Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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FRIULI VENEZIA GIULIA
DI ANTONIO GIANGRANDE
FRIULI VENEZIA GIULIA
TUTTO SUL FRIULI VENEZIA GIULIA
QUELLO CHE NON SI OSA DIRE
I FRIULANI SONO DIVERSI DAGLI ALTRI ?!?!
Quello che i Friulani non avrebbero mai potuto scrivere.
Quello che i Friulani non avrebbero mai voluto leggere.
di Antonio Giangrande
SOMMARIO
INTRODUZIONE
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
DA PALO IN FRASCA. IL FRIULI DEGLI SCANDALI.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
IL CASO DI ALBERTO DI CAPORIACCO.
IL SUD TARTASSATO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
LE POLTRONE INTOCCABILI DELLA SPECIALITA' CON I POLITICI E GLI STATALI PIU' CARI D'ITALIA.
IL FRIULI VISTO DAI RAGAZZI.
UNABOMBER: 30 ATTENTATI, NESSUN COLPEVOLE. UNA VITTIMA: ELVO ZORNITTA.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
TIPICAMENTE FRIULANI.
LE VERGOGNE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA.
LA STRAGE DI VERGAROLLA E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.
IL GIORNO DEL RICORDO DEGLI SMEMORATI.
LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.
POVERA TRIESTE: DISINFORMAZIONE, ILLEGALITA' E CONNIVENZE DELLA MAGISTRATURA.
IL FRIULI VENEZIA GIULIA E LA MAFIA.
IL FRIULI VENEZIA GIULIA E LA MASSONERIA.
TOGHE ZOZZE.
MALA AMMINISTRAZIONE.
TRIESTE INQUINATA.
EMERGENZA AMBIENTE.
PORTO DI TRIESTE: DISCARICA A MARE APERTO.
MALAPOLIZIA. IL CASO DI RICCARDO RASMAN.
MOBBING NELL'ARMA: L'INCREDIBILE STORIA DI FRANCESCO DI FIORE.
PARENTOPOLI SANITARIA.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
DA PALO IN FRASCA. IL FRIULI DEGLI SCANDALI.
Coop friulane, lo scandalo coperto. La Operaie di Trieste e la Carnica di Udine sono finite in rovina per una gestione "allegra" su cui ora indaga la magistratura (anche perché non l’ha fatto la regione). Ma le cronache nazionali non ne parlano, scrivono il 15 dicembre 2014 Carmelo Abbate e Oscar Puntel su “Panorama”. Le voci giravano da oltre un anno tra assemblee, riunioni degli organi direttivi, soffiate sui bilanci. C’è chi addirittura parla di lettere ufficiali recapitate negli uffici del governatore della Regione Friuli-Venezia Giulia. Eppure, adesso che la bomba è scoppiata, viene fuori che la situazione contabile dei due grandi colossi storici del mondo cooperativo, la Coop Operaie e la Coop Carnica, era a conoscenza di tutti meno che dell’organo politico legalmente responsabile della vigilanza, ovvero la giunta regionale guidata da Debora Serracchiani, vicesegretario nazionale del Pd. Che proprio una legge regionale, la numero 27 del 3 dicembre 2007, stabilisce abbia "compiti di controllo e di vigilanza" sulle cooperative. Così invece non è stato e ora si cerca di raccogliere i cocci, mentre migliaia di risparmiatori, artigiani, commercianti friulani e veneti passeranno un Natale a dir poco amaro. Per la Coop Operaie la Procura di Trieste ha appena chiesto il fallimento, dopo aver preso atto di un buco da 37 milioni di euro che lascia 600 dipendenti con il fiato sospeso e 17 mila soci con il cerino in mano. Mille tra di loro sono pronti a chiedere un risarcimento alla regione, mentre altri hanno allo studio una class action nei confronti della Lega coop, alla quale potrebbe unirsi anche il Comune di Trieste. L’inchiesta, condotta dai pm triestini Federico Frezza e Matteo Tripani (e che i giornali nazionali hanno finora ignorato o quasi), vede indagato per falso in bilancio l’ex presidente Livio Marchetti, in carica per un decennio prima di essere spodestato dalla magistratura. Nel mirino degli inquirenti è finita una serie di operazioni immobiliari infragruppo, condotte (scrivono) per «gonfiare il patrimonio netto e rientrare solo fittiziamente nei parametri per il prestito sociale». In sostanza, attraverso questo trucco si sarebbero messi a bilancio come plusvalenze 15 milioni di vendite di immobili effettuate a società partecipate interamente da Coop Operaie. Un’operazione di maquillage finanziario che, mentre le norme sul prestito sociale vietano possa superare di tre volte il patrimonio netto, avrebbe permesso di raccogliere sempre più soldi dei risparmiatori, che hanno investito un importo medio di 6 mila euro. Un po’ meno degli oltre 10 mila soci di Coop Carnica, 3 mila dei quali sono incagliati per una cifra media di 10 mila euro a testa. In questo caso si tratta soprattutto di anziani, gente di montagna che percepiva la cooperativa come ente robusto e sicuro. Immagine rinforzata anche dalla capillare diffusione dei negozi con il marchio CoopCa sul territorio: 41 punti vendita tra supermercati, ipermercati, spacci e discount sparsi tra Udine, Pordenone, Trieste, Padova, Treviso, Venezia, Vicenza. Circa 3 mila soci sono titolari di un libretto di deposito, per un importo complessivo di 30 milioni. E sono stati proprio loro, dopo le brutte notizie sul fronte della Coop Operaie, a battere cassa per recuperare i risparmi, facendo così emergere il bluff dei conti sociali dove la liquidità era stata prosciugata. Anche per colpa di un’operazione da 20 milioni per la costruzione di un nuovo centro faraonico di distribuzione, che ha dissanguato le casse sociali e che tiene con il fiato sospeso anche la Banca di Cividale, che teme di perdere i soldi dati in prestito. Morale? La cooperativa Carnica, nata nel 1906, ha dovuto chiedere il concordato preventivo, subito accordato dal Tribunale di Udine, con l’effetto immediato di congelare 30 milioni di risparmi. Nel frattempo è cambiata la governance: da pochi mesi si è insediato Ermanno Collinassi, nuovo presidente del consiglio d’amministrazione al posto di Giacomo Cortiula, per 23 anni in quel ruolo. I risparmiatori inferociti, che più volte hanno protestato per strada, lo accostano a Francesco Schettino, colpevole di aver abbandonato la barca al primo scricchiolio. Che succede a questo punto? Quali sono le prospettive? I destini delle due coop, allineati nella friulane scandalo difficoltà, torneranno a dividersi. Per la Operaie l’amministratore giudiziario Maurizio Consoli ha studiato un piano di salvataggio con l’intervento di Coop Nordest che acquisterebbe per 70-80 milioni il centro commerciale Torri d’Europa sul quale vanta un diritto di prelazione. Per i soci le notizie non sono buone: il prestito sociale non è garantito fino a 100 mila euro, come per i depositi bancari, ma per un importo pari al 30 per cento di quanto versato, grazie a una fideiussione bancaria. Per quanto riguarda la Coop Carnica, invece, la Regione Friuli-Venezia Giulia ha nominato due «saggi» che stanno cercando di ricostruirne lo stato patrimoniale ed economico. Poi si passerà al piano di salvataggio, per il quale il tribunale ha dato tempo fino a metà gennaio. Si profilano scelte dolorose, cessioni di punti vendita, e si parla di un interessamento della catena Despar. Una sorta di ultimo avviso di abbandonare la nave, dopo tanti segnali di allarme rimasti inascoltati. Peccato che alla capitaneria di porto della giunta regionale qualcuno dormiva.
Sauvignon connection, lievito "magico" nel vino: ecco le 17 cantine indagate. Nel mirino della Procura anche il chimico, la moglie e due colleghi. Da Tiare a Gigante a Rodaro perquisizioni e prelievi a campione nelle aziende, scrive Luana de Francisco su “Il messaggero Veneto” l'11 settembre 2015.Sognava di passare alla storia come l’inventore del Sauvignon più buono e più profumato del mondo. Di trovare, cioè, la formula magica che avrebbe permesso a qualsiasi produttore di esaltare il sapore del proprio vino e di lanciarlo nel gotha dell’enologia. E in parte, Ramon Persello, 39 anni, di Attimis, consulente bioclimatico tra i più noti in Friuli e, soprattutto, genio della chimica, pareva anche esserci riuscito. Questo, almeno, è ciò che sostiene la Procura della Repubblica di Udine, che attorno ai suoi esperimenti e alla cerchia di aziende agricole di riconosciuta fama che – stando alla tesi accusatoria – da lui si rifornivano, ha costruito un’inchiesta in grado di stravolgere gli equilibri dell’economia vitivinicola, e non solo, regionale. Gettando un’inquietante ombra su una delle eccellenze indiscusse del Friuli Venezia Giulia. Al centro della bufera giudiziaria, l’ipotesi che in 17 aziende (due delle quali di fuori regione), tutte sottoposte ieri a perquisizione da parte dei carabinieri del Nas di Udine, sia stato impiegato un esaltatore di aromi non previsto dal disciplinare di produzione di vini Doc. Una “Sauvignon connection”, insomma. Il sospetto, codice penale alla mano, si traduce nelle ipotesi di reato di frode nell’esercizio del commercio e vendita di sostanze alimentari non genuine. A quella “pozione dei desideri” Persello lavorava da tempo. Lo sapevano tutti e lui, considerato un prodigio della chimica, non ne faceva mistero. Del resto, nulla gli proibiva di provare e riprovare a mescolare gli ingredienti, alla ricerca del mix che avrebbe migliorato il gusto dei vini. Tanto più in una terra che del Bianco, complice anche la campagna pubblicitaria con cui una decina d’anni fa il fotografo Oliviero Toscani lanciò le etichette del Collio, ha fatto la propria bandiera. Il guaio è che i suoi esperimenti avrebbero dovuto restare tali. E invece, stando alle indagini sin qui condotte dagli investigatori, l’intruglio che Persello realizzava in casa con l’aiuto di sua moglie, combinando tra loro il lievito preso dal laboratorio in cui lavora, a Corno di Rosazzo, e un amalgama di altri ingredienti “top secret”, finiva poi per entrare nelle botti di Sauvignon e, in misura minore, anche di Pinot bianco, di un gruppo non proprio ristretto di “amici” produttori. Un “elisir” – a sottolinearlo è la stessa Procura – comunque non dannoso per la salute umana. Le perquisizioni eseguite ieri, in contemporanea, in tutte le aziende agricole con le quali l’“Archimede dei vini” risultava tenere contatti puntano proprio a trovare elementi probatori capaci di confermare un quadro già di per sè abbastanza definito. Da ciascuna delle cantine, i carabinieri del Nucleo antisofisticazione e sanità sono usciti con una serie di campioni di vino, che dovranno ora essere analizzati e rivelare se e con quali sostanze, qualora dovessero emergerne tracce, siano stati contraffatti. I primi a finire sul registro degli indagati sono stati i nomi di Persello e di sua moglie Lisa Coletto, 41 anni, di Udine. È alla loro porta che la Polizia giudiziaria ha bussato, già nella giornata di sabato, con il primo di una lunga serie di decreti di perquisizione. Ed è lì che sono stati acquisiti i riscontri che hanno permesso agli investigatori non soltanto di proseguire lungo la pista tracciata, ma anche di formulare una possibile rosa di ulteriori indagati. I produttori, appunto, con vigne e aziende tra la zona del Collio e quella dei Colli orientali del Friuli, e tutti più o meno blasonati. A cominciare da Roberto Snidarcig, che con la sua “Tiare” di Dolegna del Collio, l’anno scorso è riuscito nientedimeno che ad aggiudicarsi l’oro mondiale. Oltre a lui, a ricevere la visita dei militari dell’Arma, nella mattinata di ieri, sono stati anche Adriano Gigante, dell’omonima azienda agricola di Corno di Rosazzo, Valerio Marinig, di Prepotto, Paolo Rodaro, di Spessa, Pierpaolo Pecorari, di San Lorenzo Isontino, Michele Luisa, della “Tenuta Luisa” di Corona, Anna Muzzolini, dell’“Azienda agricola Iole” di Prepotto, Roberto Folla, dell’“Azienda agricola Cortona” di Villa Vicentina, Luca Caporale, dell’“Azienda agricola Venchiarezza” di Cividale, Federico Stefano Stanig, dell’“AZienda agricola Stanig fratelli” di Prepotto, Andrea Visintin, dell’“Azienda agricola Magnas” di Cormons, Cristian Ballaminut, titolare di un’azienda a Terzo d’Aquileia, Cristian Specogna, dell’“Azienda agricola Specogna Leonardo” di Corno di Rosazzo, Gianni Sgubin, della “Società agricola Ferruccio Sgubin” di Dolegna del Collio, e Filippo Butussi, della “Valentino Butussi” di Corno di Rosazzo. Perquisizioni sono state inoltre eseguite nelle sedi di due tenute di fuori regione: l’“Azienda vinicola F.lli De Luca”, di Remo De Luca, a Mozzagrogna (Chieti) e la “Castel Rio Società agricola” di Ficulle (Terni), amministrata da Valentino Cirulli. Nell’inchiesta sono rimaste coinvolte anche Francesca Gobessi, 65 anni, di Udine, ed Emanuela Zuppello, 55, di Torreano, in quanto colleghe di Persello nel laboratorio di analisi in cui lavora. A mettere in moto la macchina investigativa, neanche a dirlo, sono stati delatori interni al mondo del vino. Non c’è da stupirsi, naturalmente: vedevano i loro diretti concorrenti accumulare premi su premi e hanno deciso che era ora di farla finita e di svelare quello che, a loro avviso, era il “segreto” di tanta bravura. In Procura, a raccogliere e dare forma alle segnalazioni è stato il pm Marco Panzeri. Lo stesso che, un paio di anni fa, aveva scoperchiato il caso del latte contaminato da aflatossina M1. «Ci siamo mossi sulla base di elementi serissimi, in maniera mirata – ha affermato il procuratore capo di Udine, Antonio De Nicolo –. Eravamo stati messi in guardia da chi, in questo stesso settore, lavora in modo onesto. Da alcuni produttori del Sauvignon – continua – che seguono fedelmente il disciplinare e che si erano accorti che alcuni competitors esaltavano irregolarmente gli aromi del vino». Alla soffiata erano seguiti i primi accertamenti, poi la perquisizione a casa di Persello e, a seguire, l’individuazione dei suoi possibili complici. La “road map” della Procura, però, non prevedva di tornare in campo a così stretto giro di posta. «Siamo stati costretti ad accelerare i tempi e anticipare le perquisizioni nelle aziende agricole – ha spiegato De Nicolo –, perchè avevamo avuto sentore che la notizia stava per trapelare. Esisteva il rischio concreto di una fuga di notizie. E questo, come intuibile, avrebbe vanificato l’efficacia delle perquisizioni». Il destino, però, ha voluto che la giornata di ieri fosse anche quella dell’inaugurazione di Friuli Doc. Una «sciagurata coincidenza» che De Nicolo ha tenuto a chiarire come assolutamente non voluta: casuale, quindi, e del tutto slegata da collegamenti giudiziari. «Non volevamo guastare la festa a nessuno e avremmo preferito aspettare la fine della manifestazione – ha precisato il procuratore –, come era accaduto nel caso dell’indagine sul prosciutto di San Daniele». Non meno chiaro l’obiettivo dell’inchiesta. «La nostra preoccupazione primaria – continua De Nicolo – è la tutela sia dei consumatori, che ci sentiamo di rassicurare in ogni caso, visto che le sostanze con le quali il Sauvignon è stato contraffatto non sono dannose per l’uomo, sia dei produttori che si attengono ai disciplinari e che, per fortuna, sono la maggioranza. Chi non lo fa va scovato e isolato. E le indagini proseguono proprio in questa direzione, alla ricerca di eventuali altri trasgressori».
Il caso Sauvignon getta fango sul Friuli. Ma la verità deve ancora venire a galla, scrive Piera Genta su “Italia a Tavola” il 18 settembre 2015. In attesa delle analisi svolte sui vini “contraffatti” nell'aroma, la guida Gambero Rosso sospende i giudizi relativi ai vini friulani. Per Vincenzo Gerbi ci sono additivi in commercio, ma non si possono usare. Potrebbe saltare una medaglia d'oro vinta da un'azienda friulana al concorso internazionale. Al momento per l’intero comparto vinicolo del Friuli Venezia Giulia si tratta di un grave danno di immagine soprattutto in coincidenza con l’inaugurazione della 21ª edizione della manifestazione Friuli Doc. L’inchiesta avviata all’inizio di settembre sull’utilizzo di sostanze contrarie al disciplinare di produzione per i vini Doc coinvolge il Sauvignon, il quinto vino per importanza produttiva della regione, riconoscibile anche ai palati meno esperti per i suoi aromi inconfondibili. E proprio i suoi aromi sono al centro delle indagini. Alla data odierna siamo in attesa dell’esito delle analisi di laboratorio che sono condotte sui campioni di mosto prelevati dai Carabinieri del Nas di Udine e dagli ispettori dell'Ufficio repressione frodi durante una perquisizione effettuata in 17 aziende, di cui 15 friulane e due di fuori regione, e presso il laboratorio nel quale lavora l’enologo Ramon Persello per accertare se sia veramente stato aggiunto durante la vinificazione un esaltatore di sapore che non deriva dall’uva, bensì da operazioni di tipo chimico. Ed anche il Concours Mondial du Sauvignon di Bruxelles viene chiamato in causa. In effetti una delle aziende indagate, Le Tiare di Dolegna nel Collio, nel 2014 ha vinto proprio il titolo di “miglior Sauvignon del mondo”. In una nota inviata da Bruxelles si dice che «Nel caso in cui verranno accertate delle responsabilità in capo alle aziende coinvolte nell’indagine e qualora fra queste risultasse colpevole anche qualcuna delle aziende che ha partecipato al Concours Mondial nelle passate edizioni, il Concours non farà altro che applicare il proprio regolamento revocando la medaglia assegnata ed escludendo il produttore colpevole dalla partecipazione al concorso per i successivi 5 anni” ed ancora “oltre che tutelare il consumatore, il Concours con l’applicazione del regolamento intende da sempre sostenere i produttori onesti e scoraggiare pratiche scorrette e illegali ritenendole gravissime in quanto lesive dell’intero comparto vinicolo». Questo aroma che migliora le perfomances gustative del vino non risulta dannoso alla salute dell’uomo. A questo riguardo abbiamo interpellato Vincenzo Gerbi, docente del dipartimento di Scienze agrarie, forestali e alimentari dell’Università di Torino; «La componente volatile dei vini Sauvignon bianco - commenta Gerbi - è una delle più studiate, conosciute, amate e imitate. La componente tiolica in molti frutti è fortemente attrattiva e piacevole, nel vino raggiunge anche una notevole stabilità. Non si può certo escludere che qualcuno si lasci tentare dal dare un aiutino, ma ogni giudizio sullo specifico fatto di cronaca sarebbe azzardato. Dopo gli accertamenti potremmo scoprire che qualche produttore ha praticato la criomacerazione o la vinificazione protetta dall'ossigeno, o la crioconcentrazione, tutte pratiche lecite che possono rafforzare l'aroma specifico. Persino alcuni enzimi impiegabili nella chiarifica dei mosti potrebbero nascondere lecitamente attività idrolitiche che liberano aromi dai precursori naturali. «Non è difficile trovare preparati aromatici - continua Gerbi - ed è molto difficile riconoscerne la presenza. Non sono nemmeno pericolosi, si pensi alle bibite e ai succhi di frutta di cui facciamo largo consumo, ma nel vino non si possono e non si devono usare perché quello che vogliamo degustare è la differenza. Altrimenti perché faticare nella vigna?». Intanto il Gambero Rosso sospende il giudizio nella guida Vini d'Italia 2016 in uscita a ottobre sui vini Sauvignon delle aziende interessate dall'inchiesta della procura di Udine per presunte violazioni del disciplinare di produzione. Ricordiamo che sono diciassette le cantine, comprese nel territorio tra Collio e Colli Orientali, e precisamente:, Roberto Snidarcig e la sua Tiare di Dolegna del Collio (l’anno scorso vincitore del concorso Sauvignon e Cantina Emergente per il Gambero Rosso), poi Adriano Gigante, dell’omonima azienda agricola di Corno di Rosazzo, Valerio Marinig di Prepotto, Paolo Rodaro, di Spessa, Pierpaolo Pecorari, di San Lorenzo Isontino, Michele Luisa, della Tenuta Luisa di Corona, Anna Muzzolini, dell’Azienda agricola Iole di Prepotto, Roberto Folla, dell’Azienda agricola Cortona di Villa Vicentina, Luca Caporale, dell’Azienda agricola Venchiarezza di Cividale, Federico Stefano Stanig, dell’AZienda agricola Stanig fratelli di Prepotto, Andrea Visintin, dell’Azienda agricola Magnas di Cormons, Cristian Ballaminut, titolare di un’azienda a Terzo d’Aquileia, Cristian Specogna, dell’Azienda agricola Specogna Leonardo di Corno di Rosazzo, Gianni Sgubin, della Società agricola Ferruccio Sgubin di Dolegna del Collio, e Filippo Butussi, della Valentino Butussi di Corno di Rosazzo. Perquisizioni sono state inoltre eseguite nelle sedi di due tenute di fuori regione: l’Azienda vinicola F.lli De Luca, di Remo De Luca, a Mozzagrogna (Chieti) e la Castel Rio Società agricola di Ficulle (Terni), amministrata da Valentino Cirulli. Nell’inchiesta sono rimaste coinvolte anche Francesca Gobessi, 65 anni, di Udine, ed Emanuela Zuppello, 55, di Torreano, in quanto colleghe di Ramon Persello nel laboratorio di analisi in cui lavora. «Compito delle istituzioni è rispettare il lavoro della magistratura - ha dichiarato l’assessore all’agricoltura della regione Cristiano Shaurli (nella foto accanto) - ma anche rasserenare gli animi sia dei cittadini consumatori sia, ovviamente, del mercato. Quindi, abbassare i toni e spiegare che c’è una vitivinicoltura che è in grado e vuole continuare a competere ed essere vetrina mondiale del Friuli Venezia Giulia. Aspettare, quindi, con serenità l’esito delle indagini senza enfatizzare e dando la presunzione di innocenza». «Questo brutto episodio, che va circoscritto - aggiunge Mario Busso (nella foto in basso a destra), curatore della guida Vinibuoni d’Italia - getta comunque uno schizzo di fango che il “vigneto Friuli” non merita di subire, soprattutto per il rispetto dovuto alle tante aziende e ai viticoltori che ogni giorno operano nella legalità. L’auspicio è che chiarezza venga fatta il più presto possibile e se c’è qualcosa di illegale è giusto chi ha sbagliato paghi. Se invece non dovesse esserci nulla tutto si risolverebbe in un polverone tipico italiano, ma molto grave purtroppo perché allungherebbe una pesante ombra sul comparto difficile da cancellare». «Tutto questo nel momento in cui il Friuli Venezia Giulia - continua Busso - sta avviando un progetto importantissimo - e questa è la notizia che ovviamente passa sottotono e di cui non si parla - un progetto che riguarda l’adesione di 50 aziende di tutta la regione all’Associazione temporanea d’imprese (Ati) per il programma di promozione all’estero nell’ambito dell’Ocm Vino. Si tratta di una delle più grandi reti d’impresa attive in Italia che punterà oltre che ai mercati tradizionali, quali Usa, Cina e Russia, sarà finalizzato ad aprire nuove finestre su Giappone e Canada». «Sono estraneo ai fatti - dichiara il presidente del Consorzio Friuli Colli Orientali Adriano Gigante - ma per una scelta di onestà intellettuale, mi faccio da temporaneamente da parte». In riferimento all’indagine tuttora in corso sul Sauvignon, il Consorzio Friuli Colli Orientali-Ramandolo ha convocato un consiglio di amministrazione straordinario per approfondire, come è stato fatto, tutti gli aspetti della vicenda. Alla conclusione dei lavori, il consiglio stesso ha deliberato, all’unanimità, di riporre la massima fiducia nell’operato del presidente Adriano Gigante, il quale ha riaffermato la sua totale estraneità ai fatti contestati dalla Procura e che, sia per onestà intellettuale che per continuare a operare nella massima trasparenza, ha deciso di autosospendersi temporaneamente dalla carica di presidente. Fino a ulteriori sviluppi dell’indagine, tutti gli incarichi istituzionali sono stati dunque delegati al vicepresidente, Germano Zorzettig, il quale non ritiene opportuno, in questo momento, entrare nel merito delle inchieste e del loro risalto mediatico che colmano di mestizia una delle migliori vendemmie degli ultimi anni. Il Consorzio, inoltre, ha espresso totale fiducia nell’operato della Procura e auspicato che possa essere fatta rapidamente piena luce sui fatti e sui soggetti effettivamente coinvolti. Il consiglio, infine, confida che l’indagine venga conclusa nel minor tempo possibile, sottolineando che la posizione del Consorzio è chiaramente e fermamente contraria a ogni ipotetica attività di truffa o contraffazione.
Cospalat, 16 patteggiamenti. Si chiude prima dell'udienza preliminare la bufera giudiziaria sul latte contaminato del Consorzio del Fvg. Sparisce l’accusa dell’adulterazione o contraffazione di sostanze alimentari. Per l'ex presidente Zampa 1 anno, 5 mesi e 10 giorni di reclusione, pena sospesa con la condizionale di Luana de Francisco su “Il Messaggero veneto” il 26 novembre 2014. La bufera giudiziaria sul latte contaminato del Consorzio Cospalat del Fvg si chiude con un patteggiamento collettivo. Senza neppure varcare la soglia dell’udienza preliminare, il caso ha trovato soluzione nelle stesse stanze della Procura nelle quali aveva preso corpo, approdando alla definizione di pene più o meno contenute e alla concessione, per tutti, delle circostanze attenuanti generiche e del beneficio della sospensione condizionale della pena. Dalle imputazioni, inoltre, sparisce l’accusa dell’adulterazione o contraffazione di sostanze alimentari, mentre sopravvive quella dell’associazione per delinquere contestata fin dall’inizio agli indagati per i quali era stata disposta la misura cautelare. Davanti al gip del tribunale di Udine, Paolo Alessio Vernì, il punto sulla vicenda, con il via libera ai patteggiamenti delle 16 posizioni - comprensive di due enti - rimaste in ballo. Per Renato Zampa, 54 anni, di Pagnacco, e per tutte le altre persone coinvolte nell’inchiesta, l’incubo era cominciato il 20 giugno 2013. Colpito da custodia cautelare in carcere, da quel giorno e fino al 3 luglio l’allora presidente di Cospalat aveva incontrato il proprio difensore nella casa circondariale di via Spalato. Così aveva stabilito il gip Roberto Venditti, con un’ordinanza lunga 167 pagine. Poi, dopo le sue dimissioni e l’interrogatorio davanti al pm Marco Panzeri, titolare del poderoso fascicolo, erano arrivati i domiciliari nell’abitazione di via Fontanabona. Il 26 luglio, il gip Francesco Florit gli aveva revocato anche quella misura, sostituendola con l’obbligo di firma tre volte la settimana alla stazione dei carabinieri di Feletto. Zampa era tornato a essere un uomo libero il 4 ottobre, quando Venditti, accogliendo l’istanza del suo legale, Cesare Tapparo, e sentito il parere favorevole del sostituto procuratore, aveva revocato anche quell’ultimo scampolo di misura. Di lì a poco sarebbe cominciata la lunga “trattativa”: il tentativo, cioè, di comporre il procedimento nella maniera più giuridicamente corretta e più ragionevolmente conveniente per tutti. La quadra del cerchio è quella approvata dal giudice Vernì. Riconosciuti a Zampa i soli reati di associazione per delinquere, finalizzata alla frode in commercio e commercio di sostanze alimentari nocive, gli è stata applicata una pena di 1 anno, 5 mesi e 10 giorni di reclusione (sospesa con la condizionale, appunto). Nella rete dei carabinieri del Nas di Udine, che avevano condotto gli accertamenti dal giugno al novembre 2012, erano finite altre 25 persone, tutte a vario titolo gravitanti attorno al Consorzio di Pagnacco. Erano state in particolare le intercettazioni a inchiodarli. Per cinque di loro il gip aveva ritenuto necessaria la misura dei domiciliari - poi attenuata in misure più lievi, fino al ritorno alla libertà piena - e per un sesto indagato quella dell’obbligo di dimora. Con i patteggiamenti, Stefania Botto, 46 anni, di Tavagnacco, indagata in qualità di segretaria amministrativa di Cospalat (e difesa dagli avvocati Laura Scuor e Pasqualino Stampanato), ha chiuso con 7 mesi e 10 giorni di reclusione, Dragan Stepanovich, 32 anni, serbo di Udine, responsabile degli autisti alle dipendenze di Cospalat (avvocato Massimo Zanetti), con 1 anno e 20 giorni, Paola Binutti, 47 anni, di Attimis, socio accomandatario della “Il laboratorio sas” di Udine (avvocato Consuelo Fabbro), con 9 mesi e 10 giorni, Gabriella Mainardis, 55 anni, di Tolmezzo, e Cinzia Bulfon, 32 anni, di Amaro, socie del laboratorio di analisi “Microlab snc” di Amaro (entrambe difese dall’avvocato Roberto Mete), con 9 mesi l’una, Roberto Alaimo, 53 anni, di Arezzo, autista della “Autotrasporti Chinoli snc” (avvocato Michele Marani), con 6 mesi e 180 euro di multa. Patteggiamenti anche per le posizioni più marginali avute dagli allevatori nell’inchiesta: 37.500 euro di multa a Lorenzo Benacchio, 43 anni, di Cervignano (avvocato Maurizio Conti), 45.200 euro ad Angelo Tosone, 58, di Lestizza (avvocato Gabriella Marando), 2 mesi e 20 giorni rispettivamente a Marco Nicolin, 43 anni, di Majano, Valter Bernardis, 49 anni, di Varmo, Roberto Cescutti, 66 anni, di Flaibano, e Lucio Pittao, 49 anni, di Arzene, e 3 mesi a Tobia Marcuzzi, 59 anni, di Osoppo (tutti difesi dagli avvocati Tapparo e Maddalena Aldegheri, di Verona). Infine, sanzioni pecuniarie di 22.660 euro per il Consorzio Cospalat (avvocato Aldegheri) e di 7.004 euro per Microlab (avvocato Mete), coinvolte in virtù del decreto legislativo 231/01 sulla responsabilità amministrativa delle società, per reati commessi da amministratori, manager o dipendenti. «La penale responsabilità degli imputati - ha motivato il giudice - non è esclusa allo stato degli atti, deponendo, anzi, in senso contrario i contenuti della notizia di reato redatta dai carabinieri, le annotazioni di Pg, le intercettazioni telefoniche e ambientali, le analisi chimiche, le dichiarazioni degli imputati». Il gip ha tenuto a sottolineare «l’esattezza della qualificazione giuridica dei fatti», ma ha anche valorizzato «l’atteggiamento collaborativo» e «la cessazione degli illeciti», giustificando così la concessione dei vari benefici e concludendo per la «congruità» delle pene concordate. Quanto agli enti, il giudice ha espunto l’ipotesi del profitto di reato, contestando solo la sussistenza di un proprio interesse o vantaggio indiretto.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà) .
IL CASO DI ALBERTO DI CAPORIACCO.
“Il terrore corre sul filo e l’amministrazione giudiziaria in Friuli-Venezia Giulia va in tilt, messa alle corde dall’azione perentoria del nostro direttore Alberto di Caporiacco”. Questo è l’articolo pubblicato sul sito del “Il Giornale del Friuli”. Il terrore corre sul filo e l’amministrazione giudiziaria in Friuli-Venezia Giulia va in tilt, messa alle corde dall’azione perentoria del nostro direttore Alberto di Caporiacco. Il fatto nuovo? E’ clamoroso. Non ve lo diciamo, vi lasciamo con la suspence di un racconto a puntate. Ricordiamo i fatti, con necessaria sintesi. Nel mese di luglio 2003 Alberto di Caporiacco presenta un ricorso elettorale al Tar Friuli-Venezia Giulia per l’invalidazione delle elezioni regionali che elessero il consiglio regionale 2003-2008 (vittoria di Riccardo Illy). Di Caporiacco presentò quel ricorso elettorale come cittadino elettore, ma naturalmente anche come facente parte del Movimento Friuli che era stato dapprima ammesso e poi ‘buttato fuori’ per via di una sconcertante decisione giudiziaria quando i manifesti con i nominativi di partiti e candidati concorrenti erano già stampati. Non essendo nato ieri, di Caporiacco sapeva che da gran tempo vi era il malvezzo di autenticare allegramente e irregolarmente sottoscrizioni elettorali, anche da parte dei partiti maggiori e, quindi, andò a spulciare tutte le autenticazioni elettorali ravvisando una marea di vizi insanabili. A ricorso presentato (come abbiamo detto luglio 2003, ovvero quasi un mese dopo il risultato elettorale), questo rimase per ben sette mesi a ‘galleggiare’ al TAR FVG prima che qualcuno rilevasse una eventuale anomalia. Improvvisamente, a febbraio 2004 (come si è detto sette mesi dopo) una memoria dell’avvocato della Regione e di quello – personale – di Riccardo Illy (guarda caso il… precedente avvocato della Regione Renato Fusco) la discovery dell’assenza dei certificati elettorali dei ricorrenti. Peccato che vi fosse un certificato elettorale recante il timbro del protocollo UNICO del TAR FVG di ricezione in data 5 luglio 2003! Niente da fare: ricorso dichiarato inammissibile. Di Caporiacco non si perse d’animo e presentò denuncia per smarrimento o asportazione, all’interno delle mura del TAR FVG, dei certificati elettorali NON RAVVISATI MANCANTI PER IL LUNGO PERIODO DI SETTE MESI. Tumultuose furono le vicende che seguirono e che portarono a una vittoria in Consiglio di Stato di di Caporiacco e una successiva ‘paralisi’ del procedimento innanzi al TAR in quanto, per parare il colpo, era stata avviata, d’impulso della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trieste, una indagine penale nei confronti di Alberto di Caporiacco e del segretario politico del Movimento Friuli Marco De Agostini. Pesantissime le accuse: la sola simulazione di reato contestata a De Agostini, addirittura simulazione di reato, falso e calunnia a carico di di Caporiacco. Il GIP dott. Raffaele Morvay prosciolse De Agostini e di Caporiacco dall’accusa di simulazione di reato, incredibilmente rinviando a giudizio di Caporiacco per falso e calunnia. Sempre a ricorso TAR paralizzato (e quindi traguardo ormai vicino per la conclusione naturale della legislatura di una elezione potenzialmente viziata), si avvia a febbraio 2007 il processo a carico del solo di Caporiacco davanti al Tribunale di Trieste in composizione monocratica (giudice dott. Fabrizio Rigo). Di Caporiacco, anche avvalendosi delle sue specifiche conoscenze in materia, affronta il processo praticamente da solo, avvalendosi di un avvocato d’ufficio, Alberto Coslovich, nominatogli dal Tribunale. Si susseguono le udienze sino al colpo di scena di luglio 2007. Di Caporiacco è perfettamente e pacificamente residente (da agosto 2001) a Caporiacco, luogo di insediamento della propria famiglia plurisecolare. All’arrivo di una notifica piuttosto importante (quella della nomina del perito grafologico, chiamato ad esprimere il suo parere circa il fatto che fosse stata realmente la mano del di Caporiacco ad effettuare una alterazione su un documento al fine di vincere il ricorso al Consiglio di Stato dopo la declaratoria di inammissibilità del ricorso TAR), il portalettere dichiara platealmente il falso e respinge lui stesso al mittente la notifica dichiarando che di Caporiacco si è trasferito da Caporiacco senza lasciare indirizzo. Un falso clamoroso e così la notifica è effettuata al difensore d’ufficio, con una clamorosa violazione dei diritti difensivi del di Caporiacco che, naturalmente, può esibire un certificato anagrafico storico di continuità di residenza a Caporiacco dall’agosto 2001 ai giorni nostri. Ma non è finita qui. All’insaputa di di Caporiacco l’avvocato Alberto Coslovich presenta richiesta di esonero dalla difesa per presunta incompatibilità nella gestione della linea difensiva con il proprio assistito. L’istanza è presentata al giudice Rigo che la accoglie, inaudita altera parte (nell’istanza l’avv. Coslovich effettua delle affermazioni persino lesive della dignità e onorabilità di di Caporiacco) e nomina a di Caporiacco un nuovo avvocato, Domenico Lobuono (sempre del Foro di Trieste). Ma ecco il capolavoro: Alberto Coslovich, che era rimasto in stretto contatto con di Caporiacco per tutto il primo periodo del processo (febbraio-novembre 2007) non effettua le consegne al proprio collega, dimenticandosi di comunicargli numero di cellulare di Alberto di Caporiacco, indirizzo e-mail e fax, tutti in possesso dell’avv. Coslovich come una montagna di documenti sta a provare. Ed ecco un’altra volta entrare in azione il postino ‘falsario’. La fondamentale notifica con la quale di Caporiacco è informato, necessariamente, che gli è stato sostituito il difensore d’ufficio (da Coslovich a Lobuono) è ancora una volta respinta al mittente dallo stesso postino falsario il quale afferma nuovamente che di Caporiacco non è presente a… casa sua (residenza anagrafica), ma si è trasferito per località ignota senza lasciare indirizzo. Uno splendido assist all’autorità giudiziaria che così può processare di Caporiacco in sua sostanziale contumacia e a sua completa insaputa. Naturalmente anche l’avvocato Lobuono ci mette del suo. Pur sapendo (compare dagli atti) che al tempo di Caporiacco lavorava presso la Corte dei conti, omette l’adempimento minimo di telefonargli sul luogo di lavoro avvisandolo di avere ricevuto la notifica destinata a di Caporiacco contenente la notizia della sostituzione del difensore d’ufficio. Di Caporiacco è dunque, di fatto, estromesso dal processo che continua a sua completa insaputa. Peraltro non esiste alcun decreto che sancisca la… irreperibilità di di Caporiacco che è processualmente rappresentato dal difensore d’ufficio Domenico Lobuono il quale preferisce non spendere nemmeno una telefonata per ricercarlo sul luogo di lavoro, l’ufficio – peraltro pubblico – della Corte dei conti. Si arriva all’udienza finale del 19 maggio 2008 dove il giudice Rigo, avvalendosi di una perizia del grafologo dott.ssa Nevia Dilissano (in cui si dice che “non si può escludere che la mano che ha alterato il documento sia quella di Alberto di Caporiacco”, mentre il perito nominato dalla parte civile afferma che gli elementi a disposizione sono del tutto insufficienti ad attribuire una qualche responsabilità al di Caporiacco, sostanzialmente scagionandolo), condanna di Caporiacco per falso. Lo condanna anche per calunnia, perché di Caporiacco ha osato affermare in una memoria che ad avvalersi dell’inammissibilità del ricorso elettorale erano i vertici regionali e che quindi questi avevano avuto interesse alla incredibile scomparsa del documento, sette mesi dopo che questo non era stato ravvisato mancante. Una sorta di scoperta dell’acqua calda. Sarebbe come dire che, giocandosi Udinese-Milan ed effettuato un autogol da parte di un giocatore del Milan, è evidente che l’Udinese si è avvalsa di questo… infortunio di gioco. Questa è calunnia? Per il giudice Rigo, che condanna complessivamente di Caporiacco a una pena da… stupratore (4 anni e 6 mesi, di cui 3 indultati) sì. Ma l’incredibile deve ancora avvenire. Siamo, come detto, il 19 maggio 2008. Il processo, prettamente politico, era indubbiamente di pubblico interesse. Ma del tutto incredibilmente questo processo, nell’udienza clou, non è stato seguito da nessuno. Nè da cronisti de Il Piccolo, che ha sede a Trieste, nè da cronisti del Messaggero Veneto, che ha sede a Udine, ove gravitano gli interessi di di Caporiacco e dove di Caporiacco è più noto. Nè hanno interesse, incredibilmente, a dare la notizia alla stampa circa l’esito processuale, le parti civili, indubbiamente immaginabilmente tronfie e trionfanti dopo la pesante sentenza di condanna subita da di Caporiacco. Sia il 20 maggio 2008 che nei giorni e nei mesi seguenti non compare un… rigo (ci si permetta la battuta, con riferimento al cognome del giudice) sulla condanna pesantissima subita da di Caporiacco. Il quale NE E’ A COMPLETA INSAPUTA, tra l’altro nemmeno informato (vi ricordate che costui non ha nemmeno speso una telefonata sul luogo di lavoro?) dal difensore d’ufficio Domenico Lobuono. Di Caporiacco, per una condanna di cui è a completa insaputa, ha 45 giorni di tempo per appellare dopo il deposito delle motivazioni, che avverrà il giorno 14 agosto 2008. NATURALMENTE A COMPLETA INSAPUTA DI ALBERTO di CAPORIACCO. Ma di Caporiacco non ha nulla da temere in quanto, in suo ausilio, accorre l’avvocato Domenico Lobuono. Già proprio lui, fin qui forse troppo seccamente tacciato di non essere stato in grado neppure di cercare di Caporiacco sul luogo di lavoro per avvertirlo con il mezzo del telefono. Lobuono presenta appello, ma sbaglia clamorosamente la tempistica, presentandolo fuori termine, il 20 novembre 2008, mentre i termini scadevano il 31 ottobre 2008. Pur tuttavia il Cancelliere del Tribunale di Trieste non si è accorto di nulla. Scaduto il termine per appellare (lo ripetiamo: 31 ottobre 2008), non ha iscritto alcunché in calce alla sentenza, nè ha inviato l’estratto della Sentenza alla Procura della Repubblica di Trieste per la sua esecuzione. Accade così che il gravame giunge alla cognizione della Corte d’Appello di Trieste. Ci si aspetterebbe una notifica a beneficio di Alberto di Caporiacco, per avvisarlo di una udienza (processo di appello) davanti alla Corte d’Appello triestina? Figuriamoci: assolutamente no! La Corte d’Appello, dopo aver sentito il PM e aver omesso di comunicare il parere a di Caporiacco (gravissima lesione dei diritti difensivi), decide “de plano”, ossia senza la celebrazione di una udienza, in data 23 aprile 2009. Ovviamente decidendo per l’inammissibilità dell’appello per tardività del medesimo. Naturalmente a questo punto ci sarebbe da attendersi che fosse consentita a di Caporiacco la minima informazione dell’inammissibilità dell’appello onde consentirgli di adire al terzo ed ultimo grado di giudizio, rappresentato dalla Corte di cassazione. Infatti, la notifica della decisione della Corte d’Appello, avrebbe dovuto essere inviata al difensore d’ufficio Lobuono (che aveva proposto appello), ma anche al di Caporiacco. Tra l’altro (chicca interessantissima), l’avv. Lobuono, al tempo NON CASSAZIONISTA, non avrebbe neppure potuto (nemmeno se lo volesse) impugnare in Cassazione. Bollato dalla Corte d’Appello per non essere stato capace nemmeno di conteggiare correttamente i termini entro cui impugnare, indubbiamente il professionista avrebbe avuto interesse a esporre alla Suprema Corte i criteri del suo diverso computo termini che lo facevano ritenere di essere, invece, perfettamente in tempo. L’ordinanza della Corte d’Appello è notificata all’avv. Lobuono il 6 maggio 2009 e, naturalmente, nessuna notifica è effettuata nei confronti di di Caporiacco. Ed ecco un nuovo capolavoro: il cancelliere allora in servizio alla Corte d’Appello di Trieste, tale dott. Vittorio Girgenti, verga in calce all’ordinanza di Corte d’Appello la scritta “irrevocabile il 6 luglio 2009″. Egli (lui solo) ha quindi considerato che la notifica fosse stata fatta anche a beneficio di di Caporiacco, mentre questa notifica è del tutto inesistente. Egli (il dott. Girgenti) ha ritenuto che il 6 luglio 2009 fossero scaduti (e per Lobuono, che nemmeno poteva farlo in quanto non cassazionista, e per di Caporiacco) i termini per impugnare alla Suprema Corte. Per automatismo, quindi, essendo ritenuta irrevocabile l’ordinanza di Corte d’Appello il 6 luglio 2009, diventa irrevocabile anche la pesantissima sentenza di condanna, sempre ovviamente il 6 luglio 2009. A questo punto di Caporiacco è fritto o, se preferite, cotto a puntino. Deve scontare un anno e sei mesi di reclusione (fatte salve possibilità alternative) e, da un momento all’altro, può essere destinatario di un ordine di carcerazione ‘temporaneamente sospeso perchè l’ordinamento consente di rivolgersi al Tribunale di Sorveglianza per cercare di evitare il carcere’. Siamo, come detto, il 6 luglio 2009, ma la macchina della giustizia triestina si prende un sonnellino. E che sonnellino! Dorme fino a ottobre 2010, allorquando il Cancelliere del Tribunale di Trieste dott.ssa Alessandra Contento, dopo una ‘pausa di riflessione’ durata 15 mesi (ma preferiamo pensare che semplicemente il carico di lavoro fosse schiacciante), invia ‘finalmente’ l’estratto della sentenza, ritenuta irrevocabile, alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Trieste – Ufficio esecuzioni penali. Il 25 novembre 2010 di Caporiacco compie un elettrocardiogramma naturale. Raggiunto all’uscita da Telefriuli, ove conduce la trasmissione Punto di Svista da lui ideata, da due carabinieri in borghese, gli viene notificato ordine di carcerazione temporaneamente sospeso. Ha un anno e sei mesi di reclusione da scontare e lo apprende per la prima volta lì, in quel pomeriggio del 25 novembre 2010, sul piazzale di Telefriuli, all’atto di entrare in auto per ripartire verso casa dopo aver registrato la trasmissione. Nessun giornale ha mai parlato della sua condanna, nessun avvocato lo ha mai contattato per avvertirlo, nessuna notifica gli è mai pervenuta, ci sono stati postini che lo hanno dichiarato irreperibile e trasferito senza lasciare indirizzo, avvocati d’ufficio che non hanno passato le consegne al collega subentrante, un collega subentrante che non è stato capace di chiamare al telefono di Caporiacco sul luogo di lavoro e che è stato capace di sbagliare il computo dei termini di appello. Ma il cuore di Alberto di Caporiacco è, evidentemente, un cuore di atleta. Resiste alla mazzata. Ovvio che a questo punto di Caporiacco si incazzi e vada a ripercorrere tutto quanto accaduto.
FRIULANI, DITE QUALCOSA SULLA GIUSTIZIA. IL CASO DI ALBERTO DI CAPORIACCO.
Nel Friuli Venezia Giulia i risultati sono scarni e su questo Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo" ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti della giustizia ha pubblicato dei volumi: "Ingiustiziopoli, ingiustizia contro i singoli"; "Malagiustiziopoli, malagiustizia contro la collettività"; "Impunitopoli, legulei ed impunità". Quando io mando un mio contributo ai miei 1500 contatti, quindi a 1500 direttori di giornali, specialmente on line, non cerco in loro un sostegno, o una visibilità. Cerco di coinvolgerli in un fenomeno virale controllato. Tutti i direttori, come me, ricevono sicuramente tante lettere di sdegno, di rabbia. Quelle sono le testimonianze dei nostri contemporanei. Tra queste bisogna scandagliare chi tra loro merita rispetto, in confronto all’opera di mitomani o calunniatori. I testimoni del loro tempo rappresentano, spesso, delle situazioni che vanno rese pubbliche. Quando io ho iniziato da praticante avvocato con patrocinio legale, rispetto ad altri miei colleghi, non mi sono posto il problema se nel difendere qualcuno potessi andare contro i miei interessi. Eppure lo facevo. Ciò nonostante molti di coloro a favore dei quali mi battevo contro tutto e tutti, mi si sono rivoltati contro, istigati dalle controparti. Mi accorsi che nelle aule di Tribunale non vince chi ha ragione, ma chi ha più forza dirompente (corruttela, amicizie). Cercai di ribellarmi. Mi dissero “tu non diventerai mai avvocato”. Dal 1998 io partecipo all’esame di avvocato. Dal 1998 non mi abilitano per ritorsione. Mi impediscono di lavorare. Incapace, forse. Ma capace di scoprire gli inghippi in tutte le situazioni. Ho continuato a lottare per denunciare il marciume. Non trovando soluzione di continuità, per contiguità delle istituzioni nell’illegalità, man mano che passavano gli anni la mia sfera di competenza si allargava: giustizia, politica, informazione, ecc. Più scavavo, più pescavo nel torbido. Non ho avuto paura delle ritorsioni. Come può averla uno che è presidente nazionale di una associazione antimafia, riconosciuta dal Ministero dell’Interno. Non può averla uno che dalla vita aveva già avuto scritto il suo destino, ma che ha reagito e si è diplomato in un anno a 30 anni, dopo l’ennesimo concorso pubblico taroccato, e laureato in due anni a Milano a 32 anni, lavorando di giorno, avendo già due figli. Mi mandarono la finanza a casa, perché non credevano di aver diritto alla borsa di studio. Non ho avuto paura delle ritorsioni, ciò nonostante mio figlio, con sacrifici, è divenuto a 25 anni, due lauree, l’avvocato più giovane d’Italia. Nelle mie lotte all’inizio ho cercato la sponda nei direttori di giornali. Tutti ignavi o venduti alla politica o all’economia. Le notizie, allora, me li pubblicavo da me su un mio portale web, riportando per argomento e per territorio le notizie che valeva la pena riportare nel tempo e nello spazio. Tra centinaia di pagine, nella pagina della città di Brindisi ho pubblicato un articolo del Corriere della Sera in cui si parlava della faccenda del Giudice Clementina Forleo e della morte strana dei suoi genitori e della diatriba con la procura di Brindisi. Notizie che la stampa locale non dava. Bene. Quella procura ha sequestrato tutto il sito web con centinaia di pagine e perseguito me per diffamazione a mezzo stampa.
Dopo la Forleo, naturalmente solidarietà dalla stampa: zero. Allora oscurato un sito, ho aperto decine di siti gemelli, che negli anni sono stati letti da milioni di utenti.
Dopo la Forleo, naturalmente solidarietà dalla TV: zero. Allora ho aperto una tv streaming e 4 canali youtube in cui riportavo in video le inchieste testuali. Video visti da milioni di utenti.
Ho aperto una tv web nazionale di promozione del territorio.
Ho perfezionato il mio lavoro. Quello che scrivo è frutto di recensioni di libri, articoli delle testate giornalistiche più importanti, interrogazioni parlamentari. Opere di terzi riportanti verità, continenza e interesse pubblico. Ciò nonostante questa mia attività legale di citazioni di terzi ha portato contro di me decine di procedimenti per diffamazione a mezzo stampa: solo da parte di magistrati. Mai una condanna. Io a fianco degli avvocati a dirgli cosa fare.
Il paradosso che molti di questi magistrati, quando loro stessi si son ritrovati in difficoltà, hanno chiesto il mio aiuto. Non per risolvere il loro problema giudiziario, ma di raccontare la loro versione dei fatti, per salvaguardare il loro onore, perché dal momento in cui sono caduti nel fango sono stati abbandonati da tutti coloro che prima li osannavano.
Uno contro tutti. Ma non ho paura. Se il sistema mi accerchia, io reagisco. Allora ho deciso di fare le cose in grande. Dato che in Italia le mafie son quelle che meno ti aspetti, ho lasciato ai posteri la mia eredità intellettuale. Decine di saggi di inchiesta pubblicati su piattaforme estere, affinchè sia più difficile censurarle. I miei libri li leggono in tutto il mondo, anche gratuitamente.
Non ho niente, quindi niente mi possono togliere. La mia ricchezza morale, neanche, perché è di dominio pubblico. La mia vita a 50 anni non ha più niente da dire. Possono togliermi anche quella.
Io non sono ricco, anzi mi hanno ridotto alla fame. Il provento dei libri serve a sostenere le spese di gestione dei siti web. Ho una Fiat Punto del 2000. La mia famiglia si sostiene con qualche ora di ripetizione che dà mio figlio, perché da avvocato non lavora e con qualche ora di mia moglie in un’impresa di pulizie. Degradante: no! Dignitoso. Perché non abbiamo svenduto l’onore e non ci siamo genuflessi ad angherie e minacce. Potevo fare i milioni ed essere come gli altri. Invece no. Sono orgoglioso di essere diverso.
Si potrebbe pensare che io sia un mitomane. Si provi a digitare il nome di Antonio Giangrande e si vedrà quante decine di migliaia di siti web parlano di me. Ma più che parlare di me, parlano di quello che io dico e faccio a favore di altri. Un mitomane non meriterebbe tanta attenzione.
Quindi, non ho bisogno che mi si pubblichi quello che le mando. Questo non lo chiedo ai 1500 contatti. Sono solo contenuti mirati a lasciar tracce nelle coscienze di chi legge. Chi non legge, pazienza, perché chi non apprezza non merita. In quanto, come disse don Abbondio, “il coraggio uno non se lo può dare”. E l’italiano da sempre ha dimostrato di non aver coraggio. La storia insegna.
Con il direttore del “Giornale del Friuli”, Alberto di Caporiacco, il mio interesse è diverso. Con lui voglio capire fino a che punto si spinge la tendenza ad impedire la libertà di espressione del proprio pensiero.
“Non condivido le tue idee, ma mi batterò fino alla morte perché tu possa continuare ad esprimerle”, Voltaire …
Di lui mi sono occupato parlando di esame di abilitazione forense. Nei miei saggi “Concorsopoli ed Esamopoli” e “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata” ho affrontato il tema dei concorsi pubblici e degli esami di Stato: tutti assolutamente truccati.
Il direttore de quo si inserì nell’argomento a par suo, come può osare un autonomista od indipendentista (esemplificazioni date dai giornali che si sono occupati di lui, colpevolizzandolo). Io dico che ha affrontato il tema con "distinguismo" tipico dei settentrionali e con tutto ciò che comporta o che trapela, che a molti può sembrare del sentimento di razzismo nei confronti del Sud Italia. Così come traspare nei sentimenti dei leghisti o dei cittadini del nord Italia in generale. Sentimenti figli di ignoranza o di disinformazione.
Nella sua trasmissione PUNTO DI SVISTA. Diario settimanale di un cittadino perplesso, puntata del 27 giugno 2009 con il titolo “Siamo una regione di asini?”, Alberto di Caporiacco indaga sulla bocciatura del 72 per cento dei candidati agli esami di abilitazione alla professione di avvocato (sessione Corte d’Appello di Trieste).
«Esami di abilitazione alla professione di avvocato. Sessione svolta presso la Corte di Appello di Trieste. 72% di bocciati. Evidentemente c’è qualche cosa che non va. Ed allo proviamo ad indagare. Noi abbiamo due università in questa regione. Quella di Trieste di vecchia data e quella di Udine. Entrambe godono di facoltà di giurisprudenza tra le migliori d’Italia. Ma anche gli studi degli avvocati di questa regione sono tra i migliori d’Italia. Almeno così si dice. Che se poi a ben vedere non è che in questa regione si celebrino processi particolarmente eclatanti. Quindi sulla preparazione dei nostri futuri avvocati non ci dovrebbe essere alcun dubbio. Ma allora perché questa falcidia di bocciati. E perché invece in altre regioni d’Italia le promozioni, le abilitazioni alla professione di avvocato sono maggiormente facili. Si dice, non abbiamo in questo momento dei numeri ma ce li procureremo. Poi magari saranno oggetti di una prossima trasmissione, che nelle altre regioni d’Italia sia estremamente più facile ottenere questa abilitazione professionale. In questo discorso se ne potrebbe inserire. Ma qualcuno non aveva detto che tutti gli Ordini professionali avrebbero dovuto essere aboliti e che la gente avrebbe dovuto dimostrare sul campo le proprie capacità professionali. Cioè non esibendo il famoso e famigerato pezzo di carta. Ma naturalmente, anche tutto ciò, ovvero la riforma delle libere professioni è ancora al di la da venire in questo Stato italiano. Stato italiano dove però il federalismo, come abbiamo visto, si applica a meraviglia. Perché nella regione Friuli Venezia Giulia il Distretto della Corte d’Appello di Trieste 72% di bocciati all’esame di abilitazione professionale di avvocato, in altre regioni d’Italia, invece, promozioni facili. Ma allora cosa vuol dire questo, Vuol dire che noi vogliamo essere severi, ma in realtà finiamo con il non aiutarci. Perché se in altre regioni c’è qualcuno che applica le leggi ed i regolamenti in maniera più leggera, succederà come succede per esempio per esempio nella composizione della attuale Corte Costituzionale, dove su 15 giudici, ce ne nove della regione Campania. Avete sentito veramente bene: 9 giudici su 15. E’ possibile che una regione sola del meridione d’Italia rappresenti oltre la metà dei giudici della Corte Costituzionale? Evidentemente no! Ma è in forza di ragione come queste che noi dobbiamo porci delle domande: se questo Stato italiano effettivamente tutela allo stesso modo tutte le regioni d’Italia.»
Ma non quello che ha detto in quella sede è oggetto di meritoria attenzione, ma di quello che al tapino è capitato successivamente e con questo non si vuol dire che sia direttamente collegato.
Da “Il Giornale del Friuli” si legge: “Non è dato quindi formulare nei suoi confronti una prognosi di reinserimento sociale”. Ma lui, Alberto di Caporiacco, dirige il giornale. Il Tribunale di Sorveglianza di Trieste, in data 20 maggio 2014, nelle persone della dott.ssa MARIANGELA CUNIAL, Presidente relatore; dott.ssa EMANUELA BIGATTIN, Giudice; dott.ssa FULVIA PRESOTTO, Esperto; dott. ANTONINO RIOLO, Esperto, ha pronunciato l’ordinanza n. 530/2014 che, a soli 8 giorni dal fine pena, ha negato l’affidamento al servizio sociale del direttore di questo quotidiano on line ALBERTO di CAPORIACCO, privato della propria libertà personale dal 27 febbraio 2013 al 28 maggio 2014.
“Alberto di Caporiacco, direttore del Giornale del Friuli, distillato di polemica locale sul web”, scrive Guido Mattioni su “Il Giornale”. Quel “Giornale” che quando trattavasi delle vicende penali del suo direttore Alessandro Sallusti minacciava fuoco e fiamme, o si stracciava le vesti per i guai giudiziari del suo riferimento politico Silvio Berlusconi.
E’ noto che Alberto di Caporiacco è stato privato della propria libertà personale dal 27 febbraio 2013 al 29 maggio 2014. Costretto addirittura in carcere per 22 giorni, il 20 marzo 2014 è stato posto “in applicazione pena presso il domicilio” con gravissime restrizioni, scrive Marco De Agostini su “Il Giornale del Friuli”. L’Ordinanza redatta dal Magistrato di Sorveglianza di Udine dott.ssa Lionella Manazzone, infatti, prevedeva che Alberto di Caporiacco potesse allontanarsi dal domicilio, previo avviso ai Carabinieri di Majano preposti alla vigilanza, una volta alla settimana per un massimo di due ore senza poter abbandonare il territorio comunale (Colloredo di Monte Albano) per le “normali esigenze di vita quotidiana”. Il tutto essendo direttore responsabile di un diffuso quotidiano on line nonché esponente politico. Veniamo ora a valutare come colleghi della dott.ssa Manazzone si sono atteggiati nei confronti di altre due personalità note al pubblico mediatico, ovvero l’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi e Anna Maria Franzoni, cito queste, fra le tante, solo per la loro maggiore “notorietà”. Il primo, condannato definitivo tal quale di Caporiacco, nonostante continui a criticare con parole taglienti la magistratura, sostenendo di esserne un perseguitato, è stato immediatamente affidato al servizio sociale. Risulta (dalle cronache dei giornali) essersi recato soltanto una volta o due a svolgere il proprio ufficio presso una comunità di malati di Alzheimer. Può liberamente spostarsi su tutto il territorio nazionale, fare la spola tra Roma e Milano, gli è stato consentito di fare campagna elettorale e ha come unico obbligo quello di rientrare a casa per le ore 23. Si ha notizia di un unico controllo notturno compiuto presso il suo domicilio per verificare l’osservanza delle prescrizioni e di questo blitz, peraltro compiuto con molta discrezione, hanno parlato diffusamente i giornali. Anna Maria Franzoni, secondo la giustizia italiana rea del più orribile dei crimini (aver ucciso un suo figlio), sconterà la parte residua della pena a casa potendosi allontanare addirittura per quattro ore al giorno dal domicilio per le stesse esigenze di vita quotidiana che per di Caporiacco dovevano essere veramente minimali, posto che la proporzione è di 14 a 1 in favore di Anna Maria Franzoni. Quest’ultima infatti può uscire 4 ore x 7 giorni alla settimana, di Caporiacco poteva uscire 2 ore x 1 giorno alla settimana. Non solo: la Franzoni potrà spostarsi liberamente all’interno del territorio della provincia di Bologna; di Caporiacco era confinato all’interno del comune di Colloredo di Monte Albano. Franzoni è una assassina certificata dalla giustizia italiana, di Caporiacco no. Ma per il Magistrato di Sorveglianza di Udine dott.ssa Lionella Manazzone era più pericoloso di un assassino. Last but not least: nell’imminenza delle elezioni amministrative 2014 intendevo affidare, in qualità di segretario politico del Movimento Friuli, compiti a di Caporiacco per la predisposizione di eventuali liste e candidature. Gli dissi di sondare la magistratura di sorveglianza alla quale personalmente inviai una richiesta. La risposta, per il tramite di una assistente sociale dell’Ufficio esecuzioni penali esterne di Udine, fu negativa: le particolari modalità di applicazione della pena escludevano qualsiasi attività consimile affidata al di Caporiacco. Da cittadino italiano mi pongo questa domanda e la pongo ai lettori di questo giornale: vi pare ancora giustificata la scritta “la legge è uguale per tutti” che campeggia nelle aule di giustizia. Forse che si debba aggiungere un “tutti non sono uguali per la legge”? Io, che conosco bene Alberto, aggiungo una cosa: se l’intento è quello di farlo passare per un pericoloso criminale, ( per aver dubitato della “correttezza politica degli allora Vertici della Regione!”) non solo non ha colto nel segno, ma lui ora se ne fa persino un vanto e, regolati i suoi conti con la giustizia, se la ride. Il fatto è che la giustizia dovrà probabilmente aspettarsi che sia di Caporiacco, un domani, a presentare il conto.
Alberto di Caporiacco, noto politico autonomista e responsabile del “Giornale del Friuli”, è stato arrestato il 27 febbraio 2013 dai carabinieri nella sua abitazione di Colloredo di Monte Albano, scrive Anna Rosso su “Il Messaggero Veneto”. I militari si erano recati in via Braide Bernart per eseguire un ordine di carcerazione emesso dal tribunale di Trieste per una condanna a un anno e sei mesi di reclusione per reati di calunnia e falso legati a vicende elettorali. Personale della stazione di Majano e del Nucleo investigativo ieri mattina intorno alle 10 ha suonato più volte il campanello di Di Caporiacco dopo averlo visto uscire per un attimo e subito rientrare. I carabinieri, insomma, sapevano che era in casa, ma nessuno veniva ad aprire. Da quanto si è appreso dai carabinieri, la condanna “iniziale” emessa nei confronti dell’esponente autonomista era pari a 4 anni e 6 mesi che poi, a seguito dell’indulto, sono stati ridotti appunto a un anno e 6 mesi. Periodo che il politico avrebbe potuto trascorrere ai domiciliari in base al decreto “svuotacarceri” che prevede tale possibilità in presenza di determinate condizioni e per periodi inferiori ai due anni. In sintesi, i carabinieri avrebbero dovuto verificare l’idoneità del domicilio e acquisire il consenso dei familiari. I militari, non riuscendo ad effettuare questi accertamenti perchè materialmente non sono mai stati ricevuti, hanno segnalato la situazione all’Autorità giudiziaria la quale, allora, ha disposto l’arresto. Arresto che, come detto, è stato eseguito ieri, nel pomeriggio, grazie alla collaborazione dei familiari di Di Caporiacco. Dopo il tentativo della mattina andato a vuoto, i carabinieri sono tornati verso le 16 e si sono incontrati con la moglie con la quale avevano avuto poco prima un contatto telefonico. La signora ha chiesto di poter entrare prima da sola per parlare qualche minuto al marito. Poi non è più uscita, ma ha aperto la porta ai carabinieri. Adesso Di Capopriacco si trova in carcere. Nelle prossime ore, con tutta probabilità, i suoi legali - gli avvocati udinesi Campanotto e Franceschinis - chiederanno una misura meno afflittiva, i domiciliari appunto. In via Braide Bernart, ieri pomeriggio, è giunta anche una squadra di vigili del fuoco. Su disposizione della Procura della Repubblica di Udine, infatti, i carabinieri erano stati autorizzati ad entrare con la forza. Ciò non è stato necessario grazie alla “mediazione” della moglie. Degli stessi reati di calunnia e falso era stato accusato, ai tempi, anche un altro politico autonomista, Marco De Agostini «assolto già anni fa per non aver commesso il fatto», come lui stesso racconta. «Dopo l’esclusione dalle elezioni del 2003 avevamo denunciato irregolarità nei documenti di altri partiti - ricorda -, compresi quelli che hanno portato al governo Illy e la sua giunta. Ad un certo punto, ci è stato detto che mancava un certificato elettorale. Documento che invece noi avevamo presentato e che poi è rispuntato al Consiglio di Stato, a Roma. L’accusa verso di noi è che avremmo usato in quell’occasione un altro certificato».
Sull’arresto di Alberto Di Capiriacco, Marco De Agostini, scrive a Omar Monestier sul “Messaggero Veneto”., che gli lascia la parola ed anticipa: «Questa che segue è la sua valutazione. Annoto che essa è di parte, visto che è coinvolto nella vicenda. Aggiungo che trovo inquietante che una persona finisca in galera per un reato del genere. Ma mi corre l’obbligo di osservare che il mio amico di Caporiacco ha fatto di tutto per andarci. Ha evitato di porre in essere tutte le tutele che pure gli sarebbero state concesse se le avesse chieste (affidamento ai servizi sociali o arresti domiciliari). Se solo avesse aperto la porta ai carabinieri ora non si troverebbe in questo pasticcio. Non so se Alberto puntasse a questo risultato o se sia solo stato travolto dal suo ribellismo. Ce lo racconterà lui, se vorrà. E’ comunque un brutto momento per lui e la sua famiglia e spero che lo superi rapidamente.»
“Alberto di Caporiacco ha avuto il torto originale di presentare insieme al Segretario del Movimento Friuli Marco De Agostini una serie di ricorsi e di richiesta di annullamento delle elezioni regionali del 2003 , motivando, producendo prove circostanziate (40.000 fogli di fotocopie di tutte le liste presentate ed ammesse alle elezioni di quell’anno dove venivano sottolineate e richiamate tutte le nefandezze, irregolarità, falsità in atti palesemente emerse). Al TAR dopo tre udienze dove né i magistrati né i difensori della Regione ebbero da eccepire sulla idoneità dei ricorrenti e sulla procedura di presentazione, improvvisamente il relatore si accorse che i ricorrenti avevano omesso di allegare i loro certificati di iscrizione nelle liste elettorali di un comune della regione, requisito essenziale per inoltrare il ricorso. I ricorrenti confutarono l’addebito sostenendo che i certificati erano stati regolarmente depositati insieme alla documentazione. Il TAR non sentì ragioni e dichiarò improponibili i ricorsi. De Agostini e Di Caporiacco più che certi di aver presentato i certificanti e non ritenendo che questi potessero aver messo le ali, imputarono il loro smarrimento agli uffici del TAR. Ed in ragione di ciò presentarono ricorso al Consiglio di Stato che a seguito delle sedute del 14.11.e 30.11.2004 dette ragione ai ricorrenti ed impose al TAR di Trieste di riesaminare i ricorsi. Il TAR con infiniti pretesti rinviò le udienze fino ad ottobre 2005 quando ci fu l’ultimo colpo di scena a sorpresa degli avvocati della regione, che annunciarono che i loro rappresentati Tesini, Presidente del Consiglio ed Illy Presidente della Giunta avrebbero denunciato De Agostini e Di Caporiacco per falso e calunnia a proposito dei ricorsi in giudizio. Poiché in presenza di azioni penali sulla materia del contendere ha precedenza il procedimento penale, il TAR deve sospendere il procedimento amministrativo. Risultato raggiunto, ricorsi bloccati!! Il procedimento penale si protrasse sino a gennaio del 2007 dove gli “imputati di simulazione di reato e di falso De Agostini e Di Caporiacco” furono assolti perché il fatto non sussiste e venne dichiarato il ” non luogo a procedere nei confronti di entrambi gli imputati perché il fatto non costituisce reato”. ( il GUP dr. Raffaele Morvay) Di Caporiacco fu rimandato, con separato decreto, ad altro dibattimento per calunnia nei confronti di Tesini ed Illy solo per aver “adombrato” il “cui prodest” dei rinvii e delle sparizioni e riapparizioni di documenti che impedivano al TAR di andare a sentenza sulle illegalità denunciate e documentate e per aver indicato nei “vertici della Regione” gli autori morali del ……..documento sparito e ricomparso”. Pare che a causa di questa incauta affermazione, tutt’altro che peregrina ! ma lesiva di tante autorità (Tesini ed Illy) Di Caporiacco, dopo 10 anni si sia beccato una condanna di quattro anni e mezzo, ridotti per indulto ad uno e mezzo, l’ arresto presso il domicilio e sia finito in carcere come un criminale.. La casta, non contenta di averla fatta franca all’epoca, è riuscita a colpire, a distanza di anni, a titolo preventivo. Marco De Agostini”.
Alberto di Caporiacco passa all’attacco: “Dopo essere stato ostaggio, innocente e non condannato definitivo, della giustizia italiana, ora la giustizia italiana mi sequestra il certificato penale, rifiutandosi di consegnarmelo”, scrive “Il Giornale del Friuli”. L’immagine ritrae il nostro direttore Alberto di Caporiacco, definito “non socialmente reinseribile” dal Tribunale di Sorveglianza di Trieste con ordinanza 20.5.2014, esibire l’accredito stampa ottenuto come direttore del nostro quotidiano on line per partecipare al concerto di Redipuglia diretto dal maestro Riccardo Muti. Con buona pace, appunto, del Tribunale di Sorveglianza di Trieste. Ma ora, oltre al danno subito da di Caporiacco, privato per la libertà per 15 lunghi mesi nonostante fosse clamorosamente innocente, c’è la beffa. Non gli consegnano il certificato penale perchè questo documenterebbe l’intervenuta privazione della libertà sine titulo, ossia prima della definitività della condanna.
Alberto di Caporiacco, autonomista e direttore de “Il Giornale del Friuli”, passa al contrattacco. Dopo essere stato privato della libertà personale per 15 lunghi mesi, dal 27 febbraio 2013 al 28 maggio 2014, non può dirsi soddisfatto della ‘liberazione anticipata’ pari a 90 giorni concessagli dal Magistrato di Sorveglianza di Udine dott.ssa Mariangela Cunial con provvedimento 13 marzo 2014. “Si tratta – commenta di Caporiacco – di un ‘provvedimento di mera routine’ che è concesso a tutti coloro i quali abbiano dimostrato un contegno rispettoso delle prescrizioni. Il problema è un altro ed è gravissimo: sono ormai tre mesi che sto cercando di ottenere, dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Udine (circoscrizionalmente competente per residenza) e da quella presso il Tribunale di Trieste (competente per il procedimento penale da cui è conseguita la mia condanna) un mio certificato penale. Documento che spetta di diritto a qualsiasi cittadino lo richieda e che deve riportare, con analitica precisione, tutte le iscrizioni riguardanti la condanna, a cominciare dalla sua data di irrevocabilità”. Già, perché qui sta il problema dei problemi. Alberto di Caporiacco è infatti convinto (gli manca la matematica certezza che sarebbe fornita, appunto dalle iscrizioni temporali presenti sul certificato penale che reiteratamente l’Autorità Giudiziaria da tre mesi si rifiuta di rilasciargli) di essere stato privato della libertà personale con un provvedimento abnorme, prima che la condanna fosse divenuta definitiva. “Io ho varcato la soglia del carcere di via Spalato (e anche qui ci sarebbe molto da dire) – chiosa di Caporiacco – per scontare una condanna asseritamente definitiva il 27 febbraio 2013. Peccato che la Cassazione si sia pronunciata, in fase di terzo grado di giudizio, soltanto il 21 novembre 2013.” “Non sta a me – aggiunge di Caporiacco – affermare se quanto ho subito sia stato una sorta di improprio ‘sequestro di persona’. Sarà l’Autorità Giudiziaria a stabilirlo. Sta di fatto che il mio certificato penale, che contiene ‘date inconciliabili tra loro’, è di fatto mantenuto da tre mesi in ostaggio da chi, per legge, è obbligato a consegnarlo dietro semplice richiesta del cittadino.” Ma molto da dire ha di Caporiacco anche sulla condanna subita. “Non ho mai commesso i reati che mi sono stati addebitati. Il documento asseritamente falsificato non l’ho nemmeno mai avuto in mano e quindi non si capisce come avrei potuto alterarlo. Mancava qualsiasi mio interesse specifico, non giovando lo stesso alla mia posizione processuale nell’ambito di un ricorso elettorale presentato al Consiglio di Stato da altre due persone oltre a me che non sono state minimamente indagate per il reato di falso e che, di fatto, avrebbero avuto lo stesso se non maggior interesse all’alterazione del documento.” “Quanto alla calunnia, qui si rasenta l’assurdo. Sono stato assolto per simulazione di reato. La simulazione di reato è allorquando uno simula le tracce di un reato perché si inizi un procedimento penale per accertare chi lo abbia commesso. La calunnia è una qualificazione ulteriore della simulazione di reato perché, oltre ad essere stato simulato il reato, il simulatore accusa taluno, che sa innocente, di averlo commesso. Ne consegue che, se il reato non è stato simulato e c’è una sentenza del GIP Tribunale di Trieste dott. Raffaele Morvay a testimoniarlo, la calunnia è reato impossibile.” Da ultima, la sfida. “Chiunque può contattarmi e ottenere una delega per andare in Procura a ritirare per mio conto il certificato penale. Se lo otterrà, provvederò non solo a ringraziarlo ma, ovviamente, a rimborsarlo dell’importo delle marche giudiziarie pari a 19,68 euro. A me non lo consegnano. Magari qualcuno è più fortunato di me…” E chiude: “Vado avanti sino in fondo, con la tranquillità di un caterpillar”.
