Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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PROFUGHI

 

E FOIBE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

  

 

 

 

 

COMUNISMO ED OMERTA’

INDICE

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IL GIORNO DEL RICORDO DEGLI SMEMORATI.

IL TRENO DELLA VERGOGNA.

L’OMERTA’…

GLI ONORI AI BOIA MACELLAI.

REVISIONISMO E NEGAZIONISMO COMUNISTA.

I FINANZIAMENTI AI NEGAZIONISTI.

LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.

I LIBRI…

GLI SPETTACOLI TEATRALI… MAGAZZINO 18.

LA RAI SI SVEGLIA...

I DOCUMENTARI...

I FILM…RED LAND ROSSO ISTRIA.

IL FESTIVAL DEI COMUNISTI…

I MEDAGLIATI…

I SACERDOTI INFOIBATI…

L’INDIFFERENZA…

DALLE FOIBE A GLADIO. ECCO COME NACQUE L'ANTICOMUNISMO IN ITALIA.

LA STRAGE DI VERGAROLLA E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.

COS’E’ IL GIORNO DELLA MEMORIA.

L’ANTISEMITISMO DELLA SINISTRA.

L’ANTISEMITISMO FRANCESE.

L’ANTISEMITISMO ISLAMICO.

L’ANTISEMITISMO TEDESCO.

L’ANTISEMITISMO ITALIANO.

CRISTIANI ED EBREI. UN CONFLITTO LUNGO DUE MILLENNI.

IL GIORNO DELLA MEMORIA. TUTTI GLI ECCIDI DIMENTICATI DAI COMUNISTI.

 

 

 

 

 

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Facciamo in modo che diventiamo quello che noi avremmo (rafforzativo di saremmo) voluto diventare.

Sono qualcuno, ma non avendo nulla per poter dare, sono nessuno.

Sono un guerriero e non ho paura di morire.

Non ho nulla più da chiedere a questa vita che essa non avrebbe dovuto o potuto concedermi secondo i miei meriti. Ma un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni. Ed è per questo che un popolo di coglioni avrà un Parlamento di coglioni che sfornerà “Leggi del Cazzo”, che non meritano di essere rispettate. Perché "like" e ossessione del politicamente corretto ci allontanano dal reale. In quest'epoca di post-verità un'idea è forte quanto più ha voce autonoma. Se la libertà significa qualcosa allora ho il diritto di dire alla gente quello che non vuole sentire.

Dunque, è questa vita irriconoscente che ha bisogno del mio contributo ed io sarò sempre disposto a darlo, pur nella indifferenza, insofferenza, indisponenza dei coglioni.

Anzichè far diventare ricchi i poveri con l'eliminazione di caste (burocrati parassiti) e lobbies (ordini professionali monopolizzanti), i cattocomunisti sotto mentite spoglie fanno diventare poveri i ricchi. Così è da decenni, sia con i governi di centrodestra, sia con quelli di centrosinistra.

L’Italia invasa dai migranti economici con il benestare della sinistra. I Comunisti hanno il coraggio di cantare con i clandestini: “. ..una mattina mi son svegliato ed ho trovato l’invasor…” Bella Ciao 

Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti. 

«È un paese così diviso l’Italia, così fazioso, così avvelenato dalle sue meschinerie tribali! Si odiano anche all’interno dei partiti, in Italia. Non riescono a stare insieme nemmeno quando hanno lo stesso emblema, lo stesso distintivo, perdio! Gelosi, biliosi, vanitosi, piccini, non pensano che ai propri interessi personali. Alla propria carrieruccia, alla propria gloriuccia, alla propria popolarità di periferia. Per i propri interessi personali si fanno i dispetti, si tradiscono, si accusano, si sputtanano... Io sono assolutamente convinta che, se Usama Bin Laden facesse saltare in aria la torre di Giotto o la torre di Pisa, l’opposizione darebbe la colpa al governo. E il governo darebbe la colpa all’opposizione. I capoccia del governo e i capoccia dell’opposizione, ai propri compagni e ai propri camerati. E detto ciò, lasciami spiegare da che cosa nasce la capacità di unirsi che caratterizza gli americani. Nasce dal loro patriottismo.» — Oriana Fallaci, La Rabbia e l'Orgoglio

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

Se a destra son coglioni sprovveduti, al centro son marpioni, a sinistra “So camburristi”. Ad Avetrana, come in tutto il sud Italia c’è un detto: “si nu camburrista”. "Camburrista" viene dalla parola italiana "camorra" e non assume sempre il significato di "mafioso, camorrista" ma soprattutto di "persona prepotente, dispettosa, imbrogliona, che raggira il prossimo, che impone il suo volere direttamente, o costringendo chi per lui, con violenza, aggressività, perseveranza, pur essendo la sua volontà espressione del torto (non della ragione) del singolo o di una ristretta minoranza chiassosa ed estremamente visibile.

Oltretutto in tv o sui giornali non si fa informazione o cultura, ma solo comizi propagandistici ideologici.

Se questi son giornalisti...

In un mio saggio sulla mafia mi è sembrato opportuno integrare, quanto già ampiamente scritto sul tema, con una tesi-articolo pubblicato su "La Repubblica" da parte di un'autrice poco nota dal titolo "La Mafia Sconosciuta dei Basilischi". Dacchè mercoledì 16 gennaio 2019 mi arriva una e-mail di diffida di questo tenore: qualche giorno fa mi sono resa conto che senza nessuna tipologia di autorizzazione Lei ha fatto confluire il mio abstract pubblicato da la Repubblica ad agosto 2017, in un suo libro "La mafia in Italia" e forse anche in una seconda opera. Le ricordo che a norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali." NB. In dottrina si evidenzia che “per uso di critica” si deve intendere l’utilizzazione oggettivamente finalizzata ad esprimere opinioni protette ex art. 21 e 33 della Costituzione e non, invece, l’utilizzazione funzionale allo svolgimento di attività economiche ex art. 41 Cost. La sua opera essendo caratterizzata da fini di lucro, (viene venduta al pubblico ad uno specifico prezzo) rientra a pieno in un'attività economica. L'art 70 ut supra  è, pertanto, pienamente applicabile al caso del mio abstract, non rientrando neanche nel catalogo di articoli a carattere "economico, politico o religioso", poichè da questi vengono escluse "gli articoli di cronaca od a contenuto culturale, artistico, satirico, storico, geografico o scientifico ", di cui all'art 65 della medesima legge (secondo un'interpretazione estensiva della stessa), la cui riproduzione può avvenire in "altri giornali e riviste, ossia in veicoli di informazione diretti ad un pubblico generalizzato e non a singole categorie di utenti – clienti predefinite." Pertanto La presente è per invitarLa ad eliminare nel più breve tempo possibile il mio abstract dalla sua opera (cartecea e digitale), e laddove sia presente, anche da altri eventuali suoi libri, e-book e cartacei, onde evitare di dover adire le apposite sedi giudiziarie per tutelare il mio Diritto d'Autore e pedissequamente richiedere il risarcimento dei danni.

La mia risposta: certamente non voglio polemizzare e non ho alcun intendimento a dissertare di diritto con lei, che del diritto medesimo ne fa una personalissima interpretazione, non avendo il mio saggio alcun effetto anche potenzialmente concorrenziale dell'utilizzazione rispetto al suo articolo. Nè tantomeno ho interesse a mantenere il suo articolo nei miei libri di interesse pubblico di critica e di discussione. Libri a lettura anche gratuita, come lei ha constatato, avendo trovato il suo articolo liberamente sul web. Tenuto conto che altri sarebbero lusingati nell’essere citati nelle mie opere, e in migliaia lo sono (tra i più conosciuti e celebrati), e non essendoci ragioni di utilità per non farlo, le comunico con mia soddisfazione che è stata immediatamente cancellata la sua tesi dai miei saggi e per gli effetti condannata all’oblio. Saggi che continuamente sono utilizzati e citati in articoli di stampa, libri e tesi di laurea in Italia ed all’estero. E di questo ne sono orgoglioso, pur non avendone mai data autorizzazione preventiva. Vuol dire che mi considerano degno di essere riportato e citato e di questo li ringrazio infinitamente.

La risposta piccata è stata: Guardi mi sa che parliamo due lingue diverse. Non ho dato nessuna interpretazione mia personale del diritto, ma come può notare dalla precedente mail, mi sono limitata a riportare il tenore letterale della norma, che lei forse ignora. Io credo che molte persone, i cui elaborati sono stati interamente riprodotti nei suoi testi, non siano assolutamente a conoscenza di quello che lei ha fatto. Anche perché sono persone che conosco direttamente e con le quali ho collaborato e collaboro tutt'ora. Di certo non sarà lei attraverso l'estromissione (da me richiesta) dalle sue "opere" a farmi cadere in qualsivoglia oblio, poiché preferisco continuare a collaborare con professionisti (quali ad esempio Bolzoni) che non mettono in vendita libri che non sono altro che un insieme di lavori di altri, come fa lei, ma che come me continuano a studiare ed analizzare questi fenomeni con dedizione, perizia e professionalità. Ma non sto qui a disquisire e ad entrare nel merito di determinate faccende che esulano la questio de quo. Spero che si attenga a quanto scritto nella precedente mail.

A questo preme puntualizzare alcuni aspetti. Il mio utilizzo dei contenuti soddisfa i requisiti legali del fair use o del fair dealing ai sensi delle leggi vigenti sul copyright. Le norme nazionali ed internazionali mi permettono di manifestare il proprio pensiero, anche con la testimonianza di terzi e a tal fine fare copie singole di parti di opere per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico.

Molti moralizzatori, sempre col ditino puntato, pretendono di avere il monopolio della verità. Io che non aspiro ad essere come loro (e di fatto sono orgoglioso di essere diverso) mi limito a riportare i comizietti, le prediche ed i pistolotti di questi, contrapponendo gli uni agli altri. A tal fine esercito il mio diritto di cronaca esente da mie opinioni. D'altronde tutti i giornalisti usano riportare gli articoli di altri per integrare il loro o per contestarne il tono o i contenuti.

Io sono un Aggregatore di contenuti di ideologia contrapposta con citazione della fonte. 

Il World Wide Web (WWW o semplicemente "il Web") è un mezzo di comunicazione globale che gli utenti possono leggere e scrivere attraverso computer connessi a Internet, scrive Wikipedia. Il termine è spesso erroneamente usato come sinonimo di Internet stessa, ma il Web è un servizio che opera attraverso Internet. La storia del World Wide Web è dunque molto più breve di quella di Internet: inizia solo nel 1989 con la proposta di un "ampio database intertestuale con link" da parte di Tim Berners-Lee ai propri superiori del CERN; si sviluppa in una rete globale di documenti HTML interconnessi negli anni novanta; si evolve nel cosiddetto Web 2.0 con il nuovo millennio. Si proietta oggi, per iniziativa dello stesso Berners-Lee, verso il Web 3.0 o web semantico.

Sono passati decenni dalla nascita del World Wide Web. Il concetto di accesso e condivisione di contenuti è stato totalmente stravolto. Prima ci si informava per mezzo dei radio-telegiornali di Stato o tramite la stampa di Regime. Oggi, invece, migliaia di siti web di informazione periodica e non, lanciano e diffondono un flusso continuo di news ed editoriali. Se prima, per la carenza di informazioni, si sentiva il bisogno di essere informati, oggi si sente la necessità di cernere le news dalle fakenews, stante un così forte flusso d’informazioni e la facilità con la quale ormai vi si può accedere.

Oggi abbiamo la possibilità potenzialmente infinita di accedere alle informazioni che ci interessano, ma nessuno ha il tempo di verificare la veridicità e la fondatezza di quello che ci viene propinato. Tantomeno abbiamo voglia e tempo di cercare quelle notizie che ci vengono volutamente nascoste ed oscurate. 

Quando parlo di aggregatori di contenuti non mi riferisco a coloro che, per profitto, riproducono integralmente, o quasi, un post o un articolo. Costoro non sono che volgari “produttori” di plagio, pur citando la fonte. E contro questi ci sono una legge apposita (quella sul diritto d’autore, in Italia) e una Convenzione Internazionale (quella di Berna per la protezione delle opere letterarie e artistiche). Tali norme vietano esplicitamente le pratiche di questi aggregatori.

Ci sono Aggregatori di contenuti in Italia, che esercitano la loro attività in modo lecita, e comunque, verosimilmente, non contestata dagli autori aggregati e citati.

Vedi Giorgio dell’Arti su “Cinquantamila.it”. LA STORIA RACCONTATA DA GIORGIO DELL'ARTI. “Salve. Sono Giorgio Dell’Arti. Questo sito è riservato agli abbonati della mia newsletter, Anteprima. Anteprima è la spremuta di giornali che realizzo dal lunedì al venerdì la mattina all’alba, leggendo i quotidiani appena arrivati in edicola. La rassegna arriva via email agli utenti che si sono iscritti in promozione oppure in abbonamento qui o sul sito anteprima.news.

Oppure come fa Dagospia o altri siti di informazione online, che si limitano a riportare quegli articoli che per motivi commerciali o di esclusività non sono liberamente fruibili.

Dagospia. Da Wikipedia. Dagospia è una pubblicazione web di rassegna stampa e retroscena su politica, economia, società e costume curata da Roberto D'Agostino, attiva dal 22 maggio 2000. Dagospia si definisce "Risorsa informativa online a contenuto generalista che si occupa di retroscena. È espressione di Roberto D'Agostino". Sebbene da alcuni sia considerato un sito di gossip, nelle parole di D'Agostino: «Dagospia è un bollettino d'informazione, punto e basta». Lo stile di comunicazione è volutamente chiassoso e scandalistico; tuttavia numerosi scoop si sono dimostrati rilevanti esatti. L'impostazione grafica della testata ricorda molto quella del news aggregator americano Drudge Report, col quale condivide anche la vocazione all'informazione indipendente fatta di scoop e indiscrezioni. Questi due elementi hanno contribuito a renderlo un sito molto popolare, specialmente nell'ambito dell'informazione italiana: il sito è passato dalle 12 mila visite quotidiane nel 2000 a una media di 600 mila pagine consultate in un giorno nel 2010. A partire da febbraio 2011 si finanzia con pubblicità e non è necessario abbonamento per consultare gli archivi. Nel giugno 2011 fece scalpore la notizia che Dagospia ricevesse 100 mila euro all'anno per pubblicità all'Eni grazie all'intermediazione del faccendiere Luigi Bisignani, già condannato in via definitiva per la maxi-tangente Enimont e di nuovo sotto inchiesta per il caso P4. Il quotidiano la Repubblica, riportando le dichiarazioni di Bisignani ai pubblici ministeri sulle soffiate a Dagospia, la definì “il giocattolo” di Bisignani. Dagospia ha querelato la Repubblica per diffamazione.

Diritto di cronaca, dico, che non ha alcuna limitazione se non quella della verità, attinenza-continenza, interesse pubblico. Diritto di cronaca su Stampa non periodica.

Che cosa significa "Stampa non periodica"?

Ogni forma di pubblicazione una tantum, cioè che non viene stampata regolarmente (è tale, ad esempio, un saggio o un romanzo in forma di libro).

Stampa non periodica, perché la Stampa periodica è di pertinenza esclusiva della lobby dei giornalisti, estensori della pseudo verità, della disinformazione, della discultura e dell’oscurantismo.

Con me la cronaca diventa storia ed allora il mio diritto di cronaca diventa diritto di critica storica. La critica storica, se da una parte può scriminare la diffamazione. Cassazione penale, sez. V, sentenza 10/11/2016 n° 47506, dall'altra ha funzione di discussione: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera".

Certamente le mie opere nulla hanno a che spartire con le opere di autori omologati e conformati, e quindi non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera altrui. Quindi questi sconosciuti condannati all'oblio dell'arroganza e della presunzione se ne facciano una ragione.

Ed anche se fosse che la mia cronaca, diventata storia, fosse effettuata a fini di insegnamento o di ricerca scientifica, l'utilizzo che dovrebbe inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali è pienamente compiuto, essendo io autore ed editore medesimo delle mie opere e la divulgazione è per mero intento di conoscenza e non per fini commerciali, tant’è la lettura può essere gratuita e ove vi fosse un prezzo, tale è destinato per coprirne i costi di diffusione.

Valentina Tatti Tonni soddisfatta su Facebook il 20 gennaio 2018 ". "Ho appena saputo che tre dei miei articoli pubblicati per "Articolo 21" e "Antimafia Duemila" sono stati citati nel libro del sociologo Antonio Giangrande che ringrazio. Gli articoli in questione sono, uno sulla riabilitazione dei cognomi infangati dalle mafie (ripreso giusto oggi da AM2000), uno sulla precarietà nel giornalismo e il terzo, ultimo pubblicato in ordine di tempo, intitolato alla legalità e contro ogni sistema criminale".

Linkedin lunedì 28 gennaio 2019 Giuseppe T. Sciascia ha inviato il seguente messaggio (18:55)

Libro. Ciao! Ho trovato la citazione di un mio pezzo nel tuo libro. Grazie.

Citazione: Scandalo molestie: nuove rivelazioni bomba, scrive Giuseppe T. Sciascia su “Il Giornale" il 15 novembre 2017.

Facebook-messenger 18 dicembre 2018 Floriana Baldino ha inviato il seguente messaggio (09.17)

Buon giorno, mi sono permessa di chiederLe l'amicizia perchè con piacevole stupore ho letto il mio nome sul suo libro.

Citazione: Pronto? Chi è? Il carcere al telefono, scrive il 6 gennaio 2018 Floriana Bulfon su "La Repubblica". Floriana Bulfon - Giornalista de L'Espresso.

Facebook-messenger 3 novembre 2018 Maria Rosaria Mandiello ha inviato il seguente messaggio (12.53)

Salve, non ci conosciamo, ma spulciando in rete per curiosità, mi sono imbattuta nel suo libro-credo si tratti di lei- "abusopolitania: abusi sui più deboli" ed ho scoperto con piacere che lei m ha citata riprendendo un mio articolo sul fenomeno del bullismo del marzo 2017. Volevo ringraziarla, non è da tutti citare la foto e l'autore, per cui davvero grazie e complimenti per il libro. In bocca a lupo per tutto! Maria Rosaria Mandiello.

Citazione: Ragazzi incattiviti: la legge del bullismo, scrive Maria Rosaria Mandiello su "ildenaro.it" il 24 marzo 2017.

IL GIORNO DEL RICORDO DEGLI SMEMORATI.

Le tensioni causate dalle parole di Tajani sulle foibe. Il presidente sloveno scrive a Mattarella e esprime preoccupazioni. Il premier croato attacca il presidente dell'Europarlamento, che poi prova a chiarire, scrive l'11 febbraio 2019 Agi. "Viva l'Istria italiana, viva la Dalmazia Italiana": le parole, pronunciate ieri a Basovizza dal presidente dell'Europarlamento, Antonio Tajani, nel suo discorso per la commemorazione delle vittime della foibe, che hanno irritato di Slovenia e Croazia, intervenute oggi ai massimi livelli per chiedere chiarimenti. Il presidente della Slovenia, Borut Pahor, ha inviato una lettera al presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in cui esprime "preoccupazione" per le "dichiarazioni inaccettabili da parte di rappresentanti di alto livello della Repubblica italiana in occasione della commemorazione delle vittime delle foibe che vogliono creare l'impressione che sia stata una pulizia etnica". Secondo alcuni media sloveni nel mirino di Lubiana vi era il vice premier italiano, Matteo Salvini, che ieri ha equiparato i bambini uccisi nelle foibe alle vittime di Auschwitz. Il premier croato, Andrej Plenkovic, si è scagliato invece contro Tajani per il riferimento a "Dalmazia e Istria italiane". "Condanniamo con forza e rifiutiamo la sua affermazione che contiene elementi di rivendicazioni territoriali e di revisionismo. Il Governo e la Hdz sono fortemente contrari", ha affermato il premier ai microfoni dell'emittente N1. Plenkovic ha aggiunto di aver sentito telefonicamente Tajani e di avergli chiesto dei chiarimenti. Qualche ora dopo, il presidente dell'Europarlamento, durante la seduta plenaria a Strasburgo, ha precisato: "Con la mia presenza ho voluto ricordare le migliaia di vittime degli italiani, ma anche tra croati e sloveni. Nel discorso ho fatto presente il percorso di pace e riconciliazione tra italiani, croati e sloveni. Il mio riferimento a Istria e Dalmazia italiane non è una rivendicazione territoriale ma un riferimento agli esuli italiani, ai loro figli e nipoti che erano presenti alla cerimonia". La precisazione non ha tuttavia soddisfatto la Slovenia. È intervenuta anche la commissaria Ue ai trasporti, Violeta Bulc, che su Twitter ha definito "preoccupante" la dichiarazione di Tajani, e ha commentato: "Non è qualcosa che ci aspettiamo dai nostri leader europei. La distorsione dei fatti storici sul confine italo-sloveno è inaccettabile". Altri eurodeputati, anche dello stesso Ppe, hanno criticato Tajani. "Condanno fermamente il vergognoso discorso populista del presidente del Parlamento europeo - ha detto la deputata croata del Ppe, Ivana Maletic - i popoli dell'Istria e della Dalmazia sono stati vittime di questa retorica ed è triste e preoccupante che alcuni non abbiano imparato dai propri errori". "Questi commenti irredentisti non sono degni della funzione di presidente del Parlamento europeo! Criticate Salvini per il populismo e poi usate la sua retorica!", ha affermato l'europarlamentare socialdemocratica croata Biljana Borzan. "Una retorica irredentista che è un attacco aperto all'accordo Osimo, l'atto finale di Helsinki e l'imbarazzo del Parlamento europeo", secondo l'eurodeputato socialista croato Tonino Picula.

Foibe, quelle violenze ​cancellate persino dai libri di storia, scrive Antonio Tajani, Domenica 10/02/2019, su Il Giornale. Per Norma Cossetto, la ventitreenne studentessa istriana di Visinada stuprata da un branco di diciassette partigiani titini e buttata ancora viva nella foiba. Per i 97 finanzieri innocenti prelevati dalla caserma di Via Campo Marzio a Trieste il 2 maggio del 1945 trucidati nella foiba di Basovizza. Per le centinaia di altri finanzieri, carabinieri, agenti di polizia e funzionari di Stato infoibati nelle cavità carsiche sparse in tutta l'Istria. Per Don Bonifacio, assassinato in «odium fidei» nel 1946 e beatificato da Papa Benedetto XVI, per tutti i sacerdoti e i religiosi che sono stati infoibati solo per avere avuto una fede. Per le migliaia di italiani solamente «colpevoli di essere italiani» - uccisi barbaramente dai soldati con la stella rossa. Infine, per tutti quegli altri italiani che nel silenzio generale dovettero abbandonare l'Istria, Fiume e la Dalmazia per disperdersi in Italia o addirittura raggiungere mete più lontane, fino all'Australia e al Canada. Per tutti loro, da Presidente del Parlamento europeo, sento il dovere morale con il tricolore nel cuore, di presenziare alla commemorazione della Giornata del Ricordo delle vittime delle foibe e dell'esodo istriano, fiumano e dalmata. Per tutti loro deporrò una corona di alloro sul ciglio della Foiba di Basovizza a Trieste, città martoriata e che, insieme all'intera Venezia Giulia, più ha subito le violenze del regime comunista del maresciallo Tito. Un vergognoso oblio ha coperto queste vicende per oltre sessanta anni. Per troppo tempo la consapevolezza di ciò che era accaduto viveva solo in migliaia di famiglie di esuli che non riuscivano a darsi pace per la fine dei loro cari; ricordi dolorosi ma pronunciati a mezza bocca, paure lontane ma forzatamente sopite nella incomprensione generale. Nemmeno nei libri di storia nelle scuole vi era traccia di quello che era passato. Molti professori hanno preferito tacere e non insegnare ai propri studenti una pagina buia di storia italiana. Nei vocabolari e nelle enciclopedie alla voce «Foiba» si parlava, quasi beffardamente, solo di «cavità carsica», senza nessun accenno a ciò per cui erano state utilizzate tra il 1943 e il 1945. La cortina di ferro era scesa in Europa da Stettino nel Baltico a Trieste nell'Adriatico e aveva oscurato i crimini titini nella Venezia Giulia. Solo dopo la caduta del muro di Berlino si è, timidamente, incominciato a parlarne fino all'istituzione della Giornata del Ricordo (voluta fortemente dal governo Berlusconi) con la legge del 2004, volta a conservare e rinnovare «la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo degli istriani, dei fiumani e dei dalmati italiani dalle loro terre durante la seconda guerra mondiale e nell'immediato secondo dopoguerra (1943-1945), e della più complessa vicenda del confine orientale». Spiace constatare che per alcuni, però, il muro di Berlino non sia mai caduto. Anche quest'anno, molte, troppe voci negazioniste si sono levate in Italia contestando, sminuendo e disconoscendo la tragedia delle foibe, o, peggio, relegandola a una «memoria di parte». Troppo spesso assistiamo ad un boicottaggio e ad una censura da parte di alcune associazioni, gruppi o collettivi, non solo alle commemorazioni del 10 febbraio ma anche alla divulgazione di film, rappresentazioni teatrali, libri, documentari che vogliono ricordare quella che fu una vera e propria pulizia etnica nella Venezia Giulia e nelle zone limitrofe. Le violenze delle foibe, ormai acclarate dalla Storia e parte di un disegno repressivo del comunismo titino, devono quindi essere considerate tra le tragedie più efferate del secolo scorso. In un discorso del 2007, l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - per anni autorevole esponente del Pci - riconobbe le colpe di chi tacque e di chi ignorò la verità «per pregiudiziali ideologiche e cecità politica». Proprio dalla verità storica è necessario ripartire per ottenere quella riconciliazione tra i popoli invocata nel 2007 e stipulata proprio a Trieste nel 2010 durante il «concerto dei tre presidenti». Alla presenza dei capi di Stato di Italia, Slovenia e Croazia si è voluto dare un punto di svolta nelle relazioni fra i tre Stati che ora sono Paesi amici e partner fondamentali all'interno dell'Unione europea. Ecco, la Pace tra nemici di un tempo è il più importante risultato del progetto di De Gasperi, Adenauer e Schuman. La Giornata del Ricordo è tesa proprio alla volontà di ristabilire la verità, senza pretese di rivincita, ma anche senza negazionismi. Per questo voglio essere presente da Presidente del Parlamento europeo e da italiano alla foiba di Basovizza. Per non dimenticare quello che accadde ai nostri compatrioti, e perché questo non accada mai più.

Il dramma delle foibe, Enrico Rossi: "Abbiamo sminuito l'orrore, oggi non dobbiamo tacere". Il Giorno del Ricordo celebrato in consiglio regionale, scrive il 12 febbraio 2019 La Nazione. "Il silenzio sulle foibe non era più giustificabile. Di questa dimenticanza oggi, noi non dobbiamo tacere, assumendoci le nostre responsabilità per avere negato, sminuito, l'orrore contro l'umanità rappresentato dalle foibe e poi il dolore dell'odissea dell'esodo". Lo ha detto Enrico Rossi in Regione, alla seduta solenne del consiglio regionale nella Giornata del Ricordo, che appunto ogni anno pone al centro dell'attenzione la tragedia delle foibe e delle popolazioni istriane e dalmate che furono perseguitate. «Solo un rinnovato progetto europeo, sostanziato di valori e capace di risolvere i problemi, può affrontare i nodi e lenire i dolori che la memoria del Novecento ci consegna, evitando, come un'assicurazione sul futuro, possibili disastri», ha poi detto Rossi. Quello istituito dal Parlamento nel 2004 è un riconoscimento dovuto alle vittime e ai loro congiunti», ha proseguito Rossi, un riconoscimento che «in precedenza era mancato». Il presidente ha ricordato inoltre le «parole feroci nei confronti degli esuli istriani e dalmati» scritte da Palmiro Togliatti nel 1946 sull'Unità, ma anche eccezioni, «come a Livorno, dove mille profughi furono accolti nella zona di Calambrone e nel quartiere Sorgenti. Il Comune e i carabinieri costituirono un fondo per l'acquisto di libri e altri materiali scolastici per aiutare i ragazzi». «La pace e i rapporti amichevoli che vogliamo costruire sempre più con la Slovenia e la Croazia non possono prescindere dal riconoscimento delle verità», ha concluso il presidente. In aula anche la testimonianza di don Franco Cerri, parroco di Lunata (Lucca) originario di Zara, che ha ricordato la vicenda della sua famiglia. «Fummo costretti a lasciare, nel 1948, la nostra città di Zara e a venire come profughi in Italia, dopo che mio padre era stato ucciso dai partigiani jugoslavi semplicemente perché italiano».  Poi l'esilio, a Gorizia e infine a Lucca, accolti dalla diffidenza della popolazione locale. «Eravamo come degli estranei per i lucchesi - ha detto - pur essendo italiani a tutti gli effetti». «È con grande sofferenza che si ricordano certe cose - ha concluso don Cerri - se pure nella speranza che non si ripetano mai più. Ma l'aria che tira non mi sembra buona».

Il Giorno del Ricordo che nessuno ricorda, scrive Nicola Porro il 10 febbraio 2019. Toni Concina è sempre stato un grande comunicatore e da par suo ricorda ciò che in molti hanno dimenticato e che proprio oggi vorremmo ricordare: la storia dei nostri esuli dalmati, giuliani e fiumani. Ecco il suo contributo.

"Per gli esuli fiumani, giuliani e dalmati sta finendo la stagione dei ricordi e della nostalgia. Inesorabilmente se ne sta andando la generazione degli ultimi nati nelle terre del confine orientale, perdute dopo il Trattato di Pace di Parigi del 1947. Generazione della quale faccio parte anche io, nato a Zara ormai secoli fa…Il faticoso obiettivo è quello di raccontare alle generazioni successive alle nostre la storia dei loro genitori, nonni, avi. Storia che negli ultimi sessant’anni era stata messa in un angolo, mai insegnata e nemmeno ricordata ai nostri ragazzi nelle scuole, fino alla legge del 30 marzo 2004, n. 92, con l’istituzione del Giorno del Ricordo (10 febbraio di ogni anno), giorno della firma dell’infausto Trattato di Pace, alla fine della Seconda Guerra mondiale, che ha tolto un po’ di polvere dai dolorosi avvenimenti degli anni quaranta. Si parla molto di foibe, vicenda infame, che ha colpito migliaia di persone spesso innocenti. Si parla molto di foibe, ma non è questo l’argomento che noialtri “veci” vogliamo sollevare e ricordare. Le foibe sono un terribile, selvaggio, crudele delitto, che peserà per sempre nei cuori e nelle anime degli assassini. Ma il delitto più grande, più spregevole, è quello di aver costretto 350.000 persone ad abbandonare le loro case, dove per secoli avevano vissuto laboriosamente, sotto il lunghissimo dominio di Venezia e successivamente dell’Impero Austro-Ungarico e del Regno d’Italia. E dove ogni pietra parlava italiano. Laboriosamente e pacificamente, con i fatali contrasti delle terre di confine, dove le maggioranze pacifiche sono spesso sopraffatte da manipoli di delinquenti esaltati e di balordi, spesso ammantati di improbabili ideologie politiche. Ma questa è storia di tutti i giorni. Ecco perché per noi “veci” il Giorno del Ricordo rappresenta uno sforzo terribile per recuperare le memorie culturali delle nostre terre, provando a dialogare con croati e sloveni, finalmente con qualche confortante successo. Proprio in questi giorni, a Fiume, sta iniziando una commovente iniziativa per utilizzare il bilinguismo nelle strade, sugli autobus, sui palazzi della città. Le tragedie non vanno dimenticate, certo. E il contributo di Simone Cristicchi (col suo “Magazzino 18”) e del recente film “Red Land” sul calvario di Norma Cossetto sono fondamentali. Per non dimenticare. Ma le tragedie vanno metabolizzate e superate. È quello che proviamo a fare nel Giorno del Ricordo, girando per le Scuole e per le piazze, parlando di Fiume, di Pola di Zara. Felici e gratificati se vediamo finalmente qualche sguardo assorto e perfino commosso. Per questo rendiamo onore e siamo grati al Presidente Mattarella, che vuole dare personalmente alla nostra giornata il valore del suo alto riconoscimento. Grati a lui e a tutti quelli che si soffermeranno per un minuto a riflettere sulla pulizia etnica effettuata nelle nostre terre, pesante macigno per tutti quelli che negli anni scorsi lo hanno voluto colpevolmente dimenticare. Toni Concina, 10 febbraio 2019"

Giorno del ricordo, 10 cose da sapere sulle foibe e sull’esodo istriano-fiumano-dalmata. Un dramma nazionale strumentalizzato dall’estrema destra e rimosso, o talvolta negato, dalla sinistra. Il saggio «Italiani due volte» (Solferino) ne ha ripercorso la storia e raccolto le testimonianze, scrive Dino Messina l'8 febbraio 2019 su Il Corriere della Sera.

L’apoliticità del Giorno del ricordo. Commemorare le foibe e l’esodo istriano-fiumano-dalmata, di cui parlo nel saggio «Italiani due volte» (Solferino), non è né di destra né di sinistra. Per oltre mezzo secolo l’estrema destra ha strumentalizzato questo dramma nazionale, mentre la sinistra lo ha rimosso o talvolta negato. Con il Giorno del ricordo, istituito con una legge nel marzo 2004 e celebrato ogni 10 febbraio, è stato finalmente riconosciuto il diritto alle memorie di un’intera popolazione italiana che più di altre subì le conseguenze della sconfitta nella Seconda guerra mondiale.

Perché «Italiani due volte»? Perché «Italiani due volte»? I trecentomila esuli dall’Istria occidentale, da Fiume e da Zara erano nati in terre italiane, diventate tali dopo i trattati di Rapallo del 1920 e di Roma del 1924. Vivevano in città e province da secoli abitate da gente italiana. Alla colonizzazione romana era seguita nel Medioevo e sino alla fine del 1700 la dominazione veneta. A causa delle violenze e delle pressioni ordinate da Tito quei nostri connazionali scelsero di abbandonare tutto per rimanere italiani.

I danni del fascismo di confine. È vero che il fascismo in quelle terre di confine introdusse una legislazione punitiva per le popolazioni slave, arrivando a proibire l’insegnamento in lingue diverse dall’italiano e vietando persino di esprimersi nella propria lingua agli sloveni e ai croati nei luoghi pubblici. La repressione fascista toccò il culmine quando il regime di Mussolini, alleato di Hitler, nel 1941 invase la Jugoslavia. Molti oppositori del fascismo finirono nei campi di detenzione con un regime molto duro. La lotta tra partigiani jugoslavi e fascisti fu particolarmente cruenta.

Autunno 1943, la prima ondata delle foibe. Con la caduta del regime fascista e la dissoluzione dell’esercito e dello Stato italiani dopo l’Armistizio dell’8 settembre, i partigiani di Tito occuparono alcuni dei maggiori centri dell’Istria e infierirono sulla popolazione civile, arrestando, torturando e gettando nelle foibe (le cavità carsiche dell’Istria) circa cinquecento italiani. Per i comunisti si trattò di una jacquerie, di una reazione spontanea e violenta dopo anni di oppressione. Per gli storici più equilibrati già in questa prima fase di violenza che spesso culminava con l’infoibamento delle vittime (spesso ancora vive) era evidente la volontà della dirigenza della nuova Jugoslavia comunista di colpire gli italiani in quanto tali, e non soltanto i fascisti. Il movimento comunista di Tito aveva infatti motivazioni sociali e una forte componente nazionale e mirava a conquistare con qualsiasi mezzo terre e città italiane. Tra gli obiettivi c’erano non soltanto Zara, Fiume, Pola e i vari centri dell’Istria occidentale, ma anche Trieste, Gorizia e Udine. La prima stagione delle foibe venne interrotta dall’arrivo dell’esercito nazista che costrinse i titini a ritirarsi.

Il martirio di Zara. Particolarmente duro fu il destino di Zara, colpita dal novembre 1943 al 31 ottobre 1944 da oltre 54 bombardamenti alleati. La città, che era una enclave italiana nella Dalmazia croata, venne infine conquistata dai titini il 31 ottobre 1944. L’ottanta per cento delle case era andato distrutto, duemila i civili su circa ventimila morti sotto le bombe. Con l’occupazione di Tito cominciarono le vendette e le persecuzioni degli italiani rimasti. Furono colpite soprattutto le personalità più in vista come i fratelli Pietro e Nicolò Luxardo, titolari della fabbrica che produceva il liquore maraschino; i carabinieri e gli agenti di polizia vennero massacrati.

