato controindicazioni di qualche tipo. Nel partito pro-cibo biotech confluisce tutta la comunità scientifica italiana. Le uniche resistenze sono da parte della politica e di chi si trova nel mezzo, come per esempio le associazioni, gli agitatori e i movimenti d’opinione. Da loro vengono le obiezioni. Ma gli scienziati non hanno mai detto niente che possa alimentare la paura dei cittadini per gli Ogm.

Nell’informazione sugli OGM è pertanto auspicabile e necessario un drastico cambiamento di rotta. Un maggior senso di responsabilità, di serietà e soprattutto un maggior rispetto per i fatti e una minore dipendenza dalle ideologie sono requisiti indispensabili se si vuole intraprendere veramente la via del progresso, preoccupandosi del reale benessere dei cittadini e dell’ambiente.

Miti OGM: i semi sterili, scrive Dario Bressanini su “Il Fatto Quotidiano”. Il campo delle biotecnologie, specialmente quelle agrarie, e specialmente in Italia, è dominato da miti e leggende. Vuoi perché troppo spesso parlano di queste cose intellettuali, giornalisti e opinionisti con una preparazione umanistica e senza le conoscenze scientifiche e gli strumenti culturali minimi necessari per capire il tema e collocarlo nella giusta prospettiva. Vuoi perché i giornali, che quasi senza eccezioni non hanno una redazione scientifica, in casi come gli OGM si limitano a fare da cassa di risonanza delle veline passate dalle multinazionali o dai gruppi di pressione ambientalisti, politici o economici senza verificare se sono bufale o meno. Una dichiarazione di un politico ignorante sul tema ma desideroso di seguire gli umori degli elettori rimbalza in poche ore dal lancio di agenzia a centinaia di siti web e blog. Che sia vera o falsa poco importa. Il risultato è che il cittadino sente, su questo tema, tutto e il contrario di tutto, ed è giustamente disorientato. Vediamo quindi di fare un po’ di chiarezza, cercando per quanto possibile di dare dei riferimenti accessibili perché possiate verificare di persona quanto leggete. Cominciamo con il mito sicuramente più persistente: moltissime persone sono convinte che gli OGM siano sterili. E non è difficile trovare articoli dove, dopo aver affermato che gli OGM sarebbero sterili, si pone l’attenzione sul problema della loro coesistenza con le colture tradizionali, in quanto il polline “contaminerebbe” le altre colture. Ora, non è possibile sostenere entrambe le cose: o gli OGM sono sterili, oppure non lo sono e possono “contaminare” le controparti tradizionali, non vi pare? Gli OGM infatti non sono sterili. Non c’è nessun motivo biologico per cui gli OGM debbano obbligatoriamente essere sterili. Molti vegetali non OGM che acquistiamo regolarmente provengono da piante sterili, che non producono semi. Le banane ad esempio. Avete mai visto un seme in una banana? In più sono anni che molte piante sono state modificate dall’uomo per produrre frutti sterili: pensate a tutta la frutta senza semi che è diventata molto popolare ultimamente, dall’uva ai mandarini ai cocomeri. Sono sterili e nessuno si straccia le vesti o pontifica da qualche giornale. A quanto pare però l’idea che gli OGM possano essere sterili turba il sonno a molti attivisti e oppositori. In ogni caso nessun OGM oggi in commercio è sterile. Se lo fossero non ci sarebbero problemi di coesistenza. Il mito della sterilità degli OGM continua a essere diffuso da molti, non si capisce se per malafede o semplice ignoranza, ad esempio dall’attivista indiana anti-OGM Vandana Shiva che spesso collega questo mito all’altro, altrettanto falso e di cui parleremo in futuro, dei contadini indiani suicidi a causa degli OGM. Probabilmente l’origine del mito risale ad un brevetto, mai messo in pratica e sino ad ora puramente teorico, chiamato volgarmente Terminator, unito al fatto che molte persone “di città” credono davvero che all’alba del duemila la maggior parte degli agricoltori salvino ancora i semi per riutilizzarli l’anno successivo invece che acquistarli ogni anno. Per non parlare dei semi ibridi che, per loro natura, vanno ricomperati ogni anno pena la perdita progressiva delle qualità desiderate. Anche di questo parleremo in futuro. Una cosa alla volta. Per ora mi premeva chiarire la faccenda della sterilità: nessun OGM in commercio è sterile. Chi vi dice il contrario o è ignorante in materia o è in malafede. O entrambe le cose.

L’opposizione sorda e cieca agli organismi geneticamente modificati fatta in questi anni ha spalancato le porte ai semi transgenici. E le regioni, che potrebbero e dovrebbero legiferare sul tema, non lo fanno, scrive Pepi Katona su “E-Gazette”. Sugli ogm ci stanno prendendo in giro. L’opposizione sorda e cieca agli organismi geneticamente modificati fatta in questi anni da associazioni e politici non ha chiuso ma invece ha aperto, ha spalancato, le porte ai semi transgenici. E nuove iniziative emotive non faranno altro che confermare e allargare l’ingresso di ogm in Italia. C’è un solo modo per fermare gli organismi geneticamente modificati. Il solo modo è in mano alle regioni, che per anni si sono tappate occhi e orecchi gridando ba-ba-ba. Ecco le ultime notizie. Un decreto per stoppare le semine di granturco ogm. È la proposta della ministra delle Politiche agricole, Nunzia De Girolamo. Subito un ricorso alla clausola di salvaguardia, dice il Movimento 5 Stelle. Alla clausola di salvaguardia si appella la Coldiretti. Martedì 25 giugno 2013 la Forestale ha ispezionato l’azienda agricola friulana di Vivaro (Pordenone) per accertare la reale natura e provenienza del mais seminato nelle scorse settimane. “Da settimane chiediamo che il governo assuma decisioni operative contro gli ogm e dia seguito al voto unanime del Senato varando la clausola di salvaguardia”, ha detto la senatrice Loredana De Petris (Sinistra, ecologia e libertà). “Attivare immediatamente anche in Italia la clausola di salvaguardia, vietare la coltivazione di ogm sul territorio nazionale, ma anche mettere in sicurezza l’area oggetto di semina avvenuta nei giorni scorsi con un atto irresponsabile e illegittimo”, dicono alcuni parlamentari Pd; “tutte le regioni si sono già pronunciate per un’Italia libera da ogm”. Invece non si può invocare la clausola di salvaguardia. Invece le semine non sono illegittime. Per quest’anno, le semine di granturco Mon810 della Monsanto in Friuli e in altre parti d’Italia non possono essere stoppate. Lo dicono le regole europee. Le norme europee chiariscono che un ogm quando viene autorizzato dall’Europa non ha bisogno più di alcuna autorizzazione nazionale per essere usato. Il mais Mon810 è stato autorizzato in Europa nel 1998. Dodici anni fa l’Italia tentò di mettere un freno agli ogm con il decreto legislativo 212/2001. Il decreto prevedeva che le Politiche agricole concedessero un’autorizzazione nazionale a ciascun ogm, da rilasciare di concerto con i ministeri dell’Ambiente e della Salute. Il 6 settembre 2012 la Corte europea di giustizia (con la sentenza C36/11) ha bocciato il decreto legislativo italiano: gli organismi geneticamente modificati già autorizzati secondo le norme europee non possono essere sottoposti a un’autorizzazione nazionale e il granturco 810 della Monsanto è del tutto in regola. Così le semine non sono “immissioni fraudolente” né “illegali”. Ci sono però alcune regole da rispettare per poter coltivare piante ogm. Su queste regole sta lavorando la Forestale nella sua ispezione in Friuli. Nel dettaglio, la direttiva 2001/18/Ce prevede, per evitare contaminazioni con altre varietà, una fase di monitoraggio post commercializzazione e in generale una sorveglianza sui possibili effetti negativi per la salute umana e animale e per l’ambiente. Il monitoraggio in Europa è cominciato molti anni fa, ma in Italia comincia ora. Inoltre, il decreto legislativo numero 224/2003 (che attua in Italia la direttiva 2001/18/Ce) all’articolo 30 stabilisce che chiunque coltivi ogm autorizzati a livello europeo comunichi alle regioni e province autonome, entro 15 giorni dalla messa in coltura, la localizzazione della coltivazione. Chi non comunica i campi seminati a ogm o arreca danni alla salute o all’ambiente sarà punito. Perché non si può invocare la clausola di salvaguardia? La direttiva 2001/18/Ce (e il decreto legislativo 224/2003 che la recepisce) dispone all’articolo 34 che la clausola di salvaguardia può essere invocata solamente se ci sono nuovi studi e ricerche su gravi rischi che il prodotto ogm ha per la salute umana e animale e per l’ambiente. Il governo ha chiesto più volte in questi anni alle regioni di presentare ricerche e studi che consentissero di invocare la clausola di salvaguardia. Ma le regioni, zitte. Non hanno saputo produrre alcuno studio che confermi alcun rischio che il Mon810 abbia sulla salute umana o animale o sull’ambiente. Dopotutto, da 15 anni si coltiva in Europa (e molti più anni di coltura nel mondo) il seme Mon810 senza danni alla salute o all’ambiente. Se venisse presentata a Bruxelles questa clausola di salvaguardia, sarebbero sberleffi all’Italia. In alternativa, c’è chi chiede di fare ricorso al principio di precauzione. Il principio di precauzione – imporre un divieto anche se non ci sono sostegni scientifici – può essere adottato nella fase iniziale di un processo legislativo, non per leggi in vigore da anni. Altrimenti c’è la procedura d’emergenza. Qualora ci fossero evidenze di gravi conseguenze in corso (per esempio, una moria tra gli animali o un’epidemia fra la popolazione), ciò va subito segnalato alla Ue, che può decretare il blocco immediato. Se l’Italia facesse una proposta del genere, sarebbe condannata. C’era una strada. C’era. Ma come al solito, l’estremismo della paura l’ha fatta perdere. Ed è la coesistenza. Per evitare la possibile commistione tra colture ogm e colture tradizionali o biologiche, l’Europa dice che gli stati membri possono dettare misure nazionali per la coesistenza. In Italia dal 2007 ci sono le “Linee guida per le normative regionali di coesistenza tra colture convenzionali, biologiche e geneticamente modificate”. Usando queste linee guida, negli anni scorsi ogni regione avrebbe potuto fissare paletti insormontabili: le semine avrebbero potuto essere sottoposte a tali procedure di controllo da renderle impossibili o non convenienti; oppure si sarebbero potuti mettere vincoli di distanza minima fra le colture ogm e quelle tradizionali in modo da impedire, di fatto, le semine transgeniche. Però al solo sentir parlare di coesistenza: “Giammai! Dire coesistenza significa cedere agli ogm!”. Così la conferenza dei presidenti delle regioni nel 2008 ha ritenuto di non adottarle. Quindi le linee guida per la coesistenza non sono entrate in provvedimenti regionali. E le semine sono in corso. Se le regioni legiferassero in fretta, l’anno prossimo gli ogm potrebbero essere bloccati. A meno che non ricominci il solito circo Barnum dei sedicenti difensori dell’ambiente, con norme e decreti da far smontare a Bruxelles fra le risate della Monsanto.

IL VELENO E’ IN TAVOLA.

Carne di cavallo nelle lasagne al "beef ragù", scrive Ele Cozzella su “L’Espresso”. Il procuratore di di Torino Guariniello ha aperto un'inchiesta sui surgelati, ordinando controlli sulla composizione e gli ingredienti, dopo la diffusione della notizia che Findus, colosso dei surgelati, ha ritirato dai supermercati inglesi le sue "lasagne alla bolognese". I test hanno provato la presenza in grandi percentuali di carne di cavallo in quello che avrebbe dovuto essere ragù di carne bovina. Non era carne di manzo, come indicato in etichetta, ma carne equina quella trovata nel ragù delle lasagne e degli 'spaghetti alla bolognese' commercializzati dalla Findus e distribuiti nei punti vendita delle catene di supermercati Tesco e discount Aldi della Gran Bretagna. E' quanto emerge da analisi di laboratorio dell'Autorità per la sicurezza alimentare Uk, dalle quali risulta una quantità di carne di cavallo in media del 60% sul prodotto e in un caso addirittura del 90%, come scrive il giornale The Guardian. Anche la Findus Uk ha confermato con un comunicato che le lasagne, prodotte dalla francese Comigel, hanno rivelato la presenza di carne di cavallo. I consumatori che hanno acquistato il prodotto potranno contattare la compagnia per essere risarciti. La Findus ha anche aggiunto che tutti gli altri suoi prodotti sono stati testati e che non sono coinvolti nel caso. L'Autorità per la sicurezza alimentare ha detto di ''non avere prove che lascino pensare che il cibo presenti dei rischi per la salute'', ma di avere comunque ordinato nuovi test per evidenziare l'eventuale presenza di farmaci veterinari (in particolare il Phenylbutazone, vietato negli alimenti). I controlli sono stati effettuati dopo che a metà gennaio le autorità irlandesi avevano scoperto che hamburger venduti in catene della grande distribuzione in Gran Bretagna e Irlanda, tra cui la Tesco, contenevano carne di cavallo. La Findus ha cominciato un ritiro delle sue lasagne. Anche I supermercati Tesco e Aldi hanno ritirato una serie di piatti preparati dalla Comigel. In Gran Bretagna e Irlanda la vicenda desta tanto più scalpore perché il consumo di carne equina è quasi inesistente e rappresenta un vero e proprio tabù.

Carne di cavallo in prodotti Buitoni: Nestlè li ritira dagli scaffali italiani. La decisione riguarda ravioli e tortellini di manzo: tracce di dna equino pari all'1%. La multinazionale assicura: "Non ci sono problemi di sicurezza alimentare". I carabinieri del Nas hanno ispezionato la sede legale di Milano della società e lo stabilimento di produzione di Moretta, scrive “La Repubblica”. Nestlè ritira dagli scaffali italiani e spagnoli ravioli e tortellini di manzo Buitoni. Una decisione presa dopo che nei prodotti sono state rinvenute tracce di Dna di carne di cavallo pari all'1%. Informate le autorità dell'esito degli esami, Nestlè rassicura: "Non ci sono problemi di sicurezza alimentare". I prodotti ritirati saranno sostituiti con altri "che i test confermeranno essere al 100% di manzo" aggiunge Nestlè in una nota, nella quale precisa che sono state sospese "tutte le consegne di prodotti finiti con manzo della tedesca H. J. Schypke, società che lavora per uno dei nostri fornitori". Questa mattina i carabinieri del Nas hanno ispezionato la sede legale di Milano della società Nestlè e lo stabilimento di produzione di Moretta (CN) per accertare la tracciabilità, le procedure di autocontrollo e il rispetto degli obblighi sul ritiro dei prodotti Buitoni 'Ravioli di brasato' e 'Tortellini di carne'. A riferirlo è il ministero della Salute che ha aggiunto: "L'Italia ha attivato i controlli per combattere la frode comunitaria sulla carne equina sin dallo scorso 11 febbraio, appena apprese le prime notizie dalla stampa, e dunque ben prima dell'approvazione della raccomandazione della Commissione europea". Il dilagare dello scandalo della carne di cavallo in hamburger e lasagne ha spinto l'Unione Europa a scendere in campo e ad approvare una serie di test su carne di manzo per verificarne la composizione. Test cui si è detta contraria soltanto l'Italia, primo consumatore di cavallo in Europa. Opposto l'atteggiamento della Germania che - riporta il Financial Times - seguirà un piano in dieci punti che va al di là di quanto stabilito a Bruxelles per verificare l'eventuale presenza di altri additivi non dichiarati. Ma la Nestlè ha ribadito di aver rafforzato i controlli con nuovi test: "Assicurare la qualità e la sicurezza dei nostri prodotti è stata sempre una priorità per noi. Ci scusiamo con i consumatori e assicuriamo che le azioni prese per far fronte a questo problema si tradurranno in più alti standard e in una rafforzata tracciabilità" ha aggiunto in una nota la Nestlè, precisando che saranno ritirate dalla vendita anche le 'Lasagnes a la Bolognaise Gourmandes' prodotte in Francia. Nel frattempo l'industria degli hamburger risente della crisi: nella settimana che si è chiusa il 2 febbraio le vendite di hamburger congelati in Inghilterra, dove il caso è scoppiato e ha suscitato grande scalpore, sono crollate del 40% e due terzi degli inglesi - in base a un sondaggio Nielsen - si sono detti contrari ad acquistare carne surgelata in futuro.

Il veleno è in tavola, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Il caso dei tortellini al cavallo ritirati dal mercato è solo la punta dell'iceberg. Perché le sofisticazioni alimentari, dalla carne in poi, sono una pratica diffusa. E non si tratta di semplici truffe, ma di reati che ci rovinano la salute. La Nestlè ha ritirato i tortelli e i ravioli commercializzati dalla Buitoni. Motivo? Dopo alcune analisi sugli ingredienti, la multinazionale svizzera che controlla il marchio ha scoperto tracce (pari all'1 per cento) di Dna equino. In pratica, invece del manzo è stato messo nel ripieno un po' di carne di cavallo. «Nessun pericolo per la salute», si è affrettata a chiarire l'azienda. Nelle ultime settimana altri due scandali in Inghilterra hanno fatto tremare i consumatori: in alcuni hamburger congelati erano state trovate grandi quantità di carne equina, così come carne di cavallo era nel ripieno delle lasagne Findus. Anche qui le industrie alimentari hanno cercato di gettare acqua sul fuoco, spiegando che i subappaltatori avrebbero usato i cavalli perché più economici sul mercato, in modo da alzare il fatturato. Una truffa, semplicemente. Una relazione della commissione parlamentare britannica ha parlato invece, per gli hamburger, di uno «scandalo da togliere il respiro», perché la probabilità che non siano rispettati gli standard igienici e ci siano quindi rischi per la salute è altissima. Chi vi scrive nel 2010 ha pubblicato un libro (Così ci uccidono, Rizzoli) in cui si analizza il fenomeno. Perché dopo la mucca pazza, il pollo con l'aviaria, la peste suina e l'afta epizootica sulla carne si è concentrato ogni angoscia alimentare dell'ultimo decennio. Allarmi spesso ingiustificati, con false pandemie che hanno generato panico e profitti mostruosi per le multinazionali farmaceutiche che hanno venduto vaccini e medicine agli Stati di tutto il mondo. Ma la carne, però, può far male davvero soprattutto se se ne mangia troppa, mentre la sua produzione è una delle cause principali del cambiamento climatico del pianeta: tra emissioni per produzione e trasporto e gas prodotti dal sistema digerente degli animali e dal letame. Ed è, sempre più spesso, intrisa di sostanze che colpiscono la nostra salute. Partiamo dal 2008, in Canada, dodici persone muoiono per una partita di carne infetta. Il killer è un batterio che si chiama "listeria monocytogenes", e spesso appare minaccioso nel bollettino della Ue. Migliaia di tonnellate di confezioni già finite sui banchi vengono ritirate dal mercato: la Maple Leaf Food di Toronto vende insaccati anche alle aziende che riforniscono grandi catene di fast food e supermercati, il terrore si propaga in mezzo Stato. In America, nell'autunno 2007 a Cold Springs, profondo Minnesota, la signora Smith aveva deciso che quella sera avrebbe preparato una cena a base di patatine al forno, insalata e hamburger. Non poteva sapere che sua figlia Sthefanie, 22 anni, sarebbe entrata in coma dopo poche ore, e che dopo nove settimane di agonia sarebbe finita, paralizzata, su una sedia a rotelle. Tutta colpa della carne: venduta dalla Cargill come "angus beef di prima qualità", era in realtà un mix schifoso fatto di scarti di macello di vari stabilimenti, una poltiglia che conteneva un colibatterio killer, la salmonella più pericolosa di tutte, la O157:H57. Il caso di Sthefanie è finito in prima pagina sui giornali a stelle e striscie, New York Times in primis. Il caso della studentessa Daniela N., chiamiamola così, no. Nessuno in Italia ne ha parlato. Eppure, è ugualmente drammatico: dopo aver mangiato carne trattata da un macellaio di Catania con solfito di sodio, sostanza che blocca il processo di decomposizione lasciando inalterato il colore dei pezzi di bovini, subì uno choc anafilattico devastante. Era allergica ai nitrati e ai solfiti. Per colpa del conservante finì in coma per giorni. Quando si svegliò i danni celebrali erano gravissimi. Oggi è immobilizzata nel letto della sua camera. Il macellaio è stato condannato in primo grado, come ricorda l'Ansa il 13 giugno 2008, a 6 anni di reclusione e a pagare 200 mila euro alla famiglia. Daniela è stata solo sfortunata, o quello che le è capitato può accadere a chiunque? In Italia sono centinaia le persone avvelenate ogni anno da fettine, cotolette, salsicce e salumi sofisticati o di pessima qualità. I bimbi sono la categoria più a rischio: secondo l'Istituto superiore di sanità alla fine del 2008 si contavano una quarantina di casi sospetti di Escherichia coli, un'infezione che può anche avere conseguenze invalidanti. Il batterio è trasmesso dalle mucche attraverso il latte o la carne mangiata mezza cruda. Casi più gravi in Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Campania, Puglia, nei dintorni di Roma. Le ultime operazioni di polizia disegnano un quadro fosco. Prendiamo gli ultimi anni di cronache. Nel 2006 i Nas di Parma scoprono allevamenti che somministrano medicinali agli animali senza alcun controllo. Dosi di antibatterici e antiparassitari, venduti illegalmente da un'azienda farmaceutica, che potevano finire dentro il latte e le scaloppine. Nel 2007 i carabinieri di Rovigo scovano un'organizzazione di commercianti di bestiame che usa come mangime additivi cancerogeni come il Desometazone, un anabolizzante a base di cortisone che permette una rapida crescita dei manzi. Carne, latte e prodotti derivati inquinati. Nel 2008 migliaia di uomini vengono messi a cercare 90 partite di carne di maiale irlandese. Duecento tonnellate forse contaminate dalla diossina, a causa di contaminazione da mangime. Ma la diossina non l'importiamo soltanto. L'Italia è il maggiore produttore di emissioni d'Europa. L'Italia avvelena, in Europa, più di tutti. Tra diossine e furani nel 1999, secondo il direttorato generale per l'Ambiente della Commissione europea, le sostanze nocive rilasciate superavano gli 8 mila grammi I-Teq. Cifra spaventosa, considerando che le esposizioni di questi inquinanti si calcolano in picogrammi o nanogrammi. Ma quale sono le principali fonti di emissione? Al primo posto ci sono i processi industriali, che producono oltre il 40 per cento delle molecole velenose. Al secondo posto ci sono le strutture per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti, con 2.614 grammi. Gli inceneritori francesi, almeno fino a qualche anno fa, inquinavano la metà. Al terzo posto gli incendi e le emissioni naturali: qui l'Italia è dietro a Gran Bretagna e Germania. Fonti pericolose sono anche le combustioni industriali (le acciaierie sono le prime produttrici di diossina nella Ue) e le attività agricole. Vista la situazione nazionale di degrado assoluto, non stupisce che dopo le bufale di Caserta e le pecore di Taranto in Toscana siano apparsi pure i polli alla diossina. Per la precisione a Montale, in provincia di Pistoia, dove da anni decine di comitati si battono per la chiusura dell'inceneritore gestito dal Consorzio Intercomunale Servizi spa. Nel marzo 2009 sono state rese pubbliche le analisi dell'Asl di Pistoia su uova, carne e latte di 40 animali da cortile allevati vicino l'impianto, effettuati dopo un incidente del 2007 che causò sforamenti di diossine e furani e la chiusura, temporanea, delle ciminiere. I risultati sono impressionanti: su otto campioni di pollo cinque arrivano a livelli di diossine e Pcb superiori fino a 10 volte il limite ammesso. Anche i campioni di uova (oca e gallina) e di carne sono fuorilegge. Logica vuole che l'inceneritore chiuda, o che vengano fatte ulteriori analisi per capire la fonte dell'avvelenamento. Invece no. Presto l'impianto verrà allargato: il Tar ha rigettato vari ricorsi degli ambientalisti, nonostante recenti fuoriuscite di monossido di carbonio. Provincia, Arpa e Asl hanno brindato alla sentenza: secondo loro l'inquinamento c'è ma non può essere imputato solo al termovalorizzatore. Stessa reazione da parte dell'Efsa, l'autorità europea per la sicurezza alimentare con sede a Parma, nel caso dei maiali irlandesi avvelenati dal mangime: anche nell'ipotesi in cui una persona abbia divorato carne contaminata per tutto il periodo dell'emergenza, le conseguenze sulla salute sarebbero inesistenti. Allora, perché parlare di emergenza? Perché effettuare migliaia di sequestri in tutta Europa? Mangiare carne fa male. Al di là delle partite tossiche (la stessa Efsa ha lanciato l'allarme nell'aprile 2009 su due "affumicanti" alimentari, l'Unismoke e lo Zesti Smoke Code 10, additivi usati per dare l'aroma a salsicce e costolette) , non si contano gli studi che evidenziano come eccedere in bistecche sia certamente rischioso. L'ultimo è stato condotto dall'Istituto americano di tumori su quasi mezzo milione di persone: il gruppo di uomini e donne che includevano nella dieta troppe carni rosse o trasformate industrialmente hanno mostrato un rischio di mortalità più alta, e rischi maggiori di malattie come cancro e infarto. L'11 per cento di maschi e il 16 per cento di femmine, consumando meno carne, avrebbe potuto salvarsi. Il Word Cancer Research Found dopo qualche mese ha chiesto alle famiglie di sostituire prosciutto e salumi delle merende dei bambini con carne di pollo, possibilmente priva di ormoni o diossine, e formaggi a bassa contenuto di grasso. Insaccati e carne sotto sale aumentano, secondo loro, il rischio di cancro al colon. Persino una bistecca "insospettabile", come quella di cavallo, può nascondere tra le sue fibre veleni di ogni tipo. La pratica di vendere sui banchi del macellaio roba insalubre è, inchieste alla mano, non è solo un'italica consuetudine: due anni fa l'Observer scoprì che in Inghilterra ogni anno cinquemila purosangue troppo vecchi per saltare le siepi vengono uccisi con una revolverata alla testa, squartati, infilati in camion frigoriferi e spediti in Francia, dove la carne equina è particolarmente apprezzata. Secondo «Rapporto Zoomafia» pubblicato nel 2009 dalla Lav in Italia le corse clandestine producono un business da un miliardo di euro: in dodici mesi Nas e polizia hanno sequestrato 114 cavalli, denunciato 231 persone, arrestato 30 persone e migliaia di confezione di farmaci, che servono a dopare gli animali per farli correre sulle strade asfaltate delle città. In tutta Italia la cupola del bestiame fa ricchi gli affiliati trafficando medicine illegali, falsificando documenti sanitari, diffondendo malattie infettive: anche le carni degli animali infetti sono state vendute e commercializzate, per un giro d'affari che supera i 400 milioni l'anno. Nel 2006 Napoli e Caserta sono stati epicentro dell'operazione l'Operazione Diomede della Direzione distrettuale antimafia, che ha portato al sequestro di 82 cavalli, e 10mila confezioni di medicinali vietati dalle norme antipoding. Antipiretici, antistaminici, analgesici, stimolanti respiratori, ormoni sessuali, anabolizzanti e farmaci che modificano la coagulazione del sangue. Anche le pillole blu di Viagra venivano somministrate in dosi massicce alla bestie da corsa, che ha fine carriera si trasformavano in bistecche al veleno. All'organizzazione partecipavano fantini e medici, proprietari di scuderie e allevatori, forse ignari che gli ormoni, soprattutto se mangiati dai bambini, aumentano esponenzialmente il rischio di ammalarsi di tumore.