«Presenterò un esposto contro i magistrati». Preannuncia su “Il Messaggero Veneto” un esposto nei confronti dei magistrati in servizio nel distretto Corte d'Appello di Trieste Alberto di Caporiacco, noto politico autonomista e responsabile del "Giornale del Friul". Dopo essere stato privato della libertà personale dal 27 febbraio 2013 al 28 maggio 2014 in seguito a una vicenda che lo vedeva condannato per reati di calunnia e falso, di Caporiacco parte all'attacco. «Fui condannato in primo grado il 19 maggio 2008 – racconta –. Il mio difensore d'ufficio propose appello. Il 23 aprile 2009 la Corte d'Appello di Trieste giudicò tardivo l'appello ma quell'ordinanza non mi fu notificata. A questo punto – continua – il cancelliere della CdA iscrisse "irrevocabile il 6 luglio 2009" in calce all'ordinanza. Ciò provocò l'irrevocabilità della condanna di primo e unico grado e io mi vidi raggiunto da un ordine di carcerazione temporaneamente sospeso per permettermi di chiedere l'applicazione delle pene alternative con istanza al tribunale di Sorveglianza di Trieste il 25 ottobre 2010» L'arresto da parte dei carabinieri risale al 27 febbraio. «Sono rimasto in carcere fino al 20 marzo – riassume –, quindi è stata disposta l'applicazione della pena presso il domicilio sino al 26 agosto 2014, poi è stato applicato l'istituto della liberazione anticipata con fine pena effettiva al 28 maggio 2014 e, da quella data, a Dio piacendo, sono libero. Ritornato a casa il 20 marzo ho ottenuto permessi per visionare gli atti presso gli uffici giudiziari di Trieste». Scoprendo alcune incongruenze negli incartamenti Di Caporiacco ha proposto un procedimento contro i carabinieri. Il 13 aprile 2013 Di Caporiacco ha presentato un'impugnazione dell'ordinanza della Corte d'Appello di Trieste a quattro anni di distanza dal pronunciamento. «La Cassazione VI sezione penale in data 21 novembre 2013 ha giudicato tempestivo il mio atto di impugnazione – continua Di Caporiacco – quindi mi chiedo se il giorno del mio arresto la sentenza fosse definitiva». Ora Di Caporiacco sta lottando per avere il proprio certificato penale per verificare se la condanna era definitiva e se sì da quale data. Ci prova da tre mesi, per ora senza successo.
E’ rilevante sottolineare il fatto che Alberto di Caporiacco quando a sua volta ha presentato querela non ha avuto identico riscontro.
CAMERA DEI DEPUTATI Doc. IV-ter, N. 25-bis-A. RELAZIONE DELLA GIUNTA PER LE AUTORIZZAZIONI A PROCEDERE IN GIUDIZIO (Relatore: CARMELO CARRARA) SULLA RICHIESTA DI DELIBERAZIONE IN MATERIA DI INSINDACABILITA`, AI SENSI DELL'ARTICOLO 68, PRIMO COMMA, DELLA COSTITUZIONE, NELL'AMBITO DI UN PROCEDIMENTO PENALE NEI CONFRONTI DELL’ONOREVOLE MOLINARO (deputato all’epoca dei fatti) per concorso ai sensi dell’articolo 110 del codice penale nel reato di cui all’articolo 595, primo e terzo comma, dello stesso codice in relazione alla legge 8 febbraio 1947, n. 48 (diffamazione col mezzo della stampa). TRASMESSA DAL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI PRESSO IL TRIBUNALE DI UDINE E PERVENUTA ALLA PRESIDENZA DELLA CAMERA il 24 maggio 1996
Presentata alla Presidenza l’8 ottobre 1997
Atti Parlamentari n. 1 Camera dei Deputati
XIII LEGISLATURA DISEGNI DI LEGGE E RELAZIONI DOCUMENTI
ONOREVOLI COLLEGHI ! La Giunta è stata chiamata ad esaminare la richiesta di deliberazione in materia di insindacabilità, ai sensi dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione, nell’ambito di un procedimento penale pendente nei confronti dell’onorevole Paolo Molinaro, deputato all’epoca dei fatti. La citata richiesta è stata trasmessa dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Udine ed è pervenuta alla Presidenza della Camera il 24 maggio 1996. I fatti possono così sintetizzarsi: con esposto-querela del 30 giugno 1994 Alberto Di Caporiacco, assessore ai beni culturali del comune di Udine, lamentava di essere stato diffamato a mezzo stampa dall’onorevole di Forza Italia Paolo Molinaro in quanto nel corso di un’intervista rilasciata il 20 aprile 1994 al Messaggero Veneto, il Molinaro, rappresentante friulano del partito forzista, definiva il Di Caporiacco “un millantatore... con il quale non vi sarà alcun contatto politico... con i protagonisti del passato regime non ci può esser alcun incontro. Quindi escludo un contatto con lui. Evidentemente questo signore sogna e poi spera”. In esito alle indagini preliminari il giudice per l’udienza preliminare, a seguito dell’eccezione sollevata dall’onorevole Molinaro, ai sensi dell’allora vigente decreto legge n. 253 del 1996, sospendeva il procedimento disponendo la trasmissione di copia degli atti del procedimento alla Camera dei deputati. Ciò premesso, appare indubbio che la frase censurata dal querelante è stata proferita dal parlamentare Molinaro nell’esercizio divulgativo delle sue funzioni parlamentari, in qualità di rappresentante friulano del partito di Forza Italia, e in un preciso contesto politico. Ciò può essere argomentato in base al fatto che con l’intervista rilasciata al Messaggero Veneto, Molinaro, nell’esercizio del suo mandato rappresentativo e del suo incarico partitico, intendeva smentire le precedenti dichiarazioni che il Di Caporiacco aveva attribuito allo stesso parlamentare, nel senso di un orientamento favorevole all’ingresso del medesimo Di Caporiacco nel partito di Forza Italia. Pertanto le parole pronunciate nell’ambito dell’intervista sono da considerarsi espressione del mandato politico ed istituzionale del Molinaro, essendo dettate dalla necessità di rettificare l’opinione che l’affermazione del Di Caporiacco poteva ingenerare nell’elettorato, nel senso di un reale interesse di Forza Italia ad accogliere il querelante nelle proprie file. Alla stregua di quanto sopra esposto, la Giunta ha ritenuto alla unanimità di proporre all’Assemblea di deliberare che il fatto ascritto all’onorevole Molinaro rientri tra quelli per cui e` prevista l’insindacabilità a norma dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione. Carmelo CARRARA, Relatore.
Ciò tende a dimostrare che chi si ribella non caverà un ragno dal buco, anzi sarà vittima degli strali dei potenti. Ma bisogna ribellarsi. Ci si batte non per sè, ma affinchè quello che succede a noi non accada ai nostri figli.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
Oliviero Toscani, intervenendo alla trasmissione radiofonica "La Zanzara" su Radio 24, ha definito i veneti «un popolo di ubriaconi e alcolizzati. Poveretti, non è colpa loro se nascono in Veneto». «I veneti sono un popolo di ubriaconi - ha proseguito Toscani - Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». «Poveretti i veneti - ha ribadito - non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino. Basta sentire l’accento veneto: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino».
Oliviero Toscani e le offese ai veneti. Un pasticcio geografico da risolvere con le scuse. A «La zanzara» su Radio24 ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri». Il presidente del Veneto: «Chieda scusa», scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Si chiama Toscani, è lombardo e ha fatto incavolare i veneti: bel pasticcio geografico. A «La zanzara» su Radio24 - il programma dovrebbe chiamarsi «Il ragno», visto quanti ne cattura nella sua rete - ha detto: «I veneti sono un popolo di ubriaconi. Alcolizzati atavici, i nonni, i padri, le madri (...) Poveretti i veneti, non è colpa loro se uno nasce in quel posto, è un destino (...) Basta sentire l’accento: è da ubriachi, da alcolizzati, da ombretta, da vino». Perché lo ha fatto? Pensava di essere spiritoso. «Era una battuta divertente. Se gli unici a non divertirsi sono alcuni veneti, mi dispiace». Divertente? Mettiamola così: il fotografo Oliviero Toscani è più bravo con gli occhi che con la lingua. E l’umorismo sballato è un’aggravante, non un’attenuante. Infatti, in Veneto, sono partite proteste, querele, class action, dichiarazioni politiche (quelle non mancano mai). Significa che è vietato scherzare su nazioni, regioni, città? Certo che no. Vuol dire, come sostiene la correttezza politica, che «i caratteri dei popoli sono un’invenzione, ed esistono solo le persone»? Macché. Gli ambienti - la storia, la geografia, l’economia, la cultura - condizionano i comportamenti. Esiste un comun denominatore tedesco, come esiste un comun denominatore americano, russo, italiano. Chi lo nega è in malafede. E tra noi italiani esistono i lombardi, i toscani, i siciliani. I primi tendono all’entusiasmo, i secondi alla tattica, i terzi all’attesa. Come Berlusconi, Renzi, Mattarella. Come riassunto dell’elezione del presidente della Repubblica, vi piace? O è banale? Be’, comunque nessuno s’è offeso: non a Milano, non a Firenze, non a Palermo. Per un motivo semplice: lombardi, toscani e siciliani mi piacciono. Mi piace il fatto che esistano italiani diversi. E s’è capito anche in poche righe. Cosa sto cercando di dire? Una cosa semplice. Mai parlare, mai scrivere, mai giudicare pubblicamente un popolo, se non gli vuoi bene. Mai scegliere l’umorismo se non sei certo di saperlo maneggiare. L’ironia è la sorella laica della misericordia; il sarcasmo, il fratello odioso dell’intelligenza. Una sintesi affettuosa è consentita, gradita e utile. Una generalizzazione acida è inopportuna, sgradita e insidiosa. Oliviero Toscani, che non è né cattivo né sciocco, dovrebbe averlo capito. Chieda scusa e finiamola qui. Ostrega!
«Veneti ubriaconi», denunciato Toscani e sul web impazza la satira, scrive”Il Gazzettino”. Alcuni tribunali hanno ricevuto oggi esposti e ricorsi contro il fotografo Oliviero Toscani per le offese ai veneti definiti "Un popolo di ubriaconi, dei poveretti" , ma anche politici di vario colore si stanno attivando con iniziative: «Non può rimanere impunito, la giunta Zaia deve chiedere il rispetto della legge Mancino che punisce, anche col carcere, chi con azioni o dichiarazioni fa discriminazioni per motivi razziali, etnici o religiosi» attacca il consigliere regionale Giovanni Furlanetto del Gruppo Misto, che ha presentato un'interrogazione urgente «È necessario che la giunta difenda il proprio popolo, l'immagine che Toscani ha voluto dare è distorta e mirata a screditare un Popolo. Forse aveva bevuto prima di esternare tali pensieri verso una delle regioni più laboriose ed ingegnose d'Europa». Tornando agli aspetti legali a Padova mezza dozzina di cittadini si sono sentiti particolarmente offesi dalle dichiarazioni dell'ex pubblicitario del gruppo Benetton e ha chiesto un risarcimento danni. L'avvocato Giorgio Destro assiste Renza Pregnolato, interprete, una 59enne, nativa di Vescovana ma residente a Padova e spiega: «Abbiamo già presentato una citazione a giudizio per Toscani a comparire di fronte al Giudice di Pace, chiedendo 5 mila euro di risarcimento per danni morali per ingiuria e diffamazione - dice l'avvocato Destro - Se alla causa, che potrebbe essere discussa il 16 aprile prossimo, si aggiungeranno altre persone si può valutate una class action». Naturalmente ironie, satira e commenti stanno inondando il web.
Oliviero Toscani insiste: "Nessuna scusa ai veneti ''ubriaconi'', loro chiamano terroni i meridionali". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti..., scrive “Radio 24”. Toscani: "Non chiedo scusa ai Veneti, le ricerche mi danno ragione". Non molla e non chiede scusa Oliviero Toscani che ai microfoni della Zanzara su Radio 24 rincara la dose dopo aver dato degli "ubriaconi" ai veneti: "Non devo chiedere scusa, non ho detto niente di male. Ci sono anche ricerche e statistiche. Il Veneto era una regione poverissima e l'unica ricchezza era la medicina, il vino e la grappa che si dava anche ai bambini per curarli. Un alcolismo atavico". "Chiedo scusa per loro dice Toscani ironicamente per quelli che non hanno capito la satira". Il governatore Zaia pretende le scuse, insistono i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo: "Zaia non ha niente da fare (no ga gnente da far, benedetto, dice Toscani in dialetto, ndr) se si cura di una stupidata così. Ci rida sopra. E poi alzi la mano un veneto che non ha mai dato del terrone a un italiano del sud. Ditemi un veneto che non ha mai insultato un nero o un immigrato. Vi ricordate di Gentilini?". "Non penso di aver offeso nessuno spiega ancora il fotografo a Toscani: "Alzi la mano un veneto che non ha mai insultato il Sud o gli immigrati. Ho detto una cosa banale e scontata, un po' di senso di humor, dai. Una volta era un popolo che rideva, adesso hanno la coda di paglia. Forse si sono offesi perché quello che ho detto è un po' vero. Ho letto anche che dovrei sciacquarmi la bocca, sì ma col prosecco". Ma lei ha lavorato tanto tempo con aziende venete, sputa nel piatto dove ha mangiato?: "Che storia questa. Ho lavorato e se non fossi stato bravo non mi avrebbero pagato. Li ho fatto diventare famosi, anche per prodotti in cui i veneti non sono forti. Ho lavorato seriamente, cosa devo ringraziare?".
La mia amica terrona e la paura della Polentonia. Ho un’amica di origini terrone che vive a Milano, scrive “Marteago”. Per motivi di lavoro si dovrebbe spostare in Veneto. La sapete la sua preoccupazione? Ha paura del razzismo dei veneti nei confronti dei terroni. La cosa mi ha fatto pensare. Ma noi polentoni siamo davvero così cattivi? Peggio dei milanesi? La risposta é sì e anche no. Cioé dipende. C’é sicuramente del risentimento del veneto lavoratore che paga le tasse e se le vede sperperare da Roma che li passa a dei brutti soggetti al Sud. C’é anche una forte differenza culturale. Diciamoci la verità. Siamo popoli diversi. L’Italia é un’arlecchino messo assieme a forza. Un napoletano con un veneto centra tanto quanto un veneto con un austriaco. E’ ovvio: l’Austria é più vicina. Mi permetto di fare questa analisi in virtù della mia visione mondiale dei popoli. Cioé viaggio molto, vedo molti popoli, passo le frontiere e mi rendo conto di come spesso queste frontiere non corrispondano con le vere frontiere dei popoli. In Italia, se volessimo avere delle frontiere reali, ce ne sarebbe una dalle parti di Roma. Staremmo meglio noi, e starebbero meglio anche loro, che sono in gran parte vittime della Cassa del Mezzogiorno. Insomma, motivi per non amarci ce ne sono molti. Però…dobbiamo fare uno sforzo e capire un concetto fondamentale: il singolo non può essere ritenuto responsabile delle colpe collettive. Non possiamo incolpare il mio amico Jack di Shanghai del fatto che in Cina c’é la pena di morte. Non possiamo incolpare una ragazza rumena del fatto che ci sono i Rom che rubano. Non possiamo incolpare il Fullio del fatto che la gran parte dei politici sono dei brutti soggetti. Frasi inutili: é sempre più semplice generalizzare. Almeno all’inizio. Qui sta in effetti la soluzione. Ho detto alla mia amica che se viene in Veneto la gente che conoscerà la tratterà bene, perché é una brava ragazza. Ci saranno sicuramente delle situazioni poco simpatiche: la cassiera al supermercato che appena sente il suo accento scende di tre gradi centigradi e le crescono le unghie, il benzinaio ignorante e leghista che sfoga la sua frustrazione facendo cadere una goccia della benzina sulle sue scarpe da terrona pagate con le sue tasse e così via. Ma ci sarà anche gente che le vorrà bene, nuove amicizie e situazioni simpatiche. Non sarà sempre facile. Mi sono permesso di usare il termine “terrona” proprio per svuotarlo dell’accezione negativa. Noi siamo polentoni e loro terroni. Domani vado a Riga con quattro catanesi, quindi non posso essere accusato di niente. Voi cosa ne pensate? Avete esperienze al riguardo? E se chi legge é del Sud..come siamo noi veneti? Che difficoltà ci sono per chi viene da fuori? Perché siamo brava gente in fondo, o no?
Toscani, lettera di scuse a Zaia, «Ma dentro di me confermo tutto». Il fotografo risponde al governatore: sono lombardo e atavicamente leghista, come voi ho nell’anima il sentore di latte vaccino e quella voglia naturale di non pagare le tasse, scrive “Il Corriere del Veneto”.
«Caro Signor Presidente, Le scrivo con l’ansia e la fretta del Suo ultimatum di 48 ore che pende sulla mia testa. Deve riconoscere, Presidente, che persino le ingiunzioni dell’Isis lasciano 72 ore alla risposta. Premesso ciò, le dico che ho una cosa in comune con la lega: l’amore per le cose colorite. Sono leghista atavicamente, essendo lombardo. Ho anch’io, dentro di me, le due anime tipiche dei padani, che sotto l’illuminismo di Cesare Beccaria e Pietro Verri nascondono questo sentore del latte vaccino (che è l’alito della lega) e di quel localismo rurale che è fatto di terra, di cielo, di laghi, di nuvole, di paesaggio, di cibo, di vino; ma anche di naturale voglia di non pagare le tasse, di tenere tutto per sé, di non essere solidali, di essere intolleranti, di mettere i cani da guardia ai cancelli di ferro battuto della propria villetta a schiera, per azzannare chiunque sia diverso: “Va ben el mat in piaza, ma che non sia dea mia raza”. Purtroppo, da tanti anni, io non sono più completamente della Vostra “Razza”, deve capire che io ormai sono toscano di fatto, oltre che di nome, e sono sicuro che se avessi fatto questa battuta ai miei conterranei, saccenti e saputelli come siamo, mi avrebbero subito citato Baudelaire e il suo “Per non essere gli schiavi martirizzati del Tempo, ubriacatevi, ubriacatevi sempre!”. Perché proprio così, siamo noi Toscani, sempre ubriachi di virtù, di poesia, di bellezza. E di vino. Però, il Vostro linguaggio, mi piace ancora, perché è eccessivo, iperbolico, espressionista, colorato; un linguaggio che morde e non accarezza, in una parola sola: un linguaggio, secondo me, atavicamente ubriaco. Quindi chiedo ancora scusa a Lei, che è il Presidente di tutti i Veneti astemi, degli alcolisti sobri e dei bevitori moderati per il linguaggio un po’ leghista che ho usato per fotografare i miei simpatici amici del Veneto. Nella sostanza, però, dentro di me, confermo tutto. Perché c’è un rapporto forte tra territorio, aria, fuoco, odori, saperi e sapori, sapori veneti come la polenta, il fegato alla veneziana, il baccalà alla vicentina, risi e bisi, il risotto alla trevigiana, e le bolle acide del Prosecco, l’alcolicità dell’Amarone, la tossicità del Clinto, la bella inconsistenza del Valpolicella, il tannino del Recioto di Soave, l’amarezza del Bardolino, l’asciuttezza del Pinot, il verdognolo del Verduzzo. Caro Presidente, ogni volta che La vedo, scorgo nella Sua faccia la gentilezza sotto l’asprezza, e l’asprezza sotto la gentilezza. Quindi, mi scusi e scusatemi. Sono sicuro che, questa volta, la Sua gentilezza e quella di tutti i Veneti prevarrà, sicuramente mi perdonerete, invece di perdere tempo, denaro, energia e simpatia nelle infinite vie legali. La ringrazio e ringrazio tutti i Veneti, sperando di incontrarvi presto per una fantastica bevuta alla salute dell’Italia Unita.
"L’Unità d’Italia? Da 150 anni gronda sangue dei terroni". Da direttore di Gente a paladino del Mezzogiorno col libro sui misfatti dei Savoia, Pino Aprile racconta come i 150 anni dell’Unità d’Italia grondino sangue dei terroni. A lui Al Bano al Festival di Sanremo dedica un inno, ma c’è chi lo minaccia di morte, scrive Stefano Lorenzetto su “Il Giornale”. La rappresentazione plastica di come sia impossibile mettere d’accordo polentoni e terroni l’ho avuta davanti alla vetrina di una libreria di Verona. Siccome per la copertina del suo Terroni, edito da Piemme, Pino Aprile ha scelto una silhouette capovolta dello Stivale, con la Sicilia a nord e la Campania a sud, una zelante commessa ha pensato bene di correggergliela esponendo il volume col titolo a rovescio. In un solo colpo la libraia ha così ristabilito il primato del planisfero, confermato il sottotitolo dell’opera ( Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero «meridionali» ) e ribadito senza volerlo la battuta di Marco Paolini riportata nelle pagine interne: «Quando non si vuole capire la storia, la si trasforma in geografia». Uscito dalla tipografia Mondadori printing di Cles, Trento, Val di Non (a dimostrazione che l’Italia unita almeno per gli editori è cosa fatta), Terroni è diventato nel giro di dieci mesi bestseller, oggetto di scontro, manifesto dell’orgoglio sudista, testo sacro per i revisionisti del Mezzogiorno, strumento di lotta politica e ora persino brano del Festival di Sanremo: Al Bano, 67 anni, pugliese di Cellino San Marco, inserirà nel suo Cd l’inno Gloria, gloria scritto da Mimmo Cavallo e ispirato al saggio di Aprile, 60 anni, pugliese di Gioia del Colle. Non basta. Terroni è l’edizione multimediale per iPad, con foto, interviste e spezzoni dal film E li chiamarono briganti di Pasquale Squitieri, in uscita a febbraio. Terroni è lo spettacolo teatrale che andrà in scena il 21 marzo al Quirino di Roma, «per rispondere a Umberto Bossi e alla sua arroganza, per dire basta a questo massacro che dura da 150 anni », proclama dalle pagine di Facebook l’attore-regista Roberto D’Alessandro, cresciuto alla scuola di Gigi Proietti. Terroni, insomma, è tifo da stadio: non a caso l’autore, pur avendo ormai perso il conto delle ristampe («almeno una ventina»), rivela d’averne venduto 150.000 copie, mentre su Wikipedia un biografo infervorato gliene attribuisce addirittura mezzo milione, il che, anche a voler considerare le brossure veicolate da Mondolibri e gli ebook scaricati da Internet, appare piuttosto esagerato. Pino Aprile è stato vicedirettore di Oggi e poi direttore di Gente. Prima d’avere come target fisso Carolina di Monaco («ho scoperto che era calva: scoop mondiale »), s’era sempre occupato di terrorismo e politica. Da pensionato pensava di dedicarsi alla passione della sua vita: il mare. Ha diretto il mensile Fare vela e ha scritto tre libri dai titoli sanamente monomaniacali: Il mare minore, A mari estremi e Mare, uomini, passioni. Poi gli è scappato Terroni ed è finito nell’oceano in tempesta: «Ho accettato finora quasi 200 presentazioni. Nel frattempo sono giunti all’editore altri 500 inviti. In teoria avrei l’agenda piena di appuntamenti sino alla primavera del 2012, se non ricevessi altre richieste. Invece continuano ad arrivarne. Mi chiamano anche all’estero. La prima trasferta è stata in Svezia, quindi Londra, Zurigo, Manchester, New York... Sono distrutto».
Ma la invitano solo i circoli dei calabresi o anche quelli degli emigrati veneti?
«Università, centri di cultura, associazioni italiane, come la Dante Alighieri».
È il libro di saggistica che resiste da più mesi in classifica o sbaglio?
«Vero. Spero che mi venga perdonato».
Com’è nata l’idea di Terroni?
«Avevo delle domande, cercavo delle risposte. Se davvero a fine Ottocento i meridionali erano poveri, arretrati e oppressi, perché mai reagirono contro i “liberatori” venuti dal Nord con una guerra civile durata a lungo e successivamente con la fuga, emigrando? Solo dopo molti anni ho pensato di farne un libro».
Ha ricevuto offese o minacce?
«Offese tante. Qualcuno mi chiede se non ho paura. E di che? Su Facebook un tale mi ha scritto: “Farai la fine di D’Antona”. Ho cercato di rintracciarlo, ma risultava inesistente. Del resto quella è una lavagna collettiva su cui compare di tutto: un estimatore mi ha dedicato lo slogan pubblicitario “Terroni, non ci sono paragoni”. È seccante la supponenza di chi crede di sapere già tutto e non è nemmeno sfiorato dal dubbio».
Alla presentazione di Torino s’è quasi sfiorata la rissa.
«Eravamo nella Sala dei Cinquecento, gli altri sono rimasti in piedi... Una persona ha inveito contro Roberto Calderoli, che non era presente, per gli insulti rivolti dal ministro leghista ai napoletani. Gli interventi di Marcello Sorgi, Massimo Nava e Pietrangelo Buttafuoco sono filati via lisci. Quando ha cominciato a parlare Giordano Bruno Guerri, che ha scritto un libro sul brigantaggio postunitario, la stessa persona lo ha offeso. Lo storico è sceso dal palco per regolare i conti e il contestatore s’è zittito. Meno male: Guerri discende dai pirati etruschi, ha profilo da pugile e mani da cavatore di ciocco».
Si può dire che Terroni abbia fatto venire al Sud la voglia di secessione che fino a ieri serpeggiava solo al Nord?
«No. È stato detto che Terroni incita i meridionali alla sollevazione. Figuriamoci! Il Mezzogiorno non ha voce: tutti i giornali nazionali, eccetto La Repubblica, si pubblicano al Nord e le tre reti televisive private sono di un editore lombardo che, da capo del governo, ha voce in capitolo pure in quelle pubbliche. Per la legge di prossimità, la stampa trova più interessante il miagolio del gatto di casa rispetto al ruggito del leone nella savana. Il Nord scopre che cosa sta accadendo dalle mie parti solo quando s’interroga sul successo di Terroni o del film Benvenuti al Sud . Ma Terroni è il dito che indica la luna, non la luna. Ci sono libri che cambiano il cuore degli uomini. Mi spiace, il mio non è fra questi: sono nato di febbraio e non ho avuto per padre putativo un mite falegname. La voglia di secessione del Sud germoglia come reazione agli insulti dei ministri del Nord. È meno forte e diffusa che in Lombardia o nel Veneto, ma cresce».
Quali sentimenti suscitano in lei i 150 anni dell’Unità d’Italia?
«Di delusione, talvolta di disgusto. In quale Paese può restare in carica un ministro che ha trattato la bandiera nazionale come carta igienica? O un sindaco che ha marchiato con simboli di partito la scuola dei bambini? L’Italia unita era da fare, perché ogni volta che cade una frontiera gli uomini diventano più liberi, più ricchi, più sicuri, più felici. Ma non era da fare con una parte del Paese schierata contro l’altra. La ricorrenza dei 150 anni poteva diventare l’occasione per fare onestamente una volta per tutte i conti con la storia. Così non è».
Che cosa pensa dei Savoia?
«Si sono trovati al posto giusto nel momento giusto. Mentre un’esigua minoranza, non più dell’1-2 per cento della popolazione, era animata dal pio desiderio di unificare l’Italia, loro ne avevano l’impellente necessità: strozzati dai debiti, potevano salvarsi solo con l’invasione e il saccheggio del Sud. Lo scrisse nel 1859 il deputato Pier Carlo Boggio, braccio destro di Cavour: “O la guerra o la bancarotta”. Fino al 1860, per ben 126 anni, i Borbone mai aumentarono le tasse. Nel Regno di Napoli erano le più basse di tutti gli Stati preunitari».
Bruno Vespa mi ha confessato la sua sorpresa nello scoprire solo di recente che nel regno borbonico le imposte erano soltanto cinque, contro le 22 introdotte dai Savoia.
«I soldi del Sud ripianarono il buco del Nord. Al tesoro circolante dell’Italia unita, il Regno delle Due Sicilie contribuì per il 60 per cento, la Lombardia per l’1 virgola qualcosa, il Piemonte per il 4. Negli Stati via via annessi all’Italia nascente, appena arrivavano i piemontesi spariva la cassa».
E di Giuseppe Garibaldi che cosa pensa?
«Romantico avventuriero, di idee forti, semplici, a volte confuse, ma più onesto di altri nel denunciare, solo a cose fatte però, le stragi e le rapine compiute nel Mezzogiorno. Qualche problema di salute, per l’artrosi che gli rendeva doloroso cavalcare: a Napoli arrivò in treno. Qualche disavventura familiare: la giovane sposa incinta di un altro. Qualche pagina oscura nel suo passato sudamericano: la tratta degli schiavi dalla Cina al Perù. Ne hanno fatto un santino. Ma va bene così, ogni nazione ha bisogno dei suoi miti fondanti. Basta sapere chi erano veramente».
E di Camillo Benso conte di Cavour che cosa pensa?
«Grande giocatore, specie nell’imprevisto. Non voleva la conquista del Regno delle Due Sicilie: gli bastavano il Lombardo- Veneto e i Ducati. Già la Toscana gli pareva in più. Ma quando l’avventura meridionale ebbe inizio, in breve la fece propria, persuase il re, neutralizzò Garibaldi, ammansì chi si opponeva. Qualche suo vizietto sarebbe stato da galera. Come molti padri del Risorgimento, non mise mai piede al Sud: lo conosceva per sentito dire».
La peggiore figura del Risorgimento?
«Il generale Enrico Cialdini, poi deputato e senatore del Regno. Un macellaio che menava vanto del numero di meridionali fucilati, delle centinaia di case incendiate, dei paesi rasi al suolo. Prima di diventare eroe pluridecorato del Risorgimento, fu mercenario nella Legione straniera in Portogallo e Spagna. Uccideva i suoi simili a pagamento».
Quali sono gli episodi risorgimentali più rivoltanti, che l’hanno fatta ricredere sulla sua italianità?
«Non si può smettere di essere italiani. Però mi sono dovuto ricredere circa il racconto bello e glorioso sulla nascita del mio Paese che avevo imparato a scuola. Da adolescente fremi d’indignazione per gli indiani sterminati sul Sand Creek e da grande scopri che i fratelli d’Italia nel Meridione fecero di peggio. La mitologia risorgimentale cominciò a vacillare quando lessi La conquista del Sud di Carlo Alianello. Vi si narrava la storia di una donna violentata e lasciata morire da 18 bersaglieri, che già le avevano ammazzato il marito. Il figlioletto che assistette alla scena, divenuto adolescente, si vantava d’aver ucciso per vendetta 18 soldati di re Vittorio Emanuele a Custoza. Poi il massacro di Pontelandolfo e Casalduni, 5.000 abitanti il primo, 3.000 il secondo, due delle decine di paesi distrutti, con libertà di stupro e di saccheggio lasciata dal Cialdini ai suoi soldati, fucilazioni di massa, torture, le abitazioni date alle fiamme con la gente all’interno. E le migliaia di meridionali squagliati nella calce viva a Fenestrelle, una fortezza-lager a una settantina di chilometri da Torino, a 1.200 metri di quota, battuta da venti gelidi, dove la vita media degli internati non superava i tre mesi. Per garantire ulteriore tormento ai prigionieri, erano state divelte le finestre dei dormitori. Viva l’Italia!».
Gianfranco Miglio, ideologo della Lega, mi confidò che era ancora terrorizzato da certe storie atroci udite da bambino, quando il nonno gli raccontava che, giovane bersagliere in Calabria, aveva trovato un suo commilitone crocifisso su un termitaio dai briganti.
«Le ha anche raccontato che cos’aveva fatto quel bersagliere? Era in un Paese invaso senza manco la dichiarazione di guerra. Maria Izzo, la più bella di Pontelandolfo, fu legata nuda a un albero, con le gambe divaricate, stuprata a turno dai bersaglieri e poi finita con una baionettata nella pancia. A Palermo uccisero sotto tortura un muto dalla nascita perché si rifiutava di parlare. Riferirono in Parlamento d’aver fucilato, in un anno, 15.600 meridionali: uno ogni 14 minuti, per dieci ore al giorno, 365 giorni su 365. Ma il conto delle vittime viene prudentemente stimato in almeno 100.000 da Giordano Bruno Guerri. Altri calcoli arrivano a diverse centinaia di migliaia. La Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, nel 1861 scrisse che furono oltre un milione. La cifra vera non si saprà mai».
Da Terroni :«“Ottentotti”, “irochesi”, “beduini”, “peggio che Affrica”, “degenerati”, “ritardati”, “selvaggi”, “degradati”: così i meridionali vennero definiti, e descritti con tratti animaleschi, dai fratelli del Nord scesi a liberarli». Io sono veneto. Ha idea di quante ce ne hanno dette e ce ne dicono? Razzisti, analfabeti, beoti, ubriaconi, bestemmiatori, evasori fiscali, sfruttatori di clandestini. Non crede che se cominciamo a tenere questo genere di contabilità, non la finiamo più?
«Devono finirla i Bossi, i Calderoli, i Borghezio, i Salvini, i Brunetta. Quella degradazione dei meridionali ad animali preparò e giustificò il genocidio. Ricordo le parole di un intellettuale di Sarajevo: “Non è stato il fracasso dei cannoni a uccidere la Jugoslavia. È stato il silenzio. Il silenzio sul linguaggio della violenza, prima che sulla violenza”. Un ministro della Repubblica ha minacciato il ricorso ai fucili. In Italia, adesso. Non a Sarajevo, allora».
Lei scrive che Luigi Federico Menabrea, presidente del Consiglio dei ministri del Regno, nel 1868 voleva deportare in Patagonia i meridionali sospettati di brigantaggio. Che cosa dovrebbero dire i veneti deportati per davvero da Benito Mussolini nelle malariche paludi pontine per bonificarle?
«Menabrea voleva deportare i meridionali per sterminarli. I veneti nelle paludi pontine non furono deportati: ebbero lavoro, casa, terra risanata con i soldi di tutti e a danno di quelli che vi morivano di malaria da secoli per trarne pane. Ma vediamo il lato positivo: fra poveri s’incontrarono. E dove il sangue si mischia, nasce la bellezza. La provincia oggi chiamata Latina ha dato all’Italia la più alta concentrazione di miss da calendario per chilometro quadrato. E pure Santa Maria Goretti, che si fece uccidere per difendere la propria femminilità».
Scrive anche: «La Calabria non appartiene, geologicamente, al Mezzogiorno, ma al sistema alpino: si staccò con la Corsica dalla regione ligure-provenzale e migrò, sino a incastrarsi fra Sicilia e Pollino». Recrimina persino sull’orografia?
«O è un modo per dire che a Sud vogliono venirci tutti?».
Si dilunga sul caso di Mongiana, che in effetti è impressionante. Però che cosa dimostra? Da Nord a Sud, ogni distretto industriale piange i suoi dinosauri.
«Mongiana, in Calabria, era la capitale siderurgica d’Italia e oggi contende alla confinante Nardodipace lo scomodo primato di Comune più povero d’Italia. I mongianesi, sradicati dal loro paese, si sono trovati a lavorare nelle fonderie del Bresciano: 150 famiglie, circa 500 persone, solo a Lumezzane, che è ormai la vera Mongiana. Dove prima 1.500 operai e tecnici siderurgici specializzati rendevano autosufficiente l’industria pesante del Regno delle Due Sicilie, adesso non è rimasto neppure un fabbro. Il più ricco distretto minerario della penisola fu soppresso dal governo unitario per un grave difetto strutturale: si trovava nel posto sbagliato, nel Meridione. Il Sud non doveva far concorrenza al Nord nella produzione di merci. E questo fu imposto con le armi e una legislazione squilibrata a danno del Mezzogiorno. La vicenda di Mongiana è esemplare, nell’impossibilità di raccontare tutto. Ma accadde la stessa cosa con la cantieristica navale, l’industria ferroviaria, l’agricoltura».
In occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia, la città di Gaeta vuol chiedere un risarcimento per l’assedio savoiardo del 1861: 500 milioni di euro. Mi ricorda il Veneto, che pretende i danni di guerra dalla Francia per il saccheggio napoleonico del 1797: 1.033 miliardi di euro.
«C’è una differenza: al risarcimento di Gaeta s’impegnò il luogotenente, principe di Carignano, in nome del quale il generale Cialdini, responsabile di quelle macerie, garantì per iscritto: “Il Governo di Sua Maestà provvederà all’equo e maggiore possibile risarcimento”. Quando gli amministratori comunali andarono per riscuotere, il nuovo luogotenente, Luigi Farini, già distintosi con moglie e figlia nel patriottico furto dell’argenteria dei duchi di Parma, consigliò loro di rivolgersi “alla carità nazionale”».
Lei è arrivato al punto da dichiarare che Giulio Tremonti ruba al Sud per dare al Nord. Forse dimentica che il Veneto ha solo 225 dirigenti regionali mentre la Sicilia ne ha 2.150. L’855 per cento in più. Che si aggiungono ai 100.000 dipendenti ordinari. Allora le chiedo: chi ruba a chi, se non altro lo stipendio?
«I fondi per le aree sottoutilizzate sono, per legge, all’85 per cento del Sud, e invece sono stati abbondantemente spesi al Nord. I 3,5 miliardi di euro con cui è stata abbuonata l’Ici a tutt’Italia erano quelli destinati alle strade dissestate di Calabria e Sicilia. I cittadini della Val d’Aosta spendono il 10.195 per cento in più della Lombardia, pro capite, per i dipendenti regionali. Ma è una ragione a statuto speciale, si obietta. Giusto. Pure la Sicilia lo è. Il che non assolve né l’una né l’altra. Ma il paragone si fa sempre con l’altra».
Il sociologo Luca Ricolfi in "Il sacco del Nord" documenta che ogni anno 50 miliardi di euro lasciano le regioni settentrionali diretti al Sud. E lei me lo chiama furto?
«Intanto i conti andrebbero fatti sui 150 anni. E poi lo stesso Ricolfi spiega che quei dati, valutati diversamente, portano a conclusioni diametralmente opposte. Non tutti sono d’accordo sul metodo scelto da Ricolfi. Vada a farsi due chiacchiere col professor Gianfranco Viesti, bocconiano che insegna politica economica all’Università di Bari».
S’ode a destra uno squillo di tromba: Terroni. A sinistra risponde uno squillo: Viva l’Italia! di Aldo Cazzullo. Che l’ha accusata d’aver paragonato i piemontesi ai nazisti solo per vendere più copie.
«Incapace di tanta eleganza, a Cazzullo confesso che scrivo nella speranza di essere letto. E non capisco perché il suo editore spenda tanti soldi per pubblicizzare Viva l’Italia! se lo scopo è quello di non vendere copie. Il mio libro s’è imposto col passaparola».
Non nominare il nome di Marzabotto invano, le ha ricordato Cazzullo.
«Che differenza c’è fra Pontelandolfo e Marzabotto? Mettiamola così: il mio editore ha nascosto l’esistenza di Terroni, l’editore di Cazzullo ha fatto il contrario. Nessuno dei due ha ottenuto il risultato sperato».
Anche Ernesto Galli della Loggia e Francesco Merlo hanno maltrattato il suo pamphlet.
«Libera critica in libero Stato: non si può piacere a tutti. A me piace non piacere a Galli della Loggia, per esempio. Prima ha parlato di “fantasiose ricostruzioni”. Poi, al pari di Merlo e di qualche altro, ha obiettato che le stragi risorgimentali nel Sud erano note e da considerarsi “normali” in tempo di guerra. A parte che a scuola tuttora non vengono studiate, allora scusiamoci con i criminali nazisti Herbert Kappler e Walter Reder per l’ingiusta detenzione; critichiamo gli Stati Uniti che hanno inflitto l’ergastolo all’ufficiale americano responsabile dell’eccidio di My Lai in Vietnam; chiediamoci perché si condanni il massacro dei curdi a opera di Saddam Hussein. Insomma, solo l’uccisione in massa dei meridionali è “normale”?».
Sergio Romano sul Corriere della Sera s’è dichiarato infastidito dai «lettori meridionali che deplorano i soprusi dei piemontesi, l’arroganza del Nord, il sacco del Sud, e rimpiangono una specie di età dell’oro durante la quale i Borbone di Napoli avrebbero fatto del loro regno un modello di equità sociale e sviluppo economico». E vi ha ricordato che, per unanime consenso dell’Europa d’allora, «il Regno delle Due Sicilie era uno degli Stati peggio governati da una aristocrazia retriva, paternalista e bigotta».
«Senta, foss’anche tutto vero, e non lo è, questo giustifica invasione, saccheggio e strage?Mi pare la tipica autoassoluzione del colonizzatore: ti distruggo e ti derubo, però lo faccio per il tuo bene, neh? Infatti, l’Italia riconoscente depone ogni anno una corona d’alloro dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, il carnefice di Pontelandolfo e Casalduni, e nega ai paesi ridotti in cenere rimasero in piedi solo tre case persino il rispetto per la memoria».
Lei ha fatto il servizio militare?
«Arruolato, C4 rosso, se non ricordo male: mi dissero che, se fosse scoppiata la guerra, sarei finito in ufficio. I miei polmoni non davano affidamento: postumi di Tbc e quattro pacchetti di Gauloises al giorno».
Se scoppiasse una guerra, difenderebbe l’Italia o no?
«Oh, ma che domande sono? Lo chieda a Bossi e a Calderoli! Io sono un italiano che pretende la verità critica su com’è nato il suo Paese e la fine della sperequazione e degli insulti a danno del Sud. La questione meridionale non esisteva 150 anni fa, il Consiglio nazionale delle ricerche ha dimostrato che prodotto lordo e pro capite erano uguali al Nord e al Sud. I meridionali, con un terzo della popolazione, diedero circa la metà dei caduti nelle trincee della prima guerra mondiale».
Silvius Magnago, lo storico leader della Svp, mi disse: «La patria è quella cui si sente di appartenere con il cuore. La mia Heimat è il Tirolo. Heimat, terra natia. Voi italiani non possedete questo concetto. Non potete capire». Che cosa significa patria per lei? E qual è la sua Heimat?
«Lo dico nell’esergo del mio libro, con parole rubate allo scrittore francese Emmanuel Roblès: patria è “là dove vuoi vivere senza subire né infliggere umiliazione” ».
Sarebbe favorevole a un’Italia divisa in cantoni, come la Svizzera?
«No. Una frontiera non migliora gli uomini. Al più, può peggiorarli. Ma se la Lega, dopo vent’anni di strappi, recidesse l’ultimo filo che tiene ancora unito il Paese, un attimo prima il Sud dovrebbe andarsene, contrattando l’uscita, per evitare di essere derubato di nuovo».
Su quali basi andrebberifatta l’Unità d’Italia?
«Eque. La forma garantisce poco la sostanza: vada a spiegare ai giovani che la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro. O che la legge è uguale per tutti. O che le Ferrovie dello Stato assicurano il servizio in tutto il Paese: Matera, amena località europea, è ignota alle Fs, lì il treno non è mai arrivato».
Fosse lei il presidente del Consiglio, che farebbe per ripulire Napoli dai rifiuti?
«Nominerei commissario Vincenzo Cenname, il sindaco che ha fatto di Camigliano, provincia di Caserta, un esempio virtuoso nello smaltimento, grazie alla raccolta differenziata che copre il 65 per cento del totale. Cenname s’è rifiutato di affidarne la gestione a un ente provinciale, la cui inefficienza è testimoniata dalle immondizie che vengono lasciate nelle strade per scoraggiare la raccolta differenziata a favore degli inceneritori. Per questo Cenname è stato rimosso dal prefetto, quasi fosse a capo d’una Giunta camorrista».
Siamo alla domanda delle cento pistole: i terroni hanno voglia di lavorare sì o no?
«Capisco che la domanda lei deve porla e immagino che le costi dar voce agli imbecilli. Se fossi maleducato, risponderei: ma mi faccia il piacere! Non lo sono e quindi rispondo: quei 5 milioni di meridionali che stanno nelle fabbriche del Nord, dall’abruzzese Sergio Marchionne in giù, come li vede? Sfaticati? Quei 20 milioni di emigrati nel mondo, che per la prima volta nella loro storia millenaria presero la via dell’esilio volontario dopo i disastri dell’Unità d’Italia, sono andati altrove a far nulla? La mia regione fu l’unica in cui per l’aridità della terra fallì il sistema di produzione dell’impero romano, imperniato sulla villa. Ebbene di quei deserta Apuliae, deserti di Puglia, la mia gente nel corso dei secoli, col sudore della fronte, ha fatto un giardino, rubando l’umidità alla notte con i muretti di pietra e piantando 60 milioni di ulivi. Mica come Bossi, che non ha lavorato un giorno in vita sua. Anzi, sa che le dico, senza offesa, eh? Ma mi faccia il piacere!».
Il 52 per cento della popolazione di Terzigno, provincia di Napoli, campa a carico dell’Inps. Sarà mica colpa dell’Inps?
«Se mi togli tutto, mi attacco a quello che c’è. Assistenza? Assistenza! Non mi piace, ma non ho altra scelta. A Parma, 170.000 abitanti, il ministero ha deciso di erogare lo stesso i soldi per la metropolitana progettata per 24 milioni di utenti, poi ridotti a 8, infine abbandonata, per vergogna, spero, nonostante lo studio costato 30 milioni di euro. È la città della Parmalat, la peggior truffa di tutti i tempi. Però la truffa del falso invalido scandalizza maggiormente. Be’, a me le truffe danno fastidio tutte. Quella del povero la capisco di più».
La metà delle cause contro l’Inps si concentra in sei città del Sud: Foggia, Napoli, Bari, Roma, Lecce e Taranto. A Foggia è pendente circa il 15 per cento dell’intero contenzioso nazionale dell’istituto. Tutti i 46.000 braccianti iscritti alle liste di Foggia hanno fatto causa all’Inps. Dipenderà mica dai Savoia.
«Per quanto possa sborsare l’Inps da Terzigno a Lecce, non si arriverà mai ai miliardi di euro che ci costano le multe pagate per colpa degli allevatori padani disonesti, grandi elettori della Lega. O assolviamo tutti, ed è sbagliato, o condanniamo quelli che lo meritano. Con una differenza: la truffa delle quote latte è già accertata. Aspettiamo di vedere come finiscono i procedimenti contro l’Inps».
C’è poco da aspettare: a Foggia, su 122.000 cause presentate, 25.000 sono state spontaneamente ritirate dagli avvocati. Erano state avviate per lo più a nome di persone morte o inesistenti.
«Ma non è detto che tutte le altre siano immotivate. Ripeto: aspettiamo».
Non sarà che lei mi diventa il Bossi del Sud?
«Già l’accostamento è offensivo. Io non giudico il mio prossimo dalla latitudine e ho sempre lavorato; né ho festeggiato tre volte la laurea, senza mai prenderla. Mi hanno offerto candidature, ma ho ringraziato e rifiutato, perché inadatto: sono incensurato, ho pagato la casa con i miei soldi e voglio morire giornalista».
Eppure Giordano Bruno Guerri ha scritto che Terroni è sostenuto da piccoli ma combattivi gruppi neoborbonici e dal Partito del Sud di Antonio Ciano, assessore a Gaeta, e potrebbe diventare il testo sacro di una futura Lega meridionale, contrapposta a quella di Bossi.
«Il libro, una volta uscito, va per la sua strada, come i figli. Non puoi dirgli tu dove andare. Terroni non è sostenuto: è letto. E chi lo legge ne fa l’uso che vuole, a patto di non attribuirlo a me. Stimo Ciano e seguo con attenzione il Partito del Sud, i Neoborbonici, l’Mpa del governatore siciliano Raffaele Lombardo, l’associazione Io resto in Calabria di Pippo Callipo, il movimento Io Sud di Adriana Poli Bortone. Ma resto un osservatore interessato ed esterno. Ero anche amico di Angelo Vassallo, il sindaco di Pollica ucciso dalla camorra con nove colpi di pistola. Ricordo i suoi funerali, con quei fogli tutti uguali attaccati alle saracinesche dei negozi chiusi e ai portoni delle case: “Angelo, il paese muore con te”. Oggi per fortuna Pollica va avanti nel suo nome. In una ventina d’anni da sindaco, Angelo aveva arricchito tutti, senza distruggere niente del territorio, vero capitale del paese. Ammiravo il suo coraggio, la sua fantasia, la sua capacità di trasformare le idee in fatti. Ho pianto accompagnandolo al cimitero. Se avesse potuto vedermi, si sarebbe messo a ridere».
Per chi vota?
«La prima volta votai Dc per ingenuità, su consiglio d’un amico. Delusione feroce. Poi a sinistra, senza mai avere un partito, cosa che ritengo incompatibile col giornalismo. Infine quasi stabilmente per i repubblicani di La Malfa, padre, ovviamente. Alle prossime elezioni forse non voterò, anche se so di fare un regalo ai peggiori».
Non mi pare che la sinistra, con l’unico presidente del Consiglio originario di Gallipoli, abbia migliorato la condizione del Sud.
«Massimo D’Alema ha il collegio elettorale a Gallipoli e la moglie pugliese. Ma è romano. E poi, ripeto, l’essere di qui o di là non significa nulla. Il meridionalismo è una dottrina solo italiana, nel mondo. È stata praticata da uomini eccelsi per cultura e moralità,ma è un’invenzione di italiani del Nord, specie lombardi. Solo dopo una generazione sono sorti i meridionalisti meridionali. Che mi frega di dove sei? Fammi vedere cosa fai!».
Lei lamenta l’invasione burocratica piemontese del Meridione, però Mario Cervi le ha ricordato che oggi il Sud amministra col proprio personale la macchina burocratica e giudiziaria dello Stato nell’Italia intera. E i risultati non sono brillanti.
«Tutti, ma proprio tutti gli enti, le banche, le aziende pubbliche o parapubbliche d’Italia sono in mano a settentrionali, in particolare lombardi, a parte un napoletano e tre romani. Vuol dire che se cotanti capi non riescono a raggiungere buoni risultati la colpa è dei sottoposti? Se si vince è bravo il generale e se si perde sono cattivi i soldati? Quando dirigevo un giornale, la mia regola era: chiunque abbia sbagliato, la colpa è mia».
A sfottere godiamo: siam settentrionali.
Ecco perché abbiamo assolto Calderoli anche se disse “orango” alla Kyenge». Alcuni Pd, con alfaniani e Forza Italia, hanno difeso Calderoli dall’accusa di aver offeso l’ex ministro: «è insindacabile esercizio del mandato». Dalla satira ai leghisti di colore: ecco come il Senato ha perdonato Calderoli, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. L’ex ministro per l’Integrazione del governo di Enrico Letta, Cecile Kyenge, non è certo contenta. La giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato ha assolto il vicepresidente del Senato Roberto Calderoli dall’accusa di istigazione al razzismo, per aver detto, durante un comizio, «quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango». Per la giunta del Senato, il leghista scherzava, e soprattutto il suo pensiero è «insidacabile». Vale dunque l’articolo 68 della Costituzione, primo comma, sulle opinioni espresse da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, che il senatore 5 stelle Vito Crimi aveva invece chiesto di non far valere. La decisione della giunta sarà sottoposta alla conferma dell’aula. Spiazzata si è però mostrata Cecile Kyenge, per questo primo voto: «Non stiamo valutando Calderoli come persona» ha detto a Repubblica , «Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta». La delusione di Kyenge viene dal fatto che anche alcuni suoi colleghi del Pd hanno preso le parti di Calderoli: «Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti» dice Kyenge. Non sembrerebbe però, stando a quanto i membri Pd della giunta del Senato hanno spiegato all’Espresso, e a quanto è scritto nei verbali della seduta. La difesa di Calderoli è stata sostenuta con diverse argomentazioni. Il senatore Pd Claudio Moscardelli ha ad esempio difeso Calderoli sostenendo che «le accuse relative alle incitazioni all'odio razziale risultano infondate, atteso il contesto politico nel quale le frasi in questione sono state pronunciate e attesa anche la configurazione del movimento della Lega, nel cui ambito operano anche diverse persone di colore». La Lega dunque non è razzista perché ha alcuni militanti e un paio di amministratori locali di colore, e quella di Calderoli era una normale obiezione politica. Sempre di normale contesa tra protagonisti della scena pubblica parla un altro senatore democratico, Giuseppe Cucca. Cucca aggiunge però un riferimento alla satira. Secondo il senatore - si legge nel resoconto sintetico della seduta - «le parole pronunciate dal senatore Calderoli vanno valutate nell'ambito di un particolare contesto di critica politica, evidenziando altresì che spesso nella satira si paragonano persone ad animali, senza che tali circostanze diano luogo a fattispecie criminose». La difesa, si può notare, è la stessa del senatore berlusconiano Lucio Malan secondo cui «il senatore Calderoli, nell'ambito di un comizio politico, ha svolto delle critiche rispetto agli indirizzi politici per le immigrazioni seguiti dal ministro Kyenge, effettuando altresì talune battute a scopo satirico». Al senatore 5 stelle Vito Crimi, dunque, il caso avrebbe dovuto ricordare molti passaggi dei comizi di Beppe Grillo. A difendere Calderoli, con il Pd, c’era anche l’alfaniano Carlo Giovanardi secondo cui «le opinioni espresse dal senatore Calderoli vanno inquadrate in un contesto meramente politico, avulso da qualsivoglia profilo di tipo giudiziario». Anche Giovanardi, come molti dem, è partito dalla constatazione che sempre più spesso in politica si parla così, per battute e sfottò: «Nella storia politica italiana sono ravvisabili numerosi casi nei quali sono state espresse critiche, anche attraverso locuzioni aspre, rispetto ad avversari politici e ciò non ha mai determinato alcun risvolto sul piano processuale penale». Diversamente dai suoi colleghi la pensa invece la senatrice, sempre Pd, Doris Lo Moro che all’Espresso spiega di aver votato a favore della proposta di Vito Crimi: «Ho ritenuto» dice «che tutte le valutazioni offerte dai colleghi dovessero esser valutate da un giudice, che potrebbe anche decidere che è vero che la satira usa spesso espressioni colorite ma che, come a me sembra, in questo caso la satira c’entri assai poco». Lo Moro critica anche un altro punto della difesa di Calderoli: il fatto che Kyenge non abbia presentato querela. «Mi pare che Cecile abbia invece spiegato quanto si sia sentita offesa, e comunque io penso che da donna, e da donna di colore, io mi sarei offesa, e avrei chiesto, come ho fatto, di valutare il fatto specifico, senza soffermarmi sulla simpatia che si può avere per Roberto Calderoli». Perché questo è l’altro punto. Al Senato Calderoli è quasi un mito. Vi potrà sembrare strano ma quasi tutti, ad esempio, gli riconoscono di esser l più bravo a guidare l’aula durante le sedute.
Le scuse del razzista ridicolo. A tre giorni dagli insulti al ministro Kyenge, paragonato a un orango, Roberto Calderoli si scusa ma non si dimette. 'Ho commesso un errore grave, ho fatto una sciocchezza' ha detto a Palazzo Madama. Dopo aver cercato in tutti i modi di giustificare le sue parole buttandola sulla simpatia, scrive Wil Nonleggerlo su “L’Espresso”. "Il mio errore è grave ma non è razzismo, il ministro Kyenge ha accettato le mie scuse e le manderò un mazzo di rose, non attaccherò mai più un avversario politico con parole così offensive. Ma non farò mai sconti a un governo che consente e quasi incoraggia l'ingresso illegale di stranieri nel nostro Paese, come sta avvenendo, e che ha consentito che una bambina e sua mamma fossero deportate consegnandole proprio nelle mani del tiranno da cui sono perseguitate". Così si è scusato Roberto Calderoli per le parole pronunciate il 13 luglio 2013 a Treviglio, dal palco della festa della Lega Nord con cui aveva paragonato il ministro Kyenge ad un "orango". Con "disagio e imbarazzo" oggi "mi scuso con il Senato" e "con il presidente Napolitano" ha detto. "Ho commesso un errore gravissimo, ho fatto una sciocchezza ma il giudizio sul mio ruolo di vicepresidente deve essere dato su quello che faccio in questa Aula". Il giorno dopo, a scandalo esploso, era cominciata la girandola di "giustificazioni" di Calderoli. Della serie, suvvia, eravamo nei "termini della simpatia". "Io mi consolo quando navigo in Internet e vedo le fotografie del governo. Amo gli animali, orsi e lupi com’è noto, ma quando vedo le immagini della Kyenge penso subito alle sembianze di un orango".
A Radio Capital dichiara (14 luglio):
"Ma dai, è stata una battuta, una battuta nei termini della simpatia. Niente di particolarmente contro, solo mie impressioni: non l'ho paragonata ad un orango, ma ne ha i lineamenti. Ho anche detto che sarebbe un ottimo ministro, ma in Congo. Guardi, avrei rivolto le stesse critiche alla canoista".
Ok, e le dimissioni?
"Dimettermi? Ma da cosa? Ma stiamo scherzando?! Non ci penso proprio". "Io sono stato eletto dal popolo e nominato vicepresidente dal Senato. Forse chi parla delle mie dimissioni vuole aggirare un altro argomento, quello kazako".
All'Ansa, "i problemi sono altri" (14 luglio):
"Non vorrei che il polverone su di me serva a coprire altro, non sarò capro espiatorio: non vorrei che si chiedano le mie dimissioni per evitare di parlare di possibili dimissioni di qualche ministro per la vicenda kazaka. Una mia battuta non può essere paragonata ai danni che questo Governo sta facendo al Paese".
Era un "intervento politico più articolato":
"Ho parlato in un comizio, ho fatto una battuta, magari infelice, ma da comizio. Non volevo offendere e se il ministro Kyenge si è offesa me ne scuso, ma la mia battuta si è inserita in un ben più articolato e politico intervento di critica al ministro e alla sua politica".
E non accusatelo di razzismo:
"Per farmi perdonare dal ministro Kyenge la invito ufficialmente ad un dibattito alla Berghemfest nel mese di agosto, la tradizionale festa della Lega, ma sappia che non le farò sconti sulle critiche al suo modo di fare politica... E non voglio sentire accuse di razzismo da parte di politici che sono razzisti ogni giorno con i cittadini del nord".
Due giorni dopo, e siamo al 15 luglio, si parte con le interviste.
"Amo gli animali, e poi il mio era un giudizio estetico". Al Corriere della Sera dice che c'è pure "Letta l'airone", "Alfano la rana"...:
"Adesso non posso proprio. Scusi, ma inizia la MotoGp. Ci sentiamo più tardi... Ora si dibatte su una frase estrapolata dal contesto, ma al comizio ho fatto una premessa, cioè il mio amore per gli animali. Lì - sbagliando, lo ammetto - ho esplicitato un pensiero: citare l'orango era un giudizio estetico che non voleva essere razzista. Mi lasci spiegare. Io ho una mia forma mentis: quando conosco una persona, faccio paragoni estetici con un animale. Per tutti. Io vedo il presidente Letta un po' come un airone: le gambe lunghe, zampetta nella palude. Il vicepresidente Alfano? Forse un po' rana. Il ministro Cancellieri? Mi dà l'idea del San Bernardo, che è pacioso ma sa anche mordere. Fabrizio Saccomanni, dell'Economia, l'ho sempre visto come Paperon de' Paperoni che sotto le ali ha i miliardi. Il titolare degli Affari europei Enzo Moavero Milanesi lo vedo pavone, con il riporto fa la coda. Per ciascuno ne ho una... Mi è spiaciuto che, di un intervento di 45 minuti tenuto davanti a 1.500 persone, tutto si sia ridotto alla questione dell'orango. Molto è montato ad arte.
A Repubblica conferma: "Vedo le persone come animali, ma non mi dimetto":
"Ho solo detto che le sembianze della Kyenge mi ricordano quelle di un orango. Fa parte del mio modo di essere. Sono abituato ad accostare le persone agli animali. Mi viene spontaneo fare questi accostamenti. Ma le dirò di più: a Napolitano ho regalato una bottiglia di Amarone, scrivendogli che lui è come questo vino, migliora con gli anni. Il presidente non si è offeso, mica ha pensato che volessi dargli dell’ubriacone, anzi mi ha ringraziato con una bellissima lettera. Comunque io non me ne vado, la battuta è stata decontestualizzata e amplificata ad arte. Se avessi detto che Alfano mi sembra un gorilla, nessuno avrebbe gridato al razzismo".
Insomma, "era solo un giudizio estetico, il vero razzismo è contro di noi". E al quotidiano La Stampa confida che c'è pure la "gallina ovaiola":
"C'è stata molta strumentalizzazione. Ho fatto una battuta, forse un po’ sopra le righe, ma non mi riferivo certo all’aspetto razziale. Era solo un riferimento estetico. Io ho un sacco di animali, sa? Alcuni molto strani, che non si potrebbero tenere. Li rispetto molto, per questo li paragono alle persone. Guardo Letta e penso a un airone, che con le zampe lunghe riesce a vivere nella palude... Vedo Alfano come una rana, che salta di foglia in foglia. La Cancellieri? Un San Bernardo, sì, sempre pacioso, ma quando vuole riesce a mordere. Poi c’è la De Girolamo, una gallina ovaiola".
Kyenge: “Calderoli assolto per avermi detto orango, triste il Pd che lo difende”. Per la giunta del Senato le parole del leghista sono “insindacabili” e non razziste. D’accordo tutti i partiti, tranne i 5Stelle, scrive Annalisa Cuzzocrea su “La Repubblica”. Cécile Kyenge ha vissuto con sorpresa il razzismo di cui è stata oggetto durante la sua esperienza di ministro. Ed è sorpresa e delusa ora che la politica ha deciso di lasciarla sola. Ora che - in giunta per le immunità al Senato - la maggioranza ha deciso che la frase "Quando vedo la Kyenge non posso non pensare a un orango", non è istigazione all'odio razziale. Non se lo dice il vicepresidente di Palazzo Madama Roberto Calderoli. Non per i deputati di Forza Italia, Ncd, Lega, Autonomie, Pd che in commissione hanno preso la parola per spiegare che Calderoli non è perseguibile, che le sue parole in quanto politico sono "insindacabili", che nel suo partito ci sono persone di colore e che poi è tanto bravo a presiedere l'aula. Gli unici a protestare sono stati gli esponenti del Movimento 5 Stelle. Inascoltati.
Cos'ha pensato quando gliel'hanno detto?
"Sono stata sorpresa. Poi triste. Non per me. Vorrei uscire da questa logica perché non stiamo valutando Calderoli come persona. Io lui l'ho perdonato. Quello che bisogna capire è se queste parole possano essere usate in un dibattito politico normale o se siano semplicemente espressioni razziste. Non è compito del Senato assolvere Calderoli. È come se quell'insulto fosse stato fatto a un paese intero per la seconda volta ".
Anche alcuni senatori del Pd si sono espressi contro l'autorizzazione. Un'altra sorpresa?
"Evidentemente quest'argomento è mal conosciuto da parte di tanti. Se poi l'abbiano fatto con calcoli elettorali troverei la cosa ancora più grave. Ma io vado avanti, adesso dovrà esprimersi l'aula, spero che questo sia stato solo un incidente di percorso. Se una persona che rappresenta le istituzioni può insultare chiunque mi chiedo: chi protegge i deboli in questo Paese? Si sta creando un precedente molto pericoloso ".
Si aspettava tanti episodi di razzismo contro di lei quando è diventata ministro?
"Non fino a questo punto. La Lega lo faceva coscientemente, con un calcolo elettorale di strumentalizzazione della persona. E in questo modo l'odio e il razzismo sono aumentati. Com'è possibile che non ci si soffermi sui danni culturali di questi episodi? Mi sarei aspettata appoggio e sostegno da parte delle istituzioni".
Si sente abbandonata anche dal Pd?
"Sì, anche dal Pd. Ma è una questione trasversale, mi aspettavo di più da tutti. Ancora oggi ho una decina di cause che ho deciso di seguire personalmente. Devo ringraziare la magistratura, che è molto avanti. Un consigliere regionale leghista è stato condannato a una multa di 150mila euro per aver sostituito il mio volto con quello di un orango in una foto istituzionale. E sa perché posso dire che la Lega è un partito razzista? Perché sono stati loro a pagargli l'avvocato. Sono le azioni, non le parole, che la qualificano come tale. Sfruttano la crisi. Le persone hanno paura, cercano un colpevole, e il colpevole perfetto diventa quello che ti stanno offrendo. Molti partiti fanno coscientemente quest'operazione per dividere la società. Mi rammarica la mancanza di coraggio della classe politica e delle istituzioni".
A ben vedere, però, non è che questi settentrionali e leghisti, addirittura, siano diversi dagli altri.
L'inchiesta. 'Ndrangheta, quella maxi speculazione edilizia e i rapporti tra Flavio Tosi e l'amico del clan. L'indagine sulla mafia padana prosegue e spuntano nuove intercettazioni che chiamano in causa il sindaco di Verona per un terreno che interessava a Moreno Nicolis, l'imprenditore finito agli arresti. Un'area, da quanto risulta a “l'Espresso”, poi resa edificabile dalla giunta guidata dall'esponente leghista, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi«Per mangiare devi far mangiare». Si è sentito rispondere così il ministro delle finanze della cosca emiliana guidata dal padrino Nicolino Grande Aracri. E lui, Antonio Gualtieri, in fatto di gestione delle relazioni pubbliche non è da meno: «Questi "baluba"... non capiscono che senza politica... non si fa niente». Per questo Gualtieri ha stretto una forte amicizia con Moreno Nicolis, l'industriale del ferro di Verona, vicino all'amministrazione di Flavio Tosi. Un'aspetto quest'ultimo sottolineato anche dal giudice per le indagini preliminari di Bologna che ha firmato i mandati di cattura per 117 persone, tutte legate alla 'ndrangheta di stanza in Emilia. Ora Gualtieri e Nicolis sono entrambi indagati nell'inchiesta Aemilia. Il primo è in cella per associazione mafiosa, il secondo è agli arresti domiciliai per estorsione aggravata dal metodo mafioso. I detective dell'Arma per tre anni hanno messo sotto controllo capi, gregari, politici e colletti bianchi dei Grandi Aracri. E hanno così scoperto che Nicolis godeva di ottimi contatti con il sindaco Flavio Tosi e l'ex vice sindaco, con delega all'Urbanistica, Vito Giacino, condannato in primo grado a cinque anni per concussione. È lo stesso Antonio Gualtieri che racconta, come già rivelato da “l'Espresso” , del pranzo a casa dell'industriale veronese alla presenza di Tosi e Giacino: «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna». Ma non c'è solo questo nelle informative dei Carabinieri. Gli indagati hanno in ballo diversi affari nella città di Romeo e Giulietta. Uno di questi è l'acquisizione dei beni del fallimento Rizzi, l'altro è una speculazione che sta a cuore a Nicolis. E proprio quest'ultima sarebbe andata in porto. Tra i documenti in mano agli inquirenti infatti ci sono una serie di dialoghi in cui una donna fa riferimento all'area di Borgo Roma «vicino alla Glaxo», la multinazionale farmaceutica. E spiega che «Nicolis voleva barattare l’informazione del fallimento della Rizzi Costruzioni con il sindaco di Verona Flavio Tosi, in cambio della variazione sul piano regolatore di alcuni terreni destinati a costruzioni industriali, posti nei pressi della ditta Glaxo, in area commerciale». Di certo, da quanto risulta a “l'Espresso” la variante alla fine è stata fatta: la conferma, appunto, è nel piano degli interventi approvato dalla giunta di Tosi e Giacino. Il “Piano degli interventi” varato proprio quando Giacino era nella giunta è uno strumento urbanistico che in pratica equivale al vecchio piano regolatore. Nel Piano dell'anno 2011-2012, a firma di Giacino e Tosi, compaiono proprio due varianti urbanistiche chiesta dalla Nicofer, la società di Nicolis: la prima riguarda la ristrutturazione della sua fabbrica; la seconda invece rende per la prima volta edificabili ben 16.500 metri quadri in un'area di 42 mila nella zona sud della città, in via Golino, vicino all'ospedale di Borgo Roma, proprio nei pressi della Glaxo, la stessa indicata nelle intercettazioni. Quel piano urbanistico approvato dai politici di Verona ha quindi autorizzato la Nicofer a realizzare un grande centro commerciale. Una volta ottenuta la variante, la società di Nicolis ha poi ceduto la proprietà a un gruppo della grande distribuzione, la Supermercati Tosano. Una manovra che ha trasformato quei terreni in zona edificabile, perciò la vendita è stata molto favorevole per le casse della società veronese. Ma gli interventi della giunta Tosi a favore di quell'affare tra privati non si fermano qui. Dopo l'arresto di Giacino, la Soprintendenza ha bloccato il centro commerciale perché troppo a ridosso del Forte Tomba, la fortezza costruita nell'Ottocento dagli austriaci. Un vincolo comunicato a Nicolis il 3 febbraio 2014. Nonostante ciò, poco dopo, l'area è stata venduta alla Supermercati Tosano. A novembre quest'utltima ha fatto ricorso al Tar contro la Soprintendenza. E in questa battaglia non sarà sola, perché l'amministrazione comunale si è schiarata al fianco dei privati: secondo la l'amministrazione Tosi, la società Tosano, ma anche il venditore, cioè l'amico Nicolis, avrebbero subito un danno ingiusto. Una vera e propria anomalia secondo l'opposizione. Nicolis sa rapportarsi con la politica della sua città. Lo scrivono gli investigatori antimafia, i quali precisano che questi rapporti gli garantiscono la possibilità di «manovrare degli affari e conoscere – in anticipo – eventuali orientamenti su alcune aree cittadine, in relazione all’edificabilità o meno». Per questo Nicolis è per la ‘ndrangheta emiliana una risorsa, un pezzo pregiato del suo “capitale sociale”. E l'industriale veronese con la dote che si porta dietro conquista i cuori degli 'ndranghetisti. Per il capo clan è «l'amico degli amici». E poi è tra i pochi “padani” accettati al cospetto del padrino Nicolino Grande Aracri, detto “Manuzza”. «Una grande persona», avrebbe detto di lui lo stesso “Manuzza”. Il manager del clan Gualtieri è convinto che con Nicolis il clan potrà puntare molto in alto: «Abbiamo un bellissimo rapporto... ma bello davvero... con quel signore che mi ha dato... la macchina... è uno dei primi industriali di Verona!... e che è lui che mi sta dando una mano politicamente per fare questo affare (riferito alla Rizzi Costruzioni ndr)». Non solo, sempre secondo il braccio imprenditoriale del padrino, Nicolis «c’ha la politica in mano.., lui, il sindaco e il vice sindaco mangiano in casa sua!!». Gli investigatori sono riusciti a ricostruire anche un incontro fondamentale per le indagini, che si è tenuto a Cutro, tra “Manuzza”, Gualtieri e Nicolis. Era il Natale del 2011. E il boss, il manager e l'industriale si ritrovano nel feudo calabrese per un summit. Dopo l'incontro, Gualtieri e Nicolis si scambiano qualche opinione sul grande capo. Le cimici piazzate nel Suv dell'emissario della 'ndrangheta intanto registrano. I due non lo sospettano e parlano. Nicolis non sembra affatto stupito dell'incontro con il boss, anzi all'inizio sembra deluso: «Non mi sembra tanto forte questo qua». Ma Gualtieri, che conosce meglio di lui l'autorità criminale, lo zittisce: «Morè, ascolta, lui è quella persona che comanda la Calabria... Senti a me, a un tuo fratello, che io ti voglio bene veramente … Morè, lui comanda». Dialoghi che secondo il giudice per le indagini preliminari che ha confermato i gravi indizi di colpevolezza e concesso gli arresti domiciliari all'incensurato Nicolis, dimostrano «il forte legame con l'associazione mafiosa, di fatto non ricollegato a comuni origini regionali né a vincoli parentali». Come dire, un rapporto allacciato per un proprio tornaconto personale. Insomma, questione di business. E di conoscenze politiche.
Emilia, la 'ndrangheta punta ai politici. Ecco l'inchiesta shock. Nell'ex regione rossa le cosche hanno messo radici. E ora vogliono influenzare la politica nazionale. Dalla processione di Delrio al pranzo del sindaco leghista Tosi, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Flavio Tosi Il ciclone giudiziario che si è abbattuto sull'Emilia scuote la vicina Verona. Anche qui la 'ndrangheta emiliana dei Grande Aracri può contare su un piccolo nucleo. Ma soprattutto è terra santa per il business. Specie se a introdurre negli ambienti giusti il braccio destro del grande capo Nicolino detto “Manuzza” è un'industriale e di nome fa Moreno Nicolis. Un profilo impeccabile: imprenditore del ferro, ambizioso e con buone relazioni nell'amministrazione del sindaco leghista Flavio Tosi. E proprio quest'ultimo finisce ospite di Nicolis nella sua taverna. Un pranzo al quale, secondo gli investigatori dell'Arma, ha preso parte il primo cittadino, l'ex vicesindaco Vito Giacino, poi caduto per corruzione, e alcuni insospettabili manager della cosca emiliana. Uno di questi è Antonio Gualtieri, ritenuto la mente degli affari della 'ndrina e per questo è finito in cella con l'accusa di associazione mafiosa. «Mi sono incontrato con il sindaco e il vice sindaco di Verona, con Tosi e coso, e ancora stanno mangiando, lì da Moreno, sotto in taverna», riferisce Gualtieri a un sodale. Una vicenda ancora tutta da chiarire. Ma confermata anche da un altra indagata, un colletto bianco dell'organizzazione che ha avuto l'onore, come lei stessa ammette, di ospitare nel suo ufficio in pieno centro a Bologna il capo dei capi “Manuzza”. È solo uno degli elementi nuovi che stanno emergendo dall'inchiesta Aemilia che ha portato al fermo di 117 persone legate alla cellula mafiosa che dagli anni '80 ha messo radici tra Modena e Piacenza, e che negli ultimi anni si sta espandendo a Est, seguendo la direttrice dell'autostrada del Brennero. Gettando le basi per un’avanzata che si è spinta ancora più a nord, cercando di abbracciare le figure più importanti. L'avanzata prosegue. Così come l'indagine, che dura dalla fine del 2010. È di due anni fa invece il faccia a faccia tra Graziano Del Rio, ex sindaco di Reggio Emilia e ora sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e i pm che hanno condotto l'inchiesta di questi giorni. Il politico era stato sentito in qualità di persona informata dei fatti. Il pool era interessato alla sua versione sulla ormai famosa processione nel paesone di Cutro, fuedo calabrese del clan Grande Aracri. Lui si è sempre giustificato spiegando che era un atto dovuto visto che Reggio e Cutro sono gemellati. Con lui però a quella processione, oltre agli altri candidati sindaci, c'era anche Antonio Olivo che, secondo fonti de “l'Espresso, ha frequentato alcuni uomini di Nicolino Grande Aracri. Olivo non è indagato. Così come non lo è Maria Sergio, ex dirigente del settore urbanistica del Comune di Reggio e moglie dell'attuale sindaco democratico Luca Vecchi. Di lei, che è stata sentita dai pm nello stesso periodo di Del Rio, alcuni rapporti di polizia parlano di presunti favoritismi verso imprenditori sospettati di vicinanza alla 'ndrina emiliana. Ombre decisamente più pesanti sulla politica reggiana sono quelle però che si sono addensate sul centro destra che conta i primi due politici indagati per concorso esterno: uno è Giuseppe Pagliani di Forza Italia, arrestato, l'altro è Giovanni Bernini, che in passato è stato il consigliere dell'ex ministro Pietro Lunardi.