Primavera 1945, la seconda ondata delle foibe. L’esercito vittorioso di Tito occupò la maggior parte delle città, da Trieste a Gorizia, da Pola a Fiume, inclusi tutti i centri costieri dell’Istria occidentale. L’occupazione (o liberazione, secondo il punto di vista jugoslavo) di queste città durò poco più di un mese, dai primi di maggio ai primi di giugno, quando gli angloamericani imposero ai titini di ritirarsi. Un mese fu sufficiente per seminare il terrore. Furono circa cinquemila le vittime della violenza jugoslava sulla popolazione civile italiana. Molti ancora finirono nelle foibe. Il metodo era sempre lo stesso: si stringevano con filo di ferro i polsi alle vittime che erano legate tra loro. Bastava un colpo al primo della colonna perché tutti i malcapitati precipitassero nelle cavità carsiche. E vero che i titini non colpirono soltanto gli italiani e che furono, se possibile, più duri con i collaborazionisti sloveni, con gli ustascia croati e con i cetnici serbi. Ma è altrettanto vero che gli italiani colpiti non erano soltanto fascisti, ma anche antifascisti, personalità indipendenti, invise perché non volevano seguire le direttive comuniste. Si instaurò così un regime di terrore che avrebbe portato la popolazione italiana a lasciare la terra natale.

Il trattato di pace del 10 febbraio 1947. Il trattato di pace del 10 febbraio 1947, con cui venivano assegnate alla Jugoslavia città e terre italiane fu il colpo di grazia. A parte il cosiddetto Territorio libero di Trieste, diviso tra una zona A affidata al governo militare alleato e una zona B gestita dalla Jugoslavia, tutte le città costiere dell’Istria occidentale, per non parlare di Fiume, delle isole del Quarnaro e di Zara, andarono alla Jugoslavia. L’esodo più emblematico avvenne da Pola: in poche settimane la città, abitata per lo più da italiani, si svuotò. Partirono 28mila persone su circa 30mila abitanti. Un esodo biblico avvenuto con ogni mezzo, a partire dal piroscafo Toscana. In oltre un trentennio (l’esodo durò sino al trattato di Osimo del 1975) partirono circa trecentomila italiani, ottantamila dei quali emigrarono lontano, in Australia, Stati Uniti, Canada, America Latina, Sudafrica.

Insulti e campi profughi. L’Italia malconcia del dopoguerra non era preparata ad accogliere i nostri connazionali istriani fiumani e dalmati. La maggior parte finì nei campi profughi allestiti in caserme, scuole, varie strutture come il campo di Fossoli, allestito per accogliere parte di un’altra grande ondata dell’esodo, quella avvenuta dalla zona B del Territorio libero di Trieste passato alla Jugoslavia dopo il memorandum di Londra dell’autunno 1954. A parte i disagi materiali, gli esuli dovettero sopportare gli insulti di chi li riteneva fascisti e traditori della rivoluzione comunista. Nel febbraio 1947, dopo il quarto viaggio del piroscafo Toscana, approdato ad Ancona, un gruppo di esuli polesani venne fatto salire su un treno che doveva raggiungere La Spezia. Era prevista una sosta a Bologna per rifocillare quella povera gente, tra cui c’erano molti bambini. Ma la Cgil impedì che il convoglio si fermasse. Il treno dovette proseguire fino a Parma, dove finalmente l’esercito poté allestire una cucina da campo.

La memoria negata nel lungo dopoguerra. Come detto, oltre alle sofferenze materiali questi nostri connazionali hanno pagato la sconfitta italiana nella Seconda guerra mondiale con una congiura del silenzio. Diversi sono i motivi, alcuni ideologico-culturali, altri prettamente politici. La storiografia comunista ha da subito sposato la tesi delle foibe come esplosione spontanea di violenza popolare e ha accusato gli esuli soprattutto nei primi anni (basta leggere le corrispondenze dell’epoca sull’«Unità») di essere dei fascisti o, tutt’al più, degli opportunisti attratti dagli effimeri vantaggi della società capitalista. Con la scomunica di Tito da parte del Cominform di Stalin, le grandi potenze occidentali hanno fatto di tutto per non irritare il nuovo alleato jugoslavo, spina nel fianco dello schieramento comunista. Così anche i governi a guida democristiana non hanno inserito le sofferenze dei connazionali istriano-fiumano-dalmati nel discorso pubblico italiano. Tanto più che se si apriva il contenzioso sulle foibe e sulle violenze titine il governo di Belgrado rispondeva per le rime chiedendo conto dei crimini commessi dall’esercito fascista.

Una nuova stagione di riflessione e di dialogo. Con il crollo della Federazione comunista jugoslava e la nascita dei nuovi Stati indipendenti, Slovenia e Croazia (che sono entrati a far parte dell’Unione europea), si è avviata una nuova stagione di riflessione e di dialogo. Nei primi anni del Duemila una commissione di storici italo-slovena è giunta a una prima conclusione comune sulla violenza di Stato contro la popolazione civile italiana. Oggi la questione va affrontata in una dimensione europea, mentre la minoranza nazionale italiana, che una volta era maggioranza, è tornata a crescere e contribuisce allo sviluppo delle nuove nazioni.

Foibe: il giorno del ricordo. L’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in occasione del Giorno del Ricordo nel 2007, userà queste parole: «Va ricordato l’imperdonabile orrore contro l’umanità costituito dalle foibe e va ricordata la “congiura del silenzio”, la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell’oblio. Anche di quella non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità dell’aver negato, o teso a ignorare, la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e dell’averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali».

Foibe, la verità dopo tanto silenzio, scrive Aldo Quadrani su “Viterbo Post”. Il Circolo Reale riportò alla luce la tragedia nel 1997. Gabbianelli la ricordò. Il 10 febbraio, l’Italia celebrerà il giorno del ricordo una ricorrenza civile nazionale istituita con legge del 30 marzo 2004 per non dimenticare le migliaia di Italiani trucidati dall’odio comunista, gettati nelle cavità carsiche, chiamate foibe. Nella nostra città, ma anche in gran parte d’Italia, di questo dramma non se ne ebbe notizia per tanti anni, grazie anche alla connivenza di una certa politica. Dobbiamo arrivare al 6 novembre 1997 quando il Circolo Reale della Tuscia in un pubblico convegno portò alla ribalta questo doloroso evento ed in quella occasione emerse la proposta di dedicare un pubblico sito a questi martiri. Ma si dovette attendere sino al 1999 e precisamente il 16 ottobre, giorno in cui venne intitolata la piazza esterna a Porta Faul ai “Martiri delle Foibe Istriane” grazie alla determinazione dell’allora sindaco Giancarlo Gabbianelli e dell’ allora assessore Antonio Fracassini. Chi era presente forse ancora ricorda la toccante e bellissima cerimonia con tante testimonianze di profughi e parenti di infoibati. Ma anche Viterbo dette il suo contributo di sangue come scoprì, a seguito di indagini, l’allora consigliere comunale Maurizio Federici: il ventenne Carlo Celestini conobbe la tremenda fine della sua vita in un Foiba e a lui fu dedicato il cippo che a tutt’oggi si erge nella piazza. Purtroppo i viterbesi, anche della provincia, che perirono in siffatte condizioni furono molti, come accertarono in seguito lo stesso Federici coadiuvato da Silvano Olmi. Con la nascita della festività nazionale c’è ora un Comitato denominato “10 febbraio” che magistralmente porta avanti annualmente il ricordo dei nostri martiri. Quest’anno la commemorazione avverrà con due giorni d’anticipo, domenica 8 febbraio alle ore 11,30 presso il Piazzale Martiri delle Foibe Istriane, per dar modo ai nostri Cittadini di poter partecipare e ricordare chi morì per la sola colpa di essere Italiano.

E allora le foibe? Si chiede Adriano Scianca su “Il Primato Nazionale”. È capitato una volta a chi scrive di telefonare, per ragioni professionali, a una delle tre maggiori università romane a ridosso della Giornata del Ricordo in onore delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano dalmata. Alla domanda su quali iniziative avesse preso l’ateneo per ottemperare agli obblighi di legge che prevedono pubbliche iniziative in occasione del 10 febbraio, il funzionario dell’università, sensibilmente imbarazzato, si affrettò a precisare: “Guardi, noi abbiamo anche un dipartimento di studi ebraici”. Al che fu chiaro che il passacarte di turno confondeva la Giornata del ricordo (10 febbraio) con il Giorno della Memoria (27 gennaio) e che evidentemente no, la sua università non aveva organizzato alcuna iniziativa per ricordare i connazionali trucidati nelle cavità carsiche. Volendo, l’aneddoto evidenzia anche una stortura nel rapportarsi alla stessa commemorazione del 27 gennaio (che c’entra il fatto di ricordare l’Olocausto con il fatto di avere un dipartimento di studi ebraici?), ma non infieriamo ulteriormente. A quanto pare, il ricordo è una cosa più complicata di quanto qualcuno immaginasse. Non basta istituire una giornata ad hoc per riattivare una memoria interrotta, se non si va a lavorare sulle ragioni di quella interruzione. Certo, magari la Rai domani sera trasmetterà “Il cuore nel pozzo”, la melensa fiction cerchiobottista in cui non si parla di comunisti e in cui gli esuli cantano “O sole mio”, tipico canto del confine orientale. Ma il ricordo vero è un’altra cosa e la classe intellettual-mediatica italiana si guarda bene dall’accostarvisi, in quanto erede spirituale di chi infoibò, torturò, stuprò, cacciò i nostri connazionali, di chi non li fece sbarcare nelle stazioni a cui approdavano dopo l’esodo, di chi gettava il latte destinato ai neonati affamati in terra, con gesto di scherno e sadismo, di chi ha imposto che per anni sulle foibe cadesse un velo di vergognoso silenzio. E dopo aver lasciato per anni il ricordo in mano a un pugno di patrioti solitari, che hanno tenuto viva la memoria per anni in mezzo all’indifferenza complice, oggi si denunciano quei pochi perché strumentalizzerebbero la storia. Non scordiamo, del resto, che poco tempo fa una mediocre personalità dello spettacolo, paracadutata per meriti familiari in prima serata, poteva lanciare il tormentone “E allora le foibe?” (cosa semplicemente inconcepibile in relazione a ogni altra grande tragedia del Novecento) come a sottolineare che chi ha a cuore il martirio delle terre del confine orientale è forse troppo invadente, insistente, petulante, dovrebbe darsi una calmata. Come se di foibe si parlasse in continuazione, come se l’argomento avesse ormai stancato, fosse un fatto assodato, come se non se ne potesse più. E forse, per alcuni, è così. Perché le foibe ricordano la loro eterna colpa e quindi quel nome è per loro insopportabile. Un motivo in più per continuare a pronunciarlo: e allora le foibe?

Il 10 febbraio, data della ratifica dei trattati di pace del 1947, si ricordano gli eccidi in Istria e Venezia-Giulia. 10 febbraio 2015. A 70 anni dai massacri del 1945, scrive Edoardo Frittoli su “Panorama”. La serie di eccidi noti come i massacri delle foibe possono essere divisi in due distinti periodi: gli "infoibamenti" del settembre-ottobre 1943 e le stragi del 1945, che in alcuni casi si protrassero fino al 1947. Non si conosce esattamente ad oggi il numero esatto delle vittime. La storiografia attuale comprende una forbice stimata tra i 5000 e i 12.000 morti. Al di là degli approcci ideologizzati dalla letteratura del dopoguerra e del silenzio sotto il quale passarono gli anni della Guerra Fredda e della Jugoslavia "non allineata" di Tito, sembrano essere all'origine dei massacri una serie di gravi concause, alcune risalenti a decenni antecedenti i fatti. Le popolazioni della Venezia-Giulia, dell'Istria e della Dalmazia a cavallo tra il secolo XIX e il XX  erano caratterizzate dalla dualità etnico-linguistica italiana e slava. Quest'ultima, originariamente rurale, si trovava in una posizione socio culturale più bassa rispetto agli italiani, che costituivano una sorta di borghesia urbanizzata. Tra la fine dell'800 e la Grande Guerra i movimenti nazionalisti slavi, specie in Dalmazia, furono apertamente sostenuti dall'Impero Asburgico in funzione anti-italiana. La vittoria del 1918 portò all'occupazione di tutta la Venezia Giulia, dell'Istria e dalla Dalmazia. Quest'ultima fu alla fine negata all'Italia dalla "Dottrina Wilson", e Roma ottenne solo Zara e alcune isole. Da questa situazione tra gli irredentisti italiani nacque il mito della "vittoria mutilata", ripresa totalmente dal fascismo che si affacciava al potere. Dopo il 1922 inizia il processo di "fascistizzazione" attraverso la proibizione dell'uso delle lingue slave, l'esclusione dalle cariche pubbliche dei cittadini di origine non-italiana e la conseguente attribuzione a soli cittadini italiani dell'istruzione pubblica. Con l'aggressione italo-tedesca del 1941 la geografia di Slovenia, Croazia e Dalmazia fu riscritta. L'Italia procedette all'annessione di Lubiana e gran parte dell'attuale Slovenia. La Croazia passò sotto il regime filofascista di Ante Pavelic. Gli eventi bellici fecero poi precipitare la situazione. Nel 1943 i partigiani jugoslavi erano impegnati nella lotta contro i tedeschi e gli italiani quando arrivò l'8 settembre e il conseguente sbandamento del Regio esercito. Proprio a seguito dell'armistizio si colloca la prima ondata di assassinii legati alle foibe. Nei mesi precedenti, la lotta antipartigiana condotta dagli italiani e dagli alleati tedeschi aveva portato ad alcuni gravi episodi di repressione, sfociati in veri e propri massacri tra la popolazione civile. In Croazia Ante Pavelic, alleato dell'Asse, perseguì violentemente i partigiani, gli ebrei e gli zingari. Parecchi prigionieri sloveni erano stati portati nel campo di concentramento di Gonars, in Friuli. Così come i partigiani jugoslavi furono internati da Pavelic nel campo di concentramento di Jasenovac. All'indomani del' 8 settembre parte del territorio istriano era caduto in mano ai partigiani jugoslavi, i quali compilarono liste di presunti collaborazionisti del regime fascista, che comprendevano frequentemente nomi estranei alle istituzioni nazifascisteo all'esercito. Spesso si trattava di civili italiani ritenuti "in vista" dalla popolazione slava. Gli arrestati, condotti a Pisino, furono fucilati e infoibati. Altri massacrati nelle miniere della zona. Si trattava di circa 600 persone, trascinate e gettate nelle foibe spesso ancora vive, legate tra loro da un filo di ferro collegato a pesanti massi. Nel dicembre 1943 i tedeschi riprendono l'Istria, nell'offensiva che porterà i territori della Venezia-Giulia, Istria e Dalmazia a costituire la cosiddetta zona d'Operazioni del Litorale Adriatico (OZAK) di fatto annessa al Terzo Reich. Qui cominciarono ad operare a fianco dei tedeschi i reparti italiani della RSI (Guardia Nazionale Repubblicana, il reggimento Alpini "Tagliamento", reparti delle Brigate Nere) che si macchiarono di ulteriori tragici episodi di repressione. Ad appesantire il bilancio contribuirono i bombardamenti alleati della zona costiera e l'avanzata dei titini che tra l'autunno del 1944 e la primavera del 1945 riconquistarono la Venezia-Giulia puntando rapidamente su Trieste. L'arrivo degli uomini di Tito segnò la fine anche per gli italiani che avevano fiancheggiato gli jugoslavi nella lotta contro fascisti e nazisti. La polizia segreta di Tito, l'OZNA, comprese negli elenchi dei nemici dello stato comunista di Jugoslavia anche molti elementi facenti parte del CLN. La furia vendicatrice degli uomini di Tito si riversò anche su elementi del clero locale che non si erano macchiati di collaborazionismo. Nella primavera del 1945 furono sterminati nelle foibe migliaia di persone, non solo italiane, non solo membri delle milizie fasciste del Litorale Adriatico. Anche gruppi di Sloveni che si opponevano alla futura Jugoslavia comunista, anche membri di formazioni politiche "non allineate" quali gli Autonomisti istriani, i cui vertici furono barbaramente assassinati. Neppure i membri della Resistenza italiani di ritorno dai campi di concentramento furono risparmiati. Alla tragedia si aggiunse tragedia in quanto i titini, vicini alla vittoria finale, parevano non limitarsi all'acquisizione territoriale della Venezia-Giulia. Essi ritenevano che la vittoria militare coincidesse con quella della rivoluzione sociale comunista. La classe borghese in quelle zone era tradizionalmente identificata con la popolazione italiana tout court , al di là delle appartenenze politiche. Nei mesi del caos che precedettero la fine della guerra molte furono anche le morti dovute a rappresaglie locali, vendette personali o questioni legate a beni e proprietà. Particolarmente cruenta fu la situazione di Trieste e Gorizia all'arrivo dei titini.  Oltre alla eliminazione fisica e all'occultamento nelle foibe del Carso, molti furono gli italiani e in genere gli oppositori di Tito ad essere internati nel terribile lager di Borovnica, nel quale i prigionieri furono massacrati dopo orribili torture fisiche. Sembrava in sostanza che la rappresaglia in quelle zone non si sarebbe arrestata con la fine della guerra, ma che sarebbe proseguita al fine di garantire il nuovo stato jugoslavo contro ogni tipo di opposizione. Cosa che in Italia non si verificò in quanto la Resistenza non si identificherà mai, come in Iugoslavia, con una nuova realtà nazionale (La Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia) in continuità con il movimento resistenziale. Il massacro di migliaia di vite umane nella profondità delle foibe fu messo a tacere praticamente subito. L'inizio della Guerra Fredda vide le mire del maresciallo Tito ridimensionate con la costituzione del TLT di Trieste (zona libera). Nel 1948 poi avviene lo strappo tra Belgrado e Mosca. Sia il PCI che il governo ritennero prudente non riaprire la questione delle foibe.  Il governo e le istituzioni per evitare di affrontare la questione dei crimini di guerra compiuti dagli italiani in un contesto internazionale molto teso. Così come ambiguo rimarrà l'atteggiamento dei comunisti italiani tra il 1945 e il 1948. Questi avevano avvallato l'ingresso dei titini nella Venezia Giulia, acconsentito a tutte le rivendicazioni territoriali jugoslave dal 1945 in avanti. Fino al 1948, anno della rottura tra Stalin e Tito e alla ratifica dei trattati di pace a Parigi il 10 febbraio 1947. Poi il grande silenzio internazionale ha coperto per decenni le imboccature delle depressioni carsiche e il loro contenuto di morte.

Mattarella condanna le foibe. Ma l'eccidio ancora divide. Il capo dello Stato commemora la strage. La Appendino prima nega i cortei, poi è costretta a fare dietrofront, scrive Gian Maria De Francesco, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". «Anche le foibe e l'esodo forzato furono il frutto avvelenato del nazionalismo esasperato e della ideologia totalitaria che hanno caratterizzato molti decenni nel secolo scorso». Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella sua dichiarazione in occasione del Giorno del ricordo, che si celebra oggi, ha speso belle parole per commemorare l'eccidio dei nostri connazionali giuliano-dalmati da parte delle milizie titine. Anzi, ha fatto di più evidenziando come le foibe facciano «parte, a pieno titolo, della storia nazionale e ne rappresentino un capitolo incancellabile, che ci ammonisce sui gravissimi rischi del nazionalismo estremo, dell'odio etnico, della violenza ideologica eretta a sistema». Il capo dello Stato ha voluto ribadire senza se e senza ma che la mattanza della Venezia Giulia deve far parte della memoria condivisa degli italiani proprio contro coloro che bollano ancor oggi quelle vittime come «fascisti che dovevano essere giustiziati» o che cercano di minimizzare la portata dell'evento. Nelle parole di Mattarella, però, hanno pesato anche i fatti di Macerata e la montante insofferenza verso l'ondata migratoria la cui pessima gestione ha reso difficile la convivenza nelle nostre città. Il presidente della Repubblica, ovviamente, ha voluto volare alto, sintetizzando con l'espressione «nazionalismo estremo» l'insieme delle cause di violenze e discriminazioni su base etnica. A farne le spese, purtroppo, non è solo il Giorno del ricordo che squarcia il velo agiografico della lotta partigiana (i titini, infatti, avevano l'appoggio di collaborazionisti italiani) cercando di costruire l'utopia di una memoria condivisa, ma anche una certa idea di patriottismo. Oggi l'ideologia comunista e «internazionalista» è un cimelio rispettato e venerato. Non altrettanto può dirsi del sentimento di amor patrio. E non solo perché la Venezia Giulia, insieme a Trento, era il lascito della vittoria italiana della Grande Guerra, ma perché nel 2018 potrebbe essere altrettanto decisivo celebrare un'«italianità» intesa non come folclore ma come amor patrio. Quello dei caduti nelle foibe, infatti, non era meno sincero di quello delle vittime delle stragi nazifasciste. E, invece, ieri è toccato assistere a una sequela di episodi imbarazzanti. Il sindaco M5S di Torino, Chiara Appendino, ha prima negato e poi concesso l'autorizzazione ad alcune manifestazioni con il risultato che estrema destra e antifascisti sfileranno ognuno per conto proprio. La stessa cosa accadrà a Roma dove, però, il sindaco Raggi organizzerà una cerimonia in Campidoglio. A Milano, invece, il sindaco Giuseppe Sala non sarà alla commemorazione e invierà l'assessore alla Partecipazione, il radicale Lorenzo Lipparini. «Neanche quest'anno il Comune poserà il monumento alle vittime delle foibe e agli esuli: è da tre anni che li prende in giro», ha chiosato il consigliere regionale Fdi, Riccardo De Corato. Situazioni che fanno il paio con l'autorizzazione negata dalla città pisana di Pontedera a un comizio elettorale di Fratelli d'Italia, giudicata a torto da alcuni una formazione incostituzionale anziché un partito uguale gli altri. «Resta la sensazione che ci siano caduti e cerimonie di serie B», ha chiosato ieri il vicepresidente del Senato, Maurizio Gasparri, denunciando «troppe distrazioni, troppe sottovalutazioni e intollerabili iniziative negazioniste». Se si giustifica il cortocircuito logico nazionalismo-razzismo-fascismo, se si collegano le foibe con Macerata, se si continua a pensare che le idee giuste stiano da una parte sola, quella che predica accoglienza e integrazione (e poi non vuole i migranti nella radical chic Capalbio), non solo si tradisce il ricordo di 20mila vittime e di 250mila esuli, ma si alimenta quella guerra civile strisciante che dura da 70 anni.

Perché il loro è ancora un olocausto di serie B? Scrive Giannino Della Frattina, Mercoledì 07/02/2018, su "Il Giornale". È storia dolorosissima e piuttosto nota, ma mai abbastanza ricordata quella di una terribile edizione dell’Unità, il quotidiano che per decenni si è vantato già nella testata di essere stato fondato da Antonio Gramsci e che in quell’uscita in edicola del 30 novembre 1946, scriveva: «Ancora si parla di “profughi”: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi». L'«alito di libertà», secondo i compagni dell'Unità, era quello degli aguzzini del maresciallo Tito la cui pulizia etnica veniva bonariamente definita «avanzata di eserciti liberatori», mentre «gerarchi, briganti neri» erano definiti gli italiani costretti a fuggire dalle torture e dalla morte nell'orrore delle foibe. Una terribile follia, quella dei giornalisti comunisti (che almeno allora avevano il coraggio di definirsi tali), della quale nessuno ha mai nemmeno sentito il bisogno di chiedere scusa. Una delle pagine più disgustose della sinistra italiana che fa il paio con il Treno della vergogna, quello che nel 1947 portò ad Ancona gli esuli scappati da Istria, Quarnaro e Dalmazia. Con i ferrovieri che lo ribattezzarono «treno dei fascisti» e lo presero a pietrate alla stazione di Bologna. Tanti anni sono passati, il comunismo è stato sepolto dagli stessi comunisti che oggi sono i primi a vergognarsene e agli esuli istriani e dalmati è stata dedicata per legge il Giorno del ricordo. Ma il loro rimane lo stesso un olocausto di serie B. Nessuno oggi dice più che si sono meritati quelle morti orribili e neppure che erano tutti fascisti, ma insomma un po' di pregiudizio resta. Ed è facile dimostrarlo, basta pensare alle cerimonie per ricordare il loro sacrificio e l'orrore comunista. Troppo spesso i sindaci di sinistra (come a Milano Giuliano Pisapia) non ci vanno molto volentieri o addirittura non ci vanno proprio, preferendo inviare al loro posto un delegato del Comune. Un modo per far morire di nuovo i loro cari, per rubargli un'altra volta casa, affetti e patria abbandonati in una notte per evitare lo sterminio che è toccato a tanti di loro o lo strazio delle carni che ha fatto di Norma Cossetto il simbolo eterno di quelle sevizie. Perché le parole (non dette) possono ferire quanto le pallottole. Ci pensi quest'anno il sindaco Giuseppe Sala. Questi nostri fratelli hanno giù sofferto abbastanza per il solo fatto di essere italiani. I comunisti non ci sono più, loro invece ci sono ancora. Con tutto il loro orgoglio.

GLI ORRORI DELLE FOIBE, LA MEMORIA CONDIVISA CHE MANCA. Scrive Saverio Paletta il 9 febbraio 2018 su "L'Indygesto.it". I titini commisero verso gli italiani gli stessi crimini compiuti verso molti jugoslavi, avversari o non politicizzati. Guerra antifascista? Proprio no, è solo ciò che vuol fare credere una certa sinistra, vecchia, becera ed estrema. Ma il ricordo dei profughi giuliano-dalmati deve essere una memoria condivisa. Non può restare una prerogativa della destra e uno spot neofascista. Sanremo, evidentemente, ci ha distratti un po’ tutti. Altrimenti ci saremmo accorti che nell’agenda politica c’è il dibattito sul giorno del ricordo dedicati ai profughi giuliano-dalmati, istituito 14 anni fa su iniziativa dell’allora deputato di An Roberto Menia (l’unica iniziativa seria che si ricordi di lui in quasi 20 anni di attività parlamentare, iniziati nel Msi e terminati in Fli). Ci saremmo accorti che quest’iniziativa (sacrosanta) anziché stimolare la riflessione e aprire un dibattito serio in direzione di una memoria condivisa, sta prendendo una piega sbagliata. Anzi, due pieghe assurde, una peggiore dell’altra. Da un lato assistiamo ai tentativi degli scampoli della destra radicale, eredi degli eredi, sicuramente poveri e un po’ degeneri, del Msi, di appropriarsi ancora del ricordo dei tragici eventi di cui furono vittime gli italiani che vivevano nella parte orientale dell’Adriatico.

Dall’altro lato siamo costretti a rivivere i rigurgiti di antifascismo di certa autonomia, che non perde occasione per scadere nella caricatura. Come se ricordare le foibe, chi c’è morto dentro e chi è scappato per paura di finirci fosse ancora una cosa di destra. Come se negare le foibe, e quindi la dignità ai morti e ai profughi, fosse un atto di difesa della democrazia e di estremo omaggio alla Resistenza. Fa davvero male apprendere dell’aggressione subita a Pavia il 7 febbraio dai cittadini che partecipavano alla manifestazione organizzata dall’associazione Recordari ad opera dei consueti “autonomi” (in questo caso anche dal cervello). E fa male sapere che, mentre ancora buona parte dell’opinione pubblica (soprattutto di sinistra) tace o nicchia, molti gruppi di destra radicale inondano le testate giornalistiche e il web di comunicati in cui annunciano questa o quell’altra iniziativa dedicata ai profughi di quasi ottant’anni fa. Come se quei profughi fossero ancora roba loro. Segno che la memoria, nel nostro Paese, collassa per eccesso e non per difetto. È la memoria miope, a sinistra, di chi non sa o non vuole vedere lontano e non ha la lungimiranza di scavare nella propria memoria e di frugare nei propri armadi per fare pulizia di quelle cose imbarazzanti che ancora ci sono e della paccottiglia ideologica che non serve più. È la memoria presbite di chi, a destra, non sa guardarsi attorno e non si accorge che il mondo è cambiato e covare odi non serve più. Certo, questo difetto visivo ha delle giustificazioni importanti. È vero, ad esempio, che per oltre quarant’anni il Msi è stata l’unica forza politica che abbia coltivato, con orgoglio e con coraggio (e, ovviamente, col calcolo politico di chi cerca consensi) la memoria di quella tragedia. Ma emanare una legge e istituire il giorno del ricordo non può e non deve significare sancire una verità di parte. Perché quei morti non hanno colori né orientamenti ma meritano tutti il rispetto che deve essere attribuito alle vittime di una violenza di massa. Come fu violenza di massa quella subita dagli ebrei. Come fu violenza di massa quella subita, nell’Europa dell’Est, da intere popolazioni. Come è violenza di massa quella che oggi cerca facili bersagli negli “altri” e nei migranti e che a stento le istituzioni riescono a trattenere. E allora val la pena riflettere su un dato. Ma per riflettere occorre, innanzitutto, cambiare le parole e, se proprio serve, puntare il dito su chi - per passione ma anche per calcolo - vuole che le parole restino quelle che abbiamo letto e ascoltato per mezzo secolo e continua a insistere su concetti come “fascismo” e “antifascismo”. Lo fanno ancora alcune fazioni dell’Anpi e dell’associazionismo partigiano. Se scaviamo a fondo, ci accorgiamo tra gli italiani giuliano-dalmati, quelli che scapparono e quelli che morirono, i fascisti erano una minoranza. Ma ci accorgiamo anche che i fascisti c’erano pure tra i croati e gli sloveni. Se scaviamo un altro po’, ci accorgiamo che, anche nel complessissimo mondo slavo dell’epoca i comunisti erano una minoranza e che nell’antifascismo slavo c’erano anche gli anticomunisti, come i monarchici di Draza Mihailovic, che furono anch’essi liquidati dai titini. Ma se scaviamo ancora di più, scopriremo una verità più elementare: il lato destro dell’Adriatico, in cui nel giro dei primi trent’anni del XX secolo c’erano state trasformazioni politiche epocali, era una polveriera di tensioni etniche, covate a lungo e spesso stuzzicate ad arte dagli imperi, asburgico e ottomano, che avevano governato quell’area. E tra queste etnie in conflitto c’era anche quella italiana. Intendiamoci: erano in conflitto, per ovvie questioni di potere e ricchezza, le élite, non la gente comune, che si limitava a condurre la propria vita, senza odiare più di tanto, come dimostra ancora il numero di famiglie “miste” e “multietiniche” che hanno saputo resistere a più di un secolo di odi. Ecco, con gli occhiali, rigorosamente bifocali, di questa consapevolezza si può vedere meglio. E allora le categorie di fascismo e antifascismo fanno un passo indietro e lasciano il posto alla verità terra terra di uno Stato, la Jugoslavia di Tito, armato fino ai denti e tutelato da Mosca, che aveva iniziato una guerra di annessione contro l’Italia, che invece in quel momento era una nazione perdente, per sottrarle porti importanti e territori ricchi. Lo Stato di Tito si fece largo a spallate sui cadaveri di qualche milione di slavi (divisti tra tutte le etnie) e a danno di circa mezzo milione di italiani: i 350mila profughi, l’imprecisato numero di massacrati e infoibati e quelli costretti ad assimilarsi. Ce n’è abbastanza per coltivare una politica dell’odio, no? Ma di questa politica dell’odio i popoli non sono colpevoli. Le colpe sono un’esclusiva di chi attizza e continua ad attizzare l’odio attraverso l’incitazione e la rimozione, che è spesso, a sua volta, un’incitazione sotto mentite spoglie. Quest’ultimo è il caso di una fetta, purtroppo ancora consistente, di certa intellighentsia italiana, che non è solo miope ma anche strabica. Ci riferiamo a quell’intellghentsia che continua a coltivare un mito acritico della Resistenza, che fu una storia grande e complessa, ma non una favola. Ma peggio ancora fanno gli epigoni di quest’intellighentsia, troppo a lungo egemone: identificano la guerra di liberazione con le istanze di una sua sola parte: quella che coltivava, in maniera più o meno inconsapevole, altri progetti totalitari che, non trovando troppo sbocco in politica, sono ristagnati nella cultura, avvelenandola fatalmente. Come meravigliarsi, allora, se il ricordo di una tragedia, anziché pacificare gli animi, diventa divisivo? Intanto, godiamoci Sanremo: qualche canzone d’amore, con questi chiari di luna, male non fa. Saverio Paletta

Nel Giorno del Ricordo delle foibe i centri sociali marciano lo stesso a Macerata, scrive "Il Secolo d'Italia" giovedì 8 febbraio 2018. Il sindaco di Macerata Romano Carancini, del Pd, ha chiesto che torni la calma in città. Stop a tutte le manifestazioni, rosse e nere. In particolare sabato era prevista una giornata bollente con in piazza la manifestazione nazionale antifascista voluta dall’Anpi e il corteo dei centri sociali. L’Anpi, con rammarico e lamenti vari, ha accolto l’appello, ma i centri sociali sono intenzionati a prendersi la piazza nonostante i divieti della questura. L’appuntamento già fissato alle 14,30 alla stazione del capoluogo marchigiano non è stato annullato. Il loro programma politico è chiaro e sbandierato in rete, nei network radiofonici e nei comunicati dei vari collettivi: impedire a “fascisti e razzisti” l’agibilità fisica.  “La lotta contro fascismo e razzismo – si legge nel comunicato del centro sociale Sisma di Macerata – è azione quotidiana, è ricostruzione costante delle condizioni che ne determinano l’inagibilità fisica, politica e culturale nelle nostre città e nelle nostre piazze”. Un programma che rievoca gli anni duri dello scontro di piazza, gli anni di piombo. All’epoca era il Msi a fare le spese di questo atteggiamento. Oggi sono le varie formazioni del centrodestra e gruppi estremisti come CasaPound e Forza Nuova.

Da sottolineare che sabato è anche il Giorno del Ricordo, quello che dovrebbe vedere l’intero Paese unito nell’omaggio agli italiani infoibati e che invece si vorrebbe capovolgere in una giornata per alimentare altro odio sociale e politico. La manifestazione degli antagonisti è dunque confermata, nella pagina Fb dell’iniziativa si legge infatti: “Nessuno può sospendere una manifestazione che in pochissimi giorni ha ricevuto appelli, adesioni ed inviti alla partecipazione da tante realtà sociali e singoli cittadini, a livello locale, come a livello nazionale. Per questa ragione confermiamo la manifestazione nazionale contro il fascismo e il razzismo di sabato 10 febbraio. Vi aspettiamo”.

Le foibe della memoria, scrive il 9 febbraio 2018 Luigi Iannone su "Il Giornale". Le foibe sono una profondità carsica nella nostra memoria collettiva. Un vuoto popolato di fantasmi reali e presunti che si rincorrono e mai hanno la forza necessaria per palesarsi. Quando fu istituito il Giorno del ricordo l’intento era chiaro: fare in modo che non vi fosse alcun silenzio su fatti accertati e tenuti nascosti per troppo tempo, e si ricordasse il sacrificio di tutti gli uomini, le donne e i bambini colpevoli solo di essere italiani. E invece tutto è diventato sulfureo come la polvere e il buio di quelle cavità nelle rocce. Financo le alte cariche dello Stato, come capitato anche in anni recenti, si dimenticano di celebrare con dignità e piena consapevolezza un tale abominio. Qualche citazione, una frase di circostanza negli abituali e noiosi discorsi preparati dagli uffici stampa o da asettici ghostwriter, e nulla più. In realtà, quello che accade ai primi di febbraio di ogni anno, è vergognoso e disperante. Il dibattito si accende ma prende una piega laterale e sbagliata, ponendo questo tema con sofisticata scaltrezza ad una parte consistente dell’opinione pubblica che già di suo poco sa e poco vuole sapere. E pur tuttavia, la questione viene sempre presa per il verso sbagliato. E così c’è sempre qualche mente illuminata dell’Anpi che cerca di circoscrivere il fenomeno in parametri ristretti o addirittura negarlo; chi, pur riconoscendo una tale vergogna, indirettamente costruisce plausibili motivazioni di politica estera, di rancore bellico; chi mette in mezzo i fascisti e la loro precedente violenza e via così. La vicenda di Simone Cristicchi di qualche anno fa risulta ancora paradigmatica. Il suo spettacolo Magazzino 18 ebbe tanti e tali impedimenti, manifestazioni contro e attacchi di vario genere, nemmeno si fosse peritato di declamare con orgoglio e fierezza le pagine più tetre del Mein Kampf. E invece stava rappresentando fatti accaduti alcuni decenni fa e che hanno visto, purtroppo, tanti nostri connazionali essere assassinati per il solo fatto di appartenere ad una comunità. Ma la sua vicenda è una delle tante che si sommano in lungo e in largo sul nostro territorio. Come la squallida routine impone, anche quest’anno l’andazzo pare infatti simile. Frotte di nostalgici di ogni schieramento che deviano l’interpretazione dei fatti su binari poco consoni alla verità, l’associazione dei partigiani che nel migliore dei casi fa "buon viso a cattivo gioco" oppure, per fortuna in casi isolati, ancora nega l’evidenza, e alte cariche istituzionali che, con malcelata fatica, riescono a profferire qualche parola solo poche ore prima del 10 febbraio svelando così una adesione al contesto generale di commemorazione più imposta da obblighi istituzionali che da reale e partecipato dolore. Le foibe restano una cavità che squarcia ancora la nostra memoria e da essa fanno capolino i fantasmi di tutta la storia recente che è in larga parte a servizio delle piccole beghe politiche e di mestieranti della cultura. A distanza di tanti decenni non si riesce a dare un senso a quel dolore e a rivolgere una solidale e collettiva preghiera per quegli innocenti, senza incomprensibili distinguo o paventate e inconsapevoli giustificazioni. E fin quando il nostro Paese non si scollerà di dosso i cascami di una dialettica politica sempre combinata con la falsa e capziosa storiografia sarà preda degli spasmi di ogni sorta di radicalismo e mai potrà porre la parola ‘fine’ su questa interminabile, penosa e logorante guerra civile.