I dispiaceri della carne, scrive Riccardo Bocca su “L’Espresso”. Controlli insufficienti. Allevamenti lager. Macellazioni clandestine. Ampio uso di farmaci. È allarme per gli animali che finiscono sulle nostre tavole. E ogni italiano ne consuma 92 chili l'anno. Nel piatto c'è un filetto al sangue. O una costata di maiale. O un pollo al forno che aspetta di essere divorato. La forchetta è già a mezz'aria quando si affaccia un dubbio: ma in che percentuale, la carne macellata in Italia, viene controllata dai veterinari pubblici? Insomma: quanto possiamo essere certi che, nel cibo che stiamo mangiando, non siano contenute sostanze tossiche o comunque pericolose? La prima risposta arriva da Francesca Martini, sottosegretario alla Salute: "Il consumatore italiano può stare tranquillo", garantisce, "la sicurezza della filiera alimentare è assoluta, anche per la carne. Tutti gli standard europei vengono rispettati. I nostri veterinari sono un esempio di professionismo. Dunque non c'è da preoccuparsi". O meglio: non ci sarebbe, se non si intrecciassero i dati dell'anagrafe nazionale bovina, dell'Istat e dell'Unione nazionale avicoltura con le statistiche del Piano nazionale residui, il programma ministeriale "di sorveglianza sulla presenza, negli animali e negli alimenti di origine animale, di residui di sostanze chimiche che potrebbero danneggiare la salute pubblica". Da questo intreccio di analisi escono numeri poco entusiasmanti, scenari poco popolari. Nel 2009, ad esempio, la percentuale dei controlli sui bovini macellati (in tutto 2 milioni 949 mila 828) ha riguardato 15 mila 803 capi, ed è stata pari allo 0,5 per cento. Dei 13 milioni 616 mila 438 suini macellati, invece, i veterinari ne hanno controllati 7 mila 563, cioè uno striminzito 0,05 per cento. E ancora meno sono stati controllati gli 11 milioni 740 mila quintali di volatili macellati (tra polli, tacchini, oche e quant'altro), con un totale di 4 mila 316 verifiche e il record negativo dello 0,03 per cento (inferiore agli standard imposti dalle direttive Ue). "Il settore delle carni è una polveriera, ne paghiamo ogni giorno le conseguenze, ma nessuno ha interesse a sollevare la questione", dice Enrico Moriconi, presidente dell'Associazione veterinari per i diritti animali (Avda). Un problema di prima grandezza, considerando che lo scorso anno gli italiani hanno consumato in media 92 chili di carne a testa, e che per il presidente di Assocarni Luigi Cremonini "i consumi sono destinati a crescere". Eppure l'opinione pubblica è serena: "La gran parte della popolazione continua a non chiedersi cosa può nascondere una bistecca", sostiene Moriconi: "Al massimo si agita quando scoppiano episodi di straordinaria gravità: come l'influenza aviaria nel 1999 e 2002, la cosiddetta mucca pazza nel 2001, o le carni suine irlandesi contaminate dalla diossina nel 2008". Emergenze che la sanità italiana ha affrontato senza sbandamenti, va riconosciuto, adeguandosi velocemente ai protocolli internazionali. Ma la comune origine di questi allarmi è rimasta identica: "Una zootecnia suicida basata sugli allevamenti intensivi", la chiama Roberto Bennati, vicepresidente della Lega antivivisezione (Lav). "Una strategia industriale che, partita dagli Stati Uniti nel dopoguerra, è arrivata in Europa travolgendo regole e tradizioni". Anno dopo anno, ettaro dopo ettaro, al posto dei pascoli si sono imposti capannoni "dove gli animali vivono in condizioni di sovraffollamento, immersi nell'inquinamento dei loro stessi escrementi (pregni di ammoniaca per i bovini, e metano per il pollame), con limitate possibilità di movimento e reiterati bombardamenti farmacologici". Non importa che anche la Food and agricolture organization, a nome delle Nazioni Unite, definisca queste strutture "un vivaio di malattie emergenti". Malgrado la crisi, l'industria italiana delle carni nel 2009 ha fatturato 20,5 miliardi di euro. Ed è una cifra che colpisce, oltre che per dimensioni, per il confronto con la quantità di bestiame che muore all'interno delle nostre aziende zootecniche. "Nel 2008", documenta la Lav, "sono morti in Piemonte 20 mila 700 bovini allevati. In Veneto sono arrivati a quota 24 mila 433. In Emilia Romagna ne hanno contati 18 mila 217 e in Lombardia 67 mila 996. E' accettabile questo cimitero? E chi può dire, in buona fede, che non bisogna allarmarsi?". Discorsi scivolosi, comunque li si prenda. Non soltanto nel campo dei bovini, e non solo sul fronte della salute in senso stretto. Dice Nino Andena, presidente dell'Associazione italiana allevatori (Aia): "Siamo arrivati al punto che stanno meglio gli animali negli allevamenti, che gli esseri umani nelle loro case...". E verrebbe da credergli, tanta è la disponibilità con cui presenta la zootecnia moderna. Ma poi uno arriva a Colombaro di Formigine, provincia di Modena, e trova una realtà come quella della Società agricola Colombaro. "Qui cresciamo 20 mila suini", mostra stalla per stalla il titolare Domenico Bellei. E non è un bello spettacolo: ecco cinque maialini schiacciati, durante lo svezzamento, in ogni metro quadro; eccone altri quattro in un metro quadro tra i 70 e i 180 giorni di vita; ecco, ancora, gli 80 centimetri pro capite nei quali si trovano i suini all'ingrasso. E mentre una fila di bestie urlanti sale sul rimorchio che le porterà a diventare porchetta, Bellei fa un ragionamento schietto: "Anche noi preferiremmo allevare maiali con altri criteri, più rispettosi del loro benessere. Ci abbiamo pure provato, ma prevalgono le esigenze commerciali. Così rispettiamo le regole ed evitiamo le ipocrisie: se gli italiani pretendono l'etica da noi allevatori, accettino che i prodotti siano più cari. Altrimenti è soltanto teoria...". Parole condivisibili, per certi versi: ma anche incomplete. C'è molto altro, infatti, da dire sull'esistenza intensiva dei maiali. Per esempio che i tecnici dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa), hanno presentato nel 2009 un'indagine sulla salmonella nei suini da riproduzione. E il risultato, accolto dal silenzio pneumatico dei mass media, è che il batterio risulta presente nel 51,2 per cento degli allevamenti italiani (superati dalla Spagna con il 64 per cento, l'Olanda con il 57,8, l'Irlanda con il 52,5 e il Regno Unito con il 52,2). "Quanto basta per ribadire che la carne, fuori e dentro l'Italia, è un vettore di rischio", dice la biologa Roberta Bartocci. E lo scenario non cambia, aggiungono gli animalisti, spostandosi dai suini al pollame. "Sempre l'Efsa", spiegano, "ha concluso uno studio sulle carcasse dei polli da carne, e la scoperta è che nel 2008 il 49,6 per cento dei campioni italiani era affetto da campylobacter (un batterio che, in caso di cottura non completa della carne, può provocare forti dolori addominali, febbre e diarrea), mentre il 17,4 mostrava tracce di salmonella". "La verità", segnala il responsabile dell'Unità operativa igiene degli allevamenti piemontesi Gandolfo Barbarino (membro anche delle commissioni ministeriali per il farmaco veterinario e i mangimi), "è che nel settore carni ci vorrebbe più trasparenza". A partire dal famoso Piano nazionale residui, che dovrebbe individuare le sostanze illegali somministrate al bestiame per prevenire i malanni e velocizzarne la crescita. "Nel 2009", racconta Barbarino, "su 33 mila 552 campioni analizzati, è risultato positivo appena lo 0,22 per cento. Ma non c'è da festeggiare. Il problema è che i riscontri si basano sulle analisi chimiche di fegato, carni, sangue e urine. E chi pratica il doping, in questo campo, ha raggiunto livelli di tale raffinatezza da sfuggire ai controlli". Per i bovini la procedura è semplice e rigorosa, spiega un allevatore campano dietro promessa di anonimato: "Prima di tutto i trattamenti avvengono il venerdì, perché nel fine settimana i dopanti fanno in tempo a diventare invisibili". Si tratta di cocktail che contengono "dieci, dodici sostanze proibite: in dosi ridotte ma con effetti esplosivi". Nei primi due mesi, prosegue l'allevatore, "per far crescere alla svelta gli animali si dà estradiolo con testosterone o nandrolone. Poi si passa ai beta agonisti, che favoriscono la diminuzione del grasso, fino alla vigilia della macellazione. E nell'ultimo periodo, utilizziamo i cortisonici per aumentare la ritenzione idrica e definire al massimo la massa muscolare". Tutto con la certezza dell'impunità totale, precisa: "Perché è vero che ci sono i controlli, ma altrettanto vero è che pochi veterinari hanno voglia di discutere con la camorra". Anche per questo, spiegano gli addetti ai lavori, non bastano i 6 mila 500 veterinari in forza alle pubbliche amministrazioni (dei quali 5 mila 787 nelle Aziende sanitarie locali) a garantire la sicurezza delle carni italiane. "Il malaffare e l'opacità mettono a dura prova qualunque sorveglianza", dice il biologo Pierluigi Cazzola, responsabile a Vercelli dell'Istituto zooprofilattico sperimentale (Izs). Basti pensare al documento riservato, e non ufficiale, che il ministero della Salute ha discusso il 19 maggio con esponenti dei carabinieri, dell'Istituto di zooprofilassi e dell'Istituto superiore di sanità. "Al centro dell'attenzione, c'era la tabella del ministero con i farmaci prescritti agli animali d'allevamento", spiega un testimone. "In particolare, si è chiesto alle Regioni di specificare quante volte nel 2009 i veterinari avessero legalmente permesso agli allevatori di utilizzare sostanze delicate per la salute animale (e quindi umana) come gli ormoni. "L'esito, poco credibile, è che in Emilia Romagna su 46 mila 383 prescrizioni ordinarie non è risultato nessun caso. Idem per la Sicilia, su un totale di 9 mila 641 prescrizioni. Per non parlare di Lombardia, Liguria, Campania, Calabria, Basilicata, Veneto, Friuli e Sardegna, che scaduti i termini di consegna non avevano ancora inviato i dati". In questo clima, viene da pensare, tutto è possibile: non solo dentro i capannoni intensivi, ma anche nei pascoli di montagna. Raccontano gli allevatori abruzzesi onesti, ad esempio, che le loro parti non sono esenti da illegalità: "Si tratta", spiega uno di loro, "delle marche auricolari, i sigilli che per gli animali equivalgono a carte d'identità". Un tempo erano targhe metalliche, difficilmente trasferibili da una bestia all'altra. "Oggi invece sono di plastica, si staccano senza problemi, e vengono applicate alle bestie straniere, importate di nascosto ed escluse dal circuito sanitario". Oppure, dice un altro allevatore, "c'è chi le marche auricolari non le mette proprio, allevando anche animali malati". E non sono notizie per sentito dire. Per verificarlo basta salire fino ai pascoli di Pratosecco, sopra al comune di Camerata Nuova, e osservare un branco di circa 300 vacche. La maggioranza dei capi, va sottolineato, ha regolari marche. Altri, invece, no. "Il problema è capire di chi sono questi animali", spiega Massimiliano Rocco di Wwf Italia, presente al sopralluogo, "e poi catturarli: tracimano ovunque, dai prati ai boschi, in un circuito di illegalità che parte dall'estero e arriva al nostro territorio". Certo: non sbaglia François Tomei, direttore di Assocarni, quando sostiene che nel suo settore "il numero di controlli ufficiali in Italia è superiore a quello di qualsiasi altro Paese". E fa bene a ricordare che "la filiera italiana ha un prodotto con caratteristiche organolettiche e nutrizionali particolarmente elevate". Ma non è ancora sufficiente, a chiudere il discorso: "A tutelare i consumatori, sarebbe utile anche un'Agenzia per la sicurezza alimentare", dice la senatrice Colomba Mongiello (Pd), "ma il governo ha pensato di inserirla tra gli enti inutili". Ora, spiega, si è arrivati a una probabile retromarcia, ma se anche l'Agenzia dovesse partire mancherebbero gli indispensabili decreti attuativi: "La sensazione è che, in un Paese che mal tollera i controllori, non sia un ritardo casuale". Quanto al fronte estero, e al rischio che i nostri confini siano attraversati da bestiame malato, o in ogni caso fuori controllo, è utile leggere i regolamenti comunitari. Soltanto così, infatti, si apprende che in Europa i controlli spettano alle nazioni che esportano bestiame, mentre gli Stati riceventi possono giusto svolgere "controlli per sondaggio e con carattere non discriminatorio". Un obbligo che limita l'eccellente rete dei nostri Uffici veterinari per gli adempimenti degli obblighi comunitari (Uvac) e dei Posti di ispezione frontaliera (Pif). "Ma soprattutto", commentano i veterinari, "fa guardare con sospetto al lungo elenco di nazioni che non segnalano alcuna positività delle loro bestie alle sostanze proibite". Tra queste, recita la tabella disponibile del 2007, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Romania, Slovenia, Repubblica slovacca e Svezia. Da qui, il baratro delle macellazioni clandestine. "Di recente", dicono al Wwf Italia, "è arrivato sui nostri tavoli un dettagliatissimo documento sul ciclo illecito degli scarti di macellazione in Campania, Basilicata e Puglia". Quattro pagine anonime in cui si spiega come pezzi di animali a rischio non vengano eliminati dopo la macellazione, ma rientrino nel sistema alimentare sotto la guida di organizzazioni criminali. Un'ipotesi da approfondire, anche perché in linea con quanto accaduto in Italia nel 2009. Lo scorso febbraio, per dire, il Nucleo anti sofisticazioni dei carabinieri (Nas) ha sequestrato 18 tonnellate tra carne e prodotti di origine animale: non solo trovati in pessimo stato di conservazione, ma privi della bollatura sanitaria. "Nell'occasione", hanno scritto le agenzie di stampa, "sono stati individuati 102 centri di macellazione clandestina, con 113 persone denunciate per il mancato rispetto delle norme igieniche e la non corretta tenuta dei capi animali da parte degli allevatori". Ecco perché non stupisce una comunicazione riservata del Nucleo agroalimentare e forestale (Naf), nella quale si spiega che "le macellazioni clandestine interessano (in Italia, ndr) circa 200 mila bovini, che spariscono ogni anno dagli allevamenti ad opera della malavita". Non c'è controllo che tenga. Non c'è multa che scoraggi. I dispiaceri della carne abbondano, anche se nessuno pare allarmarsi. "Per questo", dice Walter Rigobon, membro della segreteria nazionale di Adiconsum (Associazione in difesa di consumatori e ambiente), abbiamo stretto un accordo in provincia di Treviso con il consorzio Unicarve e i supermercati Crai". Di fatto, spiega, "garantiamo ai consumatori carne che abbia una tracciabilità totale: dalla nascita dell'animale fino al banco vendita". L'iniziativa si chiama "Scrigno della carne": "Perché la salute è un bene prezioso", dice Rigobon. Anche più del business.

Sai cosa c'è nel tuo calice? Chiede Agnese Codignola su “L’Espresso”. Per vinificare si usano più di 600 sostanze. Molte indispensabili anche nel Doc e nel biologico. Ma spesso dannose per la salute. Ecco una breve guida per bere davvero 'bene'. Tutto fuorché una spremuta di uva invecchiata e profumata. Il vino, tra sostanze presenti naturalmente e sostanze aggiunte per ottimizzare la produzione, contiene più di 600 specie chimiche, in parte non del tutto note. Per ottenere un buon vino ci vogliono infatti lieviti, enzimi, antischiumogeni, sostanze che stabilizzano e conservano, altre che esaltano aroma e colore, altre che filtrano e così via, moltissime delle quali indispensabili anche nel migliore dei Doc e persino nel vino biologico. Ma, come tutte le sostanze chimiche, anche quelle contenute nel vino possono avere effetti sulla nostra salute. Per questo serve imparare a distinguere un vino non solo buono ma anche salutare, da uno che sarebbe meglio non bevessimo. Una prima regola la fornisce uno dei massimi esperti mondiali in materia di vite e vino, Mario Fregoni, già ordinario di viticoltura all'Università Cattolica di Piacenza: «Il vino migliore è quello naturale, ossia quello cui non si aggiunge nulla che non sia già presente». In altre parole, meglio puntare sui vini in cui gli ingredienti sono già presenti nel succo d'uva lasciato fermentare come i tannini e che vengono rinforzati, aggiunti (sempre entro limiti ben precisi), e dove le sostanze di sintesi, assenti nell'uva, non entrano se non in minima parte, e in quel caso vengono indicate in etichetta. Perché è ovvio che, con 600 sostanze chimiche in ballo, l'etichetta diventa un vero salvavita. E sarebbe bene che il consumatore potesse leggere tutti i componenti del prodotto che sta acquistando. L'ottenimento di un buon vino, infatti, non può prescindere da una serie di passaggi che prevedono l'impiego di sostanze di vario tipo, alcune delle quali potenzialmente pericolose e quindi da segnalare.

INDISPENSABILI

La più nota e discussa delle sostanze che i consumatori ritrovano nel vino, è l'anidride solforosa (SO2), gas somministrato in varie forme insieme ai suoi sali solidi, i solfiti. Anidride e solfiti sono di norma aggiunte perché svolgono molteplici azioni antisettiche e antiossidanti necessarie a mantenere il vino integro e, soprattutto, a evitare che, una volta terminata la prima fermentazione, se ne avvii una seconda, che lo danneggerebbe irrimediabilmente. I produttori insomma li usano. Anche se oggi sarebbe possibile evitare di aggiungernene. Il fatto interessante è che, aggiunti o no, il vino i solfiti se li genera da sé perché si formano durante alcune reazioni chimiche indotte da lieviti e batteri. E da qui nascono i problemi. Spiega Cinzia Le Donne, nutrizionista dell'Istituto Nazionale per la Ricerca sugli Alimenti e la Nutrizione (Inran):«I solfiti sono stati riconosciuti come responsabili di possibili reazioni pseudo-allergiche, che danno sintomi sovrapponibili a quelli che si osservano nelle allergie, ma senza che vi sia un coinvolgimento del sistema immunitario. Gli asmatici sono particolarmente sensibili nei confronti dei solfiti, e possono manifestare crisi respiratorie dopo l'assunzione più o meno gravi fino allo shock anafilattico. Nelle persone non asmatiche i sintomi possono essere soprattutto cutanei e gastrointestinali». Perciò queste sostanze sono gli unici additivi inseriti nella Direttiva Allergeni della Ue, e se la loro concentrazione supera i 10 milligrammi per litro, la bottiglia deve recare la dicitura Contiene solfiti. Ma non deve essere detto nulla di più, e il consumatore resta nell'impossibilità di capire se di solfiti ce ne sono pochi grammi o dieci volte tanto. La buona notizia è che «i solfiti nei vini normali si sono più che dimezzati negli ultimi anni», aggiunge Le Donne. Non solo, per chi vuole livelli ancora più bassi, resta il vino biologico che può definirsi tale se ha livelli inferiori di solfiti dei vini tradizionali. Resta però il fatto che si tratta di sostanze presenti in molti altri cibi e bevande: birra, succo di limone, frutta essiccata, come in prodotti a base di carne o pesce e nei crostacei. Di conseguenza, la quantità di sostanza che possiamo assumere tutti i giorni della nostra vita senza avere alcun effetto negativo sulla salute (la cosiddetta Dose giornaliera ammissibile, Dga) può essere facilmente superata anche con un vino che ne contiene livelli bassi. Le conseguenze allora si possono manifestare anche nelle persone che non hanno particolari problemi di allergie gravi, ma che, quindi, possono lamentare cerchio alla testa, nausea, vomito, senso di pesantezza.  Ma nel vino, come detto, c'è molto altro. Spiega ancora Le Donne: «Il vino contiene additivi e residui di contaminanti che possono essere nocivi per la salute». Sono utilizzati acidificanti, stabilizzanti, regolatori dell'acidità, attivatori della fermentazione, agenti antischiumogeni, conservanti, antiossidanti, vari coadiuvanti e solventi, enzimi, solo per citare le classi di composti più diffuse. Per molte di queste sostanze la legge indica un livello massimo di impiego, altre non hanno effetti sulla salute documentati (per esempio l'acido ascorbico) e quindi possono essere usati a seconda del bisogno del vinificatore.

PERICOLOSI

Non indispensabili ma quasi sempre presenti, sono le proteine delle uova e del latte, usate per la chiarificazione. Un tempo questo passaggio si faceva solo sul bianco, ma oggi viene fatto sempre, per evitare opacità e depositi. Aggiungendo i chiarificanti si forma una gelatina che funziona da filtro e che poi viene rimossa. Proprio per questo alcuni specialisti ritengono che l'obbligo dell'indicazione in etichetta sia uno scrupolo eccessivo (in teoria dovrebbero rimanere solo tracce di uova e latte), ma altri sottolineano che le persone allergiche possono risentirne comunque, anche se le dosi usate non sono in grado di scatenare reazioni anafilattiche. Come per tutti gli alimenti, poi, nel vino è possibile trovare contaminanti naturali come il piombo del terreno o l'ocratossina A, tossina prodotta da vari funghi, che possono costituire un rischio grave per la salute pubblica; per questo l'Unione europea ne stabilisce i livelli massimi, al fine di ridurne la presenza nei prodotti alimentari a quantitativi minimi. Oltre a ciò, sono sempre possibili residui di fitofarmaci, oggi sottoposti a stretto controllo lungo tutta la filiera produttiva ma molto usati.

ILLEGALI

Il 17 marzo 1986 una partita di vino adulterato con metanolo causa l'avvelenamento di decine di persone in nord Italia, con danni neurologici e cecità, e il decesso di ben 23 persone. Ancora oggi tutti ricordano il caso del vino al metanolo, che ha rappresentato forse il punto più basso delle adulterazioni italiane ma, purtroppo, non certo l'unico. Più di recente, infatti, il pregiato Brunello di Montalcino è stato al centro di indagini e sequestri in tutta la Toscana (42 le aziende coinvolte), perché al posto del Brunello le aziende avrebbero venduto mix fantasiosi di altri vini di qualità inferiore. Scorrendo le cronache poi, si trovano sequestri frequenti di vini con gradazioni alcoliche diverse da quelle previste, aggiunte di zuccheri diversi da quelli presenti nell'uva (pratica del tutto vietata in Italia ma usata quando si vuole fare del vino partendo da vinacce scadenti, quasi sempre importate da paesi lontani), che hanno bisogno di robuste lavorazioni per diventare commerciabili, ingredienti di sintesi quali liquidi di refrigerazione molto altro (coloranti, conservanti, aromi e additivi non permessi), proprio perché le sostanze presenti sono così tante che la fantasia dei truffatori si può scatenare. Si tratta però sempre, appunto, di truffe, contro le quali il consumatore può poco. Diverso è il caso del vino di bassa qualità. Come individuarlo? «Il consumatore può affidarsi ai marchi certificati come i Doc, sui quali i controlli sono severi lungo tutta la filiera, perché nessun produttore oggi può permettersi il danno derivante da frodi, truffe, intossicazioni», spiega Fregoni: «Infine il prezzo: è meglio diffidare di quelli troppo bassi. Oggi si trovano in commercio bottiglie di vino che costano meno di due euro, ma di fatto è impossibile arrivare a prezzi così e il rischio che si tratti di vini ottenuti da vinacce comprate chissà dove e poi trattate anche con procedimenti illegali come l'aggiunta di zucchero è concreto. Meglio bere meno ma puntare sul sicuro».