Truffa dei rimborsi della Lega, chiesto il processo per Bossi e Belsito, scrive “Il Secolo XIX”. Una truffa sui rimborsi elettorali della Lega Nord per circa 40 milioni di euro, un caso sollevato originariamente da un’inchiesta giornalistica del Secolo XIX del gennaio 2011. Con questa accusa è stato chiesto il rinvio a giudizio dalla procura di Genova per l’ex segretario della Lega Umberto Bossi e l’ex tesoriere Francesco Belsito per la presunta truffa sui rimborsi elettorali ai danni dello Stato da circa 40 milioni di euro. Oltre a Bossi e a Belsito, chiesto il giudizio anche per altri tre componenti del comitato di controllo di secondo livello del Carroccio: Stefano Aldovisi, Diego Sanavio e Antonio Turci. A chiedere il rinvio a giudizio è stato il pm Paola Calleri che ha ereditato l’inchiesta dalla procura di Milano, che l’ha trasferita per competenza territoriale. Esiste un’altra tranche della stessa indagine, quella che riguarda il riciclaggio dei fondi elettorali del Carroccio in Africa: l’ex tesoriere Francesco Belsito e i suoi sodali sono indagati con lui per un investimento estero da 5,7 milioni di euro di fondi pubblici dirottati su banche offshore; le accuse nei loro confronti sono a vario titolo di appropriazione indebita, truffa e riciclaggio. Di questi soldi, una prima “tranche” (circa 1,2 milioni di euro) sarebbe stata stornata «dal conto corrente della Lega attraverso un bonifico in favore della società inglese Krispa Enterprises, della quale Paolo Scala era titolare effettivo, presso la banca di Cipro, somma della quale una parte, pari a 850mila euro è stata restituita a febbraio 2012»; un secondo importo (pari a 4,5 milioni) sarebbe stato trasferito, sempre tramite bonifico, dal conto del Carroccio a quello «intestato a Stefano Bonet presso la Fbme Bank della Tanzania, somma non accreditata per il rifiuto di quest’ultima banca, la quale non aveva ritenuto sufficiente la documentazione allegata, ma restituita soltanto a febbraio 2012». Nel provvedimento vengono indicate come parti offese la Camera, il Senato e la Lega Nord. Anche in questo caso della vicenda si occuperà il tribunale genovese.
LE POLTRONE INTOCCABILI DELLA SPECIALITA' CON I POLITICI E GLI STATALI PIU' CARI D'ITALIA.
Le poltrone intoccabili della specialità. La riforma costituzionale in esame a Roma ignora la disparità tra il numero di consiglieri delle Regioni ordinarie e autonome, scrive Marco Ballico su “Il Piccolo”. Solo tre Regioni hanno più consiglieri del Friuli Venezia Giulia in rapporto agli abitanti. Due sono “speciali”, Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, la terza è il piccolo Molise. Le altre stanno tutte dietro. Fino agli ultimi posti di territori estesi e popolati come Veneto, Piemonte, Emilia Romagna, Campania, Lazio e Lombardia. E questo nonostante il Friuli Venezia Giulia, ai tempi dell’offensiva anticasta, abbia ridotto il numero degli scranni: in era Tondo i consiglieri sono scesi da 60 a 49 (-18,3%), con il governo Serracchiani si è invece intervenuti sulle paghe (da 10.291 a 6.300 euro lordi, con recupero però sui rimborsi, saliti fino a 3.500 euro senza obbligo di rendiconto). Il Friuli Venezia Giulia, oggi, conta di conseguenza un consigliere regionale ogni 25mila abitanti, ma il Veneto ne ha uno ogni 82mila, Piemonte ed Emilia Romagna uno ogni 88mila, il Lazio uno ogni 117mila e la Lombardia uno ogni 124mila. Differenze destinate ad aumentare dato che al prossimo rinnovo delle assemblee legislative il Veneto scenderà da 60 a 50, la Campania da 61 a 50, la Toscana da 55 a 40, la Puglia da 70 a 50, la Sicilia da 90 a 70, la Liguria da 40 a 30, le Marche da 43 a 30, l’Umbria da 31 a 20. Il tema di un ritocco all’ingiù per le Regioni autonome torna di attualità nel momento in cui a Roma è in discussione la riforma costituzione. Ma la questione non è pervenuta. Non la sollecitano i partiti di maggioranza, non se ne occupano le opposizioni, nemmeno il Movimento 5 Stelle. Cosicché le “speciali” continueranno a essere esentate dall’applicare la riduzione cui sono state costrette le ordinarie. Del resto ha dato loro ragione una sentenza della Corte costituzionale, la 198 del 2012. Alla Consulta si erano appellate anche le ordinarie, che si sono viste però obbligate a seguire il dettato del decreto legge 138/2011 che imponeva un secco contenimento del numero dei consiglieri regionali: da un minimo di 20 (è il caso del Molise) per le Regioni fino a un milione di residenti a un massimo di 80 per quelle oltre gli 8 milioni, passando per i 30 fino a due milioni di abitanti, i 40 fino a quattro milioni, i 50 fino a sei milioni di abitanti, i 70 fino a otto milioni. Paletti per tutti tranne che per le autonomie speciali. Secondo la Corte c’è un solo modo per costringerle a contenere il tetto degli eletti: intervenire via legge costituzionale. Dal punto di vista pratico è un’evidente disparità. Alla Valle d’Aosta servono 35 consiglieri, solo 5 in meno della Liguria e, in prospettiva, della Toscana. Il Trentino Alto Adige ne conta 70, più del doppio di quanti ne dovrebbe avere secondo il decreto 138. La Sicilia, che ha quasi la metà della popolazione della Lombardia, continua a far lavorare 90 consiglieri. E il Friuli Venezia Giulia, sempre in relazione al “dimagrimento” sollecitato nel 2011, ne mantiene 19 in più: 49 anziché 30. Una questione anche di costi. Si sfruttasse la riforma costituzionale per applicare a tutte le Regioni quel decreto legge, la pattuglia degli eletti delle “speciali” passerebbe da quota 304 a 160, 144 poltrone in meno. Il risparmio? Un ventina di milioni di euro all’anno, 100 milioni in una legislatura. I 19 in meno in Fvg? La riduzione consegnerebbe alle casse pubbliche 3 milioni all’anno di sola indennità. E invece tutto tace. Eppure nel gennaio 2014 Renzi chiedeva ai senatori del Pd di presentare il ddl costituzionale di riforma di Palazzo Madama e aggiungeva: «Poi abbassamento numeri e compensi dei consiglieri regionali». E anche i saggi nominati dalla presidenza della Repubblica proprio per la riforma della Costituzione scrivevano: «Ferma la distinzione tra autonomie ordinarie e speciali, si presenta tuttavia necessario favorire un processo di riduzione delle diversità ingiustificate definendo alcuni criteri generali, ad esempio nel numero dei componenti degli organi e nelle relative indennità, che vincolino tutte le Regioni, anche ad autonomia differenziata».
In Friuli Venezia Giulia i politici più cari del Nord. Nonostante i tagli della Giunta Serracchiani la spesa pro capite per “mantenere” il Palazzo è doppia rispetto a quella dei veneti e quadrupla rispetto ai lombardi. Lo certifica soldipubblici.gov.it, il sito del governo di Marco Ballico “Il Messaggero Veneto”. I cittadini del Friuli Venezia Giulia, dai nonni ai neonati, pagano per la politica di Palazzo il doppio di veneti ed emiliani, il triplo dei toscani, il quadruplo dei lombardi, il quintuplo dei laziali. Al Nord sono poco sotto i liguri, ma davanti anche a Trentino Alto Adige ed Emilia Romagna. Lo certifica soldipubblici.gov.it, il sito del governo Renzi che ha tolto il velo da una settimana ai diversi canali della spesa pubblica. Alla voce «organi istituzionali», vale a dire il capitolo per indennità di carica e di presenza, rimborsi e missioni degli eletti, spuntano non poche sorprese. Le premesse Lo spazio web annunciato dal premier davanti a Fabio Fazio a una recente puntata di “Che tempo che fa” è ancora work in progress. Vari link vanno ancora perfezionati. Nella ricerca delle spese delle Regioni per giunte e assemblee legislative manca per esempio la Valle d’Aosta. E qualche altra voce è incompleta: i dati della Puglia (un totale di 110mila euro nel 2014 e di 286.538 euro nel 2013) sono evidentemente troppo bassi per essere veri. Le altre Regioni forniscono invece numeri almeno verosimili (anche se per qualcuna manca l’aggiornamento del mese di novembre, l’ultimo monitorato). Il quadro complessivo, come atteso dall’operazione risparmio avviata con i decreti del governo Monti, a partire dalla spending review, evidenzia una riduzione non indifferente della spesa pubblica per la politica: si passa dai 790,8 milioni del 2013 ai 634,7 milioni dei primi undici mesi del 2014, tanto che la proiezione a fine anno anticipa un contenimento dei costi di circa 100 milioni di euro. In controtendenza, e quindi con un aumento da un anno all’altro risultano solo Piemonte, Veneto, Umbria e Calabria, anche se dicembre potrebbe rovesciare qualche consuntivo.
I costi della politica: Regioni a confronto. In regione Anche in Friuli Venezia Giulia si risparmia (effetto della legge Serracchiani dell’estate dell’anno scorso). Se nel 2013 gli organi istituzionali regionali pesavano sui contribuenti per 26,4 milioni, da gennaio a novembre 2014 si è scesi a 18,4 milioni. Sempre troppo, tuttavia, stando a quanto succede nel resto del paese. In Friuli Venezia Giulia la spesa pro capite (15 euro per ciascun abitante, l’Istat ne conta 1.229.363 al primo gennaio 2014) è superiore del 50% alla media nazionale (10,5) e viaggia in testa, con la Liguria, nel Nord. Il confronto Tutti sotto la media italiana sono il Trentino Alto Adige (9,6), il Veneto (7,9), l’Emilia Romagna (7,3), il Piemonte (6,4) e la Lombardia (4,2). Ma il Friuli Venezia Giulia spende per le sue istituzioni anche molto più della Campania (7,2), della Toscana (5,4) e del Lazio (3,1). Alle spalle ci sono pure le Marche (11,9). Tolta la Puglia con la sua strana rilevazione, a Sud compaiono invece i costi record. Chi sta peggio sono i sardi (35,5 euro pro capite), i calabresi (34,9) e i molisani (34,8). Salassi anche per gli abitanti della Basilicata (29), della Sicilia (27), dell’Umbria (22,8) e dell’Abruzzo (19,2). Il personale Anche su un’altra voce il Friuli Venezia Giulia denuncia una situazione di forte spesa pubblica. Sempre stando alle schede su soldipubblici.gov.it, elaborate da Adnkronos, la nostra Regione, con 88,3 milioni e 71,8 euro pro capite nei primi undici mesi dell’anno in corso, è tra le meno virtuose sul fronte del personale (1,5 miliardi in Italia per le competenze fisse per gli addetti a tempo indeterminato). La precedono solo altre due “speciali”: la Sicilia (575 milioni, 115 a testa) e la Sardegna (186,6 milioni, 78,4 a cittadino). Corretto peraltro ricordare che in Friuli Venezia Giulia, visto il maggior numero di competenze delle ordinarie, i dipendenti pubblici sono in numero maggiore che altrove. L’ultimo posto, quello del Trentino Alto Adige (poco più di 8 milioni, 7,7 euro pro capite), non è infine significativo dato che non compaiono nel conteggio i dipendenti delle Province autonome di Trento e Bolzano.
Il Friuli Venezia Giulia riserva indiana degli statali. I dipendenti pubblici salgono a quota 85.610 mentre calano nel resto d’Italia. Rispetto al 2013 si contano 246 in più. Ma regionali, comunali e provinciali perdono 341 posti in un solo biennio di Marco Ballico “Messaggero Veneto”. Sempre più insegnanti e ausiliari, colonnelli e marescialli, medici e addetti vari nelle strutture ospedaliere. Mentre il comparto unico riduce i ranghi, scuole, forze armate e servizio sanitario regionale trascinano la ripresa dei dipendenti pubblici in Friuli Venezia Giulia. Già nel 2012 c’era stata una risalita, primo segnale di inversione di tendenza dal 2008. Nel 2013 il nuovo trend è consolidato: rispetto all’anno precedente si contano 246 statali in più. L’esercito della Pa tocca quota 85.610. Un dato complessivo che conferma la nostra come regione decisamente pubblica: un friulgiuliano su 14 lavora nel settore statale, quello con il posto fisso quasi assicurato: gli inquadramenti stabili sono infatti 79.150, il 92,4%. Puntuale come Natale e Capodanno, arriva il Conto annuale della Ragioneria generale dello Stato, fotografia regione per regione, comparto per comparto della consistenza e dei costi del personale della pubblica amministrazione in Italia. Documento ufficiale, tra l’altro, poiché costituisce fonte di informazioni per le decisioni istituzionali in materia di pubblico impiego. La fresca pubblicazione segnala un Fvg in controtendenza rispetto al paese. Nel 2007 la Pa italiana contava 3.419.513. Nel 2013 si è scesi a 3.223.639 (-5,7%). Nello stesso periodo il calo in regione è stato inferiore (-3,4%), ma soprattutto si assiste a una ripresa della statalizzazione negli ultimi due anni. Tutto il contrario della sintesi nazionale fatta dalla Ragioneria: «Il comparto che più ha contribuito alla riduzione del personale è la scuola, ma la variazione negativa ha interessato tutti i comparti». In Fvg, invece, è proprio la scuola, con le forze armate, a segnare l’impennata più netta. La discesa in Fvg era iniziata dal 2001 quando nel pubblico operavano 89.964 lavoratori. Nel 2004 erano 88.100, nel 2005 nuovo rialzo (90.216), quindi sempre un calo, eccezione fatta per il 2008 (88.839) rispetto al 2007 (88.628). Nel 2012 altra crescita: dagli 85.261 del 2011 a 85.364 (+103). Nel 2013 – somma di 38.962 uomini (45,5%) e 46.648 donne (54,5%) –, con 246 new entry, si arriva appunto a 85.610. Numeri all’insù dal 2012 al 2013 sono anche quelli di Val d’Aosta, Lombardia, Provincia di Trento, Lazio, Sardegna e Basilicata. Il settore dell’istruzione (il 24% del totale, 243 addetti in più dal 2012 al 2013, la solita stragrande maggioranza di donne: 16.582) rimane il più rappresentato nel pubblico impiego regionale. Segue la sanità: 20.473 persone in aziende sanitarie, ospedali e distretti. La sorpresa, alla luce delle ripetute denunce del sindacato, è anche in questo caso la crescita rispetto all’anno precedente: +172. Al terzo posto regionali, provinciali e comunali del comparto unico: sempre in tanti (14.581) ma sempre meno (erano 14.678 nel 2012 e 14.922 nel 2011. In sostanza, in un solo biennio, si sono persi 341 posti. Si contano a migliaia anche i “pubblici” dei corpi di polizia, dell’università, dei ministeri e delle Forze armate. Ufficiali e soldati semplici si confermano una presenza ancora molto attiva: se infatti i dipendenti pubblici regionali rappresentano il 2,7% del totale del paese, uomini e donne dell’esercito del Fvg sono percentualmente il 6,4% dei 184.477effettivi italiani. I militari (+243) sono il terzo e ultimo comparto in crescita. I corpi di polizia segnano -122 (da 8.146 a 8.024) e i Vigili del fuoco -13 (da 973 a 960). Ma riducono la loro presenza anche i ministeriali (da 2.631 a 2.571), le agenzie fiscali (da 1.481 a 1.476), le università (da 2.700 a 2.655), gli enti di ricerca (da 418 a 414). Ci sono anche meno magistrati (da 212 a 204), personale della presidenza del Consiglio dei ministri (da 11 a 9) e di carriera prefettizia (da 25 a 24). All’ingiù pure gli enti articolo 60 (servizi di pubblica utilità, da 371 a 367).
IL FRIULI VISTO DAI RAGAZZI.
Ecco com'è il Friuli di oggi visto dai ragazzi del Deganutti. Troppe donne sono maltrattate e tanti morti a causa di malattia. Lo studio si chiama Bes, Benessere equo e sostenibile in Friuli Venezia Giulia di Giulia Zanello su “Messaggero Veneto”. «Il Friuli Venezia Giulia è purtroppo in cima alla classifica nazionale per gli atti di violenza sulle donne e per l’alto tasso di mortalità per patologie tumorali, sempre tra le donne, di età compresa tra i 19 e i 64 anni. Tra i maschi, sorprende invece l’alta percentuale di mortalità per demenze e malattie del sistema nervoso ed è ancora preoccupante il tasso di mortalità tra i neonati, soprattutto femmine, superiore di quasi quattro punti rispetto alla media nazionale». Sono soltanto alcuni dei dati raccolti all’interno della pubblicazione Bes - Benessere equo e sostenibile in Friuli Venezia Giulia, elaborato da un gruppo di studenti della classe 4ªC dell’indirizzo “sistemi informativi aziendali” (in collaborazione con gli alunni di altre due classi, una quarta e una quinta) dell’istituto Deganutti di Udine. Il focus sui benessere e malesseri della regione Fvg è nato come sviluppo a una prima ricerca realizzata già lo scorso anno: «Un nuovo parametro per valutare comunità e Stati» - sulla base del primo rapporto Bes Italia 2013 - analizzava infatti i dodici parametri considerati dall’Istat per valutare il livello di qualità della vita raggiunto ed era stata curata sempre da alcuni ragazzi della scuola, coordinati dalla docente Paola Micoli, nell’ambito del progetto Labeed - Laboratori etica economia e diritto, con il coinvolgimento dell’Università di Udine e dell’Associazione etica ed economia di Udine. Nel secondo anno l’indagine – referente del progetto è stato il docente Enzo Barazza – ha riguardato le condizioni della regione, per capire punti di forza e debolezza, e come la stessa si colloca all’interno del panorama nazionale. La ricerca – basata su dati raccolti dall’Istat su base pluriennale – non si è accontentata di evidenziare solo i domini (salute, lavoro, istruzione, ambiente) e gli indicatori per valutare il benessere – 117 su 134 – in cui il Friuli Venezia Giulia occupa comunque una posizione di eccellenza, ma anche quelli in cui indossa la “maglia nera”, sia rispetto alla media nazionale, sia nel confronto con la regione più e meno virtuosa in riferimento al singolo indicatore. In ogni grafico, volta per volta, attraverso l’utilizzo degli istogrammi le regioni sono rappresentate da diversi colori: verde per le situazioni migliori, rosso per quelle peggiori, viola per il vertice assoluto e nero per la situazione più preoccupante. La ricerca elaborata dagli studenti solleva alcune criticità del nostro sistema regionale: dallo stato di salute alla diffusione capillare di scorrette abitudini come alcol e fumo, l’alto tasso di mortalità maschile per incidenti stradali e il tasso di istruzione universitario delle donne. Se la regione non detiene il primato assoluto in campo sanitario (dove lo stacco netto lo danno le province autonome di Trento e Bolzano), non si può dire altrettanto confrontando il campo innovativo. Le imprese del Friuli Venezia Giulia salgono sul podio e si aggiudicano la medaglia d’oro tra le altre regioni per l’introduzione, nell’ultimo triennio, di innovazioni di prodotto-servizio, e per l’innovazione tecnologica, organizzativa e di marketing che hanno avuto la capacità di implementare. In vetta anche gli indicatori sulla mortalità infantile tra i maschi, lo stato fisico delle quattordicenni e la fiducia riposta nelle forze dell’ordine. Insomma, obiettivo del lavoro era sensibilizzare i ragazzi sui temi dello sviluppo sostenibile per una migliore qualità della vita, e comprendere quanta strada distanzia la regione da quelle più e meno virtuose. Quest’anno uscirà il terzo tomo dedicato al «Che fare», per individuare soluzioni capaci di sanare le criticità emerse dalla ricerca. Una base di partenza e uno spunto di riflessione in cui, probabilmente, gli studenti non saranno in grado di fornire le ricette più adeguate, ma saranno chiamati ad esprimere la loro idea sul futuro. I cittadini del domani saranno proprio loro e il compito degli insegnanti non si deve limitare a fornire elementi nozionistici, bensì “bussole” utili a orientare il futuro delle giovani generazioni.
UNABOMBER: 30 ATTENTATI, NESSUN COLPEVOLE. UNA VITTIMA: ELVO ZORNITTA.
Unabomber: 30 attentati, nessun colpevole. Decine di feriti per una serie di esplosioni negli anni Novanta e alla fine un capro espiatorio, Elvo Zornitta. Che ora, a tutti gli effetti, è innocente, scrive Giorgio Sturlese Tosi su Panorama. Vent’anni di indagini, trenta attentati, nessun colpevole e un solo condannato. Unabomber, il terrorista che ha seminato il panico nel Nord Est negli anni ’90 e 2000 con ordigni esplosivi rudimentali ma capaci di ferire decine di persone, bambini compresi, resta un fantasma. La prima sezione penale della Cassazione ha condannato a due anni di reclusione, pena sospesa, Ezio Zernar, il poliziotto esperto in balistica che falsificò le prove per incastrare Elvo Zornitta, a lungo sospettato di essere l’attentatore. Di più, lo stesso Zornitta dovrà essere risarcito con centomila euro. Unabomber colpì, la prima volta, a Portovecchio di Portogruaro, nel 1993. Dove esplose una cabina telefonica. Da allora è una lunga scia di attentati, finalizzati a ferire (il morto non ci è mai scappato solo per caso) la gente comune. Compresi i bambini, attratti con malvagia astuzia da giocattoli, pennarelli e ovetti Kinder imbottiti di esplosivi. Prima ordigni assemblati senza una particolare perizia, poi vere bombe alla nitroglicerina, come quella nascosta nel cuscino di un inginocchiatoio della chiesa di Sant’Agnese, ancora a Portogruaro, nella Pasqua 2004. Le indagini, affidate alle migliori menti investigative del Paese, che si servirono anche dell’esperienza dell’Fbi statunitense in materia di serial killer, furono condotte da quattro procure, senza un vero coordinamento. Fino all’avvio di una superprocura istituita ad hoc ma poi naufragata. Tante le piste battute: dal terrorismo di stampo ecologista, alla quella che suggeriva la partecipazione di militari americani di stanza ad Aviano. Decine i sospettati, ma due soli reperti importanti: un pelo e una traccia di saliva trovati in una confezione di uova che avrebbero dovuto esplodere, comprata in un supermercato, ancora di Portogruaro. Inutili però a condurre all’attentatore seriale. Poi quella che apparve come la svolta. Il 26 maggio 2004 le forze dell’ordine perquisiscono l’abitazione di Elvo Zornitta, ingegnere con l’hobby del bricolage. Zornitta aveva in casa polvere da sparo e oggetti compatibili con il confezionamento delle bombe. E i suoi spostamenti erano, almeno in parte, coincidenti con le zone dove avvenivano gli attentati. Ma la foga di trovare un colpevole, di far coincidere gli indizi con il sospettato, l’ansia provocata dall’attenzione mediatica, portò al passo falso, all’errore che probabilmente segnò per sempre un’inchiesta che forse poteva essere condotta meglio, e che difficilmente potrà mai ripartire. A Zornitta furono trovate delle forbici il cui taglio riproponeva esattamente quello effettuato sui materiali repertati su un ordigno. La perizia porta la firma del superperito della Polizia Ezio Zernar. Che invece, come sancisce la Cassazione, si era inventato tutto. Serviva un capro espiatorio. Oppure mancava il suggello della prova scientifica ad un castello indiziario ritenuto valido. Il poliziotto è stato condannato, Zornitta ha vissuto per decenni con l’infamante sospetto di essere un folle dinamitardo. E Unabomber resta un nome di fantasia.
«Quel poliziotto mi rese un mostro», scrive “Giornalettismo” . L'ingegnere Zornitta a Repubblica racconta la sua vita da Unabomber. «Quel poliziotto mi rese un mostro». Per tutti Unabomber era lui, Elvo Zornitta, l’ingegnere di origini venete che per gli inquirenti era «diabolico», in quanto il suo aspetto così normale contrastava con la sua straordinaria capacità criminale che gli avrebbe permesso di piazzare quattro bombe mentre era indagato, intercettato e pedinato, di mutilare bimbi pur avendo una figlia piccola, di profanare chiese nonostante fosse una persona religiosa. Fino al 2009 era considerato lui il mostro, quando la procura di Trieste decise di archiviare il tutto perché vi erano una marea di dubbi e forse Zornitta non era Unabomber, l’imprendibile criminale che dal 1994 al 2004 ha piazzato 30 ordigni, ferendo 6 persone. Tuttavia qualche sospetto rimase, ma mercoledì scorso la Cassazione ha confermato la condanna del suo «persecutore», il poliziotto Ezio Zernar, il quale secondo la giustizia avrebbe truccato la prova regina per incastrarlo, ovvero il lamierino di un ordigno. Per Zornitta è una vera e propria liberazione: «Da oggi sono molto più sereno», ha detto l’ingegnere a Repubblica. Di questa esperienza Zornitta ha «un ricordo penoso. Ero diventato il mostro e la mia famiglia viveva con il mostro. Un’esperienza che mi ha toccato mentalmente, socialmente, economicamente: ho perso anche il lavoro da dirigente. Oggi faccio praticamente l’impiegato e guadagno molto meno». Per Zornitta gli inquirenti «avevano bisogno di un colpevole», «dovevano dare una risposta rapida». Rispetto alla sua passione per il bricolage e il suo laboratorio, Zornitta ammette che forse anche lui avrebbe deciso una perquisizione nei suoi confronti «perché era evidente che il folle andava cercato fra gli appassionati di bricolage. E avrei anche messo una pattuglia a seguirmi, come quella che avevo alle calcagna». Ha anche aggiunto però che «poi mi sarei fermato perché avrei capito che Zornitta non poteva costruire quelle trappole da meccanico imbranato». Zornitta viene poi interrogato sui 48 involucri di ovetti kinder e la fialetta della Paneangeli, come quelli delle bombe, e i petardi trovati in casa sua: «I petardi erano quelli di Capodanno, gli ovetti li raccoglieva mia figlia, la fialetta era come quelle che usavo per fare le lampadine dei miei presepi. Mi dissero: non è possibile. Ecco la tesi precostituita», risponde l’ingegnere che trova sia stata una sfortuna pazzesca il fatto che quando è scoppiato il caso intorno alla sua persona, Unabomber ha improvvisamente smesso di colpire. Racconta poi la grande sofferenza della figlia «cresciuta con l’indagine su Unabomber, una pena. Penso sia maturata prima delle sue coetanee, più forte e grintosa e ha le idee chiare: non farà mai l’avvocato, il magistrato o il poliziotto. Dedicherà la sua vita ad aiutare gli altri nel mondo della sanità». L’ingegnere conclude poi dicendo che il suo avvocato farà causa allo stato per responsabilità organica del funzionario, visto che Zernar risulta nullatenente.
Unabomber e il significato della parola giustizia, scrive Alessandro D'Amato su “Giornalettismo”. (articolo apparso anche su Liberal). La testimonianza dell’ingegnere di Azzano Decimo, a lungo sospettato di essere il tristemente noto Unabomber in seguito ad una perizia manomessa. La prima volta nel 1994 a Sacile, in provincia di Pordenone, un tubo-bomba che esplodendo ferisce quattro persone alla “Sagra dei Osei”. Nel ’95 il primo ferito grave, un’anziana, e l’anno dopo lo scoppio arriva sotto l’ombrellone, con un altro tubo-bomba, a Lignano Sabbiadoro (Udine). Riprende con il nuovo millennio, e i giornali sono pronti a chiamarlo Unabomber, ispirandosi all’America. Ancora in spiaggia, poi un esplosivo dentro un uovo in vendita al supermercato, poi tocca ai pomodori, alla maionese, ai ceri da cimiteri, alle bolle di sapone. Nel 2003, il 25 aprile, “in occasione della Festa di San Marco numerosi trevigiani si recano, come da tradizione, sulle rive del fiume Livenza. L’ordigno viene posto dentro un pennarello colorato lasciato in prossimità di un pilone del ponte della strada provinciale Postumia. Francesca G., 9 anni, di Fratta di Oderzo, perde uno occhio e tre dita della mano”. E’ psicosi Unabomber, mentre un giornale locale – “Il Gazzettino” – comincia invece a chiamarlo Monabomber. Scoppiano un ovetto di cioccolato, una candela votiva, la sella di una bicicletta. L’ultima è a Caorle, 2006: “Il 28enne Massimiliano Bozzo, di Mestre, trova una bottiglia che apparentemente contiene un messaggio tra gli scogli vicino alla foce del Livenza. La bottiglia esplode ferendogli gravemente il pollice”. E c’è anche, dal 2004, un sospettato. Si chiama Elvo Zornitta, il suo nome esce nel settembre 2006: “L’ esame della Scientifica conferma il «verdetto»: le forbici trovate a casa di Elvo Zornitta sono quelle usate da Unabomber per confezionare l’ ordigno inesploso trovato nel luglio dello scorso anno a Portogruaro”. A ottobre arriva l’incidente probatorio: “Dunque, l’ ingegnere quarantanovenne di Azzano Decimo, iscritto nel registro degli indagati dal maggio del 2004, potrebbe essere «inchiodato» da un paio di forbici, sequestrate a casa sua, durante l’ ultima perquisizione. Secondo i risultati di tre perizie, le microimpronte rilevate sulle lame sono altamente compatibili con le tracce incise nel lamierino di ferro, che componeva un ordigno (inesploso) trovato (aprile 2004) nell’imbottitura di un inginocchiatoio della chiesa di Sant’Agnese di Portogruaro”. Il 12 gennaio in aula arriva la superperizia che accusa Zornitta. Cinque giorni dopo, il colpo di scena: gli esami della difesa dimostrano che non solo le forbici, ma anche il lamierino sequestrato nella chiesa di Sant’Agnese di Portogruaro è stato manomesso. Nei giorni successivi, una foto – non depositata dalla prima perizia ma ritrovata nel computer di Ezio Zernar, responsabile del Laboratorio Indagini Criminalistiche della Procura veneziana, dimostra l’avvenuta manomissione. Oggi il Pubblico Ministero considera ancora indagato Elvo Zornitta, ma non si è ancora arrivati all’Udienza Preliminare, mentre è partito un processo civile di risarcimento danni nei confronti di Zernar da parte di Zornitta, per 2,5 milioni di euro di danni.
Oggi “l’ingegnere cattolico dagli occhi di ghiaccio”, come la chiamavano i giornali quando le prove contro di lei sembravano schiaccianti, crede ancora nella giustizia?
“E’ una domanda imbarazzante, ho dei problemi a dare una risposta netta. Diciamo che credo ad alcuni magistrati, a quelli che fanno il loro lavoro a costo della vita. Basta così, ecco”.
Che effetto le ha fatto finire all’interno di un processo che è stato anche, giocoforza, mediatico? L’attenzione di giornali e tv, alle quali lei non si è mai sottratto, come l’ha vissuta?
“E’ stato un trauma. La prima volta sotto i riflettori, per me, nella vita, non la dimenticherò più. E’ stato pesante anche l’aspetto della carta stampata, perché – come si immagina – non sempre si gioca in maniera pulita. Mi ricordo di una frase che io ho detto una volta a una persona, una cosa del tipo: “Chi ha provato una volta la nitroglicerina non torna alla polvere da sparo”, buttata lì per scherzare con un amico; me la sono ritrovata scritta sul giornale, in un senso che mi sembrava stravolto, quasi come fosse una specie di confessione”.
E poi?
“Dopo che il mio nome è diventato pubblico, i giornali non mi hanno lasciato più in pace; in tv sono andato dopo, quando è stata presentata la controperizia. Io mi sono esposto prima, però, perché tutti sapevano chi ero. Volevo dare un messaggio forte, perché l’aria intorno a me stava diventando pesante. Leggevo su internet che si diceva: “Trovato il mostro”, o cose del genere”.
Ha mai avuto paura di non uscirne più?
“Ho avuto la sensazione di portarmi un peso enorme sulle spalle. Questo sì”.
E i rapporti umani? Ci sono state persone che hanno chiuso i rapporti con lei perché la credevano un pericoloso criminale?
“In effetti, ci sono stati colleghi di lavoro che mi hanno detto di averci creduto fino a gennaio 2007. Sembra incredibile, per lo meno a me”.
Se il risarcimento arrivasse, sarebbe un uomo felice?
“Non è una questione di cifre, nessuno mi ripagherà di quanto accaduto a mia figlia, a mia moglie, ai miei genitori. Deciderà il giudice. Io sono tranquillo”.
Qualche anno fa, alla fine di un dibattito, abbiamo scambiato due chiacchiere. Lei, prima di andare, ha rassicurato scherzosamente me e la persona che parlava con noi dicendoci: “State tranquilli, non ho lasciato nulla sotto la sedia dove ero seduto”. Noi ci siamo messi a ridere, ma oggi le capita ancora di essere guardato con sospetto, a distanza di anni?
“Con sospetto no, sinceramente mi sono trovato in poche occasioni in difficoltà; anzi: ora si preferisce raccontare altro. Mi sono trovato però a discuterne, qualche volta, e mi è sembrato non fosse un tabù persino scherzarci su. L’ironia continuo ad averla. E’ la mia forma di salvezza”.
Unabomber, caso chiuso: «Così un poliziotto mi trasformò in mostro». Zornitta dopo la condanna definitiva dell’agente. « Mia figlia aveva otto anni, oggi ne ha diciotto, è stata lei la mia grande sofferenza», scrive Andrea Pasqualetto su “Il Corriere della Sera”. Unabomber era lui, l’ineffabile ingegnere Elvo Zornitta. Classe 1957, origini venete, segni particolari: imperturbabile, ordinatissimo, preparatissimo. «Diabolico» tradussero gli inquirenti ricordando il contrasto fra il suo aspetto così normale, giacchettina maglioncino cravattina, una vita borghese da buon padre di famiglia, e la sua straordinaria capacità criminale. Un dottor Jekyll e mister Hyde, un uomo in grado di gabbare tutti riuscendo a piazzare quattro bombe mentre era indagato, intercettato e pedinato, di mutilare bambini avendo una figlia piccola, di profanare chiese nonostante la profonda fede religiosa. Era lui il mostro. Così, almeno, fino al 2009, quando la procura di Trieste decise di archiviare tutto perché tutto era diventato dubbio e forse non era più Zornitta l’imprendibile bombarolo del Nord Est, 30 ordigni in dieci anni, dal 1994 al 2004, 6 feriti. Qualche sospetto sull’ingegnere rimase. Mercoledì scorso la Cassazione ha però confermato la condanna del suo «persecutore», il poliziotto Ezio Zernar, che secondo la giustizia avrebbe truccato la prova regina (il lamierino di un ordigno) per incastrarlo, sancendo così la fine del caso Unabomber. Zornitta la vive come una liberazione: «Da oggi sono molto più sereno».
Cosa le rimane di questa vicenda?
«Un ricordo penoso. Ero diventato il mostro e la mia famiglia viveva con il mostro. Un’esperienza che mi ha toccato mentalmente, socialmente, economicamente: ho perso anche il lavoro da dirigente. Oggi faccio praticamente l’impiegato e guadagno molto meno».
Perché puntarono su di lei?
«Forse perché avevano bisogno di un colpevole: c’era troppa pressione mediatica, un pool di quaranta persone che indagavano e gli attentati sempre più frequenti. Dovevano dare una risposta rapida».
Riconoscerà comunque che il suo profilo era sospetto: ingegnere, appassionato di bricolage, un piccolo laboratorio, la casa al centro della «zona Unabomber», la frequentazione di alcuni luoghi degli ordigni... Cosa avrebbe fatto lei al posto degli inquirenti?
«Avrei forse deciso anch’io una perquisizione perché era evidente che il folle andava cercato fra gli appassionati di bricolage. E avrei anche messo una pattuglia a seguirmi, come quella che avevo alle calcagna. Ma poi mi sarei fermato perché avrei capito che Zornitta non poteva costruire quelle trappole da meccanico imbranato».
Al di là del lamierino, a casa le furono trovati 48 involucri di ovetti kinder e la fialetta della Paneangeli, come quelli delle bombe, e poi i petardi ...
«I petardi erano quelli di Capodanno, gli ovetti li raccoglieva mia figlia, la fialetta era come quelle che usavo per fare le lampadine dei miei presepi. Mi dissero: non è possibile. Ecco la tesi precostituita».
C’è anche il fatto che da quando è «scoppiato» il suo caso Unabomber non ha più colpito. Una sfortuna pazzesca, non crede?
«Lo credo sì».
Il momento più brutto?
«Il giorno in cui mi è stato detto da un giornalista che avevano trovato la prova regina contro di me. Ho pensato che avessero già deciso una sentenza e mi è venuta paura. La grande sofferenza è stata invece mia figlia. Aveva otto anni, oggi ne ha diciotto. È cresciuta con l’indagine su Unabomber, una pena. Penso sia maturata prima delle sue coetanee, più forte e grintosa e ha le idee chiare: non farà mai l’avvocato, il magistrato o il poliziotto. Dedicherà la sua vita ad aiutare gli altri nel mondo della sanità».
Chiederà un risarcimento?
«A chi? Zernar risulta nullatenente. Il mio avvocato, Maurizio Paniz, che ringrazio, farà causa allo Stato per responsabilità organica del funzionario. Ma la vedo molto complicata».
Qualcuno dirà che lei è stato così diabolico da far condannare anche chi la stava per incastrare.
«Già, e correrò per il Nobel del crimine».
Elvo Zornitta: «Bossetti? Presto per chiamarlo assassino». Unabomber, Zornitta racconta il suo inferno a Gabriele Lippi su “Lettera 43”. Il 26 maggio 2004 entrava in un incubo da cui sarebbe uscito solo il 2 marzo del 2009, quasi cinque anni dopo. Ora che Elvo Zornitta si è scrollato di dosso l'appellativo di Unabomber, è costretto a pagare le conseguenze degli errori della giustizia e dei media che lo diedero in pasto all'opinione pubblica. Una situazione che nel 2014 sembra ripetersi con Massimo Giuseppe Bossetti, presunto assassino di Yara Gambirasio, con a carico pesanti indizi di colpevolezza, ma ancora, secondo la Costituzione, innocente. Zornitta osserva la situazione e con Lettera43.it rivive la sua vicenda.
DOMANDA. Sbatti il mostro in prima pagina. Sembriamo condannati a rivedere sempre lo stesso film.
RISPOSTA. Non voglio esprimermi in merito a questo caso, ma in generale è ingiusto condannare una persona prima ancora che sia stata stabilita la sua colpevolezza.
D. Eppure non sembra così.
R. È una situazione tipicamente italiana, tanto che spesso le notizie arrivano da persone che non sono nemmeno gli inquirenti.
D. Ma è stato il ministro dell'Interno Angelino Alfano a sostenere che avessero presto «l'assassino».
R. Un errore gravissimo dettato dalla fretta di poter dire che il caso era stato risolto sotto la sua giurisdizione.
D. Ma ci sono i test genetici...
R. Certo, in questo caso la prova del Dna sembra dare un'indicazione chiara. Nel mio caso si parlava di prova regina, ma non era chiaro quale questa fosse.
D. Lei è stato scagionato dal Dna, ma ha subito comunque gli errori della scientifica. Anche quelle che sembrano le prove più sicure devono essere inserite in un contesto?
R. Certo. Anche se, per quello che ha fatto meriterebbe di morire, in ogni caso bisogna come minimo aspettare di essere sicurissimi che sia la persona giusta. Mi viene da pensare: ma se Bossetti avesse un altro fratello con il Dna compatibile a quello trovato sul corpo di Yara?
D. Per anni lei è stato ritenuto colpevole di crimini per cui poi è stato completamente scagionato. Come ricorda quel periodo?
R. Purtroppo non mi ha mai abbandonato. Tutt'oggi ne porto le conseguenze e in certi momenti sono costretto a prendere tranquillanti. La tensione è stata spaventosa.
D. La sua famiglia fu coinvolta in sospetti che rivelarono presto infondati. Quella di Bossetti è finita nelle pagine di cronaca. Che valore ha la tutela della privacy di tutte le persone coinvolte?
R. Altissimo. Io cercavo di tenere la mia bambina il più lontano possibile dalla vicenda, perché lei era il simbolo dell'innocenza. E invece i giornalisti assediavano la casa, ed era difficile anche uscire per portarla a scuola.
D. Quanto è stato difficile per lei ricostruirsi una vita?
R. Ancora oggi incontro persone convinte che io sia andato a processo, quando non ho mai visto il giudice per l'indagine preliminare. E qualcuno non è convinto della mia innocenza nemmeno ora.
D. Perché?
R. Quando uno viene dipinto come un mostro, una smentita non è sufficiente a togliergli l'etichetta di dosso.
D. Ma è tornato a una certa normalità?
R. Sì, dopo aver perso il lavoro ne ho trovato uno nuovo, ma sono stato costretto a ricominciare daccapo, come operaio semplice, a 47 anni.
D. A complicare tutto ci pensano le lunghissime indagini tipiche della giustizia italiana.
R. Nel mio caso, prima di essere scagionato, ci sono voluti cinque anni. In parte questo è stato dovuto alla complessità delle indagini, in parte alla volontà di non ammettere la verità. E per far raffreddare l'interesse dei media sulla vicenda in modo che non si desse peso all'errore.
D. E adesso, da osservatore esterno, le sembra che la situazione stia cambiando?
R. Purtroppo no, anzi, mi sembra che casi simili si ripetano con una certa frequenza. In questo caso per quattro anni ci sono state indagini discrete, ma poi c'è stato l'annuncio ufficiale di un ministro. Non dei titolari delle indagini.
Per colpa di Unabomber non faccio più l'ingegnere. Zornitta: scagionato nell’inchiesta sugli ordigni nel Nord-Est, ma guadagno la metà, scrive Niccolò Zancan su “La Stampa”. «Sono sceso giù in pigiama e ciabatte. Erano le 6,40 del 26 maggio 2004, un quarto d’ora prima della sveglia. Pensavo fosse successo qualcosa di brutto al vicino. Mi ricordo che andavo verso il cancello titubante, calcolavo la distanza e pensavo: "Se sono dei malintenzionati, faccio ancora in tempo a rintanarmi in casa"». L’uomo che doveva essere Unabomber ha lo stesso pigiama di allora. La stessa villetta sulla strada statale per Pordenone. I vecchi mobili di legno lucido, manuali in inglese su colle e sistemi di fissaggio. In compenso è cambiato lui, molto: per dormire ha ancora bisogno dei tranquillanti. Elvo Zornitta era un ingegnere felice. Laurea al Politecnico di Torino, impiego da progettista nel settore dell’automotive. «Avevo la fortuna di fare un lavoro che mi piaceva molto. La sera tornavo a casa soddisfatto, abbracciavo mia figlia, non chiedevo altro». Ma si sa che nulla è più provvisorio di un paradiso in terra. Quella mattina di maggio era una perquisizione. Zornitta diventava il principale indagato per gli attentati dinamitardi di Unabomber. «Andavo al supermercato a comprare una scatoletta di tonno e tutti mi fissavano. Non dimenticherò mai certe facce atterrite». Zornitta «mostro». Caso mediatico. Rapidamente disoccupato. In questi anni ha montato pannelli solari sui tetti. Poi si è riciclato come tecnico di laboratorio nel settore controllo qualità di un’azienda locale. Oggi guadagna la metà rispetto al 2004. «E’ stata una brusca retrocessione», dice. E le lampadine fioche del soggiorno sembrano raccontare qualcosa di più di uno stato d’animo. Poche storie italiane racchiudono un seme tanto perfetto di sconfitta. Dal 1994 al 2006 un pazzo ha disseminato di piccoli ordigni il Veneto e il Friuli: 33 attentati terroristici. Ovetti, tubi, vigliaccate. Ha ferito a casaccio nelle sagre di paese, nelle chiese, nei supermercati, mutilando anche bambini. Il principale sospettato - Zornitta, appunto - è stato indagato per sette anni prima dell’archiviazione per mancanza di prove. Nel frattempo il poliziotto Ezio Zernar, capo del laboratorio delle investigazioni criminalistiche della procura di Venezia, è stato condannato in secondo grado per aver manomesso un reperto per incastrare lo stesso Zornitta. In definitiva: un uomo di Stato pronto a tradire se stesso per fare carriera, un ingegnere immolato sulla strada della verità, mentre Unabomber resta un mistero, ovunque si trovi e ammesso che sia ancora vivo. «Contro di me avevano i sospetti di un mio ex collega - racconta Zornitta -, diceva che per passioni e competenze tecniche io potevo avere le caratteristiche del bombarolo». E’ vero: Zornitta ha un capanno pieno di attrezzi. Il presepe che sta costruendo è un capolavoro di cavi e pietruzze. Usa delle fialette di profumo per ricavare le luci, minuscoli accorgimenti tecnici. Ma il problema è che per sette anni gli investigatori non hanno trovato altro che un meticoloso bricoleur. «Avevo delle armi in casa - racconta Zornitta -, non sarei sincero se dicessi di non aver mai pensato di usarle per farmi giustizia. Ma poi ho scelto la mia famiglia. Mia moglie e mia figlia non mi hanno mai abbandonato. Questa è stata la mia più grande fortuna». Sull’ingegner Zornitta continua ad aleggiare una specie di diffidenza. Certi giornali locali scrivono con malizia che «non è stato giudicato ma archiviato». Il che non esclude un eventuale nuovo coinvolgimento in futuro. Eppure... «Settemila ore di intercettazioni telefoniche. Mi hanno messo microspie persino in un posto delicato come la camera da letto. Sono stato monitorato anche nella tazza del bagno. Questo è drammatico...». Poi arriva l’attentato dell’11 luglio 2005 davanti a un supermercato di Portogruaro. Un piccolo ordigno piazzato sotto il sellino di una bicicletta, solo per fortuna non esplode. Tutto accade mentre Zornitta è pedinato giorno e notte. Un alibi strepitoso. «Quel giorno ero a Bibione a casa di mia madre. Ho chiesto a un investigatore come potessi rimanere sotto inchiesta. Ma lui non mi ha risposto, non mi guardava neppure negli occhi...». Le indagini virano sull’ipotesi che Zornitta abbia un complice. «Ma credo sia davvero difficile ipotizzare che ci siano due pazzi nella stessa zona. Due pazzi vigliacchi, che colpiscono in accordo fra loro, senza nemmeno un movente...». Sull’ingegnere di Azzano Decimo hanno indagato le procura di Venezia, Udine e Trieste. «Alla fine solo un magistrato, in forma privata, mi ha detto: "Io non ho mai creduto che fosse colpevole". L’ho apprezzato molto». Prenderanno Unabomber? «Temo di no. Molte piste sono state trascurate. Chi può reperire facilmente la nitroglicerina e dove? Perché non sono mai stati fatti accertamenti in questo senso? E poi il famoso lamierino manomesso... Mi risulta che sia stato acquistato con un’unità di misura anglosassone». Zornitta non lo dice apertamente, ma pensa a una pista che conduce alla base militare di Aviano. Ipotizza il coinvolgimento di un soldato americano. Il che potrebbe spiegare anche l’uscita di scena di Unabomber. A un certo punto pronuncia due frasi che sono quasi un testamento: «Nessun padre metterebbe a repentaglio la sacralità dell’infanzia». E poi: «Questa mia passione per il bricolage mi ha giocato contro. Ma chi ama costruire non si dedica alla distruzione». Ora tutto tace. Il primo vento invernale spazza il vialetto davanti a casa Zornitta. E’ calato un buio spaventoso. Nulla ancora è stato compreso. «Non c’è una morale in questa storia - dice l’ingegnere che doveva essere Unabomber - ma ho imparato sulla mia pelle che la giustizia non è un principio astratto. Ci sono buoni e cattivi investigatori, come ci sono buoni e cattivi meccanici. In fondo, penso, se sono qui a parlarne, è perché ho avuto la fortuna di trovare sulla mia strada anche giudici seri, onesti e molto scrupolosi».
Intervista a Zornitta: La scandalosa vicenda di Elvo Zornitta. Trasformato in mostro dai giudici che aiutavo, scrive Stefano Lorenzetto su Il Giornale del 20 dicembre 2009. Elvo Zornitta racconta cinque anni di calvario: “Davo suggerimenti su dove cercare la nitroglicerina. Sono diventati prove contro di me”. Per il suo primo Natale da Elvo Zornitta, dopo cinque interminabili anni in cui agli occhi del mondo intero è stato Unabomber, non potrà dormire nella mansarda della sua città natale, Belluno, sopra la casa degli anziani genitori, dov’era solito portare la famiglia per le feste. «L’ho dovuta vendere». Non è bastato, non basterà. Il padre e la madre, ottantatreenni, sono stati costretti a cedere anche la loro casa di vacanza al mare, a Bibione, per aiutarlo a pagare le spese affrontate nell’estenuante battaglia giudiziaria. Non è bastato, non basterà. Elvo Zornitta, 52 anni, ingegnere aeronautico di Corva (Pordenone), capace di progettare barche, auto, box doccia, macchine per caffè, insomma tutto ciò che è meccanico, da aprile è in cassa integrazione a 813 euro al mese, preludio alla mobilità, «cortese perifrasi di licenziamento». Per fortuna la moglie Donata, architetto, continua a insegnare, «nella scuola primaria, perché è innamoratissima dei bambini», e la figlia Lucia, 13 anni, frequenta ancora la terza media, «quindi niente tasse universitarie, né libri costosi». Il Natale ha giocato un ruolo speciale in questo mistero che dura da 15 anni e che quattro Procure, una ventina di magistrati, legioni di investigatori e persino l’Fbi non sono riusciti a dipanare, nonostante abbiano avuto a disposizione, per così dire, 34 fra attentati e ritrovamenti su cui indagare, con 13 esplosioni, 9 feriti, almeno altrettanti testimoni e decine di reperti costruiti con luciferina intelligenza per mutilare e accecare, mai per uccidere, bambini e adulti del Nordest: uova di cioccolato, barattoli di Nutella, tubetti di maionese e di pomodoro, scatolette di sgombri, pennarelli, flaconi per bolle di sapone, candele, bottiglie, contenitori cilindrici, sellini di bicicletta, riempiti con inneschi ed esplosivi di vario tipo. L’ingegner Zornitta solleva il basamento coperto di muschio del presepe costruito nel 2001, esposto in cucina: «Ecco, vede?». Assomiglia al sottofondo di un plastico dei trenini Lima. Un groviglio di fili. «Quella mattina si portarono via cinque scatoloni di roba: circuiti artigianali, resistenze, condensatori, cavi elettrici. C’era anche una fialetta vuota di aroma Paneangeli. Credo che per loro sia stata la quadratura del cerchio». Bastava guardar meglio: il meticoloso ingegnere trasformava quei sottili cilindri di vetro, avanzati dalla moglie dopo la preparazione delle torte, in lampadine artigianali. Le stesse che ancor oggi rischiarano i passi dei pastori in cammino verso la grotta di Betlemme casalinga. Qualcuno deve aver pensato che invece gli servissero per riempirli di nitroglicerina. Il 2 marzo, su richiesta del pubblico ministero titolare dell’inchiesta, il giudice per le indagini preliminari di Trieste ha disposto l’archiviazione del procedimento contro Zornitta. Il 4 luglio il tribunale di Venezia ha condannato a due anni di reclusione il poliziotto Ezio Zernar, colpevole d’aver manomesso quella che era stata presentata come la prova regina: il famoso lamierino proveniente da uno degli ordigni, tagliato con forbici da elettricista che l’imputato non ha mai riconosciuto come sue. Da allora Zornitta ha smesso di leggere i giornali: «Non ce la faccio. Ho visto quanto poco ci mettono a fabbricare un mostro. Il mio entrò da quella porta il 26 maggio 2004».
Che cosa ricorda di quel giorno?
«Erano le 6.40, mia moglie e io stavamo ancora a letto. Sentii una scampanellata ultimativa. Pensavo che fosse accaduto qualcosa ai vicini. Andai ad aprire in pigiama e vidi due persone vestite di scuro al cancello: “Lei è il signor Zornitta Elvo? C’è una cosa importante che dobbiamo dirle”. Mi avvicinai senza farli entrare. Esibirono un mandato di perquisizione. Dopo un quarto d’ora avevo in casa 16 persone. Mi impedirono persino d’andare in bagno. Solo alle 10 mi fu concesso di vestirmi, con tre agenti in camera a guardarmi. Alle 13 mi portarono a Belluno per un’altra perquisizione nella mansarda, dove però non trovarono nulla d’interessante. Lì cominciò il dramma anche per i miei genitori. Prima d’allora non avevo mai visto mio padre piangere».
Quante perquisizioni ha subìto?
«Altre quattro, la seconda a distanza di un anno. Nel corso della terza mi sequestrarono un paio di forbici da elettricista con l’impugnatura di plastica rossa, marca Valex. Ho appreso che le produce la ditta Franzini di Bergamo. Mai saputo: negli acquisti mi fido solo del mio occhio, vedo subito se c’è un buon rapporto fra qualità e prezzo. Ne ho comprate altre sei paia uguali e le ho fatte numerare».
A che scopo?
«Per difendermi nell’incidente probatorio. Sapevo d’essere innocente. Quindi, se il perito nominato dal giudice affermava che quelle forbici erano servite per tagliare il ponticello d’ottone di uno degli ordigni confezionati da Unabomber, i casi potevano essere solo due: o non erano mie o il taglio era stato rifatto ad arte per incastrarmi. Ai miei periti avevo raccomandato solo una cosa: anche se io so di non essere colpevole, vi chiedo di non dire mai bugie per dimostrarlo. Una notte uno di loro mi svegliò di soprassalto: s’era accorto che il taglio sul lamierino esibito durante l’incidente probatorio non coincideva con quello visibile nelle foto scattate dai carabinieri».
Quanti interrogatori?
«Tre. Il primo, in Procura a Trieste, durò otto ore. Una pressione psicologica tremenda. Con mia grande sorpresa, seduto accanto al Pm trovai il professor Vittorino Andreoli. Noti bene che il magistrato non ha mai ordinato una perizia psichiatrica a mio carico».
Allora che ci faceva lì uno psichiatra?
«Lo ignoro. Ancor più anomalo è che il professor Andreoli abbia poi stilato una relazione senza essersi degnato di interagire con me. Tranne che per una battuta».
Quale battuta?
«Non posso dirlo». (È imbarazzato).
E perché mai?
«Si tratta di una battuta irriferibile, tale da squalificare l’intero interrogatorio. Credo che il verbalizzante non l’abbia neppure riportata».
Quante volte ha dovuto difendersi nelle aule di giustizia?
«Una ventina, fra Trieste, Pordenone e Venezia».
Quanto ha speso?
«Le dico solo che a un certo punto mi sono ritrovato con 2.000 euro sul conto in banca».
Ha avuto risarcimenti?
«No. Il tribunale ha stabilito che il poliziotto condannato dovrebbe rifondermi 200.000 euro. Se li ha. Ma c’è di mezzo il processo d’appello e poi, immagino, si andrà in Cassazione. Campa cavallo».
Qualcuno le ha chiesto scusa?
«Nessuno».
Ma tutta questa gente che ha dato la caccia a lei lo starà ancora cercando, Unabomber?
«Lo spero. Ma ne dubito».
Perché pensa d’aver attirato la loro attenzione?
«Me lo sono chiesto milioni di volte».
E che risposta s’è dato?
«Certamente qualcuno ha fatto il mio nome».
Chi?
«Un subalterno che nel 1984 mi ha avuto come capo sul lavoro. Immagino che nutrisse un forte risentimento per farsi vivo dopo vent’anni, suggestionando gli investigatori».
Lei è appassionato di armi?
«No. Anche se, appena laureato, ho lavorato per due anni alla Oto Melara di La Spezia, industria del ramo difesa, dove mi occupavo di missili. I testi militari sequestrati a casa mia risalivano tutti a quel periodo».
Che parole hanno usato per licenziarla alla Csr Italia di Fiume Veneto, dov’era direttore tecnico?
«“Le avverse condizioni di mercato rendono superfluo il suo ruolo in azienda”. Ho risposto: siate onesti, mi cacciate perché danneggio la vostra immagine. Inutile aggiungere che sono stato l’unico licenziato».
Ma l’ex parlamentare leghista Giuseppe Covre, titolare dell’azienda di mobili Eureka, le ha subito offerto un altro posto in segno di solidarietà.
«A parole. Al colloquio mi è stato obiettato che non avevo il profilo adatto. In realtà gli unici aiuti mi sono venuti da coloro che non hanno fatto passerella sui giornali. Purtroppo ora c’è la crisi e alla Torneria meccanica di Azzano Decimo, che mi aveva assunto solo per darmi una mano, non hanno più bisogno di un responsabile del controllo qualità».
I suoi cari non sono mai stati sfiorati da qualche sospetto?
«Assolutamente no. Però non è facile per una moglie affrontare i clienti del supermercato che ti osservano a bocca aperta o ricevere per posta lettere anonime. Mia figlia ha avuto per cinque anni un feroce mal di testa che le è passato solo alla fine di questa vicenda allucinante».
E lei come sta?
«Ho tirato avanti con questi». (Prende dalla credenza confezioni di Laroxyl, Citalopram e altri psicofarmaci). «Di notte avevo gli incubi. Sognavo di restare sotto una valanga o di affogare in una cisterna d’acqua. Mi mancava il respiro. Il Lormetazepam continuo a prenderlo».
Perché ha ancora bisogno di un ansiolitico?
«Non riesco a dormire più di tre ore».
Com’è trattato dall’opinione pubblica?
«Il 70 per cento delle persone mi riconosce per strada. È uno stress continuo. Domenica scorsa a Feltre i passanti si voltavano a guardarmi. Un giorno sono passato davanti a una trattoria di Borgo Pio, vicino al Vaticano. L’oste era sulla porta e mi ha gridato: “Ahò, a Unabomber!”. Poi s’è scusato: “Non sapevo come chiamarla, non volevo offenderla”».
Che cosa prova quando legge sui giornali di presunti mostri, come le due maestre d’asilo di Pistoia accusate di seviziare i bambini?
«Mi dico: ma perché i magistrati non aspettano una sentenza di condanna nel primo grado di giudizio? Poi divulghino pure nomi e foto».
Che idea s’è fatto di Unabomber?
«Un matto, ma perfettamente cosciente, molto lucido nei suoi disegni, che ha ricevuto qualche torto e cerca di farlo pagare al mondo intero».
Un Pm di Udine ha ipotizzato che l’attentatore sia «un solitario, un conservatore», anche «un po’ razzista», che vuol tenere alta l’attenzione delle forze dell’ordine per «allontanare dal Friuli gli immigrati extracomunitari».
«Non è un’ipotesi che mi convinca».
Secondo il criminologo Francesco Bruno «potrebbe essere dotato di un discreto senso dell’ironia». Spiegazione: «Il pomodoro che schizza da tutte le parti e l’uovo che scoppia tra le mani sono chiari elementi che suscitano ilarità».
«Allora anche chi mette la varechina nell’acqua minerale è un buontempone? A me sembra invece che l’uso di oggetti di largo consumo sia finalizzato solo a far sì che gli ordigni possano essere maneggiati dal maggior numero di persone. Come le mine-farfalla che dilaniano i bambini in Afghanistan».
Affibbiare al criminale il soprannome di Theodore Kaczynski, arrestato negli Stati Uniti dopo una caccia all’uomo durata 12 anni, non poteva che gratificare l’ego del mitomane, non crede?
«È sempre dannoso assegnare a un attentatore seriale titoli che lo facciano sentire importante».
Nel 2000 proposi di chiamarlo Monabomber per la sua scellerata imbecillità, paradosso che dopo cinque anni fu usato in titoli e testi dal direttore del Gazzettino, con seguito di polemiche. Lei come l’avrebbe chiamato?
«Gli avrei dato ogni volta un nome diverso. Quindi nessun nome».
Degli investigatori da cui è stato interrogato che idea s’è fatto?
«Di grande superficialità. Uno è arrivato a classificare come “termometro per la fabbricazione della nitroglicerina” quello che negli Anni 80 si montava sulle auto per misurare la temperatura esterna».
Ma lei se la sentirebbe di aiutare gli inquirenti a dare la caccia allo squilibrato?
«Per quanto assurdo possa sembrare, dopo la prima perquisizione scrissi una lettera al sostituto procuratore di Trieste, Pietro Montrone, spiegandogli che si stavano sbagliando e dando una serie di suggerimenti investigativi, purtroppo. Col senno di poi, temo che gli inquirenti l’abbiano presa come una conferma delle loro teorie, anziché come un aiuto».
Mi dica uno dei suggerimenti.
«Dal 2003 la nitroglicerina non è più in libera circolazione. Si usa solo per i farmaci contro le sindromi coronariche. Però su Internet si trovano le formule per ottenerla in casa da acido nitrico e acido solforico puri, miscelati con un’altra sostanza di comune reperibilità. Quindi bisognava cercare nei laboratori chimici, nelle industrie della plastica e in quelle metallografiche, nelle cantine che testano la qualità dei vini».
L’ultimo attentato risale al 6 maggio 2006. Unabomber non è mai rimasto inattivo per più di tre anni. Non le pare strano?
«Io posso solo dirle che ben cinque attentati sono avvenuti mentre ero sotto osservazione diretta degli inquirenti. L’ho scoperto solo alla fine della mia odissea, consultando il fascicolo processuale».
Che intende per «osservazione diretta»?
«Sei Gps collocati nella mia auto e in quella di mia moglie per rilevare via satellite dalla questura qualsiasi movimento. Una telecamera, accesa 24 ore su 24, piazzata all’inizio della strada dove abito. Tre microspie in altrettante prese elettriche della casa. Monitoraggio costante dei siti web che visitavo. Cinque anni di intercettazioni telefoniche. Pedinamenti assidui: uno degli ordigni fu trovato a Portogruaro mentre ero guardato a vista. Sondaggi con metal e gas detector in tutte le mie proprietà per rilevare eventuali tracce di metalli o di esplosivi: mai trovato nulla».
I giornali l’hanno definita «belva oscena e ripugnante», «mostro disumano», «personaggio ambiguo e sconcertante». Anche «l’ingegnere cattolico».
«Le prime due non me le ricordavo. È un fatto che sono cattolico e praticante. In tutti questi anni ad andare in giro per strada mi sono spesso vergognato. In chiesa mai».
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
TIPICAMENTE FRIULANI
Tipicamente friulani, scritto dal Prof. Gianfranco D’Aronco, Presidente COMITATO PER L’AUTONOMIA E IL RILANCIO DEL FRIULI. Udine, ottobre 2011.
Mi è stato facile impadronirmi dello slogan dovuto ai pubblicitari della Regione, e adattarlo al caso mio: essi si riferiscono al vino (possibilmente “doc”) e io agli uomini. Cosa significa oggi essere tipicamente friulani? Essere “fieri e tenaci della loro nazionalità”? Ahi, la frase è di Francesco di Toppo, che scriveva nell’800 e si riferiva al ‘300 del patriarca Bertrando. E allora? E’ molto noto un componimento poetico che comincia con “Su, su, su, Venzon Venzone”, e prosegue inneggiando: “su, fedeli e bon furlani, su, legittimi italiani”, e via dicendo. Vi si tratta della vittoriosa resistenza, opposta alla Scluse (Chiusaforte) contro i tedeschi di Massimiliano d’Asburgo da un Bidernuccio, comandante di 40 venzonesi (dotati per la bisogna di palle di piombo, fatte in casa da Anastasia di Prampero fondendo il vasellame di peltro). Eravamo nel 1509. I tedeschi ebbero la loro rivincita qualche anno più tardi. Ma intanto il Bidernuccio ebbe in compenso una pensione dal Senato di Venezia: combatteva egli infatti per “il possente e fier Leone” (che vedi caso aveva occupato il Friuli cent’anni prima). Altri tempi comunque. Ma forse è ancora valido il riconoscimento che la lingua friulana “è tanto trista, quanto sono buoni gl’ingegni e quanto grande è il valore di quella provintia onoratissima”? Ahimè, questo scriveva Pietro Paolo Vergerio, ed eravamo a metà del ‘500. Che i friulani siano “vehementi, solleciti, terribili”? Ma il giudizio è di Giovanni Botero, e risale alla fine dello stesso ’500. Non sono un erudito né un archivista. Per imbattermi in altri positivi apprezzamenti sui nostri corregionali, debbo fare un grande balzo (i miei 23 lettori, uno in meno del Manzoni, dovranno accontentarsi). Siamo niente po’ po’ di meno che nel 1922, quando un personaggio politico, poi diventato popolare, riferendosi ai suoi della “regione friulana” dichiarava che essi “sono perfetti per sobrietà e compostezza, austerità e serietà di vita”. Non male. Ma forse questa e le frasi precedenti erano tutte interessate, ché “nancje il cjan nol mene la code di bant” (nemmeno il cane mena la coda per niente). Altro capitolo di tutt’altro sapore. Poco lusinghiero per noi il detto popolare, anch’esso di provenienza della Serenissima: “Dime ludro, dime can, ma no sta dirme furlan”. Il termine “ludro”, ci spiegano i vocabolari, vuol dire “furfante”, “scostumato” e simili perle. E’ derivato forse dal tedesco “Luder” (“briccone”), che a orecchio mi richiama “lurido”: il “leader” di partito, nonostante i tempi d’oggi, non c’entra. Innocuo invece un altro detto popolare sempre vivo, anch’esso di provenienza lagunare, che definisce gli “udinesi castellani, col cognome de furlani”: meglio certo dei “visentini magna gati”, e dei “veronesi tuti mati” (per non parlare dei “cremaschi fa cogioni”). Simili giudizi sfavorevoli, provenienti dal di fuori, si voglia o no hanno lasciato il segno. Fanno parte di quello che è stato chiamato il “blasone popolare”, diffuso un po’ in tutti i paesi, anche inter nos. Vedi gli stessi venzonesi, chiamati “gosârs” (dal gozzo), i gemonesi “gabodui” (gabbatori), mentre Artigne è tradotta in Tegne” (tigna). Ma sono prese in giro da strapaese, innocenti tutti, da riderci su. Parafrasando gli inglesi, diciamo che solo i friulani hanno diritto di criticare i friulani. Rimane il fatto che i giudizi venuti invece dal di fuori sono la spia di un atteggiamento di superiorità, risibile quanto si vuole ma che, quando preso sul serio, mortifica i destinatari. E – qui ti voglio – esso contribuisce a creare negli oggetti di scherno il ben noto complesso d’inferiorità, che caratterizza in genere i “fedeli e bon furlani”. E’ innegabile, scriveva Giuseppe Marchetti nel 1948, che la Serenissima ha sempre adottato la politica di trattare i friulani come povera gente di razza inferiore. Per cui “i furlans a àn pôre di jessi ridûts, a àn pôre di semeâ sclapeciocs, int indaûr e ignorante, di fâ brute figure” (i friulani hanno paura di essere presi in giro, di identificarsi con gli spaccalegna, con gente ritardata e ignorante, di fare brutta figura). E’ famosa una incisione settecentesca del Rampini: un “sotan” col cappello in mano di fronte al padrone, recita: “Per tagiar tuto l’ano e legne e zochi, vegnimo dal Friul nostro paese: la strussia è granda, e se ne chiapa pochi”. Rinterzava il Marchetti: “I furlans a rivarin a persuadisi ancje lôr de superioritât e de potence dai parons e a adatâsi al distin di ubidî”, e persino “a simiotâ il custom e il lengac’ dai parons” (I friulani arrivarono a persuadersi anch’essi della superiorità e della potenza dei padroni e ad adattarsi al destino di ubbidire, e persino a scimmiottare il costume e la lingua loro). Insomma il “credere, obbedire e combattere”, nato in tempi moderni, non era del tutto una novità. Ho già avuto occasione nel decorso secolo, a proposito dei complesso d’inferiorità, di sottolineare che il friulano d’oggi si distingue per insicurezza, indecisione, riservatezza, individualismo, limitata fantasia, scarsa espansività, contenuta solidarietà. E ho citato il neurologo Giovanni Pessina, per il quale il nostro tipo “risulta tendenzialmente introverso, inibito, con orientamento pessimistico e conservatore, fondamentalmente timido, portato al sentimento e all’ingenuità, quasi completamente privo delle doti che condizionano il successo sociale” eccetera. Possiamo aggiungere oggi l’analisi di un altro neurologo, Franco Fabbro, autore del fortunato libro, “Il cjâf dai furlans” (La testa dei friulani). Anche per Fabbro una caratteristica della psiche nostrana è “un diffuso sentimento di inferiorità culturale”. Tale sentimento (e qui vale la pena di una lunga citazione) “dipende da due ragioni. Da una parte esso è dovuto all’impatto – che si è realizzato prevalentemente dal 1870 al 1960 – fra la cultura contadina friulana ‘subalterna’ e la cultura borghese italiana ‘dominante’. Durante questo periodo la cultura dominante non ha manifestato alcuna sensibilità antropologica verso la lingua e la cultura friulana considerate inferiori. La maggioranza contadina doveva lavorare, vergognarsi di essere ‘inferiore’, e – soprattutto a scuola – sperimentare uno dei più tragici fenomeni di colonialismo culturale, ossia quello di sentirsi ‘straniero’ a casa propria. Inoltre in questo periodo storico – a parte isolate eccezioni - è mancato il sostegno da parte delle cosiddette classi superiori, come ad esempio della nobiltà, verso i tipici valori della identità friulana”. Il mancato interesse verso la lingua e la cultura proprie, la scarsa fiducia verso le istituzioni e in particolare i “sorestans” sono altri elementi che concorrono a scoprire i caratteri del “sotan”, ovvero del tipicamente friulano. Temo che a questo punto i lettori abbiano fatto un po’ d’indigestione per le tante citazioni, antiche e nuove. Consoliamoci ora attingendo non ad altre citazioni, ma a specifiche ricerche di fresca data. Una di esse, pari pari, viene dall’Irlanda del Nord, per bocca di Richard Lynn, docente di psicologia nella università dell’Ulster, il quale ha steso una classifica nata da relativi test. “I friulani con un ‘Qi’ (quoziente di intelligenza) di 103 sono nettamente i primi in Italia. Non soltanto, ma sono addirittura tra i più intelligenti d’Europa, staccando in maniera netta i meridionali, la cui maglia nera spetta alla Sicilia con ‘Qi’ di 89. Il primato sarebbe da ascrivere “alle radici multietniche e alla vicinanza di regioni come Slovenia e Austria, senza contare la presenza sul territorio di realtà di altissimo prestigio scientifico come la Sissa, l’area di ricerca, due università di livello”. Che sia proprio così? Attingo ai resoconti comparsi su questo stesso giornale nell’aprile 2010. Affidiamoci ora a classifiche d’altro genere, risalenti ad aprile e maggio 2011. La prima è dovuta dalla rivista specializzata “Tutto scuola”, che si è affidata a parametri indicatori, riguardanti la qualità del sistema d’istruzione in Italia. Non si esprimono opinioni ma si registrano risultanze: su 100 province, Udine è al quinto posto. Altro settore: la gestione dei disastri naturali come il terremoto. Quello del Friuli è rimasto un esempio, come segnalato su queste colonne nel pubblicare i risultati di un convegno a livello universitario, organizzato a Gorizia dall’ISIG (Istituto di sociologia internazionale): due giorni di lavori dedicati allo studio sulle “best-practice” friulane come metodo da applicare all’Europa alpina. Il nostro criterio, basato sulla partecipazione diretta della popolazione attraverso gli enti locali cui la ricostruzione era stata affidata dallo stato, è stato additato come un esempio di ricostruzione, che purtroppo non ha avuto seguito in altre regioni come l’Abruzzo. Guardiamoci attorno. Non siamo i più belli del reame, ma neanche più brutti. Dobbiamo fare tesoro di tutto, delle critiche e degli elogi. Soprattutto è ora che ci si scrolli di dosso la scarsa fiducia in noi stessi, nonché la cattiva abitudine di guardare con malcelato scetticismo se non con sufficienza ai friulani che operano per far risalire noi tutti in seno alla società. Occorre smettere con la debolezza nel sostenere le proprie ragioni, la ritrosia nel mettere in mostra i propri diritti, la scarsa attitudine ad esporsi in politica e via dicendo. Se pregi e difetti sono di pari presenza, cerchiamo di eliminare o almeno di attenuare i secondi. In definitiva occorre arrivare a una maggiore presa di coscienza, come a dire sapere quello che noi siamo. “Fintremai che il furlan”, ha scritto Marchetti nel 1949, “nol varà imparât a mostrâ la sô muse cence rispiet uman e cence deventâ ros, nol sarà madûr par governâsi di bessôl; e al sarà di bant pridicjâ autonomiis e imbastî statûts regjonai. L’autonomie si à di vêle prime di dut tal ciurviel e ta l’anime” (Finché il friulano non avrà imparato a mostrare la sua faccia senza rispetto umano e senza arrossire, non sarà maturo per governarsi da solo; e sarà inutile predicare autonomie e progettare statuti regionali. L’autonomia occorre averla prima di tutto nel cervello e nell’anima). Cominciamo dunque a mettere in luce ciò che abbiamo di buono e soprattutto di cattivo. Qualcuno dirà che potrei cominciare da me. Perché mai? Forse che io ho difetti?
I DIFETTI DEI FRIULANI. Fossi dirigente di una qualche associazione culturale, proporrei una tavola rotonda sui difetti dei friulani. Io amo i friulani come me stesso (sono il nostro prossimo più prossimo, diceva Giuseppe Marchetti); ma amarli non significa sempre lodarli, scrive “Il Messaggero Veneto”. Qualche volta può voler dire invece provocarli e magari frustarli. Sarebbe ora che si mettessero da parte le frasi fatte e le immagini stereotipate, come «salt, onest, lavoradôr»: non diciamo per inventare l’opposto, che sarebbe «flap, birbant, massepassût», ma per guardare a noi friulani con occhio volutamente critico. (Un persuasore occulto ci definì il 20 settembre 1922, alla vigilia di una marcialonga su Roma, «perfetti per sobrietà e compostezza, austerità e serietà di vita». Ma era in cerca di applausi). Sappiamo tutti a memoria i nostri pregi. Ce li coviamo felici e contenti e li teniamo come premio di consolazione, quando ci tocca una sconfitta. «Sia come siamo», diciamo a noi stessi, «ma in fondo siamo meglio degli altri». Bisognerebbe uscire da questa posizione di comodo e guardarci finalmente allo specchio. Forse ci accorgeremmo che abbiamo il naso storto e allora non diremmo più che abbiamo il profilo latino o celtico.