Il ricordo per vincere il silenzio sul dramma di esuli e infoibati. A partire dal 2005, ogni 10 febbraio si celebra il giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe e degli esuli istriano-dalmati, scrive Marianna Di Piazza, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". Oltre 10mila italiani torturati e uccisi nelle foibe. Più di 300mila quelli scappati dalla loro case per sfuggire alla violenza dei partigiani di Tito. Ogni 10 febbraio si celebra il giorno del Ricordo e per non dimenticare questa drammatica pagina della nostra storia, siamo andati nei luoghi dove si è consumata la tragedia all'indomani della fine della Seconda guerra mondiale. Sul Carso triestino, la foiba di Basovizza, pozzo minerario scavato agli inizi del 1900, è diventata il simbolo di tutte le atrocità commesse dai partigiani jugoslavi. "In quest'area gli uomini di Tito hanno realizzato un massacro veramente immane. Uno strumento di terrore con il quale il maresciallo costruiva il suo nuovo Stato rivoluzionario comunista sul sangue versato da italiani, sloveni e croati", ha dichiarato il presidente della Lega Nazionale, Paolo Sardos Albertini.

Le foibe. Le foibe sono delle cavità naturali presenti sul Carso, l'altipiano alle spalle della città di Trieste e dell'Istria. Alla fine della Seconda guerra mondiale, i partigiani di Tito le utilizzarono per scaricare al loro interno migliaia di persone. Spogliate e legate l’una con l’altra con un fil di ferro stretto ai polsi, le vittime venivano schierate sugli argini delle cavità. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro. Coloro che non morivano sul colpo, erano condannati a soffrire per giorni. Furono circa 10 mila gli italiani infoibati, ma anche 150mila sloveni e 900mila croati finirono vittime del maresciallo Tito. "Nel territorio di Trieste ci sono decine di foibe. Ma oltre confine, in Slovenia, vengono continuamente scoperte nuove foibe con cadaveri all'interno", ha spiegato Albertini.

Le vittime. "Con lo strumento delle foibe, si volevano eliminare le persone che avrebbero potuto dare fastidio al nuovo Stato comunista jugoslavo", ha affermato il presidente Albertini. "Le truppe di Tito, entrate a Trieste, avevano con loro un elenco delle persone che andavano infoibate. Il meccanismo delle foibe era finalizzato a creare una situazione di terrore. E il terrore è tale anche se colpisce in maniera assolutamente casuale". A Basovizza una lapide ricorda l'infoibamento di un gruppo di finanzieri. Prelevati dai partigiani titini con la scusa di dover essere sottoposti ad alcuni controlli, gli uomini sono stati invece infoibati. Pochi giorni prima avevano partecipato all'insurrezione di Trieste contro i tedeschi. "Questa è stata la loro colpa", ha raccontato Albertini. Ma le foibe non sono state l'unico strumento di repressione titino. Migliaia di persone sono state deportate nei campi di concentramento comunisti di tutta la Jugoslavia. "Mia mamma ha cercato mio padre per anni", ha sussurrato con dolore Annamaria Muiesan, esule di Pirano. "Si è fatta portare più volte vicino ai campi, ma non lo ha mai trovato". La donna, dopo essere scappata da bambina insieme alla madre e alla sorella, ha raccontato della mattina in cui hanno portato via suo padre: "I collaboratori dei titini hanno fatto irruzione in casa nostra. Da quel momento non ho più rivisto mio papà".

La foiba n.149. A guerra finita, il primo maggio 1945 Tito entra a Trieste. Per oltre un mese le forze jugoslave si abbandonano alle violenze, in quelli che a oggi sono ricordati come i "40 giorni del terrore". I partigiani portano i prigionieri, con i vagoni merci, fino alla foiba di Monrupino, meglio conosciuta come foiba 149 (guarda il video). Pochi, difficili passi lungo la scarpata, poi la condanna a morte: le vittime vengono fatte precipitare nel baratro. Secondo alcune stime, in questa foiba hanno trovato la morte circa 2.000 persone.

Quei rastrellamenti partigiani rimasti nascosti per 75 anni. Inedita testimonianza sui giorni dopo l'armistizio: «A Sussak fecero sparire un migliaio di corpi trasformandoli in sapone», scrivono Serenella Bettin e Fausto Biloslavo, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". I partigiani di Tito portavano in una cartiera i «nemici del popolo» con un furgone della polizia italiana, che avevano sequestrato, per ridurli letteralmente a pezzi in barbare esecuzioni. Poi si disfacevano per sempre dei resti nel vicino saponificio, come i nazisti.

La testimonianza inedita. L'orrore perpetrato vicino a Fiume subito dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 viene rivelato per la prima volta da un'inedita testimonianza scritta anni fa e mai resa pubblica, in possesso del Giornale. La mattanza di prigionieri croati o italiani andò avanti per giorni, come in altre parte dell'Istria, dove i partigiani jugoslavi assunsero il controllo fra il settembre ed il novembre 1943 nella prima ondata delle foibe. «Questo fatto che ora vado a raccontare sembra inverosimile e lo dico come lo ebbi a sapere» scrive l'autore dell'inedita violenza alle porte di Fiume, che nel 1943 aveva poco più di vent'anni e faceva il servizio militare a Sussak, a pochi chilometri dal capoluogo del Quarnaro. Al Giornale ha chiesto di restare anonimo perché, sembra incredibile, ma dopo 75 anni continua ad avere paura. I testimoni di questa terribile storia delle violenze titine furono disarmati diversi giorni dopo l'8 settembre e trasferiti a Pola dai tedeschi, che dopo un mese ripresero il pieno controllo dell'Istria con altrettanta brutalità. «Quando fummo concentrati nel campo sportivo militare fuori della città di Pola, mi sentii chiamare venendomi incontro il carabiniere Moscatello (che era accantonato a Sussak, nda) - si legge nella testimonianza scritta - Piuttosto agitato mi disse: Ti ricordi Hai presente che il giorno dopo l'armistizio dell'otto settembre per due giorni si vedeva passare diverse volte e per tutto il giorno un va e vieni del furgone nero della Polizia Italiana?». A Sussak si era insediato il comando del II corpo d'armata Slovenia-Dalmazia del nostro esercito. Nel vuoto provocato dall'8 settembre i partigiani occuparono il centro abitato per una settimana fino alla controffensiva tedesca. E molti soldati italiani allo sbando rimasero sul posto. Il testimone ancora in vita ricorda che «andai al comando e dietro la scrivania del colonnello era seduto il capo dei partigiani, figlio dell'oste del paese». In poco meno di un mese i partigiani di Tito dichiararono l'annessione dell'Istria alla futura Jugoslavia cominciando a perseguitare chi rappresentava l'Italia. Maestri, funzionari pubblici, agenti di sicurezza e loro congiunti furono prelevati e uccisi. Gli italiani trucidati risultarono almeno un migliaio, ma anche i croati poco allineati con Tito, non solo militari, erano condannati ad una brutta fine. Nel 1943 il carabiniere Moscatello raccontò al testimone ancora in vita, che il cellulare della nostra polizia sequestrato dai partigiani andava a prelevare i nemici del popolo e «...velocemente entrava nello stabilimento della cartiera...» di Sussak. Il carabiniere confidò al commilitone «che di nascosto entrò nella cartiera... e assistette a una cosa impressionante». Dal furgone della polizia «appena entrato facevano scendere le persone all'interno e le ammazzavano facendole immediatamente a pezzi». Brutali esecuzioni sommarie, ma sapendo che ben presto sarebbero tornati i tedeschi in forze, i partigiani non volevano lasciare tracce di cadaveri infoibati o fosse comuni. «Moscatello ebbe anche a vedere che poi i pezzi venivano messi sulle cassette di legno per essere trasportate con il carretto nell'adiacente saponificio - si legge nella testimonianza scritta - passando per un piccolo ponticello in legno attraversando il fiume Eneo». I resti umani venivano fatti sparire per sempre trasformandoli in saponi. Il carabiniere testimone della mattanza potrebbe essere Venanzio Moscatello, classe 1910, scomparso da tempo. Fra il 1942 e 1943 è stato in servizio al comando italiano Slovenia-Dalmazia a Sussak, come dimostrano gli attestati militari. Purtroppo anche il figlio è morto, ma il Giornale è riuscito a recuperare una foto del carabiniere. Il commilitone che raccolse la sua terribile rivelazione nel 1943 lo ha riconosciuto: «È lui senza dubbio». E nel suo scritto ricorda come il testimone sia scampato alle esecuzioni nella cartiera della morte vicino a Fiume: «Moscatello mi disse che inorridito, sempre di nascosto si ritirò non potendo fare niente. Se lo avessero visto avrebbe certamente fatto la stessa fine».

Le pagine sulle foibe (che non scandalizzano i benpensanti). Pagine sulle foibe, sui Marò da buttare nelle cavità carsiche, sugli "idoli delle foibe" e così via. Sul web la pacificazione nazionale appare lontana, scrive Francesco Boezi, Venerdì 09/02/2018, su "Il Giornale". Il web, si sa, è un luogo colorito: si trova di tutto. Perfino pagine apertamente satiriche sulla tragedia delle foibe. Una, forse in modo meno ironico, è intitolata: "Uccidere i Marò gettandoli nelle foibe". Basta scorrere un minuto con il mouse per comprendere il taglio dato allo spazio social in questione: "Come fu che i nostri Marò vollero entrare in politica e si scavarono la foiba con le loro mani" recita la foto di un post condiviso dalla pagina "Libri vintage per l'infanzia". Satira, certo, su quella che dovrebbe essere riconosciuta pacificamente come una tragedia nazionale. E sui Marò del caso dell'Enrica Lexie, che in qualche modo vengono etichettati a simbolo politico di destra, quindi passibili di scherno e risibilità. "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie" è il nome di un'altra di queste pagine facilmente reperibile su Facebook. "Quest'anno le foibe non se l'è inculate nessuno... questa precarietà esistenziale non risparmia proprio nulla", si può leggere nel primo post visibile (almeno per chi non ha cliccato "mi piace"), risalente al 12 febbraio 2014. E subito dopo un murales recitante la seguente scritta: "Tu mi porti su e poi mi lasci cadere #foibe". Satira, evidentemente. Condivisa questa volta da "Anti Rac (Ama la Musica Odia il Razzismo)". In un post del 10 febbraio 2014, quindi durante Il Giorno del Ricordo, si trova scritto: "Anche Dante ha parlato del dramma delle foibe, poi non dite che non ci sono le fonti "Tanto gentile e tanto onesta pare la foiba mia quand'ellla altrui vi salta, ch'ogne lingua devan tremando muta e li occhi no l'ardiscon di guardare". Gli eccidi ai danni della popolazione italiana residente in Venezia Giulia, in Istria e in Dalmazia, quindi, "canzonati" alla maniera dell'Alighieri. L'autore, certamente, avrà voluto rendere omaggio in modo post-datato agli infoibati.

Poi, ancora, c'è la pagina "E i marò is the new "E le foibe?". In questo caso viene ripreso un famoso siparietto dell'attrice Caterina Guzzanti che, nei panni di una militante di Casapound, incalzata dall'intervistatore, ripeteva sempre la medesima frase sulle foibe. "E i marò", dunque, sarebbe in qualche modo diventata l'unica argomentazione rimasta a disposizione di un militante di destra. Oppure, a seconda delle interpretazioni, l'unica conosciuta. Un'altra pagina curiosa è "Tirare fuori a caso le foibe nei commenti". Qui gli inghiottitoi carsici sono finiti, attraverso un fotomontaggio, sui bigliettini dei Baci Perugina. Infoibamenti e dolcezze, insomma. Più difficile, invece, dedurre il collegamento pensato tra il titolo di "Idoli delle foibe", l'ennesima di queste pagine, e i personaggi selezionati per i post pubblicati: Fabrizio Corona, Enzo Salvi, Alvaro Vitali e così via.

I lettori, sicuramente, ricorderanno la chiusura di "Scl", che faceva (e fa) "satira non di sinistra". I contenuti elencati nelle circostanze citate, invece, sembrano non indignare i benpensanti e i cosiddetti controllori del web. Nessun appello pubblico, almeno sino ad ora, è stato fatto per rimuovere alcuni di questi contenuti. Se la "satira" non provoca scandalo in chi la recepisce, del resto, non sarebbe tale. E "Uccidere i Marò gettandoli nelle foibe", in particolare, è un'espressione trovata in una di queste pagine ovviamente tutelata dal diritto alla libertà di espressione. Oppure no?

IL TRENO DELLA VERGOGNA.

Il Treno della Vergogna. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Treno della vergogna è la locuzione popolare con cui s'intende il convoglio ferroviario che nel 1947 trasportò ad Ancona chi proveniva dal quarto convoglio marittimo di Pola, carico di esuli italiani che al termine della seconda guerra mondiale furono costretti ad abbandonare i loro paesi, le loro abitazioni e le loro proprietà in Istria, Quarnaro e Dalmazia nel contesto storico generale ricordato come l'esodo istriano. Fu anche offensivamente definito, da una parte dei ferrovieri di allora, treno dei fascisti, a testimonianza della disinformazione e del contesto estremamente politicizzato e ideologizzato in cui tale vicenda si consumò. I fatti gravi e incresciosi si verificarono nella stazione di Bologna Centrale. La domenica del 16 febbraio 1947 da Pola partirono per mare diversi convogli di esuli italiani con i loro ultimi beni e, solitamente, un tricolore. I convogli erano diretti ad Ancona dove gli esuli vennero accolti dall'esercito a proteggerli da connazionali, militanti di sinistra, che non mostrarono alcun gesto di solidarietà. Ad accogliere benevolmente gli esuli ci furono tre uomini, dei quali due con la fisarmonica, che cominciarono a cantare vecchie canzoni istriane: questi erano esuli precedentemente sbarcati e che avevano combattuto nella resistenza italiana. La sera successiva partirono stipati in un treno merci, sistemati tra la paglia all'interno dei vagoni, alla volta di Bologna dove la Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa Italiana avevano preparato dei pasti caldi, soprattutto per bambini e anziani. Il treno giunse alla stazione di Bologna solo a mezzogiorno del giorno seguente, martedì 18 febbraio 1947. Qui, dai microfoni di certi ferrovieri sindacalisti CGIL e iscritti al PCI, fu diramato l'avviso Se i profughi si fermano per mangiare, lo sciopero bloccherà la stazione. Il treno venne preso a sassate da dei giovani che sventolavano la bandiera rossa con falce e martello, altri lanciarono pomodori e sputarono sui loro connazionali, mentre taluni buttarono addirittura il latte, destinato ai bambini in grave stato di disidratazione, sulle rotaie, dopo aver buttato le vettovaglie nella spazzatura. Per non avere il blocco del più importante snodo ferroviario d'Italia il treno venne fatto ripartire per Parma dove POA e CRI poterono distribuire il cibo, trasportato da Bologna con automezzi dell'esercito. La destinazione finale del treno fu La Spezia dove i profughi furono temporaneamente sistemati in una caserma. Queste testimonianze nel tempo si sono accresciute di dettagli grazie ai racconti di vari esuli, tra i quali Lino Vivoda. È da ricordare, sempre sotto testimonianza di Lino Vivoda, che ci furono anche altri sbarchi di profughi. Anche molti giornali mostrarono disprezzo verso gli esuli: L'Unità, già nell'edizione del 30 novembre 1946, aveva scritto in modo ostile verso coloro che abbandonavano le terre divenute parte della nazione jugoslava governata dal dittatore comunista Josip Broz Tito: «Ancora si parla di 'profughi': altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.» Il giornalista de L'Unità Tommaso Giglio, poi direttore de L'Europeo, riferendosi al treno che trasportava i profughi, scrisse un articolo[quale?] il cui titolo recitava Chissà dove finirà il treno dei fascisti?. Lo storico e scrittore Guido Rumici in uno dei suoi saggi scrive: «Si trattò di un episodio nel quale la solidarietà nazionale venne meno per l'ignoranza dei veri motivi che avevano causato l'esodo di un intero popolo. Partirono tutte le classi sociali, dagli operai ai contadini, dai commercianti agli artigiani, dagli impiegati ai dirigenti. Un'intera popolazione lasciò le proprie case e i propri paesi, indipendentemente dal ceto e dalla colorazione politica dei singoli, per questo dico che è del tutto sbagliata e fuori luogo l'accusa indiscriminata fatta agli esuli di essere fuggiti dall'Istria e da Fiume perché troppo coinvolti con il fascismo. Pola era, comunque, una città operaia, la cui popolazione, compattamente italiana, vide la presenza di tremila partigiani impegnati contro i tedeschi. La maggioranza di loro prese parte all'esodo.» Nella stessa stazione dove si verificarono tali fatti, vicino il primo binario nel Giorno del ricordo del 2007, l'amministrazione comunale di Bologna fece apporre una lapide commemorativa con un testo che suscitò polemiche nell'opinione pubblica e sui giornali. Il politico Roberto Menia, primo promotore della legge che istituisce il Giorno del ricordo, fece un'interrogazione parlamentare dalla quale si venne a sapere che il testo fu concordato tra comune e Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia. La lapide fu stabilmente sistemata con un testo riveduto e corretto, anche se le polemiche continuarono. Il testo della lapide è il seguente: «Nel corso del 1947 da questa stazione passarono i convogli che portavano in Italia esuli istriani, fiumani e dalmati: italiani costretti ad abbandonare i loro luoghi dalla violenza del regime nazional-comunista jugoslavo e a pagare, vittime innocenti, il peso e la conseguenza della guerra di aggressione intrapresa dal fascismo. Bologna seppe passare rapidamente da un atteggiamento di iniziale incomprensione a un'accoglienza che è nelle sue tradizioni, molti di quegli esuli facendo suoi cittadini. Oggi vuole ricordare quei momenti drammatici della storia nazionale. Bologna 1947-2007. Comune di Bologna e ANVGD». La frase concordata con i profughi e loro figli o nipoti è "Bologna seppe passare rapidamente da un atteggiamento di iniziale incomprensione a un'accoglienza che è nelle sue tradizioni". Come facilmente è intuibile, i fatti sopra descritti sono richiamati nelle quattro parole "atteggiamento di iniziale incomprensione", che possono sembrare poche, ma è pure vero che un certo numero di esuli trovò accoglienza in Bologna quando la situazione fu chiarita e cambiò il contesto politico internazionale con l'uscita della Iugoslavia dall'influenza sovietica nel giugno 1948 quando a finire nelle galere iugoslave furono pure molti militanti comunisti italiani perseguitati dai titoisti.

Accadde oggi: nel 1947 il “treno della vergogna” arriva a Bologna. All'arrivo degli esuli si rese necessario l'intervento dell'esercito: i militari dovettero proteggerli da connazionali, militanti di sinistra, che non mostrarono solidarietà e li accolsero con avversione e violenza, scrive Monia Sangermano il 18 Febbraio 2016 su Meteo Web. Quello che è passato alla storia come “Treno della vergogna” è un convoglio che nel 1947 trasportò da Ancona i profughi provenienti da Pola: si trattava di esuli italiani che con la fine della Seconda Guerra Mondiale, si ritrovarono costretti ad abbandonare le loro case in Istria, Quarnaro e Dalmazia. L’evento è passato alla storia come “esodo istriano”. All’epoca i ferrovieri lo definirono offensivamente “treno dei fascisti”, definizione emblematica di tutta la disinformazione e la strumentalizzazione politica che circondò la vicenda. Domenica 16 febbraio 1947 i profughi partirono da Pola a bordo di diversi convogli, portandosi dietro il minimo indispensabile, ovvero quel poco che erano riusciti a salvare. Giunti ad Ancona per gli esuli si rese necessario l’intervento dell’esercito: i militari dovettero proteggerli da connazionali, militanti di sinistra, che non solo non mostrarono solidarietà, ma li accolsero con avversione e violenza. Il giorno seguente, di sera, partirono di nuovo stipati in un treno merci già carico di paglia. Il convoglio arrivò alla stazione di Bologna solo alle 12:00 del giorno seguente, quindi proprio martedì18 febbraio. La Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa Italiana avevano preparato dei pasti caldi, soprattutto per bambini e anziani. Ma quando gli esuli erano quasi giunti nella città emiliana, alcuni ferrovieri sindacalisti diramarono un avviso ai microfoni, incitando i compagni a bloccare la stazione se il treno si fosse fermato. Allo stop del convoglio ci furono persino alcuni giovani che, sventolando la bandiera con falce e martello, iniziarono a prendere a sassate i profughi, senza distinzione tra uomini, donne e bambini. Altri lanciarono pomodori e addirittura il latte che era destinato ai bambini, ormai quasi in stato di disidratazione. A causa di questi atti vili fu dunque necessario far ripartire il treno per Parma, dove finalmente si riuscì ad andare in aiuto dei profughi ormai allo stremo delle forze. Da lì, ripartirono poi per La Spezia, dove furono temporaneamente sistemati in una caserma. In quei giorni persino i giornali mostrarono disprezzo nei confronti degli esuli. Il giornalista de l’Unità Tommaso Giglio, in seguito divenuto direttore de L’Espresso, scrisse un articolo il cui titolo recitava “Chissà dove finirà il treno dei fascisti?”. Lo storico Guido Rumici scrisse: «Si trattò di un episodio nel quale la solidarietà nazionale venne meno per l’ignoranza dei veri motivi che avevano causato l’esodo di un intero popolo. Partirono tutte le classi sociali, dagli operai ai contadini, dai commercianti agli artigiani, dagli impiegati ai dirigenti. Un’intera popolazione lasciò le proprie case e i propri paesi, indipendentemente dal ceto e dalla colorazione politica dei singoli, per questo dico che è del tutto sbagliata e fuori luogo l’accusa indiscriminata fatta agli esuli di essere fuggiti dall’Istria e da Fiume perché troppo coinvolti con il fascismo. Pola era, comunque, una città operaia, la cui popolazione, compattamente italiana, vide la presenza di tremila partigiani impegnati contro i tedeschi. La maggioranza di loro prese parte all’esodo».

Antonio Socci l'11 Luglio 2017 su Libero Quotidiano: la sinistra sputazza sui profughi italiani e bacia gli stranieri. Ogni giorno, a proposito della marea migratoria, da Sinistra arrivano sermoni moraleggianti sul dovere dell'accoglienza generalizzata e incondizionata degli stranieri. Peraltro danno spesso, tacitamente, ad intendere che tutti siano «profughi» (quando - in realtà - solo una piccola percentuale è costituita da profughi). Eppure se, nella nostra storia nazionale, qualcuno ha da fare un «mea culpa» sull' accoglienza dei profughi, è proprio la Sinistra, almeno quella comunista. La vicenda - perlopiù cancellata dalla storiografia ufficiale - riguarda addirittura dei profughi italiani, verso i quali avevamo dunque un doppio dovere di accoglienza e di solidarietà. Accadde nel secondo dopoguerra. Sto parlando degli italiani del Quarnaro e della Dalmazia, di Zara, Pola e Fiume. In quelle disgraziate terre del confine orientale, già martoriate dalla guerra, il comunismo titino arrivò brutalmente e «la volontà delle autorità comuniste jugoslave» fu subito quella di «eliminare ogni traccia di italianità» (Gianni Oliva). Da qui viene l'orrore delle foibe, conosciute dal grande pubblico solo da pochi anni, essendo state per decenni «censurate» dalla cultura dominante. E con le foibe dilagò il terrore. Il 21 marzo 1946, il professor Craglietto, presidente del Comitato di liberazione nazionale di Pola, dichiarava alla Commissione internazionale per la delimitazione dei confini: «Gli arresti, le deportazioni e anche le uccisioni avvengono senza che nessuno intervenga a proteggere gli infelici. Il pericolo maggiore è quello di finire nelle orribili foibe nelle quali hanno trovato la morte atroce troppi infelici colpevoli solo di essere italiani». Il terrore generalizzato di quella «pulizia etnica» costrinse migliaia di persone alla fuga. Per sfuggire al comunismo delle fucilazioni e delle foibe, per sottrarsi alle persecuzioni del regime titino che aveva appena occupato militarmente quelle terre, circa trecentomila italiani fuggirono via dalle città e dai paesi dove erano nati, dove erano vissuti e dove erano sepolti i loro avi. Dovettero abbandonare le loro case e perdere i loro beni. Fu, dal 1945, un esodo biblico di migliaia di povere famiglie che arrancavano, con poche valigie, per trovare rifugio in Italia. L' Italia aveva un assoluto dovere di accoglienza non solo perché si trattava di nostri compatrioti che pagavano, loro soli, per tutti gli italiani, il conto di una guerra perduta (avevano avuto la sfortuna di abitare le terre di confine con la Jugoslavia). Non solo per questo, ma anche perché l'Italia aveva dovuto sottoscrivere - come sconfitta - il Trattato di pace che consegnava alla Jugoslavia proprio quei territori italiani affacciati sull' Adriatico. Quindi il nostro Paese aveva un ulteriore obbligo di accoglienza, anzi, addirittura un obbligo di risarcimento. Ma quello che invece accadde ha dell'incredibile ed è tuttora «rimosso». Lo ha raccontato in diverse sedi (e anche su queste colonne) Giampaolo Pansa:«Sfuggiti al comunismo jugoslavo, gli esuli ne incontrarono un altro, non meno ostile. I militanti del Pci accolsero i profughi non come fratelli da aiutare, bensì come avversari da combattere. A Venezia, i portuali si rifiutarono di scaricare i bagagli dei "fascisti" fuggiti dal paradiso proletario del compagno Tito. Sputi e insulti per tutti, persino per chi aveva combattuto nella Resistenza jugoslava con il Battaglione "Budicin". Il grido di benvenuto era uno solo: "Fascisti, via di qui!". Pure ad Ancona i profughi ebbero una pessima accoglienza. L' ingresso in porto del piroscafo "Toscana", carico di settecento polesani, avvenne in un inferno di bandiere rosse. Gli esuli sbarcarono protetti dalla polizia, tra fischi, urla e insulti. La loro tradotta, diretta verso l'Italia del nord, doveva fare una sosta a Bologna per ricevere un pasto caldo preparato dalla Pontificia opera d' assistenza. Era il martedì 18 febbraio 1947, un altro giorno di freddo e di neve. Ma il sindacato dei ferrovieri annunciò che se il treno dei fascisti si fosse fermato in stazione, sarebbe stato proclamato lo sciopero generale. Il convoglio fu costretto a proseguire. E il latte caldo destinato ai bambini venne versato sui binari». Pansa ha «inventariato» altri episodi dello stesso tenore: «A La Spezia, gli esuli furono concentrati nella caserma "Ugo Botti", ormai in disuso. Ancora un anno dopo, l'ostilità delle sinistre era rimasta fortissima. In un comizio per le elezioni del 18 aprile 1948, un dirigente della Cgil urlò dal palco: "In Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani"». I trecentomila esuli - che erano profughi veri e italiani, non migranti economici - furono stipati in circa centoventi campi sparsi nella penisola e, a poco a poco, con gli anni, lavorando sodo com' erano abituati, si rifecero una vita. Portando silenziosamente nel cuore la ferita della propria terra perduta senza colpa e anche il dolore di questa «accoglienza» ricevuta dalla loro Patria. Prima di impartire lezioni agli altri sui profughi la Sinistra italiana dovrebbe fare i conti con questa dolorosa storia. Antonio Socci

"Tornate a casa vostra". Quando la sinistra sputava sui profughi istriani. Il Pci non conobbe la parola "accoglienza". Per gli italiani di Pola e Fiume solo odio. L'Unità scriveva: "Non meritano la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci il pane", scrive Giuseppe De Lorenzo, Giovedì 10/09/2015, su Il Giornale. "Poi una mattina, mentre attraversavamo piazza Venezia per andare a mangiare alla mensa dei poveri, ci trovammo circondati da qualche centinaio di persone che manifestavano. Da un lato della strada un gruppo gridava: 'Fuori i fascisti da Trieste', 'Viva il comunismo e la libertà' sventolando bandiere rosse e innalzando striscioni che osannavano Stalin, Tito e Togliatti". Stefano Zecchi, nel suo romanzo sugli esuli istriani (Quando ci batteva forte il cuore), racconta così il benvenuto del Pci agli italiani che abbandonarono la Jugoslavia per trovare ostilità in Italia. Quella che fino a pochi attimi prima era la loro Patria. Quando alla fine della seconda guerra mondiale, il 10 febbraio 1947, l'Italia firmò il trattato di pace che consegnava le terre dell'Istria e della Dalmazia alla Jugoslavia di Tito, la sinistra non conobbe la parola accoglienza. Tutt'altro. Si scaglio con rabbia e ferocia contro quei "clandestini" che avevano osato lasciare il paradiso comunista. Trecentocinquantamila profughi istriani e dalmati. Trecentocinquantamila italiani che la sinistra ha trattato come invasori, come traditori. Ad attenderli nei porti di Bari e Venezia c'erano sì i comunisti, ma per dedicargli insulti, fischi e sputi. A Bologna invece per evitare che il treno con gli esuli si fermasse, i ferrovieri minacciarono uno sciopero. E poi rovesciarono il latte raccolto per le donne e i bambini affamati. Ecco. Bisogna dire che Giorgio Napolitano ha ragione: il Pd è l'erede del Pci. Ma oggi la sinistra italiana, che di quella storia è figlia legittima, dimentica gli orrori del febbraio del '47. Ora si cosparge il capo di cenere e chiede a gran voce che l'Italia apra le porte a tutti i migranti del mondo. Predica l'accoglienza verso lo straniero che considera un fratello, quando per anni ha considerato stranieri i suoi fratelli. Ma gli unici profughi che la sinistra italiana ha rigettato con violenza erano italiani. Istriani e Dalmati. "Sono comunisti. Gridano 'fascisti' a quella povera gente che scende dalla motonave (...). Urlano di ritornare da dove sono venuti", ricorda Zecchi. Non sono le parole di Matteo Salvini. "Tornate da dove siete venuti" era lo slogan del Partito Comunista di Napolitano, Violante, D'Alema, Berlinguer e Veltroni. L'Unità, nell'edizione del 30 novembre 1946, scriveva: "Ancora si parla di 'profughi': altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi". Oggi invocano l'asilo per tutti. Si commuovono alla foto del bambino riverso sulla spiaggia. Lo pubblicano in prima pagina. Dedicano attenzione sempre e solo a chi viene da lontano. Agli italiani, invece, a coloro che lasciarono Pola, Fiume e le loro case per rimanere italiani, la sinistra riservò solo odio. Lo stesso che gli permise di nascondere gli orrori delle Foibe. "Non dovevamo dimenticare che eravamo clandestini, anche se eravamo italiani in Italia".

Pansa l'11 Febbraio 2012 su Libero Quotidiano: Trencentomila italiani traditi dal Pci. l'Istria e le foibe macchia nera della sinistra. Gli esuli di Quarnaro e Dalmazia, in fuga dalla Jugoslavia del compagno Tito: un massacro, ma per i compagni erano fascisti. Qualche giorno fa, una radio mi ha chiesto: «Perché le sinistre italiane non amano ricordare gli assassinati nelle foibe e l’esodo istriano, fiumano e dalmata?». Ho risposto d’istinto: «Perché hanno la coscienza sporca». Il giornalista mi rimproverò: «Dottor Pansa, lei vede comunisti dappertutto!». Gli replicai, sorridendo: «Non dappertutto, per fortuna. Ma in quella vecchia storia c’erano, stia sicuro». Nel Giorno del Ricordo, l’altroieri, sono state rammentate soprattutto le vittime delle foibe di Tito, quasi niente la tragedia dei trecentomila italiani costretti ad andarsene dall’Istria, dal Quarnaro e dalla Dalmazia. Nel complesso, l’esodo durò una decina d’anni. Ma ebbe un picco all’inizio del 1947, quando il Trattato di pace, imposto all’Italia dai vincitori, stabilì che le terre italiane sulla costa orientale dell’Adriatico dovevano passare alla Jugoslavia. Perché tanta gente se ne andò? Ridotti all’osso, i motivi erano tre. Il più importante fu il terrore di morire nelle foibe com’era già accaduto a tanti altri italiani. Il secondo fu il rifiuto del comunismo come ideologia totalitaria e sistema sociale. Il terzo fu la paura speciale indotta dal nazional-comunismo di Tito e dalla decisione di soffocare con la violenza qualunque altra identità nazionale. La prima città a svuotarsi fu Zara, isola italiana nel mare croato della Dalmazia. Era stata occupata dai partigiani di Tito il 31 ottobre 1944, quando il presidio tedesco aveva scelto di ritirarsi. La città era un cumulo di macerie. Ad averla ridotta così erano stati più di cinquanta bombardamenti aerei anglo-americani. Le incursioni le aveva sollecitate lo stato maggiore di Tito. Era riuscito a convincere gli Alleati che da Zara partivano i rifornimenti a tutte le unità tedesche dislocate nei Balcani. Non era vero. Ma le bombe caddero lo stesso. Risultato? Duemila morti su una popolazione di 20.000 persone. Molti altri zaratini vennero soppressi dai partigiani di Tito dopo l’ingresso in città. Centosettanta assassinati. Oltre duecento condanne a morte. Eseguite con fucilazioni continue, dentro il cimitero. Oppure con due sistemi barbari: la scomparsa nelle foibe e l’annegamento in mare, i polsi legati e una grossa pietra al collo. Intere famiglie sparirono. Accadde così ai Luxardo, ai Vucossa, ai Bailo, ai Mussapi. Gli italiani di Zara iniziarono ad andarsene in quel tempo. Nel 1943 gli abitanti della città erano fra i 21.000 e il 24.000. Alla fine della guerra si ritrovarono in appena cinquemila. Poi fu la volta di Fiume, la capitale della regione quarnerina o del Quarnaro, fra l’Istria e la Dalmazia. L’Armata popolare di Tito la occupò il 3 maggio 1945, proclamando subito l’annessione del territorio alla Jugoslavia. Da quel momento l’esistenza degli italiani di Fiume risultò appesa a un filo che poteva essere reciso in qualsiasi momento dalle autorità politiche e militari comuniste. L’esodo da Fiume conobbe due fasi. La prima iniziò subito, nella primavera 1945. Il motivo? Le violenze della polizia politica titina, l’Ozna, dirette contro tutti: fascisti, antifascisti, cattolici, liberali, compresi i fiumani che non avevano mai voluto collaborare con i tedeschi. Bastava il sospetto di essere anticomunisti, e quindi antijugoslavi, per subire l’arresto e sparire. All’arrivo dei partigiani di Tito, gli italiani di Fiume erano fra i 30 e i 35.000, gli slavi poco meno di 10.000. I nuovi poteri che imperavano in città erano il comando militare dell’Armata popolare, un’autorità senza controlli, e il Tribunale del popolo, affiancato dalle corti penali militari. Dalla fine del 1945 al 1948 vennero emesse duemila condanne ai lavori forzati per attività antipopolari. Molti dei detenuti non ritornarono più a casa. Ma il potere più temuto era quello poliziesco e segreto dell’Ozna, il Distaccamento per la difesa del popolo. A Fiume la sede dell’Ozna stava in via Roma. Un detto croato ammoniva: «Via Roma - nikad doma». Se ti portano in via Roma, non torni più a casa. In due anni e mezzo, sino al 31 dicembre 1947, l’Ozna uccise non meno di cinquecento italiani. Un altro centinaio scomparve per sempre. Il primo esodo da Fiume cominciò subito, nel maggio 1945. Per ottenere il permesso di trasferirsi in Italia bisognava sottostare a condizioni pesanti. Il sequestro di tutte le proprietà immobiliari. La confisca dei conti correnti bancari. Chi partiva poteva portare con sé ben poca valuta: 20 mila lire per il capofamiglia, cinquemila per ogni famigliare. E non più di cinquanta chili di effetti personali ciascuno. Il secondo esodo ci fu dopo il febbraio 1947, quando Fiume cambiò nome in Rijeka e divenne una città jugoslava. Ma erano le autorità di Tito a decidere chi poteva optare per l’Italia. Furono molti i casi di famiglie divise. Nei due esodi se ne andarono in 10.000. E gli espatri continuarono. Nel 1950 risultò che più di 25.000 fiumani si erano rifugiati in Italia. Per il 45 per cento erano operai, un altro 23 per cento erano casalinghe, anziani e inabili. Ma per il Pci di allora erano tutti borghesi, fascisti, capitalisti e plutocrati carichi di soldi. Provocando le reazioni maligne che tra un istante ricorderò. La terza città a svuotarsi fu Pola, il capoluogo dell’Istria, divenuta in serbocroato Pula. A metà del 1946 la città contava 34.000 abitanti. Di questi, ben 28.000 chiesero di poter partire. Gli esodi si moltiplicarono nel gennaio 1947 e subito dopo la firma del Trattato di pace. L’anno si era aperto sotto una forte nevicata. Le fotografie scattate allora mostrano tanti profughi che arrancano nel gelo, trascinando i poveri bagagli verso la nave che li attende. In poco tempo Pola divenne una città morta. Le abitazioni, i bar, le osterie, i negozi avevano le porte sigillate con travetti di legno. Su molte finestre chiuse erano state fissate bandiere tricolori. Fu l’esodo più massiccio. Dei 34.000 abitanti se ne andarono 30.000. Dopo Pola, fu la volta dei centri istriani minori, come Parenzo, Rovigno e Albona. Le autorità titine cercarono di frenare le partenze con soprusi e minacce. Ma non ci riuscirono. Da Pirano, un centro di settemila abitanti, il più vicino a Capodistria e a Trieste, partirono quasi tutti. Sfuggiti al comunismo jugoslavo, gli esuli ne incontrarono un altro, non meno ostile. I militanti del Pci accolsero i profughi non come fratelli da aiutare, bensì come avversari da combattere. A Venezia, i portuali si rifiutarono di scaricare i bagagli dei “fascisti” fuggiti dal paradiso proletario del compagno Tito. Sputi e insulti per tutti, persino per chi aveva combattuto nella Resistenza jugoslava con il Battaglione “Budicin”. Il grido di benvenuto era uno solo: «Fascisti, via di qui!». Pure ad Ancona i profughi ebbero una pessima accoglienza. L’ingresso in porto del piroscafo “Toscana”, carico di settecento polesani, avvenne in un inferno di bandiere rosse. Gli esuli sbarcarono protetti dalla polizia, tra fischi, urla e insulti. La loro tradotta, diretta verso l’Italia del nord, doveva fare una sosta a Bologna per ricevere un pasto caldo preparato dalla Pontificia opera d’assistenza. Era il martedì 18 febbraio 1947, un altro giorno di freddo e di neve. Ma il sindacato dei ferrovieri annunciò che se il treno dei fascisti si fosse fermato in stazione, sarebbe stato proclamato lo sciopero generale. Il convoglio fu costretto a proseguire. E il latte caldo destinato ai bambini venne versato sui binari. A La Spezia, gli esuli furono concentrati nella caserma “Ugo Botti”, ormai in disuso. Ancora un anno dopo, l’ostilità delle sinistre era rimasta fortissima. In un comizio per le elezioni del 18 aprile 1948, un dirigente della Cgil urlò dal palco: «In Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani». Rimase isolato il caso del sindaco di Tortona, Mario Silla, uno dei protagonisti della Resistenza in quell’area. Quando lo intervistai per la mia tesi di laurea, mi spiegò: «Io non sono mai stato un sindaco comunista, ma un comunista sindaco». I suoi compagni non volevano ospitare i mille profughi destinati alla caserma “Passalacqua”. Ma Silla s’impose: «È una bestialità sostenere che sono fascisti! Sono italiani come noi. Dunque non voglio sentire opposizioni!». La diaspora dei trecentomila esuli raggiunse molte città italiane. I campi profughi furono centoventi. Anno dopo anno, le donne e gli uomini dell’esodo ritrovarono la patria, con il lavoro, l’ingegno, le capacità professionali, l’onestà. Mettiamo un tricolore alle nostre finestre in loro onore. Giampaolo Pansa

“Sul treno della vergogna c’ero anch’io”. Ricordi dell’Esodo giuliano-dalmata. Scrive Elio Varutti il 24 Dicembre 2014 su Friuli on line. “Son venuda via da Pola il 16 febbraio 1947 col penultimo trasbordo del piroscafo Toscana”. Inizia così il racconto dell’esodo istriano della signora Luciana Luciani, nata a Pola nel 1936.