Acque velenose, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Nichel. Arsenico. Fosforo. Sostanze pericolose dai nostri rubinetti. E le Regioni lo nascondono alzando i limiti di legge. Un libro racconta i disastri d'Italia. I veleni sono in agguato. Nell'acqua che beviamo, nel cibo, nell'aria che respiriamo, nei cosmetici. Esce mercoledì prossimo 'Così ci uccidono' (Rizzoli), l'inchiesta di Emiliano Fittipaldi, giornalista de 'L'espresso' che racconta storie e segreti di avvelenatori e avvelenati, protagonisti di un disastro nazionale di cui nessuno vuole parlare. Anticipiamo un brano dal primo capitolo. Lo stato delle acque pubbliche italiane e la possibilità, accettata per legge, che si possano ingurgitare sorsi di sostanze tossiche al di sopra delle soglie massime è un fenomeno nascosto, che coinvolge centinaia di comuni in tutto il Paese. Città e piccoli centri dove ogni giorno dai rubinetti della cucina e dalla doccia sgorgano, mischiate alle molecole d'acqua, anche quelle dell'arsenico, dell'alluminio, del cromo, del nichel. Con l'aggiunta di un po' di piombo, vanadio, fluoro, selenio, trialometanio, atrazina. E spesso in quelle zone i tassi di mortalità sono più alti rispetto a quanto dovrebbero essere. "Atra... che?". "Atrazina, signora.". "E quindi?". "E quindi non la deve più bere né bollirci le patate". Così la signora Maria Rosa di Dossobuono da Villafranca di Verona, profondo Nord-Est, ha scoperto che l'acqua del suo comune era una schifezza. Il 30 settembre 2009 il sindaco Mario Faccioli ha stabilito con un'ordinanza "l'interdizione del consumo dell'acqua da parte della popolazione, fino all'avvenuto ripristino della qualità-idoneità dell'acqua erogata". Maria e 11 mila compaesani dalla sera alla mattina hanno imbracciato taniche e bottiglie vuote e fatto la fila per riempirle alle cisterne. L'acqua era un pericolo. Atrazina e desetilatrazina vogliono dire tracce di concimi azotati usati in agricoltura e di un diserbante vietato dal 1992. Ma quanta ne hanno bevuta prima di esserne informati? Una disposizione simile è in vigore anche a Civitavecchia, nel Lazio, dove nei bagni di certe aziende c'è scritto sopra i lavandini: 'Non bevete'... Qui a rendere torbida l'acqua sono gli organoalogenati, composti nocivi anche per semplice inalazione. Purtroppo non si tratta affatto di casi limite. Nell'ultimo anno, solo per fare qualche esempio, divieti assoluti sono scattati a Campomarino (Molise), Agrate Brianza (Lombardia), Satriano (Calabria), Mussomeli e Campobello di Licata (Sicilia). A Talamone, in Toscana, il sindaco ha invece ordinato di "far bollire l'acqua per almeno quindici minuti, se la si vuole utilizzare per usi alimentari". Tranquillizzante. Che cosa contamina le nostre acque e perché? Ci sono diverse spiegazioni: la morfologia del territorio, gli scarichi industriali, la carenza delle condutture. Talvolta in un solo territorio concorrono all'inquinamento tutte e tre le situazioni: nella zona dei Colli Albani, nel Lazio, in un'area che interessa 1.500 chilometri quadrati e quasi 600 mila persone, le acque sono intossicate dalle emissioni gassose sotterranee del Vulcano Laziale, ricche di anidride carbonica, che entrano in contatto con le rocce portando nelle tubature metalli pesanti. Il mix è inoltre arricchito dai liquami privati, che vengono scaricati nel terreno. Ne risulta una massiccia presenza di elementi cancerogeni o fortemente tossici come il fluoro, l'arsenico, l'uranio nelle falde sottostanti. A Crotone, in Calabria, se possibile va ancora peggio. Si sospetta che l'acqua sia contaminata e avvelenata da arsenico, cadmio e altri minerali tossici... Un altro disastro si è verificato nei pressi di Pescara, in una valle a 50 chilometri dalla città... Abruzzo, Colli Albani, Civitavecchia, Veneto sono solo esempi probabilmente abbastanza noti della devastazione massiccia del nostro territorio. Pochi sanno però che le nostre istituzioni ce la danno a bere, letteralmente, l'acqua avvelenata che ha invaso acquedotti e condutture. Non possono evitarlo, l'unico modo è lasciare a secco qualche milione di persone. Ma come ci riescono senza farsi notare troppo? Attraverso le cosiddette "deroghe". La questione risale ai primi anni Duemila, quando entra in vigore il decreto legislativo 31/2001, che disciplina le acque destinate al consumo umano. Le norme stabiliscono i valori limite dei parametri microbiologici e chimici che possono essere presenti nell'acqua per definirla "potabile". Ma, in particolari circostanze di degrado della risorsa idrica, l'articolo 13 del decreto concede alle amministrazioni "interessate" la possibilità di accordare deroghe ai valori prescritti, purché non comportino "potenziale pericolo per la salute umana e sempreché l'approvvigionamento di acque destinate al consumo non possa esser assicurato con altro mezzo". In pratica, se l'acqua comune presenta elementi potenzialmente nocivi, l'ente locale lascia aperti i rubinetti e fissa dei termini entro i quali dovrà provvedere a riportare i parametri a norma. Peccato che in genere le deroghe non durino pochi mesi, ma vengano rinnovate di anno in anno. Un controsenso anche per l'Unione europea: dal 2012, non sarà più possibile far ricorso ai regimi in deroga. Senza trucchetto, però, c'è il rischio concreto che milioni di famiglie possano rimanere senz'acqua. Dal 2002 almeno 13 regioni italiane hanno fatto uso massiccio di deroghe. La prima è stata la Campania, proprio quell'anno, per eccesso di fluoro nelle acque... Le deroghe accordate per 14 comuni della provincia di Napoli erano ancora in vigore nel 2009. Nel 2003 si sono aggiunte Sicilia e Toscana. Nell'acquedotto di Palermo e di altri comuni della fascia costiera ci sono troppi cloriti: i cittadini hanno bevuto livelli 'fuorilegge' fino al 2007. Stessa sorte per le deroghe nei comuni del massiccio etneo, in provincia di Catania, accordate anche per vanadio e boro; mentre nel 2008 a un comune della provincia di Trapani è stata concessa deroga per i nitrati, legati all'allevamento e all'uso di fertilizzanti. Per quanto riguarda la Toscana, dal 2003 si sono bevuti veleni in eccesso in ben 137 comuni... Gli elementi oggetto delle deroghe sono arsenico, boro, cloriti, trialometani... In genere le lievi contaminazioni da arsenico comportano lesioni, arti gonfi e perdita di sensibilità, mentre quelle più gravi possono portare fino al cancro alla vescica, ai polmoni e ai reni... Marco Betti, assessore della regione Toscana alla Difesa del suolo, si è detto sicuro che l'emergenza rientrerà presto... Nel 2004 le regioni che hanno adottato deroghe raddoppiano. Oltre a Campania, Sicilia e Toscana si sono aggiunte Lombardia, Piemonte, Trentino, Emilia-Romagna, Marche, Puglia e Sardegna. In Emilia e nelle Marche si è disposta per due anni la deroga in alcuni comuni dove erano presenti cloriti. Invece Lombardia e Piemonte fanno eccezioni per le località dove le acque sono ricche di arsenico... In Puglia sono state disposte deroghe (attive tuttora) per cloriti e trialometani... Pure la regione Sardegna ha dispensato alcuni comuni dai parametri legali di cloriti, trialometani e vanadio... Il Lazio è una delle aree italiane dove il problema delle contaminazioni delle risorse idriche è più forte. Come descritto in un rapporto di Cittadinanzattiva, se nel 2006 le deroghe riguardavano complessivamente 37 comuni, di cui 15 per tre parametri contemporaneamente, nel 2009 il totale dei comuni ammonta a 84 e in 59 tra questi le dispense riguardano quattro parametri: arsenico, fluoro, selenio e vanadio... Nel 2006 tocca al Veneto derogare le acque di un paesino della provincia di Verona, dati gli alti tassi di tricloroetilene e tetracloroetilene, contaminanti organici molto utilizzati nelle lavanderie e nelle industrie metalmeccaniche... Qui il caso è virtuoso: dopo un anno il Veneto ha deciso di non prorogare. L'ultima regione ad adottare dispense normative è stata l'Umbria, nel 2008: deroghe sull'arsenico attive ancora oggi, sebbene l'assessorato regionale assicuri: "Sono problemi di origine geologica, ci sono da sempre e si sostanziano in 14 microgrammi di arsenico a litro d'acqua". Ovvero poco al di sopra di quanto consentito dalla legge.

LA MAFIA AGRO-ALIMENTARE.

Ci fregano pure con il falso bio di Paolo Biondani su “L’Espresso”. Grano, orzo, soia, semi di girasole. Coltivati con i fitofarmaci, i pesticidi eccetera. Ma venduti dai grossisti come se fossero naturali ed ecologici. Per farli pagare di più ai dettaglianti e quindi ai consumatori. La Finanza ha scoperto la truffa. Ma si teme non sia l'unica. La grande truffa del falso bio era una macchina da soldi capace di superare tutti i controlli affidati per legge al ministero dell'Agricoltura. Con buona pace dei consumatori che sognano un'Italia più verde. E dei tanti produttori onesti di sano e vero cibo senza chimica.

Il classico sassolino che fa inceppare un ingranaggio in grado di truccare il 10 per cento di questo mercato made in Italy è una verifica fiscale, che di per sé mira a scovare evasori, non frodi alimentari. Nell'estate 2010 la Guardia di Finanza ispeziona una ditta veneta di commercio all'ingrosso di farine e mangimi. Nonostante la crisi il fatturato è in crescita esponenziale: da 9 a 49 milioni di euro. L'impresa dichiara, tra l'altro, di aver comprato in Italia e rivenduto in Austria e Germania circa 400 tonnellate di soia certificata. Mettendo in fila quelle prime fatture, i militari notano che i carichi con il marchio bio sono al centro di una carovana di trasporti sospetti. La merce non si limita a passare dall'agricoltore al grossista, prima di varcare la frontiera e finire nei supermercati mitteleuropei. Sulla carta, la soia fa lunghi viaggi che sembrano inutili triangolazioni. La Finanza sente puzza di fatture false. Allarga i controlli ai trasportatori. E scopre camion che non avevano pagato l'autostrada. O che risultavano fermi nei depositi. Dopo i primi interrogatori in caserma, a cedere è proprio il fronte dei Tir. Il primo camionista dice di non ricordare. Il secondo giura che gli si era rotto il cronotachigrafo, per cui non può ricostruire il percorso. Ma gli altri ammettono: mai fatto quei trasporti, la soia in realtà non si era mai mossa dai magazzini. Un reato fiscale che fa partire la caccia al movente: perché un grossista fornito della preziosa certificazione bio ha bisogno d'inventare viaggi inesistenti? La risposta arriva il 6 dicembre, quando la Finanza chiude la prima fase dell'inchiesta con sette arresti non solo per i reati tributari, ma anche per la sottostante maxi-frode commerciale: 704 mila tonnellate di normali prodotti agricoli smerciati con un marchio bio in realtà ingiustificato, per un valore all'ingrosso di oltre 210 milioni di euro. A conti fatti, la truffa riguarda un decimo dell'intero volume di spesa per il biologico italiano. Mettendo in fila i carichi incriminati, si otterrebbe una colonna di camion lunga decine di chilometri. Le fatture considerate false chiamano in causa, per ora, 22 aziende italiane e 16 straniere: le nuove indagini, avviate anche in altri Paesi europei, dovranno accertate quali fossero complici o soltanto vittime di raggiri altrui. Gli indagati sono già 14. Ma con le prime confessioni degli arrestati lo scandalo promette di allargarsi a macchia d'olio. Di certo la Bioagri sas, la ditta da cui era partita la verifica sui Tir, non è la società più grossa né la più compromessa. Infatti la titolare, un'imprenditrice veronese di 46 anni, è inquisita solo per i reati fiscali. Per gli altri è scattata l'associazione per delinquere, che presuppone una catena sistematica di frodi, durata almeno quattro anni. "Dalle indagini non risulta che sia mai stata messa in pericolo la salute dei cittadini", tiene a precisare il colonnello Bruno Biagi, comandante della Guardia di Finanza a Verona: "Le frodi consentivano di vendere con il marchio bio, a prezzi maggiorati, prodotti agricoli che si sarebbe potuto comunque commercializzare, ma come alimenti convenzionali e quindi a tariffe ridotte fino a un terzo". La frode riguarda 16 colture di base falsamente presentate come biologiche. Il grosso della torta da 220 milioni è costituito da cereali: nell'ordine, soia, grano tenero, mais, semi di girasole e orzo. Trasformati in farine, garantivano un'etichetta verde anche a decine di prodotti a valle, confezionati dall'industria alimentare. Ma non mancano ortaggi e frutta, soprattutto mele, o mangimi per allevamenti, che producevano carni o salumi biologici solo sulla carta. I grossisti arrestati compravano a prezzi normali, cioè bassissimi, da contadini sparsi tra Puglia, Marche, Emilia, Veneto e Romania. Appiccicavano il marchio bio. E poi rivendevano a tariffe gonfiate soprattutto in Francia, Spagna, Belgio, Olanda, Germania, Austria, Ungheria e Romania. L'Italia è prima in Europa per produzione ed esportazione di cibo verde: ora il rischio è che lo scandalo danneggi migliaia di agricoltori onesti. I trucchi svelati dall'inchiesta sono ingegnosi. Luigi Marinucci, grossista veneto di cereali e legumi, titolare tra l'altro della Sunny Land spa, utilizzava una catena di "cartiere" create dal suo direttore commerciale: società-fantasma, che producevano solo documenti. Il segreto era fingere di scambiare prodotti normali con cibo bio, compensando entrate e uscite. Angela Siena, imprenditrice pugliese con nove aziende agroalimentari fra Foggia, Termoli, Roma e la Svizzera (tra cui la Bioecoitalia srl e la Centro Cereali srl), nonostante i precedenti per falso e truffa, riusciva a far passare cereali romeni per biologico italiano. E perfino a raddoppiare o triplicare le certificazioni verdi per lo stesso carico. A farle da sponda erano società estere create dal marito, Adriano Montagano, annegato l'anno scorso dopo un improvviso malore in motoscafo alle Tremiti. Cruciale il ruolo di due privati investiti di funzioni pubbliche: Michele Grossi, direttore di Suolo e Salute, l'organismo di certificazione biologica delle Marche, e un suo consulente di fiducia, entrambi arrestati. Erano loro, secondo l'accusa, a clonare i permessi e coprire i falsari. E qui si apre una questione generale: chi controlla il biologico? Primo problema: le verifiche sono affidate a organismi privati, scelti e pagati dai produttori, che vengono accreditati dal ministero. Solo dal gennaio 2010 l'accreditamento statale è affidato a un ente centrale, chiamato Accredia. I controlli sul campo restano però delegati ai privati accreditati, che non hanno limiti di territorio né di quantità: un coltivatore siciliano, ad esempio, può scegliersi un controllore campano o magari farsi certificare più volte lo stesso carico. E così il direttore arrestato, dalla sede marchigiana, risultava verificare circa un quarto di tutte le colture biologiche italiane. Ma se l'inchiesta già documenta la falsità di un decimo del fatturato bio, ci si può fidare del restante 90 per cento? "Ci sono tantissimi piccoli produttori seri, preparati, onesti, addirittura idealisti, soprattutto tra i pionieri del biologico, ma il boom dei prezzi deve mettere in guardia i cittadini", spiega Franca Braga, responsabile dei controlli alimentari di Altroconsumo. "Il marchio unico europeo è una prima importante garanzia. E per ridurre il rischio di etichettature fraudolente, le regole di fondo sono quelle di sempre: meglio comprare frutta e verdura di stagione, magari da produttori della zona, e tener conto che ha poco senso pagare a caro prezzo un marchio bio quando viene applicato a prodotti confezionati con decine di ingredienti industriali".

Nel Brunello c'è il tranello di Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Il celebre vino fatto con altre uve. Il Chianti allungato con rosso d'Abruzzo. Il Passito sotto processo. L'olio tunisino spacciato per italiano. E l'aceto di Modena che nasce a Napoli. Così viene distrutta la credibilità dei prodotti più prestigiosi. Brunello che non è Brunello, Chianti Classico allungato con Montepulciano d'Abruzzo, olio d'oliva extravergine italiano fatto con olive tunisine, Passito di Pantelleria taroccato, aceto balsamico di Modena prodotto ad Afragola, paesone a metà strada tra Napoli e Caserta.

La grande truffa dei marchi made in Italy non riguarda solo le devastanti sofisticazioni che danneggiano la salute, ma anche la presunta qualità dei brand più prestigiosi del nostro mercato agroalimentare. Che dietro le etichette blasonate nasconde spesso e volentieri calici amari. Negli ultimi mesi alcuni dei migliori prodotti nostrani sono finiti nel mirino di procure, dei carabinieri, degli esperti della Forestale e della Guardia di finanza, che hanno aperto inchieste a catena che fanno traballare l'immagine (e le vendite) del food&wine tricolore, proprio durante un appuntamento fondamentale come il Vinitaly di Verona. Gli ultimi dati del ministero delle Politiche agricole sono sconfortanti: l'8,5 per cento dei campioni analizzati in vari settori sono 'irregolari', frutto cioè di alterazioni e sofisticazioni di ogni genere. Il picco negativo è nell'ortofrutta: un prodotto su tre viola la legge.

Brunello di Montalcino. Partiamo dal Brunello di Montalcino, tra i vini Docg più celebri del mondo. Prime indiscrezioni sulle indagini della Procura di Siena sono già trapelate su qualche giornale, ma secondo quanto appreso da 'L'espresso' il lavoro degli investigatori sta disegnando una frode in commercio colossale, per cui il 30-40 per cento del carissimo vino prodotto nel 2003 (ma sotto la lente ci sono anche le annate dal 2004 al 2007) rischia di non poter fregiarsi né del marchio di Denominazione d'origine controllata e garantita né del nome 'Brunello'. I pm hanno guardato dentro al bicchiere, e nel fondo hanno scovato il marcio. Allo stato le aziende coinvolte sono cinque, gli indagati più di 20. L'accusa dei magistrati è, per i cultori, una vera bestemmia: aver mischiato all'uva di qualità Sangiovese, l'unica ammessa dalle rigide regole del disciplinare, altre qualità di origine francese: dal Merlot al Cabernet Sauvignon, dal Petit Verdot al Syrah. Vitigni usati per produrre dal 10 al 20 per cento del prodotto finale. I motivi del taroccamento sono due: le quantità del Sangiovese disponibile, in primis, sono insufficienti a coprire la domanda crescente di mercato. Inoltre il miscelamento sarebbe legato a una mera questione di palato: il consumatore, soprattutto quello americano, preferisce al gusto forte del Brunello Doc una variante morbida, più dolce e 'transalpina'. Molti negano, qualcuno rettifica, Montalcino è sgomenta, ma le prove sembrano schiaccianti: le Fiamme gialle hanno trovato nelle cantine le ricette con cui gli enologi preparavano lo shake di vini, conservati in vasche differenziate prima del cocktail da imbottigliare. Appunti riservati grazie a cui gli esperti confezionavano, dosando con cura le proporzioni, il falso Brunello. Le posizioni degli indagati sono diverse, ma quattro imprese che esportano in mezzo mondo, come Antinori, Banfi, Frescobaldi e Argiano, hanno migliaia di bottiglie bloccate ed ettari di vitigni sotto sequestro. A gennaio (l'inchiesta è iniziata a novembre) ci sono state perquisizioni anche nelle botti di Biondi Santi, Val di Cava e Casanova dei Neri. Nelle prime due gli inquirenti e gli esperti dell'Ispettorato per il controllo della qualità non hanno riscontrato irregolarità, mentre Casanova resta sotto osservazione. Altre tenute potrebbero finire sotto la lente dei magistrati, che stanno studiando le foto aeree scattate dalla Gdf per individuare i vitigni clandestini.

Chianti d'Abruzzo. Se l'alterazione rischia di demolire l'immagine del Brunello, sul piano penale sono molti i capi d'accusa che potrebbero sporcare la fedina degli indagati. Oltre al declassamento del vino e la frode in commercio aggravata dalla norma che tutela i prodotti doc, i pm ipotizzano reati come la falsificazione dei registri di cantina, falso ideologico, la ratifica di documenti truccati. Anche chi doveva vigilare e ha chiuso un occhio rischia grosso: pare che ci siano indagati anche tra i responsabili del Consorzio del Brunello (quasi 250 aziende affiliate) che per legge deve tutelare il disciplinare di produzione. "Chi ha sbagliato la pagherà cara, verrà cacciato dall'associazione, il vino verrà declassato a Igt da tavola", sbotta laconico il presidente Francesco Marone Cinzano. Di certo le aziende tremano, perché sanno che i giudici in Toscana non fanno sconti. La frode sul Brunello è, infatti, simile a quella messa in piedi sul Chianti classico. L'inchiesta, segretissima, investe alcune grandi aziende che producono - come si legge in vecchi comunicati stampa - 'i rossi italiani più amati dagli americani'.Peccato che il Chianti finito in milioni di bottiglie, in realtà, fosse mescolato con il Montepulciano d'Abruzzo. La truffa è stata smascherata dagli uomini della Guardia di finanza, coordinati dai pm senesi: in controlli di routine hanno scoperto che alcune ditte toscane compravano quantità industriali di Montepulciano dalla Cantina sociale di Tolla, in Abruzzo. False fatture, falsi documenti di trasporto, truffa: i responsabili della leggendaria Ruffino, di proprietà della famiglia Folonari, hanno già patteggiato due anni. Una tranche dell'inchiesta è ancora aperta, e investe un'altra cantina prestigiosa del Chiantishire. Il ministro Paolo De Castro spiega che non bisogna fare di tutta l'erba un fascio, e che anche nel settore vitinicolo il rispetto delle regole verrà affidato presto a controlli terzi. "Abbiamo aumentato le verifiche", ragiona, "bisogna puntare sulla qualità e sulla difesa della salute. C'è da dire, a difesa dei produttori, che le norme europee si moltiplicano a velocità impressionante, non è facile stargli dietro. Ma sulla legalità non si transige". I crimini, però, non si contano. I magistrati stanno indagando anche un altro must del nostro agroalimentare, l'olio d'oliva. In Puglia, che produce il 40 per cento del totale nazionale, voci e rumors su taroccamenti di massa si rincorrono da lustri. Dal 2000 nelle bottiglie i Nas e le Fiamme gialle hanno trovato di tutto: olio di semi, clorofilla, coloranti, miscele spurie. Ma in piccole aziende e frantoi di provincia. Ora il pm di Trani Michele Ruggiero ha aperto il vaso di Pandora, alzando il velo sulla più grande truffa all'olio mai fatta in Italia. Tra il 2006 e il 2007 tre milioni 278 mila bottiglie da un litro sono state spacciate come olio 'italiano', 'biologico' ed 'extravergine', anche se in realtà erano riempite con liquido di bassa qualità che arrivava da Spagna, Grecia e Tunisia. Prodotti etichettati con marchi di nicchia come quello dei Frantoi Oleari Umbri, dall'azienda Buonamici (di proprietà di Cesara, la giornalista del Tg5, e dei suoi fratelli), ma anche venduti negli scaffali dei supermercati con il logo della Coop e della Conad. Secondo gli uomini della Gdf gli acquirenti erano però ignari del raggiro architettato da Giacomo Basile, titolare dell'omonima ditta di Andria, in provincia di Bari, uno dei più grossi distributori nazionali. L'olio tunisino e greco è stato comprato in tutto da 20 aziende della Penisola, che lo hanno imbottigliato, marchiato e spedito nei negozi e nelle grandi catene di distribuzione. Scoperta la truffa, gli uomini del comandante provinciale della Finanza di Bari Fabrizio Carrarini hanno inseguito le bottiglie pirata nei supermercati di tutta Italia: a oggi sono state recuperate circa due milioni di tonnellate delle tre immesse sul mercato. Gran parte del prodotto è finito anche all'estero, difficilmente si riuscirà a rintracciarlo. Inutile piangere sull'olio versato.

Onorevole Passito. "E' alla vetta di quanto mi sia dato di assaggiare nel settore", commentava estasiato Bruno Vespa degustando il Passito dell'Abraxas, l'azienda dell'ex ministro dell'Agricoltura Calogero Mannino. Non poteva sapere, il giornalista, che il contenuto di molte bottiglie poco aveva a che spartire con il vero Passito di Pantelleria: secondo la Procura di Marsala il vino era stato infatti adulterato, tanto che l'ex senatore Udc, che nel 1988 firmò il decreto che istituiva il marchio Doc, ora è imputato per associazione per delinquere finalizzata alla frode in commercio, sofisticazione e appropriazione indebita. In effetti Mannino, insieme a sodali e cantinieri, avrebbe anche rubato 115 ettolitri di Passito doc di una azienda (la Bonsulton srl), sostituendolo con vino adulterato. Se le intercettazioni telefoniche raccontano che l'ex ministro si accordava con il suo enologo per imbottigliare il prodotto 2004 fuori da Pantelleria (in sprezzo del disciplinare), ci sarebbero le prove di una sofisticazione di ben 300 mila bottiglie nel periodo 2002-2006. Tra i presunti truffatori, oltre a Mannino c'è anche Salvatore Murana, già condannato con sentenza definitiva per i medesimi reati: i due producono circa il 20 per cento del Passito (falso) che invade le enoteche del pianeta. Nessuno sembra però preoccuparsi più di tanto del destino dei consumatori: la commercializzazione delle bottiglie non è stata infatti bloccata. Dulcis in fundo, recentemente in Parlamento è persino passata (grazie a Maurizio Ronconi dell'Udc) una norma che depenalizza la sofisticazione dei vini: Mannino non rischia più un anno di reclusione, ma al massimo una multa da 15 mila euro.

I supertarocchi del Chianti, il finto Passito e l'olio fasullo trasformano in una storia di colore una vicenda che è nota, agli addetti ai lavori, come la "guerra dell'aceto balsamico di Modena". Dura da vent'anni, e vede confrontarsi due eserciti agguerriti a colpi di carte bollate. Nord contro Sud: da un lato i produttori modenesi, dall'altro la ditta De Nigris. Che di emiliano non ha nulla: l'aceto è 'di Modena' solo nell'etichetta, perché produzione e imbottigliamento vengono effettuate ad Afragola, Napoli. Il fatto è che De Nigris non è un pesce piccolo: il suo aceto pesa sul 27 per cento delle esportazioni totali, e dal 1989 ha vinto ricorsi e sentenze al Consiglio di Stato, al Tar del Lazio e alla Cassazione. "L'aceto 'di Modena' si può fare a Modena e Afragola. E in nessun altro luogo", chiosa l'amministratore. "Come mai? Noi abbiamo i requisiti. Il marchio è legato alla qualità del prodotto e all'ingegno umano, non certo ai vitigni che si coltivano nella provincia modenese: anche i miei concorrenti usano a man bassa mosti provenienti da tutta Italia". Peccato che al ristorante, nei supermarket e dal salumiere, quando aprono il borsellino per regalarsi un piccolo lusso di gola, la stragrande maggioranza degli italiani (e degli ingenui stranieri) crede davvero che l'aceto sia fatto a Modena, il Passito a Pantelleria, l'olio italiano in Italia, il Chianti nel Chianti.

LA MAFIA DELL'OLIO.