Uno dei partecipanti alla tavola rotonda (tutta gente preparata e concreta, sia ben chiaro: con tutto rispetto, dei poeti e dei sognatori non sappiamo stavolta che fare e meno che meno dei politici in carriera) dovrebbe parlare del difetto più evidente: il complesso d’inferiorità. Non sono né psicologo né sociologo: chiedo quindi perdono. In genere il friulano da un lato non spinge, non dà gomitate, non pretende. Egli dà quasi a vedere di non essere abbastanza meritevole di ottenere un riconoscimento, una promozione, un miglioramento. Gli altri, specie se forestieri, valgono più di lui. Ma, a ben vedere, questo complesso d’inferiorità – in grazia del quale l’interessato pensa: «Se ho meriti, me li riconosceranno» – nasconde abbastanza spesso, anziché modestia, non dico superbia, ma stima eccessiva di sé: «I meriti li ho: me li riconoscano. Se no, sono disonesti». Così che mentre dentro di noi, in fondo in fondo, siamo convinti anche troppo di quel che valiamo, all’esterno ci comportiamo come umili inferiori, timorosi di far valere le nostre qualità. Insomma, siamo insuperabili nel tagliarci le gambe da soli, salvo poi dare la colpa alla scaltrezza degli altri. Ancora: timidi come siamo e incerti su noi stessi (anche perché, diversamente da altri, non riteniamo di essere depositari della verità assoluta) evitiamo le sfide. Nei faccia a faccia, dove vince non tanto chi ha ragione quanto chi possiede il migliore scilinguagnolo, siamo di regola soccombenti. La dialettica non è il nostro forte.
Un secondo relatore, richiamandosi al discorso precedente, potrebbe sostenere che il friulano è appunto superbo o quanto meno presuntuoso. Intanto dentro di sé si ritiene in linea generale, come detto, migliore degli altri: questo non tanto per preparazione e abilità, voglio dire per qualità assunte, ma per una specie di eredità. Per un dono divino non siamo pedanti come i tedeschi né maneggioni come i levantini: così almeno pensiamo. Fortunati noi a essere nati friulani! Friuli piccolo compendio dell’universo, eccetera. Ci basta l’anagrafe.
Il terzo partecipante alla tavola rotonda dovrebbe parlare dell’individualismo. Qui siamo campioni. Non c’è un’ideologia che ci vada bene per intero, non un partito politico che sia il nostro, non una conventicola che ci trovi in tutto aderenti, non una persona su cui non si formulino riserve. Fermiamoci ai partiti. Alle elezioni votiamo per uno di essi, mica perché vi crediamo, ma perché gli altri sono peggio. E se accanto ai partiti tradizionali si presentano movimenti locali e votiamo per uno di essi lo facciamo perché c’è poco da scegliere. Ma sia ben chiaro: «Staremo a vedere». Siamo diffidenti, scettici e disincantati su tutto e non da oggi, quando sono venuti ad aggiungersi nuovi motivi in quantità. Anni addietro (parecchi) si potè assistere qui da noi all’autodistruzione di un movimento, perché adagio adagio gli aderenti si eliminarono tra loro. Nessuno andava bene all’altro. Resistettero solo i puri, poi solo i purissimi. Alla fine rimasero soltanto due o tre. Se al complesso d’inferiorità è legata la creduloneria, all’individualismo esagerato sono connessi la pretensione e l’isolazionismo.
Quarto relatore. Il dito dovrebbe essere puntato sulla carenza di fantasia. Non è una vergogna. Per dimostrarlo, basta vedere quanto si produce intellettualmente in Friuli, se non sulla scia di quanto già prodotto da altri: in parole diverse, quanto si stenti a “creare”, quanto rari siano gli ingegni originali, quanto scarsa (nei secoli: oggi no, siamo tutti geni) una produzione artistica che sia nostra. È mai esistita qui una corrente letteraria che abbia inciso in qualche modo fuori dai confini? Quanti poeti hanno recepito un movimento venuto dall’esterno, trasformandolo almeno un poco e dando a esso una qualche distinta fisionomia? E, per fare un discorso più generale, quanti stenti non ci vogliono per far capire ai friulani che può esserci domani un Friuli diverso da quello di oggi, costituzionalmente sottomesso com’è al potere, quali che ne siano i detentori? Un Friuli a sé viene considerato una follia: non perché sia una follia, ma perché non ci si è mai pensato. L’abitudine, per chi vive d’inerzia, diventa legge. E la fantasia al potere, in Friuli, non andrà mai. (Fantasie da imbonitori per altro, come quella di battezzarci recentemente “gente unica”, non fanno per noi).
Altri oratori potrebbero parlare della scarsa solidarietà, dell’invidia malcelata, della non rara grettezza, dei voltafaccia disinvolti: difetti non generali, ma abbastanza presenti, del resto, anche sotto altri cieli. Non vorrei esagerare. Forse, ecco, nessuno potrà dire che, nella maggioranza, non siamo disciplinati. Lo stesso eroismo in guerra ha avuto una sua motivazione, in molti casi, nel raddoppiato senso di disciplina. “Usi a obbedir tacendo”. So benissimo che un’analisi approfondita dei friulani che non ci piacciono va lasciata gli addetti ai lavori. Più di qualcuno, leggendo queste volute provocazioni (in parte confessioni), dirà che sull’argomento avrebbe tante cose importanti da dire: altro che queste! D’accordo, ma le dica. Poscritto. Il professor Giovanni Pessina, che ha condotto ricerche scientifiche sulla personalità del friulano, ha scritto fra l’altro: «Risulta tendenzialmente introverso, inibito, con orientamento pessimistico e conservatore, fondamentalmente timido, portato al sentimento e all’ingenuità, quasi completamente privo delle doti che condizionano il successo sociale, non ha le caratteristiche psicologiche del leader, manca di iniziativa nel campo economico». Nella donna ha trovato «un processo di italianizzazione», e aggiunge: «Che una tale tendenza debba considerarsi positivamente o meno è un altro discorso, da tenersi in diversa sede» (gli studi sono comparsi trent’anni fa).
Veneti e friulani campioni di antipatia, in un libro il Nordest senza sorriso. Il nuovo lavoro di Gian Mario Villalta rilancia il tema della scarsa simpatia: ecco perchè parlano male di noi, scrive Sergio Frigo su “Il Gazzettino”. Non ridiamo più, non cantiamo più per le strade, facciamo fatica a scambiarci un saluto, tanto che qualche anno fa qualcuno si è sentito in dovere di promuovere una "campagna per il ciao". E poi siamo sempre più litigiosi e ingrugniti, lamentosi o rivendicativi. A Nordest siamo diventati antipatici? Gian Mario Villalta, scrittore e direttore artistico di Pordenonelegge.it, è convinto di si, tanto che al tema ha dedicato il suo nuovo libro, "Padroni a casa nostra", che sarà nelle librerie la prossima settimana, edito da Mondadori, con un sottotitolo esplicito: "Perchè a Nordest siamo tutti antipatici". Villalta parte da un episodio personale, l’invito a un incontro pubblico a Pordenone ad un amico e collega scrittore, che tentenna a lungo prima di accettare, con la motivazione, prima celata e poi esplicitata, che «c’è un’aria là da voi che non mi piace. Siete antipatici». L’autore si offende, discute, tenta una difesa poco convincente perchè affidata agli stereotipi e ai contro-stereotipi di sempre: ci dicono che siamo dediti solo al lavoro e ai soldi, incolti e xenofobi? E noi rispondiamo tirando fuori l’associazionismo solidale, e la grande tradizione culturale di queste terre. Bisogna provare ad andare più a fondo, chiamare le cose con il loro nome, confrontarsi, approfondire: il risultato è questo libro, denso di analisi, riflessioni, testimonianze, complesso ma al tempo stesso avvincente. Un libro in cui Villalta mette insieme la sua perizia letteraria e la sua passione per il territorio, la capacità di scandagliare le questioni della storia e dell’identità e al tempo stesso di radiografare questo complicato Nordest, terra di confini vissuti a volte come un’ossessione. L’autore rileva i "disturbi della memoria" che affliggono il nostro tempo, sospeso tra un passato troppo remoto e un presente troppo presente, evidenzia la frattura che divide le generazioni, scopre il "complesso dell’impostore" che avvelena la vita ai tanti che dalle nostre parti (ma non solo) hanno fatto i soldi ignorando i libri e mettendo in atto comportamenti di cui i loro genitori si sarebbero vergognati. «Mi ha colpito molto la storia dell’imprenditore - commenta il libro lo scrittore padovano Fernando Camon - che dietro la scrivania ha un rilievo in terracotta con scritto "L’ingegno umano partorì cose stupende quando ebbe fra le mani meno libri e più faccende". É vero, è così, per questo all’esterno ci guardano male. Ma io dico: ora siamo antipatici perchè ci siamo arricchiti, un tempo eravamo miserabili e provavano pietà: allora, meglio l’antipatia della pietà. Ma la questione è un’altra: un conto è il tenore di vita, un conto è la qualità del vivere: io non scambierei un minuto del mio tempo con la vita di questi ricchetti, che sono pieni di soldi e vivono in belle case, ma non capiscono nemmeno i telegiornali, non sanno apprezzare un buon film, nè un libro. E c’è un altro interrogativo: quanto potrà durare? C’è chi sostiene che si può essere ricchi e stupidi per una sola generazione. I nostri ragazzi scolasticamente sono già fra i peggiori in Europa: non reggono il confronto, e perderanno la guerra della competitività». Camon ha però anche una spiegazione molto pragmatica della cattiva immagine di cui siamo vittime all’esterno: «La scarsa attenzione della borghesia nordestina per la politica e la cultura fa sì che non contiamo niente nei centri di potere nazionali, che non abbiamo un giornale nè una televisione unificante. Uno scrittore come me che vive a Padova e pubblica i suoi libri a Milano, è un emigrante». Andrea Zanzotto, le cui citazioni punteggiano le pagine di Villalta, è però scettico sull’esistenza di uno "specifico veneto" dell’antipatia, perchè, dice, «esiste da sempre, e ci cascano tutti, la tentazione di utilizzare alcuni particolari difetti delle comunità per prenderle in giro. É un fenomeno universale». Concorda a suo modo anche Ilvo Diamanti, che proprio sul Gazzettino lanciò un dibattito analogo una dozzina di anni fa: «Rispetto ad allora è cambiato il fatto che ora siamo tutti antipatici. A quell’epoca lo eravamo solo noi veneti, perchè eravamo incazzati, perchè non riuscivamo ad ottenere all’esterno i riconoscimenti che ritenevamo di meritarci per esserci liberati dopo secoli della nostra condizione di miseria e di subalternità. E quindi avanzavamo le nostre rivendicazioni magari senza usare tanto le buone maniere. Io pensavo, sbagliando, che una volta che ci saremmo abituati al nostro nuovo ruolo sociale avremmo trovato anche un modo più equilibrato di rappresentarci. E invece, siccome il presentarsi sempre come incazzati è risultato pagante, è diventato un modello di successo, imitato da tutti anche fuori dal Nordest. Non vede che stanno sparendo i comici che ci facevano sorridere, soprattutto quelli dediti alla satira? E che lo stesso "gran simpatico" per eccellenza, Berlusconi, ha dovuto giocoforza cambiare maschera?» Sarà anche per questo che Diamanti ha in arrivo un nuovo libro, da Feltrinelli, intitolato "Sillabario dei tempi tristi"...
LE VERGOGNE DEL FRIULI VENEZIA GIULIA.
L’inchiesta Mose e la marea sul Friuli, scrive Tommaso Cerno su “Il Messaggero Veneto”. Anche la nostra regione citata in una conversazione intercettata sul ruolo delle coop rosse negli appalti a Nord Est. Alla fine la parola Friuli è apparsa ai margini dell’inchiesta del Mose. Come in un affresco, quelle dighe mobili che servono ad arginare le maree troppo alte sulla Serenissima non hanno fermato tutta l’acqua che viene da Venezia verso il Tagliamento. Franco Morbiolo, presidente del consiglio di amministrazione del Coveco, che riunisce le coop rosse legate al Consorzio Venezia Nuova, è stato intercettato dalla Guardia di Finanza mentre parlava nel suo ufficio con Gianpiero Marchese, all’epoca presidente di Rinascita. L’argomento? Le difficoltà che le coop avrebbero nel tempo registrato rispetto ai grandi appalti a Nord-est. Ed ecco la fatidica parola “Friuli”. Così Morbiolo: «Commercialmente parlando in Friuli non conta più un c...», dice riferendosi al ruolo delle Ccc (Consorzio Cooperative Costruzioni di Bologna). «Chiama attraverso Roma e hanno gli uomini che fanno solo politica... noi invece abbiamo professionalità, sennò non terremmo più botta, tanto per essere chiari». Ma perché parlare del Friuli in quella conversazione? Perché quella considerazione su una Regione che non c’entra nulla col Mose? Un riflesso condizionato? Una parola in più? O una pista ancora poco battuta? Una strada che i magistrati veneziani magari stanno seguendo, senza ancora farlo sapere? Ecco che la grande partita della Terza Corsia gestita dal commissario Renzo Tondo e dal suo braccio destro Riccardo Riccardi lambisce, pur ancora solo per una intercettazione non del tutto chiara, nomi e società della grande inchiesta veneziana. Forse senza mai incrociarne davvero i difetti. Staremo a vedere. Ma certo la necessità che oggi abbiamo è quella di garantire ai friulani che la massima trasparenza sia fatta. Nomi, appalti, gare, interlocuzioni, aumenti di costi devono essere spiegati con estrema precisione e dovizia di dettagli. Anche perché proprio Morbiolo, presidente del cda Coveco, rappresenta uno dei vincitori di uno dei lotti della Terza Corsia, il primo, insieme proprio alla Mantovani (vedi Baita), finite al centro della bufera veneziana. In più, uno degli arrestati dell’inchiesta veneta, l’ingegner Giuseppe Fasiol di Veneto Strade, ombra di Silvano Vernizzi, sedeva nella commissione di valutazione dei lotti della grande opera di ampliamento dell’A4, grande partita politica ed economica del quinquennio Tondo. Detta così, può limitarsi a essere una coincidenza, comunque grave, comunque inquietante. Ma proprio se fosse solo una brutta coincidenza, spetterebbe a chi ha gestito quel commissariamento – in primis Renzo Tondo e Riccardo Riccardi – rendere pubblici tutti i dettagli, le ragioni delle scelte, gli iter. Proprio per togliere ogni dubbio – e da friulani non vorremmo ce ne fossero – sull’operato dei personaggi che hanno gestito la grande partita infrastrutturale. Partendo da una domanda principale: c’entra qualcosa il Friuli nella guerra fra coop rosse emiliane e venete? Perché Morbiolo lo cita? Siamo estranei, o no, alla partita sull’aggiudicazione dei grandi appalti a Nord-est di lor signori? Anche perché venerdì scorso Morbiolo e Marchese sono stati tolti dal carcere e mandati ai domiciliari, dopo una lunga udienza in cui si è discusso anche di un altro big del mondo autostradale del Nord-est, Lino Brentan, ex ad della Venezia-Padova – di cui Autovie era azionista - di area centrosinistra, già condannato per concussione e corruzione e ora ricomparso nelle carte del Mose. Per cui se Mosé aprì le acque e lasciò strada al popolo che fuggiva, il Mose potrebbe oggi aprire invece un’autostrada all’inchiesta nata sotto il Leone di San Marco.
Tangenti e grandi opere: dopo il Mose trema il Fvg. Dall’inchiesta veneta e da quella milanese sull’Expo emergono i tanti punti di contatto tra le società coinvolte e gli appalti regionali. A partire da quelli per la terza corsia. Lungo elenco di manager, politici, funzionari, consulenti: tutti in attesa delle mosse dei pm, scrive Marco Ballico su “Il Piccolo”. Non c’è solo il nome di Giuseppe Fasiol, uno dei 35 arrestati della tangentopoli del Mose, a incrociare le vicende della terza corsia della A4. Né figura la sola Mantovani, con il suo ex presidente Piergiorgio Baita, tra le imprese coinvolte nell’allargamento della Venezia-Trieste finite ora nei guai con la magistratura. A leggere le carte gli intrecci sono numerosi. E motivano la diffusa certezza in Autovie Venete di doversi prima o poi sottoporre alle verifiche degli inquirenti. Nel decreto commissariale del 22 luglio 2009, a firma Renzo Tondo, viene nominata la commissione giudicatrice per l’aggiudicazione della progettazione esecutiva e realizzazione del primo lotto dell’opera, da Quarto d’Altino a San Donà di Piave. In quel gruppo di lavoro c’è Fasiol, il dirigente regionale della sezione strade e autostrade (subentrato al vicecommissario in A4 Silvano Vernizzi, passato alla direzione generale di Veneto Strade), vicecommissario e Rup della Pedemontana Veneta, finito in manette a inizio giugno nell’inchiesta di Venezia. Secondo la ricostruzione dei pm, Fasiol - componente dal gennaio 2012 della commissione di collaudo per la verifica funzionale del sistema Mose, per volontà di Baita e di Giovanni Mazzacurati, presidente del concessionario unico delle opere in laguna, il Consorzio Venezia Nuova - sarebbe stato il terzo ingranaggio, quello tecnico, del sistema Mantovani, assieme ai due referenti politici: l’ex governatore del Veneto Giancarlo Galan e l’assessore ai Trasporti Renato Chisso. La tesi della difesa, peraltro, è che Fasiol, privo dell’autorizzazione della Regione Veneto, e pure in presenza di quattro parcelle da complessivi 19mila euro, non ha in realtà effettuato alcun collaudo. Il suo legale, Marco Vassallo, ha presentato domanda di annullamento dell’ordinanza di arresto e Fasiol, lunedì scorso, è stato scarcerato. Le Fiamme Gialle hanno acquisito al casello di Roncade documenti legati ai lavori sulla Terza corsia e su alcune imprese costruttrici. Il capoazienda: "Meri controlli di routine". Il 17 novembre 2009 è ancora il decreto del commissario, vista la nota del presidente della commissione Vincenzo Spaziante (al lavoro, oltre che con Fasiol, con Carlo Bordini, membro dello staff commissariale in distacco da Autovie), a individuare la graduatoria per l’appalto del primo lotto. La spunta Impregilo in associazione temporanea di imprese assieme alla Mantovani, al Consorzio Veneto Cooperativo, a So.Co.Stra.Mo e a Carron. L’importo di assegnazione della gara è di 224,6 milioni, il ribasso è attorno al 28%. Ribasso appena superiore al 25,3% che ha consentito a Rizzani De Eccher, arrivata seconda nella corsa al primo lotto, e a Pizzarotti di aggiudicarsi, decreto commissariale del 4 maggio 2010, il terzo lotto Ponte sul Tagliamento-Gonars per un importo di 299,7 milioni, divisi tra 264,5 milioni di opere, 20,6 milioni di progetto (in questo caso il ribasso ha toccato il 46,6%), e 14,5 milioni di oneri diretti. Va detto peraltro che il lotto assegnato a Rizzani De Eccher è stato attribuito in via definitiva nonostante mancasse, e manchi tuttora, qualsiasi copertura di carattere finanziario. Di quelle cinque imprese, tre rientrano nell’inchiesta del Mose. La Mantovani, il cui presidente Baita fu arrestato nel febbraio 2013 (e con lui, in quell’occasione, anche Claudia Minutillo, già segretaria di Galan) sempre per una vicenda di appalti; il Coveco, il cui presidente Franco Morbiolo risulta tra i 35 finiti ieri in manette; ma anche So.Co.Stra.Mo, la ditta del palazzinaro romano Erasmo Cinque. Sarebbe stato suo figlio Ottaviano a consegnare nel luglio 2012 ad Antonio Rognoni (allora dg di Infrastrutture Lombarde) un bigliettino per conto della Mantovani con scritto «sappiamo che siamo andati bene sulla parte tecnica» alla vigilia dell’apertura delle buste per l’appalto della “Piastra” dell’Expo di Milano (affare da 190 milioni), assegnato proprio a Mantovani con il mega ribasso del 41%. Mentre il padre Erasmo risulta indagato sulla bonifica di Porto Marghera insieme all’ex ministro Altero Matteoli. Cinque figura come consigliere economico del titolare delle Infrastrutture dal 2008 al 2011 e animatore della sua fondazione “Libertà per il bene comune”. Ed è sempre lui a mettere in contatto Mazzacurati con l’allora ministro. Tutto questo, si legge nelle carte dell’inchiesta, nonostante la So.Co.Stra.Mo. «non svolga attività di impresa, ma solo affari di compravendita». In un altro decreto del commissario della Venezia-Trieste, siamo a fine 2008 (con Tondo governatore e Riccardo Riccardi, direttore di Autovie Venete in aspettativa, nel doppio ruolo di potente assessore regionale ai Trasporti e vicecommissario A4), viene composto il comitato tecnico-scientifico. Vi fanno parte dirigenti regionali di Friuli Venezia Giulia (Diego De Caneva, in congedo) e Veneto (Stefano Angelini), il funzionario ministeriale Lorenzo Capobianco, il libero professionista della Si.Ge.S Armando Mammino, il segretario Fausto De Santis, il direttore della Protezione civile Fvg Guglielmo Berlasso, recentemente indagato per presunte pressioni su alcune gare relative ai sistemi di sicurezza, e, in cima alla lista, il presidente Giancarlo Fatteschi, dirigente Anas in congedo. Negli archivi di cronaca il suo nome compare tra i condannati in primo grado (1998, 5 anni e sei mesi per due episodi di concussione) nell’inchiesta Mani pulite. Ma gli “incroci pericolosi” tra Friuli Venezia Giulia e protagonisti della tangentopoli veneziana e milanese non si limitano agli appalti relativi alla realizzazione della terza corsia sull’A4 Venezia-Trieste. Nell’elenco dei contatti figurano anche il prolungamento della Cimpello-Sequals, i cui lavori erano stati affidati in era Tondo alla “solita” Mantovani. La stessa ditta che si era aggiudicata in via provvisoria i lavori della piattaforma logistica di Trieste, poi conquistata in via definitiva dal raggruppamento temporaneo di imprese tra Icop, Francesco Parisi Casa di spedizioni spa, Interporto Bologna e Cosmo ambiente. E poi, sempre con le grandi società di appalti coinvolte negli scandali, ci sono i “link” delle bretelle superstradali a pagamento tra la A4 e le spiagge di Jesolo e Lignano-Bibione. Dell’elettrificazione della tratta ferroviaria Portogruaro-Casarsa. E persino delle partite sanitarie come dimostra il ruolo giocato da Edilsa (Gruppo Studio Altieri) nei lavori dell’ospedale di Udine.
Valichi abbandonati, l'Alto Friuli protesta: è una vergogna. A Coccau, ma anche a Fusine e a Cave del Predil, strutture in rovina: tutto è rimasto come quando c’erano i confini scrive Giancarlo Martina su “Il Messaggero Veneto”. «È una vergogna per l'Italia il modo con cui viene lasciato il valico di Coccau». Il pesante commento è di Wienfried, un cittadino austriaco di Arnoldstein che ama il nostro Paese, ma che si arrabbia moltissimo, al pari di tanti tarvisiani, ogni volta transita in quello che fino a non molto tempo fa era un luogo di frenetico lavoro e che da anni è in stato di abbandono. «Giro – aggiunge il carinziano -, per le località del Friuli e apprezzo tutti i bellissimi luoghi d'arte d'Italia (in questi giorni sarà in tour in Sicilia), ma nei miei viaggi mai mi sono imbattuto in situazioni come quelle del valico di Coccau». In effetti lì, sul versante italiano, tutto è rimasto come ai tempi quando l'Austria non faceva ancora parte della Ue, quando bisognava sottostare ai controlli di Dogana, Finanza e Carabinieri, con l'aggravante che le strutture, pensiline, uffici, caserme e piazzali sono abbandonati e non è certo un bel vedere la prima cartolina d'Italia, quel biglietto da visita che invece, viene curato oltre confine. L'amministrazione comunale continua a sollecitare gli organismi coinvolti, come il Demanio che ha proprietà al pari dei ministeri della difesa e degli interni, ma si scontra con il muro di gomma della burocrazia che frena ogni speranza di trovare soluzioni in tempi brevi. E certamente i tre pubblici esercizi che continuano ad operare hanno il grande merito di assicurare un minimo di vitalità all'area. «Non facciamo certo una bella figura nei confronti degli amici austriaci e ci tocca subire anche i loro sfottò perchè in Carinzia certe situazioni non si verificano – ammette a malincuore Francesco Piussi, noto esercente – purtroppo le nostre lamentele finora sono cadute nel vuoto». «Certo è difficile farle arrivare fino a Roma – aggiunge un avventore - e poi, mi domando, cosa mai potrà interessare ai funzionari romani che al valico di Coccau c'è una caserma dei carabinieri che è stata chiusa subito dopo che il suo tetto era stato rifatto e tutto in rame». Vetri sporchi e rotti, muri ingrigiti, buche negli asfalti del piazzale, l'immagine del valico è pessima. «È una vergogna anche per noi che cerchiamo di rinnovare e rendere accoglienti i nostri locali – si sfoga l’altro esercente Sandro Pividori -. Sono nato qui è resisto. È cambiato tutto, siamo passati dal giorno alla notte. Al valico c'erano attività floride e adesso si sopravvive a malapena». La stessa situazione si riscontra anche ai valichi con la Slovenia di Fusine e del Passo del Predil. Anche in quei siti il problema è tutto italiano in quanto gli sloveni hanno provveduto a togliere pensiline e garitte di confine ridando dignità ai luoghi. Invece, da noi tutto è rimasto tale quale a quando sono state tolte le sbarre per cui con l'auto si continua a transitare sotto tettoie anacronistiche e che sono delle vere brutture con cui continuiamo ad accogliere gli ospiti stranieri.
Il torrente della vergogna, scrive Alessandro Di Giusto su “Il Friuli”. A volte capita che un servizio giornalistico faccia superare timori e preoccupazioni per le presunte conseguenze da affrontare quando si denuncia un problema. Succede, purtroppo, molto raramente. Poco dopo la pubblicazione del servizio che parlava dello studio condotto dallo Joanneum Research di Graz, abbiamo ricevuto la lettera di un cittadino (ci ha chiesto di restare anonimo) che, esprimendo sconcerto per la situazione delle acque regionali, denuncia a sua volta un caso di grave degrado dell’ambiente. Parla del torrente Torre e del suo ambiente. Dovrebbero essere la componente di un parco. Non diciamo protetto, per carità. E’ una parola quasi tabù in questa epoca folle di deregolamentazione, assenza di programmazione del territorio e colate di cemento, con la scusa della crisi economica. Dovrebbe essere, quello del Torre, almeno un ambiente pulito e mantenuto in maniera decorosa, come ci si attende da un popolo civile. Ma civili non siamo, evidentemente, perché lo spettacolo cui abbiamo assistito domenica scorsa, accompagnati da chi ci ha scritto, era a dir poco sconfortante. Basta percorrere una manciata di metri verso il fiume, dopo essere partiti dalla piccola stazione di san Gottardo, che già si notano piccoli segni di inciviltà. Un piccolo cumulo di lattine i birra e qualche pneumatico abbandonato a casaccio annunciano che la passeggiata sarà meno piacevole del previsto. Percorriamo la strada alla sommità dell’argine. Ai piedi della scarpata, residui di vario genere, ma nulla di grave che non si possa risolvere con un po’ di olio di gomito e tanta buona volontà. Poi, all’improvviso, dopo aver lasciato l’argine incontriamo la prima discarica, ai margini di un grande prato. Rifiuti di ogni genere, spesso latte di colore e anche un barile, ai quali hanno anche dato fuoco, forse ispirati dalle usanze di altre parti della nazione. Uno spettacolo desolante che ci fa capire come nella sua lettera, la nostra guida non abbia esagerato mentre descriveva una situazione di grave degrado. Raccogliamo le immagini che potete vedere nella galleria fotografica e proseguiamo. Altro spiazzo, altra discarica, con tanto di poltrona, lasciata forse per poter osservare con la dovuta comodità lo spettacolo. Questa volta oltre all’immancabile elettrodomestico, ci sono anche residui di demolizione e vecchi vestiti, e altro materiale. Parco del Torre? Ma quale parco? Questo è un immondezzaio dove neppure i cartelli di divieto sono leggibili perché consumati dalla ruggine, degno emblema di questo degrado. Il peggio però deve ancora arrivare. Ci dirigiamo verso l’alveo. Nell’aria l’odore inconfondibile dei residui di fognatura. Si sente il rumore di un ruscello, ma man mano che ci avviciniamo si sente soltanto la puzza, che sembra occludere ogni altro senso, compreso il rumore dei quad che scorrazzano senza sosta. In fondo, i nostri fiumi servono anche a questo: a far provare agli appassionati il brivido dell’avventura. E’ soltanto quando ci troviamo davanti a un’enorme pozza marrone che comprendo quanto fosse fondata la rabbia della mia guida nel raccontare sulla lettera la situazione: “Basta fare poche decine di metri e si raggiunge il letto del torrente, pieno di melma nauseabonda e sulfurea. I residui fognari! Una vergogna per una regione che si crede civile!”. Come dargli torto. Il suono del ruscello è quello dell’acqua putrida che scorga da un grosso tubo e finisce dritta nel torrente. Ma di acqua corrente non ce n’è. Tutto si accumula in quel piccolo lago puzzolente, si insinua fra le ghiaie biancheggianti macchiandole e lasciando aloni nerastri. Fa freddo, ma l’odore è insopportabile. Cosa accadrà quando le piogge riporteranno un po’ di acqua nell’alveo? Gli esperti parlano di diluizione e di capacità di autodepurazione dei fiumi, ma dove non c’è acqua perché si tratta di un torrente, accadrà semplicemente che quella melma sia sparpagliata. Poi arriverà il caldo e l’odore diventerà ancora più insopportabile. E questi liquami da dove arrivano? chi li produce? Chi dovrebbe verificare che non finiscano nell’ambiente? Che fine faranno e che effetto avranno sulla presenza di nitrati nel torrente e nelle falde? Giriamo queste domande a chi dovrebbe vigilare perché ciò non avvenga. Resta però un altro quesito. E la risposta possiamo darcela soltanto noi cittadini: quanto è civile una comunità che continua a trattare i suoi fiumi come fogne e come immondezzai?
LATTE CANCEROGENO MADE IN FRIULI: LA GRANDE VERGOGNA. Latte tossico e cancerogeno in vendita in Friuli: 24 gli indagati, arrestato il leader di Cospalat. Indagine dei Nas, che hanno messo ai domiciliari 4 persone. Nelle confezioni una tossina dannosa anche per la crescita dei bambini. Analisi falsificate allungando il latte con altro non contaminato, scrive “La Repubblica”. Hanno messo in commercio latte tossico, contaminato da aflatossine, sostanze generate da muffe e cancerogene con effetti sulla crescita dei bambini. Il leader del Cospalat del Friuli Venezia Giulia, Renato Zampa, è stato arrestato nell'ambito di un'indagine dei Nas di Udine. Oltre a Zampa, sono state eseguite quattro misure degli arresti domiciliari e un obbligo di dimora. Un'altra persona è ricercata. Per tutti l'ipotesi di reato è di associazione per delinquere finalizzata alla frode in commercio, adulterazione di sostanze alimentari e commercio di sostanze alimentari pericolose per la salute. In alcuni casi è stata certificata anche la presenza di antibiotici. Le analisi sul latte sarebbero state falsificate con il ricorso a un laboratorio compiacente, "allungando" il latte con altro latte non contaminato. Sarebbe stato inoltre utilizzato latte proveniente da allevamenti non autorizzati per produrre abusivamente formaggio Montasio Dop. In tutto gli indagati sono 24, di cui 17 allevatori accusati di essere consapevoli di immettere in commercio latte contaminato, su un centinaio circa di aderenti ai Cospalat.
Allora non capita solo in Campania, nelle zone conosciute perchè gestite con le armi e con le uccisioni dai Casalesi, scrive “TelePordenone”. Anche nel profondo Nord, quasi austriaco, gente senza scrupoli, azzarderei, bastardi allo stato puro, hanno continuato a vendere il loro latte adulterato, addirittura secondo gli inquirenti, contenente una tossina cancerogena che inibisce la crescita dei bimbi. Chissà se Zampa, le sue collaboratrici, i suoi allevatori, al mattino davano da bere ai loro figli il latte incriminato, chissà se alla sera, il presidente di Cospalat invitava i suoi figli o nipoti a bersi un buon bicchiere di latte ( meglio di merda ) che il suo Cospelat vendeva a mezza Italia. Ma andiamo a ripercorrere la vicenda, non per nulla, solamente perchè rimangano ben in mente nomi cognomi e ruoli in questa vicenda che ripeto ha di fatto gettato nella vergogna una regione, come il Friuli Venezia Giulia. Vendevano latte tossico in mezza Italia. Dagli allevatori del consorzio Cospalat finiva sugli scaffali di decine e decine di negozi per essere venduto come latte fresco oppure ai caseifici per produrre formaggio. I carabinieri del Nas hanno sequestrato 1.063 forme solo nel periodo da maggio a dicembre del 2012, ma è impossibile sapere quanto latte contaminato dalle aflatossine M1 è stato venduto e consumato. Sono insomma stati venduti latte e formaggio tossici e Montasio Dop che non era Dop. Il presidente del consorzio, Renato Zampa, 52 anni, di Pagnacco, l’unico che ieri è finito in carcere, lo sapeva. Come lui erano al corrente del traffico illecito anche la segretaria amministrativa Stefania Botto, 45 anni, di Tavagnacco, e il responsabile degli autisti Dragan Stepanovic, 30, originario della Serbia, ma residente a Udine. Entrambi sono finiti ai domiciliari come pure le due socie del laboratorio di analisi Microlab snc di Amaro, Gabriella Mainardis, 54 anni, di Tolmezzo, e Cinzia Bulfon, 30, di Amaro, incaricate di monitorare costantemente i livelli di contaminazione da aflatossine del latte e di provvedere all’occultamento o alla distruzione dei referti. Ai domiciliari anche una consulente esterna del consorzio, Paola Binutti, 45 anni, di Attimis, de Il Laboratorio sas, incaricata, sempre secondo l’accusa, di coadiuvare Zampa nell’occultamento e distruzione dei documenti e di sostituzione dei campioni di latte destinati a essere analizzati per eludere i controlli. Tutti e sei, più un settimo indagato, l’autista Roberto Alaimo, di Arezzo, colpito dall’obbligo di dimora, devono rispondere dell’accusa di associazione a delinquere. Gli indagati dal pm Marco Panzeri sono in tutto 24, tra cui 17 del Cospalat sui 100 effettivi. A scoprire l’inganno è stato un trasportatore. Dal Friuli, dove veniva prodotto, il latte tossico raggiungeva Veneto, Toscana, e poi, ancora più a Sud, Umbria, Campania e Puglia. Quello spacciato per idoneo alla produzione di Montasio Dop invece finiva ai caseifici di Selva del Montello (Treviso), Sacile e Feletto Umberto. Zampa, dal canto suo, si professa innocente e dice di essere vittima di un clamoroso errore. Lo stabilirà la magistratura. Fondatore del Cospalat, nel febbraio del 1998, Renato Zampa, 52 anni, di Pagnacco, si impose immediatamente come il capo indiscusso dei circa 200 produttori di latte del Friuli Venezia Giulia che avevano deciso di aderire al nuovo movimento. Già in passato aveva subìto un processo che lui stesso aveva voluto per una fornitura alla Granarolo che conteneva aflotossine. Ma era stato assolto. E c’è di più, quasi un’ironia della sorte. Lo stesso Renato Zampa per conto della Cospalat del Fvg si era fatto vessillifero di un intervento di controllo nei confronti di un camion di latte con valori alti di aflotossine. Nell’occasione erano poi scattate ulteriori verifiche in collaborazione con Azienda sanitaria e carabinieri del Nas, in modo - aveva precisato allora Zampa – «di garantire come sempre un prodotto sicuro e di qualità». Personalmente sono per pene severissime da comminare, se colpevoli ovviamente, a questi soggetti, sapendo che in questa italietta, tra qualche anno nessuno si ricorderà nulla e magari loro incominceranno nuovamente a venderci la loro merda liquida, a fare i gradassi al telefono ( leggendo le trascrizioni delle intercettazioni ) con le donne che si danno da fare, magari per far allontanare il veterinario onesto. Posso incazzarmi davanti a tutto questo ? Posso sognare ( ma prima o dopo arriveremo a farlo davanti a questi /queste farabutte ) che se colpevoli la gente potrà osservarli da vicino, sputargli in viso e pisciarli in testa ? Intanto I carabinieri del Nas di Udine hanno chiesto all'azienda sanitaria la sospensione dell'attività della Cospalat Friuli Venezia Giulia, in seguito all'indagine sulla frode in commercio e sul latte contaminato da Aflatossine M1. Il provvedimento verrà notificato a breve dall'azienda sanitaria al consorzio. Il Minimo.
LA STRAGE DI VERGAROLLA E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.
Vergarolla: la strage dimenticata che stroncò per sempre Pola italiana, scrive il 18/08/2018 Marco Fornasir su "Il Giornale". La strage di Vergarolla, avvenuta alle 14.15 di domenica 18 agosto 1946, è la più sanguinosa (circa 100 vittime) fra quelle dell’Italia repubblicana. Tenuta nascosta per oltre mezzo secolo, non viene conteggiata tra le stragi nazionali, ma come altre stragi del nostro Paese non ha ancora ottenuto una verità processuale. Forse adesso alcune associazioni di esuli cercheranno di ottenere l’attenzione della Commissione Stragi: si spera almeno in una verità parlamentare. Quel fungo disegnato da nuvole di fumo in una normale domenica estiva a Pola, tragicamente simile al fungo atomico di Hiroshima, ebbe sugli italiani che caparbiamente resistevano a Pola lo stesso effetto che ebbe sui giapponesi: resa incondizionata. Le conseguenze della strage di Vergarolla furono impressionanti: oltre ai 64 cadaveri identificati anche se disintegrati (di una signora fu ritrovato solo un dito con la fede, piccolo ma determinante dettaglio; di uno dei figli del dottor Micheletti – l’eroe di quei giorni, medaglia d’argento al Valor Civile – fu rinvenuta solo una scarpetta) ci furono circa una cinquantina di altri sventurati che persero la vita in quello scoppio. Probabilmente uomini e donne che scappavano dai territori istriani occupati dai titini e che non erano mai stati registrati come domiciliati a Pola per paura di ritorsioni contro le loro famiglie rimaste in zona B. Basandosi sulle ossa e i resti umani reperiti, il dottor Micheletti stimò insieme a un dottore inglese che i morti totali avrebbero potuto essere compresi tra 110 e 116. In una relazione ufficiale il dottor Chiaruttini dichiarò che ci furono circa 100 morti. La terra tremò per una vasta area e i vetri di molte case di Pola andarono in frantumi, come le speranze di mantenere Pola in territorio italiano. Purtroppo ancor oggi questo episodio difficilmente viene identificato come un attentato contro la popolazione italiana e, perfino dagli attuali vertici della Comunità italiana di Pola, viene derubricato a semplice incidente (nei discorsi ufficiali si cita solo: tragica fatalità, tragico incidente). In quel periodo a Parigi erano in corso i negoziati per definire lo status dei territori italiani in tutta la Venezia Giulia e in Dalmazia e l’italianissima Pola faceva sentire quasi quotidianamente la sua voce per manifestare la volontà di rimanere parte integrante, magari sotto forma di enclave, di una ancora acerba Repubblica Italiana o di far parte del Territorio Libero di Trieste. Quella strage fiaccò definitivamente il morale dei nostri connazionali, fino alla firma del Trattato di Parigi (10 febbraio 1947) e all’esodo. Tra i pochi testi che si sono occupati di questo eccidio, lo studio più approfondito che prende in esame tutti gli aspetti della tragedia è La strage di Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive (editore LCPE), dell’ex-direttore del mensile L’Arena di Pola Paolo Radivo, figlio di istriani. Con un grande sforzo di ricerca, Radivo compara gli articoli dell’epoca con i documenti successivamente rinvenuti e ulteriori testimonianze. Il corposo volume di Radivo potrà essere il testo-chiave in caso di una commissione d’inchiesta. Quella domenica d’agosto erano in programma le gare natatorie della Pietas Julia, evento che attirò sulla spiaggia di Vergarolla buona parte della gioventù italiana di Pola e dintorni. Al momento dell’esplosione (14.15) erano presenti sulla spiaggia solo italiani, per lo più giovanissimi con le rispettive famiglie.
A esplodere furono degli ordigni incustoditi di vario genere che erano stati disinnescati e accatastati sulla spiaggia. Per esplodere, quegli ordigni avrebbero dovuto essere nuovamente riattivati e poi innescati, quindi in nessun modo si trattò di un incidente ma di un vero e proprio attentato. Rosmunda Bronzin Trani vide un uomo vestito (cosa un po’ strana d’estate) che aggiuntava dei fili elettrici presso la catasta dei residuati. E’ probabile che quell’uomo, mai identificato, sia stato l’esecutore materiale della strage, magari utilizzando l’attrezzatura delle vicine miniere di carbone dell’Arsa. Terminate ufficialmente le ostilità, Pola era rimasta territorio italiano sotto amministrazione alleata. Il maresciallo Tito pretendeva di acquisirla nella neonata Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia e la Conferenza della Pace di Parigi era orientata in tal senso. Va sottolineato che il delfino di Tito Milovan Gilas, poi caduto in disgrazia, in una intervista rilasciata al quindicinale fiumano Panorama (21 luglio 1991) dichiarò: «Nel 1946 io ed Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana… bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto.» Pola fu annientata, il suo spirito e quello dei suoi abitanti fu completamente distrutto. Le autorità jugoslave incolparono subito il governo alleato di scarsa sorveglianza, mentre a Pola il muro di omertà ha coperto e continua a coprire mandanti ed esecutori. Da qualche anno spuntano testimonianze che portano inequivocabilmente nella direzione dell’attentato, ma ancora la prova regina non c’è (come non c’è per altre stragi più recenti). E fin qui niente di nuovo: anche se non hanno ancora un colpevole, per alcune si è arrivati alla definizione di mandanti ed esecutori analizzando la realtà socio-politica dell’epoca. Ma le altre stragi italiane (da piazza Fontana a Bologna, che fino ad oggi è considerata la più tragica con le sue 85 vittime) vengono celebrate con tutti gli onori e con ampia partecipazione delle istituzioni e delle forze politiche. E hanno comitati che pungolano le autorità a ricercare la verità, anche quando questa ricerca sembra vivere momenti di pausa.
Vergarolla, purtroppo, non gode del medesimo trattamento, come quasi tutte le vicende che riguardano il periodo sul finire della seconda guerra mondiale nei territori del confine orientale: nessun comitato delle vittime, nessun processo (se si esclude quello sbrigativo e inconcludente doverosamente cominciato dagli anglo-americani e finito in una sciatta archiviazione), nessun riconoscimento. Anzi, ogni anno alcune associazioni di esuli si recano a una messa a Pola il 18 agosto e subito dopo rendono omaggio alle vittime deponendo una corona sul cippo accanto al duomo che ricorda quella tragedia. Si sperava di poter aggiungere al cippo due lastre di marmo con i nomi delle vittime. Inizialmente le autorità di Pola sembrarono favorevoli, ma poi avvenne il voltafaccia: non solo nessuna aggiunta al cippo esistente, ma addirittura la rimozione del cippo stesso per motivi archeologici. E’ vero, alla cerimonia prendono parte il console generale italiano di Fiume e un rappresentante della Regione Friuli Venezia Giulia, quest’ultimo l’unico a parlare, nei discorsi ufficiali, di strage. La Comunità Italiana di Pola “subisce” questa cerimonia e, quando vi partecipa, continua a parlare di disgrazia, di tragica esplosione, di tragica fatalità. In un’Europa unita, che ha abolito i confini, sarebbe ora di abbattere anche quelli culturali e riconoscere reciprocamente fra gli Stati gli episodi che ancor oggi risultano controversi: non si può ammettere nel 2018 che su episodi come questo non si riesca ad avere una verità condivisa. Per questo c’è necessità di riaprire un processo che consenta alle vittime e ai loro congiunti di avere una verità processuale. Se ciò non sarà possibile, aprire un fascicolo presso la Commissione Stragi del Parlamento potrebbe essere l’inizio di un percorso che consenta di individuare autori e mandanti di quella carneficina.
Strage di Vergarolla: quando si usava il tritolo per cacciare gli italiani, scrive Marco Fornasir il 18/08/2016 su "Il Giornale". La strage di Vergarolla, avvenuta domenica 18 agosto 1946, è forse la più sanguinosa (circa 100 vittime) fra quelle dell’Italia repubblicana. Volutamente nascosta per oltre cinquant’anni, viene finalmente portata alla luce in tutti i suoi aspetti grazie al libro del direttore de L’Arena di Pola Paolo Radivo. Un’esplosione potente squarciò la spiaggia di Vergarolla alle 14:15 di domenica 18 agosto 1946. La terra tremò per una vasta area e i vetri delle case di Pola andarono in frantumi, come le speranze di mantenere Pola in territorio italiano. Sessantaquattro sono le vittime identificate e sepolte, ma circa cento persone furono spazzate via da quello che ancor oggi a fatica viene identificato come un attentato contro la popolazione italiana e, perfino dagli attuali vertici della Comunità italiana di Pola, viene derubricato a semplice incidente. Quell’esplosione, tragicamente simile al fungo atomico di Hiroshima, ebbe anche lo stesso effetto di quelle bombe micidiali. Si può dire che l’attentato di Vergarolla, come avvenne in Giappone, costrinse la popolazione alla resa: in quel periodo a Parigi erano in corso i negoziati per definire lo status dei territori italiani in Istria e in Dalmazia. L’italianissima Pola faceva sentire quasi quotidianamente la sua voce per manifestare la volontà di rimanere parte integrante di una ancora acerba Repubblica Italiana, magari sotto forma di enclave. Quella strage fiaccò definitivamente il morale dei nostri connazionali e da allora ci fu un lento e inesorabile abbandono di ogni speranza, fino alla firma del Trattato di Parigi (10 febbraio 1947) e all’esodo. A settant’anni di distanza, dopo alcuni libri che hanno riacceso le luci su quel grave e criminale episodio, è stato realizzato finalmente uno studio approfondito che prende in esame tutti gli aspetti della tragedia. Il volume è: La strage d Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive (editore Libero Comune di Pola in Esilio – LCPE), l’autore è il direttore del mensile L’Arena di Pola Paolo Radivo, figlio di istriani. Inoltre è stato realizzato, sempre con il contributo determinante dell’LCPE, il documentario di Alessandro Quadretti L’ultima spiaggia. Pola fra la strage di Vergarolla e l’esodo. Ambedue sono importanti strumenti per capire cosa è effettivamente successo in quella tragica domenica d’agosto. Il corposo volume di Radivo conta ben 648 pagine ed è uno studio completo sulla vicenda, il documentario riporta anche le testimonianze dei pochi testimoni sopravvissuti, forse l’ultima occasione di sentire dalle voci di chi c’era la verità dei fatti. Ma chi non ha mai sentito parlare di questa strage, per intenderci più sanguinosa di quella della stazione di Bologna, ha necessità di alcuni particolari e di inquadrare i fatti nel periodo storico. Terminate ufficialmente le ostilità, Pola era rimasta territorio italiano sotto amministrazione alleata. Il maresciallo Tito pretendeva di acquisire anche l’italianissima Pola nella neonata Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia (dal 1963 Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia) e la Conferenza della Pace di Parigi era in corso. Va sottolineato che il delfino di Tito Milovan Gilas, poi caduto in disgrazia, in una intervista rilasciata al quindicinale fiumano Panorama (21 luglio 1991) dichiarò: «Nel 1946 io ed Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana… bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto.» In questo contesto si svolsero quella domenica di agosto le gare natatorie della Pietas Julia, evento che attirò sulla spiaggia di Vergarolla buona parte della gioventù italiana di Pola e dintorni, compresa la squadra del Centro Sportivo Proletario, filo-jugoslava, che vinse una delle gare e lasciò la zona verso l’ora di pranzo. Al momento dell’esplosione (14:15) erano presenti sulla spiaggia solo italiani, per lo più giovanissimi con le rispettive famiglie. A esplodere furono degli ordigni (di vario genere, per lo più bombe di profondità) che erano stati disinnescati e accatastati sulla spiaggia. Erano 12, 28 o 32, a seconda dei documenti del Governo Militare Alleato, e non potevano assolutamente esplodere da soli. Tanto che i ragazzini vi salivano a cavalcioni e le signore vi stendevano ad asciugare i teli da mare e i costumi da bagno. Per esplodere quegli ordigni avrebbero dovuto essere nuovamente riattivati e poi innescati, quindi in nessun modo si trattò di un incidente ma di un vero e proprio attentato. E la testimonianza di Claudio Bronzin, all’epoca un ragazzino, squarcia il muro di silenzio: ricorda che sua zia Rosmunda vide un uomo vestito (cosa un po’ strana d’estate) che aggiuntava dei fili elettrici presso la catasta dei residuati. E’ probabile che quell’uomo, mai identificato, sia stato l’esecutore materiale della strage, magari utilizzando l’attrezzatura delle vicine miniere di carbone dell’Arsa. Il risultato della strage fu impressionante: oltre ai 64 cadaveri identificati anche se disintegrati (di una signora fu ritrovato solo un dito con la fede, piccolo ma determinante dettaglio, di uno dei figli del dottor Micheletti fu rinvenuta solo una scarpetta) ci furono circa una quarantina di altri sventurati che persero la vita in quello scoppio. Probabilmente uomini e donne che scappavano dai territori istriani occupati dai titini e che non erano mai stati registrati come domiciliati a Pola per paura di ritorsioni contro le loro famiglie rimaste in zona B. Basandosi sulle ossa e i resti umani reperiti, il dottor Micheletti stimò insieme a un dottore inglese che i morti totali avrebbero potuto essere compresi tra 110 e 116. In una relazione ufficiale il dottor Chiaruttini dichiarò che ci furono circa 100 morti. Pola fu annientata, il suo spirito e quello dei suoi abitanti fu completamente distrutto. Le autorità jugoslave incolparono subito il governo alleato di scarsa sorveglianza, mentre a Pola il muro di omertà ha coperto e continua a coprire mandanti ed esecutori. Da qualche anno spuntano testimonianze che portano inequivocabilmente nella direzione dell’attentato, ma ancora la prova regina non c’è (come non c’è per molte altre stragi più recenti). Il nome che ricorre più frequentemente è quello di Ivan (Nini) Brljafa, un partigiano dell’Istria interna che a Pola ebbe poi anche qualche incarico locale dal governo jugoslavo. Brljafa si suicidò nel 1979 in seguito alla scoperta di un tumore ai reni, ma pare che lasciò un biglietto in cui confessava di aver agito su ordine di Albona (sede all’epoca di un comando dei servizi segreti jugoslavi). Altri testimoni raccontano che il giorno dopo il massacro due polesani avrebbero festeggiato insieme ai due attentatori in una trattoria di Monte Castagner, mentre dieci giorni dopo quattordici polesani brindarono alla strage in un’osteria di Monte Grande. Ma anche qui nessuna pistola fumante. Però, grazie al libro di Radivo che compara gli articoli dell’epoca con i documenti successivamente rinvenuti e ulteriori testimonianze, sono venuti alla luce numerosi elementi, soprattutto per quello che riguarda i movimenti delle truppe alleate e delle truppe titine in zona subito prima dell’attentato. E anche ciò che avvenne subito dopo viene esaminato in profondità. Inoltre vengono messi a fuoco molti dettagli che riguardano i soccorsi dopo l’esplosione, l’assistenza ai feriti e il penoso momento dei funerali cittadini. Tra tutti emerse la figura del dottor Geppino Micheletti (cugino del noto filosofo goriziano Carlo Michelstaedter) che operò consecutivamente fino a tarda sera tutti i feriti gravi, anche dopo aver saputo che i suoi figli Carlo e Renzo erano stati spazzati via dall’esplosione. Solo a tarda sera si recò a Vergarolla alla ricerca dei resti di uno dei due. Fu decorato con la medaglia d’argento al valor civile. Lui rimase a Pola fino al settembre 1947, quando partì per l’esilio, dicendo che mai avrebbe potuto curare qualcuno con il sospetto di curare un criminale coinvolto nella strage.
Rivelazioni. Istria 1946: a Vergarolla fu vera strage, scrive Lucia Bellaspiga, giovedì 12 giugno 2014 su "Avvenire". Il 18 agosto del 1946 è una domenica e a Vergarolla, la spiaggia di Pola, migliaia di polesi sono radunati per le gare di nuoto e l’anniversario della Pietas Julia, la società nautica cittadina, di chiaro orientamento patriottico. In quel momento gli eccidi e le foibe hanno già insanguinato Istria, Fiume e Dalmazia, ma da un anno a Pola un governo militare angloamericano protegge la città dai titini intanto che a Parigi le grandi potenze ancora discutono sul suo destino e ridisegnano i confini adriatici. Quel giorno, dunque, la popolazione assiste a una gara sportiva di forte valore filoitaliano, tantissimi sono i bambini, il caldo ha attratto nel bel mare istriano almeno duemila persone. È lì tra loro che alle 14.10 un’esplosione gigantesca letteralmente polverizza decine e decine di corpi (i soccorritori dovranno recuperare i poveri resti sugli alberi fino a grande distanza). Sulla sabbia giacevano da mesi residuati bellici che però erano stati disinnescati e più volte controllati dagli artificieri inviati dalle autorità anglo-americane: «Ormai facevano parte del paesaggio, ci stendevamo sopra i vestiti o mettevamo la merenda al fresco sotto la loro ombra», testimoniano oggi i sopravvissuti. Eppure qualcuno aveva riattivato quegli ordigni per farli esplodere esattamente quel giorno. Oggi possiamo scriverlo senza paura di essere smentiti dai negazionisti, che per decenni hanno parlato di 'incidente', perfino di autocombustione: a 70 anni dalla strage, due studi in contemporanea sono stati commissionati a storici super partes dal Libero Comune di Pola in Esilio (Lcpe, l’associazione che raccoglie tutti gli esuli da Pola) e dal Circolo Istria di Trieste, e le conclusioni cui i due storici sono addivenuti, pur divergendo su alcuni aspetti, concordano su un punto inconfutabile: fu strage volontaria. «È già un risultato epocale – commenta Paolo Radivo, direttore dell’Arena di Polae consigliere del Lcpe –: da molti anni ogni 18 agosto ci rechiamo a Vergarolla, oggi Croazia, per celebrare i nostri morti insieme alla comunità degli italiani rimasti a Pola». Lo scorso agosto l’onorevole Laura Garavini del Pd ha mandato un ampio messaggio e annunciato un’interrogazione parlamentare: «Era la prima volta». Aria nuova anche in Regione Friuli Venezia Giulia, dove la presidente Debora Serracchiani (Pd) inviò un suo contributo sulla mattanza che «per le modalità subdole con cui fu perpetrata e per la cortina di silenzio e travisamenti che a lungo la avvolse è uno degli episodi più cupi del dopoguerra». Se già qualche anno fa dagli archivi di Londra erano trapelati i primi indizi di un attentato volontario, tali elementi non erano ancora sufficienti. Così nei mesi scorsi William Klinger, massimo studioso italiano di Tito, si è recato negli archivi di Belgrado, mentre l’altro giovane storico, Gaetano Dato, ha consultato quelli di Zagabria, Londra, Washington e Roma. Sì, perché ciò che emerge chiaramente da entrambi gli studi è che per capire cosa avvenne su quella spiaggia bisogna guardare agli scenari mondiali: Vergarolla è il crocevia della storia moderna post bellica, la palestra in cui nasce la guerra fredda. «Klinger ha il merito di inserire la strage nella più generale politica aggressiva jugoslava contro l’Italia sconfitta ma anche contro i suoi stessi alleati anglo-americani», spiega Radivo. Già all’indomani della strage partirono due inchieste, una della corte militare e l’altra della polizia civile alleate, non a caso intitolate “Sabotage in Pola”, cioè nettamente orientate a negare l’incidente fortuito. Klinger non prova la responsabilità diretta della Ozna («negli archivi di Belgrado non ci sono i dispacci dell’epoca, l’ordine tassativo era di distruggere all’istante qualsiasi istruzione ricevuta »), ma racconta il contesto, la spietatezza della polizia di Tito, che controllava buona parte del Pci italiano e soprattutto in quel 1946 stava alzando il tasso di violenza in un crescendo di azioni, tant’è che sia gli americani che gli inglesi in documenti scritti lamentano col governo jugoslavo «le attività terroristiche e criminali». Inoltre sempre Klinger nota come all’epoca la stampa jugoslava desse conto di ogni minimo avvenimento, eppure non dedicò una sola riga a una strage terrificante: un silenzio quantomeno sospetto. Gaetano Dato spiega nei dettagli le dinamiche dell’esplosione: «Scoppiarono una quindicina di bombe antisommergibile tedesche e testate di siluro che erano state disinnescate, ma che con l’ausilio di detonatori a tempo furono riattivate». Dato avverte però che nella sua ricerca sceglie di «mettere da parte le memorie» dei testimoni, perché teme che «involontariamente selezionino una parte di verità, cancellando o modificandone altre», ma questo rischia a volte di essere il punto debole del suo lavoro di storico, che lascia aperte tutte le ipotesi: «Se devo dire la mia personale opinione – ci dice – fu una strage jugoslava, ma non posso tralasciare altre piste: quella italiana, con gruppi monarchici o fascisti che stavano organizzando la resistenza contro Tito, e quella di anticomunisti jugoslavi». Ma di entrambe, ammette, non ci sono prove. «È vero che all’epoca c’erano ancora italiani che intendevano combattere in difesa dell’italianità – commenta Radivo –, ma Vergarolla certo non aizzò i polesi a sollevarsi, anzi, ne fiaccò per sempre ogni istanza». Secondo Radivo, dunque, per comprendere i mandanti occorre vedere i risultati, «e questi furono la rinuncia a combattere per Pola italiana, con la fine di ogni manifestazione da quel giorno in poi, e mesi dopo la partenza in massa con l’esodo, ormai visto come unica salvezza. Ed entrambi i “cui prodest?” portano alla Jugoslavia». D’altra parte un’escalation di azioni precedenti hanno sbocco naturale proprio nei fatti di Vergarolla: nel maggio del ’45, già in tempo di pace, la nave Campanella carica di 350 prigionieri italiani da internare nei campi di concentramento titini cola a picco contro una mina e le guardie jugoslave mitragliano in acqua i sopravvissuti; pochi mesi dopo a Pola esplodono altri depositi di munizioni in centro città; nel giugno del ’46 militanti filojugoslavi fermano il Giro d’Italia e sparano sulla polizia civile; 9 giorni prima di Vergarolla soldati jugoslavi assaltano con bombe a mano una manifestazione italiana a Gorizia; la domenica prima della strage una bomba fa cilecca sulla spiaggia di Trieste durante una gara di canottaggio: sarebbe stata un’altra carneficina... per la quale bisognerà attendere il 18 agosto. Negli archivi di Londra un documento attesta la «volontà espressa degli jugoslavi di boicottare qualsiasi manifestazione italiana, anche sportiva». Non scordiamo che il 17 agosto del ’46, il giorno prima, a Parigi si era chiusa la sessione plenaria della Conferenza di pace e stavano iniziando le commissioni per decidere sui confini orientali d’Italia: era una data topica e i giochi non erano ancora chiusi. «I polesi potevano ancora sperare che la città venisse attribuita al Territorio Libero di Trieste, sogno sfumato solo un mese dopo, il 19 settembre»: le istanze di italianità erano ancora vive e i titoisti dovevano annientarle.
IL GIORNO DEL RICORDO DEGLI SMEMORATI.
Le foibe della memoria, scrive il 9 febbraio 2018 Luigi Iannone su "Il Giornale". Le foibe sono una profondità carsica nella nostra memoria collettiva. Un vuoto popolato di fantasmi reali e presunti che si rincorrono e mai hanno la forza necessaria per palesarsi. Quando fu istituito il Giorno del ricordo l’intento era chiaro: fare in modo che non vi fosse alcun silenzio su fatti accertati e tenuti nascosti per troppo tempo, e si ricordasse il sacrificio di tutti gli uomini, le donne e i bambini colpevoli solo di essere italiani. E invece tutto è diventato sulfureo come la polvere e il buio di quelle cavità nelle rocce. Financo le alte cariche dello Stato, come capitato anche in anni recenti, si dimenticano di celebrare con dignità e piena consapevolezza un tale abominio. Qualche citazione, una frase di circostanza negli abituali e noiosi discorsi preparati dagli uffici stampa o da asettici ghostwriter, e nulla più. In realtà, quello che accade ai primi di febbraio di ogni anno, è vergognoso e disperante. Il dibattito si accende ma prende una piega laterale e sbagliata, ponendo questo tema con sofisticata scaltrezza ad una parte consistente dell’opinione pubblica che già di suo poco sa e poco vuole sapere. E pur tuttavia, la questione viene sempre presa per il verso sbagliato. E così c’è sempre qualche mente illuminata dell’Anpi che cerca di circoscrivere il fenomeno in parametri ristretti o addirittura negarlo; chi, pur riconoscendo una tale vergogna, indirettamente costruisce plausibili motivazioni di politica estera, di rancore bellico; chi mette in mezzo i fascisti e la loro precedente violenza e via così. La vicenda di Simone Cristicchi di qualche anno fa risulta ancora paradigmatica. Il suo spettacolo Magazzino 18 ebbe tanti e tali impedimenti, manifestazioni contro e attacchi di vario genere, nemmeno si fosse peritato di declamare con orgoglio e fierezza le pagine più tetre del Mein Kampf. E invece stava rappresentando fatti accaduti alcuni decenni fa e che hanno visto, purtroppo, tanti nostri connazionali essere assassinati per il solo fatto di appartenere ad una comunità. Ma la sua vicenda è una delle tante che si sommano in lungo e in largo sul nostro territorio. Come la squallida routine impone, anche quest’anno l’andazzo pare infatti simile. Frotte di nostalgici di ogni schieramento che deviano l’interpretazione dei fatti su binari poco consoni alla verità, l’associazione dei partigiani che nel migliore dei casi fa "buon viso a cattivo gioco" oppure, per fortuna in casi isolati, ancora nega l’evidenza, e alte cariche istituzionali che, con malcelata fatica, riescono a profferire qualche parola solo poche ore prima del 10 febbraio svelando così una adesione al contesto generale di commemorazione più imposta da obblighi istituzionali che da reale e partecipato dolore. Le foibe restano una cavità che squarcia ancora la nostra memoria e da essa fanno capolino i fantasmi di tutta la storia recente che è in larga parte a servizio delle piccole beghe politiche e di mestieranti della cultura. A distanza di tanti decenni non si riesce a dare un senso a quel dolore e a rivolgere una solidale e collettiva preghiera per quegli innocenti, senza incomprensibili distinguo o paventate e inconsapevoli giustificazioni. E fin quando il nostro Paese non si scollerà di dosso i cascami di una dialettica politica sempre combinata con la falsa e capziosa storiografia sarà preda degli spasmi di ogni sorta di radicalismo e mai potrà porre la parola ‘fine’ su questa interminabile, penosa e logorante guerra civile.
Il ricordo per vincere il silenzio sul dramma di esuli e infoibati. A partire dal 2005, ogni 10 febbraio si celebra il giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe e degli esuli istriano-dalmati, scrive Marianna Di Piazza, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". Oltre 10mila italiani torturati e uccisi nelle foibe. Più di 300mila quelli scappati dalla loro case per sfuggire alla violenza dei partigiani di Tito. Ogni 10 febbraio si celebra il giorno del Ricordo e per non dimenticare questa drammatica pagina della nostra storia, siamo andati nei luoghi dove si è consumata la tragedia all'indomani della fine della Seconda guerra mondiale. Sul Carso triestino, la foiba di Basovizza, pozzo minerario scavato agli inizi del 1900, è diventata il simbolo di tutte le atrocità commesse dai partigiani jugoslavi. "In quest'area gli uomini di Tito hanno realizzato un massacro veramente immane. Uno strumento di terrore con il quale il maresciallo costruiva il suo nuovo Stato rivoluzionario comunista sul sangue versato da italiani, sloveni e croati", ha dichiarato il presidente della Lega Nazionale, Paolo Sardos Albertini.
Le foibe. Le foibe sono delle cavità naturali presenti sul Carso, l'altipiano alle spalle della città di Trieste e dell'Istria. Alla fine della Seconda guerra mondiale, i partigiani di Tito le utilizzarono per scaricare al loro interno migliaia di persone. Spogliate e legate l’una con l’altra con un fil di ferro stretto ai polsi, le vittime venivano schierate sugli argini delle cavità. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro. Coloro che non morivano sul colpo, erano condannati a soffrire per giorni. Furono circa 10 mila gli italiani infoibati, ma anche 150mila sloveni e 900mila croati finirono vittime del maresciallo Tito. "Nel territorio di Trieste ci sono decine di foibe. Ma oltre confine, in Slovenia, vengono continuamente scoperte nuove foibe con cadaveri all'interno", ha spiegato Albertini.
Le vittime. "Con lo strumento delle foibe, si volevano eliminare le persone che avrebbero potuto dare fastidio al nuovo Stato comunista jugoslavo", ha affermato il presidente Albertini. "Le truppe di Tito, entrate a Trieste, avevano con loro un elenco delle persone che andavano infoibate. Il meccanismo delle foibe era finalizzato a creare una situazione di terrore. E il terrore è tale anche se colpisce in maniera assolutamente casuale". A Basovizza una lapide ricorda l'infoibamento di un gruppo di finanzieri. Prelevati dai partigiani titini con la scusa di dover essere sottoposti ad alcuni controlli, gli uomini sono stati invece infoibati. Pochi giorni prima avevano partecipato all'insurrezione di Trieste contro i tedeschi. "Questa è stata la loro colpa", ha raccontato Albertini. Ma le foibe non sono state l'unico strumento di repressione titino. Migliaia di persone sono state deportate nei campi di concentramento comunisti di tutta la Jugoslavia. "Mia mamma ha cercato mio padre per anni", ha sussurrato con dolore Annamaria Muiesan, esule di Pirano. "Si è fatta portare più volte vicino ai campi, ma non lo ha mai trovato". La donna, dopo essere scappata da bambina insieme alla madre e alla sorella, ha raccontato della mattina in cui hanno portato via suo padre: "I collaboratori dei titini hanno fatto irruzione in casa nostra. Da quel momento non ho più rivisto mio papà".
La foiba n.149. A guerra finita, il primo maggio 1945 Tito entra a Trieste. Per oltre un mese le forze jugoslave si abbandonano alle violenze, in quelli che a oggi sono ricordati come i "40 giorni del terrore". I partigiani portano i prigionieri, con i vagoni merci, fino alla foiba di Monrupino, meglio conosciuta come foiba 149 (guarda il video). Pochi, difficili passi lungo la scarpata, poi la condanna a morte: le vittime vengono fatte precipitare nel baratro. Secondo alcune stime, in questa foiba hanno trovato la morte circa 2.000 persone.
Quei rastrellamenti partigiani rimasti nascosti per 75 anni. Inedita testimonianza sui giorni dopo l'armistizio: «A Sussak fecero sparire un migliaio di corpi trasformandoli in sapone», scrivono Serenella Bettin e Fausto Biloslavo, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". I partigiani di Tito portavano in una cartiera i «nemici del popolo» con un furgone della polizia italiana, che avevano sequestrato, per ridurli letteralmente a pezzi in barbare esecuzioni. Poi si disfacevano per sempre dei resti nel vicino saponificio, come i nazisti.
La testimonianza inedita. L'orrore perpetrato vicino a Fiume subito dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 viene rivelato per la prima volta da un'inedita testimonianza scritta anni fa e mai resa pubblica, in possesso del Giornale. La mattanza di prigionieri croati o italiani andò avanti per giorni, come in altre parte dell'Istria, dove i partigiani jugoslavi assunsero il controllo fra il settembre ed il novembre 1943 nella prima ondata delle foibe. «Questo fatto che ora vado a raccontare sembra inverosimile e lo dico come lo ebbi a sapere» scrive l'autore dell'inedita violenza alle porte di Fiume, che nel 1943 aveva poco più di vent'anni e faceva il servizio militare a Sussak, a pochi chilometri dal capoluogo del Quarnaro. Al Giornale ha chiesto di restare anonimo perché, sembra incredibile, ma dopo 75 anni continua ad avere paura. I testimoni di questa terribile storia delle violenze titine furono disarmati diversi giorni dopo l'8 settembre e trasferiti a Pola dai tedeschi, che dopo un mese ripresero il pieno controllo dell'Istria con altrettanta brutalità. «Quando fummo concentrati nel campo sportivo militare fuori della città di Pola, mi sentii chiamare venendomi incontro il carabiniere Moscatello (che era accantonato a Sussak, nda) - si legge nella testimonianza scritta - Piuttosto agitato mi disse: Ti ricordi Hai presente che il giorno dopo l'armistizio dell'otto settembre per due giorni si vedeva passare diverse volte e per tutto il giorno un va e vieni del furgone nero della Polizia Italiana?». A Sussak si era insediato il comando del II corpo d'armata Slovenia-Dalmazia del nostro esercito. Nel vuoto provocato dall'8 settembre i partigiani occuparono il centro abitato per una settimana fino alla controffensiva tedesca. E molti soldati italiani allo sbando rimasero sul posto. Il testimone ancora in vita ricorda che «andai al comando e dietro la scrivania del colonnello era seduto il capo dei partigiani, figlio dell'oste del paese». In poco meno di un mese i partigiani di Tito dichiararono l'annessione dell'Istria alla futura Jugoslavia cominciando a perseguitare chi rappresentava l'Italia. Maestri, funzionari pubblici, agenti di sicurezza e loro congiunti furono prelevati e uccisi. Gli italiani trucidati risultarono almeno un migliaio, ma anche i croati poco allineati con Tito, non solo militari, erano condannati ad una brutta fine. Nel 1943 il carabiniere Moscatello raccontò al testimone ancora in vita, che il cellulare della nostra polizia sequestrato dai partigiani andava a prelevare i nemici del popolo e «...velocemente entrava nello stabilimento della cartiera...» di Sussak. Il carabiniere confidò al commilitone «che di nascosto entrò nella cartiera... e assistette a una cosa impressionante». Dal furgone della polizia «appena entrato facevano scendere le persone all'interno e le ammazzavano facendole immediatamente a pezzi». Brutali esecuzioni sommarie, ma sapendo che ben presto sarebbero tornati i tedeschi in forze, i partigiani non volevano lasciare tracce di cadaveri infoibati o fosse comuni. «Moscatello ebbe anche a vedere che poi i pezzi venivano messi sulle cassette di legno per essere trasportate con il carretto nell'adiacente saponificio - si legge nella testimonianza scritta - passando per un piccolo ponticello in legno attraversando il fiume Eneo». I resti umani venivano fatti sparire per sempre trasformandoli in saponi. Il carabiniere testimone della mattanza potrebbe essere Venanzio Moscatello, classe 1910, scomparso da tempo. Fra il 1942 e 1943 è stato in servizio al comando italiano Slovenia-Dalmazia a Sussak, come dimostrano gli attestati militari. Purtroppo anche il figlio è morto, ma il Giornale è riuscito a recuperare una foto del carabiniere. Il commilitone che raccolse la sua terribile rivelazione nel 1943 lo ha riconosciuto: «È lui senza dubbio». E nel suo scritto ricorda come il testimone sia scampato alle esecuzioni nella cartiera della morte vicino a Fiume: «Moscatello mi disse che inorridito, sempre di nascosto si ritirò non potendo fare niente. Se lo avessero visto avrebbe certamente fatto la stessa fine».
Le pagine sulle foibe (che non scandalizzano i benpensanti). Pagine sulle foibe, sui Marò da buttare nelle cavità carsiche, sugli "idoli delle foibe" e così via. Sul web la pacificazione nazionale appare lontana, scrive Francesco Boezi, Venerdì 09/02/2018, su "Il Giornale". Il web, si sa, è un luogo colorito: si trova di tutto. Perfino pagine apertamente satiriche sulla tragedia delle foibe. Una, forse in modo meno ironico, è intitolata: "Uccidere i Marò gettandoli nelle foibe". Basta scorrere un minuto con il mouse per comprendere il taglio dato allo spazio social in questione: "Come fu che i nostri Marò vollero entrare in politica e si scavarono la foiba con le loro mani" recita la foto di un post condiviso dalla pagina "Libri vintage per l'infanzia". Satira, certo, su quella che dovrebbe essere riconosciuta pacificamente come una tragedia nazionale. E sui Marò del caso dell'Enrica Lexie, che in qualche modo vengono etichettati a simbolo politico di destra, quindi passibili di scherno e risibilità. "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie" è il nome di un'altra di queste pagine facilmente reperibile su Facebook. "Quest'anno le foibe non se l'è inculate nessuno... questa precarietà esistenziale non risparmia proprio nulla", si può leggere nel primo post visibile (almeno per chi non ha cliccato "mi piace"), risalente al 12 febbraio 2014. E subito dopo un murales recitante la seguente scritta: "Tu mi porti su e poi mi lasci cadere #foibe". Satira, evidentemente. Condivisa questa volta da "Anti Rac (Ama la Musica Odia il Razzismo)". In un post del 10 febbraio 2014, quindi durante Il Giorno del Ricordo, si trova scritto: "Anche Dante ha parlato del dramma delle foibe, poi non dite che non ci sono le fonti "Tanto gentile e tanto onesta pare la foiba mia quand'ellla altrui vi salta, ch'ogne lingua devan tremando muta e li occhi no l'ardiscon di guardare". Gli eccidi ai danni della popolazione italiana residente in Venezia Giulia, in Istria e in Dalmazia, quindi, "canzonati" alla maniera dell'Alighieri. L'autore, certamente, avrà voluto rendere omaggio in modo post-datato agli infoibati.
Poi, ancora, c'è la pagina "E i marò is the new "E le foibe?". In questo caso viene ripreso un famoso siparietto dell'attrice Caterina Guzzanti che, nei panni di una militante di Casapound, incalzata dall'intervistatore, ripeteva sempre la medesima frase sulle foibe. "E i marò", dunque, sarebbe in qualche modo diventata l'unica argomentazione rimasta a disposizione di un militante di destra. Oppure, a seconda delle interpretazioni, l'unica conosciuta. Un'altra pagina curiosa è "Tirare fuori a caso le foibe nei commenti". Qui gli inghiottitoi carsici sono finiti, attraverso un fotomontaggio, sui bigliettini dei Baci Perugina. Infoibamenti e dolcezze, insomma. Più difficile, invece, dedurre il collegamento pensato tra il titolo di "Idoli delle foibe", l'ennesima di queste pagine, e i personaggi selezionati per i post pubblicati: Fabrizio Corona, Enzo Salvi, Alvaro Vitali e così via.