– Perché siete venuti via?

“Jera tanta tension, la paura delle foibe e mia mamma Elisabetta Rocchi, nata a Rovigno, la gà dito: magnerò na volta sola al giorno, ma vado in Italia”.

– Come fu la partenza?

“Non ricordo molto di quella partenza perché la mia testa deve aver cancellado tutto. E con i miei genitori se parlava poco de quei fatti. Me dispiase, dovevo domandar, dovevo scriverme qualche cosa. Arrivo ad Ancona e semo subito caricadi sul treno per Parma e La Spezia, perché mio papà jera già a La Spezia, dal arsenal de Pola a quello de La Spezia”.

Secondo la letteratura degli esuli italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, cacciati dalle loro terre tra il 1943 e gli anni cinquanta, per la pulizia etnica iugoslava, quello è “il treno della vergogna”. Alla stazione di Bologna fu attuata una manifestazione dai ferrovieri comunisti contro quegli italiani chiamati fascisti. Non fu concesso nemmeno di dare un po’ di latte caldo ai bambini del treno. Ormai è storia d’Italia anche questa. Lo sta descrivendo Simone Cristicchi nelle decine di repliche del suo spettacolo Magazzino 18, dedicato al grande contenitore di masserizie dei profughi istriani del porto di Trieste.

“Quello che Cristicchi dice – aggiunge la Luciani – è tutto corrispondente alla realtà”.

– E poi cosa successe?

“Non capivamo come mai si stava tanto fermi dentro quel treno – prosegue la testimonianza – ad Ancona ricordo un lampion che se speciava su una pozzanghera del marciapiede vicin del binario e a Parma, siccome el Campo Profughi de La Spezia jera pien, le donne gà dormido in un convento coi bambini e i omini alla Casa del Reduce, dopo semo rivadi a La Spezia, ma no i voleva vignir a scaricarne, gà dovudo intervenir i camion de la Marina Militare”.

– Siete passati dal Campo Profughi?

“Sì, de giorno con la mamma se stava alla caserma ‘Ugo Botti’, che jera una specie de campo profughi, con stanze, fatte coi separè, letti a castello”.

– Altri ricordi di Pola?

“Sì, jera le manifestazioni politiche su un marciapiede col tricolore per l’Italia e, di fronte, con le bandiere rosse pro-Tito; volavano grida, insulti di ogni tipo e, in mezzo, jera i bacoli neri, che jera poliziotti vestidi de scuro, solo col manganel. Prima de partir i ne gà dà 3 etti de ciodi e un poche de stecche de legno per imballar i mobili, così gà fatto mio papà e le nostre robe le jera alla Giudecca de Venezia per cinque anni, finché no gavemo avudo la casa dei profughi istriani occupadi a l’arsenal, la casa jera a Rebocco, un quartier de La Spezia”.

– E poi?

“Gò studiado a Pisa de infermiera, dopo gò vinto un posto all’Enpas di Catanzaro e lì me son sposada, adesso son qua esule a Udine, vicin de l’Istria, ma non me piase tornar a Pola”.

– Come mai?

“Gò un grosso senso de distacco”.

Qualcuno del treno della vergogna ebbe la fortuna di viaggiare nei vagoni passeggeri “quei coi sedili de legno”, come ricorda la signora Luciani. Ad altri profughi, spediti da Udine a Trapani toccò addirittura il carro merci scoperto!

“Il mio esodo inizia a Gorizia – dice Savina Fabiani, nata a Ravenna nel 1933, poi trasferita in provincia di Gorizia con la famiglia – era l’ottobre del 1945, la mia famiglia viaggiava su una jeep americana, poi a Udine ci hanno fatto salire su un treno merci con i vagoni scoperti, nove giorni di viaggio fino a Trapani”.

– E se pioveva?

“Gavemo verto le ombrele, ma i miei genitori erano contenti, perché eravamo salvi”.

– A Udine ci fu accoglienza per i profughi?

“Mi ricordo che le crocerossine ne gà dà la minestra calda de risi e bisi, la jera cussì bona”.

– Quanto jera longhi i risi?

“Tanto, tanto, anzi i aveva una forma de ‘x’ da tanto che i jera cotti, ma jera proprio boni”.

L’occasione di queste interviste è sorta durante il pranzo del Natale dell’esule, svoltosi a Udine il 14 dicembre, per l’organizzazione del Comitato Provinciale dell’Associazione Venezia Giulia Dalmazia, alla cui presidenza c’è, da quasi quaranta anni, l’ingegnere Silvio Cattalini, esule da Zara. Proprio sul viaggio a “Zara e dintorni”, tenutosi di recente, era dedicato il filmato mostrato agli oltre 70 commensali, per la regia di Fulvio Pregnolato, su testi di Cattalini stesso e voce narrante di Chiara Gremese, esule da Fiume. All’incontro religioso, svoltosi in mattinata nell’Oratorio della Purità, ha partecipato anche Furio Honsell, sindaco di Udine. Elio Varutti

L’OMERTA’…

«QUEL SILENZIO ASSORDANTE SULLE FOIBE». Il comunismo e il terrore, l'intervento del Nuovo Psi di Qualiano su “Interenapoli”. Qual è il vero motivo di sessanta anni di silenzio sulle foibe? Chi ci ha guadagnato da questo silenzio? Quante carriere, politiche, universitarie, sono state costruite da questi assordanti silenzi? L’accesso agli archivi di Mosca, un tempo segreti, ha consentito la stesura di un bilancio delle vittime del comunismo spaventoso, addirittura quattro volte superiore a quello delle vittime del nazismo: il più colossale caso di carneficina politica della storia. A tutt’oggi c’è ancora chi ritiene improponibile un accostamento dei due regimi rifacendosi alla differente ispirazione iniziale: mentre il nazismo fu una dottrina dell’odio e i suoi crimini, pertanto prevedibili e legati alla sua stessa essenza, il comunismo è spesso considerato una dottrina di liberazione, di amore per l’umanità e i suoi delitti considerati a mo’ di errori, incidenti, deviazioni. Tale argomentazione è a dir poco artificiosa in quanto prevedeva in entrambi i casi lo sradicamento di una parte della società. L’utopia di una società senza classi e l’illusione di una razza pura esigevano l’eliminazione di individui che si riteneva, ostacolassero la realizzazione del progetto. Per questo il richiamo all’umanità del comunismo è servito spesso a dare una legittimazione superiore all’uso del “terrore”. Il principio umanitario della politica consiste nel non considerare nessun uomo superiore moralmente ad un altro. Il nazismo è considerato il regime più criminale del secolo, mentre il comunismo in virtù dell’alleanza dello stalinismo con le principali democrazie mondiali ne ha ricavato spesso un credito morale che non ha mai cessato di sfruttare: l’antifascismo. In virtù di questo valore i crimini comunisti sono diventati un indiscutibile strumento di legittimazione. Contrapporre la democrazia al fascismo permise al sistema comunista di presentarsi come “democratico” in quanto antifascista. In tale contesto si inserisce la complicità del comunismo italiano che in Italia ha peccato di gravi menzogne e di una palese incapacità di attuare un vero processo revisionistico. La volontà di palesare una superiorità morale del “comunista” rispetto agli altri non comunisti ha portato all’atteggiamento del PDS durante il periodo di tangentopoli che ha comportato la eliminazione di una intera classe dirigente nazionale. Il cinismo comunista fu accompagnato, insieme alla liquidazione a all’infoibamento di una intera classe dirigente ad un trasformismo mal celato complice un uso parziale della Giustizia che certamente non esaminò con eguale severità i finanziamenti illeciti di ogni partito, compresi i finanziamenti moscoviti all’ex partito comunista. La ragione del fallimento del tentativo degli “ex” comunisti di usurpare il socialismo liberale e la politica di Craxi risiede proprio nella incapacità di ripensare alla propria storia, ripudiando gli errori commessi e scavando fino infondo la tragedia e i crimini del comunismo. E’per questo che la riabilitazione della figura di Bettino Craxi non può venire da Fassino e dal DS. L’Europa dei totalitarismi e dell’uomo moralmente superiore all’altro uomo, perché politicamente diversi deve restare dietro di noi ma non può essere né dimenticata, ne sottaciuta perché non dobbiamo e non possiamo dimenticare. Il ricordo di ciò che copre di vergogna l’essere umano può impedire di ripercorrere la stessa strada dell’odio. La nostra gioventù è figlia di quei mali e deve diventare testimone dei valori della democrazia e della tolleranza. La tendenza al regime trova sviluppo dove c’è ignoranza e laddove non vengono insegnati i valori di una vita libera. Mafia, camorra e terrorismo dovrebbero essere sperati da anni, mentre a Scampia e in tutta la provincia di Napoli si muore e si uccide tutti i giorni e la corruzione riesce a trovare ampi spazi anche nelle istituzioni Il pluralismo culturale è stato il protagonista dello sviluppo politico, sociale ed economico del nostro paese e dell’intera Europa. “Le vittime della violenza non hanno colore politico”, è ciò che spesso si ascolta da chi forse cerca un alibi dimenticando che proprio l’odio politico ha provocato quelle vittime.

Non lasciatevi ingannare dal titolo, Il revisionista, in uscita da Rizzoli (pagine 474), scrive Rino Messina su “Il Corriere della Sera”. Questo non è l'ennesimo libro di Giampaolo Pansa sulla guerra civile italiana. È l'autobiografia di un giornalista che, quando si svolgeva la mattanza raccontata nel Sangue dei vinti, aveva dieci anni. E che è cresciuto a Casale Monferrato, zona di Resistenza, in una famiglia operaia, assorbendo i racconti sulla guerra e l'amore per la cultura: «I miei sapevano che l'unica possibile emancipazione era studiare e non mi facevano mai mancare libri, penne, quaderni». In uno dei brani più commoventi il padre Ernesto confida a suo figlio, da poco entrato alla «Stampa» di Torino: «Ora che scrivi per i giornaloni anche i signori mi salutano». Come fa un libro che contiene queste storie private a non essere definito un'autobiografia? Eppure Giampaolo Pansa nella prefazione dice d'essersi limitato a tracciare il suo percorso di Revisionista. Successi, ma anche attacchi e insulti, a cominciare da quando nel 2002 pubblicò I figli dell'Aquila e soprattutto nel 2003 quando firmò Il sangue dei vinti, un saggio vicino al traguardo del milione di copie. «Il vero motivo per cui l'ho scritto - confida Pansa - è ringraziare le persone che mi hanno apprezzato perché avevo dato loro voce. L'Italia degli sconfitti che prima del Sangue dei vinti non avevano diritto di partecipare al discorso pubblico. A loro ho voluto raccontare il mio percorso di giornalista che ha avuto la fortuna di incontrare tanti maestri. Tra i giornalisti che non appartengono alla sua cerchia, io credo di essere quello che meglio capisce Silvio Berlusconi. E sa perché? Perché sono nato nel 1935, un anno prima di lui, e capisco le paure e le angosce di un settantenne, ma ne condivido anche l'entusiasmo e il percorso generazionale». Il revisionista non è un libro provocatorio, a tesi, né il racconto di una sola parte italiana. È la storia di un percorso e degli incontri che hanno segnato un uomo. La Gianna, la prima fidanzatina di Giampaolo, la prima con cui abbia fatto l'amore. Ricevendone una lezione straordinaria. Gianna era una di quelle ragazze che erano state rapate a zero dopo il 25 aprile: suo padre era un fascista ucciso per vendetta e a lei era toccata quell'umiliazione. Poi Luigi Firpo, il geniale professore alla facoltà di Scienze politiche, Alessandro Galante Garrone e Guido Quazza, i due storici che seguirono la tesi di laurea di Pansa, Guerra partigiana tra Genova e il Po, un malloppo di circa mille pagine che conteneva documenti e testimonianze di prima mano e che sarebbe uscito nel 1967 da Laterza. Guido Quazza usava tenere una scheda sui suoi laureandi. Sulla tesi di Pansa scrisse: «Importante lavoro per la vastità della ricerca... È sempre presente il principio dell'audiatur et altera pars». Siamo nel 1959 e questo è un riconoscimento straordinario: ascoltare sempre l'altra voce. La lezione di Gianna era un seme che cresceva. Quella tesi avrebbe vinto uno dei due premi Luigi Einaudi: sarebbe stato il salvacondotto per entrare subito nel mondo del giornalismo, alla «Stampa» diretta da Giulio De Benedetti. Da «ciuffettino», così era soprannominato il rigoroso direttore del quotidiano torinese, a «barbapapà» Eugenio Scalfari, Il revisionista di Pansa è anche una galleria di direttori e colleghi, ritratti impietosi e affettuosi, in cui la critica non fa mai velo alla gratitudine. Leggete per esempio questo omaggio a Giorgio Bocca, diventato in questi anni l'arcinemico di Pansa in difesa di una Resistenza che ha sentito tradita dal suo più giovane collega: «Giorgio era il primo dei miei maestri indiretti. I giornalisti che leggevo con la matita in mano per prendere appunti e imparare come si doveva scrivere un buon articolo. Avevo recensito con entusiasmo un libro che raccoglieva i suoi reportage italiani. Lui mi aveva ringraziato con un biglietto e io ero andato di corsa a Milano per conoscerlo». Nel 1964, auspice Bocca, era arrivata la chiamata al «Giorno» diretto da Italo Pietra, partigiano e uomo di fiducia di Enrico Mattei. Nella stanza delle riunioni ogni mattina il direttore entrava rivolgendo, tra l'ironico e il minaccioso, questa domanda ai colleghi: chi di voi ha bruciato la mia casa sul monte Penice nel rastrellamento dell'agosto 1944? Perché il gruppo dirigente del «Giorno» era formato per metà da giornalisti che avevano fatto la Resistenza e per metà da saloini che avevano combattuto dall'altra parte, chi nella X Mas, chi nelle Brigate Nere, chi nella Guardia repubblicana. Anche in questo episodio è evidente che «il revisionismo» è il filo conduttore del racconto, ma il genere letterario è quello dell'autobiografia, sull'esempio fortunato del Provinciale di Giorgio Bocca. Trovi lo stesso stupore, la stessa potenza narrativa, tratti simili di sensualità, entusiasmo, stupore della scoperta. A volte di delusione e di stizza. Sentimenti evidenti nel capitolo «Il libertino» dedicato a Eugenio Scalfari, di cui riconosce la tenacia geniale del fondatore di imprese, ma al quale non risparmia pagine amare e impietose. «Via via - scrive Pansa - diventò la statua di se stesso. Con la barba di un biancore marmoreo... Quando morì Rocca (che con Pansa era stato vicedirettore della "Repubblica") nella cerimonia al cimitero del Verano, andai a stringere la mano a Eugenio. Ma lui se ne restò seduto e sembrò non riconoscermi». Pansa ne rimase stupito e addolorato: attribuisce questo atteggiamento all'uscita dei suoi lavori revisionisti, non apprezzati dal fondatore di «Repubblica». Nel libro c'è anche spazio per ritratti di politici, da Giorgio Almirante a Enrico Berlinguer, e soprattutto un invito al revisionismo, a raccontare le verità scomode, anche sugli anni di piombo, la stagione sanguinosa degli anni Settanta che continua a esalare veleni, come dimostrano le scritte contro Luigi Calabresi comparse in questi giorni a Torino. Giampaolo Pansa, che oggi collabora al «Riformista» ma soprattutto scrive libri, a 73 anni è felice della sua vita e continua a dirsi fortunato. Tuttavia ha qualche rimorso: «Non aver fatto abbastanza per difendere Calabresi come avrei dovuto». E qualche delusione: «Non aver mai ricevuto l'invito da una scuola di giornalismo, dove insegnano perfetti sconosciuti. Ma forse le scuole sono in mano alla sinistra e non invitano uno come me bollato a destra. Ma io avrei qualcosa da dire ai giovani: per esempio che il mestiere di giornalista non si impara, ma si ruba, e che il talento serve a ben poco senza l'umiltà e lo spirito di sacrificio».

Ma ci pensa il comunistissimo “L’Espresso” a buttarla in “caciara”. "Camerati, attenti". Così i neofascisti sfruttano il giorno del ricordo. Il 10 febbraio si celebrano le vittime delle foibe: le voragini dell'Istria dove tra il 1943 e il 1947 sono stati gettati quasi diecimila italiani per mano dei partigiani jugoslavi. Oggi quella tragedia, ignorata per decenni, è motivo di identità per l’estrema destra del terzo millennio di Casa Pound e Forza Nuova, scrive Michele Sasso il 10 febbraio 2016 su "L'Espresso". Corteo in ricordo dei martiri delle Foibe organizzato da Casapound a Torino nel 2015Il 10 febbraio, che dal 2004 è il giorno del ricordo della tragedia e dell'esilio dei profughi istriani, è una data che divide. Ignorato per decenni, trascurato dai programmi scolastici, il dramma delle foibe è oggi ricordato, oltre che da iniziative istituzionali, da gesti che scaldano i cuori all’estrema destra. Il giorno della «memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell'esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati» è stato voluto nel 2004 dall’ex presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, accogliendo la proposta di legge di Alleanza nazionale con la volontà di «chiudere definitivamente una pagina di dolore, con un atto di civile memoria dello Stato italiano». Un capitolo tragico e scomodo, un gesto riparatorio fatto da chi come Ciampi nel 1943 rifiutò di aderire alla Repubblica sociale italiana per raggiungere gli alleati che risalivano la Penisola. Dal dopoguerra il nome “foiba” perde il significato di fenomeno naturale per diventare sinonimo di strage. Le foibe sono cavità carsiche di origine naturale con un ingresso a strapiombo. È in quelle voragini dell'Istria che fra il 1943 e il 1947 sono stati gettati, vivi e morti, moltissimi istriani di lingua e cultura italiana. Si stima che le vittime possano essere quasi diecimila italiani. La prima ondata di violenza esplode subito dopo la firma dell'armistizio dell’8 settembre 1943: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicano contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Torturano, massacrano, affamano e poi gettano nelle foibe circa un migliaio di persone. Vengono considerati “nemici del popolo” e quindi sacrificabili. Il massacro si ripete nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupa Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito si scatenano contro gli italiani. A cadere dentro le foibe sono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. Una pulizia etnica per spargere terrore. Graziano Udovisi, l'unica vittima del terrore titino che riuscì ad uscire da una foiba vivo dopo immense torture e 24 ore sotto terra, raccontò la sua storia nel libro-testimonianza “Sopravvissuto alle foibe”. E' morto nel 2010, a 84 anni. Una carneficina che testimonia l'odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta dal maresciallo Tito per eliminare i non comunisti. La persecuzione prosegue fino alla primavera del 1947, fino a quando, cioè, viene fissato il confine fra la neonata Repubblica e la Jugoslavia. Ma il dramma degli istriani e dei dalmati non finisce. Nel febbraio del 1947 Roma ratifica il trattato di pace che pone fine alla Seconda guerra mondiale: l’Istria e la Dalmazia vengono cedute. Con quella firma trecentocinquantamila persone si trasformano in esuli. Scappano dal terrore, non hanno nulla, sono bocche da sfamare che non trovano in patria una grande accoglienza. La sinistra italiana li ignora: non suscita solidarietà chi sta fuggendo da un paese comunista alleato di Mosca, in cui si è realizzato il sogno del socialismo reale. La vicinanza ideologica con Tito è, del resto, la ragione per cui il Partito comunista non affronta il dramma, appena concluso, degli infoibati. Ma non è solo il Pci del leader Palmiro Togliatti a lasciar cadere l'argomento nel disinteresse. Come ricorda lo storico Giovanni Sabbatucci: «La stessa classe dirigente democristiana considera i profughi dalmati cittadini di “serie B” e non approfondisce la tragedia delle foibe. I neofascisti, d'altra parte, non si mostrano particolarmente propensi a raccontare cosa avvenne alla fine della seconda guerra mondiale nei territori istriani. Fra il 1943 e il 1945 quelle terre sono state sotto l'occupazione nazista, in pratica sono state annesse al Reich tedesco». Un silenzio intorno a questo dramma, che fa tutt’uno con la sconfitta italiana. Nel 1991 si alza il velo: quando i triestini si mobilitano contro il passaggio delle unità corazzate dell’esercito federale jugoslavo che dalla Slovenia devono tornare verso la Serbia, sfruttando il porto giuliano. E riaprendo ferite e ricordi ancora vivi di chi ha avuto fratelli, amici e concittadini finiti nelle foibe per mano di quello stesse divise. «Il silenzio intorno alle foibe è durato troppo a lungo e ha dato l’occasione per una forte polemica e allo stesso tempo creando terreno fertile ad una strumentalizzazione», sottolinea Simona Colarizi, docente di storia contemporanea alla Sapienza di Roma: «Da anni l’estrema destra sta cercando una legittimazione del fascismo di Salò, inseguendo il falso mito di italiani brava gente, ma non va dimenticato che la politica di “fascistizzazione” di quei territori del Friuli Venezia Giulia è stata brutale con una reazione altrettanto brutale. Il che non giustifica assolutamente le fobie». Il nazionalismo, la colpa di essere italiani, l’odio per chi si è visto espulso dalla propria terra e non ha avuto nessun appoggio politico. Dimenticando che i morti non sono né “neri” né “rossi”. Né fascisti né comunisti. Un equivoco e un uso pubblico della storia che distorce la storia stessa. Con vittime e colpevoli che cambiano secondo i punti di vista e il colore politico. Così il ricordo delle foibe diventa occasione di divisioni, strumentalizzazioni, adunate in stile Norimberga per cercare colpevoli e vinti. Con una voglia di tornare protagonisti. Si radunano e si schierano con un ordine perentorio: «Camerati, attenti». In prima fila nella corsa a commemorare ci sono i fascisti del terzo millennio di Casa Pound che spiegano così il loro 10 febbraio: «Colpevoli di essere italiani. E per questo assassinati e poi dimenticati, ignorati, cancellati dalla storia: questi sono i martiri delle foibe. Ma l'identità di un popolo e di una nazione nata in trincea non si cancella col sangue, né con le censure sui libri di storia. Per questo tricolori alla mano, saremo nelle piazze e nelle strade di tutta Italia, a ricordare le vittime di quel genocidio e il sacrificio degli esuli istriani e giuliano-dalmati costretti a lasciare le loro case dalla violenza comunista». In questa settimana sono in calendario decine di cortei, fiaccolate, spettacoli teatrali, in grandi città e piccoli centri dal nord al sud del paese. Leit motiv è l’annuncio “Io non scordo”. Da Varese dove tutte le sigle del mondo dell’estrema destra sfilano da tre anni per le vie del centro fino al Trentino Alto Adige, L’Aquila, Lamezia Terme e Siracusa. Con passeggiate commemorative, cortei, fiori sulle lapidi. A Roma Forza Nuova di Roberto Fiore e prevede «omaggio al monumento, conferenza, cena e recital “Foibe, 15.000 fantasmi”. Prima della celebrazione a Trento è sparita la lapide in memoria delle vittime. Il presidente del Trentino, Ugo Rossi ha così stigmatizzato l’accaduto: «Un gesto vile e odioso, tanto più grave considerando che è avvenuto a ridosso del Giorno del ricordo, solennità nazionale istituita per rinnovare la memoria di una tragedia immane. Se l'intento è quello di alimentare divisioni e strumentalizzare la storia per bassi fini, possiamo affermare con certezza che fallirà».

Le Foibe ancora dimenticate (questa volta in un cassetto). Scontro sulla data di inaugurazione della stele: i documenti chiave sono fermi da novembre scorso, scrive Maria Sorbi, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Il sindaco Giuliano Pisapia non si è presentato alla cerimonia per commemorare le vittime delle Foibe. E fin qui nulla di nuovo: non è la prima volta che il sindaco dà forfait e delega a un rappresentante del Comune. Lui che, quando era deputato di Rifondazione Comunista, votò contro la proposta di istituire un giorno per ricordare la strage istriana. La polemica di quest'anno ruota attorno a una questione burocratica, che riguarda il monumento da erigere in piazza Repubblica in memoria di chi subì la violenza dell'eccidio. A quanto pare il documento per decidere la data dell'inaugurazione dell'opera (che, in teoria, era prevista per quest'anno) sarebbe stato dimenticato in un cassetto. Chiuso da mesi. A spiegarlo, durante la cerimonia, è stata l'assessore Carmela Rozza che ha svelato il mistero che si cela intorno alla finora mancata realizzazione del monumento richiesto dal comitato provinciale di Milano dell'associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia nell'ormai lontano giugno 2013. Ebbene, di fatto l'assessore Rozza ha dichiarato pubblicamente che la pratica è ferma in Consiglio di Zona 2. «A seguito di un immediato accesso agli atti dichiara Roberta Capotosti, capogruppo di Sovranità in Consiglio di Zona 2 - ho appreso con stupore che la richiesta di un parere al Consiglio di Zona 2 da parte del Comune giace nei cassetti del presidente del Consiglio di Zona e della sua maggioranza dal 23 novembre scorso e che, fino ad ora, si sono tutti ben guardati dal tirarla fuori e metterne a parte non solo il consiglio tutto, ma nemmeno i capigruppo». «Spiace accertare - conclude Capotosti - che a settant'anni di distanza da quei crimini efferati, e dopo un silenzio assordante che ci ha accompagnati fino al 2004, quando è stata finalmente riconosciuta la ricorrenza, ci sia ancora qualcuno che provi ad insabbiare una pagina vergognosa della storia di questo paese e faccia di tutto per cancellare la memoria e rendere onore ai tanti italiani morti o costretti ad abbandonare le proprie terre, le proprie abitazioni ed i propri averi, negando loro, ancora oggi, perfino la possibilità di farsi, a spese proprie, un monumento a perenne ricordo». «Non si capisce perché abbiano aspettato tanto - commenta Riccardo De Corato, Fratelli d'Italia - e soprattutto perché il Comune non abbia fatto scattare il silenzio/assenso che di prassi avviene dopo un mese». Un tentennare che mette allo scoperto il poco interesse della giunta arancione per la ricorrenza, resa ufficiale solo dal 2004 e fino a poco tempo fa celata anche dagli indici dei libri di scuola. «Comunque, dopo il parere della prossima settimana, non ci saranno più scuse - sostiene De Corato - e la stele dovrà trovare posto in piazza della Repubblica in tempi brevissimi, non facciano slittare l'inaugurazione a dopo le elezioni. Noi non molliamo». In Consiglio regionale invece le Foibe sono stata celebrate in un clima nient'affatto polemico ma commosso: sono state raccolte le testimonianze dirette di alcuni sopravvissuti e sono stati consegnati i premi di un concorso scolastico promosso dallo stessa Regione.

Settant'anni di omertà, ora spunta un'altra foiba. Lo rivela un documento "dimenticato" negli archivi del Ministero degli Esteri. Nella fossa in provincia di Udine 200-800 corpi, sembra vittime di partigiani rossi, scrive Fausto Biloslavo, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Una nuova foiba sembra tornare alla luce dagli orrori del passato, il giorno del Ricordo del dramma degli esuli istriani, fiumani e dalmati. La fossa comune non si troverebbe nell'ex Jugoslavia, ma in provincia di Udine. Le Foibe scordate dentro un cassetto. I responsabili del massacro, nascosto per 70 anni, sarebbero i partigiani comunisti della divisione Garibaldi-Natisone, che nel 1945 erano agli ordini del IX Corpus jugoslavo del maresciallo Tito. Le vittime nella fossa comune sarebbero fra 200 ed 800. I carabinieri sono stati informati. Ieri, Giorno del ricordo dell'esodo e delle foibe, Luca Urizio, presidente della Lega nazionale di Gorizia, ha reso pubblico un documento «dimenticato» negli archivi del Ministero degli Esteri, che rivela il punto esatto della strage ancora da confermare. Il 30 ottobre 1945 arrivò a Roma un rapporto dell'Ufficio informazioni, gruppo speciale. «La foiba e la fossa comune esistente nella zona di Rosazzo (provincia di Udine, ndr) è ubicata precisamente nella zona chiamata ... (il nome del posto è cancellato per mantenere il riserbo)». L'informativa fa parte delle notizie segrete «Ermete» e riporta che «secondo quanto afferma la popolazione dovrebbero essere sepolti da 200 a 800 cadaveri facilmente individuabili perché interrati a poca profondità». L'Ufficio informazioni indica anche i presunti mandanti: «Il responsabile di detto massacro della popolazione è ritenuto il comandante della divisione Garibaldi-Natisone Sasso coadiuvato dal commissario politico Vanni». L'informativa segreta è rimasta sepolta in archivio fino allo scorso anno, quando l'ha trovata Urizio, che a Roma voleva fare luce sui deportati dei titini da Gorizia nel 1945. «Sasso» è il nome di battaglia di Mario Fantini e «Vanni» quello di Giovanni Padoan, noti fazzoletti rossi della Resistenza passati a miglior vita. Nel documento si indica anche un testimone: «Per avere chiarimenti e indicazioni necessarie per la identificazione occorre interrogare un certo Dante Donato ex comandante Osovano da Premariacco». I partigiani della brigata Osoppo erano stati massacrati dai garibaldini a Porzus nel febbraio 1945 perché si opponevano all'espansionismo titino. «La fossa non è lontana da Bosco di Romagno dove vennero trucidati parte degli osovani - rivela Urizio -. I carabinieri hanno chiesto di non rivelare la località esatta. Sopra i corpi potrebbero esserci delle armi abbandonate». Un altro documento recuperato a Roma del prefetto di Udine, Vittadini, l'11 giugno 1945, conferma che ai garibaldini «sarebbero stati anche di recente consegnati mitra russi con forte munizionamento e con l'ordine di tenersi pronti nel caso che da parte di Tito venisse ordinata un'azione di forza». Urizio ipotizza con il Giornale che «nella fossa comune potrebbero esserci civili e militari sia italiani che tedeschi. Un paese intero era a conoscenza della strage, reato che non va in prescrizione. Spero che dopo 70 anni cada finalmente il velo d'omertà». Agli inizi degli anni Novanta, dopo mezzo secolo di silenzio, i carabinieri avrebbero cominciato a ricevere vaghe informazioni sul massacro, ma la fossa non è mai stata trovata. Sembra che esista anche una confessione postuma di chi sapeva o ha partecipato alla strage. La Lega nazionale, che storicamente si batte per l'italianità, chiede di fare piena luce. Dagli archivi ministeriali romani sono saltate fuori anche le liste con nomi, cognomi e date di sparizione dei deportati dai partigiani titini nel 1945 a guerra finita. «Gli elenchi allegati si riferiscono a n. 1203 persone scomparse di Gorizia () Si ignora se dette persone siano state deportate in Jugoslavia dai partigiani di Tito o uccise e gettate nelle foibe» riporta un documento del 1° ottobre '45 dello Stato maggiore dell'esercito. «Li stiamo confrontando con le liste di quelli che sono rientrati - spiega Urizio -. A Gorizia non sono tornati in 750-800. L'obiettivo è trovare dove sono finiti per permettere ai familiari di pregare o porgere un fiore». A Gorizia esiste già un monumento dedicato a 665 scomparsi. L'iniziativa bipartisan è stata sostenuta dal comune isontino e dal senatore dem Alessandro Maran. Fra i documenti recuperati a Roma colpisce la lettera del Cln di Gradisca d'Isonzo al presidente del Consiglio, Alcide de Gasperi, del 7 giugno 1946. «L'unione italo-slava di questa zona, che si autodefinisce antifascista non è in sostanza che la continuazione del fascismo in funzione panslavista», scrive G. Francolini seguito da altre firme. «Questi signori, che amano auto definirsi il popolo non rappresentano che se stessi e quella piccola frazione eterogenea la cui unica forza di coesione si manifesta nell'odio contro il popolo italiano».