Olio spacciato per extravergine, ma era di categoria 2: indagate a Torino 7 aziende. I rappresentanti legali di Carapelli, Santa Sabina, Bertolli, Coricelli, Sasso, Primadonna (confezionato per la Lidl) e Antica Badia (per Eurospin) iscritti nel registro degli indagati per frode dopo la segnalazione di un sito specializzato e l'acquisizione, da parte dei Nas, di campioni di prodotto in commercio, scrive Francesco De Palo l'10 novembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Carapelli, Santa Sabina, Bertolli, Coricelli, Sasso, Primadonna (confezionato per la Lidl) e Antica Badia (per Eurospin) prodotti in Toscana, Abruzzo e Liguria: olio che sarebbe stato spacciato per extravergine mentre invece era di “categoria 2″, di qualità inferiore e meno caro. Il procuratore aggiunto di Torino Raffaele Guariniello ha deciso di inviare i Nas di Torino per un controllo sui campioni nei supermercati torinesi dopo una segnalazione da parte di un periodico specializzato. Sette rappresentanti legali delle aziende olearie coinvolte sono indagati: dovranno rispondere di frode in commercio. Guariniello ha informato il ministero delle Politiche agricole anche alla luce di un report dedicato stilato dall’agenzia delle dogane. Il procuratore capo Armando Spataro “ha richiesto in visione il relativo procedimento al fine di valutare l’opportunità di co-assegnazione a se stesso, di accertare le modalità di diffusione della informazione e di verificare la competenza territoriale in ordine alle ipotesi di reato per cui si procede”. Solo una settimana fa ilfattoquotidiano.it aveva dato conto di un presunto cartello dell’olio italospagnolo per tenere bassi i prezzi, bypassare la qualità del prodotto ed eludere le regole sulla concorrenza, ottenendo il marchio made in Italy pur avendo solo il 16% di olio italiano. Ovvero lo stesso soggetto, che faceva capo alla società iberica Deoleo, a sua volta controllata dal fondo di private equity Cvc (che ha acquisito marchi italiani come Carapelli, Bertolli e Sasso coinvolti nell’inchiesta di Guariniello) vendeva e comprava olio ottenendo il marchio made in Italy nonostante la provenienza non fosse italiana, bensì Ue ed anche extra Ue (greco, spagnolo, tunisino, marocchino). Così denunciava il nucleo di intelligence anti frode dell’Agenzia delle Dogane, che dal 2009 al 2013 ha redatto una serie di report che sono stati tutti secretati dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulle contraffazioni per via della presenza di profili giudiziari penalmente rilevanti anche perché coinvolgono stati esteri.  Il procuratore capo di Torino Armando Spataro “ha richiesto in visione il relativo procedimento al fine di valutare l’opportunità di co-assegnazione a se stesso, di accertare le modalità di diffusione della informazione e di verificare la competenza territoriale in ordine alle ipotesi di reato per cui si procede”. Lo precisa lo stesso Spataro in una nota in relazione all’inchiesta per frode in commercio del pm Raffaele Guariniello sull’olio extravergine di oliva. I report sono però stati visionati dal deputato del M5S Francesco Cariello, che per legge ha diritto di leggerli in quanto vicepresidente della commissione sulle contraffazioni. Un vero e proprio polverone, sollevato il quale, è partita una petizione sul sito di petizioni italiane Change.org, che al momento ha raggiunto le 48.983 firme su 50.000 richieste. Non bastava la Xylella fastidiosa, che sta martoriando i produttori salentini, ora anche lo spettro delle frodi a tutto svantaggio di chi come l’Italia ha 350 cultivar sul proprio territorio e non due decine come la Spagna. “Colgo la notizia con estrema soddisfazione soprattutto al fine di valorizzare al meglio l’olio extravergine italiano per le sue qualità salutistiche e per la variegata biodiversità certificata e riconosciuta a livello mondiale. Sulla base delle dichiarazioni lette sulle agenzie di stampa vedo che il magistrato ha subito informato il ministero – ha commentato Cariello – sono curioso di conoscere la reazione del ministro Martina il quale dovrebbe già conoscere il fenomeno, viste le tante informative già inviate (fonte certa e verificata) alla sua attenzione da parte del nucleo di indagine dell’agenzia delle dogane”. Proprio il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina ha detto di seguire con attenzione le indagini “perché è fondamentale tutelare un settore strategico come quello dell’olio d’oliva italiano”. “Da mesi – aggiunge – abbiamo rafforzato i controlli soprattutto in considerazione della scorsa annata olearia che è stata tra le più complicate degli ultimi anni. Nel 2014, il nostro Ispettorato repressione frodi ha portato avanti oltre 6 mila controlli sul comparto, con sequestri per 10 milioni di euro. È importante ora fare chiarezza per tutelare i consumatori e migliaia di aziende oneste impegnate oggi nella nuova campagna di produzione”.

Olio made in Italy solo sulla carta: l’antifrode ipotizza il cartello, Parlamento secreta il dossier. E il ministero tace. Il nucleo di intelligence dell'Agenzia delle Dogane dal 2009 al 2013 ha redatto una serie di report da cui emerge l'attività di un trust italospagnolo che tiene bassi i prezzi, bypassa la qualità del prodotto ed elude le regole sulla concorrenza. E così sugli scaffali dei supermarket arriva extravergine di oliva con solo il 16% di olio italiano, scrive Francesco De Palo l'1 novembre 2015. Un presunto cartello dell’olio italospagnolo che tiene bassi i prezzi, bypassa la qualità del prodotto ed elude le regole sulla concorrenza, ottenendo il marchio made in Italy pur avendo solo il 16% di olio italiano. Lo denuncia il nucleo di intelligence anti frode dell’Agenzia delle Dogane, che dal 2009 al 2013 ha redatto una serie di report che sono stati tutti secretati dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulle contraffazioni. Il motivo? La presenza di profili giudiziari penalmente rilevanti anche perché coinvolgono stati esteri. Sui documenti in questione il ministero delle Politiche Agricole tace e preferisce non fornire spiegazioni ailfattoquotidiano.it, che lo ha interpellato più volte. I report, tuttavia, sono stati visionati dal deputato del M5S Francesco Cariello, che per legge ha diritto di leggerli in quanto vicepresidente della commissione sulle contraffazioni. In sostanza lo stesso soggetto, che fa capo alla società iberica Deoleo, a sua volta controllata dalfondo di private equity Cvc (che ha acquisito marchi italiani come Carapelli, Bertolli e Sasso) vende e compra olio ottenendo il marchio made in Italy nonostante la provenienza non sia italiana, bensì Ue ed anche extra Ue (greco, spagnolo, tunisino, marocchino). Francesco Cariello ha raccontato a ilfattoquotidiano.it che nei documenti secretati l’intelligence denuncia che “uno stesso soggetto abbia acquistato noti marchi italiani rigorosamente toscani e umbri appartenenti al giro di una sola famiglia, i Fusi. E che “con solo il 16% di prodotto italiano guadagna il marchio made in Italy, mentre il restante 84% è di provenienza straniera”. Un autogol in un momento già delicatissimo per via del fenomeno Xylella fastidiosa, che sta causando seri danni alla produzione di olio salentino, ma soprattutto un atto formale da parte di chi previene frodi per tutelare gli interessi nazionali, a cui la politica non presta l’orecchio. “Noi non sappiamo che olio consumiamo – è stata la denuncia del parlamentare 5 Stelle – perché mentre su tutti i prodotti di eccellenza italiana come ad esempio il vino si trova esattamente composizione e provenienza, sull’olio invece c’è solo un generico made in Italy, che non specifica la provenienza delle olive e che non consente all’Italia di ottenere i benefici economici che invece meriterebbe” in virtù delle proprietà organolettiche e polifenoliche uniche al mondo del suo olio. Nello specifico, i controlli effettuati nell’anno 2014 dal nucleo anti-frode hanno confermato che il settore oleicolo italiano sia tra i più interessati da frodi commerciali. I rilievi penali sono stati già segnalati alle procure per reiterazione dei reati (art. 515 c.p.). Inoltre dall’analisi degli esiti delle indagini sono emerse una serie di incongruenze: si va dalle realizzazione di frodi commerciali compiute da filiere di aziende italo-spagnole alla miscelazione in Italia di olio spagnolo, tunisino, greco ed in minima parte italiano destinato a prodotti esportati come “olio extravergine di oliva”. Non solo. Sono emerse anche alcune “correlazioni soggettive”, scrive il report, tra aziende italo-spagnole in grado di movimentare il 40% dell’intero interscambio commerciale in uscita dalla Spagna e ad un prezzo inferiore ai tre euro al chilo. Inoltre alcune realtà aziendali italo-spagnole “sono governate dalla stessa persona fisica” e al contempo risultano sia venditori che acquirenti di considerevoli quantitativi di olio d’oliva non italiano, ma importato da Spagna e Tunisia. Lo scorso 5 ottobre, a Expo, l’apposita commissione d’inchiesta sulla contraffazione ha diffuso i risultati del lavoro, tra cui le conclusioni sul cartello italospagnolo. Nella platea non c’era il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, che ha declinato l’invito. E successivamente ha preferito non fornire risposte alle domande de ilfattoquotidiano.it. Identica la decisione di Carapelli che, interpellato sull’argomento, ha preferito per il momento non replicare. “L’Italia – ha sottolineato Cariello – ha 350 cultivar, non poche decine come la Spagna per cui non si capisce perché dovremmo puntare alla quantità mortificando invece la qualità del nostro olio in grado di rappresentare una ricchezza unica per il Mezzogiorno”. Proprio per questo motivo, ha proposto un ordine del giorno in sede di approvazione del Disegno di legge (A.C.1864) intitolato “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea – Legge europea 2013 bis” con cui chiede che venga istituita, presso il Ministero dell’Agricoltura, una banca dati rappresentativa delle diverse produzioni di oli extra vergini di oliva.

Truffa dell'olio: il Codacons è pronto a chiedere un maxirisarcimento

L'associazione dei consumatori ha già messo online un modulo per le famiglie che intendono essere risarcite. L'intervista al presidente Rienzi, scrive l'11 novembre 2015 Nadia Francalacci su “Panorama”. Duemila euro a famiglia. È questa la richiesta che il Codacon farà alle aziende produttrici di olio, coinvolte nell’inchiesta della Procura della Repubblica di Torino, se saranno accertati gli illeciti. Il procuratore di Torino Raffaele Guariniello ha iscritto nel registro degli indagati i nomi dei responsabili legali di sette aziende. I marchi interessati sono Carapelli, Santa Sabina, Bertolli, Coricelli, Sasso, Primadonna (nella versione confezionata per la Lidl) e Antica Badia (per Eurospin). “Sarà inevitabile una azione risarcitoria nei confronti delle aziende scorrette - spiega a Panorama.it Carlo Rienzi, presidente del Codacons – e se le aziende coinvolte non vorranno risarcire le famiglie in via forfettaria procederemo con un’azione collettiva in tribunale”. Il Codacons ha già immesso online, sul proprio sito, un modulo per richiedere il risarcimento danni da parte dei consumatori che per anni hanno acquistato e consumato l’olio delle aziende che avrebbero spacciato come olio extravergine d’oliva, un olio che invece non lo era affatto. Infatti, dai controlli del Nas, quell’olio è risultato meno pregiato, meno costoso, ma proposto agli acquirenti come se fosse il vero "oro verde". A un prezzo, dunque, superiore anche del 30/40%. “I consumatori che hanno acquistato confezioni di olio ingannevole, hanno subito un duplice danno: da un lato hanno pagato di più per un prodotto meno pregiato rispetto le promesse, dall'altro hanno subito una evidente lesione della loro buona fede- continua Rienzi- ecco perché siamo pronti a intentare una valanga di azioni risarcitorie contro le aziende colpevoli, per conto di tutti i consumatori coinvolti nella frode”.

Presidente, ma un cittadino come può dimostrare di essere un consumatore di uno degli olii coinvolti nella truffa?

«Deve poter esibire degli scontrini o anche uno solo che attesti l’acquisto di una delle bottiglie coinvolte nello scandalo e se non ne fosse più in possesso, può presentare comunque la richiesta di risarcimento con la testimonianza scritta di uno dei familiari che dichiari l’uso di quel prodotto».

Ma non c’è il rischio di una truffa nella truffa? Un cittadino può in questo modo tentare di chiedere un risarcimento per un danno inesistente..

«Noi crediamo nella buonafede delle persone e sul fatto che un cittadino che non sia stato coinvolto in questa truffa non abbia nessun interesse ad andare sul nostro sito e intentare una causa nei confronti di un’azienda se davvero non è stato leso».

Oggi l’olio, poche settimane fa il diselgate Volkswagen…

«Anche se non si tratta di alimenti la truffa della casa automobilistica tedesca non è diversa dalle altre truffe che vengono perpetrate ai danni dei consumatori. È sempre una truffa, un azione che va a ledere la buonafede del consumatore. Ad oggi per il caso della Volkswagen, ad esempio, abbiamo ricevuto oltre 12 mila preadesione per la class action che abbiamo preparato. E adesioni nuove continuano ad arrivare ogni giorno».

Ma quali sono le truffe più frequenti ai danni dei consumatori?

«È davvero difficile contarle o enunciarle. Purtroppo sono davvero tantissime. Quella che sicuramente è tra le più frequenti è quella del vino. In Italia il prodotto che subisce maggiori alterazioni è indubbiamente questo. Poi ci sono tutti i prodotti a base di latticini e tutte le carni rose lavorate. Noi ci stiamo battendo da anni per una reale e seria tracciabilità delle materie prime nel prodotto finale. Purtroppo ancora oggi sulle tavole degli italiani finiscono tantissimi prodotti che vengono solo imbottigliati o confezionati in Italia ma di italiano non hanno davvero niente.  Nel 2014, l’ispettorato repressione frodi del Ministero delle Politiche Agricole ha portato avanti oltre 6 mila controlli sul comparto dell’olio, con sequestri per 10 milioni di euro. La Coldiretti, invece, denuncia il rischio di frodi "favorito dal record di importazioni: nel 2014 sono arrivate dall'estero 666 mila tonnellate di olio e sansa, più del 38% rispetto all'anno prima»

Inchiesta di “La Repubblica”. Sulle etichette c'è scritto "olio extravergine di oliva" e "made in Italy". In realtà è il risultato di disinvolte miscele di oli che vengono da Tunisia, Spagna, Grecia. Oli spesso difettosi ma soprattutto straordinariamente convenienti per i signori di questa "agromafia". Ma ora una maxi-inchiesta che Repubblica è in grado di rivelare sta per smascherare la filiera taroccata. Un business alimentare da cinque miliardi di euro. I dati del mercato dell'olio contraffatto: su 700mila tonnellate di olio consumate, 470mila provengono da Paesi stranieri come Spagna, Grecia e Tunisia. Con un rincaro che supera il 1000%.

5 miliardi il giro d'affari (annuo) dei "signori dell'olio".

10 le aziende italiane (tra cui alcuni marchi famosi) su cui stanno indagando l'agenzia delle Dogane e il Corpo forestale dello Stato.

700mila le tonnellate di olio consumate in Italia.

470mila le tonnellate di olio importato (Spagna, Grecia, Tunisia).

250mila le tonnellate esportate dall'Italia.

0,23€ il costo di un chilo d'olio in Tunisia.

3-4€ euro il costo di un chilo rivenduto in Italia.

80% la percentuale di bottiglie di extravergine italiano ottenuto da olive straniere di cui impossibile leggere l'etichetta di provenienza delle olive.

Ecco come i "furbetti del frantoio". Ci rifilano il bluff dell'oro liquido. E' una raffinata frode commerciale che vede coinvolti una decina di marchi - un paio molto noti - e che fa finire sulle nostre tavole "olio extravergine di olive italiane" che in realtà viene da lontano. Vi raccontiamo - sulla base di un'inchiesta che sta per chiudersi - come funziona questo business illegale, con quali guadagni per chi lo controlla e a quali prezzi per noi consumatori. I signori dell’olio si sono inventati una secondogenitura. Non spremono più: trasformano. A modo loro. Trasformano, manipolano, deodorano, profumano. Soprattutto, importano. Comprano a mani basse all’estero e rivendono in Italia, e poi via, di nuovo fuori. Se la tirano da gran produttori del Made in Italy, da fuoriclasse dell’oro giallo più buono al mondo. E intanto ci rifilano il pacco, e noi lo beviamo. Olio extravergine d’oliva? E come no: però spagnolo, tunisino, greco, marocchino. Un flusso ininterrotto di miscele di oli "comunitari" e "non comunitari" viaggia ogni giorno verso l’Italia, da Sud a Nord, a bordo di tir e navi cisterna, lungo le rotte dei furbetti del frantoio. Sono centinaia di migliaia di tonnellate di oli low cost prodotti nel bacino del Mediterraneo, roba che viene reimbottigliata nelle nostre aziende, dove acquista una nuova, falsa identità. Alla fine di italiano garantito c’è solo il marchio (pazienza se i più grossi nomi sono finiti in mano agli spagnoli). Anzi, i marchi. Nelle tasche dei padroni dell’olio entrano cinque miliardi di euro l’anno. Sulle nostre tavole, un bluff.

Chi sono i nuovi ràs delle olive taroccate? Come funziona il loro business? Ci sono una decina di etichette — una paio molto note — che in questa Seconda repubblica dell’olio hanno formato un cartello: un blocco di imprese — produttori e distributori — alleate nel nome della speculazione fondata su una raffinata frode commerciale, sull’inganno subdolo del consumatore, su un modo di operare che è diventato “sistema” e che sta accumulando profitti patrimoniali enormi. Sono attive per lo più tra Centro e Sud Italia. Importano enormi quantità di olio dalla Spagna, dalla Grecia, dalla Tunisia. In alcuni casi lo acquistano da società alle quali risultano collegate: stesso gruppo, stesso padrone, un’unica famiglia. Se comprano uno o se comprano cento, il prezzo è sempre lo stesso. Controllano i prezzi, controllano il mercato. Un tempo in queste rinomate aziende italiane si spremevano olive: oggi ci sono solo dei sylos. Cisterne che attraverso le idrovore mungono olio dai tir che lo trasportano fin qui dagli uliveti dell’Andalusia, o dalle sconfinate coltivazioni tunisine. E poi? Una bella etichetta italiana e via: l’extravergine italiano taroccato atterra sugli scaffali dei supermercati.

A rivelarlo è un’indagine, ancora in corso — ma che Repubblica è in grado di anticipare — condotta dall’Agenzia delle Dogane, dai detective del settore frodi del Corpo Forestale dello Stato e della Guardia di Finanza, in collaborazione con Coldiretti. Non è la classica attività investigativa che porta alla scoperta di prodotti malconservati o scaduti. E’ un’esplorazione più tecnica, portata avanti con l’analisi incrociata di banche dati europee e accertamenti fiscali da una parte, e controlli sul territorio dall’altra. Una lente di ingrandimento posata sulla filiera dell’olio “mascherato”. Permette di capire parecchie cose: per esempio perché quattro bottiglie di olio extravergine su cinque battono ufficialmente bandiera italiana ma contengono prodotti stranieri (provenienti soprattutto da Spagna e Grecia). Prodotti, oltretutto, nascosti dietro etichette praticamente illeggibili. O perché quattro chili d’olio su dieci in vendita nei supermercati sanno di muffa (studio Unaprol, Coldiretti e Symbola). E ancora: come mai, a fronte delle 250mila tonnellate di olio che esportiamo, ne importiamo 470mila (nel 2010 sono state 100mila in più). Dove vanno? Come vengono miscelate? A quanto le rivendono? Nella giungla dell'extravergine. Prodotti low cost, etichette invisibili. I boss internazionali dell'olio fanno incetta di miscele straniere a meno di 25 centesimi al chilo. Poi le trattano, le mescolano, le deodorano e le mettono sul mercato a prezzi ribassati, due/quattro euro al chilo, ma sempre con ricarichi importanti e con informazioni al cliente sostanzialmente false. "E’ qui che i signori dell’olio giocano la loro partita sleale — spiega Stefano Masini, responsabile consumi della Coldiretti —. C’è un gruppo di potere agroalimentare che sull’importazione e sull’assenza di tracciabilità delle “miscele” sta facendo fortune illegali. Così come per i rifiuti si parla di ecomafia, è arrivato il momento, anche per l’olio, di parlare di agromafia. Bisogna iniziare a aggredire i patrimoni". I capoccia dell’olio si sono evoluti. Non solo hanno individuato nuovi canali di approvvigionamento per la materia prima (che poi è anche l’ultima). Hanno pure capito come farla rendere al massimo. Nella relazione delle Dogane si ricostruisce, tonnellata per tonnellata, un sofisticato sistema di import export: una ragnatela europea fatta di incastri societari e ordinazioni milionarie, "flussi in entrata" e "flussi in uscita", importazioni "definitive" e "temporanee". Il tutto condito da anomalie fiscali, fatture gonfiate, proficui scambi intra e extra comunitari. Repubblica, per non pregiudicare l’esito delle indagini, per ora tiene coperti i nomi delle aziende finite nel mirino degli investigatori. Raccontiamo come funziona il meccanismo.

C’è questa parolina magica — "trasformazione" — di cui si è esteso il significato. In modo strumentale. Un tempo per trasformazione si intendeva la frangitura, la molitura: insomma il passaggio dall’oliva al suo nettare. Oggi se i boss internazionali dell’olio dicono che trasformano, può significare che ce la stanno facendo sotto il naso. Fanno incetta di olio spagnolo e tunisino. Lo pagano meno di 25 centesimi al chilo. In Italia lo miscelano, anzi, lo "trasformano", che è un termine più igienico, anche rassicurante. A volte la trasformazione è semplicemente l’imbottigliamento. In altri casi prevede degli innesti. Magari minimi. O il processo di deodorazione: si interviene con il vapore per eliminare i difetti (morchia, rancido, muffa, riscaldo, lubrificanti).

Chiamiamoli pure trucchi. In apparenza non lasciano traccia. C’è un motivo. In base al regolamento comunitario 182 del 6 marzo 2009, indicare la provenienza delle miscele ("di diversa origine") impiegate sarebbe obbligatorio. In realtà, in nove bottiglie su dieci le scritte che dovrebbero essere riportate — "miscele di oli di oliva comunitari", "miscele di oli d’oliva non comunitari", "miscele di oli di oliva comunitari e non comunitari" — sono illeggibili. I caratteri sono talmente piccoli, e stampati in posizioni quasi nascoste, che per scorgerli bisognerebbe avere la lente d'ingrandimento. E’ uno dei paraventi dietro cui si nascondono i trafficoni. "L’ex ministro delle politiche agricole Saverio Romano quattro mesi fa aveva annunciato con grande enfasi un decreto che fissando delle dimensioni minime rendesse più leggibili queste etichette — ragiona Sergio Marini, presidente di Coldiretti —. Che fine ha fatto il decreto? Si è perso?". Una volta etichettato l’olio straniero, i furbi distributori italiani lo piazzano a prezzi ribassati: nei discount, negli autogrill con le superofferte turistiche, nella grande distribuzione. Un euro e ottanta, due euro. Tre, quattro, al massimo. Un bel ricarico se si considerano i 23 o 25 centesimi del prezzo di acquisto. Fumo negli occhi del consumatore se si pensa che sull’etichetta spicca sempre, quella sì, bene in vista, la scritta olio extravergine d’oliva. Italiano.

"L’olio, rispetto ad altre produzioni agroalimentari, per esempio il vino, è un prodotto straordinariamente semplice — dice Amedeo De Franceschi, vice comandante dei Nafs della Forestale —. Vent’anni fa l’attività dei produttori era regolata da una legge europea che diceva: l’extravergine d’oliva è un prodotto ottenuto solo dalla spremitura meccanica delle olive. Oggi è cambiato tutto. L’olio d’oliva è sparito. E l’extravergine è diventato una giungla. Risultato: le aziende non spremono più niente: mettono in cascina olio che viene da fuori, da lontano, coi tir. La gente lo compra e non sa che è un inganno. Perché dall’etichetta non si riesce a capire che cosa c’è nella bottiglia".

Che cosa c’è nell’olio che compriamo? Quali fregature ci propinano i maneggioni degli ulivi? Prendiamo l’olio made in Spagna spacciato per extravergine italiano. Al supermercato il primo prezzo è 3 euro. Ma dietro la convenienza, ecco la sorpresina. Non solo non è extravergine, ma è anche di pessima qualità. "C’è pieno di oli di oliva difettati venduti come extravergini — dice Massimo Gargano, presidente di Unaprol —. Sono oli che meritano di essere declassati, altro che made in Italy". La prima indagine nazionale sulla qualità dell’olio d’oliva in vendita nei supermercati italiani ha dato esiti disastrosi. Su dodici campioni (delle marche più vendute) prelevati dagli scaffali e analizzati in laboratorio, quasi la metà sapeva di muffa. Le analisi organolettiche hanno evidenziato difetti gravi come il rancido e il riscaldo. "Un olio per poter essere considerato extravergine deve essere privo di difetti organolettici". Figuriamoci. Così il Made in Italy nasconde un fiume di oli stranieri miscelati. La gran parte delle importazioni finisce in aziende olivicole della Liguria, della Toscana o del Pavese. E non va dimenticato il "laboratorio Puglia", terra di oliveti straordinari ma anche centro di grandi truffe internazionali, portate alla luce da indagini di qualche anno fa. Dove vengono prodotte le miscele straniere imbottigliate dagli imprenditori italiani dell’olio? Perché queste terre, sfruttate da importatori scaltri, hanno dopato il mercato? C’erano una volta la Puglia, la Calabria, la Sicilia, la Campania. Le prime due insieme producono il 66% del nostro olio. La Toscana solo il 3%. Per capire come mai, geograficamente, e nel core business degli imprenditori, le regioni italiane sono state soppiantate da terre lontane, bisogna allungarsi nel Sud della Spagna: il primo paese europeo produttore di olio (nel 2010 ce ne ha dato 426milioni di chili). Jaén è una cittadina dell’Andalusia. A nord di Granada, confina con la Castiglia-La Mancha. La sua provincia è un’oliva gigantesca. Se si scende a Sud fino a Malaga e si sale a Nord fino a Madrid si possono vedere 400 chilometri di uliveto ininterrotto. Coltivazioni intensive. Un chilo d’olio — ottima qualità — costa 50 centesimi. Gli importatori italiani lo rivendono a cinque volte tanto. Ora andiamo in Tunisia. Stiamo parlando del primo produttore di olio d’oliva di tutta l’Africa, e del secondo paese del mondo per superficie coltivata. Per produrre un chilo di olio qui bastano 10 centesimi. In Italia, a seconda dei frantoi (seimila), ci vogliono 4-5 euro. (7 al Centro-Nord, 3.53 in Puglia, 3.64 in Calabria).

Sul mercato africano all’importatore l’olio costa dai 20 ai 23 centesimi. Le navi in partenza per i porti di Gioia Tauro, di Livorno, di Genova, non aspettano altro che riempirne le cisterne e portarlo da noi. La stessa cosa accade sull’Adriatico, con i cargo boat che salpano dalla Grecia diretti a Ancona carichi di derrate.