I lettori, sicuramente, ricorderanno la chiusura di "Scl", che faceva (e fa) "satira non di sinistra". I contenuti elencati nelle circostanze citate, invece, sembrano non indignare i benpensanti e i cosiddetti controllori del web. Nessun appello pubblico, almeno sino ad ora, è stato fatto per rimuovere alcuni di questi contenuti. Se la "satira" non provoca scandalo in chi la recepisce, del resto, non sarebbe tale. E "Uccidere i Marò gettandoli nelle foibe", in particolare, è un'espressione trovata in una di queste pagine ovviamente tutelata dal diritto alla libertà di espressione. Oppure no?
Ecco il saggio per comprendere la ferocia dei miliziani di Tito. «Foibe» documenta con precisione la pulizia etnica anti italiana, scrive Matteo Sacchi, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". Le violenze compiute dai partigiani titini in Istria, Dalmazia, e in molte altre zone della Venezia Giulia sono state a lungo ignorate dalla storiografia. Quando sono tornate a essere oggetto di discussione, anche perché le violente pulizie etniche dei conflitti nella ex Jugoslavia hanno reso impossibile ignorare i precedenti, il tema è stato rapidamente politicizzato. Le formazioni politiche vicine al mondo comunista hanno spesso cercato di minimizzare ciò che per anni avevano contribuito a nascondere sotto il tappeto. Quelle di destra hanno cercato di «monetizzare» politicamente il proprio merito di aver lottato per mantenere in vita il ricordo di ciò che era toccato in sorte a questi italiani scomodi, di confine. Esiste invece la necessità di una indagine degli eventi rigorosa e il meno possibile di parte. Ecco perché da oggi troverete in edicola con il Giornale il saggio scritto da Raoul Pupo e Roberto Spazzali: Foibe (pagg. 254, euro 8,50 più il prezzo del quotidiano). Il volume inquadra con chiarezza, mettendo a disposizione del lettore i fatti, anche con un gran numero di documenti. E con le parole, proprio a partire da «Foibe». Inutili le discussioni su quante siano state le persone realmente gettate nelle cavità carsiche. «Quando si parla di foibe ci si riferisce alle violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme provocarono alcune migliaia di vittime». È in questo senso ampio che va considerato il dramma commemorato oggi nel Giorno del ricordo. Quelli perpetrati sul bordo degli inghiottitoi carsici sono solo alcuni degli eccidi perpetrati. Ciò ha contribuito a rendere particolarmente sterile il dibattito sul numero degli uccisi. Più interessante è riflettere su quale fu la metodica delle violenze, concentrate soprattutto nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945. Le violenze furono caratterizzate da un preciso odio etnico. Le vittime non furono soltanto esponenti del regime fascista, come spesso è stato detto da parte jugoslava. Come spiegano Pupo e Spazzali, già subito dopo l'8 settembre «vennero fatti sparire i rappresentanti dello Stato, come podestà, segretari e messi comunali, carabinieri, guardie campestri, esattori delle tasse e ufficiali postali». Una precisa volontà di «spazzare via chiunque ricordasse l'amministrazione italiana». Poi la strage si estese ai possidenti terrieri e anche ai partigiani italiani non disposti a farsi assimilare. I dati sono anche più chiari per la primavera del 1945. I campi in cui vennero inviati i prigionieri italiani, come quello di Borovnica, erano sostanzialmente strutturati per liquidarne il più possibile. E che di nuovo si trattasse di un preciso piano di occupazione e pulizia etnica lo provano le subitanee e spietate iniziative contro membri dei Cln di Gorizia e Trieste. Uccidere i partigiani italiani che davano segno di autonomia. Se a questa equazione «italiano = fascista» sponsorizzata dall'alto si sommano gli odi personali e lo spazio lasciato alla criminalità comune, si capisce l'entità delle violenze e del terrore che provocarono. L'ultima parte del libro è poi dedicata specificatamente ai luoghi, con mappe che indicano la collocazione delle foibe.
LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.
Foibe: il giorno del ricordo. L’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno del Ricordo nel 2007, userà queste parole: «Va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle foibe e va ricordata la “congiura del silenzio”, la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio. Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali».
Foibe, la verità dopo tanto silenzio, scrive Aldo Quadrani su “Viterbo Post”. Il Circolo Reale riportò alla luce la tragedia nel 1997. Gabbianelli la ricordò. Il 10 febbraio, l’Italia celebrerà il giorno del ricordo una ricorrenza civile nazionale istituita con legge del 30 marzo 2004 per non dimenticare le migliaia di Italiani trucidati dall’odio comunista, gettati nelle cavità carsiche, chiamate foibe. Nella nostra città, ma anche in gran parte d’Italia, di questo dramma non se ne ebbe notizia per tanti anni, grazie anche alla connivenza di una certa politica. Dobbiamo arrivare al 6 novembre 1997 quando il Circolo Reale della Tuscia in un pubblico convegno portò alla ribalta questo doloroso evento ed in quella occasione emerse la proposta di dedicare un pubblico sito a questi martiri. Ma si dovette attendere sino al 1999 e precisamente il 16 ottobre, giorno in cui venne intitolata la piazza esterna a Porta Faul ai “Martiri delle Foibe Istriane” grazie alla determinazione dell’allora sindaco Giancarlo Gabbianelli e dell’ allora assessore Antonio Fracassini. Chi era presente forse ancora ricorda la toccante e bellissima cerimonia con tante testimonianze di profughi e parenti di infoibati. Ma anche Viterbo dette il suo contributo di sangue come scoprì, a seguito di indagini, l’allora consigliere comunale Maurizio Federici: il ventenne Carlo Celestini conobbe la tremenda fine della sua vita in un Foiba e a lui fu dedicato il cippo che a tutt’oggi si erge nella piazza. Purtroppo i viterbesi, anche della provincia, che perirono in siffatte condizioni furono molti, come accertarono in seguito lo stesso Federici coadiuvato da Silvano Olmi. Con la nascita della festività nazionale c’è ora un Comitato denominato “10 febbraio” che magistralmente porta avanti annualmente il ricordo dei nostri martiri. Quest’anno la commemorazione avverrà con due giorni d’anticipo, domenica 8 febbraio alle ore 11,30 presso il Piazzale Martiri delle Foibe Istriane, per dar modo ai nostri Cittadini di poter partecipare e ricordare chi morì per la sola colpa di essere Italiano.
E allora le foibe? Si chiede Adriano Scianca su “Il Primato Nazionale”. È capitato una volta a chi scrive di telefonare, per ragioni professionali, a una delle tre maggiori università romane a ridosso della Giornata del Ricordo in onore delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata. Alla domanda su quali iniziative avesse preso l’ateneo per ottemperare agli obblighi di legge che prevedono pubbliche iniziative in occasione del 10 febbraio, il funzionario dell’università, sensibilmente imbarazzato, si affrettò a precisare: “Guardi, noi abbiamo anche un dipartimento di studi ebraici”. Al che fu chiaro che il passacarte di turno confondeva la Giornata del ricordo (10 febbraio) con il Giorno della Memoria (27 gennaio) e che evidentemente no, la sua università non aveva organizzato alcuna iniziativa per ricordare i connazionali trucidati nelle cavità carsiche. Volendo, l’aneddoto evidenzia anche una stortura nel rapportarsi alla stessa commemorazione del 27 gennaio (che c’entra il fatto di ricordare l’Olocausto con il fatto di avere un dipartimento di studi ebraici?), ma non infieriamo ulteriormente. A quanto pare, il ricordo è una cosa più complicata di quanto qualcuno immaginasse. Non basta istituire una giornata ad hoc per riattivare una memoria interrotta, se non si va a lavorare sulle ragioni di quella interruzione. Certo, magari la Rai domani sera trasmetterà “Il cuore nel pozzo”, la melensa fiction cerchiobottista in cui non si parla di comunisti e in cui gli esuli cantano “O sole mio”, tipico canto del confine orientale. Ma il ricordo vero è un’altra cosa e la classe intellettual-mediatica italiana si guarda bene dall’accostarvisi, in quanto erede spirituale di chi infoibò, torturò, stuprò, cacciò i nostri connazionali, di chi non li fece sbarcare nelle stazioni a cui approdavano dopo l’esodo, di chi gettava il latte destinato ai neonati affamati in terra, con gesto di scherno e sadismo, di chi ha imposto che per anni sulle foibe cadesse un velo di vergognoso silenzio. E dopo aver lasciato per anni il ricordo in mano a un pugno di patrioti solitari, che hanno tenuto viva la memoria per anni in mezzo all’indifferenza complice, oggi si denunciano quei pochi perché strumentalizzerebbero la storia. Non scordiamo, del resto, che poco tempo fa una mediocre personalità dello spettacolo, paracadutata per meriti familiari in prima serata, poteva lanciare il tormentone “E allora le foibe?” (cosa semplicemente inconcepibile in relazione a ogni altra grande tragedia del Novecento) come a sottolineare che chi ha a cuore il martirio delle terre del confine orientale è forse troppo invadente, insistente, petulante, dovrebbe darsi una calmata. Come se di foibe si parlasse in continuazione, come se l’argomento avesse ormai stancato, fosse un fatto assodato, come se non se ne potesse più. E forse, per alcuni, è così. Perché le foibe ricordano la loro eterna colpa e quindi quel nome è per loro insopportabile. Un motivo in più per continuare a pronunciarlo: e allora le foibe?
Il 10 febbraio, data della ratifica dei trattati di pace del 1947, si ricordano gli eccidi in Istria e Venezia-Giulia. 10 febbraio 2015. A 70 anni dai massacri del 1945, scrive Edoardo Frittoli su “Panorama”. La serie di eccidi noti come i massacri delle foibe possono essere divisi in due distinti periodi: gli "infoibamenti" del settembre-ottobre 1943 e le stragi del 1945, che in alcuni casi si protrassero fino al 1947. Non si conosce esattamente ad oggi il numero esatto delle vittime. La storiografia attuale comprende una forbice stimata tra i 5000 e i 12.000 morti. Al di là degli approcci ideologizzati dalla letteratura del dopoguerra e del silenzio sotto il quale passarono gli anni della Guerra Fredda e della Jugoslavia "non allineata" di Tito, sembrano essere all'origine dei massacri una serie di gravi concause, alcune risalenti a decenni antecedenti i fatti. Le popolazioni della Venezia-Giulia, dell'Istria e della Dalmazia a cavallo tra il secolo XIX e il XX erano caratterizzate dalla dualità etnico-linguistica italiana e slava. Quest'ultima, originariamente rurale, si trovava in una posizione socio culturale più bassa rispetto agli italiani, che costituivano una sorta di borghesia urbanizzata. Tra la fine dell'800 e la Grande Guerra i movimenti nazionalisti slavi, specie in Dalmazia, furono apertamente sostenuti dall'Impero Asburgico in funzione anti-italiana. La vittoria del 1918 portò all'occupazione di tutta la Venezia Giulia, dell'Istria e dalla Dalmazia. Quest'ultima fu alla fine negata all'Italia dalla "Dottrina Wilson", e Roma ottenne solo Zara e alcune isole. Da questa situazione tra gli irredentisti italiani nacque il mito della "vittoria mutilata", ripresa totalmente dal fascismo che si affacciava al potere. Dopo il 1922 inizia il processo di "fascistizzazione" attraverso la proibizione dell'uso delle lingue slave, l'esclusione dalle cariche pubbliche dei cittadini di origine non-italiana e la conseguente attribuzione a soli cittadini italiani dell'istruzione pubblica. Con l'aggressione italo-tedesca del 1941 la geografia di Slovenia, Croazia e Dalmazia fu riscritta. L'Italia procedette all'annessione di Lubiana e gran parte dell'attuale Slovenia. La Croazia passò sotto il regime filofascista di Ante Pavelic. Gli eventi bellici fecero poi precipitare la situazione. Nel 1943 i partigiani jugoslavi erano impegnati nella lotta contro i tedeschi e gli italiani quando arrivò l'8 settembre e il conseguente sbandamento del Regio esercito. Proprio a seguito dell'armistizio si colloca la prima ondata di assassinii legati alle foibe. Nei mesi precedenti, la lotta antipartigiana condotta dagli italiani e dagli alleati tedeschi aveva portato ad alcuni gravi episodi di repressione, sfociati in veri e propri massacri tra la popolazione civile. In Croazia Ante Pavelic, alleato dell'Asse, perseguì violentemente i partigiani, gli ebrei e gli zingari. Parecchi prigionieri sloveni erano stati portati nel campo di concentramento di Gonars, in Friuli. Così come i partigiani jugoslavi furono internati da Pavelic nel campo di concentramento di Jasenovac. All'indomani del' 8 settembre parte del territorio istriano era caduto in mano ai partigiani jugoslavi, i quali compilarono liste di presunti collaborazionisti del regime fascista, che comprendevano frequentemente nomi estranei alle istituzioni nazifascisteo all'esercito. Spesso si trattava di civili italiani ritenuti "in vista" dalla popolazione slava. Gli arrestati, condotti a Pisino, furono fucilati e infoibati. Altri massacrati nelle miniere della zona. Si trattava di circa 600 persone, trascinate e gettate nelle foibe spesso ancora vive, legate tra loro da un filo di ferro collegato a pesanti massi. Nel dicembre 1943 i tedeschi riprendono l'Istria, nell'offensiva che porterà i territori della Venezia-Giulia, Istria e Dalmazia a costituire la cosiddetta zona d'Operazioni del Litorale Adriatico (OZAK) di fatto annessa al Terzo Reich. Qui cominciarono ad operare a fianco dei tedeschi i reparti italiani della RSI (Guardia Nazionale Repubblicana, il reggimento Alpini "Tagliamento", reparti delle Brigate Nere) che si macchiarono di ulteriori tragici episodi di repressione. Ad appesantire il bilancio contribuirono i bombardamenti alleati della zona costiera e l'avanzata dei titini che tra l'autunno del 1944 e la primavera del 1945 riconquistarono la Venezia-Giulia puntando rapidamente su Trieste. L'arrivo degli uomini di Tito segnò la fine anche per gli italiani che avevano fiancheggiato gli jugoslavi nella lotta contro fascisti e nazisti. La polizia segreta di Tito, l'OZNA, comprese negli elenchi dei nemici dello stato comunista di Jugoslavia anche molti elementi facenti parte del CLN. La furia vendicatrice degli uomini di Tito si riversò anche su elementi del clero locale che non si erano macchiati di collaborazionismo. Nella primavera del 1945 furono sterminati nelle foibe migliaia di persone, non solo italiane, non solo membri delle milizie fasciste del Litorale Adriatico. Anche gruppi di Sloveni che si opponevano alla futura Jugoslavia comunista, anche membri di formazioni politiche "non allineate" quali gli Autonomisti istriani, i cui vertici furono barbaramente assassinati. Neppure i membri della Resistenza italiani di ritorno dai campi di concentramento furono risparmiati. Alla tragedia si aggiunse tragedia in quanto i titini, vicini alla vittoria finale, parevano non limitarsi all'acquisizione territoriale della Venezia-Giulia. Essi ritenevano che la vittoria militare coincidesse con quella della rivoluzione sociale comunista. La classe borghese in quelle zone era tradizionalmente identificata con la popolazione italiana tout court , al di là delle appartenenze politiche. Nei mesi del caos che precedettero la fine della guerra molte furono anche le morti dovute a rappresaglie locali, vendette personali o questioni legate a beni e proprietà. Particolarmente cruenta fu la situazione di Trieste e Gorizia all'arrivo dei titini. Oltre alla eliminazione fisica e all'occultamento nelle foibe del Carso, molti furono gli italiani e in genere gli oppositori di Tito ad essere internati nel terribile lager di Borovnica, nel quale i prigionieri furono massacrati dopo orribili torture fisiche. Sembrava in sostanza che la rappresaglia in quelle zone non si sarebbe arrestata con la fine della guerra, ma che sarebbe proseguita al fine di garantire il nuovo stato jugoslavo contro ogni tipo di opposizione. Cosa che in Italia non si verificò in quanto la Resistenza non si identificherà mai, come in Iugoslavia, con una nuova realtà nazionale (La Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia) in continuità con il movimento resistenziale. Il massacro di migliaia di vite umane nella profondità delle foibe fu messo a tacere praticamente subito. L'inizio della Guerra Fredda vide le mire del maresciallo Tito ridimensionate con la costituzione del TLT di Trieste (zona libera). Nel 1948 poi avviene lo strappo tra Belgrado e Mosca. Sia il PCI che il governo ritennero prudente non riaprire la questione delle foibe. Il governo e le istituzioni per evitare di affrontare la questione dei crimini di guerra compiuti dagli italiani in un contesto internazionale molto teso. Così come ambiguo rimarrà l'atteggiamento dei comunisti italiani tra il 1945 e il 1948. Questi avevano avvallato l'ingresso dei titini nella Venezia Giulia, acconsentito a tutte le rivendicazioni territoriali jugoslave dal 1945 in avanti. Fino al 1948, anno della rottura tra Stalin e Tito e alla ratifica dei trattati di pace a Parigi il 10 febbraio 1947. Poi il grande silenzio internazionale ha coperto per decenni le imboccature delle depressioni carsiche e il loro contenuto di morte.
La tragedia delle Foibe: 60 anni di silenzio. Per 60 anni il dramma delle foibe è rimasto ignoto ai più, e secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio è da ricondurre a tre motivi principali. Scopriamoli insieme, scrive Nicolamaria Coppola su “Quotidiano Giovani”. È stato un tabù per decenni: non una riga sui libri di scuola, nessuna pubblicazione storica nel grande circuito editoriale, niente commemorazioni ufficiali. Per 60 anni il dramma delle foibe è rimasto ignoto ai più, e secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio è da ricondurre a tre motivi principali: innanzitutto la necessità, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, del blocco occidentale di stabilire rapporti meno tesi con la Jugoslavia in funzione antisovietica; cause politiche dal momento che il PCI non aveva interesse a evidenziare le proprie contraddizioni sulla vicenda e le proprie subordinazioni alla volontà del comunismo internazionale; un silenzio da parte dello Stato Italiano che voleva sorpassare tutto il capitolo della sconfitta nella guerra da poco conclusasi. Solo in quest'ultimo decennio il dramma delle foibe è tornato alla ribalta, e nonostante le polemiche ideologiche si è cominciato a fare luce sulla tragedia. Dal 2005 si commemorano, nella “Giornata del Ricordo” il 10 febbraio, le vittime dei massacri delle foibe, ma sono ancora pochi gli Italiani che sanno effettivamente di cosa si tratti e cosa abbiano rappresentato per la generazione del dopoguerra. Secondo un sondaggio commissionato dall'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, solo il 43% dei nostri connazionali sa cosa siano le foibe e ancora più bassa è la percezione sul significato dell'Esodo giuliano-dalmata (22%). Il 46% dei giovani ha una cognizione abbastanza chiara della tragedia, ma i dubbi e le incertezze sono ancora tanti. Le foibe sono delle cavità naturali con ingresso a strapiombo presenti sul Carso, la zona montuosa compresa tra Trieste, la Slovenia, l'Istria e la Dalmazia, usate per occultare i cadaveri di un numero non preciso di persone. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale i partigiani comunisti di Tito gettarono- infoibarono - in queste profonde voragini migliaia di persone, alcune dopo averle fucilate, altre ancora vive, colpevoli o di essere italiane o di essere contrarie al regime comunista. La prima ondata di violenza esplose subito dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943 tra l'Italia guidata dal Generale Badoglio e le truppe anglo-americane: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicarono contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Li consideravano “nemici del popolo”, accusandoli sia di non essere comunisti e, quindi, ostili a Tito, sia, soprattutto, di aver contribuito, allorquando il regime fascista impose in tutto il Venezia Giulia una violenta politica di snazionalizzazione, all'eliminazione delle minoranze serbe, croate e jugoslave in quella regione. Le vittime dei titini venivano condotte, dopo atroci sevizie, nei pressi della foiba: qui gli aguzzini, non paghi dei maltrattamenti già inflitti, bloccavano i polsi e i piedi tramite filo di ferro ad ogni singola persona con l’ausilio di pinze e, successivamente, legavano gli uni agli altri sempre tramite il di ferro. I massacratori si divertivano, nella maggior parte dei casi, a sparare al primo malcapitato del gruppo che ruzzolava rovinosamente nella foiba spingendo con sé gli altri. La violenza aumentò nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupò Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito, al grido di «Epurare subito», «Punire con severità tutti i fomentatori dello sciovinismo e dell’odio nazionale», si scatenarono di nuovo contro gli italiani, e a cadere dentro le foibe furono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. L'ondata di violenza non risparmiò neppure le popolazioni slovene contrarie al progetto politico comunista jugoslavo, le quali, oltre che infoibate, vennero deportate nelle carceri e nei campi di prigionia, tra i quali va ricordato quello di Borovnica. Questa carneficina, che testimonia l’odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti, finì il 9 giugno 1945, quando Tito e il generale Alexander tracciarono la linea di demarcazione Morgan che prevedeva due zone di occupazione, la A e la B, dei territori goriziano e triestino, confermate dal “Memorandum di Londra” del 1954. È la linea che ancora oggi definisce il confine orientale dell’Italia. La persecuzione degli Italiani, però, durò almeno fino al 1947, soprattutto nella parte dell'Istria più vicina al confine e sottoposta all'amministrazione provvisoria jugoslava. Secondo lo storico Enzo Collotti, parlare delle foibe significa «chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell'arco di un ventennio con l'esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari e sociali concentratesi, in particolare, nei cinque anni della fase più acuta della Seconda Guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell'odio, delle foibe, dell'esodo dall'Istria». Le foibe sono state il prodotto di odi diversi: etnico, nazionale e ideologico. «Furono la risoluzione brutale di un tentativo rivoluzionario di annessione territoriale», ha sintetizzato lo storico triestino Roberto Spazzali. «Chi non ci stava, veniva eliminato».
IL SILENZIO SULLE FOIBE: UN GENOCIDIO CELATO DA OMBRE, scrive Giuseppe Papalia su “Secolo Trentino”. Foibe. Probabilmente a molti questa parola direbbe ancora poco se l’argomento non fosse stato portato alla ribalta dell’opinione pubblica, istituendo una giornata della memoria, meritata quanto agognata e ancora oggi criticata e strumentalizzata dalle diverse fazioni politiche che ne recriminano l’accaduto. Il 10 febbraio di ogni anno, infatti, si ricorda questo terribile genocidio ancora impresso nella mente di molti, di quell’Italia del dopoguerra travolta dalla miseria e dalla fame. Di quel paese coinvolto in una crisi identitaria radicale, non solo politica ma quasi metafisica. In cui la guerra e la persecuzione erano solo i sintomi di una guerra ormai ultima, la prova, che negli anni a venire avrebbe gettato una luce cruda su quanto accaduto. Quella luce che in molti oggi sembrano non voler riesumare, nonostante i corpi riesumati in quelle fosse furono circa 11000, comprese le vittime recuperate e quelle stimate, più i morti nei campi di concentramento jugoslavi. Una riflessione scaturisce in merito a quella storia vissuta eppure dimenticata dai più, impressa tuttavia nelle menti delle generazioni che l’hanno vissuta sulla loro pelle l’8 settembre del 1943, quando i territori istriani, giuliani e dalmati, dapprima sotto l’influenza tedesca, venivano in seguito occupati dai partigiani comunisti di Tito. Titini che, comunemente ai partigiani comunisti italiani, non solo nutrivano il progetto di avanzare in un paese ormai stremato e inerme (segnato dalla caduta del fascismo) recriminandone la conquista territoriale, ma addirittura rivelarono ben presto quell’odio etnico che li animava. L’intenzione di “de-italianizzare” i territori occupati con metodi terribili fu presto svelata. Metodi che nulla avevano da invidiare a quelli nazisti adottati nei confronti di popoli innocenti e che nulla centravano con i fatti accaduti nell’Europa della grande guerra e dei crimini di guerra. Così, occorre oggi ricordare, che Italiani senza particolare distinzione di sesso, età o fazioni politiche, erano prelevati e poi eliminati con l’unica colpa forse, di non aver partecipato attivamente a piani espansionistici di Tito, che costrinse ben 350000 persone a fuggire dalle loro terre e altre 11000, a essere uccise con modalità di una ferocia inaudita. Nella sola foiba di Basovizza, furono rinvenuti 2000 cadaveri. Nonostante in molti abbiano portato il tema alla considerazione dell’opinione pubblica, sorge spontanea una riflessione. Possibile che solo ora, dopo settantanni di macabra storia celata e quasi dimenticata, se non addirittura strumentalizzata a piacere dalle diverse fazioni politiche, possiamo ritenerci soddisfatti dell’istituzione di una giornata della memoria e (addirittura) dell’uscita di un film sull’avvenimento di tale fatto? E pensare che la cinematografia e tutte le varie ricorrenze istituite ad hoc, non si sono fatte aspettare più di tanto per quel che concerne la Shoah. Per quale motivo? Che le foibe fossero meno importanti? O probabilmente perché nonostante tutto, ancora oggi, le foibe non sono ancora entrate nella cosiddetta “memoria condivisa” di un popolo (quello italiano) che ne fu vittima oltre che carnefice? Come scrisse il grande giornalista Indro Montanelli, “sicuramente il silenzio sulle foibe oggi si spiega facilmente, considerando che la storiografia italiana del dopoguerra era di sinistra, la quale apparteneva certamente al comunismo slavo e di cui era succube e ne curava gli interessi. Di questo quindi non si poteva parlare poiché della morte di tante persone ne risentiva la coscienza. Ammesso che ce ne fosse una, in nome di una resistenza che altro non era che una guerra civile tra italiani stessi.” Forse occorrerà domandarsi cosa, al cospetto dei quei tragici avvenimenti, viene oggi ricordato nell’immaginario collettivo comune. Di quel macabro periodo in cui tutto pareva che fosse quasi un nodo, che prima o poi sarebbe certo venuto al pettine.
Foibe: anche decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi, scrive “Imola Oggi”. Cinquanta sacerdoti tra le vittime delle foibe. Il racconto di Piero Tarticchio, parente di un sacerdote martire di quel periodo. La storia delle foibe è legata al trattato di pace firmato a Parigi il 10 Febbraio 1947, che impose all’Italia la cessione alla Jugoslavia di Zara – in Dalmazia –, dell’Istria con Fiume e di gran parte della Venezia Giulia, con Trieste costituita territorio libero tornato poi all’Italia alla fine del 1954. Dal 1947 al 1954 le truppe jugoslave di Tito, in collaborazione con i comunisti italiani, commisero un’opera di vera e propria pulizia etnica mettendo in atto gesti di inaudita ferocia. Sono 350.000 gli Italiani che abbandonarono l’Istria, Fiume e la Dalmazia, e più di 20.000 le persone che, prima di essere gettate nelle foibe (cavità carsiche profonde fino a 200 metri), subirono ogni sorta di tortura. Intere famiglie italiane vennero massacrate, molti venivano legati con filo spinato a cadaveri e gettati nelle voragini vivi, decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi. Nella sola foiba di Basovizza sono stati ritrovati quattrocento metri cubi di cadaveri. Per decenni questa barbarie è stata nascosta, tanto che l’agenzia di stampa “Astro 9 colonne”, nel fare un conteggio dei lanci di agenzia pubblicati dal dopoguerra ad oggi sul tema delle foibe, ha scoperto che fino al 1990 erano stati poco più di 30. Negli anni Novanta l’attenzione per il tema è aumentata: oltre 100 fino al 1995, l’anno successivo i lanci sono stati ben 155. Negli anni recenti ogni anno ce ne sono stati addirittura più di 200. Dopo anni di silenzio la vicenda è arrivata in Parlamento, e con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 è stato istituito il ”Giorno del Ricordo”, per conservare la memoria della tragedia delle foibe. Calcolare esattamente il numero delle vittime è difficile, ma sono stati almeno 50 i sacerdoti uccisi dalle truppe comuniste di Tito. Interpellato da ZENIT, Piero Tarticchio, che all’epoca dei fatti aveva sette anni, ha ricordato la tanta gente che partecipò al funerale del suo parente don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino e attivo nell’opera caritativa di assistenza ai poveri, ucciso il 19 settembre del 1943 e sepolto il 4 novembre. Il sacerdote venne preso di notte dai partigiani jugoslavi, insultato e incarcerato nel castello dei Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo averlo torturato, lo trascinarono presso Baksoti (Lindaro), dove assieme a 43 prigionieri legati con filo spinato venne ucciso con una raffica di mitragliatrice e gettato in una cava di bauxite. Tarticchio ha raccontato a ZENIT che il 31 ottobre, quando venne riesumato il cadavere, si vide che in segno di scherno gli assassini avevano messo una corona di filo spinato in testa a don Angelo. Don Tarticchio viene oggi ricordato come il primo martire delle foibe. Un’altra delle vittime fu don Francesco Bonifacio, un sacerdote istriano che per la sua bontà e generosità veniva chiamato in seminario “el santin”. Cappellano a Volla Gardossi, presso Buie, don Bonifacio era noto per la sua opera di carità e zelo evangelico. La persecuzione contro la fede delle truppe comuniste era tale che non poté sfuggire al martirio. La sera dell’11 settembre 1946 venne preso da alcune “guardie popolari”, che lo portarono nel bosco. Da allora di Don Bonifacio non si è saputo più nulla; neanche i resti del suo cadavere sono mai stati trovati. Il fratello, che lo cercò immediatamente, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie false. Per anni la vicenda è rimasta sconosciuta, finché un regista teatrale è riuscito a contattare una delle “guardie popolari” che avevano preso don Bonifacio. Questi raccontò che il sacerdote era stato caricato su un’auto, picchiato, spogliato, colpito con un sasso sul viso e finito con due coltellate prima di essere gettato in una foiba. Per don Francesco Bonifacio il 26 maggio 1997 è stata introdotta la causa di beatificazione, per essere stato ucciso “in odium fidei”. In “odium fidei” fu ucciso il 24 agosto del 1947 anche don Miroslav Buselic, parroco di Mompaderno e vicedirettore del seminario di Pisino. A causa della guerra in molte parrocchie della sua zona non era stato possibile amministrare la cresima, così don Miroslav accompagnò monsignor Jacob Ukmar per amministrare le cresime in 24 chiese diverse. I comunisti, però, avevano proibito l’amministrazione. Alla chiesa parrocchiale di Antignana i comunisti impedirono l’ingresso a monsignor Ukmae e don Miroslav. Nella chiesa parrocchiale di Pinguente una massa di facinorosi impedì la cresima per 250 ragazzi, lanciando uova marce e pomodori, tra insulti e bestemmie. Il 24 agosto nella chiesa di Lanischie, che i comunisti chiamavano “il Vaticano” per la fedeltà alla chiesa dei parrocchiani, monsignor Ukmar e don Milo riuscirono a cresimare 237 ragazzi. Alla fine della liturgia i due sacerdoti si chiusero in canonica insieme al parroco, ma i comunisti fecero irruzione, sgozzarono don Miroslav e picchiarono credendolo morto monsignor Ukmar, mentre don Stjepan Cek, il parroco, riuscì a nascondersi. Alcuni testimoni hanno raccontato che prima di essere sgozzato don Miloslav avrebbe detto “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Al funerale i comunisti non permisero ai treni pieni di gente di fermarsi, nemmeno nelle stazioni vicine. Al processo i giudici accusarono monsignor Ukmar e il parroco di aver provocato gli incidenti, così il monsignore, dopo aver trascorso un mese in ospedale per le percosse ricevute, venne condannato ad un mese di prigione. Il parroco fu invece condannato a sei anni di lavori forzati. Su don Milo, il tribunale del popolo sostenne che non era provato che “fosse stato veramente ucciso”. Poteva essersi “suicidato a scopo intimidatorio”. Le prove erano però così evidenti che l’assassino venne condannato a cinque mesi di prigione per “troppo zelo nella contestazione”. Nel 1956, in pieno regime comunista la diocesi avviò segretamente il processo di beatificazione di don Miloslav Buselic, ed è diffusa ancora oggi la fama di santità di don Miro tra i cattolici d’Istria.
Crimini titini: cinquanta i sacerdoti infoibati, da Bonifacio a Bulesic, scrive Antonio Pannullo su “Il Secolo d’Italia”. È stato solo con la legge del 2004 che ha istituito il Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, per iniziativa del deputato triestino Roberto Menia, che la maggioranza degli italiani ha saputo cosa successe alla frontiera nordorientale negli anni Quaranta. Ventimila gli italiani uccisi, infoibati, oltre 350mila le popolazioni che dovettero forzosamente abbandonare l’Istria e la Dalmazia spinti dalla furia dei partigiani comunisti di Tito. Fu un genocidio in piena regola, che ha rispettato tutti i canoni: prima lo sterminio indiscriminato delle popolazioni residenti in un determinato territorio, tanto da costringere i superstiti ad abbandonarlo, poi l’occupazione di quel territorio e la confisca – meglio: il ladrocinio – delle terre e delle case ai proprietari legittimi. Ferite queste, insieme con gli assassinii di massa, che non sono mai state rimarginate. Tra gli infoibati, ossia le persone gettate, spesso vive, nelle depressioni carsiche chiamate foibe, ci furono persino sacerdoti. E anche questo è stato appreso recentemente, poiché per decenni su quella vicenda calò una pesantissima cortina di silenzio con la complicità del debole governo democristiano che non voleva dispiacere alla Jugoslavia ma che soprattutto non voleva rinunciare all’apertura a sinistra, che poi realizzò. Sembra che i sacerdoti assassinati in questo modo siano stati non meno di cinquanta, alcuni dei quali a tutt’oggi sconosciuti e alcuni dei quali di cui non è mai stato trovato il corpo. Come accadde per don Francesco Bonifacio, torturato e assassinato dai titini, che è stato proclamato beato il 4 ottobre 2008 nella chiesa di San Giusto a Trieste da Benedetto XVI. 62 anni dopo i fatti. Francesco Bonifacio era nato nel 1912 a Pirano, oggi in Slovenia, e per la sua bontà era stato soprannominato el santin. Nel 1946 era cappellano a Villa Gardossi, un grosso comune agricolo nell’entroterra, e fu lì che fu sorpreso da quattro “guardie popolari”, nome dietro cui si nascondevano i feroci assassini titini, i quali lo derisero, poi picchiarono selvaggiamente,lo lapidarono, lo spogliarono e lo finirono a coltellate prima di gettarlo in una foiba, detta di Martines, che non lo ha mai più restituito. Il fratello, che lo cercò immediatamente avendo saputo che cosa fosse successo, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie. Molti anni dovettero passare prima che si facesse luce sulla vicenda. Vennero fuori i testimoni che raccontarono le atrocità di quelle ultime ore. Ma la cortina di silenzio era già scesa, di lui non si parlò più per anni. Nel 1957 il vescovo di Trieste, Santin, avviò la causa di beatificazione, ma la pratica restò ferma per 40 anni, a riprova del fatto che sulla foibe doveva calare il silenzio per sempre. Solo Benedetto XVI, recentemente, ha avuto il coraggio di dichiarare Bonifacio ucciso in odio alla Fede. A Bonifacio si è aggiunto, nel settembre del 2013, il nome di Miro Bulesic, assassinato dai partigiani rossi nell’agosto del 1947 nell’Istria settentrionale. Bulesic è stato beatificato nell’Arena di Pola nel corso di una commovente cerimonia, nel corso della quale si è appreso che nelle diocesi croate negli anni Quaranta furono trucidati ben 434 sacerdoti, tra secolari e regolari, più altri 24 morti per le torture e le sevizie in carcere. Quel 24 agosto 1947, nel corso delle cresime nella chiesa di Lanisce, esponenti comunisti irruppero nell’edificio di culto, distrussero tutto, misero a ferro e fuoco la chiesa stessa e bastonarono selvaggiamente don Miro, gettandolo contro il muro e alla fine sgozzandolo con un coltello. Il responsabile, individuato, fu poi assolto. Ma la mattanza dei religiosi era cominciata molto prima: nel settembre 1943 i partigiani jugoslavi di notte sequestrarono don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino, e lo gettarono nelle carceri del castello di Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo qualche giorno venne portato Lindaro insieme con altre 43 persone, legate insieme col filo spinato, e colpito da raffiche di mitra e gettato in una cava di bauxite. Quando don Angelo fu riesumato si vide che gli assassini gli avevano messo sulla testa una corona di spine fatta di filo spinato. Tra i sacerdoti uccisi e infoibati vanno ricordati anche don Alojzij Obit del Collio, che scomparve nel gennaio del 1944, don Lado Piscanc e don Ludvik Sluga di Circhina, assassinato insieme con altri 13 loro parrocchiano nel febbraio dello stesso anno, don Anton Pisk di Tolmino, scomparso e poi verosimilmente infoibati ad ottobre 1944, don Filip Tercelj di Aidussina, sequestrato dalla polizia segreta jugoslava nel gennaio 1946 e successivamente scomparso, don Izidor Zavadlav di Vertoiba, arrestato e fucilato il 15 settembre 1946, e molti altri rimasti ancora senza nome.
“Rosso Istria”, a rischio il film sulle foibe?, scrive Marco Minnucci su “Il Giornale”. Rosso Istria, il dramma del confine orientale del dopo guerra è il titolo del lungometraggio del regista Antonello Belluco, presentato a fine gennaio a palazzo Moroni, Padova. Il film sarà prodotto da Venice Film ed Eriador Film, sostenuti dalla Regione Veneto, con il suo fondo del cinema e dell’audiovisivo, con la collaborazione del Comune di Padova, della Treviso Film Commission e dell’ANVG (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia). Il capoluogo veneto sarà il teatro delle riprese che punteranno l’obiettivo sul 1943 anno in cui, per le popolazioni civili Istriane, Fiumane, Giuliane e Dalmate, si consuma la tragedia per mano dei partigiani di Tito spinti da una furia anti-italiana. Che il lungometraggio metta in risalto la figura di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, barbaramente violentata e uccisa nel 1943 dai partigiani titini, è già scritto nel titolo, infatti era proprio Istria Rossa (il rosso è relativo alla terra ricca di bauxite dell’Istria) il titolo della tesi di laurea che Norma Cossetto stava preparando nell’estate del 1943 con il suo relatore, il geografo Arrigo Lorenzi. La Cossetto girava in bicicletta per i paesi dell’Istria, visitando luoghi, biblioteche, chiese, alla ricerca di archivi che le consentissero di sviluppare la sua tesi di laurea, che purtroppo non vedrà mai la luce perchè la studentessa verrà massacrata per la sola colpa di essere italiana. Non è un tema nuovo per Belluco, figlio di esuli, che già a novembre dello scorso anno era uscito con il film Il segreto di Italia, sulla strage compiuta dai partigiani nel 1945 a Codevigo; un film che non aveva mancato di suscitare aspre polemiche, che videro in prima fila l’ANPI di Padova. Chissà se anche in questa “opera seconda” Belluco inciamperà in quelle operazioni di boicottaggio che hanno rallentato e impedito la distribuzione del film nelle sale cinematografiche? Questa volta Belluco non sarà solo, poiché a dargli manforte ci sarà la collaborazione del cantautore Simone Cristicchi, anche lui presente alla conferenza padovana; l’autore di “Magazzino 18” sarà il compositore delle musiche che accompagneranno “Rosso Istria”. Quella tra Belluco e Cristicchi è una solidarietà artistica che, prima di sfociare in questa collaborazione, era già stata esternata dal cantautore romano sulla sua pagina Facebook con un post in cui sottolineava le similitudini tra l’ostruzionismo che aveva colpito il suo “Magazzino 18” e il “Segreto di Italia” e concludeva con questo messaggio d’ incoraggiamento: “Per fortuna, esiste una forma di promozione che nessuno può censurare. Si chiama “passaparola”. E allora…in bocca al lupo Antonello, e coraggio!” Non resta che augurarci che questa volta si faccia silenzio in sala ma, soprattutto, che ci sia una sala.
“Io, minacciato per il mio spettacolo sulle Foibe”, scrive in un a intervista a Simone Cristicchi “Il Giornale”.
In questi ultimi anni stai raccogliendo il testimone di Giorgio Gaber, porti in tournée in tutta Italia i tuoi spettacoli di teatro-canzone. In questi giorni sei in scena con “Magazzino 18″, uno spettacolo sulla tragedia delle Foibe che è al centro di polemiche secondo me vergognose. Che cos’è il Magazzino 18 e che cosa ti ha spinto a raccontare questa pagina tragica della storia d’Italia?
«Magazzino 18 è un luogo realmente esistente che si trova nel Porto Vecchio di Trieste, un hangar dove venivano messe le merci delle navi in transito; in questo magazzino n. 18 si trovano invece le masserizie degli esuli istriani, fiumani e dalmati, che all’indomani della Seconda Guerra Mondiale furono costretti ad abbandonare le loro terre. Sono oggetti di vita quotidiana – letti, armadi, cassapanche, foto, ritratti – che ci raccontano una tragedia cancellata per tanti anni dalla storia e dalla memoria, io la chiamo “una pagina strappata dai libri di storia”. Ogni oggetto racconta la storia di una famiglia, di un vissuto, di un tessuto sociale strappato e mai più ricomposto. Con questo spettacolo ho cercato di ricomporre la loro storia dimenticata e di raccontarla a chi, come me fino a pochi anni fa, non ne era assolutamente a conoscenza».
È una pagina nascosta per 50 anni dai libri di storia, una cosa vergognosa. Come ti spieghi questo dividere ancora i morti in ‘morti di serie A’ e ‘morti di serie B? È vero che hai ricevuto delle minacce perché metti in scena uno spettacolo sulle Foibe?
«Lo spettacolo in realtà non è soltanto sulle Foibe, che sono un piccolo capitolo di una storia più complicata. Le persone che mi hanno criticato sono di estrema destra e di estrema sinistra, nessuno si è sottratto alla lapidazione di chi cerca di fare giustizia, di dare voce a chi non l’ha avuta per tanti anni; tutte queste critiche sono arrivate da persone che non hanno nemmeno avuto il buon gusto di vedere lo spettacolo, quindi mi scivolano addosso».
Non capisco perché ti attacchino sia da destra che da sinistra…
«Da sinistra perché è uno spettacolo “da fascisti”, da destra perché probabilmente avrei dovuto essere più incisivo in alcuni particolari di questa storia, quando invece il mio spettacolo vuole tendere a una pacificazione tra le parti e forse invece alcuni esponenti dell’estrema destra non cercano il dialogo. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, non accettano alcune cose e cercano sempre lo scontro. Non ho scritto questo spettacolo con Ian Bernas per creare ulteriori scontri e offese a questa gente».
La tua è sempre stata una musica di denuncia, ho sempre i brividi quando ascolto “Ti regalerò una rosa”. Tornando a un tema che hai affrontato anche in un tuo spettacolo, chi sono oggi i veri pazzi della nostra società?
«Probabilmente i veri pazzi sono i sognatori, quelli che credono che oggi si possa rifare una nuova Italia e cambiare un po’ il mondo, con una partecipazione attiva alla vita politica e sociale. I veri pazzi sono quelli che continuano a sognare e che non si lasciano soffocare da tutto quello che sta accadendo in questo momento».
Che cosa pensi della protesta dei Forconi, che proprio in queste ore stanno paralizzando molte piazze per protestare contro la linea del Governo?
«Non ho seguito bene la questione perché in questo momento sono in tournée in Croazia, posso dire che a volte sono delle valvole di sfogo difficili da gestire, ma che ci si deve aspettare… quando le persone sono soffocate a un certo punto esplodono in qualche modo. La mia paura è che questo tipo di manifestazioni possano portare a delle violenze, e quando c’è la violenza si passa sempre dalla parte del torto».
Tu sei sempre rimasto OFF, anche dopo il successo hai sempre imposto una tua linea artistica e autorale precisa fregandotene del mercato ufficiale, sei perfettamente in linea con il nostro magazine. Che consiglio ti senti di dare ai giovani artisti che cominciano questa carriera e che ci leggono su ilgiornaleOFF?
«Il consiglio che posso dare è quello di coltivare una curiosità per il mondo senza avere delle ideologie preconcette, di affidarsi all’istinto perché molto spesso ci guida verso mete a cui non avremmo mai pensato, come è successo a me: sono passato dal fumetto alla canzone, poi dalla canzone al teatro e alla scrittura, il 4 febbraio uscirà anche il libro di “Magazzino 18″, con tutti i racconti che ho raccolto in questi anni. Bisogna mantenere le antenne puntate e presentarsi al grande pubblico con una maturità quasi già acquisita, non arrivare da debuttanti e sentirsi però debuttanti sempre, per tutto il proprio percorso».
Vite negate, massacri, falsità. Anche la verità fu infoibata. Oggi la "Giornata del ricordo" per celebrare gli italiani cacciati e uccisi da Tito dopo la guerra. Una tragedia che nella gerarchia del dolore sta sempre dietro le vittime delle dittature fasciste, scrive Stefano Zecchi su “Il Giornale”. Cos'era accaduto sulle coste orientali italiane dell'Adriatico dopo la guerra? Niente di rilevante, avrebbero voluto rispondere chi governava l'Italia e chi da sinistra faceva l'opposizione. Soltanto un nuovo confine segnato con un tratto di penna sulla carta geografica dell'Europa. Vite negate. Amori, amicizie, speranze sconvolte, sentimenti calpestati, che per pudore, in silenzio, lontano da occhi inquisitori, l'esule arrivato dall'Istria, dalla Dalmazia, da Fiume chiudeva nel dolore, forse sperando che questo dignitoso comportamento lo aiutasse ad essere accolto da chi non ne gradiva la presenza. Si chiudeva così il cerchio dell'oblio, e una pesante coltre di omertà si distendeva sopra le sconvenienti ragioni degli sconfitti. La Storia non apre le porte agli ospiti che non ha invitato. Sceglie i protagonisti e i comprimari, anche se gli esclusi si sono dati tanto da fare. Esuli, allora, con la nostalgia del ritorno, con il dolore dell'assenza. L'esule dei Paesi comunisti non è mai stato troppo gradito; le sue scelte giudicate con sospetto. Nella gerarchia morale della sofferenza, egli rientra stentatamente, sì e no, agli ultimi posti, molto indietro rispetto agli esiliati delle dittature fasciste e dei sanguinari regimi latino-americani. In una intervista a Panorama del 21 luglio 1991, Milovan Gilas dichiarava tra l'altro: «Nel 1946, io e Edward Kardelij andammo in Istria a organizzare la propaganda anti italiana ... bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto». Gilas era il braccio destro di Tito, l'intellettuale del partito comunista jugoslavo; Kardelij era il teorico della «via jugoslava al comunismo», punto di riferimento dell'organizzazione della propaganda anti italiana. Dunque, due protagonisti di primissimo piano del partito comunista jugoslavo impegnati a cacciare con «pressioni di ogni tipo» gli italiani dalle loro case, dal loro lavoro, dalle loro terre. Tra le pressioni di ogni tipo ci furono il terrore e il massacro: una pulizia etnica. A migliaia gli italiani, senza nessun processo, senza nessuna accusa, se non quella di essere italiani, venivano prelevati di notte, fatti salire sui camion e infoibati o annegati. Non si saprà mai quanti furono ammazzati. A decine di migliaia: una stima approssimativa è stata fatta sulla base del peso dei cadaveri che venivano recuperati dalle foibe; nulla si sa degli annegati. E poi gli esuli: oltre 350mila, che lasciarono tutto, pur di rimanere italiani e vivi. Accolti in Italia con disprezzo, perché solo dei ladri, assassini, malfattori fascisti potevano decidere di abbandonare il paradiso comunista jugoslavo. Ricordo bene quando a Venezia arrivavano le motonavi con i profughi: appena scesi sulla riva, erano accolti con insulti, sputi, minacce dai nostri comunisti, radunati per l'accoglienza. Il treno che doveva trasportare gli esuli giù verso le Marche e le Puglie, dai ferrovieri comunisti non fu lasciato sostare alla stazione di Bologna per fare rifornimento d'acqua e di latte da dare ai bambini. Alla gente che abitava l'oriente Adriatico, fu negato dal nostro governo il plebiscito che avrebbe dimostrato come in quelle terre la stragrande maggioranza della popolazione fosse italiana. Prudente, De Gasperi pensava che l'esito del plebiscito avrebbe turbato gli equilibri internazionali e interni col PCI. A quel tempo, Togliatti aveva fatto affiggere questo manifesto a sua firma: «Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e collaborare con esse nel modo più stretto». Per esempio, sostenendo, come voleva il Migliore, che il confine italiano fosse sull'Isonzo, lasciando a Tito Trieste e la Venezia Giulia. I liberatori comunisti non potevano essere degli assassini: e così, sotto lo sguardo ipocrita dell'Italia repubblicana, con la vergognosa collaborazione degli storici comunisti, disposti a scrivere nei loro libri il falso, quella tragedia sparisce, non è mai accaduta. Ma il cammino trionfale della Storia dei vincitori si distrae e la verità incomincia ad affiorare. Non si dice con ottimismo che il tempo è galantuomo? Stavolta sembra di sì. Il 10 febbraio (giorno della firma a Parigi nel 1947 del trattato di pace) viene istituita nel marzo 2004 la «Giornata del ricordo», per celebrare la memoria dei trucidati nelle foibe e di coloro che patirono l'esilio dalle terre istriane, dalmate, giuliane. Ci sono voluti sessant'anni per incominciare a restituire un po' di verità alla Storia: adesso sarebbe un bel gesto che il nuovo Presidente della Repubblica onorasse questa verità ritrovata, recandosi al mausoleo sulla foiba di Basovizza per chiedere scusa alle migliaia di italiani dimenticati, offesi, umiliati, massacrati soltanto perché volevano rimanere italiani.
I partigiani ora ammettono la vergogna di esodo e foibe. Il coordinatore dell'Anpi veneto riconosce che molti perseguitati italiani non erano fascisti ma oppositori del nuovo regime comunista e illiberale, scrive Fausto Biloslavo su “Il Giornale”. Si scusa con gli esuli in fuga dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia per l'accoglienza in patria con sputi e minacce dei comunisti italiani. Ammette gli errori della facile equazione profugo istriano uguale fascista e della simpatia per i partigiani jugoslavi che non fece vedere il vero volto dittatoriale di Tito. Riconosce all'esodo la dignità politica della ricerca di libertà. Maurizio Angelini, coordinatore dell'Associazione nazionale partigiani in Veneto, lo ha detto a chiare lettere venerdì a Padova, almeno per metà del suo intervento. Il resto riguarda le solite e note colpe del fascismo reo di aver provocato l'odio delle foibe. L'incontro pubblico è stato organizzato dall'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia con l'Anpi, che solo da poco sta rompendo il ghiaccio nel mondo degli esuli. Molti, da una parte e dall'altra, bollano il dialogo come «vergognoso». Angelini ha esordito nella sala del comune di Padova, di fronte a un pubblico di esuli, ammettendo che da parte dei partigiani «vi è stata per lunghissimi anni una forte simpatia per il movimento partigiano jugoslavo». Tutto veniva giustificato dalla lotta antifascista, compresa «l'eliminazione violenta di alcune centinaia di persone in Istria - le cosiddette foibe istriane del settembre 1943; l'uccisione di parecchie migliaia di persone nella primavera del 1945 - alcune giustiziate sommariamente e precipitate nelle foibe, soprattutto nel Carso triestino, altre - la maggioranza - morte di stenti e/o di morte violenta in alcuni campi di concentramento jugoslavi soprattutto della Slovenia». Angelini ammette, parlando dei veri disegni di Tito, che «abbiamo colpevolmente ignorato la natura autoritaria e illiberale della società che si intendeva edificare; abbiamo colpevolmente accettato l'equazione anticomunismo = fascismo e ascritto solo alla categoria della resa dei conti contro il fascismo ogni forma di violenza perpetrata contro chiunque si opponeva all'annessione di Trieste, di Fiume e dell'Istria alla Jugoslavia». Parole forti, forse le prime così nette per un erede dei partigiani, poco propensi al mea culpa. «Noi antifascisti di sinistra - sottolinea Angelini - non abbiamo per anni riconosciuto che fra le motivazioni dell'esodo di massa delle popolazioni di lingua italiana nelle aree istriane e giuliane ci fosse anche il rifiuto fondato di un regime illiberale, autoritario, di controlli polizieschi sulle opinioni religiose e politiche spinti alle prevaricazioni e alle persecuzioni». Il rappresentante dei partigiani ammette gli errori e sostiene che va fatto di più: «Dobbiamo riconoscere dignità politica all'esodo per quella componente di ricerca di libertà che in esso è stata indubbiamente presente». Gli esuli hanno sempre denunciato, a lungo inascoltati, la vergognosa accoglienza in Italia da parte di comunisti e partigiani con sputi e minacce. Per il coordinatore veneto dell'Anpi «questi ricordi a noi di sinistra fanno male: ma gli episodi ci sono stati e, per quello che ci compete, dobbiamo chiedere scusa per quella viltà e per quella volgarità». Fra il pubblico c'è anche «una mula di Parenzo» di 102 anni, che non voleva mancare. Il titolo dell'incontro non lascia dubbi: «Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti, siamo italiani e crediamo nella Costituzione». Italia Giacca, presidente locale dell'Anvgd, l'ha fortemente voluto e aggiunge: «Ci guardavamo in cagnesco, poi abbiamo parlato e adesso ci stringiamo la mano». Adriana Ivanov, esule da Zara quando aveva un anno, sottolinea che gli opposti nazionalismi sono stati aizzati prima del fascismo, ai tempi dell'impero asburgico. Mario Grassi, vicepresidente dell'Anvgd, ricorda le foibe, ma nessuno osa parlare di pulizia etnica. Sergio Basilisco, esule da Pola iscritto all'Anpi, sembra colto dalla sindrome di Stoccolma quando si dilunga su una citazione di Boris Pahor, scrittore ultra nazionalista sloveno poco amato dagli esuli e sulle vessazioni vere o presunte subite dagli slavi. Con un comunicato inviato al Giornale, Renzo de' Vidovich, storico esponente degli esuli dalmati, esprime «perplessità di fronte alle prove di dialogo con l'Anpi» che farebbero parte di «un tentativo del Pd di Piero Fassino di inserire i partigiani nel Giorno del ricordo dell'esodo». L'ex generale, Luciano Mania, esule fiumano, è il primo fra il pubblico di Padova a intervenire. E ricorda come «solo due anni fa a un convegno dell'Anpi sono stato insultato per un quarto d'ora perché avevo osato proporre l'intitolazione di una piazza a Norma Cossetto», una martire delle foibe. In sala tutti sembrano apprezzare «il disgelo» con i partigiani, ma la strada da percorrere è ancora lunga e insidiosa.
«QUEL SILENZIO ASSORDANTE SULLE FOIBE». Il comunismo e il terrore, l'intervento del Nuovo Psi di Qualiano su “Interenapoli”. Qual è il vero motivo di sessanta anni di silenzio sulle foibe? Chi ci ha guadagnato da questo silenzio? Quante carriere, politiche, universitarie, sono state costruite da questi assordanti silenzi? L’accesso agli archivi di Mosca, un tempo segreti, ha consentito la stesura di un bilancio delle vittime del comunismo spaventoso, addirittura quattro volte superiore a quello delle vittime del nazismo: il più colossale caso di carneficina politica della storia. A tutt’oggi c’è ancora chi ritiene improponibile un accostamento dei due regimi rifacendosi alla differente ispirazione iniziale: mentre il nazismo fu una dottrina dell’odio e i suoi crimini,pertanto prevedibili e legati alla sua stessa essenza, il comunismo è spesso considerato una dottrina di liberazione, di amore per l’umanità e i suoi delitti considerati a mo’ di errori, incidenti, deviazioni. Tale argomentazione è a dir poco artificiosa in quanto prevedeva in entrambi i casi lo sradicamento di una parte della società. L’utopia di una società senza classi e l’illusione di una razza pura esigevano l’eliminazione di individui che si riteneva,ostacolassero la realizzazione del progetto. Per questo il richiamo all’umanità del comunismo è servito spesso a dare una legittimazione superiore all’uso del “terrore”. Il principio umanitario della politica consiste nel non considerare nessun uomo superiore moralmente ad un altro. Il nazismo è considerato il regime più criminale del secolo, mentre il comunismo in virtù dell’alleanza dello stalinismo con le principali democrazie mondiali ne ha ricavato spesso un credito morale che non ha mai cessato di sfruttare: l’antifascismo. In virtù di questo valore i crimini comunisti sono diventati un indiscutibile strumento di legittimazione. Contrapporre la democrazia al fascismo permise al sistema comunista di presentarsi come “democratico” in quanto antifascista. In tale contesto si inserisce la complicità del comunismo italiano che in Italia ha peccato di gravi menzogne e di una palese incapacità di attuare un vero processo revisionistico. La volontà di palesare una superiorità morale del “comunista” rispetto agli altri non comunisti ha portato all’atteggiamento del PDS durante il periodo di tangentopoli che ha comportato la eliminazione di una intera classe dirigente nazionale. Il cinismo comunista fu accompagnato, insieme alla liquidazione a all’infoibamento di una intera classe dirigente ad un trasformismo mal celato complice un uso parziale della Giustizia che certamente non esaminò con eguale severità i finanziamenti illeciti di ogni partito, compresi i finanziamenti moscoviti all’ex partito comunista. La ragione del fallimento del tentativo degli “ex” comunisti di usurpare il socialismo liberale e la politica di Craxi risiede proprio nella incapacità di ripensare alla propria storia, ripudiando gli errori commessi e scavando fino infondo la tragedia e i crimini del comunismo. E’per questo che la riabilitazione della figura di Bettino Craxi non può venire da Fassino e dal DS. L’Europa dei totalitarismi e dell’uomo moralmente superiore all’altro uomo, perché politicamente diversi deve restare dietro di noi ma non può essere né dimenticata, ne sottaciuta perché non dobbiamo e non possiamo dimenticare. Il ricordo di ciò che copre di vergogna l’essere umano può impedire di ripercorrere la stessa strada dell’odio. La nostra gioventù è figlia di quei mali e deve diventare testimone dei valori della democrazia e della tolleranza. La tendenza al regime trova sviluppo dove c’è ignoranza e laddove non vengono insegnati i valori di una vita libera. Mafia, camorra e terrorismo dovrebbero essere sperati da anni, mentre a Scampia e in tutta la provincia di Napoli si muore e si uccide tutti i giorni e la corruzione riesce a trovare ampi spazi anche nelle istituzioni Il pluralismo culturale è stato il protagonista dello sviluppo politico, sociale ed economico del nostro paese e dell’intera Europa. “Le vittime della violenza non hanno colore politico”, è ciò che spesso si ascolta da chi forse cerca un alibi dimenticando che proprio l’odio politico ha provocato quelle vittime.
Non lasciatevi ingannare dal titolo, Il revisionista, in uscita da Rizzoli (pagine 474), scrive Rino Messina su “Il Corriere della Sera”. Questo non è l'ennesimo libro di Giampaolo Pansa sulla guerra civile italiana. È l'autobiografia di un giornalista che, quando si svolgeva la mattanza raccontata nel Sangue dei vinti, aveva dieci anni. E che è cresciuto a Casale Monferrato, zona di Resistenza, in una famiglia operaia, assorbendo i racconti sulla guerra e l'amore per la cultura: «I miei sapevano che l'unica possibile emancipazione era studiare e non mi facevano mai mancare libri, penne, quaderni». In uno dei brani più commoventi il padre Ernesto confida a suo figlio, da poco entrato alla «Stampa» di Torino: «Ora che scrivi per i giornaloni anche i signori mi salutano». Come fa un libro che contiene queste storie private a non essere definito un'autobiografia? Eppure Giampaolo Pansa nella prefazione dice d'essersi limitato a tracciare il suo percorso di Revisionista. Successi, ma anche attacchi e insulti, a cominciare da quando nel 2002 pubblicò I figli dell'Aquila e soprattutto nel 2003 quando firmò Il sangue dei vinti, un saggio vicino al traguardo del milione di copie. «Il vero motivo per cui l'ho scritto - confida Pansa - è ringraziare le persone che mi hanno apprezzato perché avevo dato loro voce. L'Italia degli sconfitti che prima del Sangue dei vinti non avevano diritto di partecipare al discorso pubblico. A loro ho voluto raccontare il mio percorso di giornalista che ha avuto la fortuna di incontrare tanti maestri. Tra i giornalisti che non appartengono alla sua cerchia, io credo di essere quello che meglio capisce Silvio Berlusconi. E sa perché? Perché sono nato nel 1935, un anno prima di lui, e capisco le paure e le angosce di un settantenne, ma ne condivido anche l'entusiasmo e il percorso generazionale». Il revisionista non è un libro provocatorio, a tesi, né il racconto di una sola parte italiana. È la storia di un percorso e degli incontri che hanno segnato un uomo. La Gianna, la prima fidanzatina di Giampaolo, la prima con cui abbia fatto l'amore. Ricevendone una lezione straordinaria. Gianna era una di quelle ragazze che erano state rapate a zero dopo il 25 aprile: suo padre era un fascista ucciso per vendetta e a lei era toccata quell'umiliazione. Poi Luigi Firpo, il geniale professore alla facoltà di Scienze politiche, Alessandro Galante Garrone e Guido Quazza, i due storici che seguirono la tesi di laurea di Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, un malloppo di circa mille pagine che conteneva documenti e testimonianze di prima mano e che sarebbe uscito nel 1967 da Laterza. Guido Quazza usava tenere una scheda sui suoi laureandi. Sulla tesi di Pansa scrisse: «Importante lavoro per la vastità della ricerca... È sempre presente il principio dell'audiatur et altera pars». Siamo nel 1959 e questo è un riconoscimento straordinario: ascoltare sempre l'altra voce. La lezione di Gianna era un seme che cresceva. Quella tesi avrebbe vinto uno dei due premi Luigi Einaudi: sarebbe stato il salvacondotto per entrare subito nel mondo del giornalismo, alla «Stampa» diretta da Giulio De Benedetti. Da «ciuffettino», così era soprannominato il rigoroso direttore del quotidiano torinese, a «barbapapà» Eugenio Scalfari, Il revisionista di Pansa è anche una galleria di direttori e colleghi, ritratti impietosi e affettuosi, in cui la critica non fa mai velo alla gratitudine. Leggete per esempio questo omaggio a Giorgio Bocca, diventato in questi anni l'arcinemico di Pansa in difesa di una Resistenza che ha sentito tradita dal suo più giovane collega: «Giorgio era il primo dei miei maestri indiretti. I giornalisti che leggevo con la matita in mano per prendere appunti e imparare come si doveva scrivere un buon articolo. Avevo recensito con entusiasmo un libro che raccoglieva i suoi reportage italiani. Lui mi aveva ringraziato con un biglietto e io ero andato di corsa a Milano per conoscerlo». Nel 1964, auspice Bocca, era arrivata la chiamata al «Giorno» diretto da Italo Pietra, partigiano e uomo di fiducia di Enrico Mattei. Nella stanza delle riunioni ogni mattina il direttore entrava rivolgendo, tra l'ironico e il minaccioso, questa domanda ai colleghi: chi di voi ha bruciato la mia casa sul monte Penice nel rastrellamento dell'agosto 1944? Perché il gruppo dirigente del «Giorno» era formato per metà da giornalisti che avevano fatto la Resistenza e per metà da saloini che avevano combattuto dall'altra parte, chi nella X Mas, chi nelle Brigate Nere, chi nella Guardia repubblicana. Anche in questo episodio è evidente che «il revisionismo» è il filo conduttore del racconto, ma il genere letterario è quello dell'autobiografia, sull'esempio fortunato del Provinciale di Giorgio Bocca. Trovi lo stesso stupore, la stessa potenza narrativa, tratti simili di sensualità, entusiasmo, stupore della scoperta. A volte di delusione e di stizza. Sentimenti evidenti nel capitolo «Il libertino» dedicato a Eugenio Scalfari, di cui riconosce la tenacia geniale del fondatore di imprese, ma al quale non risparmia pagine amare e impietose. «Via via - scrive Pansa - diventò la statua di se stesso. Con la barba di un biancore marmoreo... Quando morì Rocca (che con Pansa era stato vicedirettore della "Repubblica") nella cerimonia al cimitero del Verano, andai a stringere la mano a Eugenio. Ma lui se ne restò seduto e sembrò non riconoscermi». Pansa ne rimase stupito e addolorato: attribuisce questo atteggiamento all'uscita dei suoi lavori revisionisti, non apprezzati dal fondatore di «Repubblica». Nel libro c'è anche spazio per ritratti di politici, da Giorgio Almirante a Enrico Berlinguer, e soprattutto un invito al revisionismo, a raccontare le verità scomode, anche sugli anni di piombo, la stagione sanguinosa degli anni Settanta che continua a esalare veleni, come dimostrano le scritte contro Luigi Calabresi comparse in questi giorni a Torino. Giampaolo Pansa, che oggi collabora al «Riformista» ma soprattutto scrive libri, a 73 anni è felice della sua vita e continua a dirsi fortunato. Tuttavia ha qualche rimorso: «Non aver fatto abbastanza per difendere Calabresi come avrei dovuto». E qualche delusione: «Non aver mai ricevuto l'invito da una scuola di giornalismo, dove insegnano perfetti sconosciuti. Ma forse le scuole sono in mano alla sinistra e non invitano uno come me bollato a destra. Ma io avrei qualcosa da dire ai giovani: per esempio che il mestiere di giornalista non si impara, ma si ruba, e che il talento serve a ben poco senza l'umiltà e lo spirito di sacrificio».
Giampaolo Pansa, il revisionista impenitente, scrive Gabriele Testi su “Storia in Rete”. Il revisionista che non si pente. Anzi. L’autore che più di ogni altro ha attaccato in Italia miti storiografici del Novecento e l’Accademia, sta per tornare con un libro destinato a rinverdire le polemiche scatenate da «Il Sangue dei Vinti». Le tesi di Pansa? «Il PCI di Togliatti voleva l’Italia satellite dell’Urss»; «la politica di oggi non è interessata a fare i conti con la Storia»; «I miei critici? Scappano…»; «Le celebrazioni? Non mi piacciono mai»; «Il miglior leader italiano? De Gasperi»; «Gli italiani? Non hanno futuro se continuano così…». Forse perché non vogliono avere un passato? C’è sempre una prima volta, anche per Giampaolo Pansa. Quella del giornalista piemontese al Festival Internazionale della Storia di Gorizia, dunque allo stesso tempo su un terreno e in un territorio particolarmente delicato per ogni forma di rivisitazione e di analisi storiografica, non è passata inosservata. Anzi. La dialettica con un pubblico tanto attento quanto sensibile alle vicende degli italiani vissuti (e morti) oltre il Muro, in particolare comunisti di fede stalinista fuggiti in Jugoslavia e diventati «nemici del popolo», e lo scontro verbale con il moderatore Marco Cimmino non saranno dimenticati facilmente dalle parti di Gorizia. L’occasione si è comunque rivelata perfetta per una chiacchierata con un autore che, in polemica con gli accademici italiani e i «gendarmi della memoria» non arretra di un metro sul piano del confronto scientifico su quei temi, il tutto alla vigilia del compleanno che il primo ottobre gli farà oltrepassare la soglia dei tre quarti di secolo e della pubblicazione di un ultimo lavoro che lo riporterà in autunno nei panni a lui del revisionista. È lui stesso a raccontarlo a «Storia in Rete» in un’intervista esclusiva in cui si mescolano Resistenza e Risorgimento, eredità del PCI, meriti e demeriti democristiani, una visione organica della nostra società e le differenze esistenti fra i giovani di oggi e quelli le cui scelte avvennero con la Guerra.
Considerato il soggetto dei suoi ultimi due libri, considera ormai chiusa la parentesi dedicata alla Guerra Civile italiana?
«No, tant’è vero che in novembre uscirà con la Rizzoli un mio nuovo libro sulla Guerra Civile. Il titolo è: “I vinti non dimenticano”. Non è soltanto il seguito del “Sangue dei vinti” e dei miei libri revisionisti successivi. Insieme a vicende che coprono territori assenti nelle mie ricerche precedenti, come la Toscana e la Venezia Giulia, c’è una riflessione più generale, e contro corrente, sul carattere della Resistenza italiana. Dominata dalla presenza di un unico partito organizzato, il PCI di Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Pietro Secchia. Che aveva un traguardo preciso: conquistare il potere e fare dell’Italia un Paese satellite dell’URSS».
È rimasto fuori qualcosa – un’osservazione, una storia, un nome – che le piacerebbe aggiungere o correggere?
«Non ho niente da correggere per i miei lavori precedenti. E voglio dirvi che, a fronte di sette libri ricchi di date, di nomi, di vicende spesso ricostruite per la prima volta, non ho mai ricevuto una lettera di rettifica, dico una! E non sono mai stato citato in tribunale, con qualche causa penale o civile. Persino i miei detrattori più accaniti, tutti di sinistra, non sono mai riusciti a prendermi in castagna. Mi hanno lapidato con le parole per aver osato scrivere quello che loro non scrivevano. Però non sono stati in grado di fare altro».
E a proposito di «aggiungere»?
«Come voi sapete meglio di me, nella ricerca storica esistono sempre campi da esplorare e vicende da rievocare. In Italia questa regola vale ancora di più a proposito della Guerra Civile fra il 1943 e il 1948. Parlo del ’48 perché considero l’anno della vittoria democristiana nelle elezioni del 18 aprile la conclusione vera della nostra guerra interna. I campi da esplorare sono molti, anche perché della guerra tra fascisti della RSI e antifascisti non vuole più occuparsene nessuno. I cosiddetti “intellettuali di sinistra” hanno smesso di scriverne perché si sono resi conto che il loro modo di raccontare quella guerra non regge più, alla prova dei fatti e dei documenti. Nello stesso tempo, le tante sinistre italiane non hanno il coraggio di ammettere quella che ho chiamato nel titolo di un mio libro “La grande bugia”. Se lo facessero, perderebbe molti elettori, ossia quella parte di opinione pubblica educata a una vulgata propagandistica della Resistenza. Sul versante di destra constato la stessa reticenza. Un tempo esisteva il MSI, in grado di dar voce agli sconfitti. Oggi i reduci di quell’esperienza, parlo soprattutto del gruppo nato attorno a Gianfranco Fini, si guardano bene dal rievocare il tempo della Repubblica Sociale Italiana. Infine, il Popolo della Libertà ha ben altre gatte da pelare. E a Silvio Berlusconi della Guerra Civile non importa nulla. Di fatto, sono rimasto quasi solo sulla piazza. Questo mi rallegra come autore, però mi deprime come cittadino. Sono ancora uno di quelli che non dimenticano una verità vecchia quanto il mondo: il passato ha sempre qualcosa da insegnare al presente e anche al futuro».
Che cosa risponde a chi nega valore ai suoi libri perché «poco scientifici»? È davvero soltanto una questione di note a margine?
«Mi metto a ridere! Rido e me ne infischio, perché la considero un’accusa grottesca. Questa è l’ultima trincea dei pochi “giapponesi” che si ostinano a difendere una storiografia che fa acqua da tutte le parti. A proposito delle note a piè di pagina, ricordo che tutte le mie fonti sono sempre indicate all’interno del testo, per rispetto verso il lettore e per non disturbarlo nella lettura del racconto. Per quanto riguarda i cattedratici di storia contemporanea, il mio giudizio su di loro è quasi sempre negativo. Ci sono troppi docenti inzuppati, come biscotti secchi e cattivi da mangiare, nell’ideologia comunista. Il Comunismo è morto in gran parte del mondo, ma non all’interno delle nostre università. L’accademia che ho conosciuto nella seconda metà degli anni Cinquanta era molto diversa…».
Com’è un libro di storia «scientifico»? Perché non si toglie lo sfizio e glielo fa? Oppure bisogna necessariamente scriverlo da una cattedra universitaria?
«Se per libro scientifico si intende una ricerca storica fondata su fonti controllate e che racconta fatti veri o comunque il più possibile vicini alla verità, questo è ciò che ho sempre fatto. Anche il libro che uscirà a novembre, se vogliamo usare una parola pomposa che non mi appartiene, è a suo modo un’opera scientifica. Lo è perché l’ho pensato a lungo, ci ho lavorato molto e sono pronto ad affrontare ogni contraddittorio. Ormai la storiografia accademica “rossa” non vuole fare contraddittori con i cani sciolti come me perché ha paura di essere messa sotto. Si nascondono, fanno come le lumache. Mia nonna diceva: “lumaca, lumachina, torna nella tua casina”. Non si fa così: si tengano le loro cattedre sempre più inutili, cerchino di insegnare qualcosa a studenti altrettanto svogliati. Dopodiché quello che posso fare per loro è pagare le mie tasse fino all’ultima lira, come ho sempre fatto. In fondo, io sono tra i finanziatori della ricerca storica universitaria».
A proposito di revisionismo: come giudica quello sul Risorgimento (quello neo-borbonico, ma anche la nostalgia cripto-leghista che ha in mente il Regno Lombardo-Veneto austriaco)?
«Quando ero studente diedi anche un esame di storia del Risorgimento. Non mi ricordo più con chi. Mi appassionava, però confesso di non avere un interesse per quel periodo storico. Mi rendo conto, com’è accaduto per tutte le fasi cruciali, che bisognerebbe andare a vedere anche lì se la storia ci viene raccontata nel modo giusto. Io non santifico nessuno, non mi piace. Non l’ho mai fatto nel mio lavoro di giornalista politico, per cui mi è difficile trovare qualcuno che mi entusiasmi anche tra i leader partitici. E credo che anche sul Risorgimento ci sia molto da rivedere o revisionare. Ma se un partito come la Lega Nord si mette di mezzo e pretende di riscrivere la storia, io me ne ritraggo inorridito…».
Ci fu anche allora, indubbiamente, una guerra civile che prese il nome di «brigantaggio». Ha mai pensato di occuparsene?
«Sul brigantaggio ho letto parecchio, recentemente anche un romanzo bellissimo che racconta di un episodio in Calabria o Campania, adesso non ricordo, della lotta contro i piemontesi. Ritengo che questo fenomeno fosse una forma di resistenza delle classi dirigenti del Mezzogiorno nei confronti dei Savoia per quella che era un’occupazione militare. Lo Stato unitario è certamente nato sul sangue di entrambe le parti, perché non è che i piemontesi siano andati con la mano leggera al sud, e lo dico parlando da piemontese. Del resto, le guerre sono sempre state fatte in queste modo: le vincono non soltanto coloro che hanno la strategia più intelligente, ma anche chi non usa il guanto di velluto. Basti vedere come sono stati i bombardamenti alleati in Italia durante la Seconda guerra mondiale, un altro argomento che gli storici dell’antifascismo e della Resistenza non hanno granché affrontato e che io credo di avere chiarito bene nel prossimo libro, per di più alla mia maniera. Ormai ho imparato che i conflitti bellici sono mattatoi pazzeschi. Ricordo che da bambino vidi passare sulla mia testa, a Casale Monferrato, le “fortezze volanti” americane che andavano a bombardare la Germania. In un primo tempo a scaricare esplosivo sui tedeschi erano gli aerei inglesi del cosiddetto Bomber Command, guidati da questo Harris [sir Arthur Travers Harris, maresciallo dell’aria della RAF, 1892-1984, soprannominato “Bomber Harris” NdR] che anche dai suoi era stato battezzato “Il macellaio” [per la leggerezza con cui mandava a morire i suoi equipaggi NdR]. Anch’io avrei potuto essere un bambino bombardato in Italia, ma grazie a Dio non abitavo vicino ai due ponti sul Po che attraversavano la mia città. Queste sono le guerre. È chiaro che se poi, una volta che sono finite, ci si mettono di mezzo i faziosi che pretendono di raccontarle alla loro maniera, secondo gli interessi di una parte politica, allora non ci si capisce più nulla…».