Vite negate, massacri, falsità. Anche la verità fu infoibata. Oggi la "Giornata del ricordo" per celebrare gli italiani cacciati e uccisi da Tito dopo la guerra. Una tragedia che nella gerarchia del dolore sta sempre dietro le vittime delle dittature fasciste, scrive Stefano Zecchi su “Il Giornale”. Cos'era accaduto sulle coste orientali italiane dell'Adriatico dopo la guerra? Niente di rilevante, avrebbero voluto rispondere chi governava l'Italia e chi da sinistra faceva l'opposizione. Soltanto un nuovo confine segnato con un tratto di penna sulla carta geografica dell'Europa. Vite negate. Amori, amicizie, speranze sconvolte, sentimenti calpestati, che per pudore, in silenzio, lontano da occhi inquisitori, l'esule arrivato dall'Istria, dalla Dalmazia, da Fiume chiudeva nel dolore, forse sperando che questo dignitoso comportamento lo aiutasse ad essere accolto da chi non ne gradiva la presenza. Si chiudeva così il cerchio dell'oblio, e una pesante coltre di omertà si distendeva sopra le sconvenienti ragioni degli sconfitti. La Storia non apre le porte agli ospiti che non ha invitato. Sceglie i protagonisti e i comprimari, anche se gli esclusi si sono dati tanto da fare. Esuli, allora, con la nostalgia del ritorno, con il dolore dell'assenza. L'esule dei Paesi comunisti non è mai stato troppo gradito; le sue scelte giudicate con sospetto. Nella gerarchia morale della sofferenza, egli rientra stentatamente, sì e no, agli ultimi posti, molto indietro rispetto agli esiliati delle dittature fasciste e dei sanguinari regimi latino-americani. In una intervista a Panorama del 21 luglio 1991, Milovan Gilas dichiarava tra l'altro: «Nel 1946, io e Edward Kardelij andammo in Istria a organizzare la propaganda anti italiana ... bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto». Gilas era il braccio destro di Tito, l'intellettuale del partito comunista jugoslavo; Kardelij era il teorico della «via jugoslava al comunismo», punto di riferimento dell'organizzazione della propaganda anti italiana. Dunque, due protagonisti di primissimo piano del partito comunista jugoslavo impegnati a cacciare con «pressioni di ogni tipo» gli italiani dalle loro case, dal loro lavoro, dalle loro terre. Tra le pressioni di ogni tipo ci furono il terrore e il massacro: una pulizia etnica. A migliaia gli italiani, senza nessun processo, senza nessuna accusa, se non quella di essere italiani, venivano prelevati di notte, fatti salire sui camion e infoibati o annegati. Non si saprà mai quanti furono ammazzati. A decine di migliaia: una stima approssimativa è stata fatta sulla base del peso dei cadaveri che venivano recuperati dalle foibe; nulla si sa degli annegati. E poi gli esuli: oltre 350mila, che lasciarono tutto, pur di rimanere italiani e vivi. Accolti in Italia con disprezzo, perché solo dei ladri, assassini, malfattori fascisti potevano decidere di abbandonare il paradiso comunista jugoslavo. Ricordo bene quando a Venezia arrivavano le motonavi con i profughi: appena scesi sulla riva, erano accolti con insulti, sputi, minacce dai nostri comunisti, radunati per l'accoglienza. Il treno che doveva trasportare gli esuli giù verso le Marche e le Puglie, dai ferrovieri comunisti non fu lasciato sostare alla stazione di Bologna per fare rifornimento d'acqua e di latte da dare ai bambini. Alla gente che abitava l'oriente Adriatico, fu negato dal nostro governo il plebiscito che avrebbe dimostrato come in quelle terre la stragrande maggioranza della popolazione fosse italiana. Prudente, De Gasperi pensava che l'esito del plebiscito avrebbe turbato gli equilibri internazionali e interni col PCI. A quel tempo, Togliatti aveva fatto affiggere questo manifesto a sua firma: «Lavoratori di Trieste, il vostro dovere è accogliere le truppe di Tito come liberatrici e collaborare con esse nel modo più stretto». Per esempio, sostenendo, come voleva il Migliore, che il confine italiano fosse sull'Isonzo, lasciando a Tito Trieste e la Venezia Giulia. I liberatori comunisti non potevano essere degli assassini: e così, sotto lo sguardo ipocrita dell'Italia repubblicana, con la vergognosa collaborazione degli storici comunisti, disposti a scrivere nei loro libri il falso, quella tragedia sparisce, non è mai accaduta. Ma il cammino trionfale della Storia dei vincitori si distrae e la verità incomincia ad affiorare. Non si dice con ottimismo che il tempo è galantuomo? Stavolta sembra di sì. Il 10 febbraio (giorno della firma a Parigi nel 1947 del trattato di pace) viene istituita nel marzo 2004 la «Giornata del ricordo», per celebrare la memoria dei trucidati nelle foibe e di coloro che patirono l'esilio dalle terre istriane, dalmate, giuliane. Ci sono voluti sessant'anni per incominciare a restituire un po' di verità alla Storia: adesso sarebbe un bel gesto che il nuovo Presidente della Repubblica onorasse questa verità ritrovata, recandosi al mausoleo sulla foiba di Basovizza per chiedere scusa alle migliaia di italiani dimenticati, offesi, umiliati, massacrati soltanto perché volevano rimanere italiani.

La tragedia delle Foibe: 60 anni di silenzio. Per 60 anni il dramma delle foibe è rimasto ignoto ai più, e secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio è da ricondurre a tre motivi principali. Scopriamoli insieme, scrive Nicolamaria Coppola su “Quotidiano Giovani”. È stato un tabù per decenni: non una riga sui libri di scuola, nessuna pubblicazione storica nel grande circuito editoriale, niente commemorazioni ufficiali. Per 60 anni il dramma delle foibe è rimasto ignoto ai più, e secondo lo storico Gianni Oliva il silenzio è da ricondurre a tre motivi principali: innanzitutto la necessità, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, del blocco occidentale di stabilire rapporti meno tesi con la Jugoslavia in funzione antisovietica; cause politiche dal momento che il PCI non aveva interesse a evidenziare le proprie contraddizioni sulla vicenda e le proprie subordinazioni alla volontà del comunismo internazionale; un silenzio da parte dello Stato Italiano che voleva sorpassare tutto il capitolo della sconfitta nella guerra da poco conclusasi. Solo in quest'ultimo decennio il dramma delle foibe è tornato alla ribalta, e nonostante le polemiche ideologiche si è cominciato a fare luce sulla tragedia. Dal 2005 si commemorano, nella “Giornata del Ricordo” il 10 febbraio, le vittime dei massacri delle foibe, ma sono ancora pochi gli Italiani che sanno effettivamente di cosa si tratti e cosa abbiano rappresentato per la generazione del dopoguerra. Secondo un sondaggio commissionato dall'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, solo il 43% dei nostri connazionali sa cosa siano le foibe e ancora più bassa è la percezione sul significato dell'Esodo giuliano-dalmata (22%). Il 46% dei giovani ha una cognizione abbastanza chiara della tragedia, ma i dubbi e le incertezze sono ancora tanti. Le foibe sono delle cavità naturali con ingresso a strapiombo presenti sul Carso, la zona montuosa compresa tra Trieste, la Slovenia, l'Istria e la Dalmazia, usate per occultare i cadaveri di un numero non preciso di persone. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale i partigiani comunisti di Tito gettarono- infoibarono - in queste profonde voragini migliaia di persone, alcune dopo averle fucilate, altre ancora vive, colpevoli o di essere italiane o di essere contrarie al regime comunista. La prima ondata di violenza esplose subito dopo la firma dell’armistizio dell’8 settembre 1943 tra l'Italia guidata dal Generale Badoglio e le truppe anglo-americane: in Istria e in Dalmazia i partigiani slavi si vendicarono contro i fascisti e gli italiani non comunisti. Li consideravano “nemici del popolo”, accusandoli sia di non essere comunisti e, quindi, ostili a Tito, sia, soprattutto, di aver contribuito, allorquando il regime fascista impose in tutto il Venezia Giulia una violenta politica di snazionalizzazione, all'eliminazione delle minoranze serbe, croate e jugoslave in quella regione. Le vittime dei titini venivano condotte, dopo atroci sevizie, nei pressi della foiba: qui gli aguzzini, non paghi dei maltrattamenti già inflitti, bloccavano i polsi e i piedi tramite filo di ferro ad ogni singola persona con l’ausilio di pinze e, successivamente, legavano gli uni agli altri sempre tramite il di ferro. I massacratori si divertivano, nella maggior parte dei casi, a sparare al primo malcapitato del gruppo che ruzzolava rovinosamente nella foiba spingendo con sé gli altri. La violenza aumentò nella primavera del 1945, quando la Jugoslavia occupò Trieste, Gorizia e l’Istria. Le truppe del Maresciallo Tito, al grido di «Epurare subito», «Punire con severità tutti i fomentatori dello sciovinismo e dell’odio nazionale», si scatenarono di nuovo contro gli italiani, e a cadere dentro le foibe furono fascisti, cattolici, liberaldemocratici, socialisti, uomini di chiesa, donne, anziani e bambini. L'ondata di violenza non risparmiò neppure le popolazioni slovene contrarie al progetto politico comunista jugoslavo, le quali, oltre che infoibate, vennero deportate nelle carceri e nei campi di prigionia, tra i quali va ricordato quello di Borovnica. Questa carneficina, che testimonia l’odio politico-ideologico e la pulizia etnica voluta da Tito per eliminare dalla futura Jugoslavia i non comunisti, finì il 9 giugno 1945, quando Tito e il generale Alexander tracciarono la linea di demarcazione Morgan che prevedeva due zone di occupazione, la A e la B, dei territori goriziano e triestino, confermate dal “Memorandum di Londra” del 1954. È la linea che ancora oggi definisce il confine orientale dell’Italia. La persecuzione degli Italiani, però, durò almeno fino al 1947, soprattutto nella parte dell'Istria più vicina al confine e sottoposta all'amministrazione provvisoria jugoslava. Secondo lo storico Enzo Collotti, parlare delle foibe significa «chiamare in causa il complesso di situazioni cumulatesi nell'arco di un ventennio con l'esasperazione di violenza e di lacerazioni politiche, militari e sociali concentratesi, in particolare, nei cinque anni della fase più acuta della Seconda Guerra mondiale. È qui che nascono le radici dell'odio, delle foibe, dell'esodo dall'Istria». Le foibe sono state il prodotto di odi diversi: etnico, nazionale e ideologico. «Furono la risoluzione brutale di un tentativo rivoluzionario di annessione territoriale», ha sintetizzato lo storico triestino Roberto Spazzali. «Chi non ci stava, veniva eliminato».

IL SILENZIO SULLE FOIBE: UN GENOCIDIO CELATO DA OMBRE, scrive Giuseppe Papalia su “Secolo Trentino”. Foibe. Probabilmente a molti questa parola direbbe ancora poco se l’argomento non fosse stato portato alla ribalta dell’opinione pubblica, istituendo una giornata della memoria, meritata quanto agognata e ancora oggi criticata e strumentalizzata dalle diverse fazioni politiche che ne recriminano l’accaduto. Il 10 febbraio di ogni anno, infatti, si ricorda questo terribile genocidio ancora impresso nella mente di molti, di quell’Italia del dopoguerra travolta dalla miseria e dalla fame. Di quel paese coinvolto in una crisi identitaria radicale, non solo politica ma quasi metafisica. In cui la guerra e la persecuzione erano solo i sintomi di una guerra ormai ultima, la prova, che negli anni a venire avrebbe gettato una luce cruda su quanto accaduto. Quella luce che in molti oggi sembrano non voler riesumare, nonostante i corpi riesumati in quelle fosse furono circa 11000, comprese le vittime recuperate e quelle stimate, più i morti nei campi di concentramento jugoslavi. Una riflessione scaturisce in merito a quella storia vissuta eppure dimenticata dai più, impressa tuttavia nelle menti delle generazioni che l’hanno vissuta sulla loro pelle l’8 settembre del 1943, quando i territori istriani, giuliani e dalmati, dapprima sotto l’influenza tedesca, venivano in seguito occupati dai partigiani comunisti di Tito. Titini che, comunemente ai partigiani comunisti italiani, non solo nutrivano il progetto di avanzare in un paese ormai stremato e inerme (segnato dalla caduta del fascismo) recriminandone la conquista territoriale, ma addirittura rivelarono ben presto quell’odio etnico che li animava. L’intenzione di “de-italianizzare” i territori occupati con metodi terribili fu presto svelata. Metodi che nulla avevano da invidiare a quelli nazisti adottati nei confronti di popoli innocenti e che nulla centravano con i fatti accaduti nell’Europa della grande guerra e dei crimini di guerra. Così, occorre oggi ricordare, che Italiani senza particolare distinzione di sesso, età o fazioni politiche, erano prelevati e poi eliminati con l’unica colpa forse, di non aver partecipato attivamente a piani espansionistici di Tito, che costrinse ben 350000 persone a  fuggire dalle loro terre e altre 11000, a essere uccise con modalità di una ferocia inaudita. Nella sola foiba di Basovizza, furono rinvenuti 2000 cadaveri. Nonostante in molti abbiano portato il tema alla considerazione dell’opinione pubblica, sorge spontanea una riflessione. Possibile che solo ora, dopo settantanni di macabra storia celata e quasi dimenticata, se non addirittura strumentalizzata a piacere dalle diverse fazioni politiche, possiamo ritenerci soddisfatti dell’istituzione di una giornata della memoria e (addirittura) dell’uscita di un film sull’avvenimento di tale fatto?  E pensare che la cinematografia e tutte le varie ricorrenze istituite ad hoc, non si sono fatte aspettare più di tanto per quel che concerne la Shoah. Per quale motivo? Che le foibe fossero meno importanti? O probabilmente perché nonostante tutto, ancora oggi, le foibe non sono ancora entrate nella cosiddetta “memoria condivisa” di un popolo (quello italiano) che ne fu vittima oltre che carnefice? Come scrisse il grande giornalista Indro Montanelli, “sicuramente il silenzio sulle foibe oggi si spiega facilmente, considerando che la storiografia italiana del dopoguerra era di sinistra, la quale apparteneva certamente al comunismo slavo e di cui era succube e ne curava gli interessi. Di questo quindi non si poteva parlare poiché della morte di tante persone ne risentiva la coscienza. Ammesso che ce ne fosse una, in nome di una resistenza che altro non era che una guerra civile tra italiani stessi.” Forse occorrerà domandarsi cosa, al cospetto dei quei tragici avvenimenti, viene oggi ricordato nell’immaginario collettivo comune. Di quel macabro periodo in cui tutto pareva che fosse quasi un nodo, che prima o poi sarebbe certo venuto al pettine.

GLI ONORI AI BOIA MACELLAI.

Via le medaglie al Maresciallo Tito. Nel giorno del ricordo per il dramma delle foibe restano le onorificenze per chi si è macchiato del sangue di migliaia di italiani, scrive Fausto Biloslavo il 12 febbraio 2019 su Panorama. Sul sito del Quirinale alla voce «onorificenze» ancora oggi Broz Josip Tito risulta ufficialmente «decorato come Cavaliere di Gran croce al merito della Repubblica italiana», con l’aggiunta del Gran cordone, il più alto riconoscimento dato dal nostro Paese. Alla vigilia del 10 febbraio, Giorno del ricordo del dramma delle foibe e dell’esodo, è vergognoso che non sia stata ancora tolta la medaglia al maresciallo Tito. Il capo partigiano e presidente jugoslavo si è macchiato le mani con il sangue di migliaia di italiani deportati e infoibati da Gorizia, Trieste, in Istria, Fiume e Dalmazia, anche dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Se al «boia» delle foibe resta l’onorificenza suona terribilmente assurdo che la presidenza della Repubblica non abbia ancora consegnato la Medaglia d’oro al valor militare al gonfalone dell’ultima amministrazione italiana di Zara. La «città martire» sulla costa dalmata venne prima distrutta dai bombardamento alleati e poi «ripulita» dalla popolazione italiana, costretta a scegliere la via dell’esodo di fronte alle violenze di Tito. Il presidente Carlo Azeglio Ciampi aveva concesso la medaglia nel 2001, ma i nazionalisti croati protestarono e l’Italia ha piegato la testa senza mai consegnarla agli esuli dalmati. Il 2 ottobre 1969 durante la visita di Stato a Belgrado del capo dello Stato, Giuseppe Saragat, per finalizzare accordi commerciali con la Jugoslavia, venne concessa a Tito la più alta onorificenza italiana. Altre medaglie e riconoscimenti furono assegnati nel tempo a una ventina di suoi sgherri. L’Unione degli istriani, una delle più rappresentative associazioni degli esuli costretti in 250 mila alla fuga dalle loro terre alla fine della seconda guerra mondiale, ha lanciato in occasione del 10 febbraio, Giorno del ricordo delle foibe, una campagna per «revocare dopo esattamente 50 anni le onorificenze dello stato italiano elargite al sanguinario maresciallo Tito». Sulla pagina Facebook dell’associazione, che ha sede a Trieste, capitale morale dell’esodo, ci si chiede se il premier «Giuseppe Conte, Matteo Salvini, Luigi Di Maio, Giorgia Meloni, Maurizio Martina e Silvio Berlusconi» possano «essere contrari?». Stessa domanda viene rivolta ai parlamentari dei principali partiti e ai governatori delle Regioni più influenti. Lo scorso ottobre una mozione del Consiglio regionale, che sollecitava il presidente del Friuli-Venezia Giulia, il leghista Massimiliano Fedriga, a chiedere la revoca al governo è passata ampiamente, ma ha ottenuto anche dei voti contrari. I «niet» sono stati espressi dai consiglieri del Partito democratico Cristiano Shaurli, Roberto Cosolini, Igor Gabrovec e dall’esponente di Open sinistra, Furio Honsell. L’anno prima anche il Consiglio regionale del Veneto aveva votato, all’unanimità, una risoluzione presentata dal leghista Alberto Villanova che chiede al Parlamento di «revocare l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica a Josip Broz Tito». L’aspetto paradossale della vicenda è che si può ritirare un’onorificenza per indegnità, ma solo se il personaggio insignito è ancora in vita. Nel 2012 è stato fatto con il presidente siriano Bashar Al Assad. Per Tito, che lanciò la pulizia etnica contro gli italiani, «non è ipotizzabile alcun procedimento essendo il medesimo deceduto» scriveva nel 2013 il prefetto di Belluno, a nome del governo, dopo essere stato interpellato dal primo cittadino di Calalzo di Cadore. Per questo motivo il sindaco, Luca De Carlo, eletto deputato con Fratelli d’Italia nell’ultima legislatura, ha stilato una proposta di legge che prevede di cambiare la norma. Si tratta di appena due righe: «In ogni caso incorre nella perdita della onorificenza l’insignito, anche se defunto, qualora si sia macchiato di crimini crudeli e contro l’umanità». Per ora la proposta langue, ma De Carlo dichiara a Panorama: «Auspico che la Lega, che ha visto molti suoi esponenti rilasciare dichiarazioni a favore della revoca dell’onorificenza a Tito, supporti nel suo ruolo di governo la discussione in commissione prima e in aula dopo della nostra proposta di legge. È ora di passare dalle parole ai fatti». Giorgio Napolitano e il suo successore Sergio Mattarella hanno sempre fatto orecchie da mercante rispetto allo scandalo delle onorificenze a Tito e ai suoi gerarchi. Per protesta, Massimiliano Lacota, presidente dell’Unione degli istriani non ci sarà alla celebrazione del Giorno del ricordo delle foibe e dell’esodo al Quirinale fissato il 9 febbraio (si veda l’intervista a fianco). L’invito solenne agli esuli è il primo con Mattarella presidente della Repubblica. Un motivo in più per dare ascolto alla lettera inviata il 22 gennaio dal presidente dei Dalmati italiani nel mondo, Paolo Sardos Albertini. «Signor Presidente, sono maturi i tempi per la consegna della Medaglia d’oro al valor militare al gonfalone della città di Zara». Renzo de’ Vidovich, storico alfiere degli esuli dalmati, rivela a Panorama «che sono state contattate riservatamente le autorità croate. Non hanno espresso alcun veto alla consegna della medaglia già assegnata 17 anni fa». La lettera a Mattarella si conclude così: «Qualora volesse rendere nota la data del conferimento della Medaglia d’oro nella riunione al Quirinale del 9 febbraio, le saremo grati se, per le vie brevi, i suoi uffici ci confermassero questa eventualità». Ma dalla Presidenza ancora nessuna risposta. Oltre a Tito, l’Italia ha decorato anche numerosi sodali del maresciallo jugoslavo. I più noti sono Mitja Ribicic, Franjo Rustja e Marko Vrhunec pure loro in bella mostra sull’Albo d’oro delle onorificenze del Quirinale. Dal 2013 il ministero degli Esteri, sollecitato dalla Presidenza del consiglio, avrebbe dovuto indagare su che fine avessero fatto. «Noi sapevamo che vivevano in Slovenia, ma nessuno ha mai mosso un dito» spiega Lacota. «L’ultimo è deceduto un paio d’anni fa, a quasi cent’anni, in una casa di riposo vicino all’ex confine di Trieste». Così, anche gli sgherri di Tito si sono portati le medaglie italiane nella tomba. Ribicic, Cavaliere di Gran croce al merito della Repubblica italiana, è stato al vertice della repressione titina in Slovenia dal 1945 al 1957. Poi è diventato primo ministro jugoslavo. Nel 2005 venne accusato a Lubiana di crimini di guerra, ma dopo 60 anni le prove erano sparite. L’ex ammiraglio Rustja, Grande ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica italiana, fu braccio destro del comandante del IX Corpus titino, che occupò Trieste nel maggio 1945. Nei quaranta giorni di terrore sparirono molti italiani. Vrhunec è stato commissario politico della brigata partigiana Lubiana e capo di gabinetto di Tito dal 1967 al ’73, pure lui Grande ufficiale della nostra Repubblica. Un’altra vergogna sono le sette vie italiane ancora dedicate a Tito. Basta andarle a cercare su Google Maps. A Parete, nel casertano, la strada intitolata a Tito si trova fra via Kennedy e via Martin Luther King. Vicino a Reggio Emilia la via si chiama proprio Maresciallo Tito. In Sardegna, a Nuoro, non vogliono cancellarla e a Parma campeggia sempre via Tito Josip Broz.

 Foto fuorviante: Pertini in ginocchio davanti la bara di Tito, scrive lunedì 11 febbraio 2019 Pagella Politica. Il 9 febbraio è stata pubblicata su Facebook una foto in cui si vede l'ex presidente della Repubblica Sandro Pertini, che sembra inginocchiarsi davanti a una bara. Nell'immagine compare anche un testo, in cui si legge che quel feretro apparteneva al maresciallo Tito. Josip Broz, conosciuto con lo pseudonimo di Tito, è stato «dal 1939 segretario generale del Partito comunista iugoslavo, guidò la lotta di liberazione dall'invasore nazista e contro i fascisti croati e italiani ed ebbe la responsabilità politica della repressione anti-italiana di Fiume, Istria, Dalmazia, attuata con l'eliminazione fisica nelle foibe e con le espulsioni», spiega l'enciclopedia Treccani. Questa notizia è però fuorviante e veicola un contenuto falso. L'immagine è vera, ma non ritrae Sandro Pertini davanti alla bara di Tito, ma a quella dell'ex segretario del Partito Comunista italiano, Enrico Berlinguer, morto nel 1984, come si può verificare qui.

La foto sbagliata di Sandro Pertini e la bufala del bacio al funerale di Tito, scrive David Puente il 10/02/2019 su Openonline. Due falsità circolano online in merito al Presidente Sandro Pertini e il Maresciallo Tito, una foto sbagliata del funerale e il fantomatico bacio alla bandiera che avvolgeva la bara. Ecco la verità.

L'otto febbraio 2018 un utente ha condiviso via Twitter una foto in cui si riconosce Sandro Pertini, Presidente della Repubblica dal 1978 al 1985, con il capo chino e appoggiato con le mani a una bara in segno di rispetto verso un defunto. Secondo la foto, leggendo i nomi riportati con un programma di fotoritocco, la bara sarebbe quella del Maresciallo Tito, pseudonimo di Josif Broz. Una falsità colossale perché quello nell'immagine non è affatto il funerale dell'ex dittatore e Presidente della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. Ci sono due elementi che ci permettono di comprendere l'origine della foto: il logo di Rai3 in alto a sinistra e, appeso al muro, quello del Partito Comunista Italiano (P.C.I.). Quanto basta per scoprire che si trattava del funerale di Enrico Berlinguer riportato in un servizio andato in onda nella nostra Tv di Stato. Qualche utente, al fine di contrastare la falsità diffusa nel tweet, aveva messo in dubbio la presenza del presidente della Repubblica ai funerali del Maresciallo Tito, sbagliando a sua volta. La presenza di Sandro Pertini ai funerali di Stato del Maresciallo Tito è un fatto storico inconfutabile, così come la presenza di altri rappresentanti della politica internazionale dell'epoca come il principe Philip e il primo ministro britannico Margaret Thatcher, il vicepresidente americano Walter Mondale, il primo ministro francese Raymond Barre, l'iracheno Saddam Hussein, il siriano Hafez al-Assad e il re Carlo XVI Gustaf di Svezia. Insieme a Sandro Pertini c'era anche Francesco Cossiga, all'epoca Presidente del Consiglio.

C'è un'altra vicenda da raccontare in merito al funerale, ossia il presunto bacio di Sandro Pertini alla bara del Maresciallo Tito, precisamente alla bandiera jugoslava nella quale era avvolta. In realtà aveva solo appoggiato il braccio, per poi ritirarsi come fecero altrettanti rappresentanti degli stati esteri. Andrea Gandolfo, autore di una serie di libri sull'allora Presidente della Repubblica, inviò una lettera al direttore di Savona News nel 2016 dove riportava - oltre a una lunga premessa sui rapporti tra i due - la versione della famiglia di Tito: Per quanto concerne i rapporti tra Pertini e il maresciallo Tito, mi preme innanzitutto chiarire come, se è indubbiamente vero che l'uomo politico ligure stimasse il presidente jugoslavo sul piano personale e politico, altra cosa è affermare e sostenere, come mi sembra faccia il dottor Vaccarezza, che Pertini ne abbia anche condiviso la pulizia etnica attuata con metodi brutali e violenti contro i nostri connazionali in Istria e Venezia Giulia tra il 1943 e il 1947. Fatta questa doverosa premessa, tengo anche a smentire l'altra inesattezza troppe volte ripetuta e strumentalizzata, non so se anche in malafede, ossia quella del "bacio" alla bara di Tito. Nel 2010 (prima non era emersa questa testimonianza) una nipote del maresciallo, presente ai funerali, ha confermato in modo definitivo, avendo visto la scena di persona, che Pertini ha soltanto "appoggiato" la mano sulla bara del maresciallo, tenendola "a lungo", ma non ha affatto accennato a nessun "bacio", o presunto "bacio", cosa che se fosse minimamente avvenuta, lei l'avrebbe senz'altro notata. Per cui mi sembra che dopo questa testimonianza, con buona pace di tutti gli "antipertiniani" (e sono molti, tra cui presumo anche il dottor Vaccarezza), si possa pacificamente escludere che Pertini abbia "baciato" la bara di Tito durante i suoi funerali, limitandosi ad accarezzarla. La prova definitiva la troviamo nei video dell'epoca che riportiamo di seguito, dove il Presidente Pertini tocca la bara con un braccio per poi allontanarsi.

Pertini e macellaio Tito, Forza Italia: noi non dimentichiamo, scrive il 26 Settembre 2016 Liguria notizie. I capigruppo regionali di Forza Italia, Fratelli d'Italia e Lega Nord, ieri hanno disertato le celebrazioni organizzate dalla Regione Liguria a Stella e Savona per ricordare Sandro Pertini, il presidente della Repubblica non amato da tutti gli italiani ed evidentemente nemmeno da tutti i liguri. Il capogruppo regionale di Forza Italia, Angelo Vaccarezza, ieri ha polemicamente postato sul suo profilo Facebook la foto che ritrae Pertini con il suo amico Josip Broz, il "macellaio" Tito, che si sporcò le mani di sangue italiano con la pulizia etnica e le stragi delle foibe, aggiungendo: "Ciao "Sciandru", io non dimentico". Alle celebrazioni a Stella e Savona, non hanno partecipato neppure Alessandro Piana e Matteo Rosso. Se il fedelissimo di Rixi e Salvini ha preferito ignorare l'evento, quello di Giorgia Meloni ha scritto su Facebook: "Senza voler mancare di rispetto al presidente Toti che con la sua solita cortesia mi ha invitato né al Presidente della Repubblica oggi ho preferito non partecipare alla cerimonia perché non apprezzo queste parate. Essere presente per farmi vedere tra tanti "Big", per fami vedere alla TV nazionale che stringo la mano al Presidente della Repubblica questo non è nel mio carattere. Non so se ho sbagliato ma io sono fatto così, preferisco un giro in pieno anonimato in un ospedale tra i pazienti che tante cerimonie".

Pertini baciò bandiera del macellaio Tito: ricordare anche questo, scrive il 25 Settembre 2016 Liguria Notizie. Per molti italiani, è come se il presidente d'Israele andasse a rendere omaggio alla tomba di Hitler. Oppure se quello ucraino si recasse a piangere su quella di Stalin. Sandro Pertini nel 1982 alzò la Coppa del Mondo, ma nel maggio 1980 baciò la bandiera jugoslava e partecipò convintamente ai funerali di Josip Broz, il "macellaio" Tito, responsabile del nostro Olocausto con decine di migliaia di profughi costretti a lasciare le loro case e chissà quante migliaia di innocenti fucilati ed infoibati dalle bestie assassine titine, fra cui bambini, donne, preti, colpevoli solo di essere italiani. La Regione Liguria, che ogni anno, con varie manifestazioni, ricorda la pulizia etnica, l'esodo dei profughi italiani e il genocidio delle foibe del dopoguerra, l'altro giorno, presentando le giornate pertiniane, ha affermato che Sandro Pertini fu il presidente più amato da tutti gli italiani. Oggi a Savona e ieri a Genova, si è ricordato di tutto, ma c'è stato un consapevole vuoto di memoria. Un'amnesia di facciata. Perché chiunque sa che quella definizione, storicamente, non risponde al vero. Pertini, davanti al feretro del macellaio di italiani, si commosse a tal punto da togliersi gli occhiali e da asciugarsi le lacrimucce con le dita. Poi, continuò ad avvicinarsi alla bara avvolta nella bandiera jugoslava con la stella rossa. La toccò rendendogli omaggio e tornò al suo posto per assistere al resto della cerimonia funebre. Alcuni affermano che in quell'occasione baciò perfino la bandiera sporca di sangue italiano. Altri dicono che la baciò successivamente, non in quel preciso istante e luogo. Di sicuro, nel 1978 Pertini concesse la grazia a una delle bestie assassine di Tito solo per ragioni di opportunismo politico. Ne beneficiò Mario Toffanin, nome di battaglia «Giacca», che nel 1954 la Corte di Assise di Lucca condannò all?'ergastolo in contumacia perché il Pci riuscì a farlo riparare in Jugoslavia. Il capo partigiano della Brigata Osoppo si era aggregato, dandogli manforte, al IX Corpus titino responsabile delle foibe e che fu protagonista dell'eccidio di Porzûs (Udine), dove i rossi trucidarono i partigiani bianchi, antifascisti ed anticomunisti. Oltre che per i fatti di Porzûs, la bestia assassina avrebbe dovuto scontare 30 anni per sequestro di persona, rapina aggravata, estorsione, concorso in omicidio aggravato e continuato. Un criminale come un altro, quindi, al quale lo Stato italiano, con la contestata «legge Mosca», elargì persino la pensione. La grazia concessa dal presidente non amato da tutti gli italiani, fu tutt'altro che un gesto misericordioso e di clemenza, anche perché il beneficiato non ne approfittò per tornare in Italia da uomo libero, ma preferì rimanere in Jugoslavia, continuando però a percepire la pensione italiana fino alla morte, avvenuta nel 1999. Di Pertini è giusto ricordare anche questo. Fabrizio Graffione

Pertini: le precisazioni di un lettore sulle affermazioni di Vaccarezza, scrive il 29 settembre 2016 Savona News. Lettera al direttore del Dott. Andrea Gandolfo – Sanremo Savona news 29 settembre 2016. "Egregio Signor Direttore, da studioso e biografo da oltre un ventennio della figura di Sandro Pertini, sul quale sto ultimando una vasta biografia di carattere scientifico, vorrei fare alcune puntualizzazioni in merito all'intervento del capogruppo di Forza Italia al Consiglio regionale della Liguria Angelo Vaccarezza, in relazione al rapporto tra Pertini e Tito, oltre all'annosa questione del "bacio" alla bara di Tito da parte di Pertini durante i funerali del leader jugoslavo e alla posizione dello stesso Pertini in merito alla tragedia delle foibe e, più in generale, all'esodo dei profughi istriani, fiumani e dalmati all'indomani della seconda guerra mondiale. Per quanto concerne i rapporti tra Pertini e il maresciallo Tito, mi preme innanzitutto chiarire come, se è indubbiamente vero che l'uomo politico ligure stimasse il presidente jugoslavo sul piano personale e politico, altra cosa è affermare e sostenere, come mi sembra faccia il dottor Vaccarezza, che Pertini ne abbia anche condiviso la pulizia etnica attuata con metodi brutali e violenti contro i nostri connazionali in Istria e Venezia Giulia tra il 1943 e il 1947.    Fatta questa doverosa premessa, tengo anche a smentire l'altra inesattezza troppe volte ripetuta e strumentalizzata, non so se anche in malafede, ossia quella del "bacio" alla bara di Tito. Nel 2010 (prima non era emersa questa testimonianza) una nipote del maresciallo, presente ai funerali, ha confermato in modo definitivo, avendo visto la scena di persona, che Pertini ha soltanto "appoggiato" la mano sulla bara del maresciallo, tenendola "a lungo", ma non ha affatto accennato a nessun "bacio", o presunto "bacio", cosa che se fosse minimamente avvenuta, lei l'avrebbe senz'altro notata. Per cui mi sembra che dopo questa testimonianza, con buona pace di tutti gli "antipertiniani" (e sono molti, tra cui presumo anche il dottor Vaccarezza), si possa pacificamente escludere che Pertini abbia "baciato" la bara di Tito durante i suoi funerali, limitandosi ad accarezzarla. Sulla questione delle foibe, invece, stranamente, durante il viaggio che fece in Jugoslavia nell'ottobre 1979, Pertini non ne avrebbe fatto alcun cenno, forse anche per non "urtare" i dirigenti jugoslavi su un tema che avrebbe potuto costituire motivo di ulteriore attrito tra le due delegazioni. Oltretutto, all'epoca, a differenza di oggi, in cui si celebra ogni anno - come noto - la "Giornata del Ricordo", il problema non era di stretta attualità e si preferiva evitare di riesumarlo per evitare contrasti e causare eventuali screzi diplomatici con la Jugoslavia. La posizione di Pertini in favore dei nostri connazionali che avevano sofferto durante la guerra fu comunque sempre di profonda solidarietà, come è dimostrato anche dal fatto che, quando nell'ottobre 1984 ricevette al Quirinale una delegazione dell'Unione degli Italiani dell'Istria e di Fiume, manifestò tutta la sua vicinanza nei confronti delle minoranze italiane in Jugoslavia. Non mi sembra quindi che si possa affermare, come sostiene il capogruppo di Forza Italia Vaccarezza, che Pertini abbia avuto poco rispetto verso i profughi istriani, fiumani e dalmati, a cui non fece mai mancare il suo convinto sostegno.  La ringrazio per la Sua gentile attenzione e Le porgo i miei più cordiali saluti" Dott. Andrea Gandolfo - Sanremo.

Pertini con il Maresciallo Tito, Vaccarezza rincara: “Io non dimentico, la storia parla da sola”, scrive il 27 Settembre 2016 IGV Il Vostro Giornale. “Nella mia vita non mi sono mai nascosto “dietro un dito”, ho sempre messo in primo piano la mia faccia e delle mie scelte ho sempre pagato il prezzo: questa volta non sarà diverso”. Così dichiara Angelo Vaccarezza in merito alle polemiche successive alla pubblicazione su uno dei suoi profili privati, proprio nel giorno delle celebrazioni della nascita di Sandro Pertini di un immagine che ritrae l’ex presidente della Repubblica accanto al Maresciallo Josip Broz Tito, Presidente della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia dal 1953 al 1980, Primo Ministro della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia del 1945 al 1963. “Il Maresciallo, per chi non lo sapesse o per chi lo ha voluto dimenticare, è il responsabile dell’Olocausto Italiano, dell’assassinio di migliaia di Italiani, di ogni fede e colore politico che vennero sommariamente accusati di collaborazionismo, fucilati ed infoibati – prosegue Vaccarezza – affermare che Pertini sia stato il presidente più amato agli italiani è l’immagine che un’abile campagna mediatica ha costruito intorno a lui attraverso immagini studiate “ad hoc” per crearne una visione angelica, altruista ma assolutamente non rispondente a quella che fu la realtà dei fatti. Quando si parla di un uomo che ricopre la carica più alta dello Stato non si può prescindere da quella che è stata la sua vita in un momento storico tanto delicato quanto il secondo dopoguerra”. “Le scelte politiche, le azioni compiute sempre accompagneranno il tuo nome, la tua persona. Ho sempre pensato che un Presidente che accosta il suo nome, la sua immagine ai criminali di guerra, e partecipa ai funerali del responsabile di un’atroce “pulizia etnica”, ritratto nell’atto di baciare la bara in cui riposano le spoglie di un feroce dittatore poco ha da condividere con la mia idea di valori, con quello che insegno ai miei figli. Molti altri sono gli esempi negativi dati da quest’uomo, mediocre nelle azioni e decisamente sopravvalutato rispetto alle sue capacità”. “Luisa Ferida, Osvaldo valenti, sono solo alcuni dei nomi di un lungo elenco che pesano come macigni nella storia di alcuni di noi. Non cerco di convincere nessuno del mio pensiero – conclude il capogruppo di Forza Italia in Regione Liguria – ma credo che sia condiviso e non dal numero esiguo dei persone che si fa credere. I miei eroi sono altri e ne vado fiero; mettere a tacere la storia non sarà mai mettere a tacere le loro coscienze e quelle di chi sa e finge di non sapere”.