Dove finisce l’olio che arriva dal bacino del Mediterraneo e dal Peloponneso? E in che percentuali arriva? Secondo il rapporto 2010 Coldiretti/Eurispes sulle agromafie, il 93,1% del vergine e dell’extravergine importato dai paesi extracomunitari viene dalla Tunisia. Quando entra in Italia inonda la provincia di Pavia (33,3%), di Lucca (19,1%) e di Genova (10,1%). Tra Toscana e Liguria c’è un alta concentrazione di aziende olivicole (a Firenze due dirigenti e un funzionario della Carapelli sono sotto inchiesta della procura per una sospetta frode alimentare). Idem nel Pavese. Poi si scende: Perugia, Roma, Firenze. Fino in Puglia: Bari, Lecce, Taranto. Un mese fa proprio nella città dei due mari la Guardia di Finanza ha arrestato due imprenditori baresi: stavano spedendo in Giappone e a Taiwan 50mila litri di olio taroccato nelle loro aziende. L’etichetta sugli imballaggi e sulle bottiglie — orgogliosamente italian sounding — copriva in realtà un fiume di oli stranieri miscelati.

Laboratorio Puglia. La terra degli ulivi. Olio straordinario, unico. Ma anche terra di imbrogli. Fu scoperta qui, nel 2008, una delle truffe più grosse degli ultimi anni. Duemilatrecento tonnellate di olio proveniente dall’estero sequestrate. Controlli su 250 operatori. Venti aziende coinvolte in tutta Italia. La cabina di regia del finto olio extravergine italiano al cento per cento — con interi scatoloni di documenti falsi — era una azienda di Andria (la “Basile snc”). L’olio arrivava dai soliti serbatoi: Spagna, Grecia, Tunisia. Acquistato come extravergine, miscelato con olio locale, e infine rivenduto come "prodotto italiano al cento per cento" non solo in Italia ma anche all’estero. In parte veniva spacciato anche come "biologico". "E’ ora che il governo colpisca l’agromafia con nuovi strumenti — conclude Stefano Masini di Coldiretti —. Bisogna indagare come si fa con il 416 bis. Queste non sono semplici frodi in commercio, sono organizzazioni criminali strutturate che controllano i prezzi e tengono in mano un’intera filiera. E’ la mafia dell’olio".

IL BLUFF DEL PESCE. Inchiesta di “La Repubblica”. Oggi in Italia il mercato ittico è uno dei settori più aggrediti dalle importazioni selvagge dall'estero. In particolare dai paesi asiatici. E soprattutto dalla sofisticazione alimentare. La denuncia di Coldiretti: "Due terzi del pesce servito sulle tavole italiane è taroccato". Ma a rimetterci è la salute di chi mangia. Se il gambero di Mazara è del Mozambico. Il pesce due volte su tre è "taroccato".

Secondo l'Istituto di ricerche economiche per la pesca e l'acquacoltura, nel 2010 in Italia sono state commercializzate 900mila tonnellate di pesce per un ricavo di circa 1.167 milioni di euro. Di queste solo 231mia sono state pescate nel "nostro" mare. Tutto il resto arriva dall'estero. Ma la qualità è scarsa e il prodotto non è tracciato. Un bel gambero rosso comprato su una bancarella di pesce nel porto di Mazara del Vallo. Un polpo imperdibile seduti ai tavoli della sagra più famosa d'Italia nel suo genere, quella di Mola di Bari. Oppure un filetto di cernia indimenticabile a Gallipoli. Nelle guide turistiche raccontano che ci sia soltanto una cosa migliore di un bagno nel mare italiano. Mangiarlo.

Evidentemente però in questi anni deve essere cambiato qualcosa se è vero, com'è vero, che il pesce venduto da Palermo a Milano tutto è tranne che un prodotto nostrano. Il gambero di Mazara arriva infatti dal Mozambico. Il polpo di Mola dal Vietnam. Il filetto di cernia di Gallipoli (che in realtà era pangasio) dal Mekong, un fiume che si trova tra la Thailandia e il Laos. E non si tratta di casi isolati.

Oggi in Italia la pesca è uno dei settori più aggrediti dalle importazioni selvagge dall'estero, in particolare dai paesi asiatici. E soprattutto dalla sofisticazione alimentare. "Due terzi del pesce servito sulle tavole italiane è finto, taroccato" denuncia la Coldiretti. "Il 30 aprile l'Italia ha mangiato l'ultimo pesce del Mediterraneo" denunciano Nef e Ocean2012, organismi internazionali del settore. "Dal primo maggio tutto quello che arriva sulle tavole italiane non è prodotto nostrano". Ma davvero è così? Che pesce compreremo ai mercati e mangeremo al ristorante quest'estate? Da dove arriva? Chi lo pesca? E soprattutto: fa male alla nostra salute?

Per capire l'entità del fenomeno forse è bene cominciare dai numeri. Lo scorso anno in Italia sono state commercializzate dice l'Irepa - l'Istituto di ricerche economiche per la pesca e l'acquacoltura - circa 900mila tonnellate di pesce per un ricavo di circa 1.167 milioni di euro. Bene: di tutto il pesce messo in commercio, soltanto 231.109 tonnellate erano state pescate nel mare italiano. Un terzo, appunto. Tutto il resto arriva dall'estero.

Il problema è che molto spesso, anzi quasi sempre denunciano le associazioni di categoria e confermano le forze di polizia che da Milano a Palermo continuano con sequestri e ad aprire inchieste, il pesce che arriva dall'estero non è di buona qualità. Spesso è pericoloso perché non tracciato e non tracciabile. E soprattutto viene venduto per quello che non è. E' finto.

Non potevano credere ai loro occhi gli uomini della Capitaneria di porto di Mazara quando, sulle bancarelle della marina più grande d'Italia, hanno trovato i gamberetti rossi che arrivavano direttamente dal Mozambico. E nonostante questo spacciati dai pescatori per italianissimi. A Gallipoli, invece, la Finanza in mezzo al mercato del pesce all'interno del porto - meta di pellegrinaggi di turisti da tutta Italia per il folclore e la poesia dei pescatori che rientrano in porto dopo una giornata in mare e vendono il prodotto appena tirato su con le reti - ha sequestrato una bancarella che vendeva esclusivamente pesce taroccato: di fresco aveva soltanto alici e sarde fresche, i prodotti cioè che costano di meno.

Tra i falsi più diffusi c'è poi il pangasio, un pesce pescato nel Mekong, un fiume che si trova tra la Thailandia e il Laos, che viene abitualmente venduto come fosse un filetto di cernia. Oppure nelle fritture servite nei ristoranti di casa nostra, il polpo non è polpo. O meglio, non è del Mediterraneo ma arriva direttamente dal Vietnam. Era asiatico per esempio anche il polpo venduto lo scorso anno nella sagra di Mola, in provincia di Bari, che per rendere l'idea è come comprare il tartufo di Avellino ad Alba. Frequente anche il caso del merluzzo fresco, o del presunto tale: dicono i sequestri dei Nas che spesso si tratta di pollak stagionato.

Tra i pesci più "copiati" c'è poi il pesce spada che invece altro non è che trancio di squalo smeriglio. Poi c'è anche il caso di baccalà, in realtà filetto di brosme oppure del pagro fresco venduto come dentice rosa. E ancora il pesce serra al posto delle spigole, il pesce ghiaccio al posto del bianchetto, la verdesca al posto del pecespada, l'halibut atlantico al posto delle sogliole. Infine, gli spaghetti con le vongole: 75 per cento di possibilità che sono state pescate in Turchia. I padroni del mare, il business degli importatori. Secondo le indagini della procura di Lecce e di Palermo 'comandano' vecchi armatori che tentano di riciclarsi in qualche modo. Non sono immuni da infiltrazioni criminali che approfittano dei prezzi convenienti: il pesce non italiano costa fino a otto volte meno dell'originale. E nei ristoranti tre volte su quattro quello che si ordina viene dall'estero.

Perché questa invasione? Chi ci guadagna? "Sicuramente non noi" spiega Mauro Manca, presidente dell'Associazione Acquacoltori, la costola che si occupa di pesca della Coldiretti. "Basti ricordare che nel giro di due anni il settore ha perso il 12 per cento della produzione e l'11 per cento dei ricavi e che nei primi mesi dell'anno la quota di importazione continua a salire in maniera importante". Numeri che vanno a braccetto automaticamente anche con il crollo dei pescatori. Secondo il Centro Studi Lega Pesca sono rimasti solo 28.542 pescatori, il 61,4 per cento concentrato nelle regioni meridionali e insulari. L'età media generale oscilla tra i 41 e 43 anni solo grazie all'ingresso di giovani immigrati, che per esempio hanno ormai l'esclusiva a Mazara così come a Manfredonia.

Tornando al business, gli affari sono unicamente nelle mani degli importatori, i veri padroni della pesca in questo momento in Italia. Si tratta di vecchi armatori riciclati e, come stanno provando a raccontare due indagini della procura di Lecce e di Palermo, in alcuni casi anche con infiltrazioni della criminalità organizzata che come al solito ha messo gli occhi su un business importante. Per comprendere quanto conviene importare il pesce dall'estero è bene guardare ancora una volta un po' di numeri. Come ha ricostruito la Guardia di Finanza in un'inchiesta a Bari, il costo del pesce taroccato è sino a otto volte inferiore rispetto all'originale.

Il caso più eclatante è probabilmente quello dello squalo smeriglio, il cui prezzo di acquisto in fattura era di 2,50 euro al chilogrammo (e che comunque difficilmente viene commerciato in quanto poco richiesto dal consumatore). E che invece veniva venduto come pesce spada fresco a 19 euro. "In questo tipo di business un ruolo di particolare importanza - continua Manca - è quello della ristorazione che, forte di un dato statistico che attesta nel 75 per cento circa il consumo extra domestico di prodotti ittici, deve garantire anch'essa un livello accettabile di trasparenza nei confronti del consumatore, in modo da favorire ancora una volta la scelta consapevole di un prodotto italiano, rispetto ad uno di provenienza estera, elemento a oggi non garantito nella maggioranza dei casi".

"Con tre piatti di pesce su quattro che vengono dall'estero all'insaputa dei consumatori occorre mettere in campo delle iniziative capaci di riportare sulle tavole il prodotto Made in Italy che è sicuramente più sano e gustoso degli ormai onnipresenti gamberetti asiatici o del famigerato pangasio" spiega Tonino Giardini, imprenditore marchigiano e presidente di Impresa Pesca Coldiretti. Non è un caso che nel 17 per cento dei casi infatti l'etichettatura obbligatoria sul pesce servito nei ristoranti è assente, nel 38 per cento dei casi è incompleta. Ma fa male soltanto all'economia l'importazione del pesce straniero? Pieni di additivi e di sostanze ignote. E a rimetterci è la salute di chi mangia. L'Agenzia di sicurezza alimentare dell'Ue ha segnalato la presenza di batteri in molluschi italiani, di cadmio in calamari congelati spagnoli, di salmonella nei gamberi congelati del Bangladesh ma confezionati in Italia. Ma la lista è molto lunga: il pescato diventa un rischio perché tossico.

L'importazione del pesce straniero non fa male soltanto all'economia. Il quadro che proprio nelle scorse settimane ha tracciato il Rasff (Rapid alert system for Food and Feed), l'agenzia di sicurezza alimentare dell'Unione Europea, non è affatto tranquillizzante. Nella relazione viene segnalato come fossero stati trovati batteri in molluschi italiani, cadmio in calamari congelati che arrivavano dalla Spagna, salmonella brunei in cocktail di gamberi congelato proveniente dal Bangladesh e confezionato in Italia, infestazione da larve di nematodi in nasello congelato dalla Spagna, mercurio in filetti congelati di squalo blu e pesce spada sotto vuoto dalla Spagna. Insomma un elenco infinito di porcherie che arriva come pesce prelibato sulle tavole di tutti gli italiani.

A preoccupare gli esperti c'è poi in particolare il pesce che arriva dal Vietnam, dove peraltro è permesso un trattamento per il pesce con antibiotici che in Europa è vietatissimo in quanto pericoloso per la salute. Ma il rischio non è soltanto quello dell'importazione. Uno dei problemi arriva dall'utilizzo massiccio di alcuni additivi chimici che i pescatori usano per "rinfrescare" il pesce: in sostanza viene passato per dare più lucentezza al prodotto non fresco. Le conseguenze sono incredibili. Ecco per esempio cose è accaduto al professor Gagliano Candela, tossicologo, docente universitario e consulente di decine di procure italiane. "Avevo comprato il tonno, come prodotto freschissimo, in una pescheria. Per caso ho spento la luce in cucina e il mio tonno è diventato fluorescente. L'effetto è dovuto - spiega - a un additivo che viene utilizzato per sbiancare il pesce e renderlo brillante. Il principio è lo stesso utilizzato per i detersivi delle camice, quelli che restituiscono brillantezza ai colori". Uno degli additivi più utilizzati, nonostante sia vietato in Italia, è il cafodos. I carabinieri del Nas lo sequestrano in continuazione in tutta Italia. Non si tratta di per sé non è molto tossico. Ma può provocare danni di un certo rilievo a chi lo mangia.

"Il pesce - spiega il professor Alberto Mantovani, tossicologo del dipartimento di Sanità alimentare e animale dell'Istituto superiore di sanità - e in particolare alcune specie come il pesce azzurro o il tonno, rilascia istamina in quantità sempre maggiori con il tempo. Mangiando quindi pesce vecchio si ingeriscono alte quantità di istamina che possono provocare un avvelenamento acuto. I rischi sono quelli di un'allergia violenta - continua - o di problemi più gravi per un certo tipo di pazienti, come per esempio i cardiopatici". Proprio a Bari, sono finite in ospedale una decina di persone dopo aver mangiato alici al cafodos. E un'altra inchiesta è partita in seguito alla denuncia di un allergico che ha avuto una crisi per colpa di pesce azzurro ormai vecchio. Ma l'importazione selvaggia sta facendo soffrire il nostro mare? Sì, a credere agli esperti. La colpa è ancora una volta dei grossisti che oltre a far arrivare il pesce dalla Cina, il Vietnam o l'Indonesia, hanno cominciato ad allevarlo. Le guardie costiere hanno per esempio lanciato l'allarme per il granchio cinese, considerato forte e aggressivo, in grado di impedire la crescita degli altri crostacei e di altre varietà nell'habitat in cui si riproduce. In sostanza sta distruggendo tutte le altre specialità. Esiste poi un paradosso che sta conoscendo il popolo del Mediterraneo.

Un terzo del pesce che viene pescato viene ucciso e ributtato in mare perché la sua commercializzazione non è considerata conveniente. "Il fenomeno è sempre più frequente" spiega Angelo Cau, docente di biologia marina all'università di Cagliari. "Pescando a 400 metri di profondità si butta in mare il 60 per cento del pescato. Pescando a 200 metri di profondità si può arrivare a buttare in mare anche più del 90 per cento del pescato. In media si spreca un terzo di tutto ciò che finisce nelle reti e quattro specie su dieci non vengono commercializzate pur avendo le carte in regole per essere vendute. "I nostri pescatori il pesce lo porterebbero volentieri a terra" osserva Ettore Ianì, presidente di Legapesca. "Ma il problema è che nessuno lo compra: costa troppo, ha dimensioni ridotte. Insomma non è concorrenziale con il prodotto importato dall'estero". In fondo, non è poi così lontano il Mozambico.

Sì alle sardine, no ai gamberi. Da portare in tavola: tonnetti, sgombri, cavalla e lampughe. Da evitare: anguille, merluzzi, sogliole e orate. Ecco la guida per scegliere i pesci non avvelenati da mercurio o antibiotici.

Ecco un esperimento facile facile: provate a chiedere, alle bancarelle del mercato rionale, un filetto di pesce serra, tre etti di zerro e una cavalla. Nella migliore delle ipotesi vi rideranno dietro. Perché nelle cassette di polistirolo in bella vista sui banchi del pesce troverete infinite spigole e orate di dimensioni standard (la misura di una monoporzione), tanti filetti di pangasio, il pesce gatto allevato nelle acque del Sud-est asiatico, dove la regolamentazione su prodotti chimici e antibiotici è assai più lasca che dalle nostre parti, e montagne di gamberi del Golfo del Messico dove è stata appena riaperta la pesca dopo i disastri della fuoriuscita di greggio dalla piattaforma Bp un anno fa e molti sono preoccupati degli effetti sulla popolazione ittica dei solventi chimici impiegati per dissolvere la marea nera. Sebbene infatti nel mar Mediterraneo vivano almeno 500 specie di pesce commestibile, sulle nostre tavole ne arrivano, a essere generosi, una decina, mentre consumiamo in abbondanza prodotti che vengono dagli oceani.

"Gli italiani amano il pesce-bistecca: senza spine, veloce da pulire e facile da cucinare", dice Silvio Greco, biologo marino e docente di Produzioni animali all'Università di Scienze gastronomiche di Pollenzo. E il problema non è solo italiano. Sono tutti i cittadini europei a consumare pesce sbagliato, e più di quanto i mari del Vecchio continente siano in grado di produrre, tanto da diventare sempre più dipendenti dalle importazioni: se tutti i paesi dell'Unione dovessero consumare solo prodotti ittici nazionali, le scorte finirebbero il 2 luglio prossimo, come denuncia il dossier "Fish dependance day", appena presentato dalla New Economics Foundation e da Ocean 2012.  Le riserve ittiche dei nostri mari sono insomma al lumicino, e l'80 per cento di tutte le specie presenti nelle acque europee è sfruttato oltre i limiti della sostenibilità. Il fatto è che il Mediterraneo è un mare al collasso: racchiude appena il 7 per cento delle acque del pianeta, e ospita il 30 per cento di tutto il traffico di petroliere. "Nel Mare nostrum abbiamo rilevato una quantità di catrame pelagico galleggiante 60 volte superiore a quella presente nell'Oceano indiano", continua Greco. E i pochi studi condotti sino a oggi dicono che dei 37 stock ittici condivisi dai paesi rivieraschi, almeno 30 sono sovrasfruttati: la continua e indiscriminata cattura di pesci impedisce alle specie di riprodursi e ripopolare le acque. Così siamo costretti a importarne il 37 per cento in più rispetto a un ventennio fa.

Pigri e conservatori, anziché sfruttare l'infinita varietà delle acque nazionali, gli italiani si accaniscono sulle specie in pericolo. Come il tonno rosso del Mediterraneo, a rischio non soltanto per la sovrappesca, ma anche per la contaminazione da mercurio e policlorobiofenili (diossina e simili), il pesce spada o il salmone. Errore blu, secondo Greco: "I pesci di grandi dimensioni e dal ciclo vitale lungo hanno più tempo per accumulare nelle loro carni tutti gli inquinanti del mare, come i metalli pesanti (primo tra tutti il mercurio) e gli idrocarburi policiclici aromatici. Meglio sarebbe nutrirsi di pesci di taglia media o piccola anche da adulti".

Gli italiani amano spigole e orate, ma consumano quelle da acquacoltura, cresciute a forza di mangimi, se è vero che nella classifica dei consumi ai primi cinque posti troviamo quattro specie prevalentemente o esclusivamente allevate (orate, cozze, spigole e trote salmonate). Ma anche in questo caso, finiamo col consumare sempre le stesse cose: "Le specie allevate sono pochissime, circa dieci di pesce, tre di crostacei e sei di molluschi", continua Greco. Con l'incongruo che normalmente gli esemplari da allevamento sono nutriti con farine di altri pesci selvatici. E' sostenibile catturare 20 chili di pesce per ottenere un chilo di prodotto da allevamento? Non solo: le farine sono ottenute per lo più da pesci di piccola taglia interi, comprese le viscere, ma anche dagli scarti industriali della lavorazione di prodotti ittici per omogeneizzati per bambini e per la gastronomia. Il risultato è che queste farine contengono il 60 per cento di proteine e il resto di grassi. Non solo: gli animali da allevamento sono trattati con montagne di antibiotici per impedire il diffondersi delle infezioni nelle vasche. Ovvio che, nella gestione dell'economia domestica, si possa finire col mettere nel carrello del pesce d'allevamento. Allora, vale la pena di leggersi "Quelli che non abboccano", la guida di Slow Food con le cose da sapere prima di acquistare pesci, molluschi e crostacei d'allevamento. Dunque meglio rivolgersi alle specie nostrane, più economiche e sostenibili ma non meno interessanti dal punto di vista gastronomico: la lampuga dalle carni sode e gustose, la palamita (o tonnetto) e lo sgombro, le cui carni bianche, grasse e saporite sono ricche di sali minerali, vitamine e grassi omega. E sono buone anche crude. "Si può ben fare il sushi mediterraneo", spiega Luca Collami, chef del Ristorante Baldin di Genova-Sestri: "I pesci poveri come il sugarello, la buga o la cavalla hanno un sapore meno piatto del branzino, dell'orata o del sanpietro, che hanno carni più delicate ma meno carisma".

Lo sanno bene quelli di Slow Food, che da almeno un decennio si spendono per invitare i cittadini al consumo responsabile, anche in campo ittico. Quest'anno la quinta edizione di Slow Fish (alla Fiera di Genova dal 27 al 30 maggio) vede tra i protagonisti, oltre ai pescatori, anche tutti coloro che cercano di restituire al pesce dei nostri mari il posto che gli spetta: in tavola, ma anche nella filiera produttiva. Tra questi c'è Massimo Bernacchini, responsabile del Presidio della Bottarga di Orbetello. L'area maremmana, spiega, stava attraversando un periodo di crisi economica che sembrava irreversibile: l'aggressività della concorrenza e i cronici problemi ambientali della Laguna stavano mettendo in ginocchio l'intero comparto. "L'unico modo per uscirne", dice Bernacchini, "era puntare sulla qualità delle nostre competenze. Quando si parla di bottarga viene in mente la Sardegna, ma pochi sanno che la lavorazione delle uova di pesce è tipica anche della nostra Laguna". Oggi i pescatori sono oltre 60, riuniti in cooperativa. Lavorano le uova di cefalo, una delle cinque specie presenti nelle acque salmastre, e producono filetti affumicati di anguilla. E qualcuno di loro si è spinto anche in Mauritania, per insegnare alle donne Imraguen come lavorare le uova di cefali dorati e ombrine, e trovare strade di commercializzazione alternative.

A rivalorizzare il territorio puntando sulla sostenibilità ci hanno provato anche in Puglia: a Torre Guaceto, riserva naturale sulla costa adriatica dell'Alto Salento, è attivo da anni un progetto di co-gestione della piccola pesca che è diventato un modello per molti pescatori europei e non solo. "Dal 2001 al 2005 è stato imposto il divieto assoluto di gettare le reti in tutta l'area marina, anche nella zona C, dove in genere è consentita l'attività umana", spiega Marcello Longo, tra i promotori dell'iniziativa: "All'inizio ci sono stati momenti di tensione con i pescatori ma, con il tempo e con i risultati, le cose sono cambiate. Le risorse ittiche sono aumentate del 400 per cento e si è evitata la scomparsa degli sparidi, come i saraghi, e poi di scorfani e triglie, dei polpi e delle seppie; ora, a ogni uscita in mare si realizzano guadagni più alti". Le imbarcazioni pescano una sola volta a settimana e utilizzano reti più corte (1 km) e più larghe, per evitare di produrre danni ai fondali, di catturare pesci giovani o specie ecologicamente importanti. Risultato: sono aumentate le taglie di molte specie commerciali, come la triglia di scoglio, e i rendimenti sono almeno il doppio rispetto a prima del 2005 e a quelli ottenuti al di fuori dell'area marina protetta.

La gestione sostenibile della pesca è l'obiettivo anche di un altro progetto, avviato quest'anno dal Cnr nello Stretto di Sicilia e nell'Adriatico Meridionale. Si tratta di aree importanti per l'economia ittica: nello stretto si pescano 6-8 mila tonnellate di gambero rosa, circa il 50 per cento di tutto il pescato del Mediterraneo. "Il nostro compito è raccogliere informazioni sull'abbondanza, la demografia e la distribuzione delle risorse, e monitorare anche le dinamiche ambientali che possono influenzare la capacità riproduttiva degli stock", spiega Fabio Fiorentino, ricercatore presso l'Iamc di Mazara del Vallo e responsabile del progetto: "Lo scopo è sviluppare strumenti e tecnologie dell'Information and Communication Technology per trasmettere a bordo dei pescherecci e alla capitanerie di porto tutta una serie di informazioni utili sull'ambiente marino in tempo reale, sull'abbondanza del pesce e sulle aree critiche". Il tutto per ottimizzare i processi di pesca, riducendo gli impatti negativi sull'ambiente e migliorando il rendimento economico.

XILELLA FASTIDIOSA: RESPONSABILITA' DI STATO.

Xylella: responsabilità di Stato.

L’inettitudine e l’imperizia dei governanti, la demagogia, l’ignoranza e la falsità di un certo mondo ambientalista e gli appetiti di coloro che ne vogliano fare un business sono più dannosi della malattia. Si vuol desertificare il Salento sterminando tutte le piante in loco. Come dire: c’è una persona malata, si annientano tutti i conviventi e tutti i suoi compaesani. E' l'Isis europea che si abbatte sul patrimonio ambientale salentino.

Il grido d’aiuto lanciato dagli alberi salentini che possono avere una vita millenaria comincia ad espandersi e diffondersi, purché non si affronti la questione con un allarmismo che non solo sarebbe inutile, ma rischia di essere dannoso. Certo, nemmeno il complottismo può funzionare quasi che i salentini siano stati vittime di chissà quale trama ordita da chi lo vuol vedere piegato agli interessi extralocali.

All’inizio il progressivo ammalarsi delle piante venne riferito ad una molteplicità di fattori  tra i quali figurava anche un batterio parassita, la Xylella fastidiosa. Con il corollario della prospettazione di un pericolosissimo rischio di contagio. Quasi che il Salento fosse diventato una bomba pronta ad esplodere contaminando il resto del Paese e persino l’Europa.

Ed ecco allora che si cerca di capire chi è il responsabile.

Parlare di responsabilità dello Stato italiano: di questo sì che si può parlare.

Il dr Antonio Giangrande, scrittore e presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie”, autore del libro Agrofrodopolitania”, imputa al Governo la responsabilità della diffusione della malattia degli ulivi salentini e ne spiega analiticamente i motivi.

La Procura di Lecce apre un’inchiesta - al momento a carico di ignoti - per diffusione colposa della malattia degli ulivi nel Salento? I responsabili ci sono e non sono ignoti: è il Governo centrale e tutti quelli ambientalisti da strapazzo che si sciacquano la bocca con il termine “tutela dell’ambiente e della natura”, ma che in realtà sono più dannosi dei germi patogeni della Xylella. Non è una tesi campata in aria o di stampo complottistico. Ma la consapevolezza che i responsabili tanto ignoti non sono. Di sicuro vi è che il patrimonio olivicolo del Salento ha registrato un attacco grave ad opera di un processo chiamato CoDiRo (Complesso del disseccamento rapido degli ulivi).