Come si esce dalle divisioni del passato? Ancora oggi l’ANPI, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, tessera dei giovani: queste cose hanno senso per lei?
«No, e io sono stato uno dei primi a raccontarlo in qualche mio articolo e anche in un libro. Una sera mi trovavo a Modena, dove mi ero recato a presentare uno dei miei lavori revisionisti, e mi accorsi che sui quotidiani locali c’erano delle pagine pubblicitarie a colori, dunque costose, e delle locandine in cui si invitavano i ragazzi a iscriversi all’ANPI. Tutto questo non ha senso o, meglio, lo ha se si pensa che l’Associazione è oggi un partito politico, minuscolo e molto estremista. Secondo me tutto ciò non ha senso, però se vogliamo capire il fenomeno bisogna dire che l’ANPI è uno strumento nelle mani della Sinistra radicale o, diciamolo meglio, affinché non si offendano, una sua componente: è chiaro che se dovesse fare affidamento soltanto sugli ex partigiani, anche su quelli delle classi più giovani del ’25, ’26 e ’27, oggi i soci sarebbero tutti ultraottantenni. Hanno bisogno di forze fresche e hanno trasformato un’organizzazione di reduci, assolutamente legittima, in un club quasi di partito. Siamo in una situazione di sfacelo delle due grandi famiglie politiche, prima è toccato al centrosinistra e ora sta accadendo per una specie di nemesi al centrodestra, e possiamo immaginarci quanto poco conti l’ANPI in questo scenario. Quando l’Italia diventerà ingovernabile e nessuno sarà in grado di gestirla, ci renderemo conto di come certi leader politici non possano fare nulla».
Come spessore dei personaggi, chi vince tra la Prima e la Seconda Repubblica? E, fra i grandi statisti del passato, chi ci servirebbe oggi?
«È una bella domanda, che però richiede una risposta complicata. Come ho scritto nella prefazione de “I cari estinti”, tanto per citare un mio libro che sta avendo un grande successo, sono un nostalgico della Prima Repubblica. Non ricordo chi lo abbia detto, se Woody Allen o Enzo Biagi, personaggi agli antipodi fra di loro, ma “il passato ha sempre il culo più rosa”. Io sono fatalmente portato a ritenere che i capi partito della Prima Repubblica avessero uno spessore più profondo, diverso, migliore di quelli di oggi, anche se in quel periodo furono commessi degli errori pazzeschi. Prima che quella classe politica si inabissasse per sempre e la baracca finisse nel rogo di Tangentopoli – non tutta naturalmente, perché il PCI fu graziato dalla magistratura inquirente – negli ultimi quattro-cinque anni si accumulò un debito pubblico folle, che è la palla al piede che ci impedisce di correre e, soprattutto, diventa una lama d’acciaio affilata che incombe sulle nostre teste. Non ho mai votato la DC, anche perché sono sempre stato un ragazzo di sinistra, ma ho una certa nostalgia della “Balena Bianca”. Il grande merito della Democrazia Cristiana fu di vincere le elezioni del 18 aprile, perché se nel 1948 avesse prevalso il Fronte Popolare, non so che sorte avrebbe potuto avere questo Paese. Secondo me ci sarebbe stata un’altra guerra civile, se non altro per il possesso del nord Italia, anche se poi la storia non si fa con i “se”. Per fortuna, lì si impose Alcide De Gasperi in prima persona. Ero molto giovane, ma quello è un leader al quale ho visto fare grandi cose nei rapporti con gli elettori. Ma pure i leader dell’opposizione a vederli da vicino erano cosa altra da adesso. Anche di Enrico Berlinguer, che era una specie di “santo in terra”, mi resi subito conto di che pasta fosse da un punto di vista politico, più che umano. Quando lo intervistai per il “Corriere della Sera”, alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, mi disse che si sentiva molto più al sicuro sotto l’ombrello della NATO che non “protetto” dal Patto di Varsavia. Queste risposte eterodosse sull’Alleanza Atlantica e il PCI non le pubblicò “l’Unità”, censurando di fatto il segretario del Partito, perché avevano suscitato i malumori dell’ambasciata dell’URSS a Roma. Però gli stessi concetti mi furono ribaditi dal leader comunista, senza battere ciglio, anche in televisione durante una tribuna elettorale. Evidentemente, tutto ciò non doveva finire su ”L’Unità”, che era letta come il Vangelo dai militanti comunisti, mentre in tivù si poteva dire qualsiasi cosa».
Secondo lei chi è stato il più grande? E perché?
«Io direi che oggi ci servirebbe un uomo molto pratico ed energico come Amintore Fanfani, che ha curato i nostri interessi sotto molti aspetti, oppure un temporizzatore tranquillizzante come Mariano Rumor. Con tutto il rispetto per la sua figura e la fine che ha fatto, non so invece se ci occorrerebbe un Aldo Moro. A sinistra ci vorrebbe un tipo come Craxi, diciamoci la verità: Bettino aveva un grande orgoglio di partito, ma non pendenze storiche che sarebbero state sconvenienti da mostrare come accadeva a molti leader del PCI. In conclusione, ci servirebbe un leader democratico e liberale in grado di imporsi con autorità e autorevolezza per mettere fine a questa guerra civile di parole di cui in Italia non ci rendiamo troppo conto e che diventa sempre più violenta. Il più grande di tutti resta comunque De Gasperi, un uomo affascinante, brillante e capace: se non sbaglio fece sette governi, si ritirò a metà dell’ottavo per il venir meno della fiducia e fu per undici mesi segretario della DC prima di morire nel 1954. È stato il politico che ha concesso a me e a voi, in un giorno d’estate del 2010, di procedere in quest’intervista senza paura di dire come la pensiamo».
Come giudica, anche da piemontese, il modo con cui l’Italia si appresta a «festeggiare» i primi centocinquant’anni di vita nel 2011 e le dimenticanze su Cavour in questo 2010?
«Vi dirò una cosa: io sono contrario alle celebrazioni, anche le più oneste. Non servono a nulla, se non a far girare un po’ di consulenze, a far lavorare qualche storico, vero o presunto che sia, gli architetti, qualche grafico e chi si occupa di opere pubbliche per tirar su mostre, ripristinare un museo e via dicendo. Non me ne importa nulla e non sono affatto d’accordo. Chi vuole approfondire la storia del Risorgimento, trova già tutto: basta che vada in una buona libreria e si faccia consigliare da qualche bravo insegnante, magari di liceo, che spesso è anche più competente di tanti docenti universitari…».
Che popolo sono gli italiani? È giusto dire che dimenticano tante cose belle e si accapigliano a distanza di secoli sempre sulle stesse cose?
«Io ho un’idea abbastanza precisa di come siamo: un popolo in declino, che non è all’altezza delle nazioni con le quali dovremmo confrontarci. L’Italia è un Paese di “serie B”, che presto scenderà in “serie C”, con una squadra di calcio che non combina più nulla da un sacco di anni. La gente è sfiduciata e non vuole più saperne della politica, anche per come è la politica oggi. I giovani sono in preda ai “fancazzismi” più esasperati e affollano le università per lauree assurde, vere e proprie anticamere della disoccupazione. A un sacco di ragazzi se chiedi che cosa vogliono fare da grandi, non sanno risponderti, perché non vogliono nulla. Questo è un Paese per vecchi che diventano sempre più vecchi e io mi metto in cima alla lista, perché a ottobre di anni ne avrò settantacinque. Quand’ero giovane l’Italia era un contesto più generoso e che osava, baciato da miracoli economici successivi, in cui il figlio di un operaio del telegrafo e di una piccola modista, allevato da una nonna analfabeta come Giampaolo Pansa, poteva andare all’università, laurearsi e fare il giornalista, che era la cosa che avrebbe sempre voluto fare. Adesso l’Italia è un deserto di speranze, ma anche i giovani non si accontentano mai. Oggi se ho bisogno di un idraulico, di un falegname o di un elettricista, o trovo dei signori ultracinquantenni, o mi affido a giovani molto bravi che quasi sempre sono extracomunitari. Vallo a spiegare ai ragazzi italiani che gli studi universitari non garantiscono più nulla…».
Da quanto detto non si può che arrivare al negazionismo sulle foibe.
Al Magazzino 18 sembrava di stare ad Auschwitz. Parla il coautore dello spettacolo teatrale. Bernas: "Revisionismo? Questo tema era stato occultato dalla storia ufficiale", scrive Gabriele Antonucci su “Il Tempo”. «La storia non deve essere di nessuno, ma la verità deve essere di tutti». Così il giornalista e scrittore Jan Bernas, esperto di geopolitica e di storia, ha spiegato l’urgenza artistica della genesi di «Magazzino 18», spettacolo scritto insieme a Simone Cristicchi. Un’idea accarezzata per vent’anni dal regista Antonio Calenda, che ha trovato finalmente compimento grazie ai fortunati incontri con Cristicchi e con Bernas, contattato dal cantante dopo aver letto il suo libro «Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani». Lo spettacolo, dopo il trionfale debutto a Trieste, ha ricevuto grandi consensi in tutta Italia per l’equilibrio del testo, la sensibilità di Cristicchi e la regia emozionante di Calenda. «Magazzino 18» diventerà un libro, che uscirà a febbraio per Mondadori, corredato dalle foto realizzate dall'autore all’interno del silos dove sono ancora accatastati i beni lasciati dagli esuli italiani in fuga. Per Bernas entrare al Magazzino 18 «è stata un’esperienza incredibile, mi ha ricordato l’atmosfera del campo di concentramento di Auschwitz. Prima di tutto è necessario un permesso speciale per entrare. Una volta dentro, sono rimasto colpito da un salone enorme, pieno di sedie accatastate una sopra l’altra. Dietro ognuna è riportato il nome e il cognome del proprietario. Una stanza è piena di giocattoli, un’altra di libri, registri e perfino di lettere d’amore. Fa venire i brividi». Quanto alle polemiche sullo spettacolo, l’autore se le aspettava, «ma non così forti, violente e preconcette. Le critiche più odiose sono quelle che sono arrivate prima che lo spettacolo andasse in scena o, dopo il debutto, da chi non l’aveva neanche visto. In "Magazzino 18" non diamo colpe, è semplicemente un atto di educazione alla memoria». Per Jan la parola foiba non è soltanto un tabù, ma «una semplificazione simbolica di una vicenda molto più complessa e articolata. Le foibe, in realtà, sono la punta dell’iceberg, visto che in quel periodo tanti italiani sono morti di crepacuore, chi a seguito dell’internamento, chi morto dentro, rimanendo a Pola o a Fiume». Sono state numerose le difficoltà nello scrivere un testo che affrontava una materia così delicata. «»È stato più duro che scrivere un libro. Quando devi raccontare sopra un palcoscenico avvenimenti così poco conosciuti non puoi dare nulla per scontato, né dal punto di vista storico né da quello drammaturgico. Devi condensare una vicenda complessa in meno di due ore». Sulle accuse di revisionismo, lo scrittore mostra di avere idee chiare: «Se per revisionismo intendiamo che per la prima volta in Italia viene rappresentato a teatro un argomento così occultato, allora lo è. Se con quel termine indichiamo una mistificazione storica a favore di una sola parte, non lo è certamente. È stato difficile realizzare uno spettacolo equilibrato: sarebbe stato molto più facile scrivere un testo di parte». Bernas si è accostato all’esodo degli italiani dalla Jugoslavia fin da giovanissimo. «Quando ero al liceo già mi interessavo di storia. Un giorno chiesi alla mia insegnante: "Come mai sono partiti tutti quegli italiani dall'Istria?" "Perché erano tutti fascisti". Non mi sono accontentato di quella secca risposta e ho iniziato una ricerca di molti anni che mi ha condotto a visitare quei luoghi, a conoscere e a intervistare decine di esuli». Grandi emozioni gli ha riservato la prima dello spettacolo a Trieste, dove era stata allarmata perfino la Digos per il rischio di scontri tra opposte fazioni politiche: «Quella sera c’era una tensione molto forte, ma l’applauso di un quarto d’ora con il pubblico in piedi, gli anziani esuli in lacrime che ci hanno abbracciato, l’inno nazionale cantato alla fine da tutta la sala sono stati i migliori regali che io, Cristicchi e Calenda potessimo ricevere».
Ma quanto tempo deve ancora passare perché il dramma dell’esilio giuliano-dalmata e la tragedia delle foibe diventino memoria per tutti? Si chiede Federico Guiglia su “Il Tempo”. Memoria è quel luogo del nostro animo dove il ricordo dell’orribile pagina di storia, che si è scritta sul confine nord-orientale italiano soprattutto dal ’43 al ’47, può ancora ferire gli anziani testimoni, commuovere i giovani che non conoscevano, far riflettere un’intera nazione chiamata a custodire per sempre un capitolo di sé per troppi anni rimosso. Ed è incredibile che a Simone Cristicchi, artista di valore di una generazione del tutto estranea alla vicenda, venga oggi scagliato l’anatema di «propaganda anti-partigiana» per lo spettacolo profondo e delicato, esattamente com’è lui, dedicato all’esodo di trecentocinquantamila connazionali. Come ormai si sa o si dovrebbe sapere, essi furono costretti ad abbandonare la terra in cui erano nati o cresciuti per evitare, nel migliore dei casi, di perdere la loro identità italiana. Anzi, italianissima, tipica della gente di confine, lontana da Roma e perciò amante di un amore travolgente verso la nazione italiana. Nel peggiore dei casi, gli esuli fuggivano per evitare la fine orrenda dei ventimila infoibati, uccisi o torturati dai partigiani comunisti di Tito con la sola «colpa» d’essere italiani. Senza dimenticare l’esproprio dei loro beni, che spesso erano il frutto di sacrifici che si tramandavano di padre in figlio, perché in Istria, Fiume e Dalmazia si parlava italiano dalla notte dei tempi. Dunque, è stata un’epopea triste. È stata una fuga per la vita di chi, da quel giorno, da quell’ultimo imbarco verso la madre-patria, avrebbe perduto tutto, fuorché la dignità. La dignità di raccontare quel che era successo, ma senza piangersi addosso. La dignità di ricominciare daccapo in Italia o all’estero, perché una parte notevole degli esiliati è partita due volte: la prima dalla propria terra verso la propria patria. La seconda dalla patria verso il mondo. L’Australia, il Canada, l’America, sempre portandosi nel cuore quel dramma silenzioso e quasi inconfessabile, tanto tremendo era stato. Portandoselo, il lutto collettivo, con straordinaria civiltà. È un esodo che non ha prodotto alcun atto di violenza per reazione o per vendetta, a differenza di altri esodi sradicati ed espulsi in tante parti dell’universo. Di più. Questi nostri fratelli mai hanno mostrato né fatto valere rancore nei confronti di chi li aveva cacciati da casa loro. Chiedevano e chiedono solo «giustizia». Le loro lacrime mai hanno riempito gli studi televisivi, a cui per anni i sopravvissuti e le loro famiglie si sono sottratti con discrezione. Anche nel dolore essi hanno dato prova di un’italianità esemplare: gente che non protestava, che non dava la colpa agli altri dei propri e terribili guai subìti, che non s’inventava partiti per lucrare voti sulla sofferenza. Solamente e nient’altro che un grande, infinito rispetto, dunque, possiamo noi oggi restituire ai vivi e ai morti, chiedendo scusa d’essere arrivati così tardi a «comprendere» e a «condividere» la vicenda. È quel che ha fatto Simone Cristicchi con lo spettacolo «Magazzino 18», andando a spulciare, per poi narrare, le cose senza nome e senza numeri, ma da oggi con nuova anima, abbandonate dagli esiliati in quel disperato magazzino di Trieste. Cristicchi ha dato voce e senso a una storia che è rimasta muta per decenni. L’artista, che non ha ancora trentasette anni, ha potuto e saputo più degli storici paludati, perfino, che poco o niente hanno voluto ricordare di quell’esodo alla frontiera, voltando per anni la testa e la penna dall’altra parte. Il giovane Cristicchi ha potuto e saputo più dei politici navigati, mondo al quale non appartiene. E si vede, e si sente: libero artista in libero Stato. Un mondo, quello politico, che ha scoperto l’esilio e le foibe solo in tarda Repubblica quando, con legge del 2004, fu proclamato «giorno del ricordo» il 10 febbraio, anniversario del Trattato di Pace che staccò dall’Italia quei territori italiani. Da allora l’esilio e le foibe sono tornati nella nostra storia nazionale. E ogni volta la cerimonia al Quirinale rende omaggio alla memoria dei vinti e innocenti troppo a lungo dimenticati. Il tesoro della memoria. Perciò la polemica che si è scatenata contro Cristicchi e riportata dal «Tempo», con chi sollecita la cacciata dell’artista dall’Anpi reo non si capisce di che cosa, non è né giusta né sbagliata: è semplicemente incomprensibile. La verità non può far male, neanche settant’anni dopo. Neanche quand’è raccontata con forza e dolcezza per non dimenticare.
Che le foibe siano state un tabù per decenni, lo sanno tutti. Non una riga sui libri scolastici, nessun volume storico diffuso nel grande circuito editoriale, zero commemorazioni ufficiali. Achille Occhetto, l'ex leader comunista, in un'intervista al Tempo, ammette candidamente di aver scoperto gli eccidi con cinquant'anni di ritardo. È vittima della sua stessa disinformazione? Scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Quei massacri di migliaia di italiani a fine guerra sui confini orientali sono stati nascosti e negati talmente a lungo da apparire quasi una leggenda. Forse per questo Achille Occhetto, ex segretario del Pci, che con il suo partito ha contribuito a far credere che non esistessero, afferma candidamente in un’intervista: “Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la svolta della Bolognina. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza”. D’altronde è stato l’ultimo leader dei comunisti italiani, maestri nella propaganda e nel distorcere la verità. E perciò può essere rimasto vittima della sua stessa disinformazione se ha scoperto un pezzo di storia solo nel 1989. Oppure continua a mentire come hanno fatto i suoi compagni per quasi mezzo secolo, raccontando che gli esuli dell’Istria, Fiume e Dalmazia non erano semplici italiani in fuga dalle stragi comuniste ma fascisti che scappavano per i loro misfatti. Un messaggio che aveva già fatto presa nel 1947. C’è un episodio indimenticabile. Il 16 febbraio, un piroscafo parte da Pola con migliaia di connazionali che, dopo essere sbarcati ad Ancona, sono stipati come bestie su un treno merci diretto a La Spezia. Quel treno, il 18 febbraio, arriva alla stazione di Bologna, dove è prevista una sosta per distribuire pasti caldi agli esuli. Ma ad attendere i disperati c’è una folla con bandiere rosse (toh, i compagni di Occhetto?) che prende a sassate il convoglio, mentre dai microfoni è diramato l’avviso “se i profughi si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione”. Il treno è costretto a ripartire. Questo il clima. La propaganda comunista e la mistificazione della realtà, come sappiamo, hanno influenzato non poco la cultura italiana del secondo Novecento. Ma è stato impossibile seppellire la memoria: troppi profughi, troppi testimoni e quella destra che alimenta i ricordi. E poi c’è Trieste, che Occhetto conosce bene, città decorata con la medaglia d’oro al valore militare dal capo dello Stato, nella cui motivazione c’è scritto “…subiva con fierezza il martirio delle stragi e delle foibe, non rinunciando a manifestare attivamente il suo attaccamento alla Patria…”. Tutti sapevano delle foibe, anche se era scomodo e sconveniente parlarne. Per questo motivo facciamo fatica a credere che il prode Achille l’abbia saputo così tardi. Fosse stato per il Pci, probabilmente non se ne sarebbe mai parlato, ma per fortuna è stato sconfitto dalla storia. E al grande libro dei fatti è stata aggiunta quella pagina strappata.
Pianse Achille Occhetto il giorno in cui, con la “svolta della Bolognina”, seppellì il Partito comunista italiano dando vita al Pds, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Può sembrare incredibile, ma è lo stesso Occhetto quello che oggi si commuove per lo spettacolo teatrale “Magazzino 18” con il quale Simone Cristicchi ha messo in scena le foibe e l’esodo istriano, giuliano e dalmata. Quei drammi che proprio la sinistra italiana, per molti decenni, non ha voluto vedere per non dover fare i conti con sé stessa e perché ottenebrata dall’ideologia, adesso inteneriscono colui che pose la prima pietra per la costruzione della sinistra postcomunista.
Occhetto, come giudica lo spettacolo di Cristicchi?
«Davvero molto bello. Trasmette un grande pathos per via di vicende drammatiche nelle quali i torti e le ragioni non stanno tutti da una parte. Si è lontani da una visione manichea. Anche se da un punto di vista della vicenda storica, infatti, nel grande capitolo del ’900, tra fascismo e antifascismo le colpe stanno dalla parte del primo, occorre dire, e nello spettacolo di Cristicchi ne ho trovato traccia, che lo stalinismo ha “macchiato” le idealità dello stesso antifascismo».
Dunque Cristicchi, nel raccontarci che gli esuli non erano fascisti ma italiani che fuggivano da una dittatura, ha usato un metro di giudizio oggettivo?
«Non c’è dubbio. Cristicchi ci dice che, al di là delle affermazioni ideologiche con le quali si combattono delle battaglie politiche, ci furono anche molti antifascisti che si ingannarono, perché non capirono fino a che punto si stava vivendo il dramma di un popolo e non uno scontro fra nostalgici del fascismo e non, come invece una certa propaganda cerca di far vedere».
C’è chi a Cristicchi vorrebbe togliere la tessera onoraria dell’Anpi.
«Un’iniziativa totalmente sbagliata. Il pezzo teatrale di Cristicchi inquadra tutta la vicenda nel torto storico fondamentale del fascismo. L’autore ci dice, fin dall’inizio, che se non ci fosse stato quel tipo di guerra e soprattutto quel tipo di odio nazionalistico che aveva suscitato le reazione dell’altra parte, probabilmente non si sarebbe arrivati a quel punto. Poi, naturalmente, mette in evidenza come anche la sinistra allora non capì fino in fondo quel dramma umano. Non fummo messi nelle condizioni di vedere che cosa realmente accadeva, di capire il reale dramma che si nascondeva oltre i pretesti ideologici».
“Magazzino 18” ha provocato uno “strappo” fra quanti sostengono che il negazionismo è da respingere sia a “destra” che a “sinistra”, e quanti continuano a ritenere che il male del fascismo non è uguale a quello, spesso definito “presunto”, compiuto ai danni degli esuli. Foibe comprese.
«Non si può negare la drammatica realtà delle foibe. Forse ci furono degli antifascisti jugoslavi onesti che rimasero impigliati in quelle vicende, si possono fare delle analisi articolate quanto si vuole, ma il dato di fatto è indubbio».
Per decenni questo capitolo della nostra storia è rimasto sconosciuto.
«Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la “svolta della Bolognina”. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza».
Com’è stato possibile?
«Di fronte a una storia del ‘900 segnata dai gradi delitti e dalla conculcazione delle libertà da parte del nazifascismo, probabilmente si è cercato di non vedere, e di non ricercare, qualche cosa che poteva addolorarci. Il fatto che quella ricerca venisse poi svolta dalla parte fascista, ha provocato una reazione di tipo ideologico dall’altra parte. Il merito dello spettacolo di Cristicchi, ecco perché mi stupisco di certe posizioni, è che ha portato una vicenda drammatica e umana lontano dal furore degli opposti ideologismi, per ricollocarla nella sua drammatica realtà storica».
Lei ha pianto il giorno in cui, con la “svolta della Bolognina”, sancì la fine del Pci, ora si commuove assistendo alla messa in scena dell’esodo istriano. Se lo sarebbe mai immaginato?
«Ogni fatto umano, raccontato nella sua tensione reale, è destinato a commuovere. Non penso sia una commozione che fuoriesca da quell’orizzonte morale e ideale per cui mi sono commosso leggendo il Diario di Anna Frank o le Lettere dei condannati a morte della Resistenza. Ho ritrovato, sotto un segno diverso, lo stesso dramma pagato da innocenti».
La «guerra civile culturale» in Italia non è mai finita, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Se intorno a un cantante che mette in scena la «verità storica» sull’esodo istriano, giuliano e dalmata che «condannò» migliaia di italiani alla fame, alla sete e alla morte, si produce ancora uno «squarcio storico», allora siamo ancora lontani da una «storia condivisa». Con «Magazzino 18» andato in scena a Trieste, Simone Cristicchi racconta la verità stabilita dai documenti storici. La verità di italiani, non di fascisti, in fuga dalle «speciali purghe» titine e in cerca dell’agognata libertà. Una verità che a quanto pare può essere raccontata solo dopo una preventiva revisione del «copione» da parte dei «depositari» della verità. E se da una parte la onlus Cnj ha annunciato di aver raccolto qualche centinaio di firme di aderenti all’Anpi per chiedere che a Cristicchi venga ritirata la tessera onoraria dell’associazione dei partigiani, dall’altra c’è chi, fra i rappresentanti dei partigiani, nello spettacolo storico-teatrale di Cristicchi vede una ventata di verità. È il caso di Elena Improta, vicepresidente Anpi Roma, a cui abbiamo chiesto un commento sulla vicenda.
La vicenda Cristicchi ha riaperto una ferita che in realtà non si era mai chiusa. Che posizione ha l’Anpi sulla polemica innescata da «Magazzino 18»?
«Le posizioni nell’associazione non sono univoche. Mi sono informata, ho letto tutto e poi ho parlato con persone che hanno visto lo spettacolo di Cristicchi. Si tratta di iscritti al Partito democratico, persone che hanno avuto parenti deportati ad Auschwitz. Gente, insomma, vicina alla Resistenza e alla lotta di Liberazione. Ebbene, tutti mi hanno riferito che in quello spettacolo non hanno trovato assolutamente nulla di sconvolgente e che si tratta di una polemica assolutamente ideologica. Cristicchi ha solo voluto evidenziare che vanno condannate tutte le forme di violenza che hanno segnato la nostra storia. Non ci possiamo più nascondere».
Qualcuno, come la onlus Cnj, vorrebbe addirittura togliere la tessera onoraria dell’Anpi al cantante per aver ricordato le foibe e il destino di quegli esuli.
«Quelle associazioni e quegli esponenti territoriali dell’Anpi che hanno sottoscritto l’appello contro Cristicchi per il ritiro della tessera perché nel suo spettacolo ha ricordato le foibe, mi sembrano fuori dal mondo. Non c’è nulla di sconvolgente in quelle dichiarazioni. Ricordare quello che furono le foibe non è uno scandalo e nulla toglie al valore della Resistenza e alla lotta partigiana. Se memoria dev’essere, si ricordi tutto. È arrivato il momento di riconoscere che chi scappava da Tito non era fascista, ma cercava la libertà come la cercavano i nostri partigiani. Mi chiedo se chi ha rilasciato certe dichiarazioni abbia realmente visto lo spettacolo di Cristicchi. Il "negazionismo" va condannato a 360 gradi, anche quello sulle foibe».
C’è chi nell’Anpi ha una posizione molto rigida e si accoda alla richiesta di Cnj.
«Le opinioni di chi persegue rigidamente i valori dell’Anpi sono univoche nel senso che ricordano solo la violenza fascista, riconoscono e condannano solo quella, non quella delle foibe. Sto parlando della parte "conservatrice" che fa riferimento o che è vicina ai Comunisti italiani e a Rifondazione comunista. Sbagliano e lo ripeto. Ricordare le foibe non vuol dire negare la Resistenza o la lotta partigiana».
Accanto a Elena Improta c’è Mario Bottazzi, ex combattente partigiano ora nel comitato provinciale dell’Anpi romana. Va oltre, Bottazzi, e si chiede perché non si debbano ammettere nell’Anpi anche persone legate alla destra più moderna e antifascista. Sul «caso Cristicchi» abbiamo sentito anche Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi che si chiede: «Chi, come e quando ha deciso di dare la tessera ad honorem a Cristicchi? In ogni caso l’Anpi toglie le tessere solo in casi eccezionali, solo in presenza di gravissimi fatti di indegnità». Sottolinea, il presidente dell’Anpi, che «si occuperà della cosa, lo farà la sezione locale, per verificare di che spettacolo parliamo e di questa tessera ad honorem. Sarà una verifica seria e non improvvisata». E poi prosegue: «In genere sono per rispettare le manifestazioni d’arte, prenderle per quelle che sono e poi discutere. Certe cose non si affrontano a picconate, vanno rispettate. Se poi uno fa uno spettacolo per negare l’esistenza delle camere a gas, allora ci si arrabbia. Se invece affronta qualcosa che è ancora oggetto di discussione, è diverso». Infine Smuraglia ammette che su quegli esuli italiani in fuga da una dittatura perché in cerca della libertà e non in quanto fascisti, «è arrivato il momento di discutere seriamente, di affrontare l’argomento nelle sedi opportune».
Cristicchi: "Canterò e reciterò le foibe. E già mi insultano". Il cantautore porta a teatro il dramma giuliano-dalmata: "A 50 anni di distanza è ancora un argomento scomodo", scrive Francesco Cramer su “Il Giornale”.
Perché questo tema?
«Per emozionare e illuminare delle storie rimaste al buio».
Di cui pure lei sapeva poco?
«Pochissimo. A scuola il dramma degli esuli istriani e dalmati non viene raccontato».
Eppure lei ha fatto studi umanistici.
«Liceo classico a Roma. Ma, come molti, da ragazzino davanti alla targa "Quartiere giuliano-dalmata" mi chiedevo chi fosse il signor Giuliano Dalmata».
Un capitolo di storia che dovuto studiare da solo?
«Sì. Ringrazio la mia curiosità e la mia sete di sapere».
Quando è nata l'idea dello spettacolo?
«Un anno fa, in una libreria di Bologna, mi ha colpito un libro di Jan Bernas: "Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani". L'ho divorato».
Poi?
«Ho contattato l'autore su facebook: "Dobbiamo parlarci...". Siamo diventati amici e abbiamo cominciato ad approfondire la cosa».
Da lì è partita l'idea di raccontare a teatro le storie narrate nel libro?
«Sì. Poi ho chiesto di poter visitare il Magazzino 18 di Trieste, inaccessibile al pubblico. Lì ho varcato la porta della tragedia».
Il Magazzino 18: l'immenso deposito di cose mai ritirate dagli esuli istriani.
«Impressionante la tristezza di quel luogo. C'è di tutto: quaderni di scuola, posate, bicchieri, armadi e sedie; montagne di sedie».
Da qui il titolo dello spettacolo: Magazzino 18. Cosa vedremo a teatro?
«Le vicende umane di una pagina nera e dimenticata, attraverso il personaggio principale: un archivista del ministero degli Interni inviato al magazzino a mettere ordine».
E attraverso gli oggetti emergeranno le storie vere?
«Sì, in sei o sette brani con altrettante canzoni. Tutti episodi drammatici e commoventi».
Ci anticipi qualcosa.
«Ci sarà la storia della tragedia dei comunisti di Monfalcone, partiti per la Jugoslavia per costruire il "Sol dell'avvenire". Solo che dopo il loro arrivo Tito ruppe con Stalin e venne accusato di deviazionismo. Per i comunisti di Monfalcone non ci fu scampo: furono considerati nemici e molti finirono nel gulalg di Goli Otok-Isola calva».
Una faida tra compagni.
«Certo. Un sopravvissuto racconta: "Sono stato utilizzato come utile idiota della storia e ho contribuito a far andar via i miei connazionali. Solo dopo ho capito"».
Lei sa che raccontare queste vicende è politicamente scorretto?
«Lo so bene. Su twitter e facebook sono arrivati i primi insulti. Qualcuno mi ha pure dato del traditore».
Traditore? E perché?
«Perché il mio spettacolo "Li romani in Russia", dove racconto il dramma dei soldati italiani inviati dal Duce sul fronte sovietico, mi ha affibbiato la patente di uomo di sinistra».
Invece?
«Invece a me interessa raccontare cose accadute. La verità è che siamo un Paese ancora intossicato dall'ideologia; che tanti danni ha fatto nel passato. Tra cui strappare alcune pagine di storia del nostro popolo».
Che lei vuole riattaccare.
«Certo. La mia vuole essere un'opera di educazione alla memoria. Per non dimenticare. Mai».
Cristicchi: «Io e la mia compagnia siamo stati insultati». Il cantante parla dalla sua pagina Facebook e risponde a chi contesta il suo spettacolo «Magazzino 18», scrive Carlo Antini su “Il Tempo”. Simone Cristicchi prende la parola in prima persona. E lo fa dalla sua pagina Facebook. Il cantautore romano risponde a chi lo contesta. A chi contesta il suo spettacolo «Magazzino 18» (che dovrebbe andare in onda in seconda serata il 10 febbraio su Rai1) perché colpevole di essere antipartigiano. Cristicchi è un artista coraggioso e non si fa intimorire dalle minacce. Neppure da chi ha chiesto la sua espulsione dall’Associazione Nazionale Partigiani. «La tessera mi è stata donata dall’Anpi stessa nel 2010 come attestato di riconoscenza per lo spettacolo con il Coro dei Minatori di Santa Fiora - ha scritto Cristicchi sul suo Facebook - A quanto mi risulta, qualche mese fa la richiesta è già pervenuta all’Anpi, che ha risposto "No" al ritiro della tessera. Ora un’oceanica folla (un centinaio di firmatari) ci sta riprovando, con la benedizione del CNJ, che continua a violare leggi sulla privacy pubblicando mie corrispondenze private sul loro sito». Ma Cristicchi denuncia anche veri e propri episodi di violenza e intimidazione subìti negli ultimi mesi. «Senza pensare al fatto che io e la mia compagnia abbiamo subìto insulti e una sospetta ruota squarciata durante il tour in Istria - conferma il musicista - Bel modo di esporre le proprie idee! Complimentoni». Alla lunga prende il sopravvento la rabbia e la voglia di mettere in luce le contraddizioni del movimento. «Detto questo, se da una parte è deludente constatare cotanta presunzione, sono quasi contento che stiano uscendo allo scoperto questi atteggiamenti, le loro critiche campate in aria e la valanga di menzogne sul mio spettacolo. Così mostrano il loro vero volto, in fondo non così diverso dagli estremisti di destra che loro si vantano di "combattere". Si. Indossando le magliette "I love foiba". Da antifascista, sono schifato da tutto ciò. La tessera gliela rispedisco io! In posta prioritaria. Altrimenti, senza tante chiacchiere, si facciano loro uno spettacolo con la loro "sacrosanta" verità. In fondo, ma molto in fondo, siamo un paese democratico, no?»
Cristicchi racconta le foibe "Ora mi danno del fascista". Il cantautore porta in scena un musical sugli orrori dei comunisti titini e l'esodo degli italiani dalmati. "Sfido l'estrema sinistra: venite a vedermi", scrive di Simone Paliaga su “Libero Quotidiano”.
«"Chi è Giuliano Dalmata?" si chiede in una battuta del musical, confondendo due aggettivi per un nome e cognome, il funzionario inviato da Roma a catalogare il materiale dei profughi italiani provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia. Probabilmente questi sono gli stessi pensieri che balzano alla mente quando a Roma ci si imbatte nel Villaggio giuliano dalmata», ci racconta Simone Cristicchi. In questi giorni che la parola negazionismo rimbalza ovunque il cantante si trova a Trieste per inaugurare il Salone del libro dell’Adriatico Orientale Bancarella (17-22 ottobre con oltre cento incontri) e per togliere il velo a una storia negata e dimenticata da anni. Si tratta di un altro negazionismo di cui pochi si ricordano: l’esodo di 300 mila italiani dalle terre italiane di Istria e Dalmazia alla fine della Seconda guerra mondiale a causa dell’occupazione jugoslava e con il beneplacito inglese. Per riportarlo al centro dell’attenzione al Politeama Rossetti di Trieste il 22 ottobre, con repliche fino al 27, verrà presentato in anteprima nazionale lo spettacolo di Simone Cristicchi e Jan Bernas Magazzino 18, per la regia di Antonio Calenda.
Cristicchi, prima che le venisse in mente di scrivere il musical sapeva di questo episodio storico?
«Vagamente. È un argomento che non si studia a scuola. L’ho conosciuto attraverso un libro che ho trovato a Bologna. Si tratta di “Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani” (Mursia) di Jan Bernas che poi è diventato il coautore del musical. Tra quelle pagine ho trovato testimonianze di coloro che hanno vissuto l’esodo, il controesodo di molti monfalconesi poi andati in Jugoslavia e finiti a Goli Otok… Questi fatti nessuno li conosce».
Che cosa è il Magazzino 18?
«Mi trovavo a Trieste per fare delle ricerca sulla Seconda Guerra mondiale e ho sentito dell’esistenza di un deposito dove si trovano accatastate le masserizie degli esuli, il Magazzino 18. Dopo un po’ di traversie sono riuscito a visitarlo. E mi è sembrato di rivedere Ellis Island, l’isola dove gli emigrati italiani venivano tenuti in una sorta di quarantena prima di poter sbarcare negli Stati Uniti».
Perché ha pensato di ricavare uno spettacolo dalle vicende dell’esodo?
«Perché è una storia che merita di essere raccontata. Non è stato un lavoro di poco conto. Tra ricerche e scrittura mi ci è voluto un anno di fatiche. Prima ho cominciato a lavorare al testo e poi ne sono uscite anche le canzoni… Si tratta di un musical civile con una scenografia imponente, un coro, un’orchestra. Un lavoro che senza l’aiuto del teatro stabile non avrei potuto realizzare».
Cosa ha provato quando è entrato per la prima volta nel Magazzino 18?
«Avevo l’impressione di trovarmi in un luogo quasi sacro… era ricolmo degli oggetti degli italiani che erano stati costretti a lasciare le loro terre in Istria e Dalmazia. Mobili, poltrone, attaccapanni, tutto insieme. I numeri della tombola si trovavano a fianco di un cuscino. Su ogni sedia era appiccicato il nome del proprietario… era come se questi oggetti parlassero. Avevo l’impressione si essere immerso in una atmosfera fiabesca. In questo magazzino era finito il contenuto di un’intera città. È per questo che ho deciso di ambientare il musical dentro quelle pareti, dentro quel Magazzino».
La canzone che lo racconta ha scatenato una valanga di polemiche…
«Quando l’ho pubblicata sono rimasto colpito dalla quantità di critiche dell’estrema sinistra che mi sono piombate addosso. Se prima per i temi che toccavo mi consideravano di sinistra a un tratto sono diventato un fascista. Io invece sono un artista, voglio raccontare storie. Non mi interessano questi giochi politici. Mi sento libero di occuparmi delle storie che voglio. Più mi attaccano e più io mi incaponisco. Sfido queste persone che mi accusano. Spero vengano a teatro e si ricredano. Nel testo non c’è niente di revanscista. È equilibrato e intende raccontare un pezzo dimenticato della nostra storia di italiani».
Chi ha strumentalizzato questa vicenda penalizzandone la diffusione?
«La strumentalizzazione politica è stata fatta dall’estrema destra come dall’estrema sinistra. Negli anni Settanta gli uni lo hanno impiegato come mezzo di propaganda mentre a sinistra provavano a giustificarlo. Ma il giustificazionismo è pericoloso. Si può finire con avallare qualsiasi cosa».
Cosa ha provato la gente non ideologizzata… quella che non sta né da una parte né dall’altra?
«Una reazione di vergogna. Un po’ quella che ho provato io quando ne sono venuto a conoscenza per la prima volta. Ci si chiede come sia possibile che questa tragedia sia stata rimossa dalla nostra attenzione, che se ne trovino scarse tracce anche nei manuali scolastici…».
Ha intenzione di continuare in questo filone artistico?
«Certo. È un linguaggio ideale per raccontare la nostra storia. Il teatro civile attira un pubblico di intellettuali mentre la musica è più coinvolgente. Dai bambini agli anziani, tutti possono godere dello spettacolo e imparare qualcosa sulla storia italiana. E se dovesse funzionare questo spettacolo potrei anche continuare, magari occupandomi del Risorgimento».
DI FRONTE A TUTTO QUESTO TROVIAMO UNA TV SPAZZATURA CHE CENSURA E DISINFORMA.
Quanto buonismo nelle nostre fiction. Alcune serie tv americane, così come i drammi storici inglesi di Shakespeare, celebrano il potere. Ma almeno sono fatte bene e vengono ricordate. Da noi, invece, si vedono acritiche agiografie di santi e padri della patria, scrive Roberto Saviano su “L’Espresso”. La propaganda filogovernativa è sempre esistita e ha sempre utilizzato i mezzi più popolari, quelli più seguiti dal pubblico, quelli che spesso la critica di settore per snobismo o per acritico entusiasmo non ha saputo interpretare, se non a distanza di anni, talvolta decenni, altre addirittura a distanza di secoli. Questa riflessione parte da un articolo molto interessante pubblicato su Jacobin (un magazine “of the American left”) tradotto in Italia da Internazionale. “La fiction al potere” è l’argomento della riflessione e davvero credo valga la pena provare a comprendere come tutto ciò che sia di massa diventi immediatamente strumento utile per i governi, soprattutto nei momenti di transizione, di momentanea crisi o quando c’è necessità di giustificare azioni che agli occhi degli elettori potrebbero risultare incomprensibili. L'articolo si concentra su due serie televisive statunitensi: “24” e “Homeland”. La prima è stata prodotta dal 2001 al 2010 e riflette “lo stile cowboy dell’amministrazione Bush”; la seconda, a partire dal 2010, - i creatori delle due serie sono gli stessi - è, invece, un prodotto dell’era Obama. Osservare queste due serie è utile perché mostra quanto sia determinante l’influenza delle agenzie governative statunitensi sui prodotti culturali, che dal 2001 in poi si concentrano sostanzialmente su questioni legate alla sicurezza nazionale. Ma come spesso accade l’osmosi è perfetta: se da un lato le piccole concessioni da parte degli autori portano alla possibilità di poter accedere a location altrimenti inaccessibili, dall’altro il riuscire a inventare nuovi scenari inediti per attentati e pericoli imminenti, mette in guardia gli apparati di sicurezza cui troppo spesso manca la fantasia per poter prevedere il futuro. Incredibile: le fiction che suggeriscono ai governi dove cercare il pericolo e come eventualmente neutralizzarlo. Ma la propaganda oggi ha il sapore del complotto, solo del complotto, e quando diventa palese, tutto il resto finisce per perdere spessore. Questo mio non è un invito ad apprezzare la capacità che i governi hanno di piegare i prodotti culturali ai loro scopi - vale la pena sottolinearlo -, ma piuttosto all’osservazione critica anche dei prodotti culturali che ci piacciono cercando di comprendere se attirano la nostra attenzione per loro qualità intrinseche o per la capacità che hanno di intercettare lo Zeitgeist o il consenso dei governi. Insomma, non tutto ciò che ci piace è “buono” o eticamente corretto. Non deve per questo smettere di piacerci, ma spingerci a riflettere e a trovare gli strumenti per godere di un prodotto sapendo che è legato al contesto in cui nasce. A questo punto cerchiamo di recuperare, nella nostra memoria, altri lavori che sono stati propaganda ma che il tempo ha trasformato, senza sbagliare, in opere d’arte, in capisaldi della cultura mondiale. I drammi storici di Shakespeare sono forse l’esempio massimo di come si sia potuto celebrare il potere dei Tudor senza blandirlo e senza servilismo. I suoi ritratti dei Plantageneti - re, regine e nobili che hanno governato e rovinato l’Inghilterra - sono talmente potenti che ormai è difficilissimo distinguere la realtà dal mito. E quando, a settembre 2012 sotto un parcheggio a Leicester, sono stati ritrovati i resti di Riccardo III, il più terribile tra i re d’Inghilterra, ci si domandava se lo studio delle ossa non avrebbe per caso rivelato le stesse spaventose sembianze che Shakespeare aveva descritto nell’omonimo dramma, ovvero quelle di un uomo deforme, quelle di “un ragno gobbo”. Che gli Shakespeare di oggi siano i creatori delle serie tv farà sorridere, ma se pensiamo alla diffusione e alla popolarità del teatro in epoca elisabettiana a Londra, il paragone, per quanto incredibile, potrebbe anche essere calzante. E non è detto che nella miriade di produzioni non ce ne sia qualcuna che verrà ricordata a distanza di secoli, magari riadattata, attualizzata. Mi sorge invece il dubbio che nulla resterà delle tante acritiche agiografie di santi e padri della patria diffuse in Italia a mezzo fiction negli ultimi anni. Ritratti buonisti, senza chiaroscuri e sfumature - che dovrebbero costituire il senso di ogni narrazione - immortalmente liquidati dalla geniale caricatura di “Padre Frediani” che gli amanti di Boris, ricorderanno. Con amaro piacere.
Dopo l'articolo di Roberto Saviano: " Quanto buonismo nelle nostre fiction ", l'attore Beppe Fiorello ha replicato inviando questo messaggio su Twitter. Pubblichiamo qui la sua opinione. Capisco la critica e le osservazioni sulla fiction italiana, ma come ho detto altre volte non accetto generalizzazioni. Personalmente ho raccontato storie importanti e talvolta scomode. Il manifesto allegato nel tweet precedente riguarda un tv Movie di circa sette anni fa. Raccontò la storia (insabbiata per vent'anni) di Graziella Campagna. Tutti sapevano nessuno parlava e proprio per questo la fiction venne censurata dall'allora Ministro della giustizia che disse: "Questa fiction turba la serenità dei magistrati". Assurdo.
Il tweet di Beppe Fiorello: Quella censura però non venne denunciata da nessuno. Soltanto io, il regista, la stessa Rai e De Cataldo (che non c'entrava nulla con il progetto) lottammo affinché quella scomoda verità andasse in onda. Furono oltre sette milioni i telespettatori che poterono constatare quanto accadde alle spalle di una famiglia che non c'entrava nulla con il sistema Mafia e perse atrocemente una figlia di diciassette anni. Come questa, ho anche raccontato L'Uomo Sbagliato, la vera storia di Daniele Baroni, dieci anni di carcere per un errore giudiziario. E senza risparmiare chi commise l'errore. Anche qui si sapeva ma non si parlava. Solo per dire che la Fiction italiana ha delle eccellenze, e mi piacerebbe però far notare che in America oltre alle due serie citate nell'articolo (24 e Homeland), ce ne sono (in maggioranza) di totale buonismo, violenza e inutilità sociale. Difendo il mio mestiere perché lo faccio con passione e verità, ma non nascondo che la nostra fiction ha realmente bisogno di trovare una strada nuova. Io ci sto lavorando.
Dal governo pioggia di milioni al cinema "rosso", scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Ce l’ha fatta Walter Veltroni, che al suo esordio da regista cinematografico ha strappato il prezioso riconoscimento di «opera di interesse culturale» per il docufilm Quando c’era Berlinguer prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti (la stessa del commissario Montalbano). Non ce l’ha fatta invece Sabina Guzzanti, con la sua Trattativa che purtroppo per lei non pizzica solo Silvio Berlusconi, ma pure Giorgio Napolitano. La sottocommissione del ministero dei Beni culturali guidato da Massimo Bray non le ha concesso il riconoscimento culturale, che Veltroni è riuscito a strappare per il rotto della cuffia (17° sui 18 ammessi). Meglio di Veltroni è riuscito un altro esordiente che fa riferimento alla medesima area politico-culturale: Ascanio Celestini, che ha ottenuto anche 150 mila euro per produrre il suo Viva la sposa. Poco prima di Natale il ministero dei Beni culturali ha sfornato una bella pioggia di contributi diretti e indiretti attraverso i riconoscimenti che faranno incassare abbondanti agevolazioni fiscali (l’interesse culturale a questo serve). Fra i fortunati che hanno conquistato anche la dichiarazione di eccellenza che il ministero rilascia ai film di essai c’è pure La mafia uccide d’estate di Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, la iena nota anche per essere il compagno di Giulia Innocenzi, da anni spalla televisiva di Michele Santoro. Il giudizio di eccellenza concesso all’opera prima di Pif consente infatti di ottenere vantaggi fiscali diretti e indiretti e anche un premio in denaro alle sale che lo trasmettono, calibrato sulla lunghezza del periodo in cui esso rimane in programmazione. È un attestato che nell’ultimo anno e mezzo è stato concesso a grandissimi registi internazionali, come Roman Polanski (Venere in Pelliccia), Quentin Tarantino (Django), Ang Lee (Vita di P), Steven Spielberg (Lincoln), Martin Scorsese (Hugo Cabret) e fra gli italiani Paolo Sorrentino (La grande bellezza), Marco Bellocchio (Bella addormentata) e Giuseppe Tornatore (La migliore offerta). Nella doppia delibera di finanziamento della sottocommissione a dicembre ci sono per altro quasi tutti gli habituè della cassa del ministero. Ottiene un milione di euro Matteo Garrone per Il racconto dei racconti, trasposizione cinematografica de Lo conto de li cunti. Novecentomila euro a Ozpetek per il suo Allacciate le cinture, ottocentomila euro a testa per firme sicure del cinema italiano come Ermanno Olmi (Cumm’è bella ‘a muntagna stanotte) e i fratelli Paolo e Vittorio Taviani (Meraviglioso Boccaccio). Ha ottenuto 300 mila euro anche Carlo Verdone (solo per la distribuzione) per il suo Sotto una buona stella, e centomila di più ne ha strappati Michele Placido con La scelta. Non mancano Francesca Archibugi (Il nome del figlio), che ottiene 500 mila euro, né Marco Bellocchio (La Prigione di Bobbio) e Cristina Comencini (Latin lover) che hanno incassato 400 mila euro di contributi pubblici. Fra i nomi noti strappa 350 mila euro Abel Ferrara per un film su Pasolini, stessa somma ottenuta dal regista più amato dalla Lega, Renzo Martinelli con il suo The missing paper. Hanno invece chiesto e ottenuto al posto dei contributi il riconoscimento di film di interesse culturale sia Nanni Moretti per il suo prossimo Margherita che Carlo Vanzina per Sapore di te, appena uscito nelle sale e perfino Enrico Vanzina per Un matrimonio da favola. È proprio un bello scherzo fatto da Bray, quello di mettere appaiati sullo stesso altissimo piano il cinema di Moretti e quello dei Vanzina. Il riconoscimento di interesse culturale è stato ottenuto a dicembre anche da Giovanni Veronesi (Una donna per amico) e da Paolo Genovese (Tutta colpa di Freud). Bocciati perché è stato ritenuto assai scarso il valore del soggetto e della sceneggiatura sia la Guzzanti, che ha ottenuto 28 punti nella valutazione finale, ben al di sotto del minimo di 36 utili ad essere presi in considerazione per finanziamenti e riconoscimenti, e anche Asia Argento (figlia del maestro dell’horror Dario), che ha proposto il suo Incompresa. Non è stato appunto compreso dalla sottocommissione ministeriale di Bray, che comunque ha assegnato a soggetto e sceneggiatura il punteggio di 34, a un soffio dalla sufficienza, e ben superiore a quello ottenuto dall’altra silurata eccellente. Grazie a questa piccola rivoluzione nelle classifiche tradizionali dei beniamini del ministero, qualche maldipancia a sinistra verrà certamente vissuto. Può diventare un caso politico quella sliding door grazie a cui è entrato Veltroni ed è uscita di scena la comica più amata dall’ala militante. Può attutire il colpo l’occhio di riguardo mostrato per Pif, ma non toglierà il sospetto su una bocciatura che sembra avere una fisionomia più politica e istituzionale che stilistica.
La notizia è che Film commission della regione Toscana è riuscita a elargire decine di migliaia di euro per finanziare il filmino di due indagati in diverse inchieste giudiziarie, scrive Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. Il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli, quando apprende la vicenda, scuote la testa: «Pensi che la Regione Toscana per mettere a posto i conti ha chiesto ai suoi cittadini di pagare, oltre al ticket, una gabella di 10 euro, con la scusa della digitalizzazione, per tac, radiografie e altri esami diagnostici anche se i pazienti sono poveri o malati terminali». La nostra storia riguarda Paolo Oliverio, commercialista quarantasettenne con la passione per gli affari con i padri Camilliani e gli 007, arrestato a novembre per sequestro di persona nell’ambito di un’inchiesta per riciclaggio. Oliverio dal gennaio 2013 è socio della Poyel produzioni, con capitale sociale di 100 mila euro, azienda trasferita a Napoli a ottobre e infine messa in liquidazione nel dicembre 2013, un mese dopo l’arresto di Oliverio. Nonostante la breve esistenza, la Poyel ha fatto in tempo, si apprende da Internet, a produrre il film «Giallo toscano», un thriller girato a Buonconvento (Siena), realizzato insieme con l’Accademia dei risorti, società di produzione cinematografica con sede proprio nel piccolo comune senese. Grazie al trailer si scopre pure che il film è stato realizzato con il contributo della Regione toscana e della Toscana film commission. Che ha versato, secondo i produttori, 30 mila euro. La trama è semplice: una mattina di giugno due tartufai in cerca di tuberi trovano il cadavere di una giovane archeologa. Inizia a questo punto la caccia all’assassino. Al film ha contribuito con la propria partecipazione gran parte della popolazione del paese. L’idea è stata del presidente dell’accademia, Lorenzo Borgogni, per quasi vent’anni influente portavoce di Finmeccanica, originario di Siena e residente a Buonconvento. La figlia Benedetta ha fatto l’aiutoregista. Anche Borgogni, come Oliverio, ha avuto le sue traversie giudiziarie: indagato nel 2011 nell’inchiesta su Finmeccanica, ha patteggiato una pena di tre mesi di reclusione per finanziamento illecito ai partiti e resta sotto processo per altri reati; attualmente è coinvolto anche nell’indagine sulle presunte mazzette pagate per la fornitura degli autobus di Roma Capitale. Tutto questo non ha impedito alla Regione Toscana di finanziare il progetto. «Ma il film di Buonconvento con Oliverio non c’entra nulla» puntualizza Borgogni con Libero. «È stato realizzato nel 2012 e la Poyel è nata nel 2013». Eppure nei titoli c’è scritto che è stato prodotto dalla Poyel: «In realtà l’abbiamo inserito in quel catalogo per vedere se si poteva domandare qualche contributo con questa nuova società. I soldi dalla Toscana film commission li abbiamo ottenuti come Accademia dei risorti, di cui sono presidente: 25-30 mila euro in tutto». La toppa sembra peggiore del buco: il pluriindagato Borgogni ottiene denaro pubblico per un’opera sul suo paese e poi con una società affidata a Oliverio e che millanta di aver prodotto un film non suo prova a ottenere altri finanziamenti. Ma come approda il fiscalista alla Poyel? «L’abbiamo fondata io e il mio amico Alfonso Gallo: lui ci ha messo dentro suo fratello e io Oliverio» risponde Borgogni. In effetti alla camera di commercio si apprende che soci al 50 per cento della Poyel sono la General holding company spa dei Gallo e Reb venture srl, in cui sono soci Borgogni e Oliverio, che possiede il 5 per cento delle quote. I due sono insieme anche nella System plus srl. «Nei giorni scorsi, dopo aver letto le notizie sulle presunte attività illecite di Oliverio abbiamo fatto dei controlli e scoperto numerose operazioni sospette e non autorizzate da Borgogni sui conti delle due società» avverte l’avvocato Stefano Bortone, difensore dell’imprenditore. «Per questo abbiamo presentato denuncia contro Oliverio per appropriazione indebita». L’ennesimo colpo di scena nella vicenda giudiziaria del fiscalista romano. Eppure i due erano diventati amici, dopo essersi incontrati per la prima volta tre anni fa: «L’ho conosciuto nel settembre 2010 quando ero ancora in Finmeccanica e cercavo un commercialista. Me lo presentò come professionista dello studio Lupi, un compaesano, un ex giocatore della nazionale di calcio che lo conosceva dai tempi di Milano» ricorda Borgogni. Dopo poco i due si persero di vista. Per poi rincontrarsi qualche mese più tardi: «Quando uscii da Finmeccanica Oliverio mi propose di realizzare un’attività immobiliare perché era in contatto con questa fondazione dei Camilliani che aveva molti appartamenti da valorizzare. Per questo abbiamo fondato la Reb venture, io ci ho messo i soldi, lui faceva l’amministratore. Successivamente mi ha detto che erano stati fatti dei compromessi per delle vendite, ma io non so come sia andata a finire». I due condividevano anche un ufficio a Roma, in via Gregoriana: «Ma io ci sono entrato una sola volta, poco prima che arrestassero Oliverio» aggiunge l’ex portavoce di Finmeccanica. Borgogni frequentava pure la casa del commercialista in piazza di Spagna: «Uno splendido appartamento all’angolo con via del Babuino. Ricordo che una sera a cena c’era pure padre Renato Salvatore (superiore generale dei Camilliani, arrestato insieme con Oliverio per l’accusa di sequestro di persona ndr); il commercialista nove volte su dieci parlava dei Camilliani, delle loro proprietà a Casoria, Palermo, Messina, mi chiedeva se avessi dei manager. Gliene trovai uno che lui, però, non ricontattò mai, perché cambiava continuamente idea. Il personaggio era strano, io me ne accorsi dopo un po’: per esempio non si presentava agli appuntamenti, trovando le scuse più assurde». Come quando Borgogni gli fece acquistare una casa a Montalcino del valore di 700 mila euro: «Io gli fissavo gli appuntamenti con l’architetto, con l’ingegnere per la ristrutturazione e lui a volte non si presentava nemmeno». Con i commensali, Oliverio parlava anche del suo amore per le auto: «Girava in Mini, in Range Rover, ma aveva una grande passione per i rally. Ultimamente aveva fatto una gara a San Marino, dove aveva rotto la macchina». Forse quella Lancia Delta che gli investigatori sguinzagliati alle sue costole nel 2012 hanno imbottito di microspie e che Oliverio aveva acquistato di seconda mano, pagandola 9.400 euro. Il commercialista non aveva rapporti solo con i preti, ma anche con diversi appartenenti alla Guardia di finanza e ai servizi segreti. «Lui mi parlava di Giorgio Piccirillo (dal 2008 al 2012 direttore dei servizi segreti interni, l’Aisi ndr) e citava pure Paolo Poletti (ex numero 2 dell’Aisi ndr)» ricorda Borgogni. Due nomi già emersi nelle indagini. Ma ci sarebbero molti altri personaggi influenti nell’agenda di Oliverio. Uno dei collaboratori del fiscalista, arrestato con lui a novembre, davanti al gip ha dichiarato: «Io mi fidavo di Oliverio perché quando gli squillava il telefono io vedevo nomi noti. Vantava amicizie con A. B., ma più semplicemente con personaggi di alto rango istituzionale, con il presidente di Finmeccanica, con Lorenzo Borgogni. (…) Mi faceva vedere le telefonate forse per aumentare il suo credito nei miei confronti, io ancora non so chi sia questa persona». Un dubbio che perplime pure gli inquirenti.
Chi taglia i fondi spesi male non è nemico della cultura. Repubblica invoca la protezione del cinema italiano come avviene in Francia: ma così sarebbero finanziate solo le pellicole della solita matrice ideologica, scrive Renato Brunetta Sono tornati con i loro costumi damascati, la parrucca incipriata, la lingua forbita. Invocano l'intangibilità di un privilegio sacro: il cinema non si tocca! Così sabato Francesco Merlo su Repubblica ha stabilito che esiste un tempio intangibile ai comuni cittadini che, poveretti, sono costretti a fare i conti con il mercato globale. Gli imprenditori del tessile, e gli artigiani del mobile si arrangino. Non pretendano di dar lezioni ai sacerdoti del Sancta Sanctorum, il quale va preservato da mani immonde e venali: è la cultura, figlioli! Essa va difesa dai barbari americani e asiatici, da Hollywood e da Bollywood. La cultura, certo, va difesa. Senza cultura non esiste neanche l'uomo come tale. Il fatto è che bisogna pur stabilire che cos'è la cultura, e chi tra i suoi protagonisti meriti una tutela eccezionale. Ciò che è insopportabile è l'ipse dixit. È insopportabile e niente affatto democratico che Francesco Merlo ed altri pretendano di trasferire in Italia la legislazione francese sul cinema, e vogliano sigillare questo privilegio nella legislazione europea. Diciamolo: è l'eterna pretesa del carrozzone dello spettacolo e dei suoi tenutari di erigersi da se stessi a sovrani del mondo. Lo conosciamo quel vagone di primissima classe. Era dipinto di nero sotto il fascismo, si ritinteggiò di rosso e si lamenta sempre perché vorrebbe più rifornimenti e più riverenze al passaggio. Cambiano i regimi, ma non la rendita di chi vi si è accomodato con il biglietto pagato dalla gente comune. Ragioniamo da persone civili. Non è in discussione se finanziare la cultura: si tratta di stabilire cosa e come. I principi sono fissati dall'articolo 9 della Costituzione, che recita: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». L'attribuzione del compito di tradurre questi principi in scelte operative, e la fissazione della forma e dei modi di svolgimento di questo compito, come è accaduto per diverse altre previsioni costituzionali, ha subìto varie mutazioni. Alcune felici, altre meno. Un po' di storia. Solo nel 1975 (governo Moro-La Malfa) fu istituito un ministero con compiti specifici, il ministero per i Beni culturali e ambientali, per volontà di Giovanni Spadolini, cui fu affidato. Nel 1998 nacque il ministero per i Beni e le attività culturali. Il passaggio della cura dello spettacolo da un ministero con finalità economico-industriali importanti (sport, turismo, spettacolo) a un ministero che doveva promuovere attività culturali non fu certamente casuale e costituì la premessa per le successive confusioni ideologiche. È bene ripartire dalla prima domanda: perché le arti e la cultura devono essere sussidiate? E ancora, assieme alle arti e alla cultura deve anche essere sussidiato lo spettacolo? Quando lo spettacolo - quello dal vivo e quello cinematografico - diventa cultura? L'arte e la cultura sono sussidiate in tutto il mondo. Per quanto riguarda lo spettacolo, in Italia gli aiuti statali sono anteriori all'istituzione, negli anni Ottanta, del Fus (Fondo unico per lo spettacolo). Per quanto riguarda il cinema, è utile oggi ricordare che nel 1963 fu introdotta una norma che subordinava l'erogazione del sussidio al divieto di realizzare opere in lingua inglese. La smentita venne da chi più se ne intendeva. Dino De Laurentiis ha più volte dichiarato che la decisione di trasferire la sua attività negli Stati Uniti fu causata da quella innovazione normativa. A questo punto s'impone un po' di sana teoria economica. Data la distribuzione esistente del reddito, i mercati competitivi soddisfano in modo ottimale, nella gran parte delle circostanze, le preferenze dei consumatori. In base a ciò ci sono due argomenti principali, e un terzo che li rafforza, per giustificare i sussidi pubblici. Il primo argomento ha a che fare con l'efficienza allocativa dei mercati. In presenza di certe imperfezioni che generano un'esternalità (negativa o positiva), una qualche forma di «fallimento di mercato» conduce a un'allocazione delle risorse non ottimale, che è l'oggetto dell'intervento pubblico correttivo. Un secondo tema ha a che fare con l'equità della distribuzione del reddito. La tesi può essere usata a sostegno di un intervento pubblico se si dimostra che la distribuzione ineguale del reddito rende l'arte e la cultura inaccessibili ai poveri. Il terzo argomento ha a che fare con il concetto di bene meritorio. I beni meritori sono quei beni che la società ha deciso, per qualche motivo, che sia desiderabile fornire in quantità maggiori di quelle che i consumatori acquisterebbero ai prezzi di mercato (senza sussidio). Per i beni artistici e culturali si può argomentare che l'ignoranza delle arti priva molte persone di esperienze da cui trarrebbero grande giovamento. In conclusione, il sussidio pubblico è giustificato essenzialmente dal fallimento del mercato nel produrre la quantità socialmente ottimale di arte e cultura. Ecco perché il finanziamento delle attività culturali pone non pochi problemi. Si può, infatti, decidere di sussidiare l'industria cinematografica semplicemente per proteggere gli occupati di quel settore giudicato per qualche motivo un settore sensibile, così come si può decidere di effettuare investimenti infrastrutturali utili al settore o sostenere scuole di formazione. Il cinema italiano sarà competitivo solo con produttori che rischiano in proprio, non con produttori che si limitano ad amministrare l'obolo pubblico. Il che vale in generale. Concludendo, aver mescolato «ministerialmente» la cultura e lo spettacolo ha complicato e confuso le cose. Ha prodotto una grande e ignobile mistificazione: ogni volta che si chiede di tagliare il denaro speso male (e cioè di fare più efficienza, produttività, mercato, trasparenza, qualità e merito) c'è subito qualcuno (interessato) che ti taccia d'essere un becero nemico della cultura. Oggi la protezione del cinema italiano, applicando la legge francese e «repubblichina» alla Francesco Merlo, porterebbe all'aumento dei biglietti dei cinema per le opere non europee. Con il risultato che chi non ha i gusti raffinati di Francesco Merlo, che si imbeve di Godard e squisitezze sublimi, si vedrebbe costretto per risparmiare a entrare nelle sale dove si cimenterebbe con qualche sicuramente interessante opera prima o seconda di allievi selezionati dai kapò del cinema italiano, tutti di una certa matrice ideologica... Vogliamo essere liberi di essere noi stessi, senza essere educati dai Merlo incipriati. Come diceva Pirandello, «gente volgare, noialtri...».
A proposito di stampa, sinistra e finanziamento pubblico, scrive Jacopo Venier, direttore di Libera.Tv. Solidarietà al Manifesto e a Liberazione ma...In questi giorni in tantissime redazioni di giornali politici e cooperativi si vivono ore drammatiche. Il quotidiano Terra è stato il primo a cadere, poi è venuto il turno di Liberazione ed ora è il Manifesto a dover piegarsi alla liquidazione coatta. Anche l’Unità è in pericolo mentre a Nuova Ecologia non si pagano gli stipendi. Decine di altre testate sono sull’orlo del baratro. E’ questa la conseguenza del taglio drastico dei finanziamenti all’editoria deciso dal Governo Berlusconi e confermato da Monti. Con la scusa di riordinare il settore, tagliando le “testate finte” che servono solo per ottenere il finanziamento pubblico, si sta producendo una moria di “testate vere” che fanno informazione spesso scomoda. Ovviamente la prima risposta necessaria è la piena solidarietà con queste testate, con i professionisti che le realizzano, con la loro battaglia per difendere, non solo il loro lavoro, ma un pezzo del pluralismo e quindi della democrazia. Ieri la direttrice del Manifesto, in un drammatico video-editoriale, si è appellata ancora una volta ai propri lettori perché comprino il giornale in edicola ed ha dichiarato che questa lotta per la sopravvivenza è lotta politica. Sono perfettamente d’accordo con lei MA vorrei aggiungere alcune considerazioni di fondo. Perché siamo arrivati a questo punto? La crisi dell’editoria di sinistra non è solo finanziaria ma, come in qualche modo ammette Norma Rangeri, prima di tutto politica. Esistono giornali come Il Fatto che sono nati proprio quando altri entravano definitivamente in crisi. Le testate, in un sistema funzionante, dovrebbero nascere e morire non perchè ricevono o meno finanziamenti ma se sono capaci di rispondere ad un bisogno dei lettori, degli ascoltatori, dei telespettatori, di coloro che si informano sul web. Invece nessuno affronta questa crisi politica delle testate della sinistra quasi che sia un eresia dire che come i partiti anche il giornalismo di sinistra ha perso nel tempo la sua “connessione sentimentale” con il proprio popolo. Se servono appelli drammatici per far partire sottoscrizioni, vendite ed abbonamenti il problema invece esiste ed è grave. Parliamone. Parliamo anche poi del fatto che esistono anche centinaia di esperienze editoriali, di redazioni formali ed informali, di luoghi e di professionalità dove si produce informazione di qualità senza alcun finanziamento pubblico. Questo è un punto delicato. Da anni infatti, giustamente, le testate che rientravano nel quadro del finanziamento pubblico ci chiedono di unirci a loro nel pretendere che lo Stato contribuisca al pluralismo finanziandole. E’ una battaglia giusta MA solo se vediamo che forse il finanziamento non è una soluzione ma parte del problema. Nell’immediato è evidente che è necessario rifinanziare queste testate per impedire che spariscano di colpo esperienze importantissime, storiche, di valore culturale oltre che politico. Però è possibile che i giornali e le testate della sinistra possano vivere solo con i soldi dello Stato? Vivere di finanziamento pubblico significa essere impiccati ai governi e, nel tempo, assumere comportamenti non sempre compatibili con la propria missione. Questo vale sia per i giornali che per i partiti. Dice la direttrice del Manifesto che ora come non mai i suoi lettori devono comprare il giornale. Ha ragione. Sono i lettori la forza di una testata e questa deve rapportarsi e misurarsi con il loro numero. Tutte le testate hanno bisogno del sostegno dei loro lettori. Ma quelle che non hanno un finanziamento pubblico, nè possono sperare di averlo, hanno bisogno dei loro lettori più delle altre. I lettori ed il loro numero non sono una variabile indipendente, un dettaglio. Se una testata parla a tremila persone questo è il suo peso. Lo dico perchè non sempre è chiaro se i giornali sono stati fatti per i lettori, per i giornalisti che li fanno, o per chi procurava o potrà eventualmente in futuro assicurare il finanziamento. Lo dico perchè al netto della storia, della influenza, della presenza nelle rassegne stampa e nelle mazzette non sempre la diffusione delle testate e dei loro contenuti è quella che la storia ci consegna soprattutto nell’epoca di internet. Le imprese editoriali, anche quelle di sinistra, devono avere anche una loro sostenibilità economica. Il direttore di Liberazione Dino Greco, in una intervista che gli ho fatto per Libera.tv, diceva che le vendite e le sottoscrizioni, pur generose, non riusciranno mai a sostenere il giornale. Beh questo è un problema, un problema serio che non trova risposta dal finanziamento pubblico. Se un giornale non può vivere di vita propria è sempre esposto al rischio di doversi piegare per sopravvivere. A Greco rispondo che in Italia esiste un mercato immenso per la stampa di sinistra. Ci sono oltre tre milioni di persone che si considerano di sinistra a cui vendere i nostri prodotti. Dobbiamo interrogarci su come farlo e soprattutto su quali prodotti queste persone possano essere interessate a comprare. Questo è molto, molto chiaro a chi deve far quadrare un bilancio senza contare che sulle proprie risorse. Noi (testate e giornalisti) dobbiamo cambiare e cambiare molto. Al contempo dobbiamo mandare al “nostro popolo” un messaggio chiaro. Se la sinistra vuole la sua stampa deve sapere che se la deve pagare. Un tempo questo era a tutti chiarissimo. Nessuno avrebbe pensato che De Gasperi finanziasse la stampa comunista. Ed allora si facevano le feste dell’Unità, gli abbonamenti, le distribuzioni e la raccolta pubblicitaria casa per casa, negoziante per negoziante. Reperire soldi per la stampa era il cuore della militanza politica. Non sarà che anche a causa del finanziamento pubblico questa pratica, che chiariva la natura intrensicamente partigiana della professione giornalistica, è andata perduta sostituita dalla passiva attesa dei soldi dello Stato o dalla ricerca del sostengo di “imprenditori democratici” che poi sempre imprenditori sono? Se non si impara da questa crisi non si imparerà mai. Per ricominciare serve un patto per l’informazione libera e critica dove tutti, piccoli e presunti grandi, possano stare sullo stesso piano. Bisogna che tutti partano dal presupposto che la morte dell’altro non è uno spazio che si apre ma una opportunità che si chiude. Bisogna che finiscano le gelosie di testata ed anche un modo burocratico e corporativo di sentirsi giornalisti anche durante le crisi aziendali. Per ricostruire l’informazione di sinistra serve innanzitutto un bagno di realismo e di umiltà che consenta di costruire progetti sostenibili anche economicamente, adeguati ad una comunicazione moderna dove, ad esempio, la carta, pur rimanendo importante, non è più il centro. Prima di tutto però serve una scelta politica chiara che dimostri nei fatti la natura “critica” di questa informazione, la sua impermeabilità agli interessi economici dominanti, la sua avversità ad ogni burocrazia politica o sindacale anche quando questa controlla “i cordoni della borsa”. Fare informazione è battaglia quotidiana. Si può fare. Lo spazio c’è ed il futuro anche. Basta vederlo e basta volerlo.
POVERA TRIESTE: DISINFORMAZIONE, ILLEGALITA' E CONNIVENZE DELLA MAGISTRATURA.