La mattanza delle foibe e le amnesie di Pertini, scrive Paolo Granzotto, Venerdì 15/02/2008, su Il Giornale. In occasione della «Giornata del ricordo» che commemora i massacri delle foibe e lesodo dei giuliani-dalmati mi sarebbe piaciuto rivedere le fotografie del nostro (?) presidente Sandro Pertini che, ai funerali di Tito, con aria affranta, toccava la bara del suo compagno. Baciava, caro Caimati: Pertini non si limitò a posare la mano sul feretro in segno di cordoglio. Lo baciò e così facendo baciò anche la bandiera jugoslava nella quale era avvolto. A dire la verità Pertini era solito sbaciucchiare bandiere e casse da morto e quindi quello che schioccò a Belgrado, in occasione dei funerali di Tito, potrebbe considerarsi normale routine. Siccome però non era la prima volta che con parole, gesti e fatti concreti lallora presidente della Repubblica mostrava benevolenza nei confronti di chi, per ordine o per mano, aveva contribuito alla mattanza in Friuli e Venezia Giulia, viene da pensare il contrario. Non va infatti dimenticato che appena eletto presidente, si era nel 1978, Pertini concesse la grazia a quel Mario Toffanin, nome di battaglia «Giacca», che nel 1954 la Corte di Assise di Lucca condannò allergastolo (in contumacia, perché Botteghe Oscure riuscì a farlo riparare in Jugoslavia). Quel Toffanin che da capo partigiano della Brigata Osoppo si era aggregato, dandogli manforte, al IX Corpus titino responsabile delle foibe e che fu protagonista della strage di Porzûs. E che oltre allergastolo per i fatti di Porzûs avrebbe dovuto scontare anche trentanni per sequestro di persona, rapina aggravata, estorsione e concorso in omicidio aggravato e continuato. Un criminale fatto e finito, dunque, al quale lo Stato, grazie alla famigerata «legge Mosca», elargiva persino la pensione. Sandro Pertini gode di generale stima e talvolta, per fortuna solo talvolta, viene anche portato ad esempio. Con tutto il rispetto per i suoi ammiratori, resto però del parere che fu un mediocre presidente, assai poco indicato a rappresentare lItalia e glitaliani. Sul suo antifascismo ci si leva il cappello, ci mancherebbe altro; però me lo tengo ben calcato in testa alle sue gesta di antifascista a fascismo morto e sepolto. Quale fosse la caratura del suo reducismo antifascista è indicato chiaramente dal bacio al catafalco di Tito e dalla grazia a Toffanin, gesti che non possono non essere interpretati se non come espressione di consenso a quella particolare guerra partigiana, condotta con i metodi da macellaio, della Brigata Osoppo e del IX Corpus. Oltre tutto, che il condono della pena concesso a Toffanin non costituisse un misericordioso e circoscritto gesto di clemenza è confermato dal fatto che il beneficiato non ne approfittò per tornare in Italia dopo un quarto di secolo di latitanza. Restò in Jugoslavia (seguitando a percepire la pensione) fino alla morte, avvenuta nel gennaio del 1999.

Vanitoso, iracondo e fan di Stalin. Controritratto del "mito" Pertini, scrive Marcello Veneziani il 14 Marzo 2018 su Il Tempo. Ah, Sandro Pertini, il presidente della repubblica più amato dagli italiani. Il presidente della gente, dei bambini, il fumetto con la pipa, il presidente-partigiano che esce dal protocollo. L'Impertinente. Il Puro. A quarant'anni dalla sua elezione al Quirinale, in un diluvio celebrativo, uscirà domani al cinema un film agiografico su di lui. Noi vorremmo integrare il santino raccontando l'altro Pertini. Alla morte di Stalin nel '53, il compagno Pertini, già direttore filo-sovietico dell'Avanti! e all'epoca capogruppo socialista celebrò il dittatore in Parlamento. Ecco cosa disse su l'Avanti!: «Il compagno Stalin ha terminato bene la sua giornata, anche se troppo presto per noi e per le sorti del mondo. L'ultima sua parola è stata di pace. (...) Si resta stupiti per la grandezza di questa figura... Uomini di ogni credo, amici e avversari, debbono oggi riconoscere l'immensa statura di Giuseppe Stalin. Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto». Quell'elogio, mai ritrattato da Pertini, neanche dopo che si seppero tutti i crimini di Stalin, non fa onore a un combattente della libertà e dei diritti dei popoli. Da Presidente della Repubblica il compagno Pertini concesse appena fu eletto, la grazia al boia di Porzus, l’ex partigiano comunista Mario Toffanin, detto “Giacca”, nonostante questi non si fosse mai pentito dei suoi crimini per i quali era stato condannato all'ergastolo. Toffanin fu responsabile del massacro di Porzus, febbraio 1945: a causa di una falsa accusa di spionaggio, furono fucilati ben 17 partigiani cattolici e socialisti (la “Brigata Osoppo”), da parte di partigiani comunisti (Gap). Tra loro fu trucidato il fratello di Pasolini, Guido. Dopo la grazia di Pertini a Toffanin lo Stato italiano concesse al criminale non pentito pure la pensione che godette per vent’anni, insieme ad altri 30mila sloveni e croati «premiati» dallo Stato italiano per le loro persecuzioni antitaliane. Pertini partecipò poi commosso al funerale del presidente jugoslavo Tito (1980), il primo responsabile delle foibe, baciando quella bandiera che destava terribili ricordi negli esuli istriani, giuliani e dalmati. Pertini fu uno spietato capo partigiano. Il suo nome ricorre in molte vicende. Per esempio, quella della coppia di attori Valenti-Ferida. Luisa Ferida aveva 31 anni ed era incinta di un bambino quando fu uccisa dai partigiani all’Ippodromo di San Siro a Milano assieme a Osvaldo Valenti, il 30 aprile 1945, accusati di collaborazionismo, per aver frequentato la famigerata Villa Triste, a Milano, sede della banda Koch. L’accusa si dimostrò infondata al vaglio di prove e testimonianze; lo stesso Vero Marozin, capo della Brigata partigiana che eseguì la loro condanna a morte, dichiarò, nel corso del procedimento penale a suo carico: «La Ferida non aveva fatto niente, veramente niente». I due attori, infatti, pagarono la loro vita tra lussi e cocaina ma non avevano responsabilità penali o politiche tali da giustificarne la fucilazione per collaborazionismo. Nelle dichiarazioni rese da Marozin in sede processuale Pertini fu indicato come colui che aveva dato l’ordine di ucciderli: «Quel giorno - 30 aprile 1945 - Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: "Fucilali, e non perdere tempo!"». Si veda al proposito «Odissea Partigiana» di Vero Marozin (1966), «Luisa Ferida, Osvaldo Valenti, Ascesa e caduta di due stelle del cinema» di Odoardo Reggiani (Spirali 2001). «Pertini si era rifiutato di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva elaborato durante i giorni di prigionia, nel quale erano contenuti i nomi dei testimoni che avrebbero potuto scagionare i due attori da ogni accusa. La casa milanese di Valenti e della Ferida venne svaligiata pochi giorni dopo la loro uccisione. Fu rubato un autentico tesoro (cani di razza inclusi) di cui si perse ogni traccia». È famoso l’episodio accaduto all’arcivescovado di Milano nel ’45, quando Pertini incrociò sulle scale Mussolini, reduce da un colloquio col cardinale Schuster. Pertini disse poi di non averlo riconosciuto, «altrimenti lo avrei abbattuto lì, a colpi di rivoltella». Poi aggiunse: «come un cane tignoso». Pertini sosteneva la necessità di uccidere Mussolini, non arrestarlo: se si fosse salvato, disse, magari sarebbe stato eletto pure in Parlamento. Delle responsabilità di Pertini nella strage di via Rasella a Roma, ne scrisse William Maglietto in «Pertini sì, Pertini no» (Settimo Sigillo, 1990). Al Quirinale, al di là dell’immagine bonaria del presidente che tifa Nazionale, gioca a carte, va a Vermicino per Alfredino, il bambino caduto nel pozzo, si ricorda il suo carattere permaloso. Ad esempio quando cacciò il suo capo ufficio stampa, Antonio Ghirelli, valoroso giornalista e galantuomo socialista. O quando chiese di cacciare Massimo Fini dalla Rizzoli in seguito a un articolo su di lui che non gli era piaciuto. Così ne parlò lo stesso Fini: «Immediata rabbiosa telefonata al direttore della Domenica del Corriere Pierluigi Magnaschi, un gentleman dell’informazione, il quale ricoperto da una valanga di insulti cerca di barcamenarsi alludendo all’autonomia delle rubriche dei giornalisti, allo spirito un po’ da bastian contrario di Massimo Fini. Il "nostro" San Pertini gli latra minacciosamente: "Non credere di fare il furbo con me, imbecille! Chiamo il tuo padrone Agnelli e vediamo qui chi comanda!". E infatti il giorno dopo mi si presenta il responsabile editoriale della casa editrice Lamberto Sechi…». Lo stesso Pertini disse a Livio Zanetti in un libro-intervista: «Cercai inutilmente di far licenziare uno strano giornalista italoamericano». Nenni nei suoi diari considerava Pertini un violento iracondo. Quando l’Msi celebrò il suo congresso a Genova nel 1960, fu proprio Pertini ad accendere il fuoco della rivolta sanguinosa dei portuali della Cgil col discorso del «brichettu» (il cerino). E vennero i famigerati «ganci di Genova», coi quali un governo democratico di centro-destra, a guida Tambroni, con l’appoggio esterno del Msi, fu abbattuto da un’insurrezione violenta nel nome dell’antifascismo. Proverbiale era la poi sua vanità. Ghirelli riferì uno sferzante giudizio di Saragat: «Sandro è un eroe, soprattutto se c’è la televisione». E i suoi abiti firmati, le sue scarpe Gucci mentre predicava il socialismo e il pauperismo... Fiorirono poi tante maldicenze su di lui, capo partigiano e poi leader socialista che vi risparmio, circolavano giudizi dell’Anpi, di Marco Ramperti... Francesco Damato ricordò: «Nel 1973 Pertini mi comunicò di avere appena cacciato dal proprio ufficio di presidente della Camera il segretario del suo partito, Francesco De Martino. Che gli era andato a proporre di dimettersi per far posto a Moro, in cambio del laticlavio alla morte del primo senatore a vita». Poi fu proprio l’onda emotiva dell'assassinio Moro e l'asse Dc-Pci sulla non-trattativa che portò a eleggerlo due mesi dopo al Quirinale. Infine va ricordato il Pertini che agli operai di Marghera, nel pieno infuriare del terrorismo rosso con larghe scie di sangue, disse: «Sono stato un brigatista rosso anch’io» per poi negare che le Br fossero rosse, giudicandoli solo «briganti», così da recidere il filo rosso tra Br e partigiani. Il Presidente di una Repubblica flagellata in quegli anni dal terrorismo rosso, si definiva orgoglioso «un brigatista rosso».

Le foibe si fecero perché volevano la Repubblica Jugoslava nel Nord Italia, il genocidio dei Veneti e la balla della resistenza e della liberazione, scrive Loris Palmerini. Sono un noto Antifascista e un noto Anticomunista. Ho già scritto sui crimini dei Fascisti in Istria e Dalmatia. Oggi parlo di crimini comunisti, per altro già ampiamente condannati. Ne “il Giornale” del 1° settembre 1996, Paolo Granzotto ci riporta il proclama, del “Compagno Vanni”, che nel 1945 era commissario politico della divisione partigiana “Garibaldi”. Questi erano i famosi partigiani, italiani e comunisti. Diceva: “Compagni! Tutti i partigiani italiani operanti nell’Italia nord orientale debbono porsi disciplinatamente alle dipendenza delle unità del maresciallo Tito. Sono nemici del popolo tutti coloro che non intendono appoggiare il movimento di adesione alla Jugoslavia progressista e federativa di Tito. I territori della Venezia Giulia sono legittimamente sloveni e sugli stessi perciò il maresciallo Tito ha pieno diritto di giurisdizione”. Insomma, i comunisti italiani non stavano liberando la Venezia Giulia, ma la stavano annettendo alla Jugoslavia di Tito. E’ ben evidenziato che essi dichiaravano Sloveni tutta l’Italia Nord Orientale. Come noto furono migliaia i morti infoibati ordinati da Tito, il quale, pur essendo un monarchico finanziato dalle massonerie, realizzò il comunismo in Jugoslavia. Fra i morti anche i partigiani italiani non comunisti, ossia liberali, monarchici, repubblicano, popolari ecc . Da questo documento, e da molti altri, ci si rende conto che parlare di Resistenza o di Liberazione è una finzione, perché fu in realtà una tentata annessione al Regime Comunista che fallì sebbene per circa 2 mesi Tito ebbe il controllo di Trieste e il Friuli. Per lo stesso motivo Istria, Dalmatia e buona parte della Venezia Giulia non votarono al referendum del 1946, rendendolo incompleto e giuridicamente nullo come ho dimostrato nel mio libro.  Infatti, quelle terre erano Italia, come fa ad essere valida la vittoria della “Repubblica” se l’Istria e la Dalmazia non hanno votato al Referendum?  Purtroppo, quella parte di Venetia (al tempo chiamata Venezia Giulia e Zara) andò persa, con la illegale cessione di Istria e Dalmatia autorizzata da De Gasperi (anche egli finanziato da alcune massonerie).  Ma come ha potuto la “Repubblica” cedere un territorio che non ha mai votato per essa?  Oggi bisognerebbe incarcerare chi festeggia la “liberazione” in quanto è come un “incitamento alla rivoluzione comunista”, che si realizzò nelle terre di Istria e Dalmatia. Non tanto paradossalmente si è così realizzato il disegno che i partiti comunisti avevano intrapreso già negli anni 20 in vari congressi: staccare dal popolo veneto una parte fondamentale della sua terra originaria. Infatti Istria e Dalmatia sono come il Kossovo per i Serbi, ossia terra originaria, ed infatti furono terre da sempre venete, ma pure Veneziane ben prima di Vicenza, Padova, Verona ecc: lì ciò che è storico è tutto è veneto nella maniera più intima.

Curiosamente, oggi la teoria panveneta conferma che quelle sono sempre state terre venete. Anzi, si dice che gli Sloveni sono Veneti, confermando al contrario quello che dicevano i comunisti Titini. Invece no, oggi l’Italia dichiara a gran voce l’Italianità delle Terre del “Nord Est”, e i più contrari alla sua indipendenza sono proprio gli stessi comunisti che 50 anni fa la volevano perché terra slovena. Sono proprio i comunisti come il presidente Napolitano che oggi riempiono i discorsi di italianità fasulla ad affermare il contrario di quello che loro stessi o i loro padri predicavano e attuavano con il mitra. Ma ricordiamo pure che Napolitano fu favorevole alla occupazione militare della Ungheria da parte dell’Unione Sovietica. E’ sufficiente ricordare che solo 40 anni prima della fallita annessione comunista gli Austriaci dichiaravano tedesca la stessa terra del Lombardo-Veneto per capire come giri il vento. Ed è sufficiente sapere che il Lombardo Veneto è diventato italiano perché l’Italia tradì i patti con la Prussia per capire che si tratta solo di demagogia, violando il trattato internazionale e facendo votare i suoi soldati per l’annessione, anche questa una mia scoperta. Quei comunisti sono ancora nei gangli del potere, sopraTtutto in Italia, sebbene il comunismo sia stato condannato dal Consiglio d’Europa. Ma c’è un filo conduttore in tutto ciò: è la Stella a 5 punte massonica o Pentalfa. Contrassegnava la «Rivoluzione bolscevica», compariva sullo stemma delle «Brigate Rosse», dell’’ex PCI e su quello dell’’ex PDS. Non contando gli stati ex-comunisti che ce l’hanno ancora come Cina, Cuba, Nord Corea, Vietnam, essa però campeggia già da prima del comunismo sulla bandiera degli USA, e su quella di Algeria, Tunisina, Marocco, Somalia, così come sulla bandiera di molti altri. E’ dal 1871 che simboleggia l’Italia, prima sulle divise militari, per volontà dell’allora Ministro della Guerra, Cesare Ricotti-Magnai, noto massone, oggi è sullo stemma della Repubblica italiana. I Veneti durante la Repubblica di Venezia erano contro le massonerie, erano vietate come lo erano i partiti politici perché “di parte” quindi divisivi rispetto all’interesse pubblico e generale. Allora si capisce che proprio i Veneti sono stati quelli che hanno patito il maggior danno dalla “lotta di liberazione” dei “partigiani” (che erano rivoluzionari comunisti), e dunque non trovo nulla di strano che la festa della liberazione (fallita annessione) si festeggi proprio il giorno di S.Marco, festa millenaria dei veneti. Parlare di “Resistenza” è falso e demagogico, è una inversione della realtà a fini propagandistici in vero stile “imperialista”. Certamente, non era una lotta di liberazione, ma di occupazione comunista. Nel mio libro “La Repubblica mai nata” parlo anche del proclama di Togliatti per l’annessione alla Jugoslavia. Questa mia prospettiva Antifascista e Anticomunista è molto diffusa nella Venetia, e non è così forte in altri territori a noi molto vicini. Non ci posso fare niente se sono Veneto e dunque amo e coltivo la libertà sincera e la giustizia onesta. Noi veneti lo facciamo da millenni, io in parte ne sono il prodotto.

E’ morto Vanni Padoan, chiese scusa per Porzus- (03 gennaio 2008), scrive Loris Palmerini. Un pezzo di storia se ne è andato con la scomparsa di Giovanni Padoan, morto a 98 anni nella sua casa di Cormòns. Noto con il nome di battaglia di Vanni, commissario politico della divisione Garibaldi-Natisone, è stato protagonista nel 2001 della storica riappacificazione tra partigiani comunisti e osovani per la vicenda di Porzus, la malga friulana dove nel 1945 una ventina di partigiani verdi della Osoppo fu uccisa dai gappisti comunisti guidati da Mario Toffanin. L’ultimo saluto a quello che è stato uno dei protagonisti della lotta di Liberazione sarà dato domani, in una cerimonia civile che si svolgerà, alle 14.30, nel municipio del centro collinare. Nato a Cormòns il 25 giugno del 1909, Vanni Padoan emigrò insieme alla famiglia in Francia nel 1924, dove lavorò come carpentiere. Al rientro in Italia, nel 1935, fu condannato a 16 anni di carcere perché comunista. Dopo l’armistizio del 1943 che segnò la fine del conflitto con gli angolo-americani e l’invasione dell’Italia da parte dell’esercito tedesco, organizzò la resistenza sul Collio, in qualità di commissario politico della più grossa formazione partigiana italiana, la divisione Garibaldi-Natisone, che combattè anche in Jugoslavia nel 1945 nel IX Corpus, l’esercito guidato dal maresciallo Tito che aveva mire su Gorizia, Trieste e anche il Friuli. Nel dopoguerra fu processato e condannato per l’eccidio di Porzûs, ma non andò in carcere perché riparò prima in Cecoslovacchia e poi in Romania: qui lavorò come redattore di trasmissioni radiofoniche. Amnistiato, Padoan fu emarginato dal partito comunista, perché considerato «poco malleabile e diplomatico». Nel 2001, all’età di 92 anni, Padoan ha fatto ammissione di colpa, abbracciando in un gesto che è diventato storico l’ottantottenne don Redento Bello, detto “Candido”, padre spirituale degli osovani. Dopo mezzo secolo, i due si sono incontrati ad Attimis, davanti al mausoleo che ricorda la strage: Vanni Padoan, senza nascondere la commozione, si è scusato con gli eredi delle vittime «di un crimine di guerra che esclude ogni possibilità di giustificazione». Il cormonese ha proseguito la sua ammissione riconoscendo che avrebbe dovuto avvenire prima. «Benché il mandante di tale eccidio sia stato il Comando sloveno del IX Corpus, gli esecutori erano gappisti dipendenti anche militarmente dalla federazione del Pci di Udine, i cui dirigenti si resero complici del barbaro misfatto. Siccome i Gap erano formazioni garibaldine, quale dirigente comunista d’allora e ultimo membro vivente del comando raggruppamento divisioni Garibaldi-Friuli, assumo la responsabilità oggettiva a nome mio personale e di tutti coloro che concordano con questa posizione e chiedo formalmente scusa e perdono agli eredi delle vittime del barbaro eccidio. Questa dichiarazione l’avrebbe dovuta fare il comando raggruppamento divisioni Garibaldi-Friuli quando era in corso il processo di Lucca. Purtroppo, la situazione politica da guerra fredda non lo rese possibile». Va, peraltro, aggiunto che, nel corso degli ultimi anni, Giovanni Padoan prese parte a numerosi incontri, seminari e convegni imperniati sulla storia che sancì la fine del secondo conflitto mondiale e che, in queste terre, fu caratterizzata da momenti di particolare crudeltà. Contribuì al dibattitto sulla riappacificazione con tesi e argomenti frutto della propria esperienza. La riappacificazione fa tuttora discutere, dal momento che non è stata completamente accolta dai vertici dell’Apo, l’Associazione partigiani Osoppo. Vanni Padoan ha scritto diversi libri e articoli, in cui ha raccontato la sua esperienza. «È una scomparsa che lascia un grande vuoto. Non se ne è andato solo un protagonista della guerra di Liberazione, ma anche una persona saggia ed equilibrata», ha commentato la nipote di Vanni Padoan, Eva, che abitava con lui in via Filanda a Cormòns. E ha aggiunto: «Sto ripetendo a tutti che non mi ha lasciato un’eredità materiale, ma qualcosa che nessuno mi potrà mai togliere: una grande saggezza». Oltre alla nipote, lascia la moglie Sima, la figlia Nives, il nipote Raul e il pronipote Michele. 

REVISIONISMO E NEGAZIONISMO COMUNISTA.

Il revisionismo? C’è quello buono e quello cattivo...Ridimensionare i bombardamenti di Dresda è accettabile. Ma toccare Cefalonia è scandaloso. E perché non riconoscere l'oltraggio di Piazzale Loreto? Scrive Gianfranco de Turris, Martedì 4/05/2010, su "Il Giornale". Il 28 aprile Stefania Craxi ha dichiarato: «Trascorso il 65° anniversario della liberazione, non vi è stato nessuno ad aver avuto il coraggio politico e l’onestà intellettuale di compiere un gesto simbolico e importante volto a restituire agli italiani la verità della loro storia: recarsi a Piazzale Loreto per un atto di cancellazione dell’atroce oltraggio inflitto al cadavere di Mussolini». Parole che avrebbero dovuto provocare interventi di politici e intellettuali, e che invece sono state confinate in un trafiletto anonimo sui quotidiani, a parte le accuse di provocazione e revisionismo. Eppure Stefania Craxi ha avuto il coraggio di ripetere quanto il revisionista per eccellenza, Giampaolo Pansa, mi disse in un’intervista sei anni fa: non potendo esistere alla fine di una guerra civile una «storia condivisa», vi sia almeno una «storia accettata» da ambo le parti, sicché Ciampi vada a deporre una corona di fiori a Piazzale Loreto come atto di conciliazione nazionale, sul luogo della oscena «macelleria messicana», come la definì Ferruccio Parri. La proposta cadde nel silenzio. Affermare che non è vero che il 25 aprile è una ricorrenza nazionale fatta propria da tutti come vuole l’ufficialità, non è revisionismo revanscista ma semplice constatazione dei fatti. Una riconciliazione nazionale non può avvenire se non si riconoscono anche gli errori e gli orrori della fazione vincente oltre che di quella soccombente. Come si fa? Si prenda esempio da quanto è avvenuto nei giorni scorsi fra Russia e Polonia. Dopo 70 anni la Russia ha desecretato i documenti in cui Beria, il capo della NKVD, dava l’ordine di fucilare 25mila militari e civili polacchi. Dopo anni di negazioni ufficiali, la Russia ammette una verità che già da tempo era accertata. È così che si giunge a una riconciliazione fra due popoli. In Italia un passo in questa direzione non è stato mai effettuato e nessuna ammissione «ufficiale» è stata fatta da parte dei politici nei confronti degli eccidi, accertati anche da sentenze, compiuti dai partigiani dopo il 25 aprile. Chi li documenta è uno sporco revisionista che infanga «l’onore della resistenza». Nei suoi alti discorsi il presidente Napolitano dice molte cose oneste, eccetto questa. Egli si reca sui luoghi di tanti eventi collegati alla guerra civile, eccetto su quelli che hanno avuto come martiri militari della RSI. Questo non sarebbe revisionismo, termine che del resto non viene sempre respinto a priori si badi bene, ma accettato quando fa comodo. Infatti, siamo proprio sicuri che gli storici ortodossi siano aprioristicamente contrari a qualsiasi revisionismo in sé? Oppure che, al contrario, accettino il deprecabile revisionismo solo quando fa comodo? Vediamo. Un primo esempio riguarda l’orrore delle foibe. Il dato inoppugnabile è che nei crepacci carsici vennero gettati migliaia di italiani, proprio perché italiani. È questa la storia accertata, l’«ortodossia». Chi vi si oppone con tesi giustificazioniste sia sul numero dei morti che sulle intenzioni di quella che fu una vera «pulizia etnica» anti-italiana, è dunque un «revisionista». Ad esempio, libri come Operazione foibe di Claudia Cermigoi (Kappa) o Foibe. Una storia d’Italia dello sloveno Joze Pirjevec (Einaudi). Ma questo è un revisionismo ben accetto dagli storici di sinistra. Altro esempio. Una commissione di storici tedeschi dopo molti anni di indagini ha stabilito che i morti causati da tre giorni di incursioni dei bombardieri alleati su Dresda (13-15 febbraio 1945) non furono tra i 100 e i 250mila, come si era scritto sinora, ma «appena» 25mila. Cifra senza dubbio enorme, ma non come la precedente. La commissione ha frugato nelle anagrafi, nei registi cimiteriali, fra le testimonianze ecc., ma avrà calcolato il numero dei profughi tedeschi delle regioni orientali che si erano ammassati a Dresda e che nessun registro elencava? Non si sa, ma la nuova cifra è stata ben accetta dagli storici ortodossi, senza alcuna indignata accusa di revisionismo perché si basa su documenti e lava in parte l’onta dei bombardamenti terroristici ordinati dal maresciallo inglese Harris, “il Macellaio” Harris, per colpire deliberatamente la popolazione e fiaccarne il morale. Però, insulti e ostracismi si sono avuti nei confronti di Massimo Filippini che nei suoi vari libri sui fatti di Cefalonia, ha potuto dimostrare sulla base di documenti inediti, che i tedeschi non fucilarono migliaia di soldati italiani (almeno 9000 come si è sempre scritto), ma «solo» 250 ufficiali (tra cui suo padre) e che meno di 2mila furono invece i caduti italiani nella battaglia sull’isola contro la Wehrmacht dopo l’8 settembre. Questo invece sì, che è revisionismo «cattivo», perché fa cadere un mito. Ovvia conclusione: non è il «revisionismo» in sé che fa straparlare certi politici e certi storici, ma solo quello che sconvolge la vulgata imposta dalla cultura della sinistra ortodossa (ma ormai anche da certa destra neo-antifascista). Invece, un altro tipo di «revisionismo» viene accettato senza problemi perché la rafforza, oppure edulcora eventi sino a quel momento indifendibili.

Pansa nel mirino dei "baroni rossi". La battaglia di retroguardia degli accademici contro una nuova lettura della storia d'Italia, scrive Giampaolo Pansa, Giovedì 11/02/2016, su "Il Giornale". Più interessanti, anche se scontati, furono gli anatemi che mi arrivarono da un manipolo di intellettuali, quasi sempre docenti di storia in diverse università italiane. Il più accanito si rivelò Angelo d'Orsi, ordinario di Storia del pensiero politico a Torino. All'inizio del 2004 pubblicò sulla rivista «MicroMega» una lunga requisitoria contro il revisionismo. Scritta in uno stile da burocrate sovietico e in un pessimo italiano, evocava a mio disdoro, «la protettiva ombra del berlusconismo e dei suoi immediati pressi». Il suo stralunato atto d'accusa merita di essere ricordato per una singolare schedatura che lo accompagnava: la lista nominativa di signori che non dovevano permettersi di pubblicare ricerche storiche. Queste lingue da tagliare erano diciotto, compresa la mia. Tra loro c'erano intellettuali stimati come Sergio Romano, Francesco Perfetti, Ernesto Galli della Loggia, Giovanni Belardelli, Giovanni Sabbatucci. E giornalisti come Paolo Mieli, Pierluigi Battista, Giuliano Ferrara, Silvio Bertoldi, Gianni Oliva, Antonio Spinosa, Arrigo Petacco, Antonio Socci, Renzo Foa. «E l'elenco potrebbe continuare» minacciava d'Orsi, «arrivando sino alla più sgangherata frontiera della battaglia per la libertà di stampa». Eppure la faccenda non si concluse lì. Il direttore di «MicroMega», Paolo Flores d'Arcais, andò in orgasmo per la lista d'Orsi e decise di sfruttarla per guadagnare qualche lettore alla sua rivista quasi clandestina. La domenica 8 febbraio 2004 decise di trasferire una parte dell'elenco in un'inserzione pubblicitaria sul paginone culturale della «Repubblica». Una gogna stampata su 646 mila copie. Con un titolo di quelli furenti: Basta con i falsi storici. La manipolazione permanente della verità da parte dei vari... Seguivano i nomi di dieci loschi figuri, compreso il sottoscritto. Un altro gendarme della memoria molto solerte nel pestaggio verbale del Pansa si dimostrò di nuovo un docente di Storia dell'Università di Torino, Giovanni De Luna. Lui aveva a disposizione un quotidiano importante, «La Stampa». Nel 2003 era diretta da Marcello Sorgi, un collega che non digeriva i libri del sottoscritto, ma senza avere il coraggio di dirmelo affrontandomi in modo diretto. Sul «TuttoLibri» del 25 ottobre 2003, De Luna mi dedicò una lunga stroncatura intitolata Pansa, il sangue dei vinti visto con gli occhiali della Repubblica sociale italiana. Il titolo mi inorgoglì. L'accusa era quella che, tanti anni prima, nel 1952, era stata scagliata dall'«Unità» contro un libro del grande Beppe Fenoglio. Colpevole di vedere la guerra partigiana «dall'altra sponda», ossia dal versante dei fascisti. Al professor De Luna dovevo stare sui santissimi. Infatti quando venne intervistato dalla solita Simonetta Fiori di «Repubblica», disse che ero «straordinario nell'intercettare lo spirito del tempo». In parole povere un furbastro che fiutava il vento nuovo berlusconiano a cui accodarsi. Ma devo dedicarmi a un altro docente che mi prese di mira. Un big, così sembra, della ricerca storica: Sergio Luzzatto. Anche Luzzatto, genovese, quarant'anni giusti all'uscita del Sangue dei vinti, insegnava Storia all'Università di Torino. Ma rispetto agli altri gendarmi era un tipo avventuroso che aspirava alla notorietà. Scriveva i pezzi di polemica come un qualunque giornalista pittoresco. Nel dicembre 2002 aveva accettato di presentare a Genova I figli dell'Aquila e quel pomeriggio non mi sembrò che il Pansa gli facesse ribrezzo. Invece Il sangue dei vinti gli suscitò un disgusto profondo. Lo manifestò tutto nell'ottobre 2004. Una sera Giuliano Ferrara e Ritanna Armeni lo invitarono a Otto e mezzo, il loro talk show sulla Sette, a illustrare un suo pamphlet appena uscito, dedicato alla crisi dell'antifascismo. Accanto a lui c'ero io che avevo pubblicato in quei giorni Prigionieri del silenzio. La vicinanza, penso poco gradita a Luzzatto, mi trasformò nel suo bersaglio. Un ruolo che in fondo mi piaceva, poiché ero sempre attratto dalla rissa culturale, chiamiamola così. Tuttavia io ero soltanto un misero rappresentante di una categoria da aborrire: l'intellighenzia occidentale che, a sentir lui, aveva rinunciato a riflettere sul ruolo storico della violenza come levatrice di progresso. Quella sera Luzzatto mi sembrò un esemplare perfetto del signor Ghigliottina, nostalgico dei tagliatori di teste della Rivoluzione francese. E in quei panni mostrò di essere implacabile. Sostenne che la moralità della Resistenza consisteva anche nella determinazione degli antifascisti di rifondare l'Italia a costo di spargere molto sangue. Il signor Ghigliottina si rivelò pirotecnico. Sostenne che era sbagliato impregnarsi di buonismo. Spiegò: «Per questo non accetto il pansismo. Ossia la rugiadosa sensibilità di chi si scandalizza e quindi equipara una certa violenza partigiana, che pure Giampaolo Pansa ha avuto il merito di documentare, con quella fascista». Lo ascoltai sorridendo. A me Luzzatto sembrò un uomo delle caverne che esca dal suo antro con la clava e si scateni contro mezzo mondo. Intervistato da Dario Fertilio del «Corriere della Sera», aggiunsi: «Se è vero che l'antifascismo è in crisi, senza volerlo Luzzatto gli spara un colpo alla nuca».

Giampaolo Pansa, il revisionista impenitente, scrive Gabriele Testi su “Storia in Rete”. Il revisionista che non si pente. Anzi. L’autore che più di ogni altro ha attaccato in Italia miti storiografici del Novecento e l’Accademia, sta per tornare con un libro destinato a rinverdire le polemiche scatenate da «Il Sangue dei Vinti». Le tesi di Pansa? «Il PCI di Togliatti voleva l’Italia satellite dell’Urss»; «la politica di oggi non è interessata a fare i conti con la Storia»; «I miei critici? Scappano…»; «Le celebrazioni? Non mi piacciono mai»; «Il miglior leader italiano? De Gasperi»; «Gli italiani? Non hanno futuro se continuano così…». Forse perché non vogliono avere un passato? C’è sempre una prima volta, anche per Giampaolo Pansa. Quella del giornalista piemontese al Festival Internazionale della Storia di Gorizia, dunque allo stesso tempo su un terreno e in un territorio particolarmente delicato per ogni forma di rivisitazione e di analisi storiografica, non è passata inosservata. Anzi. La dialettica con un pubblico tanto attento quanto sensibile alle vicende degli italiani vissuti (e morti) oltre il Muro, in particolare comunisti di fede stalinista fuggiti in Jugoslavia e diventati «nemici del popolo», e lo scontro verbale con il moderatore Marco Cimmino non saranno dimenticati facilmente dalle parti di Gorizia. L’occasione si è comunque rivelata perfetta per una chiacchierata con un autore che, in polemica con gli accademici italiani e i «gendarmi della memoria» non arretra di un metro sul piano del confronto scientifico su quei temi, il tutto alla vigilia del compleanno che il primo ottobre gli farà oltrepassare la soglia dei tre quarti di secolo e della pubblicazione di un ultimo lavoro che lo riporterà in autunno nei panni a lui del revisionista. È lui stesso a raccontarlo a «Storia in Rete» in un’intervista esclusiva in cui si mescolano Resistenza e Risorgimento, eredità del PCI, meriti e demeriti democristiani, una visione organica della nostra società e le differenze esistenti fra i giovani di oggi e quelli le cui scelte avvennero con la Guerra.

Considerato il soggetto dei suoi ultimi due libri, considera ormai chiusa la parentesi dedicata alla Guerra Civile italiana?

«No, tant’è vero che in novembre uscirà con la Rizzoli un mio nuovo libro sulla Guerra Civile. Il titolo è: “I vinti non dimenticano”. Non è soltanto il seguito del “Sangue dei vinti” e dei miei libri revisionisti successivi. Insieme a vicende che coprono territori assenti nelle mie ricerche precedenti, come la Toscana e la Venezia Giulia, c’è una riflessione più generale, e contro corrente, sul carattere della Resistenza italiana. Dominata dalla presenza di un unico partito organizzato, il PCI di Palmiro Togliatti, Luigi Longo e Pietro Secchia. Che aveva un traguardo preciso: conquistare il potere e fare dell’Italia un Paese satellite dell’URSS».

È rimasto fuori qualcosa – un’osservazione, una storia, un nome – che le piacerebbe aggiungere o correggere?