Precisiamo che gli ulivi del Salento hanno centinaia di anni. Molti di loro erano centenari già all’epoca di Dante. Queste creature tante ne hanno viste e tanto ne avrebbero da raccontare sugli umani.  «I miei ulivi stanno bene - precisa a Leccenews24 l'anziano agricoltore con gli occhi lucidi che lasciano trapelare una certa preoccupazione -  ma ci sono campagne vicino alla mia dove è arrivata "quella cosa"». «Io non ci credo che non ci sia una cura, è impossibile. Guardi quest'albero, è storto, piegato su se stesso, sembra sul punto di spezzarsi da un momento all'altro. Eppure sono settant'anni che lo trovo sempre lì. Così mio padre. E mio nonno, non è bello?». Per un attimo stentiamo a capire come si fa a definire un albero "bello" poi basta guardarlo con un occhio diverso per rendersi conto che non esiste altro termine per descrivere quel tronco massiccio e contorto, che affonda le sue radici nel terreno puntellato di pietre e che si dirama verso il cielo con le sue chiome argentee e rigogliose. Queste lo sono ancora. Non una foglia marrone, non un ramo secco. Niente. A pensarci bene persino un genio della pittura come Renoir se n'era accorto, in una lettera datata 1889 scriveva testualmente «L'olivo, che brutta bestia! Non potete sapere quanti problemi mi ha causato. Un albero pieno di colori, neanche tanto grosso, e le sue foglioline, sapeste come mi hanno fatto penare! Un soffio di vento, e tutta la pianta cambia tonalità perché il colore non è nelle foglie ma nello spazio tra loro. Un artista non può essere davvero bravo se non capisce il paesaggio». L'anziano che abbiamo incontrato non sarà il maestro dell'impressionismo, ma il messaggio è più o meno lo stesso: la terra è un patrimonio naturalistico di inestimabile valore che deve essere tutelato, protetto. E i primi che dovrebbero farlo sono i contadini. Eppure sembrano essere diventati l’ultima ruota del carro, semplici spettatori di un dramma diventato ormai inarrestabile. «Le malattie ci sono da sempre, perché questa sarebbe diversa? Possibile che si possa combattere solo con l'eradicazione? Ma quando mai?  - prosegue il contadino convinto che una soluzione ci sia e che basta solo trovarla – prima di prendere qualunque decisione bisogna fare molta attenzione perché i nostri ulivi, millenari e non, sono stati ottenuti mediante l’innesto della varietà (Cellina di Nardò e Ogliarola) su ceppo di selvatico resistente a ogni tipo di malattia. Non a caso i nostri uliveti sono soprannominati “uliveti reali” (così come classificate nelle carte geografiche dell’IGM) per la bellezza delle piante e la bontà delle olive e degli oli prodotti». «Non bisogna dimenticare poi che questa tipologia di alberi è riuscita anche a resistere all’incuria grazie al suo legame con la terra da cui estrae la linfa vitale per sopravvivere». «L’unico torto di questi alberi ultra secolari e alcuni addirittura millenari che sono gli unici testimoni viventi della storia dell’uomo è che non hanno mai chiesto niente a nessuno, nemmeno alle istituzioni che investono fior di milioni per un edificio storico, dove per edificio storico si intende anche un fabbricato con meno di cento anni, e delle piante non si sono mai interessati. Adesso devono pensare pure agli ulivi, che sono veri e propri monumenti.  Glielo dobbiamo». «Queste cose succedono da quando abbiamo smesso di rispettare la terra –  ci dice – gli ulivi sono stati dimenticati in primis dall’uomo, sono stati bistrattati, sono stati relegati in uno stato di assoluto abbandono, che solo l’inversione di rotta degli ultimi anni, forse salverà…». «Lei è favorevole all’eradicazione?» chiediamo al 70enne pur conoscendo la risposta e, infatti, perentorio, pronuncia un secco NO «al massimo si più tagliare tanto dalla radice. Usciranno dei polloni che nel giro di pochi anni possono diventare nuovi alberi di pregio, mantenendo così facendo la varietà autoctona nel nostro territorio». E poi usa un termine che strappa quasi un sorriso “scattunare”, questo bisogna fare. Prima di salutarci ci dice una frase che ci lascia un po’ l’amaro in bocca «dai batteri dobbiamo difenderci, ma se dobbiamo difenderci anche dagli uomini, siamo davvero spacciati». Quando si dice vecchia saggezza contadina. 

Attenzione!!! Lo Stato Italiano, genuflesso al potere degli altri Stati europei, Francia in primis, gli ulivi li vuole eradicare, cioè sdradicare. Basterebbe tagliare il tronco in modo che germoglino nuove piante su quelle radici e in pochi anni tutto ritornerebbe allo status quo. Ma ciò non si può fare. Sarebbe troppo semplice e nessuno speculerebbe sulla disgrazia.

Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso internazionale con l'inerzia del Governo italiano che non difende il suo territorio. Nel Consiglio dei 28 ministri dell’agricoltura Ue del 16 marzo 2015, la sentenza per la Puglia: “Abbattere tutti gli alberi infettati dal batterio Xylella fastidiosa”. La richiesta è stata comunicata dal Commissario alla Salute Vytenis Andriukaitis, al Ministro italiano dell'Agricoltura, Maurizio Martina. L'eradicazione degli ulivi resta al centro della strategia Ue per contrastare la Xylella fastidiosa, il batterio killer che sta distruggendo gli ulivi del Salento. I paesi europei che si sentono più vulnerabili all'espansione del batterio Xylella, in particolare Francia, Grecia e Spagna, chiedono di abbattere almeno un decimo dei circa 9 milioni di alberi dell'area del Salento, mentre l'Italia ritiene sufficiente il piano del commissario Giuseppe Silletti, che prevede interventi più contenuti. In Italia, invece, lo scontro si è già spostato sul piano legale, dopo che la sezione di Lecce del Tar di Puglia ha accolto il ricorso di due avvocati proprietari di un uliveto a Oria, la località da cui dovrebbero partire le misure di emergenza. L’Europa ce lo chiede: “Prima di tutto dobbiamo essere molto chiari, tutti gli alberi colpiti dal batterio Xylella fastidiosa devono essere rimossi e questa è la prima cosa”. Colpi di accetta e motoseghe, dunque, su migliaia di ulivi e non solo. Anche su lecci, mandorli, ciliegi, albicocchi e tutte le altre piante, appartenenti ad almeno 150 specie, che risulteranno attaccate dal patogeno da quarantena arrivato dalle Americhe. Una raccomandazione che avrà come contraltare, in caso di mancato adempimento, l’avvio di una procedura di infrazione comunitaria. Non ha usato mezze misure il commissario europeo alla Salute e sicurezza alimentare, Vytenis Andriukaitis, al termine del Consiglio dei 28 ministri dell’agricoltura. Per Bruxelles, il contagio va contenuto dentro i confini della Puglia meridionale, a costo di applicare la soluzione più “dolorosa”. Come dire: gli abbattimenti dovranno essere ovunque, pure nei diecimila ettari intorno a Gallipoli, epicentro del contagio originario, e non solo mirati nei dodici focolai individuati e nella “fascia di eradicazione”. È questa striscia la prima sorvegliata speciale, lunga 50 chilometri e profonda 15, una sorta di fossato immaginario a cavallo tra le province di Lecce, Brindisi e Taranto. Le ruspe entreranno in azione innanzitutto lì, a tutela di una “fascia cuscinetto” al momento indenne. Tutta la penisola salentina, invece, è dichiarata “zona infetta”, sebbene sia interessata dal fenomeno solo in parte, in quaranta comuni. Spetterà agli stessi proprietari l’obbligo di tagliare le piante colpite, concetto al limite della discrezionalità, visto che sono ritenute tali quelle identificate “sia con analisi di laboratorio che con riscontro dei sintomi ascrivibili all’infezione di Xylella fastidiosa”, ma anche quelle “individuate come probabilmente contagiate”. Per chi si opporrà? Sanzioni amministrative e interventi in sostituzione da parte dell’agenzia regionale Arif. Così anche per chi non effettuerà le arature entro aprile e per chi si rifiuterà da maggio di usare insetticidi chimici.

Eppure la strage degli ulivi in Salento ha delle chiare responsabilità dello Stato italiano che ha legiferato sotto la spinta di un pseudo ambientalismo da strapazzo senza sentire i contadini. Ma andiamo per ordine. Oggi, il tanto decantato prodotto biologico profuso dagli ambientalisti ha portato i proprietari dei terreni a non trattare con prodotti naturali o chimici terreni e piante. Questa neo cultura impedisce di lavorare i terreni o le piante, con arature e concimazioni. Dietro lo spirito ambientalista, spesso, però, si nasconde la grave crisi dell’agricoltura. Non si curano i terreni e le piante per mancanza di liquidità e, perciò, si abbandonano. L’abbandono provoca l’essiccamento delle piante. Per quanto riguarda la potatura delle piante e la produzione delle stoppie i nostri antenati bruciavano in loco quanto si era potato. Ciò produceva concime e, di fatto, impediva che si propagasse l’infezione da parte di qualche pianta malata. Ma i nostri governanti, spinti dai soliti ambientalisti, ha ribaltato secolari sistemi di coltivazioni. Ricordiamo che l’art. 13 del D.Lgs. 205/2010, modificando l’art. 185 del D.Lgs. 152/2006, stabiliva che “paglia, sfalci e potature, nonché altro materiale agricolo o forestale naturale non pericolosi...", se non utilizzati in agricoltura, nella selvicoltura o per la produzione di energia mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente o mettono in pericolo la salute umana devono essere considerati rifiuti e come tali devono essere trattati. Accendere falò in campagna per bruciare questi residui è quindi contro la legge poiché integrerebbe il reato, non solo amministrativo ma anche penale, di illecito smaltimento dei rifiuti. Sono già accaduti casi di verbali molto importanti a carico di agricoltori, sanzionati ai sensi dell' art. 256 del D.Lgs 152/2006 che prevede: “la pena dell'arresto da tre mesi a un anno o l'ammenda da duemilaseicento euro a ventiseimila euro se si tratta di rifiuti non pericolosi” come sono considerate stoppie e ramaglie.

Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso legislativo. Con il decreto legge del 24 giugno 2014 n. 91, in vigore dal 25 giugno, si risolve il problema della bruciatura delle stoppie e dei residui vegetali che ha creato tanti problemi negli ultimi anni in quanto considerati rifiuti speciali. Il comma 8 dell’art. 14 del decreto legge modifica l’articolo 256 – bis del decreto legislativo 152/2006 ( “Codice Ambientale”) relativo alla combustione illecita di rifiuti, prevedendo che tali disposizioni “non si applicano al materiale agricolo e forestale derivante da sfalci,  potatura o ripuliture in loco nel caso di combustione in loco delle stesse. Di tale materiale è consentita la combustione in piccoli cumuli e in quantità giornaliere non superiori a tre metri steri per ettaro nelle aree, periodi e orari individuati con apposita ordinanza del Sindaco competente per territorio. Nei periodi di massimo rischio per gli incendi boschivi, dichiarati dalle regioni, la combustione di residui vegetali agricoli e forestali è sempre vietata.”. Ergo: Il Parlamento riconosce di aver emanato una legge sbagliata. Dalla nuova norma si capisce che il legislatore aveva fatto una gran boiata nell’alterare il naturale smaltimento dei residui di potatura. Si riconosce, inoltre, che lo spostamento di quei residui in altre aree di smaltimento ha prodotto il propagarsi del contagio.

Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso giudiziario. La procura di Lecce indaga sull’origine del batterio Xylella fastidiosa che sta decimando gli alberi di ulivo salentini. L’inchiesta, secondo quanto riferiscono alcuni quotidiani, starebbe seguendo due possibili strade. La prima è che il batterio sia arrivato in Puglia in occasione di un convegno scientifico che fu organizzato nel settembre 2010 dall’Istituto agronomico mediterraneo. Con una particolarità. Uno dei possibili indiziati, l’Istituto agronomico mediterraneo di Valenzano (Bari), “gode per legge di immunità assoluta”, spiega il pm di Lecce, titolare dell’inchiesta Elsa Valeria Mignone in un’intervista a Famiglia Cristiana. “L’autorità giudiziaria italiana non può violare il domicilio dell’istituto, non può effettuare sequestri, perquisizioni o confische”, spiega il magistrato. La seconda pista ipotizza che il batterio killer sia stato introdotto con le piante ornamentali importate dall’Olanda e provenienti dal Costa Rica. Ergo: Mancato controllo dello Stato o di Organi pubblici sull’introduzione di organismi dannosi nel territorio nazionale.

Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso finanziario. Tredici milioni di euro a disposizione del commissario straordinario per l’emergenza-ulivi. Lo ha annunciato il direttore dell’area Politiche per lo sviluppo rurale della Regione, Gabriele Papa Pagliardini. Le attività riguarderanno prevalentemente la lotta ai vettori del batterio, attraverso arature, sfalciature, potature e utilizzo di principi attivi che dovranno impedire ai cicadellidi di diffondere Xylella. Ovviamente si dovrà investire anche sulla ricerca, per sconfiggere il batterio là dove ha già attecchito (si parla di circa 40mila ettari infetti su un totale di 95mila coltivati a uliveto). Ma sulla ricerca di somme di denaro non si è parlato. Ergo: lo Stato finanzia l’estirpazione delle piante, ma non finanzia la ricerca per debellare la causa. Eppure basta poco. Basta dar credibilità a chi di piante se ne intende ed aiutarli finanziariamente a praticarne la cura.

Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa un caso mediatico. L’idea è nata sul web, per iniziativa dello scrittore Pino Aprile, scrive Flavia Serr. Su La Gazzetta del Mezzogiorno. E dopo una valanga di «post», «tweet» e «ri-tweet», ecco che la grande mobilitazione promette di portare in piazza migliaia di persone (11mila le adesioni raccolte sulla rete). Tutti uniti sotto lo slogan «Difendiamo gli ulivi». Lo stesso grido di battaglia che è diventato un hashtag e ha inondato i social network (Facebook, Twitter e Instagram), fino a coinvolgere decine di artisti e volti noti dello spettacolo, salentini e pugliesi di nascita o «de core», mobilitati da Nandu Popu dei Sud Sound System, agguerritissima «sentinella» degli ulivi. Fra gli altri, sono scesi in campo (e ci hanno messo la faccia) Federico Zampaglione dei Tiromancino, Claudia Gerini, Emma Marrone, Samuele Bersani, Marco Mater azzi, Elio degli Elio e le Storie Tese, Fabio Volo, Raffaele Casarano, Après la classe, solo per citarne alcuni. E nelle scorse ore, anche Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, direttamente da New York dove sta ultimando il nuovo disco del gruppo, ha pubblicato su Fb una sua foto con il cartello in mano «#Difendiamo gli ulivi». Allo scatto, ha aggiunto anche un messaggio: «Queste straordinarie creature che stanno per essere eradicate, questi alberi secolari, chiamati “ulivi”, rappresentano centinaia, per non dire migliaia, di anni della storia e della vita di un popolo, come il nostro. So poco di agricoltura o di botanica. Ma so per certo una cosa: loro (le straordinarie creature) meriterebbero una riflessione ampia e consapevole e tutti noi abbiamo diritto di conoscere, di sapere se e perchè “nostri simili” stanno per lasciare la vita terrena. Abbiamo diritto alla verità». Sangiorgi in piazza ci sarebbe venuto oggi, e col pensiero c’è. Ed è vicino a quel movimento che chiede maggiore chiarezza sulle cause del disseccamento rapido degli ulivi e su tutte le possibili cure per affrontarlo. Insieme a Sangiorgi, il resto della «famiglia » Negramaro sposa la battaglia, con il batterista Danilo Tasco e il chitarrista «Lele» Spedicat o. Già nei giorni scorsi, un fiume di altre «star» pugliesi si sono dette pronte a mobilitarsi in difesa degli ulivi: dal regista Edoardo Winspeare allo stilista Ennio Capasa, passando per i comici Nuzzo e Di Biase, i fotografi Flavio&Fr ank, fino ad arrivare al rapper Caparezza che su Twitter ha scritto: «Arruolatemi tra le sentinelle degli ulivi. Urge chiarezza sulla xylella». Così, Le Iene il 2 aprile 2015 hanno mandato in onda un servizio con Nadia Toffa sull'argomento. Fabio Ingrosso e  Nadia Toffa si sono recati nel Salento dove moltissime coltivazioni di ulivi sono state infettate da un batterio molto pericoloso originario della California, di cui in Europa in precedenza non si era riscontrata alcuna traccia. Il parassita si chiama "xylella" e rischia di decimare migliaia di ulivi secolari. La UE ha chiesto misure drastiche di intervento che prevedono l'eradicazione degli alberi malati seguendo una precisa mappatura. Ma l'eradicazione, per la quale sono stati stanziati diversi milioni di euro, è davvero l'unica soluzione? La Iena lo chiede ad un gruppo di ricercatori  e, in seguito, ad alcuni contadini del posto che hanno adottato delle cure naturali per provare a salvare gli ulivi. Testimonial del servizio Caparezza a Albano Carrisi, due musicisti che, come molti altri artisti si stanno schierando contro l'eradicazione degli ulivi. Toffa ha spiegato con parole molto semplici qual è la situazione, dal punto di vista geografico (cioè per quali zone si sta prevedendo l'eradicazione), ma anche dal punto di vista storico: «Fino a oggi la Xylella non aveva mai colpito gli ulivi, e non è detto che sia la Xylella a far ammalare gli ulivi» sono state le sue parole, che contribuiscono a sollevare molti dubbi su quello che sta accadendo. Sono meno di 300, ha detto Toffa, gli ulivi malati: e allora perché l'eradicazione si preannuncia tanto massiva? Il servizio de Le Iene suggerisce un metodo per risanare gli ulivi dalle parole di un agricoltore, che ha curato le sue piante malate, oggi in salute, in alcuni mesi, irrorandole con una mistura di calce e solfato di rame, un rimedio della nonna che a quanto pare, nel caso dell'agricoltore intervistato, ha sortito il suo effetto. La parola degli ulivicoltori è al momento molto importante nel Salento: un'eradicazione massiva li getterebbe sul lastrico.

Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa una denuncia per la mancanza di volontà di trovare un rimedio curativo naturale per le piante. Quelli del movimento 5 Stelle di Tuglie hanno intervistato un agricoltore.

Domanda: Poltiglia bordolese, suggestione o via percorribile?

Risposta. Noi non interveniamo sul batterio, rafforziamo le autodifese della pianta con rimedi naturali. Non è affatto una suggestione, io curo ancora molte patologie dell’apparato respiratorio con i rimedi della nonna a base di erbe. Abbiamo solo utilizzato vecchie pratiche agronomiche, il solfato di rame è un antibatterico e un antifungino, l’idrossido di calcio (calce) è un disinfettante naturale usato da secoli. La vecchia poltiglia bordolese autoprodotta non porta ricchezza alle casse delle multinazionali dell’agrochimica. Successivamente siamo intervenuti alla radice, con un prodotto naturale a base di aglio, che alcuni ricercatori spagnoli venuti fin qui ci hanno gratuitamente consegnato per la nostra sperimentazione empirica. Ci siamo accertati che fosse un prodotto naturale e registrato e lo abbiamo usato alla base della pianta, intervenendo sulle radici.

D. Quali i sintomi della malattia?

R. La sintomatologia si nota dall’alto della chioma per poi diffondersi su tutta la branca, sino al basso della pianta. Proprio come una verticillosi.

D. Che fare appena si sospetta che l’uliveto potrebbe essere stato contaminato?

R. Noi non ci sostituiamo agli organi preposti, di certo non ci atterremo a quelle norme scellerate previste dalla quarantena che prevedono l’uso massiccio di diserbanti e insetticidi per uccidere i fantomatici insetti “vettori”.

D. E in termini di prevenzione?

R. Curare la terra e gli olivi. Una buona potatura aiuta la pianta a rivegetare, ossigenare il terreno con un leggero coltivo, ritornare alle buone pratiche dell’innerbimento e del “sovescio”: così facendo si restituisce alla pianta sostanza organica a costo zero. Disinfettare la pianta con la solita poltiglia bordolese autoprodotta (grassello di calce e solfato di rame). All’occorrenza, disinfettare e nutrire i tronchi con solfato di ferro e calce alle dosi consigliate.

D. Come si trasmette il batterio?

R. Non capisco il perché alcuni soggetti si accaniscono sul batterio e non sulla moltitudine di funghi tracheomicosi presenti sulla pianta e sulla radice. Credo che si stia facendo cattiva informazione: abbiamo perso il contatto con la realtà, e quindi dobbiamo tornare a essere più umili, prima con noi stessi e poi con madre Terra. Con la rivoluzione “verde” dettata dall’agrochimica sponsorizzata da alcune Università, abbiamo contribuito a distruggere la biodiversità e rotto quell’equilibrio biologico perfetto, frutto del creato. Io non uccido nessun essere vivente!

D. La falda inquinata, magari da rifiuti tossici, da percolato, può essere una spiegazione alla xylella?

R. Una cosa è certa: la nostra Terra è martoriata.

D. L’uso scriteriato della chimica e la smania di far produrre ogni anno le piante può aver influito sulla diffusione del batterio?

R. L’altro giorno leggevo la retro etichetta di una nota multinazionale dei diserbanti, recita così: “Buona Pratica Agricola nel controllo delle malerbe, l’applicazione degli agrofarmaci non è corretta se viene realizzata con attrezzature inadeguate”. Come possiamo ben notare, le stesse multinazionali dell’agrochimica, che prima ci avvelenano e poi ci “curano”, stravolgono il senso delle parole.

Domenica 5 Ottobre 2014 a Trani abbiamo concluso la 3 giorni del 2° meeting “Terra e Salute”, tra i relatori spiccavano alcuni nomi noti del mondo accademico, il prof. Cristos Xiloyannis e il prof. Pietro Perrino, ed erano entrambi a conoscenza della drammatica situazione in cui versano i nostri olivi, ne abbiamo parlato a lungo, sono concordi con le nostre analisi e con i nostri metodi naturali di intervento. La flora batterica è completamente assente, le sostanze nutritive di origine organica sono granelli di sabbia, la chimica non aiuta certo la pianta, anzi, contribuisce ad abbassare le autodifese.

D. L’eradicazione di cui si parla può fermare il batterio?

R. Che facciamo, applichiamo l’eutanasia agli olivi viventi? Di olivi completamente morti non ce ne sono e l’eradicazione non è una via percorribile e non risolve il problema batterio. Con i batteri e altri patogeni dobbiamo convivere, Dio non ha creato animali per essere uccisi, dobbiamo cercare il giusto equilibrio. Gli olivi sono la bellezza del nostro paesaggio agro-culturale. I nostri olivi non si toccano!

D. Posto che si eradichi, il pollione che nascerà crescerà sano?

R. Nelle zone più interessate all’essiccamento, Li Sauli, Castellana, ecc., possiamo notare che l’arbusto olivo reagisce, ma non ha la forza per mantenere tutto il peso della chioma, perché mancano le sostanze nutrienti naturali. Quindi, è la pianta che lascia morire parte di se stessa. Quando viene potata e quindi alleggerita dal suo carico, l’olivo reagisce, perché concentra le proprie energie nutritive sui pochi rami rimasti.

D. Cosa pensa dell’ipotesi che la xylella sia stata portata per boicottare l’olio di Terra d’Otranto?

R. Se sia stata importata o no, non sta a noi verificarlo, avevamo dei dubbi e per questo presentammo un esposto in Procura. Una cosa è certa: questa nostra martoriata Terra è sotto attacco, e gli avvoltoi sono troppi, la nostra Terra fa gola a molti speculatori, fa gola pure alle mafie del cemento.

D. Che interessi si giocano sul nostro olio?

R. La nostra Regione era la terra più vitata d’Italia, poi ci convinsero a estirpare circa il 30-40% deiDSC_1301 nostri vitigni, con punte del 50% nel Salento in cambio di 10-12 milioni delle vecchie lire per ha, quote cedute alle Regioni del Nord. Non vorrei che si praticasse lo stesso parassitismo per i nostri olivi: il Sud ha già dato troppo al Nord.

D. La raccolta 2014 è iniziata, la produzione calerà. Dall’estero arrivano disdette di ordini: può rassicurare il consumatore che nonostante il batterio l’olio prodotto è di ottima qualità?
R. L’attuale annata è scarsa in tutto il Bacino del Mediterraneo, e non a causa del batterio. La nostra preoccupazione è per le prossime annate, fin quando i nostri olivi non si riprenderanno. Quest’anno la produzione non sarà sufficiente a soddisfare tutte le richieste, e l’essiccamento non incide minimamente sulla qualità del prodotto. Siamo preoccupati dell’invasione di olio proveniente dagli impianti ultra-intensivi dell’Australia.