Come funziona l’informazione a Trieste, terminale d’Italia, città europea, è il titolo di una lettera inviata ad Oliviero Beha. Ieri il Circolo Miani aveva con il consueto preavviso convocato una Conferenza Stampa, spedendone gli inviti via fax ed e-mail all’Ansa, al Primorski, al Piccolo, alla Rai regionale, a Telequattro ed Antenna Tre, tra gli altri. Aveva fissato l’ora dell’incontro alle scomode, per la gente, 12 in modo da favorire le redazioni televisive, come concordato in anticipo con Telequattro. Poiché gli argomenti oggetto dell’incontro con la stampa avevano una certa importanza per Trieste, erano presenti pure una quarantina e passa di cittadini, alcuni avevano dovuto prendere apposito permesso sul posto di lavoro per partecipare nella sede del Circolo a quell’infelice ora, in rappresentanza dei Comitati di Quartiere che a Trieste vanno territorialmente da San Vito a Muggia compresa: un’area dove vive oltre un terzo abbondante dei residenti nella provincia. Il tema dell’incontro era stato ovviamente annunciato nell’invito spedito alle redazioni e non lo ripeteremo qui ma comunque chiunque può leggerselo sul sito circolomiani.it nel pezzo titolato appunto Conferenza Stampa e Somma indifferenza, acclarata incapacità. Non si è presentato alcun giornalista o cameramen, gli ultimi in verità e forse perché non pecchiamo di vanità ci interessano poco o niente, senza nulla togliere alla dignità del loro lavoro, e le quasi cinquanta persone presenti hanno fatto come se ci fossero. Ovvero per oltre un’ora hanno ragionato sulla situazione ed hanno deciso le prossime iniziative a partire dalla manifestazione-assemblea cittadina da organizzarsi per la seconda metà di giugno in piazza Unità. Questo appena descritto non è altro che un ordinario episodio della più che decennale censura con cui la stampa di ogni ordine e grado, operando in un regime di sostanziale monopolio informativo, ha trattato le iniziative realizzate a Trieste dal Circolo Miani a partire grossomodo dall’anno 2000. Quando invece ne ha parlato è stato praticamente quasi solo per denigrare la credibilità di Maurizio Fogar e del Circolo da lui presieduto, in perfetta sintonia con la politica anche qui di ogni ordine, colore e grado, che ha sempre visto, salvo la lodevole eccezione di Igor Kocijancic e forse uno o due altri, la vasta partecipazione della gente e della nostra comunità, che nessun altro a Trieste, sia esso partito, sindacato o associazione, ha avuto, e la forte credibilità duratura nel tempo di cui il Circolo gode, come un mortale pericolo per la status quo della politica, del sottopotere e degli affari, in città. Ma proprio perché è l’ennesimo episodio di questa vergognosa saga esso assume una valenza importante su cui merita ragionare. A partire dall’assoluto silenzio-consenso di tutte, e qui sottolineiamo la parola tutte, forze politiche, intellettuali, istituzionali e quant’altro di Trieste. A cominciare da quelle che si vantano di combattere questa informazione “serva e pilotata”, sono parole loro anzi di più uno slogan; di riaffermare un giorno si e l’altro pure che “bisogna dare voce ai non garantiti” alla “società civile”, che se però non sei almeno rettore, imprenditore o notaio ed avvocato di grido, è meglio che stai zitto tanto ai loro occhi, meno che nei venti giorni di campagna elettorale, non conti un cazzo, e non sei certamente “civile”, un po’ come il voto per censo ottocentesco. Per continuare alla belinata strascicata da anni della “partecipazione”, dell’“ascolto” del territorio, dell’apertura alla gente che i partiti, PD in testa, ripetono come un mantra e con una credibilità che il solo dato ultimo della partecipazione al voto alle recenti elezioni regionali FVG basta a distruggere: a Trieste comune ha votato poco oltre il 40% degli aventi diritto ed in provincia il 43,43%. Ovviamente nessuno ne ha parlato se non per un giorno e qualche titolo di giornale, anche qui nel silenzio più globale del mondo informativo italiano, a riprova che Trieste conta meno di niente in Italia non solo nella politica ma anche sulla stampa che invece si scandalizzava perché quasi il 50% degli elettori altrove non votava. E di Trieste dove si sfiorava il 60%? Zitti e cuccia. Inoltre gli argomenti trattati nella Conferenza Stampa erano proprio quelli che informazione e politica gradivano di meno. Ma qui bisogna fare un passettino indietro: a quel servizio a firma Adriano Sofri apparso su Repubblica in gennaio e mai, anche qui un’anomalia visti i precedenti, ripreso o citato dal giornale locale del gruppo De Benedetti. Anzi il piccolo giornale ha qui invece pubblicato una smentita, al contrario proprio di Repubblica, spedita dal portavoce del sindacato dei giudici su sollecitazione della Procura di Trieste, piccata per i giudizi, la pura verità dei fatti, contenuti nell’articolo di Sofri. Meraviglioso: si smentisce dunque una notizia mai pubblicata. Ma questa è la deontologia, anzi come la pomposamente declamano, l’etica professionale del giornalismo italiota e soprattutto triestino. Dunque il riportare all’attenzione dell’opinione pubblica locale il diverso e conflittuale comportamento adottato sulla Ferriera di Trieste dalla Procura locale, confrontandolo invece con l’operato di Procura e Tribunale di Taranto sull’Ilva, vedi il recente sequestro per 8 miliardi e passa dei beni dei proprietari Riva e gli arresti dei vertici della Provincia pugliese, a cominciare dal Presidente, era per la stampa locale cosa disdicevole assai. E pertanto che fanno, va bene censurano in coro l’iniziativa del Circolo, e all’unisono a partire dalla RAI-servizio pubblico con canone annesso perché se uno ne parla salta tutto, e così evitano di raccontare ai triestini e muggesani che in Ferriera, ad esempio hanno creato da tempo, da quando la dirigeva l’attuale consulente, ma guarda che combinazione, della giunta comunale Cosolini, una vera e propria discarica abusiva di migliaia di tonnellate di loppa, i cui fanghi tossici finiscono regolarmente nelle verdi acque del Golfo di Trieste, e che, sempre ad esempio, l’altoforno in funzione perde quotidianamente 30.000 e più metri cubi del più cancerogeno gas esistente. Insomma la censura coglie i classici due piccioni con una fava. Ma non pago il piccolo giornale piazza lo stesso giorno della Conferenza Stampa – una semplice e fortuita coincidenza nevvero? – del Circolo una paginata, con foto, di intervista al Procuratore Capo facente funzioni, dopo la dipartita per Treviso del titolare precedente, passato alla storia della Ferriera per le sue due interviste agostane, una ad ogni estate, sulle inchieste e sulle indagini, che oramai da quasi tre anni il suo ufficio aveva in corso sui mancati controlli di Arpa, Ass, Regione, Provincia e Comune, e perché no, aggiungiamo noi, della Procura, e sui controllori “distratti”. Una indagine da carta stampata perché a quasi tre anni di distanza salvo le due interviste in fotocopia, nulla di concreto è risultato. Dunque sul piccolo giornale il Sostituto Procuratore facente funzioni, Federico Frezza, si confessa biograficamente ai lettori. Non se ne avrà a male ma il titoletto dei bigliettini notturni è degno del miglior Cuore di Edmondo De Amicis, come l’implicito invito ad attendere “i venti-trenta anni” per contare i morti dell’eventuale inquinamento da Ferriera, che giurisprudenza e statistiche medico-scientifiche internazionali non fanno testo e magari sono scritte in inglese. Tralasciamo poi l’uscita sulle indagini epidemiologiche che a Taranto i suoi colleghi hanno fatto fare dall’ASS locale a tempo di record, evidentemente. Ed è proprio il magistrato inquirente che porta la responsabilità delle principali e quasi uniche indagini fatte sull’inquinamento, o meglio “imbrattamento” della Ferriera e sui conseguenti processi conclusisi sempre con una oblazione dei vertici, il neoconsulente del Comune per l’appunto e la Lucchini-Severstal, e sempre con il consenso della pubblica accusa, ovvero dello stesso PM. Insomma più o meno come a Taranto, neh! Ovviamente la grancassa continua anche oggi, sottolineando la salvezza del decreto “crisi complesse” che ha inserito anche la Ferriera, e qui tutti i politici vecchi e nuovi fanno a gara nei commenti a prendersene il merito, salvo dimenticare che se nei prossimi tre mesi non giunge al Governo e all’Europa un progetto completo e finito di bonifica e riconversione produttiva del sito, salta il banco e la festa è finita. Ora noi molto sommessamente ci permettiamo di prevedere che ci vorrebbe un vero e proprio miracolo, e lo diciamo per i lavoratori che al contrario di quanto sostiene il Maranzana di turno sul gazzettiere locale non sono “quasi 500” ma invece quasi cento in meno e l’indotto, dopo i tagli a gennaio dei contratti esterni di tutte le ditte appaltatrici, non esiste quasi più, e questa incapacità di precisare anche solo i numeri certamente non aiuta a ben sperare, perché questa classe dirigente, sindacati compresi, riuscisse nell’impresa. Visto che sono gli stessi che con un preavviso ufficiale della proprietà, che annunciava la chiusura della Ferriera già nel 2001, in dodici e passa anni non hanno partorito un’idea che è una, figurarsi un progetto dettagliato in tre mesi, bonifiche comprese. Ah, in merito ai 48.000 euro spesi dal Comune per la consulenza semestrale (scade alla fine di giugno) all’ex direttore della Ferriera, attualmente, non fossero bastate le precedenti sanzioni-condanne tribunalizie, rinviato a giudizio per alcuni reati tra cui lo smaltimento illegale di rifiuti speciali della Ferriera ed il falso, nel processo nato dalle indagini delle Procure di Grosseto e Perugia che lo avevano arrestato per 24 giorni, sotto gli occhi della Procura triestina, forse il Sindaco se il poteva risparmiare. E non solo per la questioncella delle vicende legali del Consulente, ma anche per i risultati. Non occorreva Pico della Mirandola per capire che nessun imprenditore è disposto ad investire un centesimo su di un sito dove ogni centimetro quadrato è talmente inquinato che se uno ci sputa sopra si sente ringraziare, e totalmente da bonificare a costi altissimi. Lo avevamo scritto, noi, fin dall’inizio e senza percepire uno scheo dal Comune. E le bonifiche? Vai a vedere che i sessanta-cento milioni necessari e indispensabili li dovrà cacciare il cittadino, ovvero la Stato, anche se una legge stabilisce che “chi ha inquinato paga”. Ma qui siamo a Trieste bella gente, mica a Taranto o a Udine. Avanti censura!
Trieste: diritti fiscali, porto, antimafia, politici coinvolti e giudici denunciati. Negano persino i diritti di porto franco, scrive Paolo G. Parovel su “La Voce di Trieste”. Quando vedi che l’unica città-porto franco internazionale del Mediterraneo, Trieste, ha diritti di vantaggio fiscale straordinari ma i suoi politici ed i loro media prima li trascurano, e poi li negano in piena crisi, è evidente che c’è qualcosa che non va. Quando vedi che quei politici e quei media insistono a voler regalare illegalmente mezzo porto franco alla speculazione edilizia e immobiliare raccontando balle, il qualcosa che non va incomincia a delinearsi. Quando vedi che su quell’operazione ci sono pesanti interrogativi antimafia, ma quegli stessi politici e media fingono di ignorarli, il qualcosa che non va autorizza ipotesi ancor peggiori. Quando vedi che chiunque si opponga efficacemente viene aggredito da quei politici e media locali con violente campagne stampa di diffamazione, minacce e notizie false, quelle ipotesi si rafforzano in proporzione. Quando vedi che magistrati locali e lo Stato li appoggiano partecipando, od omettendo di intervenire, il qualcosa che non va deve avere radici ancora più estese. Ma quando vedi che alcuni magistrati li aiutano falsificando lettera e interpretazione dei trattati internazionali per negare l’esistenza di quei diritti fiscali e dei diritti porto franco, inclusi i vincoli sulle aree insidiate dalla speculazione edilizia, il qualcosa che non va assume una fisionomia precisa. Un sistema di corruzione esteso e coperto. La fisionomia è quella di un sistema di corruzione coperto, concreto e completo. Intendendo per corruzione non solo i comportamenti illeciti per lucro o ricatto, ma l’insieme dei fattori dolosi, colposi e di semplice incapacità che corrompono le difese di un sistema sociale, politico ed economico mandandolo in rovina a beneficio di pochi, e talora di nessuno. Ed il sistema di corruzione così emerso a Trieste va denunciato e fermato immediatamente, perché parassita ed affonda l’unica città-porto internazionale del Mediterraneo, ne strangola cittadini ed imprese con tasse non dovute, toglie lavoro mandando la gente in miseria, e crea nuovi spazi di riciclaggio per la criminalità organizzata. Tre giudici denunciati. In una situazione così grave della comunità triestina l’ordinanza, come tale revocabile, di un collegio tre giudici che rigetta con motivazioni abnormi le eccezioni sollevate un processo civile a Trieste su questioni fiscali può sembrare un incidente minore, i cui eventuali aspetti di falso ed abuso d’ufficio dovrebbero riguardare solo le parti processuali. E non potrebbero quindi ledere interessi collettivi né meritare denunce sempre rischiose perché vengono facilmente interpretate, a torto o a ragione, come aggressioni strumentali all’indipendenza della magistratura od a singoli magistrati. Vi sono invece motivi assolutamente speciali d’interesse pubblico per cui l’ordinanza di quei tre giudici ha reso necessaria la denuncia penale che ho ritenuto di dover presentare sotto mia personale responsabilità il 25 settembre in udienza per altro procedimento a Trieste. La denuncia verrà ora trattata dalla Procura e dal Tribunale di Bologna per competenza territoriale sui procedimenti che riguardano magistrati in servizio nel distretto giudiziario triestino. Gli interessi coinvolti. L’ordinanza aveva respinto, in un procedimento su vicenda fiscale, l’eccezione di giurisdizione dello Stato italiano sul Territorio Libero di Trieste e sul suo porto franco, creati nel 1947 dal Trattato di pace fra le Potenze Alleate ed Associate e l’Italia esonerandoli anche dal pagamento del debito pubblico italiano, e posti dal 1954 sotto amministrazione civile provvisoria del Governo (non dello Stato) italiano su mandato fiduciario internazionale. Il caso era dunque esemplare, dato che riguardava il riconoscimento dei fondamenti giuridici di tutti i diritti politici, economici, amministrativi e fiscali dei cittadini del Territorio Libero. E dal riconoscimento ed esercizio di tutti quei diritti dipendono le sole possibilità concrete di lavoro e rinascita economica di Trieste attraverso lo sviluppo del suo Porto Franco internazionale. La questione è rilevantissima e riguarda sia la popolazione e le imprese di Trieste e territorio, sia gli investitori internazionali. E nel mese di luglio 2013 il nuovo e crescente Movimento Trieste Libera ha notificato al Governo italiano, ai garanti internazionali ed alle istituzioni dello Stato italiano a Trieste un “Atto di reclamo e messa in mora” giuridicamente ineccepibile, per avviare le procedure di riconoscimento dello status della città a tutti i livelli. L’azione ha incontrato due livelli di ostacoli: il silenzio del Governo italiano amministratore, che non può contestare ufficialmente i fondamenti di diritto internazionale della questione, e lo sviluppo di attività di contrasto locali sempre più aggressive da parte di politici, partiti e media “di sistema”, con sostegni tecnici nei servizi e da parte di alcuni magistrati. La giurisprudenza fatta in casa. Mentre politici e media negano l’esistenza giuridica del Territorio Libero con campagne stampa ingannevoli, alcuni magistrati locali si sono incaricati di fornir loro falsi argomenti giuridici costruendo sul campo, con provvedimenti abnormi a catena, una pseudo-giurisprudenza fatta in casa per bloccare le rivendicazioni dei triestini consapevoli ed alimentare la propaganda negazionista. L’abnormità dei loro provvedimenti ha perciò tre aspetti caratteristici. Il primo è che interpretano i trattati internazionali su basi di dottrina e giurisprudenza politica nazionalista interna, ignorando le fonti vincolanti di interpretazione autentica (come gli atti del Dipartimento di Stato USA), e violando le regole della Convenzione di Vienna sul diritto del Trattati alle quali è vincolato anche l’ordinamento italiano. Il secondo aspetto abnorme è l’estensione delle decisioni ad argomenti che eccedono il quesito, in modo che il provvedimento giudiziario coincida clamorosamente con le esigenze speculative (in particolare a danno del Porto Franco) e propagandistiche dell’ambiente politico esterno. Si veda l’analisi della Voce sulla recente sentenza TAR n. 400/2103. Il terzo è che questo genere di provvedimenti abnormi viene immediatamente propagandato a grancassa da politici e media come fossero giurisprudenza decisiva “di grande dottrina”, talora persino anticipandoli, ed utilizzato come tale a catena in altri procedimenti giudiziari locali. L’ordinanza che nega tutti i diritti di Trieste. L’ordinanza ora denunciata dei giudici Spadaro, Pacilio e Morvay ha fatto ancora peggio della sentenza TAR, perché falsifica la lettera e travisa l’interpretazione dei Trattati al punto da affermare decadute dal 1954 tutte le norme del Trattato di pace che istituiscono e regolano il Territorio Libero inclusi tutti gli allegati, e nega così quindi tutti i relativi diritti individuali e collettivi dei triestini. E quest’ordinanza così grossolanamente falsaria non viene solo esaltata da quei politici e quella stampa (Piccolo e Primorski dnevnik in testa), ma anche utilizzata freneticamente come modello di giurisprudenza e dottrina in una quantità di altri procedimenti soprattutto da Equitalia, che in precedenza vi citava come fonte Wikipedia. Il tutto sulla pelle dei triestini che tentano di difendersi dall’imposizione ed esazione forzata di tasse non dovute, e da ingiustizie e malaffari d’ogni genere. La cancellazione dei diritti di Porto Franco. Ma se la magistratura italiana incominciasse a sostenere impunemente queste tesi politiche false e dissennate, i primi a finire cancellati sarebbero i diritti già attivi di Porto Franco internazionale fondati sull’Allegato VIII, che l’Unione Europea rispetta soltanto perché sono in vigore da prima della sua costituzione. E cancellarli significherebbe la fine delle principali attività di lavoro presenti e future dell’intero porto di Trieste: dal Porto Franco Nord con l’Adria Terminal ed i nuovi sviluppi portuali possibili, al Porto Franco Sud con i traghetti dalla Turchia, i container del Molo VII, lo Scalo Legnami, il terminale petroli SIOT dell’Oleodotto Transalpino-TAL che alimenta Austria, Germania e Repubblica Ceca, la nuova piattaforma logistica, e la riconversione portuale dell’area della Ferriera, ai retroporti di Prosecco e di Fernetti. Basterebbe già questo a liquidare definitivamente Trieste in un fallimento epocale a catena, lasciando senza lavoro tre quarti della popolazione attiva. Fermare questi abusi politico-giudiziari. È dunque evidente che occorre fermare questi abusi politico-giudiziari folli. Ed i soli mezzi legittimi immediati per incominciare a farlo era presentare denuncia penale nei confronti dei tre magistrati responsabili del provvedimento falsario più pericoloso, pubblicarla e depositarla in tutti i procedimenti dove vi sia il rischio di provvedimenti simili o su quella falsariga. Quanto alle responsabilità, quelle penali sono personali, i magistrati non ne sono esenti ed il loro ruolo pubblico le aggrava. Come per la sentenza abnorme del TAR, anche da quest’ordinanza non risulta se tutti e tre i giudici componenti il collegio l’abbiano approvata, come appare certo solo per la relatrice Giulia Spadaro, o se uno degli altri due fosse contrario o astenuto (forse il presidente Morvay). Ma gli inquirenti potranno accertarlo, compiendo le distinzioni opportune.
Caso Trieste Libera: perché il Piccolo tenta di salvare il pm Frezza accusando la Polizia? Scrive Paolo G. Parovel su “La Voce di Trieste”. Questa domanda vi sembra scandalosa? Aspettate di aver letto la risposta, cioè la ricostruzione dello scandalo giudiziario e stampa cui si riferisce. Se poi qualcuno dei coinvolti vorrà querelare si accomodi, e dimostreremo tutti i fatti narrati. Avrete sicuramente visto serie intere di telefilm sulla classica piccola città parassitata da reti trasversali corrotte di imprenditori, politici e funzionari che penetrano anche le strutture giudiziarie locali e controllano l’unico quotidiano della città, mantenendo così una falsa immagine di normalità. Dietro la quale i loro affari possono continuare coperti ed impuniti, finché la gente indignata si ribella, e loro escono allo scoperto per reprimerla. Reti di corruzione a Trieste. Ma forse non avete mai pensato che stavate vedendo quello che accade anche a Trieste. Dove decenni di strapotere corrotto analogo hanno generato infine una rivolta civile crescente che rivendica i diritti politici ed economici del Territorio Libero violati dal Governo amministratore provvisorio italiano. Che però non ha ancora reagito né bene né male, preso com’è in problemi ben maggiori. Chi ha reagito sono le reti di corruzione locali che governano e parassitano la città grazie a quelle violazioni. Mentre il ripristino della legalità (anche nella semplice forma di amministrazione fiduciaria del Governo italiano) le fermerebbe e punirebbe come meritano. E non solo nelle corruzioni ordinarie, ma anche nelle spoliazioni del porto franco internazionale di Trieste che stanno tentando d’intesa con interessi di grossi porti italiani concorrenti, e non senza tracce di mafie. Obiettivi, protagonisti, impunità. La Voce ha già analizzato, dimostrato e persino denunciato alla magistratura (sotto mia personale responsabilità) sia queste manovre nei loro obiettivi e protagonisti pubblici, sia le impunità giudiziarie anomale di costoro. Gli obiettivi sono il soffocamento dei traffici e del regime di porto franco a Trieste ed il loro spostamento su quei porti italiani. E i protagonisti pubblici formano un gruppo trasversale di politici, con rincalzi esterni eterogenei, che va dal Pd e satelliti (in prima fila Cosolini, Rosato e Boniciolli, più ora Serracchiani) a settori del Pdl e accessori (in prima fila Dipiazza, Menia ed Antonione). Appoggiati dal Piccolo (industriali veneti e Pd, direttore Possamai) con campagne di propaganda, disinformazione e diffamazione, parzialmente replicate in sloveno dal subordinato Primorski dnevnik. Tra le impunità giudiziarie vi sono, ad esempio, le inerzie totali della Procura sulle violazioni del Porto Franco, i suoi silenzi su denunce rilevanti contro il Dipiazza, e la sentenza TAR che abbiamo analizzato e denunciato sul corrente n. 29 della Voce. Anche qui vi sono naturalmente magistrati irreprensibili, ma il fatto che nelle procedure giudiziarie a Trieste accadano anche gravi abusi è notorio e documentato. Vi sono perciò pochi dubbi possibili che siamo di fronte ad un apparato locale particolare, esteso, coperto ed impunito di corruzioni dolose o colpose dentro e fuori le istituzioni. Diffamazione, provocazione ed intimidazione. I membri e beneficiari di quest’apparato hanno dunque ben ragione di essere spaventati dalla crescita di Trieste Libera, ma non possono opporre nulla di serio alle sue tesi giuridiche, che sono ineccepibili e perfettamente riconfermabili nelle sedi internazionali. Costoro si sono perciò organizzati per attaccare il movimento con campagne coordinate di diffamazione, provocazione ed intimidazione, in particolare attraverso il Piccolo e sue sinergie anomale, e già denunciate, con la Procura nella pubblicazione e nell’uso strumentale di notizie su indagini in corso di cui titolare il pm ed ora facente funzioni di procuratore capo Federico Frezza. La campagna diffamatoria. La campagna diffamatoria contro Trieste Libera è stata avviata a tappeto utilizzando l’apparato italiano e sloveno del Pd, il Piccolo, il Primorski dnevnik e parlamentari coperti dalla relativa immunità. Consiste nell’affermare od insinuare che Trieste Libera sia finanziata da Giulio Camber o da interessi occulti, anche esteri, e nel pretendere che vengano indagati e pubblicati i suoi bilanci. Sono accuse e richieste paradossali, dato che vengono dai partiti italiani nutriti di corruzioni, tangenti, ruberie sistematiche e finanziamenti pubblici, contro un movimento locale spontaneo che si autofinanzia con quasi 3000 iscritti in crescita continua, manifestazioni da oltre 2000 persone, decine di migliaia di firme raccolte e feste da 30.000 partecipanti, più i contributi degli emigrati triestini nel mondo. Le provocazioni. Le provocazioni sono invece incominciate da parte di alcuni magistrati e funzionari che a fronte di legittime eccezioni per il riconoscimento dello status giuridico di amministrazione fiduciaria italiana, e non sovranità, hanno incominciato a respingerle sempre più arrogantemente, senza motivazione o con motivazioni grossolanamente infondate e pure difformi tra loro. L’unico magistrato che ne ha iniziata regolare valutazione istruttoria è stato trasferito, e su questo caso il comportamento di un altro magistrato ha causato giovedì 18 luglio alcune proteste in aula nei confronti suoi e del Tribunale (v. La Voce n. 29, pag. 4). Che sono state immediatamente sfruttate per scatenare contro l’intero movimento Trieste Libera una campagna intimidatoria degna d’altri tempi e regimi. Ma proprio questa campagna ha fatto emergere connessioni di aspetto politico tra ambienti giudiziari e quotidiano locale. Ve ne diamo qui la ricostruzione dagli elementi d’analisi in nostro possesso. L’intimidazione giudiziaria e stampa. L’azione intimidatoria è incominciata immediatamente con dichiarazioni al Piccolo del Presidente della Sezione Penale Filippo Gullotta, che ha criminalizzato violentemente Trieste Libera chiedendo indagini della Procura. Mentre è notorio (art. 11 del codice di procedura penale) che, trattandosi di fatti riguardanti magistrati di Trieste, le indagini spettano alla Procura di Bologna. Il giornale ha pubblicato le due dichiarazioni col massimo rilievo venerdì 19 luglio, a pagina 22. Martedì 23 luglio mattina un giornalista del Piccolo chiede provocatoriamente un’intervista a Trieste Libera informando che il pm e ff di Procuratore, Frezza, ha aperto le indagini e ordinato alla Digos di acquisire o sequestrare in giornata gli elenchi di tutti i soci del movimento. Il giornalista non spiega come sia al corrente di queste notizie segrete delle indagini e ne voglia pure scrivere (l’intervista uscirà il giorno dopo: travisata, scorretta nei toni ostili e nella forzatura delle domande). Alle 13.30 Trieste Libera, essendo l’acquisizione dell’elenco degli associati un provvedimento invasivo delle libertà democratiche, non motivato e di palese valenza intimidatoria contro l’intero movimento e tutti i suoi membri, diffida e denuncia preliminarmente il pm Frezza per violazione dell’art. 11 c.p.p., trasmettendo l’atto a tutte le sedi istituzionali coinvolte ed alla stampa italiana e slovena (successivamente anche alle autorità di garanzia internazionali). Verso le 15 Il Piccolo scatena la campagna stampa pubblicando in rete la notizia seguente: «LA DIGOS ACQUISISCE LO STATUTO E LA LISTA DEGLI ISCRITTI DI TRIESTE LIBERA – Dopo la contestazione inscenata dai militanti di Trieste Libera nel corso dell’udienza di giovedì scorso in tribunale in cui si sarebbe dovuta esaminare l’eccezione di “difetto di giurisdizione italiana su Trieste”, la Digos è stata incaricata di acquisire lo Statuto del movimento e la lista degli iscritti a Trieste Libera entro oggi. Si tratta per ora di una semplice indagine conoscitiva e non risultano, allo stato, ipotesi di reato. Ampi approfondimenti sul giornale in edicola mercoledì 24 luglio.» Su tali informazioni e convinzioni Il Piccolo ha impostato nel pomeriggio anche gli approfondimenti annunciati per l’edizione a stampa del 24 luglio, dandovi per avvenuta l’acquisizione degli elenchi dei soci, e ha passato così la notizia al subordinato Primorski dnevnik. Poiché l’acquisizione degli elenchi non è invece avvenuta, appare chiaro che il quotidiano non ha attinto la notizia dalla Digos, che l’avrebbe smentita, ma da fonte della Procura, e così autorevole da non avere motivo di dubitare, e dunque di controllare, che la Digos avesse eseguito l’ordine del pm. In serata Il Piccolo ha però ricevuto sia smentite istituzionali, sia la denuncia di Trieste Libera contro il pm Frezza, e così ha modificato i propri testi originari come si vedrà più sotto. Ma non ha avvisato di questa modifica il Primorski dnevnik. Il 24 luglio il Primorski dnevnik è uscito perciò con le notizie originarie che gli aveva passato il Piccolo, dando falsamente per avvenuta l’acquisizione degli elenchi (traduciamo): «LA POLIZIA NELLA SEDE DI TRIESTE LIBERA – Poliziotti della sezione Digos della Questura di Trieste hanno acquisito nella sede del movimento Trieste Libera in piazza della Borsa il suo statuto e l’elenco degli associati. Consegneranno la documentazione alla Procura, dove si pensa ad una denuncia penale nei confronti degli associati e delle associate del movimento che la settimana scorsa hanno protestato ad alta voce in tribunale. Hanno contestato rumorosamente il giudice che ha rinviato al prossimo anno la trattazione dell’eccezione sulla giurisdizione italiana sulle aree dell’ex Territorio Libero di Trieste (TLT). La persecuzione penale degli autori della protesta è stata chiesta dal presidente del Tribunale Filippo Gullotta, mentre l’indagine sui fatti è guidata dal pm Federico Frezza, anche se, come egli afferma, non sono ancora formalizzate le ipotesi di reato. (…).» Il Piccolo dello stesso 24 luglio dedica invece all’argomento un articolo di Corrado Barbacini, messo anche in rete con l’intervista. L’articolo afferma che «LA DIGOS VUOLE» l’elenco dei soci di Trieste Libera, gliel’ha chiesto direttamente «nei giorni scorsi» e «in modo informale»; e pur ammettendo che l’indagine è stata affidata alla Digos dal pm Frezza quale magistrato titolare del fascicolo, l’articolo sostiene che si è trattato solo di un incarico di effettuare accertamenti investigativi, e Frezza «non ha firmato alcun decreto che formalizza la richiesta delle liste», dunque «si tratta al momento di una richiesta ma non di un ordine o peggio di un sequestro.» per il quale il pm potrebbe «entrare in campo con un provvedimento formale» solo in seguito. Il quotidiano non precisa invece adeguatamente la notizia essenziale che il pm è stato denunciato, con richiesta di sospensione dal servizio, per aver svolto indagini in condizioni di incompatibilità ex art. 11 c.p.p., oltre che con iniziative intimidatorie e con la massima pubblicità politica di stampa. In sostanza, dunque, il Piccolo tenta di salvare la posizione del pm Frezza scaricandolo da responsabilità sia per le informazioni al giornale sulle indagini, sia per la disposizione di acquisizione o sequestro degli elenchi degli associati del Movimento, che viene lasciata intendere fosse una sorta di iniziativa autonoma della Digos, accusandone così la Polizia per salvare lui da censure ed altre conseguenze. E per affermare comunque la fondatezza dell’operato del pm confonde addirittura fatti lasciando intendere che il 18 luglio gli attivisti di Trieste Libera fossero entrati nell’aula del tribunale «con tamburi, fischietti, striscioni, cori, slogan e bandieroni», il che non è vero. Aggiunge poi che l’inchiesta di Frezza è «un’indagine conoscitiva per capire le finalità del movimento e chi lo appoggia e anche lo sostiene finanziariamente». Collegandola così agli argomenti e scopi delle campagne diffamatorie specifiche sostenute dal giornale e dai suoi patroni politici. Ed il 25 luglio, mentre il Primorski dnevnik ha reffiticato le notizie false di ieri, Il Piccolo continua a non precisare adeguatamente la notiza essenziale del procedimento nei confronti del pm Frezza, né se questi intenda desistere o meno, e a non rettificare le informazioni fuorvianti del giorno prima. Pubblicandone anzi altre in un nuovo commento avvelenato di Barbacini su un’udienza civile di ieri, quando il palazzo ha insistito a drammatizzare provocatoriamente il problema contrapponendo ad un centinaio di manifestanti pacifici addirittura un reparto della Celere di Padova in tenuta antisommossa e facendo piantonare l’aula con 4 carabinieri e 4 poliziotti: eccessi d’effetto intimidatorio con i quali si tutela l’ordine pubblico a rovescio. Il tutto è accompagnato dalle solite propagande del Pd (Cosolini) per l’urbanizzazione speculativa illecita del Porto Franco Nord, ignorata sinora dalla Procura, e sullo sblocco delle licenze comunali a Greensisam che il Comune non ha affatto il potere di concedere.
Conclusioni:
Se ne può dedurre e concludere a questo punto che:
a) sono in corso operazioni aggressive nei confronti di Trieste Libera da parte dell’establishment politico locale che ritiene minacci i suoi interessi;
b) appare comprovata la già denunciata solidarietà operativa anomala, quantomeno di fatto, tra la Procura ed il quotidiano, che viene messo (e non per la prima volta) a conoscenza di notizie su indagini in corso del pm Frezza delle quali fare uso politico pubblico per danneggiare gli indagati a beneficio di terzi. Coprendo poi le responsabilità della Procura a costo di usare come capro espiatorio persino la Polizia;
c) se queste non sono dunque forme di corruzione, dolosa o colposa, del tessuto sociale ed istituzionale di Trieste, qualcuno ci spieghi per favore cos’altro potrebbero essere.
Integrazione d’analisi: persecuzione del difensore e ostilità ambientali abnormi, anche quali cause di esclusione o decadenza della competenza in materia degli organi giudiziari italiani operanti a Trieste. L’attacco portato congiuntamente contro Trieste Libera, col pretesto di alcuni dissensi rumorosi in udienza il 18.7, dal Presidente della Sezione Penale dott. Filippo Gullotta, dal pm Federico Frezza e dal quotidiano Il Piccolo diretto da Paolo Possamai non ha incluso “soltanto” un’indagine penale fuori competenza di legge ex art. 11 c.p.p., con pubblicazione strumentale di notizie delle indagini ed un tentativo intimidatorio di acquisizione giudiziaria dell’elenco di tutti gli iscritti (secondo il quotidiano persino dei simpatizzanti) di un movimento politico legittimo e legalitario. L’attacco pubblico dello stesso Presidente della sezione penale Gullotta, così come riferito, ed utilizzato politicamente dal Piccolo, è consistito anche nel chiedere due altre cose: una presa di posizione di categoria dei magistrati e la punizione professionale dell’avvocato difensore. Poiché il tutto può sembrare incredibile, trascriviamo letteralmente quanto pubblicato dal Piccolo del 19.7.2013, pag. 32, prudentemente virgolettato dal giornalista e ad oggi (25.7) non smentito dal Presidente Gullotta né da altri, nonostante la palese gravità estrema del fatto: “A questo punto Gulotta si aspetta, oltre all’intervento della Procura, anche una presa di posizione sia «dell’Anm», l’associazione nazionale dei magistrati, che «dell’Ordine degli avvocati, dato che ii legale di parte civile [...] ha attaccato a sua volta il giudice. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.»”. In realtà quel difensore aveva soltanto fatto il proprio dovere verbalizzando in udienza che le proteste del pubblico erano state provocate dallo stesso giudice in aula. Si tratta delle stesse proteste poi utilizzate per imbastire l’abnorme attacco politico-giudiziario e mediatico coordinato contro l’intero movimento. E la punizione del difensore è una violazione totale ed inconcepibile dei principi costitutivi fondamentali del diritto. La gravità intrinseca ed ambientale di queste iniziative istituzionali abnormi del Presidente della Sezione penale è stata confermata dal fatto che l’Anm provinciale risulta avere preso posizione pubblica immediata nel senso da lui richiesto, coinvolgendo così tutti i propri iscritti presso il Tribunale di Trieste, nessuno dei quali risulterebbe essersene dissociato, mentre l’Ordine degli Avvocati non risulterebbe essere intervenuto a censura del difensore, ma nemmeno a suo doveroso sostegno. E non sono intervenute nemmeno le altre istituzioni e organizzazioni politiche “democratiche”. Se ne deduce dunque per prove pubbliche e concrete che l’ambiente giudiziario, forense e politico di Trieste, nel suo insieme e con le ovvie nobili eccezioni di singoli magistrati, avvocati od attivisti dei diritti civili, garantisce i diritti della difesa anche al peggior delinquente, com’è giusto, ma li nega in un clima giudiziario, politico e mediatico indegno, da linciaggio combinato ed intimidazione pubblica grave, ad un unico genere di soggetti individuali e giuridici ed ai loro difensori. Cioè a quelli che contestino pacificamente, con argomenti di diritto ineccepibili e quali titolari dei relativi interessi legittimi, il fatto che Trieste ed il suo Porto Franco sono dal 1954 Territorio libero in amministrazione fiduciaria del Governo italiano su mandato internazionale, e non possono essere perciò considerati e trattati (politicamente, giudiziariamente, amministrativamente, fiscalmente, ecc.) come fossero territorio dello Stato italiano. Questa situazione repressiva, ora notoria, porta inoltre ad escludere per legittima suspicione od ex art. 11 c.p.p. la competenza del Tribunale e degli altri organi giudiziari di Trieste per tutti i procedimenti comunque attinenti la questione del Territorio Libero in relazione a parti coinvolte. Ma le spese generate dallo spostamento dei procedimenti a sede non compromessa non possono venire addebitate alle parti processuali, che devono esserne perciò esonerate o risarcite a carico dall’autorità giudiziaria italiana. Se occorreva, inoltre, una prova concreta, attuale e azionabile nelle sedi di garanzia internazionali, della repressione di quei diritti specifici, ma anche di diritti generali, dei cittadini e della collettività locale da parte delle istituzioni italiane a Trieste, l’hanno fornita ora i magistrati Gullotta e Frezza, il quotidiano Il Piccolo e quel contesto politico ed istituzionale consenziente in forma attiva o passiva. A danno perciò anche degli interessi legittimi e dell’immagine del Governo e dello Stato italiani, e a vantaggio soltanto degli ambienti trasversali che a Trieste supportano e sfruttano, da sempre e tuttora, il nazionalismo di confine. Con un’ombra ulteriore in tal senso, che viene dal passato e della quale sono stato testimone diretto. Il mio primo motivo di scontro stampa con lo stesso magistrato Filippo Gullotta (o Gulotta) a Trieste risale infatti al 1989, quand’era giudice istruttore nel noto, delicatissimo caso giudiziario e politico dell’incidente internazionale che costò la vita ad un giovane pescatore gradese e che fu oggetto di strumentalizzazioni pubbliche d’ogni genere. Avevo reso evidente al giudice Gullotta con atto pubblicato sull’allora Meridiano di Trieste (n. 37: copertina e paga. 24, reperibile anche in rete) che il perito balistico da lui scelto, Marco Morin, risultava indagato dal Tribunale e dalla Procura di Venezia (g.i. Casson, proc. Siclari) per contatti eversivi e per manipolazioni delle prove della strage di Peteano a favore di servizi deviati. I quali in quest’area coltivavano operazioni criminose proprie e contrarie agli interessi euroatlantici, incolpandone gli USA col favore della sinistra.Ma il perito rimase egualmente incaricato per tutto il processo, che come evidente dall’analisi degli atti ebbe poi conduzioni ed esiti secondo le aspirazioni di quegli ambienti, lasciando perciò una quantità di interrogativi tuttora irrisolti.
«Denunceremo i giudici del Tar e tutti i magistrati di Trieste resisi responsabili di decisioni che violano le clausole del Trattato di pace. Contro una sentenza (quella del Tar) che definiamo un delitto internazionale, poiché poggia su basi politiche e non su basi giuridiche, potremmo ricorrere al Consiglio di Stato», scrive “Il Piccolo”. I leader del Movimento Trieste libera ieri sera nel corso di un’assemblea pubblica trasmessa in diretta via web hanno reso nota a iscritti e simpatizzanti la loro “lettura” della sentenza del Tribunale amministrativo del Friuli Venezia Giulia che, in 65 pagine, in sostanza respinge le tesi giuridiche avanzate dal Movimento per reclamare l’indipendenza di Trieste e avvalorare la tesi del difetto di giurisdizione della magistratura italiana nel capoluogo giuliano, accusando Roberto Giurastante, capofila del ricorso, di una serie di reati. «Dall’istigazione a delinquere all’abuso della credulità popolare, fino all’eversione» come ha precisato in pubblico l’interessato. Dopo avere definito «molto fantasiosa» l’impostazione della sentenza, classificandone il punto 23 come «una violenza anche contro il codice italiano», che rieccheggia atmosfere «da Tribunale speciale dell’epoca fascista», Giurastante ha affermato che con tale atto «siamo arrivati alle minacce». Ma contro «la furia distruttrice dei magistrati» i capi di Trieste libera hanno dichiarato che «dimostreremo la capacità di reagire dei cittadini di Trieste; la nostra richiesta di rispetto delle norme non può essere soppressa, quindi impugneremo nelle sedi competenti». Anche di fronte a qualche richiesta di dettagli da parte dell’uditorio, l’avvocato Nicola Sponza è intervenuto a supporto. «Gli esperti internazionali che abbiamo interpellato - ha spiegato - ci hanno detto che non siamo visionari. Non in Italia ma all’estero c’è, sul Territorio libero di Trieste, una ridocumentazione storica sul Memorandum di Londra e una discussione sui trattati internazionali» che propenderebbero per le tesi del Mtl. Come le tesi di «accademici e avvocati internazionali di cui non faccio il nome per motivi di sicurezza». «C’è tanto lavoro da fare, abbiate fiducia», è stata l’esortazione finale.
Serracchiani taglia i fondi al sociale e ai malati. Accusa Pdl: tolti 140 milioni a sanità e assistenza, foraggiate le associazioni "rosse", scrive Cristina Bassi su “Il Giornale”. Tagli spietati al sociale, sacrifici imposti a famiglie, anziani e disabili, disoccupati dimenticati, stangata su sanità, assistenza e ospedali. Interventi ispirati dal più cinico liberismo di centrodestra? No, è la Finanziaria regionale di una giunta di centrosinistra, quella della renziana Debora Serracchiani. «Una legge Finanziaria che fa i conti con una realtà fatta di risorse scarse, ma che non abbandona nessuno e guarda al futuro», ha annunciato la presidente del Friuli Venezia Giulia. L'opposizione non la pensa così. Prevedibile, si dirà. Non fosse che i numeri alla base delle critiche del Pdl fanno impallidire il caso del finanziamento dato dalla Serracchiani al maneggio che accudisce il suo cavallo. La governatrice renziana ha tagliato 120 milioni di euro ai danni della sanità regionale e 21 milioni (-7% rispetto al 2013) a spese delle politiche sociali, che oltre ai servizi sociali comprendono le misure a favore di maternità, disabilità, anziani, infanzia. Anche il bonus bebè per le famiglie in difficoltà - che Letta a Roma ha confermato - è stato cancellato. Al contrario, fiumi di soldi per un totale di circa 2 milioni, sono andati a decine di associazioni culturali vicine alla sinistra. «Siamo stupiti da questa forte riduzione dei fondi ai settori sanitario e socio assistenziale, che dovrebbero essere la priorità per una giunta di centrosinistra - sottolinea il consigliere regionale Pdl Luca Ciriani - E la beffa è che la Cgil applaude alle scelte della presidente. Gli investimenti a favore delle attività produttive inoltre sono stati rimandati a primavera. In compenso, e nonostante l'austerity, 14 milioni sono andati al Teatro Verdi di Trieste per azzerarne il debito. Per non parlare dei soldi concessi con grande generosità a festival cinematografici e associazioni culturali legati al centrosinistra, veri serbatoi di consenso». Qualche esempio: 315mila euro alle Giornate del cinema muto, 250mila al Trieste Film Festival, 20mila alla rassegna Un film per la pace, altri 170mila al cinema Cappella Underground di Trieste. «Non c'è bisogno di dire che le associazioni culturali non di area hanno ricevuto zero euro - continua Ciriani - Ma la battaglia più importante è quella per il progetto che fornisce cure palliative domiciliari a una sessantina di bambini malati di tumore o di altre patologie gravi. È stato attivato a Pordenone, ma la richiesta di rifinanziamento è stata bocciata in Finanziaria (mentre i fondi provinciali sono arrivati, ndr). Speriamo che la giunta torni sui propri passi». La crisi si fa sentire anche al Nord-Est, da qualche parte bisogna pur tagliare. «Certo - ammette l'esponente Pdl - ma sarebbe stato meglio mettere subito in sicurezza il socio sanitario e le attività produttive e rinviare a giugno gli altri interventi, come quelli a favore di cinema e cultura, che pure hanno la loro importanza. Invece è stato fatto l'esatto contrario». Non è troppo stupito della scala di priorità della Serracchiani invece Alessandro Ciriani, presidente della Provincia di Pordenone. «È la tipica Finanziaria di sinistra - attacca il giovane amministratore, classe 1970, un po' un Renzi pidiellino -. Quando la sinistra va al potere, dimentica le bandiere della tutela delle fasce deboli e del lavoro sventolate in campagna elettorale. Se questi tagli al sociale li avesse fatti il centrodestra, sindacati e giornali ci avrebbero messo in croce. Invece la Serracchiani è coccolata dai media, anche quelli nazionali. La nostra presidente è una grande bolla mediatica, che salta da un salotto tv all'altro, ma le manca la sostanza del buon amministratore. D'altra parte per Debora Serracchiani la Regione è solo il trampolino di lancio per atterrare a Roma». L'ultimo tasto dolente è quello della disoccupazione. Nel 2008 da queste parti era poco sopra il 2%, oggi è all'8,5. Con colossi come Ideal Standard ed Electrolux che minacciano di chiudere. «I disoccupati? Se non altro, entreranno gratis al festival del cinema muto», chiude Luca Ciriani.
Ed ancora. Alla presidente della Regione Friuli Venezia Giulia Debora Serracchiani piace andare a cavallo. Ne ha addirittura adottato uno che stava per finire al macello e quando può va con lui a farsi una passeggiata ad Arta Terme al maneggio Randis tra le verdi vallate della Carnia nel Friuli orientale. Come scrive il Fatto quotidiano il maneggio che ospita il purosangue della governatrice si è aggiudicato 40mila euro inseriti nella finanziaria regionale. Una posta puntuale entrata nel bilancio con un emendamento piovuto direttamente dalla giunta e che prevede oltre ad un contributo straordinario per il prossimo anno anche ulteriori finanziamenti, non specificati, a «sollievo» del buco di bilancio. Del resto la cosa non era passata inosservata la scorsa settimana, quando la finanziaria regionale è stata approvata, ci sono stati interventi in aula da parte del centrosinistra per avere chiarimenti su di una posta che è sembrata troppo puntale per passare inosservata. Chiarimenti per ora non sono arrivati. A spiegare il motivo per cui è stato scelto di sostenere economicamente proprio il consorzio Carnia Welcome il suo portavoce Giancarlo Lancellotti: «La presidente Serracchiani quando trova il tempo va a fare una passeggiata a cavallo ma non lo fa gratis».
La Regione lesina i contributi alla cultura privilegiando sodalizi “schierati”, e quindi la Provincia scende in campo sostenendo quei sodalizi penalizzati dalla giunta Serracchiani, scrive “Il Messaggero Veneto”. Un gesto di “equità”, così lo definisce il presidente dell’ente di Largo San Giorgio, Alessandro Ciriani. «La Provincia sosterrà, in base a una giusta e sacrosanta compensazione, i sodalizi culturali immeritatamente puniti dalla Giunta Serracchiani. Per un principio di equità e anche di pluralismo, per noi non può essere una priorità aiutare le associazioni già copiosamente finanziate dalla Regione». E’ così che annuncia la contro-mossa il presidente della Provincia Alessandro Ciriani intervenendo sulla questione dei contestati contributi culturali della Regione. «Le associazioni già finanziate dall’amministrazione regionale – prosegue Ciriani - verranno eventualmente sostenute dalla Provincia in un momento successivo, qualora avanzassero risorse in cassa, perchè daremo precedenza alle realtà più piccole ma altrettanto valide. Del resto il medesimo ragionamento, ma al contrario, lo ha fatto la Regione privilegiando le grandi centrali culturali amiche e lasciando a bocca asciutta gli altri, quindi nessuno avrà ragioni per lamentarsi e fare polemica». Secondo Ciriani «il criterio di vicinanza politica adottato dalla Regione per i contributi alla cultura, checché ne dica Bolzonello, è evidente ed è un fatto. L’incremento di risorse per gli amici, oltretutto, suona eccessivo e stonato rispetto alla crisi e anche rispetto ai 120 milioni di tagli alla sanità e al sociale operati dalla Giunta di centrosinistra». «Inoltre – aggiunge Ciriani – la Regione dovrebbe capire che la cultura non esiste solo nel capoluogo Pordenone ma in tutta la Destra Tagliamento. Anche da questo punto di vista – conclude - staremo freschi quando elimineranno la Provincia, baluardo delle attività culturali su tutto il nostro territorio». Ovviamente dall’altro fronte, quello del centro-sinistra, rilevano gli stessi difetti nell’amministrazione provinciale, eccessivamente vicina ai piccoli sodalizi considerati ideologicamente simili, e distratta nei confronti di quelli non politicamente allineati. Sia come sia, dalle sforbiciate ai finanziamenti imposti dalla crisi e da bilanci pubblici in contrazione, alla fine non si salva davvero nessuno.
Gallone: si parli delle foibe nei libri di scuola.
La senatrice di Bergamo (Bergamo, non Trieste, sic!) Alessandra Gallone chiede che non si nasconda più la verità sulle foibe ed è firmataria con altri della richiesta di una commissione d'inchiesta sulle stragi del '43. Ecco il suo intervento per il Giorno del ricordo. «Oggi celebriamo un ricordo: il ricordo delle foibe, quell’immane tragedia che toccò il nostro popolo dell’Est, gli italiani di Trieste, di Quarnaro, dell’Istria, della Dalmazia, di Fiume e di tutti i luoghi ceduti. Significò per loro l’abbandono della propria terra – terra italiana, finita nel territorio della ex Iugoslavia – ma soprattutto sopruso, devastazione, morte. In quelle fosse comuni c’è un pezzo d’Italia e uno dei pezzi d’Italia cui più dobbiamo rispetto. Furono oltre 10.000 gli italiani che trovarono una morte orribile in quelle orribili fosse per mano dei partigiani nazionalisti comunisti iugoslavi, italiani colpevoli di essere italiani, mentre gli altri venivano strappati via dalle loro case e dalle loro terre, costretti a fuggire per scampare alle persecuzioni, eppure restando determinati nella volontà di rimanere italiani. Il genocidio di questi italiani – perché di una vera pulizia etnica si trattò – fu condotto senza distinzioni politiche, di censo, di sesso, di religione o di età. Furono arrestati cattolici ed ebrei, dipendenti privati ed industriali, agricoltori, pescatori, vecchi, bambini e soprattutto carabinieri, poliziotti e finanzieri servitori dello Stato. Gli eccidi del ’43 e del dopoguerra compiuti contro migliaia di inermi ed innocenti al confine orientale dell’Italia furono un vero crimine contro l’umanità, al pari di altri stermini compiuti e che ancora oggi vengono perpetrati in altre parti del mondo. Questa giornata è per questo non solo una celebrazione nostra, ma anche un importante riconoscimento umano che vale per ogni epoca e per ogni luogo nel quale vengano lesi sacrosanti diritti umani, quali il diritto a vivere in pace nella propria terra, il diritto a non essere vittime dell’odio cieco, il diritto a non vedere profanati i cadaveri dei propri cari. E` nostro dovere ricordare per la nostra coscienza di italiani, ma oggi anche per il nostro sentimento di europei, perché oggi tutti noi vogliamo e dobbiamo vivere in pace e in collaborazione nella prospettiva della più larga unità europea. Mi chiedo anche, e vi chiedo, che sarebbe successo nell’ex Iugoslavia se il ricordo delle foibe fosse rimasto vivo, se non fosse stato coperto dalla viltà e menzogna di un’intera classe politica. Arrivo a volte a pensare che forse neppure la disgregazione della Iugoslavia avrebbe raggiunto certe punte di ferocia se in quelle terre si fosse ricordato per sempre che simili eccidi, un simile cieco furore antietnico, non può rimanere impunito. Ricordare una delle pagine più buie della storia dell’umanità è perciò indispensabile non solo come tributo morale alle vittime di quello sterminio, ma anche come occasione d’incontro per discutere, confrontarsi, far sì che simili tragedie non debbano ripetersi nella storia. Fu una guerra civile; e il furore ideologico e le vendette personali diedero vita alla pagina più triste della storia italiana. In questo quadro vanno inserite le vicende degli esuli, che hanno vissuto un duplice dramma: l’essere costretti ad abbandonare la propria casa vedendo trucidare i loro parenti e, subito dopo, l’essere accolti con indifferenza e in molti casi con ostilità da quella stessa Italia dalla quale avevano sperato di ricevere un abbraccio solidale. Per sentirci vicini a quanti hanno sofferto lo sradicamento, il minimo che possiamo fare è cercare di porre rimedio attraverso una obiettiva ricognizione storica e una valorizzazione di identità culturali di lingua e di tradizioni che non possono essere cancellate. Ma ciò che ancora mi sorprende è che nonostante sia trascorso così tanto tempo, il tempo necessario per ristabilire l’oggettività storica, il racconto di quei tragici avvenimenti non si trovi per nulla, o quanto meno non sia sufficientemente riportato nei libri di scuola dei nostri figli. Perché? Cosa dobbiamo ancora nascondere? È necessario un intervento – e so che e' in corso, per fare in modo che nelle scuole siano adottati solo libri completi di tutti gli aspetti, di tutte le vicende drammatiche del Novecento e, tra queste, la tragedia delle foibe. Non dobbiamo bendarci gli occhi né far finta di non sapere o dimenticare che i misfatti sono frutto delle azioni umane. Un Paese democratico non deve mai avere paura di portare alla luce del sole tutti gli angoli della propria storia. La responsabilità é il prerequisito di una compiuta analisi che non ci faccia mai più ricadere nell’orrore: ecco perché il nostro compito é conservare vivo il ricordo di ciascuna di tali tragedie, consegnando ai giovani il senso della sacralità della vita umana, della dignità della persona e dell’empietà di ogni azione che la sottometta a qualsiasi esigenza ideologica o strumentale. Io e molti altri colleghi siamo firmatari di una richiesta formale per l’istituzione di una Commissione monocamerale d’inchiesta sulle stragi delle foibe, non improntata a spirito di vendetta, il cui provvedimento però ad oggi non é ancora neanche stato incardinato. E al Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia in questi giorni è stata formalizzata la richiesta di avviare l’esame di questo provvedimento presentato al Senato, perché, a fronte delle mancate restituzioni e dei congrui risarcimenti, appare quanto mai urgente e opportuno procedere rapidamente ad istituire questa Commissione. Concludo il mio intervento formulando l’auspicio che il significato di questa giornata si consolidi ancora di più nella percezione comune degli italiani, soprattutto dei giovani, e che si costruisca così una coscienza condivisa sulle cause e sulle responsabilità di quanto accadde in quegli anni. In nome del ricordo e dei valori da esso richiamati, possiamo guardare avanti e ricostruire un avvenire basato sul principio della dignità e del valore umano, perché senza dignità e senza valore non si é assolutamente nulla.» Sen. Alessandra Gallone.
E sull'inquinamento c'è tanto da dire: due pesi e due misure.
Così la Liguria rossa copre l'azienda tossica dell'Ingegner De Benedetti. Enti locali, sindacati, ambientalisti: De Benedetti, socio della centrale di Vado Ligure, gode di ampie coperture. Anche se il caso è simile all'Ilva, nell'inchiesta nessuna svolta, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Era il 1985, e Carlo De Benedetti acquisì in saldo il gruppo Sme dall'Iri prodiana in fase di privatizzazioni. L'operazione poi saltò, ma è un'altra storia. Nel 2002 è andata molto meglio all'Ingegnere con la liberalizzazione dell'energia. Perché è così che l'editore di Repubblica e l'Espresso ha consolidato la presenza nel settore: comprando alcuni impianti dall'Enel (cioè dal Tesoro) in base alle «lenzuolate» del ministro Pier Luigi Bersani. Tra queste centrali c'era quella di Vado Ligure, contestatissima perché alimentata a carbone. Come l'acciaieria Ilva di Taranto. Secondo i periti della procura della Repubblica di Savona, la centrale di Vado inquina e uccide. Le indagini procedono con grande prudenza senza i clamorosi provvedimenti di Taranto. Amicizie e buone coperture accompagnano il tesserato numero 1 del Partito democratico in questa avventura imprenditoriale. A partire dai sindacati, preoccupati per i posti di lavoro. Legambiente ha il 10 per cento di Sorgenia MenoWatt, società della galassia debenedettiana. E poi gli enti locali: mentre le altre due centrali termoelettriche a carbone liguri (a Genova e La Spezia) faticano a ottenere permessi per ampliamenti e ristrutturazioni, quella di Vado ha avuto i via libera richiesti. Dei quattro gruppi produttivi, i due che vanno a carbone non sono ancora stati riconvertiti. Tirreno Power, società proprietaria dell'impianto (De Benedetti ne controlla il 50 per cento), promette interventi per abbattere le emissioni delle due ciminiere. Oggi Tirreno Power è attenta a non coinvolgere De Benedetti nella propria attività. Ogni volta che si cita l'impianto di Vado e le indagini della magistratura savonese, piovono le precisazioni: l'Ingegnere è un semplice azionista di minoranza attraverso la società Sorgenia (gruppo Cir). Non andò così nel 2002, ai tempi dell'acquisizione dall'Enel. «Interpower al gruppo Cir», titolava Repubblica attribuendo il successo alla «cordata messa a punto dalla Cir» e in particolare «ai rapporti personali tra Carlo De Benedetti e Gerard Mestrallet, numero uno della Suez». Come andarono le cose? Per liberalizzare il mercato dell'energia, Bersani impose a Enel di non produrre più del 50 per cento dell'elettricità italiana. La società guidata da Piero Gnudi mise dunque sul mercato una capacità pari a 15 gigawatt divisa in tre Genco (Generation company). La Genco 1 chiamata Eurogen (7 gw) andò a Edipower e la seconda, Elettrogen, agli spagnoli di Endesa (5,5 gw). Alla gara per la terza Genco, Interpower (2,611 gw), furono presentate 19 manifestazioni di interesse da ogni parte del mondo ridotte a quattro offerte non vincolanti. Ma al dunque, giunse una sola offerta vincolante: quella della cordata Cir. L'Enel voleva un miliardo di euro, valore calcolato dall'advisor Mediobanca. De Benedetti offrì poco più di 800 milioni. Enel e governo (allora guidato da Silvio Berlusconi) chiesero un rilancio. I tempi giocavano a favore dell'Ingegnere, perché il decreto Bersani imponeva alla cessione una scadenza che si avvicinava. Enel avrebbe potuto azzerare la gara e chiedere un altro anno di tempo, come previsto in caso di offerta considerata non congrua. Ma Antitrust e Authority dell'energia non erano favorevoli. Alla fine il prezzo fu di 874 milioni, compresi 323 di debiti accollati. La cifra corrisponde a circa 336 milioni di euro per gigawatt. Enel incassò complessivamente 8,3 miliardi dalla cessione di 15 gw: all'incirca 550 milioni per gw. Significa che, per rilevare la Genco 3, De Benedetti ha sborsato in proporzione molto meno delle cordate per Genco 1 e 2. L'Ingegnere agiva attraverso la società Energia, di cui controllava il 74 per cento. I suoi partner nell'operazione furono Acea, municipalizzata del comune di Roma (allora il sindaco era Walter Veltroni) e i belgi di Electrabel (gruppo Suez), vecchi avversari quando l'Ingegnere tentò la scalata alla Société Générale de Belgique: Mestrallet ne era il presidente. Ma i due nel frattempo erano diventati buoni amici grazie alla comune frequentazione dell'Ert (European round table), associazione che riunisce i maggiori manager europei.
Vado Ligure peggio di Taranto, ma La Repubblica non ne parla perchè dietro c’è De Benedetti, scrive Rosengarten, su “Quelsi”. La questione Ilva di Taranto è emblematica delle contraddizioni della proterva sinistra italiana, che si rivela massimalista nel suo sindacalismo demagogico ed oltranzista nel suo ambientalismo irragionevole, a seconda delle circostanze, e solo quando le fa comodo per strumentalizzare situazioni a proprio vantaggio. Così, per anni Vendola ha lasciato che l’Ilva inquinasse ed ammazzasse la gente per difendere “il lavoro” facendo il sindacalista demagogico, salvo poi, di fronte all’evidenza dei danni recati alla salute dei tarantini, ergersi ad ambientalista, facendo mettere sul lastrico 20.000 famiglie e mettendo a repentaglio la sopravvivenza dell’intero comparto italiano dell’acciaio speciale. In effetti, lo Zar di tutte le Puglie ha furbescamente mestato nel torbido, per provocare l’intervento affannato e dispendiosissimo del governo perchè attuasse la soluzione più logica: continuare a produrre senza inquinare, provvedendo altresì a bonificare anche quanto per 8 anni lasciato inquinare da Vendola. Ma Taranto purtroppo non è un caso isolato, ce ne sono altri per i quali, come per quello, si pone il drammatico, ma falso dilemma tra difesa della salute o del lavoro. Quello che appare strano è che tutti parlano di Taranto, ma nessuno parla delle altre, troppe “Taranto” d’Italia. E’ balzata così all’onore delle cronache, quasi per caso, la vicenda della centrale termoelettrica di Vado Ligure, uno dei tre grandi impianti italiani, con Civitavecchia e Napoli, che appartengono al gruppo Tirreno Power, operatore dell’energia a libero mercato. Un piccolo gigante, quello ligure, che brucia cinquemila tonnellate al giorno di combustibile fossile per produrre elettricità. Un impianto che dà lavoro a centinaia di famiglie oltre a creare un vasto indotto, ma che costituisce anche una vera spada di Damocle sulla testa di abitanti e lavoratori del posto, riuniti nei comitati “Fermiamo il carbone” che temono per l’incolumità propria e di chi abita in un raggio di decine di chilometri dalla centrale. Preoccupazioni che, stando alle cifre snocciolate da medici ed esperti, sono più che giustificate: il tasso di mortalità per tumore a Vado è circa il 50 % superiore a quello medio nazionale pari a 240 casi ogni centomila abitanti, mentre gravi malattie cardio-vascolari fanno registrare un’impennata del 40 %. Poi un’impressionante gamma di emissioni altamente nocive nell’ambiente circostante, che include composti tossici e metalli come cadmio, arsenico, mercurio e cromo rilevati in concentrazioni molto superiori rispetto alla norma. Insomma, una potenziale bomba sanitaria e ambientale, un caso simile a quello di Taranto che però, stranamente, non sembra interessare i grandi media. Di sicuro non la Repubblica, impegnata con un esercito di inviati e penne graffianti sul sito pugliese, ma affetta da mutismo in questo caso. Perchè? Non sempre è facile a trovare un perchè in queste situazioni, ma in questo caso emerge un fatto “curioso”. Nella proprietà di Tirreno Power che opera la centrale di Vado compare con il 39% Sorgenia, braccio imprenditoriale nel settore ”energia pulita” (e meno male…) che fa capo a Carlo De Benedetti, guarda caso proprietario/editore di Repubblica. Ergo, l’ordine categorico ed imperativo per i “Repubblicani” è uno solo: scatenarsi su Taranto per far rifulgere le doti di ”condottiero” di Vendola e nascondere al popolo Vado Ligure: è così che De Benedetti intende la pluralità di informazione, la democrazia, la libertà. Non per niente, l’ingegnere aspetta da anni che la propria tessera del PD venga annullata e sostituita con un’altra avente il numero di matricola A 00001, perchè nessuno ha fatto tanto quanto lui negli ultimi 40 anni per “emancipare” il Paese e favorire l’affermazione della sinistra comunistarda che a sua volta ne tutela i personali interessi. Ma che fa per Vado Ligure la politica? Le forze “progressiste”, in primis il Pd che esprime il governatore Claudio Burlando, al secondo mandato consecutivo al vertice della Regione Liguria, non muovono un dito. Anzi, la Regione ha recentemente firmato un’intesa con Tirreno Power per ampliarne l’insediamento ed aumentarne la potenza erogata. Questo nonostante una campagna elettorale improntata all’ecologismo con uno slogan acchiappavoti che non si prestava a fraintendimenti : “Basta con il carbone”. E così la campagna di informazione è lasciata completamente nelle mani dei cittadini che a proprie spese commissionano studi e rilevazioni, mentre tacciono la Rai e tutti i giornali di sostegno al regime Monti. Cittadini preoccupati nelle cui teste, come dice Edoardo Cavadini, frulla un tarlo: vuoi vedere che esistono due inquinamenti e due misure? Del resto De Benedetti è un protetto del Signore, si sa, cosa volete che gli facciano? Nel 1993, in piena bufera Tangentopoli, Carlo De Benedetti presentò al pool di Mani Pulite un memoriale in cui si assunse la responsabilità di tutte le vicende Olivetti di cui era al corrente e di quelle di cui non era al corrente. Ma nessun dirigente di Olivetti fu oggetto di provvedimenti della Magistratura, men che meno l’Ingegnere, nonostante avesse ammesso di aver pagato tangenti per 10 miliardi di lire ai partiti di governo, funzionali all’ottenimento di una grossa commessa dalle Poste Italiane.
Procura di Taranto e Procura di Trieste: quale differenza tra l’ILVA e Servola? Scrive di Paolo G. Parovel su “La Voce di Trieste”. Il 30 ottobre la Procura di Taranto ha chiuso l’inchiesta principale sull’ILVA con una nuova richiesta di rinvio a giudizio, questa volta di 50 tra pubblici amministratori, industriali, dirigenti e tecnici per associazione a delinquere finalizzata reati gravissimi di disastro ambientale, avvelenamento ed inquinamento, e reati connessi. Ne dipendono anche situazione epidemiologiche gravemente lesive e letali. Per la sua rilevanza primaria l’indagine è stata svolta da un pool di cinque magistrati inquirenti (procuratore capo, aggiunto, tre sostituti) è durata quattro anni di attività istruttorie tempestive, coraggiose ed approfondite che hanno consolidato una massa di prove. Fra gli indagati di cui si chiede ora il rinvio a giudizio vi sono il presidente della Regione, il sindaco, assessori, il capo della Commissione per l’autorizzazione integrata ambientale, e fra i tecnici un consulente della stessa Procura. Le corresponsabilità di buona parte degli indagati titolari di funzioni od incarichi pubblici sono quelle definite dall’art. 40 del codice penale italiano, per cui «Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo.» E questo costringe a sollevare un problema sulla competenza della Procura di Trieste ad indagare sui disastri analoghi della Ferriera di Servola, che risulta emettere sinora impunemente sostanze tossiche ed inquinanti in misura addirittura superiore, e con maggiori effetti letali, dell’ILVA di Taranto. Il problema sta nel fatto che, mentre sull’ILVA la Procura di Taranto è intervenuta solerte con attività puntuali, rigorose ed efficaci per impedire la commissione dei reati, la Procura di Trieste non risulta avere fatto altrettanto sulla Ferriera di Servola, nonostante continue denunce e segnalazioni. Così di fatto non impedendo eventi che aveva l’obbligo giuridico di impedire. Ed è perciò suscettibile di essere anch’essa oggetto doveroso delle indagini su quegli eventi. Una Procura è ufficio impersonale perché la funzione del pm prescinde dall’identità dei titolari dei singoli incarichi, ma non può indagare sul loro operato perché indagherebbe su se stessa. In concreto la Procura di Trieste, ancora retta ad interim dal pm Federico Frezza, non può essere titolare di indagini che possano in ipotesi coinvolgere quali indagati anche lui o altri magistrati della stessa Procura. Ma nel caso della Ferriera di Servola le sta svolgendo, e questo rischia di poterle invalidare impedendo contemporaneamente le indagini di altra sede delegabile. A tutto vantaggio dei presidenti di Regione, sindaci, assessori, industriali, dirigenti e tecnici sinora impuniti che a Trieste condividono responsabilità analoghe a quelle dei loro colleghi di Taranto per l’ILVA, e potrebbero anche puntare a prescrizioni. Nessuno se n’è accorto, o alcuni sperano che accada proprio questo? Ne chiediamo chiarimenti pubblici urgenti, con questo stesso articolo, alle Autorità giudiziarie di competenza.
Venerdì 17. Una data che suscita facili ironie, scrive Anna Rita Spera. Eppure proprio questa data potrebbe essere ricordata come il giorno in cui si fece la storia di Taranto. Su disposizione del gip Patrizia Todisco è fissata per il 17 febbraio 2013, alle ore 12 presso il Tribunale di Via Marche, la prima udienza per l’incidente probatorio che vede i vertici dell’Ilva accusati di disastro ambientale, di avvelenamento colposo di sostanze alimentari e getto pericoloso di cose. Grande è l’attenzione rivolta al processo non solo per gli enormi interessi in gioco ma anche, come si è accennato, per il carattere storico che un’eventuale sentenza di condanna verrebbe ad assumere. Infatti nonostante le denunce presentate negli anni dai comitati cittadini e dalle associazioni ambientaliste, nulla di concreto e di effettivamente risolutivo è stato mai ottenuto a tutela della salute dei cittadini, del territorio e dei lavoratori, causa un’evidente mancanza di volontà politica da parte delle amministrazioni. Un processo che appare storico non solo per Taranto ma anche per una città come Trieste, da anni vittima anch’essa degli impuniti interessi dei poteri forti che hanno gettato e gettano tuttora il territorio triestino nel baratro del disastro ambientale. Un male in comune con Taranto che non costituisce in nessun modo un motivo di mezzo gaudio per le due città. Al contrario. Alla conferenza stampa del Comitato Legamjonici tenutasi nella mattinata di mercoledì 15 febbraio è intervenuto Roberto Giurastante, portavoce dell’associazione ambientalista Alpe Adria Green e responsabile di Greenaction Transnational, operante principalmente nel territorio di Trieste. Titolo della conferenza: ASPETTANDO L’UDIENZA del 17 febbraio. Temi di discussione: Eni, Cementir, Ilva: cosa accade?; Cosa unisce Taranto e Trieste; Aspettando l’udienza: ulteriori elementi e un appello alla magistratura. Ebbene, cosa unisce Taranto a Trieste? Un inquinamento devastante ed impunito e la strenua lotta contro di esso. Come a Taranto infatti si lotta a Trieste contro un disastro dietro cui si nasconde l’omertà dei rappresentanti politici, l’ostruzionismo della Giustizia italiana, la connivenza dei media locali. Un territorio già pesantemente sfruttato e su cui incombe la minaccia di nuovi allarmanti progetti, come quello relativo ai terminali di rigassificazione nel Golfo di Trieste voluto dal colosso spagnolo Gas Natural, avallato dalle istituzioni italiane ed in qualche modo tollerato dalla stessa Commissione Europea, che ha “congelato” le inchieste al riguardo, nonostante le prove inconfutabili presentate da AAG e Greenaction a dimostrazione delle mistificazioni contenute nelle documentazioni fornite dalla società spagnola e delle irregolarità degli iter organizzativi in Italia. Fermo restando le parole di biasimo nei confronti dell’inspiegabile decisione della Commissione Europea, Giurastante ha tuttavia sottolineato l’importanza che potrebbero assumere dei rappresentati locali presso il Parlamento Europeo quali strumenti di pressione in tale sede. Tornando al raffronto Taranto-Trieste, c’è qualcosa che differenzia le due città. Mai a Trieste la Magistratura ha dato seguito alle denunce avanzate dai gruppi ambientalisti. Diversamente sembrano andare le cose a Taranto dove la Magistratura si mobilita. Ed in questo non trascurabile particolare si concentra la speranza di riscatto delle due città. Ed in tutto ciò la capacità dei cittadini di esercitare pressione è fondamentale. Necessaria è la continua attenzione della collettività verso le udienze. Decisivo appare il fermo sostegno di essa alla Magistratura tarantina. Questo è il messaggio che Legamjonici ha voluto lanciare in chiusura della conferenza stampa, sottolineando quanto sia necessario un continuo controllo da parte dei cittadini sull’operato delle amministrazioni, anche relativamente alle “misteriose” sparizioni di fondi stanziati per la bonifica del territorio. Legamjonici ha infine ammonito che la grande industria inquinante non mollerà facilmente l’osso, stringendo ancora saldamente in pugno l’immarcescibile arma del ricatto occupazionale con cui tiene in ostaggio una provincia intera e soprattutto i lavoratori, i quali dovrebbero schierarsi al fianco di chi si batte per il territorio, anche in nome del loro primario diritto di lavorare in un ambiente sano ed umano, invece che chinare il capo ed accettare fatalisticamente il fatto che “all’Ilva non si producono cioccolatini”. Cogliamo in calce l’occasione per augurare all’ILVA un buon venerdì 17.