«Non ho niente da correggere per i miei lavori precedenti. E voglio dirvi che, a fronte di sette libri ricchi di date, di nomi, di vicende spesso ricostruite per la prima volta, non ho mai ricevuto una lettera di rettifica, dico una! E non sono mai stato citato in tribunale, con qualche causa penale o civile. Persino i miei detrattori più accaniti, tutti di sinistra, non sono mai riusciti a prendermi in castagna. Mi hanno lapidato con le parole per aver osato scrivere quello che loro non scrivevano. Però non sono stati in grado di fare altro».

E a proposito di «aggiungere»?

«Come voi sapete meglio di me, nella ricerca storica esistono sempre campi da esplorare e vicende da rievocare. In Italia questa regola vale ancora di più a proposito della Guerra Civile fra il 1943 e il 1948. Parlo del ’48 perché considero l’anno della vittoria democristiana nelle elezioni del 18 aprile la conclusione vera della nostra guerra interna. I campi da esplorare sono molti, anche perché della guerra tra fascisti della RSI e antifascisti non vuole più occuparsene nessuno. I cosiddetti “intellettuali di sinistra” hanno smesso di scriverne perché si sono resi conto che il loro modo di raccontare quella guerra non regge più, alla prova dei fatti e dei documenti. Nello stesso tempo, le tante sinistre italiane non hanno il coraggio di ammettere quella che ho chiamato nel titolo di un mio libro “La grande bugia”. Se lo facessero, perderebbe molti elettori, ossia quella parte di opinione pubblica educata a una vulgata propagandistica della Resistenza. Sul versante di destra constato la stessa reticenza. Un tempo esisteva il MSI, in grado di dar voce agli sconfitti. Oggi i reduci di quell’esperienza, parlo soprattutto del gruppo nato attorno a Gianfranco Fini, si guardano bene dal rievocare il tempo della Repubblica Sociale Italiana. Infine, il Popolo della Libertà ha ben altre gatte da pelare. E a Silvio Berlusconi della Guerra Civile non importa nulla. Di fatto, sono rimasto quasi solo sulla piazza. Questo mi rallegra come autore, però mi deprime come cittadino. Sono ancora uno di quelli che non dimenticano una verità vecchia quanto il mondo: il passato ha sempre qualcosa da insegnare al presente e anche al futuro».

Che cosa risponde a chi nega valore ai suoi libri perché «poco scientifici»? È davvero soltanto una questione di note a margine?

«Mi metto a ridere! Rido e me ne infischio, perché la considero un’accusa grottesca. Questa è l’ultima trincea dei pochi “giapponesi” che si ostinano a difendere una storiografia che fa acqua da tutte le parti. A proposito delle note a piè di pagina, ricordo che tutte le mie fonti sono sempre indicate all’interno del testo, per rispetto verso il lettore e per non disturbarlo nella lettura del racconto. Per quanto riguarda i cattedratici di storia contemporanea, il mio giudizio su di loro è quasi sempre negativo. Ci sono troppi docenti inzuppati, come biscotti secchi e cattivi da mangiare, nell’ideologia comunista. Il Comunismo è morto in gran parte del mondo, ma non all’interno delle nostre università. L’accademia che ho conosciuto nella seconda metà degli anni Cinquanta era molto diversa…».

Com’è un libro di storia «scientifico»? Perché non si toglie lo sfizio e glielo fa? Oppure bisogna necessariamente scriverlo da una cattedra universitaria?

«Se per libro scientifico si intende una ricerca storica fondata su fonti controllate e che racconta fatti veri o comunque il più possibile vicini alla verità, questo è ciò che ho sempre fatto. Anche il libro che uscirà a novembre, se vogliamo usare una parola pomposa che non mi appartiene, è a suo modo un’opera scientifica. Lo è perché l’ho pensato a lungo, ci ho lavorato molto e sono pronto ad affrontare ogni contraddittorio. Ormai la storiografia accademica “rossa” non vuole fare contraddittori con i cani sciolti come me perché ha paura di essere messa sotto. Si nascondono, fanno come le lumache. Mia nonna diceva: “lumaca, lumachina, torna nella tua casina”. Non si fa così: si tengano le loro cattedre sempre più inutili, cerchino di insegnare qualcosa a studenti altrettanto svogliati. Dopodiché quello che posso fare per loro è pagare le mie tasse fino all’ultima lira, come ho sempre fatto. In fondo, io sono tra i finanziatori della ricerca storica universitaria».

A proposito di revisionismo: come giudica quello sul Risorgimento (quello neo-borbonico, ma anche la nostalgia cripto-leghista che ha in mente il Regno Lombardo-Veneto austriaco)?

«Quando ero studente diedi anche un esame di storia del Risorgimento. Non mi ricordo più con chi. Mi appassionava, però confesso di non avere un interesse per quel periodo storico. Mi rendo conto, com’è accaduto per tutte le fasi cruciali, che bisognerebbe andare a vedere anche lì se la storia ci viene raccontata nel modo giusto. Io non santifico nessuno, non mi piace. Non l’ho mai fatto nel mio lavoro di giornalista politico, per cui mi è difficile trovare qualcuno che mi entusiasmi anche tra i leader partitici. E credo che anche sul Risorgimento ci sia molto da rivedere o revisionare. Ma se un partito come la Lega Nord si mette di mezzo e pretende di riscrivere la storia, io me ne ritraggo inorridito…».

Ci fu anche allora, indubbiamente, una guerra civile che prese il nome di «brigantaggio». Ha mai pensato di occuparsene?

«Sul brigantaggio ho letto parecchio, recentemente anche un romanzo bellissimo che racconta di un episodio in Calabria o Campania, adesso non ricordo, della lotta contro i piemontesi. Ritengo che questo fenomeno fosse una forma di resistenza delle classi dirigenti del Mezzogiorno nei confronti dei Savoia per quella che era un’occupazione militare. Lo Stato unitario è certamente nato sul sangue di entrambe le parti, perché non è che i piemontesi siano andati con la mano leggera al sud, e lo dico parlando da piemontese. Del resto, le guerre sono sempre state fatte in queste modo: le vincono non soltanto coloro che hanno la strategia più intelligente, ma anche chi non usa il guanto di velluto. Basti vedere come sono stati i bombardamenti alleati in Italia durante la Seconda guerra mondiale, un altro argomento che gli storici dell’antifascismo e della Resistenza non hanno granché affrontato e che io credo di avere chiarito bene nel prossimo libro, per di più alla mia maniera. Ormai ho imparato che i conflitti bellici sono mattatoi pazzeschi. Ricordo che da bambino vidi passare sulla mia testa, a Casale Monferrato, le “fortezze volanti” americane che andavano a bombardare la Germania. In un primo tempo a scaricare esplosivo sui tedeschi erano gli aerei inglesi del cosiddetto Bomber Command, guidati da questo Harris [sir Arthur Travers Harris, maresciallo dell’aria della RAF, 1892-1984, soprannominato “Bomber Harris” NdR] che anche dai suoi era stato battezzato “Il macellaio” [per la leggerezza con cui mandava a morire i suoi equipaggi NdR]. Anch’io avrei potuto essere un bambino bombardato in Italia, ma grazie a Dio non abitavo vicino ai due ponti sul Po che attraversavano la mia città. Queste sono le guerre. È chiaro che se poi, una volta che sono finite, ci si mettono di mezzo i faziosi che pretendono di raccontarle alla loro maniera, secondo gli interessi di una parte politica, allora non ci si capisce più nulla…».

Come si esce dalle divisioni del passato? Ancora oggi l’ANPI, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, tessera dei giovani: queste cose hanno senso per lei?

«No, e io sono stato uno dei primi a raccontarlo in qualche mio articolo e anche in un libro. Una sera mi trovavo a Modena, dove mi ero recato a presentare uno dei miei lavori revisionisti, e mi accorsi che sui quotidiani locali c’erano delle pagine pubblicitarie a colori, dunque costose, e delle locandine in cui si invitavano i ragazzi a iscriversi all’ANPI. Tutto questo non ha senso o, meglio, lo ha se si pensa che l’Associazione è oggi un partito politico, minuscolo e molto estremista. Secondo me tutto ciò non ha senso, però se vogliamo capire il fenomeno bisogna dire che l’ANPI è uno strumento nelle mani della Sinistra radicale o, diciamolo meglio, affinché non si offendano, una sua componente: è chiaro che se dovesse fare affidamento soltanto sugli ex partigiani, anche su quelli delle classi più giovani del ’25, ’26 e ’27, oggi i soci sarebbero tutti ultraottantenni. Hanno bisogno di forze fresche e hanno trasformato un’organizzazione di reduci, assolutamente legittima, in un club quasi di partito. Siamo in una situazione di sfacelo delle due grandi famiglie politiche, prima è toccato al centrosinistra e ora sta accadendo per una specie di nemesi al centrodestra, e possiamo immaginarci quanto poco conti l’ANPI in questo scenario. Quando l’Italia diventerà ingovernabile e nessuno sarà in grado di gestirla, ci renderemo conto di come certi leader politici non possano fare nulla».

Come spessore dei personaggi, chi vince tra la Prima e la Seconda Repubblica? E, fra i grandi statisti del passato, chi ci servirebbe oggi?

«È una bella domanda, che però richiede una risposta complicata. Come ho scritto nella prefazione de “I cari estinti”, tanto per citare un mio libro che sta avendo un grande successo, sono un nostalgico della Prima Repubblica. Non ricordo chi lo abbia detto, se Woody Allen o Enzo Biagi, personaggi agli antipodi fra di loro, ma “il passato ha sempre il culo più rosa”. Io sono fatalmente portato a ritenere che i capi partito della Prima Repubblica avessero uno spessore più profondo, diverso, migliore di quelli di oggi, anche se in quel periodo furono commessi degli errori pazzeschi. Prima che quella classe politica si inabissasse per sempre e la baracca finisse nel rogo di Tangentopoli – non tutta naturalmente, perché il PCI fu graziato dalla magistratura inquirente – negli ultimi quattro-cinque anni si accumulò un debito pubblico folle, che è la palla al piede che ci impedisce di correre e, soprattutto, diventa una lama d’acciaio affilata che incombe sulle nostre teste. Non ho mai votato la DC, anche perché sono sempre stato un ragazzo di sinistra, ma ho una certa nostalgia della “Balena Bianca”. Il grande merito della Democrazia Cristiana fu di vincere le elezioni del 18 aprile, perché se nel 1948 avesse prevalso il Fronte Popolare, non so che sorte avrebbe potuto avere questo Paese. Secondo me ci sarebbe stata un’altra guerra civile, se non altro per il possesso del nord Italia, anche se poi la storia non si fa con i “se”. Per fortuna, lì si impose Alcide De Gasperi in prima persona. Ero molto giovane, ma quello è un leader al quale ho visto fare grandi cose nei rapporti con gli elettori. Ma pure i leader dell’opposizione a vederli da vicino erano cosa altra da adesso. Anche di Enrico Berlinguer, che era una specie di “santo in terra”, mi resi subito conto di che pasta fosse da un punto di vista politico, più che umano. Quando lo intervistai per il “Corriere della Sera”, alla vigilia delle elezioni politiche del 1976, mi disse che si sentiva molto più al sicuro sotto l’ombrello della NATO che non “protetto” dal Patto di Varsavia. Queste risposte eterodosse sull’Alleanza Atlantica e il PCI non le pubblicò “l’Unità”, censurando di fatto il segretario del Partito, perché avevano suscitato i malumori dell’ambasciata dell’URSS a Roma. Però gli stessi concetti mi furono ribaditi dal leader comunista, senza battere ciglio, anche in televisione durante una tribuna elettorale. Evidentemente, tutto ciò non doveva finire su ”L’Unità”, che era letta come il Vangelo dai militanti comunisti, mentre in tivù si poteva dire qualsiasi cosa».

Secondo lei chi è stato il più grande? E perché?

«Io direi che oggi ci servirebbe un uomo molto pratico ed energico come Amintore Fanfani, che ha curato i nostri interessi sotto molti aspetti, oppure un temporizzatore tranquillizzante come Mariano Rumor. Con tutto il rispetto per la sua figura e la fine che ha fatto, non so invece se ci occorrerebbe un Aldo Moro. A sinistra ci vorrebbe un tipo come Craxi, diciamoci la verità: Bettino aveva un grande orgoglio di partito, ma non pendenze storiche che sarebbero state sconvenienti da mostrare come accadeva a molti leader del PCI. In conclusione, ci servirebbe un leader democratico e liberale in grado di imporsi con autorità e autorevolezza per mettere fine a questa guerra civile di parole di cui in Italia non ci rendiamo troppo conto e che diventa sempre più violenta. Il più grande di tutti resta comunque De Gasperi, un uomo affascinante, brillante e capace: se non sbaglio fece sette governi, si ritirò a metà dell’ottavo per il venir meno della fiducia e fu per undici mesi segretario della DC prima di morire nel 1954. È stato il politico che ha concesso a me e a voi, in un giorno d’estate del 2010, di procedere in quest’intervista senza paura di dire come la pensiamo».

Come giudica, anche da piemontese, il modo con cui l’Italia si appresta a «festeggiare» i primi centocinquant’anni di vita nel 2011 e le dimenticanze su Cavour in questo 2010?

«Vi dirò una cosa: io sono contrario alle celebrazioni, anche le più oneste. Non servono a nulla, se non a far girare un po’ di consulenze, a far lavorare qualche storico, vero o presunto che sia, gli architetti, qualche grafico e chi si occupa di opere pubbliche per tirar su mostre, ripristinare un museo e via dicendo. Non me ne importa nulla e non sono affatto d’accordo. Chi vuole approfondire la storia del Risorgimento, trova già tutto: basta che vada in una buona libreria e si faccia consigliare da qualche bravo insegnante, magari di liceo, che spesso è anche più competente di tanti docenti universitari…».

Che popolo sono gli italiani? È giusto dire che dimenticano tante cose belle e si accapigliano a distanza di secoli sempre sulle stesse cose?

«Io ho un’idea abbastanza precisa di come siamo: un popolo in declino, che non è all’altezza delle nazioni con le quali dovremmo confrontarci. L’Italia è un Paese di “serie B”, che presto scenderà in “serie C”, con una squadra di calcio che non combina più nulla da un sacco di anni. La gente è sfiduciata e non vuole più saperne della politica, anche per come è la politica oggi. I giovani sono in preda ai “fancazzismi” più esasperati e affollano le università per lauree assurde, vere e proprie anticamere della disoccupazione. A un sacco di ragazzi se chiedi che cosa vogliono fare da grandi, non sanno risponderti, perché non vogliono nulla. Questo è un Paese per vecchi che diventano sempre più vecchi e io mi metto in cima alla lista, perché a ottobre di anni ne avrò settantacinque. Quand’ero giovane l’Italia era un contesto più generoso e che osava, baciato da miracoli economici successivi, in cui il figlio di un operaio del telegrafo e di una piccola modista, allevato da una nonna analfabeta come Giampaolo Pansa, poteva andare all’università, laurearsi e fare il giornalista, che era la cosa che avrebbe sempre voluto fare. Adesso l’Italia è un deserto di speranze, ma anche i giovani non si accontentano mai. Oggi se ho bisogno di un idraulico, di un falegname o di un elettricista, o trovo dei signori ultracinquantenni, o mi affido a giovani molto bravi che quasi sempre sono extracomunitari. Vallo a spiegare ai ragazzi italiani che gli studi universitari non garantiscono più nulla…».

Foibe, Pansa: «L’Anpi è un club di trinariciuti comunisti che dicono solo falsità», scrive martedì 5 febbraio 2019 Desiree Ragazzi su Secolo fd’Italia. «Quelli dell’Anpi non contano un cazzo. Straparlano. Sono un club di trinariciuti comunisti». Giampaolo Pansa proprio non ci sta a sentire le fandonie e le falsità che in questi giorni circolano sulle foibe. Prima il post revisionista dell’Anpi di Rovigo, poi la sponsorizzazione e partecipazione dei partigiani a una conferenza negazionista a Parma. La Giornata del Ricordo si avvicina e lo scontro con l’Anpi si fa sempre più forte. «Vogliono negare che Tito era un dittatore comunista – dice Pansa – Ma non possono farlo perché è storia. Vogliono negare che le squadre comuniste gettavano la gente che non amava Tito dentro le foibe. Ma non possono farlo perché è storia. Quelli dell’Anpi dicono e fanno delle cose che sono di un’assurdità totale». Dell’Anpi ne parla anche nel suo ultimo libro Quel fascista di Pansa (Ed. Rizzoli) dove racconta le accuse e gli insulti che accompagnarono la pubblicazione nel 2003 del Sangue dei vinti. «Quel libro era dedicato alle vendette compiute dai partigiani trionfanti sui fascisti repubblicani sconfitti – scrive il giornalista nella sinossi del libro – Segnò l’inizio di una serie di vicende che in qualche modo riflettono l’Italia entrata nei nevrotici anni Duemila. Prima di tutto non sono stato ritenuto un rosso come credevo di essere, bensì un nero: Pansa il fascista ha gettato la maschera. Questo accese la rabbia di una serie di eccellenze presunte democratiche, più ridicole che tragiche. Venni aggredito e messo all’indice da parrocchie politiche che prima stravedevano per me e volevano eleggermi in Parlamento». Nel nuovo libro c’è un capitolo intitolato I nemici dell’Anpi…È un libraccio che racconta la verità su questa Italia del cazzo. Ai comunisti dico: attaccatemi. E più mi attaccherete, più copie venderò. Nel libro scrivo che dopo molti anni si vede con chiarezza l’assurdità paradossale della sinistra italiana nella Prima Repubblica. C’erano il Partito comunista, il Partito socialista e il Partito socialdemocratico. Poi esisteva un quarto partito: l’Anpi. Che cosa sapevano gli italiani dell’Anpi? Quasi niente, anche i suoi dirigenti erano pressoché ignoti. E soprattutto nessuno di loro poteva essere sottoposto a una valutazione dell’opinione pubblica…Lei scrive che la crisi della sinistra italiana non è un guaio del 2019 perché risale nell’immediato dopoguerra. I comunisti e tutta la sinistra non hanno più voce in capitolo. Sono in rotta di collisione con la verità e la storia. Ecco perché parlare oggi di Anpi è anacronistico. In un certo modo è come parlare dei superstiti di Garibaldi che cento anni dopo parlano dello sbarco dei garibaldini…La sinistra quando deve ricordare i crimini commessi dai comunisti ha sempre l’orticaria…Si vergogna di essere nata da una costola del comunismo internazionale. E, quindi, si ostina a negare, negare, negare. E a dire che non è assolutamente vero che furono commessi crimini atroci. Oggi negano le foibe, ma qualcuno dentro c’è morto ed era gente che non piegava la testa ai soldati di Tito.

"Quel fascista di Pansa" racconta la sua storia. L'autore stesso svela come il suo «Il sangue dei vinti» mandò in tilt la sinistra, che lo censurò e rinnegò, scrive Roberto Chiarini, Martedì 05/02/2019, su Il Giornale. Era inevitabile che Giampaolo Pansa, l'autore del «libro infame», Il sangue dei vinti, ritornasse sul luogo del delitto: il delitto storiografico, politico, morale (mai condonato) di aver attentato al mito fondante della Repubblica nata dalla Resistenza togliendo il velo alla sequela di violenze, assassini, esecuzioni sommarie di ex fascisti - talora solo presunti - che hanno insanguinato il nostro dopoguerra. Era il 2003 quando una delle più popolari e stimate firme del giornalismo di sinistra osò dare alle stampe il libro incriminato: una lunga, sconvolgente sequela di delitti costati la vita a molti italiani colpevoli - non sempre in modo comprovato - di essersi macchiati di gravi misfatti, talora semplicemente di essersi schierati dalla parte sbagliata nel Ventennio o nei fatidici seicento giorni della Rsi. Fu subito un'esplosione di polemiche, di attacchi, di scontri che implacabilmente accompagnarono il lungo tour di presentazione del libro in giro per l'Italia, per non dire delle intimidazioni subite dall'autore quando osò metter piede in partibus infidelium, dove vigeva il bando del politicamente e storiograficamente scorretto. Era inevitabile che Pansa tornasse su quella tormentata stagione di polemiche. Per più di un motivo. Perché il libro, subito incriminato di lesa maestà alla Resistenza, gli aveva fatto toccare l'acme della popolarità, con ristampe sfornate a tambur battente fino a raggiungere il milione di copie vendute. Perché fu un caso storiografico unico nella storia repubblicana. Perché infine, a distanza di anni, sarà pur venuto il momento di storicizzare quella polemica, di fare cioè un bilancio delle ragioni pro e contro che portarono allora l'Italia a schierarsi in due fazioni l'una contro l'altra armarla. Il primo, non solo titolato a esprimere un parere al riguardo, ma che ha sentito l'urgente bisogno di riparlarne, è stato appunto il protagonista o, meglio (per i suoi avversari) l'imputato numero uno. Lo ha fatto al suo solito modo: diretto, polemico, provocatorio. Già dal titolo: Quel fascista di Pansa (Rizzoli, pagg. 240, euro 20; in libreria da oggi). Avvalendosi di aneddoti, curiosità e testimonianze di molte vittime della lunga guerra civile post 25 aprile e di loro familiari, che dopo l'uscita del libro inondarono letteralmente di lettere accorate l'autore, nonché delle requisitorie sviluppate dai suoi, non meno numerosi, critici, Pansa conduce per mano il lettore a rivisitare quell'infuocata kermesse politico-storiografica che si innestò all'apparizione del libro, in qualche caso addirittura al solo annuncio. Kermesse fu e non poteva non essere. Il sangue dei vinti era il libro giusto uscito al momento giusto, per i suoi denigratori il libro sbagliato nel momento sbagliato. Sono gli anni infatti del gran ritorno in auge della destra. Impera Berlusconi, il Cavaliere nero, macchiatosi dell'onta di aver non solo sdoganato, ma addirittura portato al governo il partito sospettato di perpetuare sotto mentite spoglie cultura, valori, tradizione del mai debellato neofascismo. Ci voleva solo che, dopo lo sdoganamento politico della destra, uscisse un libro che completasse l'opera attuandone anche lo sdoganamento storico. A questo punto, sarebbe caduto anche l'ultimo argine al suo dilagamento. Ai custodi della memoria mitizzata della Resistenza era proprio questo il ruolo svolto dall'operazione editoriale di Pansa. Al di là delle specifiche vicende luttuose rievocate nel libro, l'addebito principe lanciato contro il libro dai denigratori fu che non era lecito né storiograficamente né moralmente, tanto meno politicamente, illuminare «il lato oscuro della guerra civile». Esattamente l'opposto di quel che invece da mezzo secolo si aspettavano le vittime della guerra civile: un popolo di «esuli in patria», dimenticati, cittadini dimezzati perché gravati da una colpa inespiabile, familiari di fascisti che per non vedersi rinnovare il bando dalla cittadella democratica avevano preferito rifugiarsi in «una torre di silenzio», stretti nella morsa «della paura, della vergogna». Non conta se quanto rievocato nel libro di Pansa fosse veritiero, documentato, non smentibile. Il sangue dei vinti era «un libro infame» che «danneggiava i valori della Resistenza». Di più: portando alle estreme conseguenze il revisionismo, quella denuncia di violenze perpetrate a danno dei vinti avrebbe attuato una sorta di rovescismo. Dipingendo i partigiani come criminali e i fascisti come vittime o eroi, si era finito col ribaltare le conquiste storiografiche e coll'abbattere il patrimonio di valori su cui si è fondata la democrazia repubblicana. Pansa richiama, uno a uno, i capi di imputazione avanzati a suo carico, per demolirli e rivendicare la validità dell'operazione editoriale da lui condotta. Non accetta l'accusa di essere «un falsario» e nemmeno uno storico poco scrupoloso nel documentare le sue affermazioni. La pretestuosità di tali accuse è comprovata - non manca di rimarcare dal fatto che i suoi accusatori finirono col contraddirsi avanzando l'imputazione opposta, e cioè che egli si limitava a narrare «vicende già note». Resta il rilievo dell'inopportunità dell'iniziativa. Se inopportuna è stata l'iniziativa, non di meno si deve convenire che inopportuno era il rilievo. Come scrive Pansa: «In una società democratica, nata dalla vittoria contro una dittatura, imbavagliare chi ha perso contraddice un principio che tutti dovremmo avere caro». Da ultimo, ci sia consentito l'impertinenza. Siamo così sicuri che sia stato un buon servizio alla democrazia costringere al silenziamento indistintamente tutto il sommerso dei vinti, impedendo di «riacquistare il diritto di esistere» anche a chi, come si lamenta l'orfana di una vittima dei partigiani, pur nutrendo «idee di sinistra», s'era vista costretta a «stare zitta» per mezzo secolo, senza nemmeno poter dar voce pubblica al suo lacerante dolore?

Giampaolo Pansa, con il suo nuovo Bella ciao, racconta gli assassini resistenziali del Pci. Pacificazione? Basta la verità. Molte controverità in tanti libri. Nessuna smentita, mai, scrive Goffredo Pistelli su “Italia Oggi”. Giampaolo Pansa va avanti. Questo grande giornalista monferrino, classe 1935, prosegue il suo lavoro di ricostruzione degli anni di storia italiana che vanno dal 1943 al 1948, il periodo che comincia con l'8 settembre e la costituzione delle prime forme resistenziali e che arriva al confuso e violentissimo dopoguerra. Dopo i libri, come Il sangue dei vinti (Sperling&Kupfer), che hanno riportato a galla le ragioni degli sconfitti, dei reietti che scelsero, o si trovarono a scegliere, la Repubblica di Salò, Pansa ha alzato il tiro sulla grande congiura del silenzio, sulla storiografia accomodata sull'immagine dei vincitori, su una narrazione che è stata funzionale anche alle ragioni, spesso poco commendevoli, di un partito, quello comunista. Il suo nuovo lavoro, Bella ciao, in uscita per Rizzoli, di questo si occupa soprattutto ed è destinato, come gli altri, a scatenare le polemiche.

Domanda. «Pansa, un altro libro, ricco e documentato, ma stavolta non è solo il racconto di storie terribili e di vendette silenziate...»

Risposta. «Infatti, stavolta ho cercato di spiegare quanto il Partito comunista italiano, il più forte e l'unico organizzato in quegli anni, vedesse la liberazione dai nazifascisti come l'inizio della rivoluzione. Pietro Secchia, grande dirigente di allora, lo affermò, d'altra parte: volevano fare dell'Italia una democrazia popolare sul modello dell'Urss di Stalin.»

D. «Figuriamoci, già fino a poco tempo fa era disdicevole parlare di «guerra civile» e non «di liberazione», ora lei va scrivere che si voleva fare la rivoluzione...»

R. «Pazienza ciò spiega, come scrivo, perché i comunisti erano implacabili contro chi non stava ai loro ordini. «O stai con noi» e il motto di quel partito con una potenza gigantesca.»

D. «Una spietatezza che arrivò sino all'omicidio politico, nel famoso episodio di Porzus in Friuli, nel febbraio del 1945, quando 18 partigiani della Brigata Osoppo furono uccisi un gruppo di partigiani legati al Pci. Lei aggiunge dettagli nuovi.»

R. «Sì, ho fatto una ricostruzione della biografia di Giacca, il gappista che comandò quella strage, il padovano Mario Toffanin, che morì in Slovenia nel 1999, dopo aver ricevuto la grazia da Sandro Pertini, nel 1978, e da allora percependo fino alla fine la pensione dello Stato italiano.»

D. «Però lei racconta un altro delitto legato a Porzus quello di Leo Scagliarini detto Ricciotti, altro comandante partigiano di Palmanova (Ud)...»

R. «Ufficialmente Scagliarini morì mitragliato da un aereo alleato, mentre si muoveva in auto. Dalle ricostruzioni e dalle testimonianze raccolte dai figli, è evidente che fu ammazzato in altro modo: alcuni partigiani garibaldini lo fecero inginocchiare e gli spararono alla testa. Lui era comandante garibaldino, ma non comunista, era andato in giro a dire che su Porzus si sarebbe dovuta far luce.»

D. «Un'altra morte misteriosa fu quella di Aldo Gastaldi detto Bisagno, capo partigiano garibaldino in Liguria ma cattolico...»

R. «Una fine assurda nella ricostruzione ufficiale: inspiegabilmente Bisagno si sarebbe messo sopra la cabina di un camion in marcia, dalla quale sarebbe rovinosamente caduto. Ho fatto qualche anno di cronaca nera e di morti più improbabili non ne ricordo.»

D. «S'era opposto all'organizzazione resistenziale del Pci in Liguria.»

R. «Era uno dei comandanti più forti e capaci, giovane, aitante, uno da oratorio ma col mitragliatore sten a tracolla. Comandava una divisione e più di una volta il Pci aveva cercato di toglierselo dai piedi con le buone ma lui e i suoi, agguerritissimi, s'erano rifiuti di sloggiare. Riuscirono a impedire che scendesse a Genova per la liberazione anche perché sapevano che si sarebbe opposto alla mattanza dei fascisti: più di 800 esecuzioni in pochi giorni. E in una riunione immediatamente successiva, chiese lo scioglimento della polizia comunista, responsabile di molti di quegli omicidi. Storie che rendono ancora improbabile il racconto della sua morte.»

D. «Vicenda simile a quella di Franco Anselmi detto Marco, altro comandante non comunista, ucciso a Castenaso, in Emilia.»

R. «Fu ucciso l'ultimo giorno di guerra, il 26 aprile, da una raffica di un tedesco in ritirata. Sono andato a vedere la casa dove spirò. Molti ritengono che fosse stato abbattuto da fuoco amico, in realtà. Uno con cui ne parlai fu Italo Pietra...»

D. «Il mitico direttore del Giorno... In cui lei, Pansa, lavorava...»

D. «Certo, Pietra fu comandante di divisione nell'Oltrepò Pavese.»

D. «E che le disse?»

R. «Le sue parole furono chiare: «Vuoi un consiglio? Non domandarti nulla. Marco è morto da vent'anni. Lasciamolo riposare in pace».

D. «Perché lei continua a scrivere questi libri?»

R. «Mai una smentita, lo scriva, mai una smentita...»

D. «Certo. E anche uno degli storici che all'inizio l'aveva criticato, Sergio Luzzatto, lo scorso anno le ha riconosciuto, dalle pagine del Corriere, rigore nella ricerca.»

R. «I ripensamenti non mi interessano. Le storie contemporanee sono tutte basate sulle fonti resistenziali, usare anche quelle dei fascisti pareva indecoroso.»

D. «Infatti, ora che l'eredità politica di quel Pci si va esaurendo, rimangono tetragone le cattedre universitarie...»

R. «C'è il pensiero unico, in materia. Fior di baroni accademici, gente che si ritiene l'unica titolata a occuparsi di storia della Resistenza, mi hanno messo al bando accusandomi di un reato per loro infame: il revisionismo storico. Una colpa ancora più grave perché commessa da chi non appartiene alla loro casta, un giornalista, un bastian contrario, un dilettante della ricerca storica.»

D. «C'è speranza di vedere attecchire una ricerca diversa là dentro?»

R. «Poche. Peggio delle burocrazie, e in Italia ne sappiamo qualcosa, ci sono le burocrazie accademiche: ordinariati che si trasmettono di padre in figlio o di zio in nipote. E comunque anche sugli eredi del Pci...»

D. «... che cosa si può dire?»

R. «Che anche dopo la Bolognina e la condanna di un certo comunismo, c'è stato il sequestro della memoria resistenziale.»

D. «Come mai, secondo lei?»

R. «Avendo visto cadere una grande quantità di certezze, era il solo un osso da succhiare. E la Resistenza è diventata roba loro. Si ricorda quando Letizia Moratti ebbe l'ardire di presentarsi al corteo del 25 aprile a Milano col papà?»

D. «Certo. L'anziano resistente, in carrozzella...»

R. «Era stato un partigiano di Edgardo Sogno, della Organizzazione Franchi, dei badogliani, era finito persino nei campi di sterminio. Furono entrambi insultati. Una cosa vergognosa: la Resistenza sequestrata. Ho voluto intitolare il libro Bella ciao anche per questo.»

D. «Torno al punto. Che valore ha un altro libro come questo, nell'Italia di oggi? Qualcuno potrebbe obiettare che i comunisti ormai sono minoritari anche nel partito che ne ha raccolta l'eredità, per mano di quel Matteo Renzi che, da qualche sua intervista, mi pare non le stia troppo simpatico...»

R. «Il valore di non disperdere memoria vera del nostro passato. È necessario, anzi, se si vuol capire proprio cosa è in grado di fare Renzi, che non mi è antipatico, anzi sta dando scosse elettriche ad altissimo voltaggio, fra Senato e Titolo V dello Costituzione. Lo invidio per la sua giovinezza: fa quello che i politici di centrosinistra avrebbero dovuto fare già da un pezzo.»

D. «Aveva ragione Luciano Violante quando, qualche anno fa, invocava una pacificazione nazionale?»

R. «Non ci credo, non credo alla «memoria condivisa»: l'unica pacificazione possibile è dire la verità, raccontare come sono andati i fatti.»

D. «I protagonisti di quella guerra, tra l'altro, sono quasi tutti morti...»

R. «Il sangue dei vinti in dieci anni ha venduto un milione di copie e io ho ricevuto più di 20 mila lettere scritte dagli eredi di quei vinti: figli, nipoti. Per la maggior parte sono le donne: quando c'è un piccolo archivio familiare, ordinato, ben tenuto, in genere c'è la mano di una donna. Insomma c'è una memoria di quella tragedia, che è difficile da far collimare con quella della vittoria.»

D. «Ha visto che cosa è capitato al cantautore Simone Cristicchi, contestato per il suo spettacolo sulle foibe?»

R. «Non mi sorprende. Le dico che il libro è stato prenotato da centinaia di librerie ma sono costretto a dire di no a molte richieste di presentazione. Da quando, anni fa, a Reggio Emilia sono stato aggredito dai militanti dei centri sociali, devo stare più attento. D'altronde i piccoli gruppi, oggi, sono capaci di tutto, basta vedere cosa hanno fatto cinque leghisti a Strasburgo a un galantuomo come Giorgio Napolitano.»

D. «Lei per anni ha lavorato in gruppo editoriale, quello di Repubblica e di L'Espresso, sulle cui pagine culturali, non erano certo ammessi revisionismi. Come ha fatto?»

R. «Nel «Gruppone», come lo chiamo io, ci sono stato per 31 anni, pensi. Avevano bisogno di me quando nacque Repubblica: erano un gruppo di giovanissimi e io ero uno d'esperienza. Con loro e con gli intellettuali che scrivono sui quei giornali, ho avuto polemiche feroci da quando sono usciti i miei libri. La verità è un'altra...»

D. «Quale?»

R. «Che allora i giornali erano migliori: oggi sono ideologicamente blindati. Al mattino ormai ci impiego solo due ore per leggerne una decina: alcuni ripetono sempre gli stessi articoli. Il suo direttore fa eccezione: ItaliaOggi è un giornale aperto, direi quasi libertino, che ammette visioni diverse. Una rarità.»

Ciononostante negli anni 2000 inoltrati c'è ancora qualcuno che simpatizza per una ideologia del millennio precedente. "Non prova imbarazzo ad avere il padre fascista?". La domanda è come un boomerang e questa volta torna indietro a colei che per prima l'aveva scagliata come fosse un dardo all'indirizzo del deputato M5S Alessandro Di Battista ospite delle sue "Invasioni Barbarie", scrive Libero Quotidiano. Daria Bignardi, infatti, è lei stessa figlia di un padre fascista. Lo fa notare Marco Travaglio, sul suo editoriale, raccontando lo "scandalo" dell'interessamento di Enrico Letta al tweet di Rocco Casalino che chiedeva alla Bignardi se prova imbarazzo per il suocero Adriano Sofri, condannato a 22 anni perché mandante del delitto Calabresi. "Nessuno meglio di lei può raccontare", puntualizza Travaglio sul Fatto Quotidiano, "visto che è così interessata, cosa si prova ad avere un fascista e un assassino in famiglia. Dunque che le salta in mente di chiederlo ai suoi ospiti?". Anzi uno solo: Di Battista. Travaglio fa notare che il giochino, esteso ad altri ospiti del programma, potrebbe innescare scene davvero imbarazzanti, visto che "fino al 1945 gli italiani erano quasi tutti fascisti: compresi il fondatore del giornale su cui scrive Sofri e, absit iniuria verbis, il presidente della Repubblica in carica e in ricarica". Ma quello che più fa imbestialire il vice direttore del Fatto non è tanto la domanda della Bignardi. "La polemicuzza", scrive in prima pagina,"potrebbe finire lì, fra un Casalino e una Bignardi, eventualmente anche un Sofri (nel senso del padre del marito della Bignardi, il quale comunica sul Foglio che lui è, sì, un condannato per omicidio, ma non è un omicida: un po’ come Berlusconi che è, sì, un pregiudicato per frode fiscale, ma non è un frodatore fiscale)". Quello che proprio non va giù a Travaglio è che da Doha, "si fa inopinatamente vivo – si fa per dire – il presidente del Consiglio, per stigmatizzare a nome del governo e delle più alte cariche dello Stato il tweet del Casalino e solidarizzare con la famiglia Bignardi-Sofri, parlando di “frasi folli” e di “barbaria senza fine”, poi tradotta in 'barbarie'". "E doveva pure essere sobrio", ironizza l'editorialista, £visto che l’uso e abuso di alcolici nei paesi islamici è severamente vietato. Il che spiega lo sguardo interrogativo e allarmato degli emiri presenti alla scena". Il pezzo di Travaglio si chiude con la domanda: "Cosa prova Letta ad avere quello zio?".  