Eppure la strage degli ulivi in Salento diventa una denuncia sugli aspetti speculativi dell’ambiente. Scrive Antonio Bruno. La speculazione della Green Economy Industriale, la stessa che sta devastando impunemente il nostro Paese con pannelli e pale eoliche nelle campagne! La stessa lobby politico-imprenditoriale trasversale che ha devastato la campagna di Puglia con mega torri eoliche e che falcidia uccelli e stupra paesaggio, e con deserti sconfinati di pannelli fotovoltaici. Non un solo albero è stato piantato contro il “climate change” in Salento, contro la desertificazione, ma i suoli sono stati strappati all’agricoltura e alla vita, e desertificati artificialmente al fotovoltaico. E’ quello della Green Economy Industriale un mercato drogato da iperincentivazione pubblica e di rapina! A partire dalla costituzione della Banca Mondiale a Washington (accordi di Bretton Wood), uno dei primi obiettivi fissati fu quello di riportare ricchezza nel Salento a beneficio dei salentini, attraverso proprio l’ampio progetto di riforestazione del Salento, mediante la piantumazione massiccia di piante autoctone, ma non fu mai portato a termine! Il paradosso è che se ogni giorno sul Financial Times o sul The Guardian si parla di riforestazione inglese per combattere il “climate change”, non si riesce a capire come sia possibile che Governo, Regione e province ignorino del tutto questa necessità per il Salento, terra d’Italia con il minor numero di boschi, a causa di artificiali disboscamenti selvaggi. Mentre un tempo non lontano era tra le più verdi e pittoresche regioni d’Italia, ed era anche più ricca d’acqua in superficie, proprio grazie alla presenza del fitto manto boschivo! Una foga economica degenerante, sviluppatasi purtroppo a partire dal Protocollo di Kyoto, trasformato ingiustamente in cavallo di Troia della frode. Ora, con la scusa dei fuochi accesi stupidamente nei campi dai contadini per smaltire le ramaglie, si son giustificati inceneritori di biomasse-ramaglie, ed in realtà anche rifiuti, a fini termoelettrici, di potenze fino ad 1MW, realizzabili attraverso la incostituzionale L.R. 31/2008 della Puglia, con una semplice DIA Dichiarazione di Inizio Attività presentata al comune interessato! Un intero nocivo e pericoloso opificio industriale realizzato con una DIA! Tutto questo quando invece bastava un’ordinanza dei sindaci per vietare quei fuochi inutili fumosi ed indiscriminati nei campi, ed invitare i contadini a triturare le ramaglie e altri scarti in loco, al fine di farne compost. Non a caso nel mercato vi sono biotrituratori che triturano e spargono sminuzzati scarti vegetali e organici in generale sui suoli, che in piccolissime pezzature vanno incontro a rapidissimi processi di compostaggio naturale al suolo. Serviva alimentare queste centrali a biomasse solide con scarti locali, secondo la filiera corta, quale allora migliore trovata delle ramaglie e degli scarti di potatura dei prossimi uliveti e vigneti per giustificarne l’autorizzazione, spiegando che si sarebbe eliminato il problema dei fuochi nei campi! Problema risolto portando tutta la biomassa in uno stesso luogo, magari alle porte di una città, e accendendo lì nelle fornaci di quell’industria elettrica un fuoco perenne, 24 ore su 24! Questa l’hanno chiamata soluzione ecocompatibile! Ma allora non era meglio lasciar accendere quei fuochi sparsi nei campi, con un effetto di diluizione dei fumi anziché concentrarli tutti a danno di una comunità? E poi c'è il business del Pellet. Perché questo combustibile - definito eco - è ormai un business da diversi zero, vista l'enorme richiesta di questo combustibile. Mentre le analisi sui Pellet provenienti dalla Lituania della NaturKraft continuano ad essere eseguite nei laboratori dei reperti speciali dei Vigili del Fuoco di Roma, alcuni organi di stampa hanno riportato la notizia di altre anomalie riscontrate in Pellet prodotti da una decina di aziende italiane. Ricordiamo che i pellet devono essere prodotti con lo scarto della lavorazione di legno vergine. Ossia, è vietato il riutilizzo di legno già impiegato per altri scopi o altri prodotti. Quindi, per dirla in altre parole, deve trattarsi di materiale di scarto proveniente dalle industrie che producono e trasformano il legno vergine. Nel caso riportato da organi di stampa nazionale, sembrerebbe che questo non stia succedendo. Anzi, nei pellet si troverebbero tracce di legno utilizzate da mobilio vario, tra cui anche bare funerarie. Non solo. Il Nucleo operativo ecologico (Noe) di Treviso ha denunciato 14 persone di 10 aziende delle province di Treviso e Vicenza per la produzione di pellet da residui di lavorazione del legno di provenienza illegale. Gli investigatori hanno precisato che l’indagine non ha attinenze con i controlli sull’esistenza di presunto materiale radioattivo nei pellet in atto da alcuni giorni. La Procura di Treviso ha posto sotto sequestro un’azienda di San Michele di Piave (ritenuta la maggiore produttrice di pellet in Italia) assieme a oltre 20 mila tonnellate di legno trattato che sarebbe stato trasformato in combustibile per stufe e bruciatori. Insomma, in questi pellet si troverebbero residui di lavorazione di mobili, cornici, bare e altri prodotti trattati con vernici e colle. Perché questo? Perché gli scarti di legno trattato costano all’incirca la metà del legno vergine. Contaminato.

Ecco dimostrato. Responsabile di tutto è lo Stato e un certo ambientalismo speculativo.

Terremoto xylella. La Procura blocca le eradicazioni: dieci indagati (anche Silletti), ulivi sequestrati, scrive “Il Quotidiano di Puglia” del 18 dicembre 2015. Terremoto sul piano di contenimento della diffusione della xylella fastidiosa. La Procura di Lecce esce allo scoperto con un decreto di sequestro preventivo che blocca le eradicazioni degli ulivi. E mette sott’inchiesta i protagonisti della lotta contro l’essiccamento rapido. Primo fra tutti il colonnello della Forestale, Giuseppe Silletti, 62 anni, commissario per l'emergenza xylella e responsabile dei due piani di intervento che portano il suo nome. I nomi. Le 58 pagine di decreto di sequestro preventivo a firma del procuratore capo Cataldo Motta, dell’aggiunto Elsa Valeria Mignone e del sostituto Roberta Licci sono in corso di notificazione in queste ore e riguardano anche Antonio Guario, 64 anni, nel ruolo di ex dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale di Bari; Giuseppe D’Onghia, 59 anni, dirigente del Servizio Agricoltura area politiche per lo sviluppo rurale della Regione Puglia”; Silvio Schito, 59 anni, dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale di Bari, Giuseppe Blasi, 54 anni, capo dipartimento delle Politiche europee ed internazionali e dello Sviluppo rurale del Servizio fitosanitario centrale; Nicola Vito Savino, 66 anni, docente universitario e direttore del centro di ricerca, sperimentazione e formazione in agricoltura Basile Caramia” di Locorotondo; Franco Nigro, 53 anni, micologo di Patologia vegetale dell’università di Bari; Donato Boscia, 58 anni, responsabile della sede operativa del Cnr dell’istituto per la Protezione sostenibile delle piante; Maria Saponari, 43 anni, ricercatrice del Cnr dell’istituto per la Protezione sostenibile delle piante; e Franco Valentini, 44 anni, ricercatore dello Iam di Valenzano. I reati contestati. L’inchiesta dell’aggiunto Mignone e del sostituto Licci contesta violazioni colpose e dolose delle disposizioni ambientali, diffusione di una malattia delle piante, falso ideologico, turbativa violenta del possesso di cose immobili in merito all’obbligo delle eradicazioni, nonché deturpamento o distruzione di bellezze naturali. Gli sviluppi. La Procura di Lecce che indaga dopo gli esposti presentati nella primavera dell’anno scorso dalle associazioni ambientaliste, ribalta le certezze sull’efficacia del piano Silletti annunciate dall’Unione europea e dal Ministero delle Politiche agricole: non vi sarebbe prova - secondo la Procura - che la Xylella fastidiosa sia stata importata dal Costarica. Come non vi sarebbe prova dell’efficacia delle eradicazioni, anzi l’essiccamento non ha fatto altro che aumentare. Ci sarebbe invece un concreto pericolo per l’incolumità della salute pubblica con l’uso massiccio di pesticidi, alcuni dei quali vietati ed autorizzati in via straordinaria: già nel 2008, quando ancora non si parlava ufficialmente di Xylella, nel Salento ne furono impiegati 573mila 465 chili su 2 milioni 237mila 792 chili in tutta Italia. L’attenzione è tutta sui campi di sperimentazione della lebbra dell’ulivo: gli stessi dove si è poi diffusa la Xylella. Fra questi la zona fra Gallipoli, Alezio e Taviano, Lecce nel parco Rauccio, il Nord Salento fra Sud e Trepuzzi ed il Sud di Brindisi. Le istituzioni sono state accusate di aver avuto un approccio scientifico univoco che non ha fermato il disseccamento ed ha invece messo in pericolo la salute della popolazione. Gli avvisi di garanzia sono legati al provvedimento di sequestro preventivo, provvedimento che rende necessario informare le persone coinvolte nelle indagini. L'inchiesta prosegue.

Xylella, sequestrati tutti gli ulivi da abbattere: 10 indagati. C’è anche commissario straordinario Silletti. Il provvedimento della Procura di Lecce riguarda gli esemplari destinati all’abbattimento secondo il piano di contenimento del batterio. Iscritti nel registro degli indagati anche i ricercatori di Cnr e Iam. I reati contestati vanno dalla diffusione colposa di una malattia delle piante alla distruzione o deturpamento di bellezze naturali, scrive Tiziana Colluto il 18 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". Svolta nell’inchiesta della Procura di Lecce sulla diffusione del batterio Xylella fastidiosa. Sono dieci i nomi che sono stati iscritti sul registro degli indagati. Tra loro, oltre a funzionari della Regione Puglia, ricercatori del Cnr e dello Iam e componenti del Servizio Fitosanitario centrale, c’è anche Giuseppe Silletti, comandante regionale del Corpo Forestale, nelle vesti di commissario straordinario per l’emergenza fitosanitaria. Rispondono dei reati di diffusione colposa di una malattia delle piante, inquinamento ambientale colposo, falsità materiale e ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, getto pericoloso di cose, distruzione o deturpamento di bellezze naturali. I nomi sono riportati nel decreto con cui le pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci dispongono il sequestro preventivo d’urgenza di tutte le piante di ulivo interessate dalle operazioni di rimozione immediata come previsto dal Piano Silletti e individuate nell’ordinanza del commissario del 10 dicembre scorso. Sotto chiave sono finiti anche tutti gli ulivi interessati dalla richiesta di rimozione volontaria “sulla base del verbale dell’Ispettore fitosanitario, in cui si rileva la presenza di sintomi ascrivibili a Xylella fastidiosa”, in esecuzione alle previsioni della nota di Silletti del 3 novembre scorso. Inoltre, sono sequestrate tutte le piante di olivo già destinatarie dei provvedimenti di ingiunzione e prescrizione di estirpazione di piante infette emessi dall’Osservatorio fitosanitario regionale. Su quei terreni, ad ogni modo, si consente qualunque intervento colturale che non sia il taglio degli alberi al colletto del tronco o la loro eradicazione. Il decreto è stato notificato a Silletti nel pomeriggio del 18 dicembre dagli agenti del Nucleo ispettivo del Corpo Forestale dello Stato. Gli altri indagati sono l’ex e l’attuale dirigente dell’Osservatorio fitosanitario regionale, Antonio Guario e Silvio Schito; Giuseppe D’Onghia, dirigente del Servizio Agricoltura Area politiche per lo sviluppo rurale della Regione Puglia; Giuseppe Blasi, capo dipartimento delle Politiche europee e internazionali e dello sviluppo rurale del Servizio fitosanitario centrale; Vito Nicola Savino, docente dell’Università di Bari e direttore del Centro di ricerca Basile Caramia di Locorotondo; Franco Nigro, docente di Patologia vegetale presso Università di Bari; Donato Boscia, responsabile della sede operativa dell’Istituto per la protezione sostenibile delle Piante del Cnr; Maria Saponari, ricercatrice presso lo stesso istituto del Cnr; Franco Valentini, ricercatore presso lo Iam di Valenzano. Nelle 58 pagine di decreto, viene ripercorsa l’intera vicenda, a partire dalla prima segnalazione dei sintomi di disseccamento degli ulivi, già dal 2004-2006 e poi nel 2008. All’inizio, però, si attribuirono le cause solo alla lebbra dell’olivo, per la quale, tra il 2010 e il 2012, sono stati anche avviati campi sperimentali “per testare prodotti non autorizzati” per combattere la malattia e per il diserbo degli oliveti con fitofarmaci Monsanto. Nelle varie tappe anche i primi convegni italiani su Xylella, come quello nell’ottobre 2010 presso lo Iam di Bari. Infine, le analisi, fatte svolgere dalla Procura su ulivi di San Marzano (Ta) e Giovinazzo (Ba), con gli stessi sintomi delle piante salentine. Hanno dato esito negativo. E per gli inquirenti questa è la prova per cui “la sintomatologia del grave disseccamento degli alberi di ulivo non è necessariamente associata alla presenza del batterio, così come d’altronde non è, ancora allo stato, dimostrato che sia il batterio, e solo il batterio, la causa del disseccamento”.

Xylella, procura di Lecce: “Ue tratta in errore. Batterio presente in Salento da 20 anni. Indagheremo su fondi emergenza”. “Non voglio dire che l’Unione Europea sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti - ha detto il procuratore capo Cataldo Motta in conferenza stampa - l'inchiesta non è conclusa", continua Tiziana Colluto il 19 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". “L’Unione Europea è stata tratta in errore da quanto rappresentato dalle istituzioni regionali con dati impropri sulla vicenda Xylella”: è la stoccata lanciata dal procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, all’indomani del sequestro di tutti gli ulivi salentini destinati all’estirpazione e dell’avviso di garanzia a dieci indagati, tra cui il commissario straordinario Giuseppe Silletti. “Non voglio dire che l’Ue sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti – ha ribadito Motta durante la conferenza stampa convocata in mattinata in Procura, a Lecce –. Uno dei dati non esatti è legato proprio alla diffusione recente del batterio sul territorio, ciò che è stato dato per scontato e ha motivato i provvedimenti di applicazione dei protocolli da quarantena”. Viene capovolta, così, l’intera prospettiva: secondo la ricostruzione fatta dalle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, Xylella è presente nel Salento “da almeno 15 o 20 anni”. Cosa significa? Che “la quarantena per un batterio che sta sul territorio da tanto tempo dovrebbe essere assolutamente inutile” e, quindi, non sarebbe giustificata la proclamazione dello stato di emergenza fatta dal governo. “Ben altre sarebbero state le misure da attendersi anche a livello europeo a tutela dello Stato italiano e della Regione Puglia”, scrivono gli inquirenti. Sono bollate, infatti, come “inidonee” le drastiche misure di contenimento del parassita, quali l’uso massiccio di pesticidi e il taglio di migliaia di ulivi, tra l’altro senza la necessaria e preventiva valutazione di impatto ambientale. “I tentativi fatti in tutto il mondo – hanno spiegato i magistrati –hanno dimostrato l’inutilità dell’estirpazione. I rimedi vanno studiati e attuati con gradualità”. È quello che si ritiene sia mancato. E di fronte all’assunto, più volte ribadito dall’Osservatorio fitosanitario regionale, per cui basta la semplice rilevazione dell’esistenza di Xylella per applicare il regime di quarantena, la Procura ha ribattuto: “Quelle misure hanno un senso se l’introduzione è recente. È poi anche una questione di gradualità dei mezzi di contenimento. Se avete l’influenza non vi fate abbattere. A maggior ragione in un territorio che fonda non solo l’economia ma anche la propria immagine sugli oliveti, questo contemperamento di interessi doveva essere tenuto presente”. I test di fitofarmaci non autorizzati per combattere la lebbra dell’olivo e per diserbare i terreni sono i principali indiziati del disseccamento che ha colpito le piante. Tra il 2010 e il 2012, sono stati avviati dei campi sperimentali appositi nelle campagne intorno a Gallipoli, cuore del primo focolaio dell’infezione. In particolare, in quel periodo è stato concesso per due volte l’utilizzo in deroga, nel secondo caso prolungato, di un fitofarmaco di nome Insigna della Basf, distribuito in grossi quantitativi dai consorzi agrari ai coltivatori. “E’ possibile – scrivono i pm – che questo secondo impiego del prodotto per un periodo così lungo e senza limitazioni di trattamenti abbia scatenato l’esplosione della sintomatologia che ha poi portato alla ricerca di altri patogeni. Altamente probabile è dunque l’ipotesi che prodotti impiegati, unitamente ad altri fattori antropici e ambientali, abbiano causato un drastico abbassamento delle difese immunitarie degli alberi di olivo, favorendo la virulenza dell’azione dei funghi e batteri, tra i quali Xylella fastidiosa”. A questi si sono aggiunti i test del Roundup Platinum di Monsanto. “Quel che è dato acquisito – è riportato nel decreto – è che le due società interessate alle sperimentazioni in campo nel Salento sono collegate tra loro da investimenti comuni, avendo la Monsanto acquisito sin dal 2008 la società Allelyx (specchio di xylella…) dalla società brasiliana Canavialis ed avendo la Basf a sua volta investito 13,5 milioni di dollari in Allelyx nel marzo 2012”. Il workshop tenuto presso l’Istituto agronomico mediterraneo di Bari, nell’ottobre 2010, è una delle strade indicate dalla Procura per l’introduzione in Italia del batterio da quarantena “in violazione della normativa di settore”. Oltre al muro di gomma che i magistrati avrebbero, almeno all’inizio, riscontrato a causa del particolare regime di immunità giurisdizionale di cui gode lo Iam, gli occhi sono puntati sull’importazione di campioni di Xylella a fini di studio, in parte su vetrini e in parte tramite piantine già inoculate. I materiali, provenienti da Belgio e Olanda, avrebbero dovuto viaggiare scortati da specifici passaporti, di cui in parte, secondo gli inquirenti, si è persa traccia, tanto da parlare di “gravi irregolarità nella documentazione di accompagnamento”. “L’inchiesta non è conclusa”, ha specificato Motta. Sono almeno tre i filoni su cui si continuerà ad indagare. Il primo attiene alla destinazione dei finanziamenti piovuti sulla Pugliadopo la proclamazione dello stato di emergenza da parte del governo. Il secondo, invece, riguarda gli “inquietanti aspetti relativi al progettato stravolgimento della tradizione agroalimentare e della identità territoriale del Salento per effetto del ricorso a sistemi di coltivazione superintensiva e introduzione di nuove cultivar di olivo”. Il riferimento è all’accordo tra l’Università di Bari, “che ha gestito in maniera monopolistica lo studio” del batterio, e la spagnola Agromillora Research srl. L’intesa, approvata dal senato accademico nell’ottobre 2013, riguarda la valutazione e commercializzazione di nuove selezioni di olivo, nate dall’ibridazione di due cultivar, Leccino (considerata resistente a Xylella) e Ambrosiana. L’ateneo barese incasserà il 70 per cento delle royalties sul fatturato annuo derivante dallo sfruttamento del brevetto. Il terzo filone d’indagine riguarda la ricerca. “Da notizie in corso di verifica giunte alla polizia giudiziaria operante – è riportato nel decreto di sequestro – sembrerebbe che il Comitato (di natura tecnico-scientifica, istituito dal Ministero delle Politiche agricole e composto da 16 esperti, ndr) compia mera attività di facciata con poca possibilità di entrare nel merito dei fatti per i quali è stato istituito, in quanto i membri appartenenti al gruppo di ricerca di Bari non forniscono chiari risultati di ricerca da poter essere valutati in seno alle riunioni del Comitato”. È certo che su questo ci saranno nuovi ascolti. Ed è certo anche che ciò apre la porta all’individuazione di eventuali nuove responsabilità sull’omesso controllo in capo al Ministero delle Politiche agricole.

Ulivi malati, ricercatori sotto accusa. Motta: «Ingannata l’Unione europea». Il procuratore di Lecce parla dopo il sequestro delle piante malate. Dieci indagati, scrive Antonio Della Rocca il 19 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. «L’Unione Europea è stata tratta in errore da quanto è stato rappresentato con dati impropri e non del tutto esatti», ha spiegato il capo della Procura di Lecce, Cataldo Motta, illustrando i punti salienti dell’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Xylella fastidiosa, il patogeno considerato concausa del disseccamento rapido degli ulivi salentini. La Procura ha disposto il sequestro degli ulivi malati e tra gli indagati, oltre a studiosi, ricercatori e funzionari della Regione, vi è anche Giuseppe Silletti, il commissario governativo per l’emergenza Xylella. «Ci siamo trovati di fronte a direttive europee, in parte molto rigorose, come l’eradicazione degli ulivi, che sono state emesse dall’Unione europea sulla falsa rappresentazione della situazione», ha specificato Motta. La Procura, che nel corso delle indagini, peraltro ancora in corso, si è avvalsa della collaborazione di un pool di periti, ha anche emanato un decreto di sequestro di tutti gli ulivi che, in base alla più recente ordinanza commissariale, dovrebbero essere abbattuti nell’ambito delle misure di contrasto alla batteriosi scoperta nel 2013 nelle campagne di Gallipoli. Secondo la Procura, inoltre, non ci sarebbe stato finora il necessario «confronto allargato» tra organismi scientifici per poter stilare adeguate strategie di contenimento della diffusione del batterio. Piuttosto, lo studio si sarebbe concentrato in un regime quasi monopolistico nelle mani di pochi ricercatori. Inoltre, ha sottolineato Motta, «non è stato accertato il nesso di causalità tra il batterio Xylella fastidiosa e la malattia», e malgrado si possa ipotizzare che il fenomeno del disseccamento sia presente nel Salento da almeno 15 anni, si è deciso, in modo inappropriato, di procedere con l’abbattimento delle piante. Un metodo che, a giudizio della Procura, non rappresenta la soluzione più idonea per combattere un fenomeno ormai diffuso e radicato da molti anni.

Xylella, il procuratore di Lecce accusa: "Europa ingannata, lucrano sull'emergenza". Per il capo dei pm Cataldo Motta alla base del caos ci sarebbe una conoscenza incompleta del problema: "Il commissario ha privilegiato solo ipotesi che portavano all'eradicazione", scrive chiara Spagnolo il 19 dicembre 2015 su “La Repubblica”)"L'Unione europea è stata tratta in inganno con una falsa rappresentazione dell'emergenza xylella fastidiosa, basata su dati impropri e sull'inesistenza di un reale nesso di causalità tra il batterio e il disseccamento degli ulivi". Per questo l'inchiesta della Procura di Lecce "indagherà anche sui finanziamenti stanziati e usati per l'emergenza, considerato che di emergenza non si tratta". Il giorno dopo il sequestro di tutti gli ulivi salentini per cui è stata disposta l'eradicazione e l'invio di avvisi di garanzia al commissario di governo e a nove fra dirigenti e ricercatori che si sono occupati del caso, è il capo della Procura leccese, Cataldo Motta, a spiegare il motivo di un provvedimento che ha posto fine ai tagli di alberi e forse anche all'esperienza del commissario Giuseppe Silletti. Alcuni ambientalisti, entrati nella stanza del procuratore poco prima della conferenza stampa, hanno applaudito e mostrato un cartello di ringraziamento ai pm che hanno condotto l'inchiesta. Sul cartello la scritta: "C'è un giudice a Lecce, anzi due. Grazie". A quest'ultimo viene contestato di avere disposto Piani inappropriati e addirittura dannosi per l'ambiente salentino, a causa del massiccio uso di fitofarmaci. E di eradicazioni a tappeto, che non sembrano affatto risolutive. Il nodo sta tutto nel fatto che la xylella è presente in Puglia "da almeno venti anni" e che allo stato esistono ben nove ceppi diversi, che ne mostrano la mutazione genetica. "Ciò escluderebbe la necessità di interventi emergenziali - ha chiarito Motta - e la stessa legittimazione della quarantena, che è stata la base da cui l'Europa è partita per imporre misure drastiche". Secondo quanto hanno accertato gli uomini del Corpo forestale (di cui fra l'altro il commissario Silletti è comandante regionale), alla base del caos xylella ci sarebbe innanzitutto una conoscenza incompleta del problema, "determinata dalla scarsità di confronto scientifico e dall'aver privilegiato solo alcune ipotesi, che portavano inevitabilmente alle eradicazioni". Per questo il sostituto procuratore Elsa Valeria Mignone - che ha coordinato l'indagine assieme alla collega Roberta Licci - si è augurata che "inizi proprio da ora un confronto scientifico vero sulla materia", al fine di individuare la strada giusta per combattere il disseccamento rapido degli ulivi. Sul fatto che i tagli non siano la scelta migliore, i magistrati non hanno dubbi: "l'eradicazione del batterio non si fa con l'estirpazione delle piante - ha chiarito il procuratore capo - E anche l'Unione europea non ha mai imposto di abbattere immediatamente tutti gli alberi malati ma di contenere la malattia, provando prima altre soluzioni". Tentativi che, a quanto pare, non sono stati fatti. E sui quali, a questo punto, bisogna ragionare perché l'Ue chiede comunque risposte che fino a pochi giorni fa si pensava dovessero pagare dalle eradicazioni. Intanto gli indagati penseranno a difendersi. I reati contestati sono diffusione colposa della malattia delle piante, falso ideologico e materiale in atto pubblico, inquinamento ambientale e deturpamento delle bellezze naturali.

Procuratore di Lecce: «Falsi i dati sulla xylella inviati all'Europa», scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno” del 19 dicembre 2015. «L'Europa ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti sulla Xylella, così come realmente accaduto nel Salento. E’ stata tratta in errore da quanto rappresentato dalle istituzioni regionali con dati impropri». Lo ha detto il procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta nel corso di una conferenza stampa che si è tenuta stamattina per illustrare i presupposti dell’inchiesta che ha portato al sequestro di tutti gli ulivi delle province di Brindisi e Lecce interessati da provvedimenti di abbattimento decisi nel corso dell’ultimo piano redatto dal commissario straordinario Giuseppe Silletti. «L'indagine non è compiuta» ha specificato poi il procuratore Motta in riferimento all’inchiesta sulla gestione dell’emergenza Xylella fastidiosa che ha portato ieri all’emissione di un decreto di sequestro d’urgenza a firma dei magistrati Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci che indagano su dieci persone tra cui anche il commissario straordinario per l'emergenza Xylella, Giuseppe Silletti. Accertamenti sarebbero in corso - a quanto si è appreso - anche sulla modalità di concessione e utilizzo dei finanziamenti pubblici. L’inchiesta parte dal presupposto, ha spiegato Motta: «che non è stato accertato il nesso di causalità tra il complesso del disseccamento rapido degli ulivi e la Xylella Fastidiosa». «Abbiamo trovato alberi non colpiti da disseccamento che sono però risultati positivi alla Xylella - ha detto Motta - e alberi secchi che non sono invece risultati contagiati». Hanno applaudito e mostrato un cartello di ringraziamento ai due pm che hanno condotto l'inchiesta, Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci, alcuni ambientalisti che hanno fatto ingresso nella stanza del procuratore della Repubblica di Lecce, Cataldo Motta, poco prima della conferenza stampa. Sul cartello mostrato c'è scritto: "C'è un giudice a Lecce, anzi due. Grazie".