RACKET DI FALLIMENTI E ASTE. LE CONNIVENZE DELLA PROCURA FANTASMA TRIESTINA, scrive Pietro Palau Giovannetti (Presidente di Avvocati senza Frontiere). Mi sono recato più volte a Trieste per testimoniare nei procedimenti autossegnati all’ex Procuratore antimafia Dr. Nicola Maria Pace nei confronti di magistrati corrotti o negligenti di Treviso, Trento e Venezia. Ma a distanza di oltre 10 anni, senza che sia stata svolta alcuna indagine sulla mafia delle aste giudiziarie e il racket dei fallimenti, la sensazione che mi è rimasta è quella di una procura fantasma e surreale, dove si attraversano lunghi corridoi e stanze deserte, scale e cunicoli che si susseguono, come in un romanzo kafkiano, per “snidare” l’ufficio del magistrato che dovrebbe raccogliere la tua deposizione e istruire il procedimento. Un procedimento altrettanto fantasma e surreale come la procura triestina e il suo ex procuratore capo, che credo dopo sia andato finalmente in pensione, i quali oltre a non svolgere alcuna indagine omettono di notiziare le parti lese ai sensi dell’art. 408 c.p.p. Dalla prima volta che mi recai per il caso del Fallimento del Mobilificio F.lli Bernardi s.n.c., pilotato dalla Cassa di Risparmio di Venezia e dalla Costruzioni Basso s.r.l., per impossessarsi a valore vile dal compiacente tribunale fallimentare di Treviso, guidato all’epoca dal dr. Giovanni Schiavon, dei beni immobiliari personali e societari dei falliti, ho tratto la netta sensazione che anche la procura distrettuale antimafia (DDA) fosse controllata dalla mafia, perlomeno quella economica, di cui fanno probabilmente parte taluni stessi magistrati. Diversamente se non sono extraterrestri o robot privi di umanità e senso di giustizia non si spiega il perché della loro pervicace inerzia ai loro doveri istituzionali e tolleranza della corruzione di magistrati e faccendieri delle aste. In altri successivi casi, le parti lese sono state minacciate dagli inquirenti di venire denunciate per ”calunnia”, ove non avessero ritrattato le querele nei confronti di magistrati di Padova, Pordenone, Treviso, Trento, sempre in relazione a fallimenti pilotati e aste giudiziarie truccate, in danno di onesti piccoli imprenditori o persone anziane vittime dell’usura bancaria. Di seguito pubblichiamo il caso di Maria Coletti, anziana pensionata, vittima di una preordinata azione estorsiva da parte della Banca di Credito Cooperativo Alta Marca, che nonostante sia stata interamente soddisfatta di ogni pretesa creditoria, aventi tra l’altro natura usuraria, ottiene illegittimamente dal Giudice dell’Esecuzione del Tribunale di Treviso, Umberto Donà, che l’abitazione e un annesso terreno di notevole valore siano messi all’asta a valori di pura ricettazione, finendo aggiudicati in asta deserta a un Ctu che lavora con lo stesso Giudice dell’Esecuzione, tale Ing. Gottardo Visentin, titolare della omonima Visefin di Visentin & C. s.a.s., società che fa lauti affari grazie al tribunale trevigiano e al contempo si offre tramite il suo amministratore unico, come Consulente di Ufficio del medesimo tribunale di Treviso! Ce ne sarebbe abbastanza per fare scattare se non le manette per giudice dell’esecuzione e Ctu almeno per il sequestro penale dell’immobile e del terreno. Invece no. Denunce, ricusazioni e ogni possibile forma di opposizione non sortiscono alcun effetto se non l’avvicendamento del dr. Donà, trasferito alle funzioni di Gip, coi giudici Valle e Bigi, che ne seguono supinamente le orme, senza neppure peritarsi di disporre una perizia contabile sulle somme effettivamente dovute e sull’effettivo valore dei beni pignorati nè, tantomeno, di acconsentire, pur a fronte del versamento di un acconto pari ad un quinto dell’intero importo indebitamente preteso, al pagamento rateale del residuo in 18 mensilità, mediante la cosiddetta “conversione del pignoramento“, espressamente prevista dall’art. 495 c.p.c. Dilazione che, alla luce delle precarie condizioni economiche di Maria Coletti e del suo status di pensionata e di vittima dell’usura non poteva quindi legittimamente non venire applicata. L’immobile ha il torto di affacciarsi sui campi dell’Asolo Golf Club di proprietà della famiglia Benetton e di fare gola ai soliti speculatori immobiliari ben introdotti nel locale tribunale che, avvalendosi del clima di complicità e omertà regnante tra i magistrati di Treviso, intendono demolire tutto e costruire villette a schiera e strutture per nababbi. In buona sostanza, nessun magistrato se la sente di applicare la legge, ponendo fine a un sistema di malaffare giudiziario che, da decenni, asseconda gli illeciti interessi di un cartello di speculatori, in grado di condizionare le vendite giudiziarie e i fallimenti, attraverso la collusione di intranei ai centri di potere del Tribunale di Treviso. Non è certo un caso che al giudice Donà sia stata avvicendata la dr.ssa Franca Bigi, i quali risultano entrambi già indagati dalla Procura di Trento, per un’analoga estorsione paralegale in danno di Bernardi Nellida, patrocinata da Avvocati senza Frontiere. Né, tantomeno, può essere un caso che dopo ben otto opposizioni ad ogni singolo atto esecutivo, in cui sono state denunciate continue sparizioni di atti processuali e l’omessa fissazione delle udienze, l’immobile della signora Coletti, di mq. 525, oltre a mq. 1100 di terreno edificabile, del valore di almeno € 600.000,00, sia stato svenduto a soli € 123.000,00, in un’anomala gara senza incanto, all’unico offerente. Tutto ciò, in assenza di qualsiasi provvedimento di sospensione dell’esecuzione e, addirittura, della stessa fissazione delle udienze di comparizione parti sulle predette opposizioni agli atti esecutivi, rimaste, tutt’oggi, inesaminate. Omissioni la cui pervicace impunità fanno venire meno il principio di legalità e il divieto di denegare giustizia, previsti dal nostro ordinamento, dando luogo ad un fenomeno ormai molto diffuso in tutto il Paese che potremmo definire di vero e proprio <dispotismo giudiziario>, che è il preludio alla soppressione anche formale dei diritti dei cittadini. A riguardo, basti dire che la povera signora Coletti e la segretaria dello studio legale che l’assiste hanno dovuto fare intervenire i Carabinieri, presso la cancelleria del Tribunale di Treviso, per potere riuscire ad esercitare il diritto di visionare il fascicolo di ufficio ed estrarre copie degli atti, previsto dall’art. 76 disp. att. c.p.c. Senza parlare della sparizione del verbale con le offerte pervenute alla cancelleria, dapprima misteriosamente sparito, eppoi a dire del giudice dr. Valle rinvenuto nella sua stanza, senza che, però, tale verbale comprovante la liceità della gara risulti tuttora reperibile…Dopo avere denunciato alla Procura Antimafia di Trieste l’operato dei magistrati di Treviso e l’inerzia del P.M. di Trento, Dr. De Benedetto, nei mesi scorsi i difensori della Sig.ra Coletti ottengono finalmente la sostituzione del G.E. dr.ssa Bigi, seppure ogni precedente ricusazione nei confronti dei giudici Donà, Valle e Bigi, fosse stata respinta dal Presidente del Tribunale Dr. Napolitano, il quale prima di andare in pensione pensa bene di denunciare il difensore della sig.ra Coletti al Consiglio dell’Ordine Avvocati. Mentre da parte sua la dr.ssa Bigi sporge denuncia per il preteso reato di “calunnia” alla Procura di Trento, sia nei confronti del legale che della parte, non trascurando prima però di trasferire la proprietà dell’immobile, senza preoccuparsi della pendenza di ben sei ricorsi in opposizione alla vendita, rimasti inesaminati, e del conflitto di interessi grande come la casa che ha alienato a valore vile, derivante dalla posizione di persona indagata e a sua volta parte lesa per le ipotesi di pretesa “calunnia” in suo danno. Ma, anche con la nomina del nuovo giudice, Bruno Casciarri, seppur formalmente più corretto, la musica sembra non cambiare. Le udienze in sospeso finalmente vengono fissate, ma seppure sia stato provata l’irrisorietà del prezzo di aggiudicazione e che la sig.ra Coletti aveva già pagato sino all’ultimo centesimo quanto ancora indebitamente preteso dalla banca, a fronte di un’inesistente acquisto di titoli CTZ, mai richiesti, il Giudice dell’Esecuzione continua a tergiversare, senza provvedere a sospendere l’efficacia del decreto di trasferimento impugnato sin dal novembre dello scorso anno, mentre l’esecuzione di rilascio avviata dall’aggiudicatario prosegue indisturbata. In tale anomalo contesto la Procura Antimafia di Trieste non ha ancora assunto alcun provvedimento a tutela della querelante sig.ra Coletti, seppure il P.M. di Trento risulti ingiustificatamente inerte, anche alle stesse sollecitazioni del G.I.P. dr. La Ganga, il quale dal 2005 ha ripetutamente e vanamente chiesto suppletive indagini a carico del dr. Donà e di altri magistrati trevigiani. Provvedimento rimasto illegittimamente ineseguito con il pretesto della pendenza di due ricorsi in Cassazione, proposti dal P.M. De Benedetto, avverso le citate richieste di suppletive indagini avanzate dal Gip. A riguardo non si può poi fare a meno di denunciare il comportamento omissivo e ostruzionistico della Procura Generale presso la Corte di Appello di Trento, che nonostante i ricorsi in Cassazione siano stati respinti da oltre due anni ha omesso di avocare le indagini e di esercitare l’azione disciplinare nei confronti del P.M. De Benedetto, che quale rappresentante della Pubblica Accusa non aveva alcun titolo né apparente interesse ad opporsi allo svolgimento delle indagini ritenute opportune dal Gip. Un’evidente inversione dei ruoli e stravolgimento delle funzioni giudiziarie, per cui ci ritroviamo a pagare lo stipendio a dei magistrati che, invece di tutelare i diritti dei più deboli, appaiono più protesi a proteggere ad oltranza gli interessi del potere e di coloro che attentano ai diritti dei cittadini, facendo perdere credibilità all’intero sistema giudiziario e speranza di legalità. Al danno si è dulcis in fundo aggiunta la beffa, in quanto il P.M. De Benedetto ha richiesto l’archiviazione della querela relativa al caso Coletti, sostenendo falsamente e contrariamente a qualsiasi evidenza documentale trattarsi delle “medesime questioni oggetto del caso Bernardi”, per cui a suo dire sarebbe già intervenuta l’archiviazione. Cosa, invece, non corrispondente al vero, in quanto i due predetti improponibili ricorsi per Cassazione avverso le richieste di suppletive indagini avanzate dal GIP sono stati respinti, senza che in seguito siano mai state svolte le indagini a carico dei magistrati trevigiani e sia mai intervenuto alcun formale provvedimento di archiviazione, come dimostrato dall’attestazione di pendenza rilasciata dalla cancelleria del Tribunale, che è stata allegata alla Procura Antimafia di Trieste dalla quale da vari anni si attende giustizia e provvedimenti idonei a ripristinare la legalità presso il Tribunale di Treviso. Senza contare che il Presidente della nostra Associazione, nelle more, è stato rinviato a giudizio dalla Procura di Treviso, a tempi di “giustizia scandinava”, per il preteso reato di diffamazione a mezzo internet, in qualità di responsabile del sito di Avvocati senza Frontiere, in cui si denunciano i casi Bernardi, Coletti e altri. Eppure c’è ancora chi pensa che la mafia e la collusione dei giudici siano un fenomeno tipicamente delle regioni del Sud Italia e che la mafia giudiziaria non esista o non costituisca una priorità a cui la società civile deve porre urgentemente rimedio. N.B.: Il prossimo 14.5.08 alle ore 8.30, in pendenza di otto opposizioni ad ogni singolo atto esecutivo, avrà luogo l’illecito spoglio paralegale dell’immobile, in assenza di qualsiasi provvedimento del G.E. di Treviso, dr. Casciarri e della DDA di Trieste.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
IL FRIULI VENEZIA GIULIA E LA MAFIA.
E «Anche il Friuli Venezia Giulia è terra di mafie», scrive Michele Zanutto su “Il Messaggero Veneto”. Quel Nord Est da sempre considerato un’isola felice e al sicuro da simili fenomeni è diventato una nuova frontiera per la criminalità organizzata. Un malaffare in giacca e cravatta che non adotta i canali tradizionali. Niente pizzo o estorsioni. La mafia, in regione, muove invece capitali e finanzia le imprese. In tempo di crisi economica sopperisce alla stretta creditizia delle banche. Gli investigatori parlano di «infiltrazioni economico finanziarie». In altre parole, ingenti risorse investite sul territorio. E sono molti gli imprenditori già finiti sotto la lente di ingrandimento della Direzione distrettuale antimafia della Procura di Trieste. «Persone e soldi». Sono queste le piste privilegiate dal sostituto procuratore Pietro Montrone per stanare la criminalità organizzata in regione. «In pratica i familiari di soggetti condannati per mafia e camorra aprono attività sul nostro territorio. La Dda punta a capire come e da dove arrivano i capitali usati», ha spiegato Montrone ieri a margine del convegno su “Le mafie in Friuli Venezia Giulia: dal passaggio a Nord Est verso l'insediamento”, organizzato in sala Aiace dalla Fondazione Libera, insieme con Libera Fvg, il sindacato di polizia Siulp Fvg e il Comune di Udine. «Sono diverse le verifiche patrimoniali a carico di soggetti che fanno gli imprenditori nell’area friulana. Si tratta appunto di società e pubblici servizi riconducibili alla mafia», ha aggiunto Montrone. Non una parola di più perché le indagini sono tuttora in corso. Ma il quadro è chiaro: camorra e ’ndrangheta viaggiano a suon di euro. Ad aprire la strada sono familiari e congiunti di esponenti di spicco del crimine organizzato, ricercati o già condannati. Dietro alla facciata di un’impresa “pulita” si nascondono i capitali mafiosi reinvestiti sul territorio. Poi arrivano le sale slot, fonte inesauribile di finanziamento, il riciclaggio di denaro e l’usura. Un copione che si ripete sempre uguale. È la mafia 2.0. La mafia dei colletti bianchi, «che sta prendendo sempre più piede in Friuli e soprattutto a Udine, dove si sono già verificati fenomeni mafiosi», ha sottolineato Roberto Pennisi, magistrato della Direzione nazionale antimafia. Il riferimento è al sequestro di beni immobili e società di costruzioni dell’ottobre 2010. Il 59enne Vincenzo Graziano è l’imprenditore palermitano colluso con la mafia che, fra l’altro, ha costruito una serie di villette a Martignacco e Tavagnacco. Ma quello di Graziano non è un caso isolato. «La frontiera delle slot machine è un business ultraredditizio per la malavita organizzata – ha aggiunto Pennisi – ed è questo il tema delle indagini sul territorio friulano. È la sfida che si presenta all’apparato repressivo dello Stato e anche ai cittadini. A loro il compito di cogliere i segnali e non sfruttare a proprio vantaggio situazioni che si ritorceranno sempre contro. Una vincita eccessiva alle slot machine è un chiaro segnale di presenza mafiosa, perché il jackpot è calmierato dallo Stato. Se la cifra è elevata, dietro quella macchinetta c’è sicuramente la mano della mafia». Addio dunque ai canali tradizionali. A quegli spostamenti di migliaia di persone che sul territorio si trasformano in una concreta base elettorale, il primo passo per portare nella sala dei bottoni i propri “uomini”. Largo invece alle infiltrazioni economiche. «Un grave pericolo perché difficilmente percepibile – ha detto Pennisi –, un fenomeno che attrae e affascina. E sfrutta questo appeal per i propri fini, esportando l’omertà anche al nord».
Mafia in Friuli tra bunga bunga e giornali conniventi. Che sta succedendo in Friuli? O meglio, cosa succede da tempo e solo adesso le cronache giudiziarie (sempre tardive) lo stanno, solo in parte, svelando? Si chiede “Dovatu”. Marco Belviso, noto blogger udinese, lancia l’allarme, dal nuovo blog "Il fiuto del Bassotto": “…in questa regione c’è più “mafia” e più omertà che in Sicilia; purtroppo a troppi poteri forti conviene fare finta di nulla e appoggiare il sistema. Saranno le nuove generazioni, se lo vorranno, a cambiare le cose; intanto noi abbiamo l’obbligo di reagire!" Concordiamo, reagiamo ma non ci rassegniamo, crediamo che possiamo ancora cambiare le cose, senza attendere anni: per questo motivo Dovatu.it continua a rompere le palle, come dichiara un commentatore irritato -nel vivo…- dalle nostre piccole inchieste, sempre ‘offerte’ ai giornaloni locali, da questi sempre evitate come il fumo negli occhi.
Belviso lancia un altro allarme: “Ma come
possiamo essere sereni quando vediamo che esponenti delle forze dell’ordine sono
legati a doppio filo a personaggi politici di primo piano?
Come possiamo avere fiducia in un sistema giudiziario dove chi ci controlla e
denuncia fino a qualche mese fa sedeva assieme a noi brindando alle nostre
inchieste? Come possiamo credere che vi sia una giusta giustizia quando
contemporaneamente il perito della difesa è anche il perito dell’accusa. Che
serenità possiamo avere a denunciare un pubblico amministratore, quando
esponenti delle forze dell’ordine ci chiedono di non pubblicare le nostre
inchieste? Che serenità possiamo avere se le aule dei tribunali sono sempre più
affollate dai giornalisti denunciati per diffamazione a mezzo stampa e sempre
meno di tangentari e delinquenti?“.
In questo Belviso si riferisce alla censura che ha subito in prima persona con l’oscuramento del suo blog ilperbenista.it, subito riaperto con un piccolo escamotage - ilperbenista.com -ma privo delle preziose notizie d’archivio, dal quale lancia un’accusa non da poco: “Non è assolutamente un gioco e neppure un passatempo banale. Qualcuno vuole impedire che la gente, sempre più stanca e arrabbiata, denunci il malaffare che da anni regna nel nostro paese e nella nostra Regione. Non dobbiamo lasciarci ingannare dalle operazioni di facciata costruite ad hoc da alcuni poteri forti. Molti giornalisti sono collusi fino al collo con questo sistema. Basti osservare la profonda diversità di reddito, vita e frequentazioni di un freelance rispetto ad un professionista assunto a tempo indeterminato in qualche importante gruppo editoriale. Oppure che dire degli addetti stampa, pagati non per fare uscire le notizie quanto piuttosto per gestire il silenzio. Quanti importanti politici finiti coinvolti in vergognose vicende giudiziarie, tuttoggi continuano ad occupare posti di potere? Quanti direttori di testate collegati a enti pubblici sono stati imposti da un sistema a cui preme che nulla si sappia? Quanti quadri di ignoti artisti sono stati acquistati e affissi in società pubbliche regionali? Chi erano, ripeto, chi erano, i politici coinvolti nel bunga bunga friulano di un noto albergo alle porte di Udine alcuni anni fa? Perchè si tennero e si tengono ancora adesso coperti i loro nomi?”
C’è mafia anche in Friuli ed è autoctona. 100% Made in Friuli.
IL FRIULI VENEZIA GIULIA E LA MASSONERIA.
È triplice. Accompagnato da un bacio prima sulla guancia destra, poi sulla sinistra, poi ancora sulla destra, scrive Tommaso Cerno su “Il Messaggero Veneto”. È il Triplice Fraterno Abbraccio, abbreviato Tfa, prescritto quando nel Tempio un dignitario di Loggia cede il posto a un fratello. Ed è anche la versione massonica del più celebre “distinti saluti”, quando i fratelli concludono una lettera, appunto, massonica. Ed è proprio così, nell’era di Internet, che si sono fatti pizzicare due esponenti dell’Udc di Latisana. Quando un manager friulano, cinquant’anni, massone, ha scritto ai “fratelli”, appunto, e ha salutato con il celebre acronimo di Licio Gelli. Ha salutato, in questa lettera che ormai da qualche giorno tutta la politica friulana cerca di trovare, niente meno che il vicesindaco di Latisana, Angelo Valvason, geometra, e l’assessore Daniela Lizzi, avvocato, entrambi membri della stessa giunta ed entrambi iscritti all’Udc. Un caso che sta facendo esplodere la polemica ai piani alti del partito di Pier Casini. Se non altro perché la fede cattolica vieta ai detentori dello Scudo Crociato di far parte di qualsivoglia loggia segreta, massoneria in primis. Chiedetelo pure a papa Benedetto. Ecco cosa è capitato. Una mail, datata 5 maggio 2011, è stata inviata all’indirizzo di posta elettronica dei due esponenti dell’Udc. Si tratta di poche righe, spedite alle 11.29 del mattino di quel 5 maggio di un anno fa, con le quali il “fratello manager” convoca un gruppo di persone per la fine del mese, per precisione il 24 maggio, data in cui al tempio della Gran Loggia d’Italia, sede della massoneria di piazza del Gesù, si sarebbe tenuta l’affiliazione di una nuova adepta, citiamo testualmente, la “profana Cristina”. Eccola qui, pubblicata a fianco, condensata in una decina di righe, per la verità imbarazzanti, la famosa “ragione personale” che avrebbe scatenato la guerra nell’Udc di Latisana che sta tenendo banco da giorni sulle cronache politiche dei quotidiani. E che ha portato, come aveva raccontato il Messaggero Veneto a inizio di luglio, alla spaccatura del gruppo politico di Casini al consiglio comunale e alla minaccia di provvedimenti nei confronti di due consiglieri dell’ Udc di Latisana, Diego Cicuttin e Luigi Lauricella, tacciati come dissidenti solo per avere chiesto al segretario provinciale dell’Udc, Ottorino Faleschini, e al sindaco di Latisana Salvatore Benigno lumi sulla mail massonica che ormai da giorni circola in molti ambienti della politica friulana. Una mail che è finita nelle cartelline personali dei dirigenti Udc, Angelo Compagnon compreso, e di almeno un paio di parlamentari, spediti segretamente a Roma, proprio alla casa madre della Loggia di piazza del Gesù, per ottenere maggiori dettagli sulla storia. Una storia che rischia di far esplodere un bubbone nella maggioranza che sostiene il sindaco di Latisana, Benigno, anche lui da tempo informato di tutto. E finora rimasto zitto. Ma anche una storia che rischia di mettere sotto accusa i vertici del partito, se si scoprirà che hanno tentato di insabbiare i veri motivi dei dissidi interni alla maggioranza di Latisana. Partiamo dal principio. La mail firmata dal manager massone che convocava quelli che lui indica come suoi fratelli, è indirizzata ai due esponenti della giunta Benigno e ad altri undici indirizzi mail. Fra questi l’ex consigliere regionale Umberto Fortuna Drossi, Marino Clavora, ex consigliere comunale di Pulfero, Antonio Di Piazza, consigliere comunale di Palmanova, Edoardo Marini, membro della giunta esecutiva di Confcommercio di Udine e titolare del famoso ristorante Là di Moret. Il testo, se non sei un esperto di riti massonici, rischia di farti sorridere. Scrive il nostro imprenditore cinquantenne: «Carissimi, vi ricordo che la nostra Tornata del 6 maggio è rinviata al 24 maggio 2011. In quella occasione procederemo all’Iniziazione della profana Cristina. Auspico la vostra presenza per quest’importante tappa nella lunga storia della nostra Loggia». Una tappa talmente importante da prevedere una specie di prova generale pochi giorni prima della Tornata, appunto. Ed ecco che nella mail si precisa la necessità di un passaggio preliminare da parte dei fratelli, politici compresi. «Nella settimana prima», aggiunge il manager massone, «vorrei incontrarvi per un breve ripasso del nuovo rituale dell’Iniziazione, e magari per una pizza in compagnia». Le date indicate sono tre: 17, 18 o 19 maggio 2011. Seguono saluti di rito, in questo caso è proprio la parola giusta: «Un caro Tfa (triplice fraterno abbraccio, appunto) a tutti». Una pizza, dunque, per ripassare il rito massonico. Una pizza che, a detta dello stesso firmatario della lettera, raggiunto al telefono ieri pomeriggio, «è una prassi che abbiamo seguito molte volte. Io non ricordo nella fattispecie se ci siamo poi visti in quei giorni, perché è trascorso più di un anno, ma certamente ci siamo incontrati molte volte, anche dopo quella data», dice con voce tremolante al telefono. La mail incriminata è rimasta sepolta nei pc dei destinatari per oltre un anno. Per rispuntare, all’improvviso, un paio di settimane fa. Il blog “Il Perbenista” ha gettato un sasso nello stagno della polemica. La polemica è subito esplosa eppure, da giorni ormai, sebbene nell’Udc tutti sappiano tutto, si cerca di insabbiare il caso. Sperando che la lettera non spunti mai. Ma eccola qui. Una lettera di convocazione massonica inviata di cui nell’Udc tutti sanno. Anche se quando si scorrono le dichiarazioni ufficiali rilasciate in queste ultime settimane dal segretario provinciale dell’Udc e degli stessi interessati, il tentativo è stato quello di insabbiare il caso massoneria. Sul giornale si parla di «questioni personali» e non meglio precisati «problemi di natura etica», in contrasto secondo i «dissidenti» con il partito e i suoi valori cattolici. Seguono minacce di provvedimenti contro i denuncianti e dichiarazioni che vorrebbero lasciare intendere che si tratti di questioni di nessun interesse politico. Nessuno, insomma, s’è degnato di dire la verità, di pubblicare la mail incriminata e di chiedere spiegazioni pubbliche a questi signori. Per sapere se questa mail sia stata loro recapitata per sbaglio (nel qual caso, immaginiamo, si siano rivolti alla polizia postale), o se invece il manager massone che con tanta confidenza invitava i politici al rito dell’Iniziazione della povera profana Cristina sapesse, come ormai sembra certo, con esattezza a chi si stava rivolgendo. Resta il fatto che la mail ha fatto il giro della politica friulana. E che a questo punto il sindaco di Latisana, il segretario dell’Udc Faleschini e i due assessori devono dei chiarimenti ai loro elettori e all’Udc. Poi ci sono gli altri. Che almeno, finora, non hanno mentito. Né al loro partito, né all’opinione pubblica. Ma che ci auguriamo spiegheranno l’esito di quella stravagante serata con pizza e massoneria, come riportato nella ormai famosa mail.
TOGHE ZOZZE.
La notorietà l'aveva raggiunta come giudice e presidente della Corte d'Assise di Venezia, quando pronunciò le sentenze per i processi a Felice Maniero (nel dicembre 1997 e giugno 1998) con la condanna a 19 anni per Faccia d'Angelo e quella a 6 anni per Gaetano Fidanzati, il boss che riforniva di droga la Mala del Brenta, scrive “Il Gazzettino”. Poi ancora quella sui "Serenissimi" (febbraio 1998) per l'assalto al campanile di San Marco. Roberto Staffa, allora neppure 40enne e decisamente in carriera, era poi tornato a fare il magistrato inquirente, alla procura a Roma oltre che nella Direzione distrettuale antimafia. Oggi però la sua carriera ha subito un pesante colpo: è stato infatti arrestato dai carabinieri su disposizione della procura di Perugia e sono stati anche perquisiti i suoi uffici. Il magistrato, tra i più in vista della procura capitolina e titolare tuttora di numerosi processi contro la criminalità organizzata, è accusato di corruzione, concussione e rivelazione di segreti d’ufficio. Secondo indiscrezioni, il provvedimento di arresto sarebbe stato deciso dopo mesi di indagini con microspie e telecamere piazzate nel suo ufficio di piazzale Clodio, che avrebbero consentito di raccogliere indizi concreti circa le sue presunte responsabilità. In particolare Staffa si sarebbe compromesso a causa di una relazione con un transessuale straniero, che sarebbe stato anche ripreso all’interno del suo ufficio. Le accuse. Sesso con una donna, chiuso a chiave nel suo ufficio, per concedere un permesso di colloquio con un detenuto. C'è anche questa contestazione per l'ex giudice di Venezia. Quindi non solo trans, ma anche rapporti con la familiare di una persona finita in carcere. Il tutto filmato da una microspia collocata nell'ufficio del magistrato dopo l'avvio degli accertamenti. Dalla procura di Roma, che non può indagare su magistrati del proprio ufficio, sono stati più di uno gli input inviati ai magistrati di Perugia. Le indagini erano partire un anno e mezzo fa, quando il transessuale era stato arrestato nell’ambito di un’operazione contro la prostituzione condotta da una collega dello stesso Staffa. Il trans, interrogato del Gip di Roma in sede di convalida dell’arresto, aveva vantato rapporti di amicizia con il pm Roberto Staffa, e avrebbe dichiarato di subire una sorta di ricatto dal magistrato, che gli avrebbe assicurato protezione in cambio di rapporti sessuali. Quell’interrogatorio fu secretato immediatamente e trasmesso per competenza alla procura di Perugia, che ha la giurisdizione sui reati commessi (o subiti) dai magistrati romani. Subito dopo sarebbero scattate le intercettazioni ambientali e telefoniche, che nel giro di alcuni mesi avrebbero fornito riscontri al racconto del trans, che sarebbe persino stato ripreso dalle telecamere. La lunga inchiesta. I vertici della procura di Roma sono sempre stati tenuti al corrente dell’evolversi dell’inchiesta e da alcune settimane lo stesso Staffa era stato esonerato dalla conduzione di alcune inchieste delicate. «La violazione della legge da parte dei magistrati compromette la giurisdizione e la credibilità dell'ordine giudiziario: nella magistratura non possono esistere spazi di impunità». È quanto sottolinea l'Asoociazione nazionale magistrati (Anm) in merito all'arresto del pm. Pur «nella doverosa attesa dei successivi approfondimenti d'indagine, riaffermiamo la centralità della questione morale» e sottolinea che «i magistrati sanno trovare gli strumenti necessari per individuare e sanzionare, anche al proprio interno, ogni comportamento contrario alla legge». Il personaggio. Staffa è in servizio alla procura di Roma da 15 anni: nato nel 1957 a Napoli arrivò all'inizio degli anni 90 a Venezia dove era arrivato a ricoprire il ruolo di presidente di corte d’Assise. In quella veste condannò appunto nel 1997 l'ex boss della Mala del Brenta, Felice Maniero, accusato di 9 omicidi, e poi processò i "Serenissimi" per l'assalto al campanile della notte tra l’8 e il 9 maggio 1997. Passato a fine anni 90 a Roma divenne titolare dell'inchiesta sugli aborti clandestini avvenuti presso la clinica Villa Gina culminata in vari arresti tra i quali quello clamoroso del professor Ilio Spallone. Staffa ha fatto parte anche del pool dei magistrati che si occupano dei reati sulla persona e di violazione delle legge sugli stupefacenti, come magistrato della Direzione antimafia. Per un breve periodo ha seguito anche l'inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Il magistrato è conosciuto anche per la sua passione per la musica al punto da far parte di un gruppo, i Dura Lex, in cui suonavano anche altri magistrati e avvocati. La sua difesa. L'avvocato Salvatore Volpe, difensore nominato da Staffa, ha dichiarato di non aver ancora visionato l'ordinanza di custodia cautelare. «Gli inquirenti - ha precisato - mi hanno informato che è stata secretata. Devo comunque sottolineare che Staffa è un galantuomo assoluto, un magistrato che ha sempre anteposto il dovere e gli impegni professionali alle esigenze personali. Un magistrato eccezionale - ha aggiunto - che fino ad oggi è sempre stato un avversario di incredibile valore. Malgrado ciò ha sempre avuto un cuore d'oro, una grande attenzione verso la persona che aveva di fronte».
MALA AMMINISTRAZIONE.
A distanza di pochi giorni dal voto, il Palazzo torna a tremare, scrive “Il Piccolo”. Lo fa, ancora una volta, per effetto dell’inchiesta sulle spese “allegre” dei gruppi consiliari. Inchiesta che, dopo aver pesantemente condizionato la campagna elettorale e stoppato la corsa alla ricandidatura di tanti uscenti, si prepara ora ad accendere i riflettori su nuovi nomi. Compresi quelli di alcuni “vecchi” consiglieri usciti indenni dalla prima fase dell’indagine e rieletti anche in virtù della loro presunta estraneità allo scandalo. A firmare il nuovo atto dell’inchiesta sui rimborsi facili è stata la Procura generale della Corte dei Conti che, ieri mattina, ha inviato una quarantina di inviti a dedurre ad altrettanti esponenti di tutti i partiti rappresentanti in Regione nella passata legislatura. Per i destinatari, riconfermati e non, l’accusa è di danno erariale. Ipotesi di reato che la magistratura contabile ha ravvisato dopo aver passato ai raggi x centinaia di fatture e scontrini relativi alle spese di rappresentanza effettuate nel 2011. La novità rispetto al passato riguarda proprio la scelta di mettere sotto indagine non soltanto le formazioni politiche già finite nel mirino della magistratura penale - Pdl, Pd e Lega -, ma di allargare il tiro, coinvolgendo anche consiglieri finora “scampati” al pericolo. I quaranta esponenti politici che nel giro di qualche giorno riceveranno l’invito a dedurre, tecnicamente l’equivalente di un avviso di garanzia, appartengono infatti a tutti i gruppi consiliari. A riprova di quanto fosse diffusa l’abitudine ad utilizzare in maniera disinvolta i soldi pubblici destinati in origine a sostenere l’attività politica degli eletti. Nella documentazione esaminata dal procuratore Maurizio Zappatori, quindi, sono confluiti non solo gli ormai noti scontrini per l’acquisto di gomme da neve, adozioni a distanza e veglioni di Capodanno rimborsati ai venti nomi iscritti nel registro degli indagati dal pm Federico Frezza. Il dossier contiene molto di più e chiama in causa altri acquisti incauti messi a bilancio anche dai piccoli partiti. Almeno tre, secondo le prime indicazioni, gli inviti a dedurre spediti ad ex consiglieri dell’Udc, un paio quelli contestati alla Sinistra Arcobaleno (rappresentata oggi in aula dall’uscente Stefano Pustetto, ora esponente di Sel), altrettanti alla Lega, che ha riconfermato solo la già consigliera Mara Piccin. Una quindicina poi gli avvisi inviati ad esponenti del Pd (che, nella pattuglia degli uscenti riconfermati, conta oggi Codega, Iacop, Marsilio, Travanut e l’ex Idv Agnola), e poco meno di una ventina quelli inoltrati a consiglieri Pdl (in questo caso i “sopravissuti” sono Marini e Colautti, affiancato dagli ex assessori De Anna e Ciriani). Entro due mesi, i destinatari degli avvisi dovranno rispondere alla Corte dei Conti, depositando una memoria o presentandosi fisicamente in Procura.
Regione, Ballaman e l’auto blu: una settantina di viaggi privati. Un dossier particolareggiato descrive giorni e percorsi, anche documentati da ricevute del telepass. La Procura della Corte dei Conti del Friuli Venezia Giulia ha aperto un'inchiesta per verificare eventuali danni erariali in rapporto all'utilizzo dell'auto blu da parte del Presidente del Consiglio regionale, Edouard Ballaman della Lega Nord, scrive “Il Messaggero Veneto”. Lo si è appreso dal Procuratore Generale della stessa Corte dei Conti, Maurizio Zappatori, che ha precisato che l'iniziativa è stata avviata sulla base di un servizio pubblicato sul Messaggero Veneto. Da una «fonte attendibile» sono stati riferiti circa settanta di episodi nei quali, dal 2008 al marzo 2010, Ballaman avrebbe utilizzato l'auto di servizio e l'autista per finalità non istituzionali, come viaggi a Caorle, in provincia di Venezia, dove Ballaman possiede una casa per le vacanze, e in località dove si svolgevano iniziative o incontri politici della Lega Nord. Sono, inoltre, elencati tragitti per «impegni professionali», verso la casa della fidanzata e attuale moglie a Camponogara (Venezia) e viaggi diretti ad aeroporti del Nord Italia non collegati a impegni istituzionali. A tale proposito il segretario generale del Sindacato Italiano Autisti di Rappresentanza (Siar), Luca Stilli, ha affermato: «Siamo da sempre vigili nel segnalare abusi» delle auto blu. Commentando l'apertura dell’inchiesta della Corte dei Conti su Ballaman (Lega Nord), Stilli ha detto che «questo episodio va verificato nelle sedi opportune e, se vero, è gravissimo ma non significa che tutti coloro che usano l'auto blu lo facciano in modo poco istituzionale. Non facciamo di tutta l'erba un fascio». «Chiunque oggi non si comporti in modo trasparente - conclude il segretario del Siar - non la passa liscia, tale è l'attenzione a riguardo, a garanzia dei cittadini».
C’è da assistere alla prima a Milano del film “leghista” Barbarossa, scrive “Il Messaggero Veneto”. E vanno accolti in aeroporto a Venezia i parenti, in arrivo dal Sudafrica, della futura moglie. Ma ci sono anche gli incontri della Lega, cui non mancare. Una vitaccia, soprattutto per chi ha già molti impegni istituzionali. Come il presidente del Consiglio, Edouard Ballaman, che, forse per tagliare sui tempi, ha deciso di usare l’auto blu anche per gli spostamenti “personali”. Un sistema diventato quasi abitudine, prima che Ballaman decidesse di rinunciare all’auto blu, il 1° aprile del 2010. Ma dal maggio 2008 a marzo del 2010 un autista e un’automobile sono stati a sua disposizione. Da maggio a dicembre 2008 una Lancia Thesis e da gennaio 2009 a marzo 2010 un’Audi A6. Una macchina che ogni giorno era pronta davanti a casa del presidente del Consiglio, Pordenone centro, per accompagnarlo ovunque desiderasse, riportandolo a casa la sera. A indicare giorni e percorrenze è un dossier, non di provenienza anonima, verificato attraverso una “fonte” attendibile e molto ben informata. E il dossier racconta una settantina di spostamenti, alcuni documentati da ricevute del telepass, non coperti dall’egida della Regione e a volte compiuti con al seguito la fidanzata (fino al 21 novembre 2009) e poi moglie, Chiara Feltrin. Una famiglia, quella della consorte, di origine veneziana, per la precisione di Camponogara, vicino a Dolo. Ed è stata proprio Camponogara, un’ora abbondante di macchina da Pordenone, una delle mete più frequenti dell’auto di servizio. Un paio di volte al mese, visite diventate più assidue soprattutto nel novembre 2009, a ridosso del matrimonio. Sposalizio che i coniugi avrebbero voluto fosse celebrato da Umberto Bossi, perché Ballaman e signora si conobbero proprio a un comizio del “senatur”. E allora, forse, il 2 novembre 2009 il viaggio dei quasi sposi a Milano da Bossi, in auto di servizio, è servito proprio per convincerlo, senza però riuscirci, perché il matrimonio è stato poi celebrato dal sindaco di Pordenone, Sergio Bolzonello. Tra gli spostamenti curiosi c’è quello del 7 novembre 2008, a Campoformido, per accompagnare la fidanzata dal dentista. Tra marzo e luglio 2009, invece, un’altra tappa ricorrente è stata Santa Margherita di Caorle, località di mare a un’oretta di macchina da Pordenone, dove i coniugi Ballaman hanno casa, con rogito eseguito da un notaio di Jesolo, dal quale presidente del Consiglio e (l’allora) fidanzata sono arrivati un paio di volte in auto blu. E poi gli aeroporti, mete indispensabili per le gite a Istanbul o per il viaggio di nozze. Da Venezia presidente e (l’allora) fidanzata sono partiti a febbraio 2009 per un week-end “lungo”, da giovedì a lunedì, nella città turca, dove sono ritornati a novembre 2009, altri cinque giorni. Il viaggio di nozze, invece, è stato consumato dal 7 al 23 gennaio 2010, partendo e rientrando all’aeroporto Malpensa di Milano, sempre accompagnati dall’auto blu. L’elenco contiene anche numerosi incontri della Lega, per comizi o riunioni di partito nella sede di Reana del Rojale, vicino Udine. O appuntamenti di tipo professionale. Ballaman è insegnante (in aspettativa) in un istituto privato e commercialista. È quindi impegnato anche come revisore dei conti per alcune aziende private e Comuni, come Azzano Decimo, San Vito al Tagliamento e Spilimbergo. Uso illegittimo dell’auto blu? Saranno eventualmente altri a stabilirlo. Di sicuro, però, inopportuno, per qualunque rappresentante istituzionale. E forse di più per un leghista che dopo due anni dall’insediamento compie il gesto, più simbolico che altro, di rinunciare all’auto blu.
TRIESTE INQUINATA.
Anche Trieste ha la sua Ilva, scrive Andrea Lucchetta su “L’Espresso”. Una fabbrica super inquinante. Che richiede una bonifica costosissima o deve essere chiuso. E mille lavoratori che rischiano di trovarsi disoccupati. Nella città giuliana si replica lo stesso film di Bari. «Lo sai cos'è un siluro?» chiede un veterano della Ferriera di Trieste. «E' il carrello che raccoglie la ghisa. Ne ho trovato uno mangiato dal liquido incandescente, sparso tutto intorno. Mai vista una roba del genere. E se cedeva con un operaio vicino? Poi a ottobre ha preso fuoco un deposito del coke. Ah, ed è pure cascata la cabina di un macchinario con un collega dentro. Per fortuna stava lavorando a terra, non s'è fatto nulla». Ferriera: si sta come d'autunno sugli alberi le foglie, e qui tira la bora. E' un caso Ilva un migliaio di chilometri più a nord di Taranto. L'impianto appartiene al Gruppo Lucchini, che ha superato il miliardo di debiti. E i creditori sono poco propensi a spendere più del dovuto per mantenere una fabbrica sul viale del tramonto.«Alcune voci ci vogliono chiusi da gennaio, altre da marzo. Chissà. Rischiamo di saltare anche prima: se succede qualche guaio che richiede grosse riparazioni, chi paga?». Cinquecento dipendenti a spasso, altri 500 dell'indotto sull'orlo del baratro, in una provincia in cui la forza lavoro si ferma a quota 95mila. Non per tutti sarà un lutto. Le ciminiere della Ferriera fumano a poche decine di metri dalle case di Servola, un rione in cui ha sede anche lo stadio. I 10mila residenti hanno imparato a convivere con la polvere nera che insozza ovunque, e nei giorni di vento si agita impazzita. La Ferriera sporca, puzza, inquina. Uccide? «Non esiste un'analisi epidemiologica diretta. Certo è lecito pensare che non faccia bene»ci spiega Roberto Cosolini (Pd), primo sindaco triestino ad aver militato nel Pc. Benzopirene, diossina e polveri sottili - sostanze associate a tumori e malattie respiratorie - sono l'incubo di Servola. Luigi Pastore, rappresentante sindacale in fabbrica, è un operaio che ha lottato come un leone per i colleghi. Dopo la diagnosi di un tumore maligno all'apparato respiratorio, ha preso carta e penna: «Viene da pensare alle condizioni in cui, tra gas e polveri, si garantiscono pane e dignità alla famiglia. Ma sorge anche l'amaro dubbio che chi poteva farlo non abbia saputo o voluto proteggerti abbastanza nel tuo lavoro». «Mi dispiace essere così crudo: la Ferriera chiuderà, inutile illudersi» spiega il sindaco. «Dobbiamo pilotare lo spegnimento, evitare di subirlo». L'area su cui sorge la fabbrica è immensa, 60 mila metri quadri con tanto di banchina portuale. Il problema è l'inquinamento del suolo, che richiederebbe una bonifica dai costi astronomici. Il ministro dell'Ambiente Corrado Clini ha già fatto sapere che non sarà Roma a sostenerli. Per i sindacati, se Lucchini dovesse fallire i lavoratori rischierebbero di perdere il diritto alla cassa integrazione. Un'angoscia ben nota ai 208 lavoratori della Sertubi, azienda che produce lavorati con la ghisa della Ferriera. I gestori della Jindal Saw hanno annunciato 148 esuberi, e dal 30 novembre scadranno gli ammortizzatori. Sindacati e istituzioni stanno combattendo con la multinazionale indiana perché chieda almeno la cig straordinaria e dia garanzie sul futuro dei 60 dipendenti "graziati". Dal 9 novembre due operai si sono trasferiti in un container in Piazza della Borsa e hanno iniziato uno sciopero della fame. Una sfida nel cuore del salotto cittadino, a un centinaio di metri dall'ingresso del Comune e dal lussuoso Caffè degli Specchi. Per cornice i palazzi della Trieste asburgica, all'interno una branda e una stufetta. «Siamo un po' stanchi, ma non abbiamo voglia di mangiare. Se dobbiamo fare la fame tanto vale che ci abituiamo» provano a scherzare Massimiliano De Simone, 44 anni, e Sergio Fior, 54. Dopo 14 giorni di digiuno hanno perso 11 chili. «Jindal è arrivata nel 2010, dopo aver studiato le carte e a crisi già in corso. Com'è possibile che si siano accorti all'improvviso di dover licenziare? Io mi ricordo l'amministratore delegato, in mensa ci faceva discorsi del genere "spaccheremo il mondo". Qualcuno gli ha creduto, ha fatto un figlio, acceso un mutuo. E ora?». Poche ore dopo saliranno sul palco di Nichi Vendola, eretto a fianco del container. Dal 13 novembre si è unita allo sciopero anche Adriana Simonovich, artigiana di 48 anni, compagna di uno dei due operai. Problema locale? Per Stefano Borini (Fiom) assolutamente no. «Questa è una multinazionale che ritiene di non dover spiegazioni a nessuno. E' logico: vedono come si comporta la Fiat e pensano che l'Italia sia terra di conquista». Tic tac, tic tac. Nel ventre di Trieste ticchetta una bomba a tempo che in pochi vogliono ascoltare. La disoccupazione è contenuta (4,5% a fine 2011), ma le difese sembrano prossime a crollare. L'industria è a un passo dal requiem. Se cade la Ferriera cade l'indotto, e l'impoverimento di un migliaio di famiglie graverà sul commercio, già pesantemente in affanno. «Un disastro» riassume il sindaco Cosolini. Di chiusura della Ferriera si parla da 20 anni, «ma la città non ha costruito strategie per anticipare la crisi». Ora tocca pure sperare che non sia la fabbrica a scegliere il suo destino, accorciando l'agonia con qualche fuoco d'artificio. Di asburgico, da queste parti, sono rimasti solo i palazzi.
EMERGENZA AMBIENTE.
Carso: discariche in cento grotte e 50 doline. Dai metalli alle acque nere ai medicinali, la mappa tracciata su iniziativa del Cai. Dalle discariche della costa, alle cavità dell’altipiano carsico. Non c’è che l’imbarazzo della scelta per individuare i «punti caldi» in cui mani sconsiderate e imprese truffaldine hanno abbandonato ogni genere di rifiuti nel territorio della provincia di Trieste. Metalli pesanti, idrocarburi, mercurio, piombo, plastiche, acque nere, inerti edili, medicinali, rifiuti ospedalieri, ma anche carcasse di animali. Nulla è stato risparmiato. Cento grotte sono diventate discariche; una cinquantina di doline hanno subito la medesima sorte, così come molte cave carsiche in cui l’attività estrattiva era cessata da tempo. Intere zone sono state sottratte alla popolazione, al pascolo e alle coltivazioni. Basta pensare alla colossale «collina delle vergogna», alta una quarantina di metri e formata dai rifiuti che il Comune di Trieste ha trasferito per 14 anni in un avvallamento posto a un solo chilometro di distanza dall’abitato di Trebiciano. Tra il 1958 e il 1972, l’anno in cui entrò in funzione l’inceneritore di Monte San Pantaleone, decine di camion della Nettezza urbana vi riversarono ogni giorno plastica e pneumatici, immondizie e residui alimentari, carta e scatoloni. In totale più di 600 mila metri cubi. Il fuoco bruciava le immondizie giorno e notte e l’odore acre del fumo si spandeva per il Carso. L’intera area era infestata da torme di ratti e da sciami di insetti. Ora questa massa di rifiuti è ricoperta da un paio di metri di terra che non ha nulla a che vedere con il Carso e con le sue peculiari caratteristiche litologiche. Arriva da un altro ambiente, quello marnoso-arenaceo: sulla sommità e sui fianchi di questa collina artificiale, crescono alberi ed erba. Ma sotto la «copertura» che ha nascosto il dileggio e lo strazio ambientale, i rifiuti continuano lentamente a modificarsi. Dal punto di vista biologico il tempo dovrebbe averli inertizzati, ma a livello chimico la partita è ancora aperta. Il Carso è contrassegnato da un’idrografia a tre dimensioni: in profondità corre l’acqua del Timavo e tutta la massa di roccia calcarea è permeabile e fessurata. In pratica la pioggia raggiunge il livello di base dove scorrono le acque sotterranee e altrettanto accade per gli idrocarburi, i fanghi, e gli altri rifiuti abbandonati in superficie, nelle grotte e nelle doline. Vengono trascinati verso il fondo e il loro «percorso» subverticale è segnato per secoli. I censimenti effettuati dai club di speleologi da anni e anni hanno sottolineato lo scempio avvenuto alle spalle della città. L’elenco delle grotte usate come discariche si è via via rimpolpato di nuovi nomi e nuove cavità. In pratica in un prossimo futuro, dovranno essere censite le grotte e gli abissi scampati all’inquinamento, più che quelle inquinate che costituiscono già oggi quasi la norma. Più sono prossime a una strada o a una carrareccia, più sono a rischio. La Grotta del Bosco dei Pini, l’abisso sopra Chiusa, l’abisso del Colle Pauliano, la grotta Plutone, l’abisso di Fernetti, la grotta Nemez, la voragine di San Lorenzo, il pozzo Mattioli, l’abisso di Padriciano, la grotta degli Occhiali, la Fovea Sassosa, l’abisso di Rupingrande, rappresentano solo la sparuta avanguardia di un fenomeno di massa censito da Maurizio Radacich e Giovanni Spinella per conto del Club Alpinistico Triestino. A ogni cavità è attribuita una precisa «tipologia del degrado». Si va dai generici rifiuti, allo scarico di acque nere, ai medicinali, all’inquinamento non meglio specificato, agli idrocarburi, ai motorini e ciclomotori. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Invece il disastro è grande e gli effetti non ancora del tutto compresi. Anche molte doline hanno subito questo insulto. I rifiuti le hanno colmate e lo spessore delle immondizie in talune raggiunge i venti metri. Certo, le discariche scoperte negli ultimi anni lungo la costa da Barcola a Muggia, hanno dimensioni centinaia, se non migliaia di volte maggiori. Ma sull’altipiano, al di là dell’immensa discarica di Trebiciano, il fenomeno è diffuso a macchia di leopardo. Sullo stesso altipiano non solo decine e decine di doline sono state coinvolte nell’inquinamento a hanno spesso ottenuto il via libera della autorità, anche numeri depositi a cielo aperto di vecchie vetture da demolire. Carburanti, olii esausti, batterie, plastiche, non sempre sono state «smaltite» nel rispetto della legge. E sono fioccati i processi. Ma nessuno ha ancora deciso dove e come costruire uno stabilimento per la rottamazione dei veicoli dismessi. In altri Paesi più civili esistono fabbriche di costruzione e fabbriche di demolizione. Da noi le carcasse vengono «lavorate» all’aperto. Va citata in questo elenco anche la vicenda della cava di Santa Croce, usata come discarica dal gennaio 1989 al giugno successivo per scelta del Comune di Trieste. Vi furono ammassati 35 mila metri cubi di cosiddetti «inerti», provenienti da scavi e demolizioni. In precedenza erano stati scaricati nella zona a mare del Rio Ospo, accanto a Muggia. Quando nella cava di Santa Croce non vi fu più posto, divenne necessario assumere una nuova decisione. La discarica prescelta, sempre dal Comune, fu quella di Barcola-Bovedo che avrebbe dovuto assicurare una autonomia di almeno dieci anni, con la previsione di un interramento a mare di un milione e mezzo di metri cubi di inerti. Come sia andata a finire è sotto gli occhi di tutti. Lì sul terrapieno non finirono solo gli «inerti» ma ben altro e ben più pericoloso, tanto da consigliare la costruzione di un «sarcofago» a protezione della salute di velisti e dei windsurfers. Le discariche del Carso e quelle della costa sono collegate da un sottile file rosso. Metalli, plastiche, idrocarburi, residui di combustioni, acque nere. Non c'è che l’imbarazzo della scelta.
PORTO DI TRIESTE: DISCARICA A MARE APERTO.
A Trieste la situazione è ben più preoccupante di quanto non emerga dalle notizie degli ultimi giorni. Dalle inchieste effettuate dall’ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE, riscontrabili su www.ingiustizia.info al link AMBIENTOPOLI e FRIULI-TRIESTE, e da quanto emerge dal sito www.greenaction-planet.org, risulta che l'intero porto di Trieste è pesantemente inquinato. Esso in parte è stato inserito nel SIN (Sito Inquinato Nazionale) di Trieste. L’ultima notizia sparata con grande clamore sui media nazionali riguarda, infatti, uno scarico a mare di residui di demolizione dei cantieri edili per un volume di rifiuti riscontrato di 4.000 metri cubi. Le indagini avrebbero coinvolto un centinaio di uomini, con grande dispiegamento di mezzi aerei e navali. C'è qualcosa che non quadra visto il risultato assai modesto..... e comunque perché si è lasciato scaricare a mare i rifiuti per mesi? Magari avrebbero dovuto bloccare subito il cantiere così si evitava la prosecuzione del reato e il suo aggravamento....Le altre discariche che sono state denunciate sono decisamente più preoccupanti. Andiamo dal terrapieno di Barcola, discarica a mare di fanghi industriali e diossina (120.000 metri quadrati di superficie per oltre 500.000 metri cubi di rifiuti), alla discarica Acquario a Muggia, altra discarica costiera da circa 30.000 metri quadrati con circa 160.000 metri cubi di rifiuti tossici (idrocarburi e metalli pesanti tra cui il mercurio), ad altre discariche costiere a Muggia dove sarebbero stati seppelliti anche resti provenienti dalle esumazioni dei cimiteri provinciali, passando per la Valle delle Noghere (confine tra Trieste e Muggia), che sbocca in mare e dove sono stati scaricati almeno 20 milioni di metri cubi di rifiuti industriali. Non ultime anche le altrettanto preoccupanti discariche sul Carso. Sono stati denunciati alcuni allevamenti di mitili che si trovano proprio di fronte a queste discariche e che sono stati inevitabilmente contaminati senza che l'autorità giudiziaria intervenisse in alcun modo. Un esposto è stato presentato sugli inquinamenti dell’inceneritore di Trieste. Tutto lettera morta, obbligando gli esponenti a rivolgersi alle autorità comunitarie. In seguito a questa attività di denuncia civile, nonostante i reati siano perseguibili d’ufficio, è conseguita una condanna con Decreto Penale, senza contraddittorio e senza esercizio di difesa, contro un aderente all’Associazione Contro Tutte le Mafie, non per calunnia o diffamazione, ma per aver rappresentato senza titolo una associazione ambientalista. Avverso al Decreto Penale si è presentata opposizione. Vicino al mare: anche in acqua detriti e rifiuti d'ogni genere. Dopo molti mesi di osservazione, pedinamenti e sopralluoghi, la Guardia di Finanza di Trieste ha scoperto e sequestrato una discarica abusiva di circa 20.000 mq, a ridosso del mare: 12 le persone denunciate. L'operazione delle Fiamme gialle, coadiuvate dalla Guardia forestale regionale, ha dato esecuzione al decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip di Trieste, Massimo Tomassini, con il quale è stato disposto il sequestro nella città giuliana anche dell'azienda responsabile dell'illecito, comprensiva di beni e di quote sociali, e di mezzi (autocarri ed escavatrici) utilizzati per procedere al trasporto ed allo scarico dei rifiuti o a rovesciare parte dei rifiuti in mare. L'indagine, coordinata dal Sostituto Procuratore della Procura della Repubblica di Trieste, Maddalena Chergia, ha consentito di far luce sulla realizzazione di una gigantesca discarica abusiva che portava lauti profitti: l'azienda era autorizzata ad esercitare attività di riciclaggio e recupero dei rifiuti non pericolosi presso una determinata area di Trieste, ma in realtà si è accertato il conferimento, sulla stessa zona, anche di rifiuti per lo più provenienti da attività di demolizione ovvero dalla esecuzione di attività edili e di escavazione. I militari hanno trovato migliaia di metri cubi di rifiuti e di detriti che distruggevano o alteravano le bellezze naturali di quei luoghi marini. Anche in mare è apparso uno scenario sconcertante, documentato dai subacquei della Guardia di Finanza che, con le riprese video effettuate, hanno rivelato l'esistenza di 'colline artificiali' formate con il rotolamento in mare di macerie, detriti e rifiuti d'ogni genere.
MALAPOLIZIA.
Riccardo Rasman, processo a Trieste: la Malapolizia, scrive Antonio Rossitto su “Panorama”. «Senta, qui al quarto piano c’è uno che sta nudo in un monolocale e butta giù petardi». È il 27 ottobre 2006: sono passate da poco le 8 di sera. In un palazzone di Borgo San Sergio, quartiere popolare di Trieste, c’è trambusto: Riccardo Rasman, un uomo di 36 anni in cura per disturbi psichici, ha lanciato un paio di mortaretti dal balcone del suo piccolo appartamento. Annamaria Rinaldi, moglie del portiere del caseggiato, chiama il 113. Un’ora più tardi, Rasman è a terra: prono, immobilizzato dopo una lunga colluttazione con gli agenti. Ferito al volto, le mani ammanettate, i piedi bloccati con il filo di ferro. Tre poliziotti, per più di cinque minuti, continuano a fare pressione sulla schiena del ragazzone. Fino a quando non smette di respirare. «Omicidio colposo»: nel gennaio 2009 due agenti sono condannati a nove mesi di reclusione, l’altro a sei mesi. Il 26 maggio ci sarà l’udienza d’appello. E forse si riuscirà a chiarire una morte ancora molto misteriosa. L’inchiesta triestina ricorda quella su Stefano Cucchi, morto in carcere nell’ottobre 2009. O quella sul pestaggio del tifoso Stefano Gugliotta, aggredito da un agente lo scorso 5 maggio. Solo che in quei casi si sono riempite pagine di giornali. Per Rasman, invece, tutto si è svolto tra indagini accelerate e retromarce giudiziarie. E soprattutto nella relativa indifferenza dei mass media. Ecco la ricostruzione di quel 27 ottobre di quattro anni fa. Dopo la chiamata al 113, una volante corre a casa di Rasman: a bordo ci sono gli agenti Maurizio Mis e Giuseppe De Biasi. Gli chiedono di aprire la porta. Lui risponde male. Per Claudio Defilippi, avvocato di parte civile nel processo d’Appello, l’uomo è solo impaurito. Nel 1999 ha già denunciato altri due poliziotti, accusandoli di averlo aggredito . Nel referto del pronto soccorso si legge: «trauma», «ematoma», «contusione». Mis e Biasi, però, questo non possono saperlo. Vogliono entrare in casa di Rasman, anche se ha smesso di tirare mortaretti. Dall’altra parte della porta c’è un uomo alto un metro e 85, che pesa 120 chili. Mis e Biasi chiedono rinforzi. La sala operativa manda un’altra pattuglia: gli agenti Mauro Miraz e Francesca Gatti. Uno spiegamento di forze che pare eccessivo perfino agli agenti. Quando l’operatrice chiede «un supporto alla volante 3 per petardi dal balcone», è lo stesso Miraz a esclamare alla radio: «Ma stai scherzando?». Poi chiede se Rasman per caso sia seguito dal centro di salute mentale. Il ragazzo in effetti è in cura per «sindrome schizofrenica paranoide con delirio persecutorio». Il disturbo è comparso sotto le armi, dopo alcuni episodi di nonnismo. Nel 2003 gli è stata riconosciuta l’infermità per causa di servizio. Ma gli agenti apprenderanno queste informazioni troppo tardi. Perché prima di avere una risposta definitiva sullo stato mentale di Rasman decidono di fare irruzione. Forzata la porta, racconteranno di essere stati aggrediti. La stanza è nella penombra. Seguono attimi convulsi e di violenza. Il ragazzo viene bloccato sul letto. Tenta di reagire: scalcia, si dimena. Gli ammanettano i polsi e gli legano le caviglie col filo di ferro. Rasman è immobilizzato, a terra: «Nelle condizioni di non far più male a nessuno» annoterà la sentenza di primo grado. Ma gli agenti continuano a premergli sulla schiena con le ginocchia per alcuni minuti. «Un comportamento ingiustificato e non previsto da alcuna norma» scriverà il giudice Enzo Truncellito. Il medico legale accerterà la morte per «asfissia da posizione». Nelle foto della scientifica, Rasman ha il volto tumefatto e i polsi solcati dal segno delle manette. Il viso è percorso da segni che fanno pensare a un imbavagliamento: il particolare però non emerge nelle indagini. I poliziotti se la cavano con qualche graffio e strappi all’uniforme. Quando escono dall’appartamento, i vicini raccolti sul pianerottolo chiedono notizie. Un agente replica, crudemente: «È morto. Non darà più fastidio a nessuno». Le indagini che seguono sono rapide. E lasciano spazio a sospetti di anomalia. Quella sera stessa vengono sentiti alcuni condomini. Le testimonianze sono raccolte dagli agenti coinvolti. E nei giorni seguenti l’attività investigativa è blanda. Tanto che in casa non viene sequestrato nulla. Giuliana Rasman, sorella di Riccardo, decide di fare da sé. Raccoglie referti medici, testimonianze, trova il filo di ferro con cui sono state legate le caviglie del fratello. Nell’ottobre 2007 il pm Pietro Montrone chiede l’archiviazione. La parte civile si oppone. Presenta al giudice gli indizi raccolti. Nel febbraio 2008, il magistrato fa retromarcia e chiede nove mesi di reclusione per i poliziotti. L’accusa è omicidio colposo. Il 29 gennaio 2009 tre agenti vengono condannati. La difesa fa ricorso in appello e ora manca poco al redde rationem. «È stata una fatalità» dice Paolo Pacileo, avvocato degli agenti. «Non c’è stato alcun abuso. Hanno cercato di difendersi. La morte è dovuta alla posizione in cui Rasman si è trovato dopo l’ammanettamento: un fatto imponderabile». Adesso, in udienza, l’avvocato Defilippi presenterà nuove prove. Come un manico d’ascia macchiato di sangue, trovato a casa del ragazzo. «Nessuno l’ha mai sequestrato» sostiene. «Potrebbe essere stato usato per colpirlo al viso: basterebbe l’esame del dna». Per i poliziotti quel pezzo di legno era stato usato per attaccarli. Discordanza decisiva, che potrebbe chiarire il caso Rasman.
MOBBING: L'INCREDIBILE STORIA DI FRANCESCO DI FIORE.
Vice Brigadiere dell'Arma dei Carabinieri colleziona un serie incredibile di querele: sempre assolto. Una vera e propria storia di mobbing a colpi di denunce. Non si vuole, con questa cronaca, mettere in cattiva luce l'Arma dei Carabinieri che svolge un lavoro encomiabile; è la qualità delle persone che fa la differenza ... e non tutti, purtroppo, sono sempre corretti, scrive “Carabinieri”.
Francesco Di Fiore è nato a Palermo 43 anni fa e per 25 anni ha servito l'Anna dei Carabinieri e alla cui divisa, nonostante le sue disavventure, tiene ancora oggi e nutre rispetto, anche se è stato congedato, non certo per suo volere. Una casa, quella in cui mi accoglie Di Fiore, quando vado a trovarlo in Friuli dove risiede, che ha un garage e una cantina zeppa di raccoglitori, dove Francesco tiene tutta la documentazione sulle sue traversie: richieste di condanne, denuncie fatte da lui e ricevute, sentenze di ogni tipo, articoli di giornali ... Un vero è proprio archivio. Ci sediamo in cucina nella taverna: un caffè, un bicchier d'acqua e inizia un colloquio durato ben 4 ore ...
Tutto comincia dieci anni fa: è il 4 novembre del 1997, quando nella caserma dove presta servizio, in seguito ad un avvicendamento, arriva un Maresciallo a guidare il reparto operativo. Il sottufficiale da poco arrivato, battibecca con un suo sottoposto e dopo questo litigio verbale, il nuovo comandante, decide di sospendere il Di Fiore da una indagine, sotto copertura, che stava svolgendo per ordine del sottoposto con cui il maresciallo ebbe il diverbio.
Di Fiore viene richiamato in caserma e il Maresciallo gli comunica che non deve più occuparsi di quell'indagine. A questo punto, il vice brigadiere palermitano, chiede spiegazioni del sollevamento dall'incarico al suo superiore, che inizia a scaldarsi alzando la voce e minacciandolo.
Di Fiore dopo 17 anni di servizio senza alcuna sbavatura, si becca per quella richiesta 5 giorni di consegna semplice.
Francesco, che ha sempre lavorato nei reparti speciali dei Carabinieri, non rimane a guardare: la punizione ingiusta non gli va giù. Di Fiore a questo punto denuncia il Maresciallo.
Da premettere che durante quella discussione in caserma, nella stanza del "capo" c'erano il vice brigadiere e il comandante, nessun altro.
Vistosi denunciato il Maresciallo si presenta in Tribunale durante il processo e porta con se cinque testimoni, ma gli avvocati del Di Fiore presentano come teste un carabiniere che era arrivato pochi giorni prima del fatto in caserma, il quale dichiara che in quella stanza non c'era nessuno oltre al Maresciallo e lo stesso Di Fiore.
La cosa finisce in una bolla di sapone.
Il maresciallo e i suoi cinque testimoni vengono assolti.
Il tormento per Di Fiore è appena cominciato. "Sono iniziate da lì le pressioni psicologiche - dichiara Francesco - volevano da subito trasferirmi in una zona vicino al valico della frontiera ad Aurisina" .
Di Fiore fa domanda per essere trasferito al Nucleo Operativo di Gorizia che viene accolta.
Prima dell'arrivo di Francesco nella sua nuova destinazione, arrivano le comunicazioni negative del reparto appena lasciato. Dalla padella alla brace ... e proprio il caso di dirlo. In questo nuovo reparto il comandante è un capitano.
Nel 2002 mentre era in caserma a Monfalcone, il capitano lo denuncia per insubordinazione in quanto gli ordinava di "nascondere" il quotidiano "L'Unità" che Di Fiore portava sotto braccio e di rimanere seduto mentre gli parlava. Assolto per insussistenza del reato: quell'ordine non doveva essere impartito.
La famiglia di Di Fiore subisce dei seri contraccolpi. Suonano per vari giorni al citofono e la moglie di Francesco risponde; ogni volta e la stessa storia: anonimi più volte si presentano come Carabinieri. La signora cade in una forte depressione per le pressioni ricevute.
Pochi giorni dopo arriva un'altra accusa di insubordinazione: nel marzo del 2002 Di Fiore viene ricoverato d'urgenza all' ospedale, in due distinte occasioni, per problemi cardiaci e per problemi di origine nervosa, dovuta alle pressioni che subisce in caserma. Questa degenza gli costa tre nuove accuse: simulazione d'infermità aggravata, diserzione aggravata e truffa militare pluriaggravata, tutte con l’aggravante della continuazione. Rinviato a giudizio: assolto perché il fatto non sussiste.
Di Fiore per sottrarsi alle vessazioni a cui è sottoposto, per la nomea che gli hanno affibbiato nella precedente destinazione, opta nel 2003 per chiedere l'aspettativa non retribuita, perché intende dedicarsi alla politica; infatti si candida e viene eletto consigliere comunale a Monfalcone.
A dicembre è invitato a recarsi in caserma dove gli viene notificato un atto ufficioso dal Ministero della Difesa, nel quale si comunica che la sua richiesta viene accettata. Di Fiore accetta e mette a disposizione del Vice Comandante della caserma, la pistola, i caricatori in suo possesso e le manette, il quale però rifiuta di riceverle asserendo che lui non ha avuto alcun ordine in tal senso (da premettere che Di Fiore, in realtà, non aveva alcun obbligo di restituire l'arma, in quanto non è prevista per legge tale disposizione; lo stesso Ministero della Difesa interpellato dal Di Fiore, ha confermato che non esiste obbligo di consegna dell'armamento, poiché, non aveva perso, con l'aspettativa, le proprie attribuzioni giuridiche, quindi era legittimato a detenere la pistola).
Il giorno seguente Francesco invia un fax in caserma, chiedendo di risolvere il problema della detenzione della Pistola, caricatore manette ecc. mettendoli a disposizione dell'Arma dei Carabinieri. Dopo due giorni si presentano a casa del brigadiere due tenenti per perquisire l'abitazione, chiedendo la restituzione della pistola. Di Fiore non ci vede chiaro, comunque sia rimonta la pistola, che normalmente tiene smontata quando sta in casa e la consegna spontaneamente insieme a manette, caricatori, distintivo e patente militare, che i militari gli sequestrano. I due gli chiedono di seguirli in caserma per espletare il verbale. Di Fiore insiste perché il verbale giacché ha consegnato l'arma, gli venga verbalizzato in quel momento, senza bisogno di seguirli. Alla fine dopo una serie di discussioni li segue in caserma; Di Fiore a quel punto viene arrestato per mancata consegna della pistola d'ordinanza e siccome nei giorni precedenti, dal comando di Monfalcone lo avevano cercato varie volte senza trovarlo, l'accusano pure di aver ignorato i solleciti dei suoi superiori per consegnare le dotazioni in suo possesso e quindi per disubbidienza.
Il vicebrigadiere si fa due giorni di carcere e poi finisce agli arresti domiciliari. Di Fiore viene condannato in primo grado a un anno di reclusione per detenzione illegale e aggravata di armamento da guerra e per non aver risposto ai solleciti dei suoi superiori. A distanza di 4 anni dall'arresto e a due dalla prima sentenza, la Corte d'Appello di Verona annulla la sentenza di condanna non rilevando alcun dolo da parte di Di Fiore nella detenzione prolungata delle dotazioni e riguardo alla disubbidienza, viene prosciolto perché i suoi superiori non hanno seguito la prassi stabilità in questi casi, giustificando così il comportamento del vicebrigadiere.
Altre vicissitudini
Durante il periodo intercorso tra l' arresto e la sentenza della Corte d' Appello, a Di Fiore è successo di tutto: una domenica di dicembre si è ritrovato l'auto parcheggiata sotto casa completamente rigata, con le gomme tagliate, i tergicristalli piegati e con tanto di biglietti anonimi minatori. Successivamente a distanza di pochi giorni trovava la vettura aperta con la serratura manomessa, dopo averla lasciata in sosta in piazza Oberdan a Ronchi dei Legionari; mentre si dirige verso casa, per far passare un pedone, frena, ma si accorge che i freni non funzionano. I tubi dei freni della ruota destra erano stati tranciati di netto. Di Fiore ha sporto denuncia contro ignoti.
Una storia incredibile
Adesso Francesco Di Fiore è in pensione, congedato dall'Arma per causa di servizio.
La sua famiglia è in frantumi. Unica consolazione, se così si può dire, e che è stata riconosciuta, ai suoi persecutori, l'accusa di mobbing. Ma può un risarcimento monetario, ricucire uno strappo così profondo che ha solcato la vita familiare e la perduta serenità in tanti anni di vessazioni, dovuta a pochi elementi che sono ben lontani dalla fama della Benemerita?
PARENTOPOLI SANITARIA.
Sanità di padre in figlio. Un gruppo di professori a tirare le fila dei concorsi medici in tutta Italia, scrive Paolo Tessadri su “L’Espresso”. E a pilotare i vincitori. Così le cattedre si regalano in famiglia. A danno dei malati. Ora una indagine della Procura mette nel mirino le università di Novara, Padova e Udine. Una fitta rete di amicizie, come la tela di un ragno: pochi baroni che condizionano interi settori della sanità. Dal cuore del Nord-Est. Epicentro i due policlinici di Udine e Padova, due prestigiose università.
A Padova gli inciuci baronali sono arrivati al punto che un uomo navigato come il professore di Chirurgia Ermanno Ancona, già vicesindaco della città e ascoltatissimo dal governatore Giancarlo Galan, che ne ha fatto il suo consigliere numero uno per le faccende medico-scientifiche, aveva scritto il 10 maggio scorso ai colleghi una lettera assai imbarazzante: "Non possiamo nascondere la testa sotto la sabbia e dire che non esiste nella nostra Facoltà la questione etica. Non è la prima volta che alcuni colleghi aprono le porte dei propri gruppi di lavoro a figli od altri discendenti stretti, creando per loro un percorso accademico agevolato rispetto a quello degli altri comuni collaboratori. Quel che è certo è che questo costume umilia tutti gli altri docenti o aspiranti docenti che operano all'interno della struttura perché è la prova dell'esigua valutazione che si dedica al valore ed al merito all'interno della nostra facoltà. Ebbene è giunto il momento per dire che questo costume deve essere allontanato dalla Facoltà di Medicina di Padova prima di diventare uno degli argomenti di scandalo". Profetiche le parole del consigliere di Galan. Perché di lì a poco ecco arrivare il siluro. Che parte da lontano.
E precisamente dalle 19 dell'otto novembre 2007 quando Antonio Ambrosiani, direttore della clinica di Ginecologia e ostetricia dell'ateneo, si trova contemporaneamente a cena al nono piano dell'Hotel Le Royal Meridien di Shanghai, ospite della Sigo, la società italiana di ginecologia e ostetricia, di cui era presidente, e in sala operatoria per un intervento di 'taglio cesareo complesso'. Lo attesta un documento firmato da Erich Cosmi, medico della clinica, in cui compare Ambrosiani come primo operatore del cesareo. E qui iniziano i guai, perché le foto attestano, invece, che Ambrosiani è a Shanghai e il procuratore di Padova, Orietta Canova, indaga. La Asl licenzia in tronco Gianfranco Fais, il medico responsabile delle sale parto che ha firmato i registri, e sospende il professore.
Ma la macchina giudiziaria è partita. E avvia il ciclone di concorsopoli.
Che arriva a Padova e ad Ambrosiani partendo da Novara dove il procuratore capo, Francesco Saluzzo, ha aperto un'inchiesta sul sistema di consorterie che sovraintende all'assegnazione delle cattedre di ginecologia e ostetricia in buona parte del paese. Protagonista è ancora Ambrosiani insieme a Nicola Surico, direttore di Ginecologia e ostetricia dell'ospedale universitario di Novara e professore ordinario alla facoltà di medicina della città. Secondo la procura, però, le riunioni di un gruppo di una trentina di medici avvenivano a Padova, in particolare nell'antica Biblioteca della facoltà. Qui si sarebbero prese le decisioni sui concorsi. La Procura lavora su una serie di fax e mail. Come quella in cui, nel 2003, il professore di Padova scrive: "Carissimo, ti ricordo i nostri candidati". O ancora: "Elezioni professori ordinari-concorso a un posto di professore ordinario presso l'Università degli studi di Milano-Bicocca, il 'nostro candidato' Antonio Cardone". Che vinse. I documenti racconterebbero di una conventicola di professori legati ad Ambrosiani capaci di pilotare i concorsi di professore ordinario in Ostetricia e ginecologia un po' in tutt'Italia: da Foggia a Milano, da Brescia a Parma, a Roma. A Foggia nel 2005 su cinque commissari , quattro erano membri del gruppo della Biblioteca; a Milano nel 2006, cinque su cinque.
E per prima cosa, i figli: Guido Ambrosiani è professore ginecologo a Padova nella stessa clinica del padre. La figlia di Surico, Daniela, invece, vince nel 2005 il concorso per ricercatrice di ginecologia proprio all'università di Novara, dove il padre è ordinario. I tre commissari di concorso che la assumono provengono tutti, caso rarissimo, da Padova. Ha un bel da predicare Ancona: così fan tutti.
Anche nella vicina Udine dove va in scena la saga della famiglia Bresadola: tre membri all'università, altri tre in ospedale. È dal 2005 che Daniele Franz, ex deputato di An, denuncia lo scandalo e considera: "Essere parente o affine del professor Fabrizio Bresadola risulta essere condizione non necessaria, ma sufficiente per ottenere un impiego nell'ambito del mondo accademico ed in particolare nella facoltà di medicina e chirurgia". Fabrizio è il capostipite: fino a un anno fa era anche presidente dell'azienda ospedaliera Santa Maria della Misericordia di Udine e dal '97 dirige la clinica di Chirurgia generale ed è professore ordinario al dipartimento di Scienze chirurgiche. Insieme a lui lavorano il figlio Vittorio e la di lui moglie, Maria Grazia Marcellino, che ha trovato posto, anche lei, nella medesima clinica. E, per non fare differenze tra figli, ecco l'altro figlio di Fabrizio Bresadola, Marco, che è un filosofo. Ma ha la cattedra a medicina, Storia della medicina.
Curioso che Vittorio sia professore associato di chirurgia toracica e abbia conseguito l'idoneità alla selezione di professore associato nel 2001 quando in commissione, a Siena, sedeva Dino De Anna, collega del padre a Udine e coautore, insieme a Vittorio, di venti lavori presentati alla commissione di cui egli stesso fa parte. Questo non si può fare, anche se nel valutare il collega Vittorio, il professor De Anna afferma che i lavori sono "in massima parte attribuibili allo stesso candidato". D'altra parte Dino De Anna è impegnato a far politica: due volte senatore per Forza Italia, fratello dell'assessore regionale Elio, fino a pochi mesi fa presidente della Provincia di Pordenone.
De Anna fa politica e Bresadola l'accademico, ma entrambi sono nati alla stessa scuola, all'ombra del grande chirurgo ferrarese Ippolito Donini (il cui figlio Annibale, per inciso, è professore di Chirurgia a Perugia). Suo allievo era anche Alberto Liboni, oggi professore di Chirurgia a Ferrara. Dove Liboni, nel 2006, gestisce un concorso di associato di chirurgia generale: della commissione fanno parte Fabrizio Bresadola e Mario Trignano, allievo di Bresadola e professore a Sassari. Chi vince la prova? Paolo Zamboni e Vincenzo Gasbarro che lavorano presso l'istituto di chirurgia generale di cui è direttore Liboni. Bresadola scrive del vincitore: "Di alto profilo l'attività operatoria". Paolo Zamboni è disabile e non opera più da circa dieci anni.