Terremoto xylella, il governatore Emiliano: "Il provvedimento è una liberazione", scrive “Lecce Sette” sabato 19 dicembre 2015. Il commento del governatore di Puglia, Michele Emiliano, in relazione alla svolta nelle indagini della Procura di Lecce sull'affaire Xylella. “La notizia del provvedimento di sequestro da parte della Procura della Repubblica di Lecce è arrivata come una liberazione. Finalmente avremo a disposizione dati tecnici ed investigativi per discutere con l’Unione Europea della strategia finora attuata per contrastare la Xylella, fondata essenzialmente sull’eradicazione di massa di alberi malati e sani”. Così in una nota il governatore Michele Emiliano, a poche ore dalla notiza della clamorosa svolta nelle indagini della Procura di Lecce sull'affaire xylella. “Questa strategia viene messa totalmente in dubbio dalle indagini effettuate da magistrati scrupolosi, prestigiosi e notoriamente stimati per la prudenza che li ha sempre contraddistinti nell’esercizio delle funzioni – commenta - Credo anche che possiamo considerare chiusa la fase della cosiddetta emergenza. La malattia è ormai insediata, e non può più essere totalmente debellata. Dobbiamo dunque riscrivere da zero le direttive da impartire agli agricoltori e a tutti gli altri soggetti interessati, che potranno consistere in tutti quegli atti e quelle azioni che non comportino l’eradicazione delle piante”. “In questi mesi la Regione Puglia ha sempre ribadito alla Procura della repubblica di Lecce la sua disponibilità a fornire collaborazione alle indagini in corso. E anche oggi ribadisco questa disponibilità assieme alla piena fiducia negli uffici giudiziari leccesi. Mi sento di dire che questo intervento è l’equivalente di quello della magistratura tarantina nel caso Ilva”, si legge nella nota e conclude: “La Regione Puglia è persona offesa degli eventuali reati commessi si riserva di indicare elementi di prova che possano contribuire all’accertamento della verità. In caso di rinvio a giudizio si costituirà parte civile nei confronti di tutti gli imputati”.

Xylella, M5S: Emiliano chieda scusa agli agricoltori, scrive “Inchostro Verde” il 19 dicembre 2015. Accolgono con estrema soddisfazione la decisione della Procura di bloccare le eradicazioni i Consiglieri regionali del Movimento 5 Stelle. Le indagini dei magistrati si incardinano infatti sulle stesse tesi che i pentastellati ribadivano da tempo sia in Consiglio regionale che nelle piazze pugliesi e che sono state oggetto di una mozione votata all’unanimità dal Consiglio solo qualche giorno fa. In merito alle dichiarazioni di Emiliano replicano così: “Oggi, Emiliano, con la sua Giunta, dovrebbe solo tacere” dichiarano Rosa Barone, Gianluca Bozzetti, Cristian Casili, Mario Conca, Grazia Di Bari, Marco Galante, Antonella Laricchia e Antonio Trevisi “proprio lui che aveva promesso di scatenare l’inferno in campagna elettorale contro la Xylella e che non ha fatto nulla se non limitarsi ad istituire un tavolo multidisciplinare sul tema identico a quello proposto dal M5S. Addirittura usando le stesse parole per definirlo e convocando gli stessi esperti che il M5S aveva dichiarato di voler coinvolgere. Proprio lui Presidente di una Regione che ha osato arrivare a costituirsi contro quei poveri agricoltori che hanno dovuto subire passivamente la distruzione dei loro terreni e che si “erano azzardati” a fare ricorso. Dopo aver deliberato per le eradicazioni, aver richiesto al Ministero l’accelerazione di queste procedure, questo dovrebbe essere il giorno della vergogna. Quelle parole che oggi usano per guadagnare qualche titolo sulla stampa piuttosto le usino per porgere le loro scuse agli agricoltori e ai cittadini nei comitati, con le loro decisioni li hanno soltanto umiliati. Oggi Emiliano parla di “soddisfazione perchè finalmente qualcuno ha portato delle prove” ma mente sapendo di mentire perchè quelle stesse prove le aveva portate il Movimento 5 Stelle in Regione Puglia da mesi, aveva convocato addirittura esperti che ripetevano le nostre stesse tesi ed aveva presentato una mozione votata all’unanimità dall’intero Consiglio Regionale (su cui Emiliano e la sua Giunta si erano invece vergognosamente astenuti) ed incardinata sulle stesse identiche tesi che oggi anche i magistrati portano avanti. Quali altre prove aspettava Emiliano che il Movimento 5 Stelle non gli avesse portato sotto gli occhi da tempo?”. I 5 Stelle non risparmiano una stoccata neanche le altre forze politiche: “Non possiamo non ricordare inoltre che, affinchè fosse votata in Consiglio Regionale, la nostra mozione ha dovuto subire delle modifiche perchè per i vecchi partiti ‘i nostri termini erano troppo forti’. Oggi invece tutti si spellano le mani nell’applaudire i magistrati. Saremmo felici di constatare che non è mai troppo tardi per cambiare idea se non fosse che la loro incoerenza ha lasciato morire migliaia di alberi e le speranze degli agricoltori. Se fossimo stati noi ad amministrare questa regione, tutto ciò non sarebbe mai successo”.

Xylella, la denuncia di "Nature": in Italia ricercatori sotto accusa come per il sisma a L'Aquila. La prestigiosa rivista scientifica dedica sul proprio sito un articolo sull'inchiesta della Procura di Lecce che ha chiamato in causa, insieme col commissario straordinario Silletti, anche nove ricercatori, scrive “La Repubblica” il 22 dicembre 2015. Indice puntato contro i ricercatori ancora una volta in Italia: lo rileva la rivista scientifica internazionale Nature, che sul suo sito dedica un articolo alla diffusione della xylella in Puglia e ai nove ricercatori sospettati di avere avuto un ruolo nella diffusione del batterio che ha gravemente danneggiato gli uliveti. Nell'inchiesta è coinvolto anche il commissario straordinario Giuseppe Silletti. Non è la prima volta che in Italia i ricercatori salgono sul bando degli accusati: è già accaduto nella vicenda giudiziaria seguita al terremoto dell'Aquila, con sette ricercatori sul banco degli accusati (sei dei quali assolti dalla Cassazione nel novembre scorso). Nella conferenza stampa del 18 dicembre scorso, citata anche da Nature, i magistrati avevano additato l'attività scientifica effettuata da ricercatori di Università di Bari, Istituto agronomico mediterraneo (Iam) di bari e Centro di ricerca e sperimentazione in agricoltura Basile Caramia di Locorotondo (Bari). Per i magistrati, come ha ampiamente riferito Repubblica nei giorni scorsi, sono i "protagonisti assoluti e incontrastati nella storia xylella". Nessuna dichiarazione in merito da parte dei ricercatori. Uno degli accusati, il responsabile dell'unità di Bari dell'Istituto per la protezione sostenibile delle piante del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), Donato Boscia, ha detto di essere "certo che emergerà quanto prima la nostra completa estraneità". Il sospetto, per lui come per gli altri ricercatori, è di aver diffuso il batterio e presentato false documentazioni alle autorità giudiziarie, oltre che di inquinamento ambientale e deturpazione del paesaggio naturale. "Sono accuse folli", ha detto a Nature Boscia, che non ha intenzione di commentare una vicenda sulla quale è in corso un'indagine. Computer e documentazione dei ricercatori erano stati confiscati nel maggio scorso e da allora, osserva la rivista, "non è stata resa nota alcuna evidenza contro i ricercatori". Eppure, prosegue Nature, permane il sospetto che la xylella sia stata importata dalla California in occasione di uno workshop organizzato nel 2010 dall'Istituto agronomico mediterraneo. Più volte in passato, tuttavia, i ricercatori hanno affermato che in quell'occasione non era stata utilizzata la xylella. Nature rileva che il ceppo di xylella diffuso in Puglia, originario di Costa Rica, Brasile e California, è stato identificato per la prima volta in Europa, nell'Italia meridionale, nel 2013. Per la maggior parte dei ricercatori, conclude la rivista, è molto probabile che il batterio sia arrivato in Italia con piante ornamentali importate dal Costa Rica.

Xylella, l'ombra del complotto con le multinazionali. I pm: "Il batterio importato durante un convegno". I magistrati leccesi sono convinti che, al contrario di quanto sostenuto da Università e Istituto agronomico del mediterraneo (Iam), il batterio sia stato importato dallo Iam nel corso dell'evento nel 2010, scrive Giuliano Foschini su "La Repubblica" del 20 dicembre 2015. Mettiamola così: se ha ragione la Procura di Lecce, si tratta del più grande complotto mai realizzato da attori istituzionali ai danni di un territorio e della loro principale ricchezza: la natura. Università, politica, centri di ricerca, multinazionali, tutti insieme per un piano diabolico e infame. Se invece i magistrati di Lecce stanno sbagliando, si tratta di un attacco violentissimo alla scienza. Per capire come stanno le cose sarà quindi necessario aspettare le prossime settimane, quando altre istituzioni, a partire dall'Unione europea passando dal governo italiano, dovranno evidentemente dire qualcosa. Prendere una posizione. Perché mai come in questo momento è opportuno sapere. La prima domanda da farsi è: il batterio della xylella causa l'essiccamento degli ulivi? Su questo la comunità scientifica aveva pochi dubbi: sì. E invece la Procura, sulla base di altre perizie, nel decreto di sequestro spiega esattamente il contrario. "E' stata fornita una falsa rappresentazione della realtà con riguardo all'asserito, ma assolutamente incerto, ruolo specifico svolto dalla xylella fastidiosa nella sindrome del disseccamento degli alberi di ulivo - si legge negli atti - e con riguardo all'asserita, ma assolutamente incerta, presenza nel Salento di una popolazione omogenea del batterio e della sua recente introduzione dal Costa Rica. I magistrati sono convinti che, al contrario di quanto sostenuto da Università e Istituto agronomico del mediterraneo (Iam), il batterio sia stato importato dallo Iam nel corso di un famoso convegno del 2010. Che dai documenti che attestavano l'ingresso in Italia della xylella "emergessero gravi irregolarità". E che la documentazione originale non è mai stata ritrovata anche perché i ricercatori dello Iam avrebbero finto di cercarle nel corso della perquisizione. Ma non basta: la Procura, senza per il momento fare contestazioni formali, nota due cose: la prima è che ci sono interessi nella diffusione del batterio. Chi, per esempio, ha puntato su nuovi tipo di coltivazioni dell'olivo come la Sinagri srl, spin off dell'Università di Bari, che lavora con Iam e Basile Caramia, gli enti incaricati dei controlli sulla xylella. E che ha tra i suoi 'amici' i professori Vito Savino, all'epoca preside della facoltà di Agraria; Angelo Godini, "fautore dell'eliminazione del deviato degli alberi di ulivo e in particolare di quelli monumentali ", e Giovanni Paolo Martelli, "lo stesso che poi suggerirà, in base a una mera "intuizione" di fine agosto 2013, di indagare la presenza della xylella quale causa dei fenomeni di disseccamento dell'ulivo". "Savino, Godini e Martelli - scrive ancora la Procura - condividono peraltro un medesimo approccio culturale nell'Accademia dei Georgofili, di cui fa parte anche il professor Paolo De Castro, già ministro dell'Agricoltura e attualmente eurodeputato, che ha riferito in commissione proprio sulla questione xylella". Negli atti è poi raccontato uno strano episodio: nel 2010-2011 in Salento si tengono "campi sperimentali di nuovi prodotti contro la 'lebbra dell'olivo', epoca prima della quale - nota la Procura - non era esploso il fenomeno del disseccamento rapido". Per questo motivo li ministero autorizza l'uso di alcuni diserbanti particolari, per un periodo limitato di qualche mese, in zone specifiche del Salento. La Forestale ha contattato alcuni dei proprietari dei terreni e altri testimoni: raccontavano di aver visto in quel periodo persone che "in abiti civili, con tute bianche modello 'usa e getta' in dotazione alla polizia scientifica, si aggiravano fra gli olivi con in mano dei barattoli di colore blu e bianco. Effettuavano anche alcune manovre, alla base degli alberi". Gli alberi avevano dei cartelli. Bene: durante il sopralluogo della polizia giudiziaria, si è notato che "la maggior parte degli alberi di olivo, sui quali erano stati appesi i cartelli, erano quasi completamente bruciati: alcuni mesi addietro si era sviluppato un incendio". Strano, perché aveva colpito alcuni alberi e alcuni no. "Sembrerebbe che abbiano colpito - dice la procura soltanto quelli legati alla sperimentazioni della "Lebbra dell'olivo" ovvero la prove in campo del Roundpop Platinum della Monsanto. L'incendio dovrebbe essere dunque di natura dolosa con finalità di eliminare ogni possibile traccia di quanto fatto sugli alberi ". Che cos'è la Monsanto? E' un leader nella realizzazione dei pesticidi. Ed è la stessa ditta che finanza un convegno sulla xylella nel 2010, nel quale "presenta un progetto di nome Gipp per la buona pratica di diserbo nell'oliveto di Puglia". La pratica prevede una serie di interventi compreso l'uso di un diserbante totale che serve per mantenere "pulito da erbacce l'oliveto". Bene, si tratta proprio del Roundpop, lo stesso che avrebbe potuto bruciare quegli ulivi. E' la stessa società che nel 2007 ha acquisito la società "Allelyx - scrive la Procura - Parola specchio di xylella...".

Xylella, Bruxelles a pm di Lecce: “Dati non sbagliati, avanti con taglio degli ulivi”. Ma i test furono condotti in serre bucate. Enrico Brivio, portavoce dell'Esecutivo comunitario per l'Ambiente, la Salute e la Sicurezza alimentare, risponde a Cataldo Motta, capo della procura salentina, che sabato scorso aveva parlato di una "falsa interpretazione dei fatti". La rimozione degli alberi, quindi, deve continuare. Ma dalle carte dell’inchiesta emerge uno dei dettagli più pesanti: le prove di patogenicità sono state condotte all’interno di vivai non a norma, scrive Tiziana Colluto il 22 dicembre 2015 su "Il Fatto Quotidiano". L’Ue tira dritto sull’emergenza Xylella, nonostante l’alt della Procura di Lecce: la Commissione europea “non ha al momento alcuna indicazione del fatto che l’Italia le avrebbe comunicato dati sbagliati”, ha detto il portavoce dell’Esecutivo comunitario per l’Ambiente, la Salute e la Sicurezza alimentare, Enrico Brivio. Dunque, avanti con le procedure di eradicazione del batterio, comprese quelle di abbattimento degli ulivi. “Se gli alberi sono sotto sequestro, non si possono toccare”, si mette di traverso il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, che ha chiesto ai pm di essere ascoltato come persona offesa e di acquisire il decreto di sequestro e le consulenze allegate per inviarle a Bruxelles. In quelle carte, tra le varie prove raccolte, c’è qualcosa di clamoroso: i test di patogenicità, vale a dire la prova del nove del rapporto di causa-effetto tra Xylella e disseccamento delle piante, sono stati condotti in serre bucate, non a norma, e sono stati avviati cinque mesi prima dell’autorizzazione rilasciata dall’Osservatorio fitosanitario nazionale. L’Ue: “Le misure vanno attuate” – Quella di Brivio è la risposta implicita alle parole del procuratore capo: “Non voglio dire che l’Ue sia stata ingannata, ma ha ricevuto una falsa interpretazione dei fatti. E’ stata tratta in errore da quanto è stato rappresentato con dati impropri e non del tutto esatti”, aveva detto Cataldo Motta, nella conferenza stampa di sabato mattina. “La Commissione europea non commenta le inchieste giudiziarie in corso”, ha replicato il portavoce dell’Esecutivo comunitario, ricordando che due settimane fa l’Ue ha messo in mora l’Italia per non aver pienamente realizzato il piano contro la Xylella. “E’ molto importante che queste misure siano attuate”, ha ribadito, poiché, laddove si è diffusa, “la Xylella è uno dei patogeni delle piante più pericolosi, con un enorme impatto economico sull’agricoltura”. Come ammesso dallo stesso Brivio, “resta da capire pienamente il ruolo specifico svolto dalla Xylella e le sue implicazioni” nella diffusione della sindrome del disseccamento rapido degli ulivi in Salento; tuttavia, il batterio “è stato trovato in piante giovani che mostravano i segni della sindrome e che non avevano altri patogeni”. Dunque, nessun passo indietro su quanto dettato da Bruxelles nella decisione di esecuzione di maggio e recepito dal Ministero delle Politiche agricole e dal commissario straordinario Giuseppe Silletti, anche lui tra i dieci indagati. I provvedimenti prevedono la rimozione degli alberi infetti e delle piante potenziali ospiti in un raggio di cento metri, nei focolai fuori dalla provincia di Lecce, soprattutto nel Brindisino. Tagli congelati, per il momento, prima dal Tar Lazio e ora dalla Procura. Sulla stessa sponda dell’Ue ci sono la Società Italiana di Patologia Vegetale e la Società Entomologica Italiana, che si dicono “sconcertate” dal decreto di sequestro degli ulivi.  Per il tramite dei loro rispettivi presidenti, Giovanni Vannacci e Francesco Pennacchio, entrambe affermano di non essere a “conoscenza di nuove evidenze sperimentali, validate dalla comunità scientifica, tali da modificare le linee guida già espresse nel documento rilasciato al termine del convegno nazionale”, organizzato sull’argomento il 3 luglio scorso a Roma. “Le motivazioni degli interventi di contenimento – aggiungono – originano dal solo riscontro della presenza di un organismo da quarantena qual è Xylella fastidiosa, e non dal nesso di causalità tra questo e la sindrome di disseccamento rapido dell’olivo. Le solide basi di conoscenza fornite dalla ricerca internazionale, recepite dall’Ue e dalle organizzazioni fitoiatriche nazionali e internazionali, consentono di concludere che la diffusione di X. fastidiosa sul territorio nazionale ed europeo aprirebbe prospettive drammatiche per l’agricoltura. La misura del suo potenziale impatto economico può essere stimata dal confronto con episodi precedenti, quale la diffusione in Brasile di questo patogeno, ritenuto responsabile di danni per circa 100 milioni di euro l’anno”.  Eppure, per gli inquirenti a traballare è l’impianto stesso su cui si fondano i piani di contenimento del batterio. La consulenza allegata al decreto “ha posto in serio dubbio – hanno scritto i pm – l’attendibilità delle conclusioni scientifiche rappresentate all’Europa e che hanno costituito il presupposto delle determinazioni assunte sia a livello europeo che a livello nazionale”. Il riferimento è soprattutto alla presenza di più ceppi, e non di uno solo, di Xylella sul territorio: almeno nove, segno di una presenza del patogeno sul territorio “da 15-20 anni”, così tanti da non poter giustificare, secondo la Procura, lo stato di emergenza. I protocolli da quarantena, a suo avviso, sono stati tradotti in un “piano di interventi univocamente diretto alla drastica e sistematica distruzione del paesaggio salentino, benché costituisca ormai dato inconfutabile che l’estirpazione delle piante non è assolutamente idonea né a contenere la diffusione dell’organismo nocivo né a impedire la diffusione del disseccamento degli ulivi né tantomeno a contribuire in alcun modo al potenziamento delle difese immunitarie delle piante interessate”. Cuore delle indagini resta l’assenza di un dimostrato nesso di causalità tra Xylella e disseccamento degli ulivi. Ad appurarlo dovranno essere i test di patogenicità svolti dal Cnr di Bari. Ma quali? È su questo che, dalle carte dell’inchiesta, emerge uno dei dettagli più pesanti: quelle prove sono state condotte all’interno di serre non a norma. Il5 novembre scorso, infatti, la polizia giudiziaria e uno dei consulenti tecnici della Procura hanno fatto un sopralluogo nel vivaio dell’Arif (Agenzia regionale per le risorse irrigue e forestali), in contrada Li Foggi, a Gallipoli, culla dell’infezione. È quello uno dei luoghi in cui sono state messe a dimora numerose piantine di varie specie, nelle quali Xylella è stata veicolata mediante infezione naturale da parte del vettore e inoculo artificiale del batterio. I risultati sono destinati, molto probabilmente, ad essere invalidati: “La rete della serra presentava una grossa fessura che ne permette il contatto diretto con l’esterno e che pertanto non è garantito l’isolamento totale delle piante in essa allocate per la sperimentazione”. Non una sottigliezza, dunque. Tra l’altro, quelle prove sono iniziate a partire dal 4 luglio 2014, mentre il Cnr è entrato in possesso della necessaria autorizzazione alla detenzione e manipolazione del patogeno da parte del Servizio fitosanitario nazionale solo il 16 dicembre 2014.

«Xylella, attacco al paesaggio», scrive Pino Ciociola il 23 dicembre 2015 su “Avvenire”. Territorio sotto attacco. Affaire Xylella: dai «protagonisti istituzionali e non», c’è stata «perseveranza colposa, tale da sfiorare la previsione dell’evento se non il dolo eventuale, nell’adozione di un piano d’interventi univocamente diretto alla drastica e sistematica distruzione del paesaggio salentino». Si legge a pagina 51 dell’'Ordinanza di sequestro preventivo d’urgenza' degli ulivi, firmata dalle pm Elsa Valeria Mignone e Roberta Licci e dal capo della Procura leccese, Cataldo Motta. Altro «dato inconfutabile» (fra molti): «Proprio le misure imposte dai Piani Silletti, ivi compreso l’uso massiccio dei pesticidi, rappresentano un serio rischio per l’incolumità pubblica». E ancora, «è stata fornita una falsa rappresentazione della realtà riguardo all’asserito, ma assolutamente incerto, ruolo specifico svolto dalla Xylella nella sindrome del disseccamento degli ulivi». Insomma, la realtà è «molto più articolata e complessa» di quella riportata «alla Comunità Europea». E col «serio dubbio» sull’«attendibilità » di quelle conclusioni scientifiche rappresentate all’Europa», ma che sono state «il presupposto delle determinazioni assunte a livello europeo e nazionale». Il capo della Procura leccese l’aveva spiegato sabato scorso: «Le indagini non sono compiute» e ne appaiono chiari i motivi scorrendo l’ordinanza, emessa insieme a 10 avvisi di garanzia. Ricostruzione con prove e testimonianze (queste ultime a volte false o contraddittorie) di quanto 'accade' dal 2009, cioè quando «appare già indubbio sia databile il fenomeno del disseccamento degli ulivi in Salento». Lunga storia dalla quale, per gli inquirenti, «emerge chiaramente la colposa inerzia degli organi preposti al controllo fitosanitario nazionale e della Regione Puglia nell’attenzionare l’ingravescente fenomeno del disseccamento degli ulivi» e «l’assoluta imperizia dei suddetti organi e dei soggetti con essi interfacciatisi quali unici interlocutori, vale a dire Iam, Università di Bari e Cnr». Il lavoro della Procura appare certosino, le sue conclusioni anche. È «ormai dato inconfutabile – scrivono i magistrati – che la estirpazione delle piante non è assolutamente idonea né a contenere la diffusione del disseccamento, né a contribuire al potenziamento delle difese immunitarie delle piante», anzi dov’è stata realizzata, per esempio a Trepuzzi, «ha comportato una esplosione del fenomeno del disseccamento!». Fra gli altri dati «acquisiti», poi, c’è che «almeno dal 2013» si sapeva come «al disseccamento rapido dell’ulivo contribuissero diverse concause» e che «la manifestazione della sintomatologia del disseccamento non sia necessariamente correlata alla presenza della Xylella». Passo indietro. I primi anomali disseccamenti sugli ulivi vengono notati nel 2008 nelle campagne fra Gallipoli, Racale, Alezio, Taviano e Parabita. Ed è sempre «dato conclamato» che negli anni 2010/2011 e 2013 «sono state condotte in territorio salentino sperimentazioni anche con l’uso di prodotti fortemente invasivi». Torniamo ai giorni nostri. Da marzo scorso alcuni agricoltori si accorgono che uomini in tu- ta bianca («Modello 'usa e getta' in dotazione alla polizia scientifica», spiega la Procura) si aggirano fra gli ulivi con barattoli di vernice blu e bianca, affiggono cartelli con la scritta «Campo sperimentale». Accade che poi questi ulivi brucino e qualche volta stranamente o miratamente. Morale? «Si ritiene – scrive la Procura – che l’incendio di ulivi sui quali sarebbero avvenute le sperimentazioni legate alla 'lebbra dell’ulivo', ovvero le prove in campo del Roundop Platinum della Monsanto, sia di natura dolosa con finalità d’eliminare ogni possibile traccia di quanto fatto sugli alberi». Nuovo passo indietro: la multinazionale aveva promosso a Bari nel 2013 il 'Progetto Gipp', con l’utilizzo del 'Roundup Platinum' del Roundup 360 power con glifosato e l’'Area manager Centro Sud' della Monsanto, Lino Falcone, raccontava che «il 'Progetto Gipp' non nasce dal caso, abbiamo lavorato due anni per studiare la situazione malerbologica nell’uliveto pugliese e individuare gli aspetti critici». Infatti il Roundup è un diserbante totale – annota la Procura leccese – e il glisofato «si trasmette nel terreno, predispone le piante a malattie e tossine» e provoca diverse altre conseguenze. L’11 settembre 2014 c’è un’altra serata di presentazione del Progetto Gipp e del Roundup platinum, stavolta nel leccese, in un resort a Lequile. Detto che «non è pervenuta risposta» alla richiesta d’informazioni «sulle aree interessate da campi di sperimentazione all’Osservatorio Fitosanitario regionale», i magistrati vanno avanti: «Le due società interessate alle sperimentazioni in Salento, Monsanto e Basf, sono collegate da investimenti comuni, avendo la Monsanto acquisito dal 2008 la società Allelyx (leggete la parola al contrario... ndr) dalla società brasiliana Canavialis e avendo la Basf nel marzo 2012 investito 13,5 milioni di dollari nella “Allelyx”». Contattata, l’azienda rimanda al suo blog: «Non c’è nessuna ragione plausibile per cui Monsanto, i cui prodotti servono ad aiutare gli agricoltori, farebbe qualcosa che può causare problemi agli olivicoltori italiani», si legge ad esempio sull’Affaire Xylella. La Procura non ha dubbi: dai primi disseccamenti e «senza che ne fossero state individuate le cause – si legge nell’Ordinanza –, sono state condotte in territorio salentino sperimentazioni anche con l’uso di prodotti fortemente invasivi, tanto da essere vietati per legge, in un contesto di grave compromissione ambientale» e senza «alcun previo studio sull’impatto che avrebbero avuto sull’ambiente». Ma l’Affaire Xylella è appunto complesso. Ci sono – sottolinea la Procura leccese – laboratori che «hanno effettuato analisi e ricerche su campioni di ulivo senza il necessario accreditamento» e 10 mesi prima di ottenerlo, come il Centro di ricerca, sperimentazione e formazione in agricoltura 'Basile Caramia' (a Locorotondo). L’Università di Bari che «ha effettuato prove in campo e serra senza la necessaria autorizzazione» e 4 mesi prima di ottenerla. A proposito. Pagina 35 fra le 59 dell’Ordinanza: «Ciò che è emerso è che in Salento potrebbero esserci più ceppi differenti» di Xylella, «per lo meno nove!» e «nonostante i ricercatori del Cnr di Bari Donato Boscia e Maria Saponari in più occasioni ufficiali sostengano essercene uno solo».