25 APRILE: LA FALSIFICAZIONE SPUDORATA DELLA STORIA. La Storia non si celebra, si studia, scrive Gianfredo Ruggiero il 25 aprile 2015. Ogni anno, con l’approssimarsi del 25 aprile, si susseguono a ritmo incalzante le rievocazioni della guerra di liberazione. E’ un crescendo di manifestazioni, convegni e interventi per celebrare degnamente il sacrificio dei partigiani e di quanti si immolarono per riportare in Italia libertà e democrazia. Le piazze si tingono di rosso e i ricordi della barbarie nazifascista riaffiorano alla mente. Tutto bene tranne che… Dei crimini fascisti oramai sappiamo tutto o quasi, ma del lato oscuro della resistenza, quello fatto di processi sommari, fucilazioni, fosse comuni e di soldati uccisi sui letti di ospedale o prelevati dalle prigioni e freddati con un colpo alla nuca, di violenze e stupri cosa sappiamo? Poco, molto poco. E delle motivazioni, non sempre nobili, che hanno portato i partigiani a coprirsi il volto e a imbracciare il fucile, cosa ci viene tramandato? Praticamente nulla. Conosciamo tutti la triste vicenda dei 7 fratelli Cervi uccisi dai fascisti (è stato perfino tratto un film), ma quanti conoscono l’altrettanto dolorosa storia dei 7 fratelli Govoni, tra cui una donna incinta, fucilati dai partigiani perché uno di essi vestiva la camicia nera? Si ricordano giustamente le 365 vittime della strage nazista delle Fosse Ardeatine, mentre è stata rimossa dalla storia un’altra orribile strage, quella di Oderzo dove, a guerra finita, 598 tra allievi ufficiali e militi della Guardia Nazionale Repubblicana furono fucilati dai partigiani e gettati nel Piave dopo essersi arresi e aver deposto le armi. Di vicende come queste la storia, quella vera, ne è piena.  Non è mia intenzione fare la macabra contabilità dei morti o stabilire chi maggiormente si macchiò le mani di sangue innocente, ma solo contribuire a sollevare quel velo di omertà che copre le malefatte dei vincitori e questo non per spirito di rivalsa, ma solo per amore di verità, perché solo riconoscendo gli errori del passato possiamo evitare di ripeterli in futuro. Messi con le spalle al muro i sostenitori della mitologia partigiana, dopo aver negato per sessant’anni i crimini della loro parte, ora ammettono, a bassa voce e con evidente imbarazzo, che in effetti qualche errore e qualche eccesso ci fu, però – e qui incomincia la solita stucchevole tiritera – da una parte, quella partigiana, c’era chi combatteva per la libertà, mentre dall’altra parte c’erano i sostenitori della tirannide nazifascista. Quindi secondo loro quegli eccessi sono pienamente giustificati dal nobile fine, esattamente come le Foibe, anch’esse nascoste per sessant’anni e poi presentate come reazione all’oppressione fascista. Se devesse prevalere questa logica qualunque crimine, anche il più efferato, sarebbe giustificato. Dipenderebbe solo dalla potenza di comunicazione e dalla forza di persuasione di chi detiene il potere. Per motivi anagrafici non ho conosciuto il Fascismo e anch’io, come la maggior parte degli italiani, sono cresciuto a pane e resistenza avendo appreso la storia in maniera superficiale dai libri di testo, dai programmi televisivi e attraverso la cinematografia imperniata sui soliti luoghi comuni che vede i cattivi da una parte e i buoni dall’altra. Solo che non mi sono accontentato della verità ufficiale – quella scritta dei vincitori – e ho voluto approfondire le mie conoscenze. Il risultato è stato che man mano colmavo i miei vuoti i dubbi aumentavano. Dubbi che a tutt’oggi nessuno è stato in grado di sciogliermi. Il primo dubbio riguarda la definizione dei partigiani quali “patrioti e combattenti per la libertà”. Il movimento partigiano pur essendo variegato e spesso al suo interno profondamente diviso era militarmente e, soprattutto, politicamente egemonizzato dal Partito Comunista Italiano (Pci), all’epoca diretta emanazione della Russia Sovietica da cui prendeva ordine (e denari) tramite Togliatti, stretto collaboratore di Stalin, che infatti viveva in Russia. Obiettivo dichiarato di questi partigiani era quello di fare dell’Italia, una volta sconfitto il fascismo, uno stato comunista satellite dell’Unione Sovietica. Non si capisce quindi su quale base logica e storica i partigiani si possano definire tout court patrioti e combattenti per la libertà. Se l’Italia è oggi una Repubblica “democratica” (sul concetto di democrazia – altro grande equivoco – torneremo) non è certo per merito dei partigiani, ma in virtù della divisione del mondo in due blocchi contrapposti decretata a Yalta nel ’45, da cui scaturì la nostra collocazione nel campo occidentale e la conseguente dipendenza americana. Il contributo dei partigiani alla sconfitta tedesca fu, infatti, del tutto marginale se lo rapportiamo all’enorme potenziale bellico messo in campo dagli alleati. Le fila partigiane s’ingrossavano man mano che l’esercito tedesco si ritirava sotto l’incalzare degli angloamericani. Gli stessi americani avevano una scarsa considerazione dei partigiani e li tolleravano solo perché facevano per loro il lavoro sporco come assassinare i gerarchi fascisti e fare attentati dinamitardi per suscitare la rappresaglia tedesca che fu quasi sempre spietata e spropositata. Il 25 aprile del ‘45 Mussolini era a Milano e solo dopo la sua partenza per trovare la morte a Dongo il capoluogo lombardo fu “liberato” dai partigiani che si abbandonarono ad una vera e propria orgia di sangue contro i fascisti o presunti tali, compresi i loro familiari. Come testimoniano le lapide al Campo 10 del Cimitero Maggiore di Milano che raccoglie le spoglie dei fascisti (di quelle che si riuscì a recuperare, oltre un migliaio) molti dei quali barbaramente assassinati o fucilati ben oltre il 25 aprile e dopo che ebbero deposto le armi. Lo stesso discorso riguarda la Russia di Stalin la quale contribuì in maniera determinante alla sconfitta della Germania nazista, pagando per questo un pesante tributo di sangue, ma al solo scopo di estendere il suo dominio su tutto l’est europeo e non certo per portare in quelle sciagurate terre democrazia e libertà. Non dimentichiamoci poi che l’Unione Sovietica fu alleata della Germania nazista fino al 1941 con la quale si spartì la Polonia due anni prima. Particolare importante che la storiografia ufficiale nasconde – perché farebbe smontare in un sol colpo la tesi di comodo della “lotta della democrazia contro la tirannide” – riguarda la dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra all’indomani dell’invasione tedesca della Polonia: fu dichiarata alla Germania, ma non alla Russia pur avendo anch’essa attaccato, da est, la Polonia alcuni giorni dopo. Perché? Evidentemente la Polonia fu solo un pretesto per muovere guerra alla Germania, mentre Stalin, che dopo la Polonia si apprestava ad invadere la Finlandia e ad annettersi le deboli Repubbliche Baltiche con l’assenso occidentale, era considerato già da allora un prezioso alleato, ben sapendo che questi era uno spietato dittatore, che con le sue “purghe” aveva massacrato, deportato nella gelida Siberia e ridotto alla fame milioni di russi, molti dei quali ebrei, definiti “nemici della rivoluzione” (ma questo, evidentemente, alle democrazie occidentali – America in testa – poco importava). Il secondo dubbio riguarda la definizione di “guerra di liberazione”, quando invece fu una classica e tragica guerra civile. I fascisti non venivano da Marte, era italiani come italiani erano i partigiani. In quei lunghissimi 18 mesi la guerra non risparmiò nessuno, attraversò le famiglie e divise i fratelli. La guerra è una cosa tragica e quella civile lo è ancor di più, in queste circostanze gli uomini tendono a perdere la loro dimensione umana per accostarsi a quella bestiale, per cui o stendiamo un pietoso velo e consideriamo tutti i morti uguali e rispettiamo gli ideali che animarono le loro azioni giusti o sbagliati che possano apparire, oppure la storia la raccontiamo tutta e per intero, senza reticenze e convenienze politiche. Altro grande equivoco riguarda la presunta invasione nazista dell’Italia: tedeschi non invasero l’Italia, c’erano già. Dopo la caduta di Mussolini, avvenuta il 25 luglio 1943, il governo Badoglio chiese aiuto dell’alleato tedesco per contrastare gli anglo americani che nel frattempo erano sbarcati in Sicilia. I soldati italiani e tedeschi si ritrovarono, quindi, a combattere spalla a spalla contro l’invasore americano fino all’8 settembre ’43, quando il Re e Badoglio, con estrema disinvoltura e lasciando allo sbando il nostro esercito, passarono armi e bagagli dalla parte del nemico, scatenando l’ira di Hitler. Solo la nascita della Repubblica Sociale Italiana e la ricostituzione di un esercito lealista cui aderirono, secondo uno studio di Silvio Bertoldi e confermati dai libri matricola, in seicentomila (quanti furono i partigiani è invece un mistero), frenò i propositi di Hitler che aveva previsto il totale smantellamento e trasferimento in Germania del nostro apparato industriale, la deportazione nei campi di lavoro e nelle fabbriche tedesche di tutti gli uomini che si fossero rifiutati di arruolarsi nella Wehrmacht e chissà cos’altro. Le motivazione che spinsero tanti giovani ad entrare nel neo costituito Esercito Fascista Repubblicano furono diverse e non sempre nobili (come spesso accade in questi casi): il rischio di fucilazione per i renitenti alla leva, l’intento di molti militari deportati nei campi di concentramento in Germania di tornare in Italia per poi disertare, la paga e la voglia di protagonismo. Vi aderirono anche fior di criminali, ma la stragrande maggioranza di essi lo fece per riscattare l’onore perduto e per sottrarre l’Italia alla vendetta hitleriana. Questi giovani, uomini e donne, potevano, al pari di molti loro coetanei, aspettare in qualche luogo sicuro che la bufera passasse, oppure andare con i partigiani le cui fila s’ingrossavano man mano che i tedeschi si ritiravano e la vittoria alleata si approssimava. Potevano, ma non lo fecero. Preferirono continuare a combattere, in divisa e a volto scoperto, per quel senso dell’onore che oggi, in epoca di consumismo e individualismo, si fatica a comprendere, consapevoli che le sorti del conflitto erano segnate e che difficilmente ne sarebbero usciti indenni. Furono migliaia e migliaia in tutta Italia i soldati fascisti fucilati dopo la loro resa o condannati a morte dopo processi sommari, come ampiamente documentato nei libri di Gianpaolo Pansa, di Giorgio Pisanò e di Lodovico Ellena, (solo per citarne alcuni). Un capitolo a parte lo meritano le ausiliarie, Il primo reparto al mondo di donne combattenti, addestrate senza nessuna differenza con i loro commilitoni maschi. Il loro tributo di sangue fu altissimo, catturate dai partigiani venivano spesso violentate e uccise.A guerra finita molte di loro, rapate a zero, furono costrette a passare su carri bestiame tra ali di folla inferocita, sottoposte a insulti e angherie di ogni genere. Il terzo dubbio riguarda la modalità di lotta dei partigiani. Mentre i fascisti come abbiamo visto combattevano in divisa e a volto scoperto, inquadrati nelle divisioni dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana o nelle varie milizie volontarie i partigiani, invece, pur potendo anch’essi vestire una divisa – essendo armati e finanziati dagli americani – e pur potendo combattere a fianco dell’esercito alleato o nell’esercito  italiano di Badoglio secondo le regole di guerra, preferirono il passamontagna, i soprannomi e la tecnica del mordi e fuggi a base di attentati, sabotaggi e omicidi alle spalle. Tecnica sicuramente meno rischiosa per loro, ma devastante negli effetti. Il fine era infatti quello di scatenare la rappresaglia tedesca e creare i presupposti per quella guerra civile, poi eufemisticamente definita di “liberazione”, le cui ferite ancora oggi stentano a rimarginarsi. Non si capisce infine l’ostinazione dei partigiani con la quale insistono a definirsi militari nonostante una sentenza del Tribunale Supremo Militare abbia negato loro tale status, attribuendolo invece ai combattenti fascisti della Repubblica Sociale Italiana Sono questi i dubbi su cui mi piacerebbe si sviluppasse un sereno dibattito, scevro da pregiudizi ideologici e senza reticenze, finalizzato a capire la storia e non solo a celebrarla come purtroppo avviene da oltre sessant’anni.

Ecco perché il 25 aprile non è la festa di tutti, scrive Luigi Benedetti il 25 aprile 2015. Tanto tempo fa, quando andavo a scuola, mai avrei potuto immaginare anni, questi, in cui la consapevolezza mi avrebbe portato a rivedere con difficoltà tutto quello su cui ero stato formato; volente o nolente. Ricordo i libri dettagliatamente esaustivi sulle vicende storiche che riguardavano la seconda guerra mondiale e non vi nascondo che, avendo da sempre avuto un otto in storia, ero convinto di conoscere e di sapere ciò che c’era da conoscere e da sapere. Questa mia convinzione di allora è probabilmente la convinzione rimasta in molti, oggi, che non hanno, come me, intrapreso un lavoro di passione fatto di ricerche, letture e studi personali durati anni. I più, infatti, restano convinti di conoscere la storia del ‘900 grazie all’istruzione scolastica, sempre difesa per politically correct ma davvero indifendibile avendo un minimo di cognizione di causa. Anche se già qualcosa non tornava quando mi accorsi che il mio libro di testo esaltava i risultati dei piani quinquennali di Stalin, la mia vita cambiò totalmente quando, appena diplomato, lessi l’opera che svelò al mondo la tragedia marxista leninista: Arcipelago Gulag. Immaginatevi di dormire. Siete nel pieno di un sonno riposante e sereno e, improvvisamente, vi viene sbattuta una padella in faccia. Ecco, per metafora, quello che provai quando lessi l’opera di Aleksandr Solzenicyn. Compresi chiaramente di non sapere assolutamente nulla della storia del 900. Anzi, compresi che tutti non sapevano completamente nulla; a parte le nozioni su Nazismo e Fascismo che rappresentano una parte piccolissima della storia del secolo del male; una parte che annichilisce dinanzi alla furia e alla durata dei regimi comunisti. Ed anche questi, mi accorsi nelle varie letture, non erano poi insegnati per ciò che accadde, con la sola eccezione dei Paesi anglosassoni. Mi piacerebbe dire molte cose. Parlare di come, contrariamente a quanto fattoci credere, i nazisti e i comunisti erano alleati. Fino all’operazione Barbarossa, infatti, così era e quando, capitolata Parigi, Hitler decise di attaccare l’est, Stalin venne preso alla sprovvista. A Mosca il Bolscioj dava soltanto Wagner ed erano proibiti i film antifascisti. Nella Polonia occupata, sul ponte di Brest Litovsk, la NKVD comunista (prima che si chiamasse KGB) consegnava alla Gestapo nazional socialista gli ebrei tedeschi fuggiti in Urss. Come poter chiudere gli occhi davanti al fatto che, quando cadde La Francia, mentre le truppe di Hitler entravano a Parigi sfilando sotto l’arco di Trionfo, gli amici del Partito Comunista Francese, su L’Humanité (l’Unità francese), titolavano a tutta pagina: “Bravi camerati! La borghesia mondiale sa finalmente di che pasta è fatto il proletariato tedesco!”. Si, i comunisti francesi inneggiavano, sul proprio giornale, agli amici nazisti che invadevano la Francia. Pagine della storia che, ad esser studiate, produrrebbero autocoscienza; pagine strappate, quindi, che nessuno vi farà mai studiare. La problematica dello studio consono e giusto della storia del comunismo e in generale del 900, a causa del fatto che questo partecipò alla vittoria e gli venne consentito di scrivere i libri di storia, riguarda tutti i Paesi. Lo dimostrano gli attacchi violenti subiti da Alain Bensacon per essersi permesso di dire che nessuno studia lo sterminio Ucraino o la kolyma. Le motivazioni dell’oblio a cui la storia del comunismo è stata destinata sono tante e difficilmente analizzabili. Certo, però, non esiste un Paese come il nostro da questo punto di vista. Un Paese passato da una dittatura, quella fascista, ad una egemonia culturale dittatoriale, quella comunista, senza passare da una rivoluzione liberale. Una egemonia culturale nelle mani del partito comunista più forte dell’occidente che ha fatto del possedimento dell’istruzione pubblica e dell’arte in genere il proprio punto di riferimento. E i risultati si vedono. I risultati sono quelli sperati e cioè convincere noi tutti, non importa se di destra o di sinistra, di una grande grandissima bugia; e cioè che il comunismo è stato il più grande e valoroso strumento antinazista ed antifascista. Un falso storico ben raccontato da Francois Furet. Questo valore, assolutamente falso, è il motivo grazie al quale si è sempre giustificato ogni scempio. E’ il motivo per il quale si è consegnata alla gente da istruire una consapevolezza basata sulla menzogna. La storia Italiana e in particolar modo la storia della resistenza italiana sono il simbolo di quanto detto fino ad ora. Tra le pagine del nostro passato, ad esempio, è quella dei partigiani italiani che certamente gode di più retorica e intoccabilità, e falsità, pena il pubblico disprezzo e la pubblica derisione. I partigiani sono sacri…La realtà, ciò che avvenne nel ’45, è ben diversa e in questi anni è stata ben rivisitata e analizzata da un bravissimo giornalista che, proprio in quanto antifascista come provenienza culturale, ha fatto questa battaglia di verità a testa alta. Avrete certamente sentito parlare di lui. Giampaolo Pansa ha dovuto combattere contro quelli che chiama i “gendarmi della memoria”. I violenti compagni a guardia della “vulgata resistenziale”.  E’ stato aggredito, minacciato di morte, umiliato, vessato, licenziato dal quotidiano Repubblica dopo 25 anni. Perché egli intraprese questo percorso? Lui, come avvenne per Solzenicyn tanti anni prima, si è trovato quasi per caso ad essere il punto di riferimento di tanti nostri concittadini che, figli di persone assassinate dai partigiani, avevano subito torti atroci ma non avevano mai potuto raccontare la loro storia essendo “prigionieri del silenzio”. Le tante lettere ricevute lo convinsero che era dannatamente vero che l’Italia repubblicana, infondo, era stata fondata su quella che lui chiamò “La Grande Bugia” e cioè l’insieme di convinzioni storiche inesatte riportate sui testi scolastici. Riporto testualmente dall’introduzione del suo libro che prende proprio questo nome: “Come nasce una grande bugia? Nasce da un insieme di reticenze, di omissioni, di piccole menzogne ripetute mille volte, di distorsioni della verità. Tutte giustificate dal pregiudizio autoritario che la storia di una guerra la possono raccontare solo i vincitori. Anzi, uno solo dei vincitori. Mentre i vinti devono continuare a tacere.” E’ bene dire che una delle grandi verità è che gli italiani erano Fascisti e, fino al ’38, entusiasti. Se si riesce ad avere giudizi sereni e distaccati il motivo di ciò appare evidente; evito di argomentare a fondo ma basta dire che mentre nel “paradiso socialista” c’erano i campi di concentramento, in Italia c’erano l’INPS e le colonie estive per i bambini. Ciò non toglie che il Fascismo sconfinò in una dittatura che, se al confronto del comunismo e del nazismo è da considerarsi una meraviglia, perseguitò gli oppositori; erano gli strumenti del tempo. Giorgio Napolitano era il Presidente delGruppo Universitario Fascista. Giorgio Bocca scriveva articoli contro gli ebrei. Come dimenticareDario Fo, che in piena disfatta si arruolò nella Repubblica Sociale e combatté per il suo Duce, fino all’ultimo, nelle brigate di Tradate contro i partigiani. Ma non voglio parlare della ipocrisia vomitevole che esiste in questo Paese bensì della grande e negata verità sulla guerra di liberazione. Liberazione…Il fronte partigiano era composto da tante anime e, mentre la maggior parte volevano dare all’Italia la democrazia, l’anima comunista come quella della Brigata Garibaldi operava in maniera organica all’Unione Sovietica che doveva invadere da est l’Italia ed instaurare il comunismo. Tutti i dirigenti partigiani e del PCI avevano combattuto in Spagna ed erano stati formati a Mosca. Su questo ho anche visionato personalmente le cartine con i piani di invasione del Kgb all’interno dell’archivio Mitrokhin; piani rimasti militarmente attivi fino ai primi anni ’80. Ho già parlato di ciò che avvenne nei territori a confine quando ho scritto delle foibe in febbraio nell’articolo “Il genocidio italiano”; meno l’ho fatto per ciò che prese inizio all’interno del territorio Italiano. Tutti noi siamo stati convinti che gli scontri e le rappresaglie durarono fino alla morte di Mussolini e che a quel punto l’Italia venne liberata. La cosa è totalmente falsa. In realtà, morto Mussolini, iniziò una battaglia di tre anni che per nostra fortuna si concluse con la vittoria della Democrazia Cristiana. E’ molto importante sapere cosa avvenne nelle zone a più influenza comunista e cioè quelle emiliane. Il triangolo compreso tra i paesi di Manzolino, Castelfranco Emilia e Piumazzo passò alla storia come il triangolo della morte per lo spaventoso numero di martoriati e uccisi dai partigiani comunisti. Era in atto una operazione di terrore marxista che vedeva la macelleria non di fascisti, ma di tutti quanti potessero contrastare negli anni seguenti una ascesa rossa; fino a quando non venne dato il contro ordine da Stalin sul progetto di invasione, i partigiani iniziarono un lavoro dicarneficina verso comuni cittadini: il farmacista, il notaio, il medico condotto, il parroco, il maestro, l’avvocato, lo studente universitario, il proprietario terriero, l’imprenditore, l’artigiano. Trucidati: prelevati la sera, portati via e mai più rientrati. Migliaia, spesso dati in pasto ai porci affinché non ci fossero cadaveri da riesumare. Tutto questo, ricordiamolo, con Mussolini già morto. Per questi assassini, spesso già condannati all’ergastolo, Togliatti amministrò una amnistia che liberò uomini che avevano compiuto esecuzioni in massa e sanguinosi atti “rivoluzionari”. Questi furono avviati verso la Cecoslovacchia, dopo il 1948, e lì sono rimasti ad addestrare negli anni Sessanta e Settanta i futuri Brigatisti rossi. Oggi, i “gendarmi della memoria”, ci raccontano che i partigiani combattevano solo contro i fascisti e che ammazzarono i fascisti per donarci la democrazia, per liberarci. Questa è una bugia intoccabile che è arrivata fino ai giorni nostri. Prova ne è il fatto che i componenti della Brigata Osoppo, che erano partigiani non comunisti che facevano anch’essi la resistenza, vennero ammazzati a martellate sul cranio in una imboscata perché non accettavano il progetto di invasione sovietica. La strage di Porzus, appunto, è una delle pagine della nostra storia simbolo della verità nascosta. Se in Italia non fossero state presenti le truppe alleate, il bagno di sangue comunista avrebbe raggiunto proporzioni colossali e avrebbe avuto inizio, come già accaduto ad est, una dittatura sanguinaria che avrebbe cambiato per sempre la nostra vita. Questa è la verità. E a lavorare in favore degli stermini e di questo progetto c’erano i partigiani comunisti. Coloro i quali siamo obbligati a celebrare come i nostri eroi in un Paese dove la menzogna è la pietra fondante e dove ad essere celebrati dovrebbero essere i ragazzi di 17 anni prelevati dalla scuola e morti congelati sul Carso, sul Grappa, in Russia per difendere la Patria Italiana. Giovani italiani dimenticati, mai celebrati. I nostri eroi. Dal punto di vista politico, con i suoi continui errori, la sinistra italiana ha trovato nelle tematiche riguardanti la resistenza la vera e propria prigione culturale dalla quale non è riuscita ad uscire, a tal punto da diventare patetica nell’esercizio di una retorica spinta oltre il normale. Prova ne è che, nella dialettica politica, le parole resistenza e liberazione trovano sempre spazio contro l’avversario politico. Questo nel 2015. Una sinistra sempre a matrice culturale comunista che, nonostante i tentativi di apparente cambiamento coadiuvati da cambi di nome del PCI, non ha portato in porto un processo di maturità politica propedeutica a una pacificazione nazionale. Un isterismo e una reazione violenta si sono sempre registrati, nella sinistra italiana, al tentativo di operare, appunto, verso una strada di pacificazione dove tutti i cittadini si sentano figli di una stessa storia e dove le date, come appunto quella del 25 aprile, siano davvero sentite come patrimonio comune. Sfida impossibile ormai. E’ sotto gli occhi di tutti che questa data non è sentita dalla maggior parte della gente. Perchè questa data non è e non può rappresentare una memoria positiva. E non è e non può rappresentare un momento di festa. Solo bandiere rosse, in piazza, e niente tricolori; ci sarà un motivo? A raccontare la verità sulla liberazione ci sono gli stermini comunisti del nord, ma anche tanto da raccontare al sud, con ad esempio le truppe alleate marocchine, quelle della foto in testa all’articolo, che saccheggiarono con violenza intere regioni, stuprando donne e sodomizzando uomini legati agli alberi. Ne avete mai sentito parlare? E’ la storia mai raccontata del marocchinato alleato. Ma anche se non raccontata è la nostra storia, la vera storia della “liberazione” e appartiene a tutti noi. Siamo stati invasi da eserciti stranieri che hanno vinto la guerra e hanno conquistato il territorio risalendo da sud, facendosi largo con i metodi di ogni conflitto: la violenza. Il sistema sanitario nazionale mise a disposizione le condotte mediche per imbastire una grandissima operazione di aborti. Per le centinaia di migliaia di donne stuprate, incinte dei soldati nemici, dei “liberatori”. Queste cose chi le sa? Questa è la verità, con buona pace di tanti politici che presenziano il teatrino che celebra, ogni anno, la menzogna. Siamo l’unico Paese del mondo che festeggia la sconfitta delle seconda guerra mondiale come un giorno di vittoria, fateci caso: è grottesco. Ma anche se questa data è spacciata per gioiosa, anche se a scuola la verità non ce la fanno studiare, per molti nostri concittadini è e sarà sempre una data di morte e di lutto; non solo per i “figli dell’aquila” ma anche, ad esempio, per i figli di quei tanti partigiani non comunisti assassinati. Una parte importante, maggioritaria, dell’Italia non può riconoscersi nel 25 aprile che è quindi festa solo rossa, di divisione; è roba loro! Perché al contrario di quanto propinatoci e fattoci credere, questa data ricorda la sconfitta, l’invasione delle truppe nemiche, gli stupri e le violenze; ed è l’anniversario del tentativo di instaurare in Italia una dittatura comunista. Che fallì. Ecco perché il 25 aprile non è la festa di tutti.

Elisabetta Gardini, si cambia la storia: schiaffo ai comunisti a Bruxelles. Foibe, la verità sugli orrori, scrive il 3 Febbraio 2019 Libero Quotidiano. L'azzurra Elisabetta Gardini guida "l'operazione verità" su Foibe, esuli italiani in Istria e gli orrori dei comunisti jugoslavi di Tito. Il 5 febbraio a Bruxelles la capogruppo di Forza Italia al Parlamento Europeo organizza una mostra e un convegno dedicato alla tragedia della Seconda Guerra mondiale troppo spesso dimenticata dagli storici italiani e potrebbe essere l'occasione giusta per chiedere ai vertici delle repubbliche dell'ex Jugoslavia accesso agli archivi. L'obiettivo, spiega al Giornale Vito Comencini, segretario della Commissione esteri della Camera, è quello di creare una Commissione parlamentare d'inchiesta per far luce sui crimini commessi da Tito "a cominciare dalla strage di Vergarolla, che provocò la fuga degli italiani da Pola del 1947". Le vittime italiane di quella campagna sanguinaria di eliminazione fisica "non erano solo fascisti o collaborazionisti, ma anche di antifascisti, democratici e patrioti che, dopo aver combattuto nella Liberazione, si opponevano alle mire del regime comunista di Belgrado". Una verità scomoda per decenni ignorata consapevolmente da politici e storici di sinistra. 

"Il Parlamento indaghi sulle stragi del boia Tito". Alla Camera la proposta degli esuli: «Partiamo da Vergarolla, primo eccidio della storia repubblicana», scrive Fausto Biloslavo, Domenica 03/02/2019, su Il Giornale. Una commissione parlamentare d'inchiesta per fare luce sui crimini commessi dai boia di Tito. A cominciare dalla strage di Vergarolla, che provocò la fuga degli italiani da Pola del 1947. La richiesta della Federazione degli esuli è stata inviata in questi giorni al segretario della Commissione esteri della Camera, Vito Comencini, alla vigilia del 10 febbraio, giorno del Ricordo dell'esodo e delle foibe. Ma verranno coinvolti tutti i partiti. L'obiettivo è «l'istituzione di una commissione parlamentare per la strage di Vergarolla e i crimini commessi al confine orientale». Il testo inviato a Comencini ricorda che la «Repubblica è nata con un profondo vulnus (ferita, ndr) () nelle province di Trieste, Gorizia, Pola, Fiume e Zara. () L'occupazione titina segnò pagine luttuose per la comunità italiana». La proposta sottolinea come «la guerra di liberazione nazionale jugoslava aveva assunto caratteristiche annessioniste e gli oppositori del progetto andavano eliminati». E si ricordano i «quaranta giorni di occupazione» a guerra finita, nel maggio-giugno 1945, di città come Trieste oltre alle deportazioni di 600 italiani da Gorizia. Le stragi delle foibe sono iniziate in Istria nel 1943, dopo il vuoto dell'8 settembre e continuate a guerra finita. «Non si trattava solamente di fascisti o collaborazionisti, ma anche di antifascisti, democratici e patrioti che, dopo aver combattuto nella Liberazione, si opponevano alle mire del regime comunista di Belgrado» si legge nel testo. «La proposta è nata dalla Federazione degli esuli per caratterizzare il Giorno del ricordo di quest'anno. Auspichiamo che aderiscano tutte le forze politiche» spiega a il Giornale il vicepresidente Davide Rossi, che rappresenta il grosso delle associazioni dei 250mila istriani, fiumani e dalmati costretti ad abbandonare le loro case dalle violenze di Tito. «Il 18 agosto 1946 a Pola, città ancora formalmente italiana, un attentato provocò una carneficina con un numero di morti che, a seconda delle diverse fonti, oscilla tra le 70 e le 110 unità a cui sommare un centinaio di feriti tra i bagnanti che in località Vergarolla assistevano ad una manifestazione sportiva - si legge nella proposta - Si trattò della prima strage della storia dell'Italia repubblicana, con un numero di vittime impressionante e paragonabile alle ben più note stragi degli anni di piombo». In occasione di una gara di nuoto che aveva attirato la popolazione italiana sulla spiaggia, saltarono in aria delle mine anti-nave abbandonate. Le vittime identificate furono 64, ma altri resti erano sparsi in mille pezzi sulla spiaggia. Pola era formalmente ancora italiana e in mano agli inglesi. Sul primo momento si accreditò la tesi dell'incidente. In realtà sarebbero stati agenti dell'Ozna, la polizia segreta di Tito, ad organizzare l'attentato. Il clima di paura che seguì alla strage portò all'esodo, l'anno dopo, del 90% degli italiani dalla città. «Ho ricevuto la proposta e sono più che disponibile a portarla avanti - conferma Comencini al Giornale - Non l'ho ancora presentata perché devo coordinarmi prima con gli uffici e parlare con gli altri membri della Commissione, ma è indubbio che i crimini compiuti nei confronti degli italiani siano rimasti sepolti per troppi anni». La commissione dovrebbe fare luce non solo su Vergarolla, ma pure su altre stragi dei partigiani di Tito. «L'approfondimento di queste ricerche e l'impostazione di sinergie con Lubiana, Zagabria e Belgrado (ove sono ancora conservati archivi della ex Repubblica Socialista Federale Jugoslava) - spiega la proposta - () necessitano di un adeguato sostegno istituzionale». A Bruxelles il 5 febbraio Elisabetta Gardini, capogruppo di Forza Italia al Parlamento Europeo, organizza una mostra e un convegno dedicato alla tragedia dell'esodo e delle foibe. Rossi, invitato a parlare a nome degli esuli, sottolinea che «ci saranno anche rappresentanti delle repubbliche dell'ex Jugoslavia. Un'ottima occasione per chiedere collaborazione e l'accesso agli archivi». Anche Comencini ribadisce che «una Commissione può far luce chiedendo collaborazione ai Paesi vicini, che hanno i documenti. Per una volta l'Unione europea può essere uno strumento di aiuto». E aggiunge: «Spesso la storia è scritta dai vincitori. Finalmente si è cominciato ad affrontarla anche da un altro punto di vista». Non a caso la parte finale della proposta puntualizza che «una Commissione d'inchiesta parlamentare dedicata a ricostruire queste pagine ancora oscure del dopoguerra sanerebbe parzialmente la ferita e contribuirebbe a fare chiarezza su eventi che ancora oggi risultano oggetto di polemiche, giustificazionismi, interpretazioni fuorvianti e strumentali».

Foibe, la lunga marcia del revisionismo storico, scrive Angelo d’Orsi il 9.2.2018 su “Il Manifesto". Il revisionismo ha compiuto una lunga marcia, a partire dagli anni Sessanta, tra Francia, Germania, Italia, essenzialmente. In Italia ha riscosso notevole fortuna, e ha riguardato essenzialmente la vicenda del comunismo e del fascismo: alla squalificazione del primo, ha corrisposto, in contemporanea, il recupero del secondo. Il processo ricevé una formidabile accelerazione con «la caduta del Muro», e l’immediata sentenza di morte autoinflittasi dal Partito comunista, quando si accettò non soltanto il terreno dell’avversario ma la sua tesi di fondo: la intima natura maligna, del comunismo. Tale revisionismo estremistico toccò punte clamorose dopo l’avvento di Berlusconi, e lo «sdoganamento» della destra «postfascista» e il suo ingresso in area governativa. Il giudizio riduttivo sulla Resistenza, la banalizzazione e la successiva demonizzazione del partigianato, in specie comunista, l’equiparazione tra repubblichini e combattenti per la libertà, la retorica della memoria condivisa, e così via, condussero alla celebrazione del «sangue dei vinti». Il revisionismo giungeva così alla sua fase estrema, il «rovescismo». E qui si pone la «questione foibe», lanciata da un programma televisivo nei primi anni ‘90. Una vicenda drammatica della storia dell’Europa che tentava di risollevarsi dalla catastrofe della guerra scatenata dal nazifascismo, finiva in show ma, nella disattenzione degli apparati culturali della democrazia, generava rilevanti esiti politici e persino giuridici. Da capitolo della storia la foiba diventava un marchio propagandistico: il luogo, il simbolo, la bandiera da agitare in ogni situazione, come in passato si fece con l’Ungheria del 1956, o la Cecoslovacchia del 1968. La foiba fu il nome del martirio subìto da centinaia, migliaia, decine di migliaia (l’andamento delle cifre è grottesco) di italiani «colpevoli solo di essere italiani». Non si vuole sottovalutare la questione dell’esodo forzoso dei connazionali dalle terre del Nord-Est, che comunque va tenuta distinta da quella delle foibe. In passato, studiosi come Enzo Collotti e Giovanni Miccoli ci misero in guardia però dalla necessità di non sottovalutare il nesso tra foibe e risposta ai crimini del fascismo. Ma già da allora apparve difficile opporsi all’«operazione foibe». La foiba diventò un tabù: l’invito a riconsiderare scientificamente il problema veniva bollato con l’etichetta di «negazionismo». E nelle foibe venivano affossate le colpe della nazione italiana, che anzi ne usciva con una sorta di lavacro che le restituiva l’innocenza. La foiba diventava, al contrario, il trionfale verdetto sulle irredimibili colpe del comunismo. La storia, invece, che ci dice? Che il 1945, con le sue tragedie e le sue atrocità, fu la conseguenza di una politica italiana all’insegna di un razzismo antislavo (la «barbarie» di quella gente), fin dalla stessa origine del Regno dei serbocroati e degli sloveni, verso la fine della Grande guerra. Nell’Italia dannunziana la «Vittoria mutilata», l’impresa fiumana, furono base culturale dell’ondata antislava, che giunto Mussolini al potere, sedimentò nella pretesa di sottoporre la Jugoslavia al «protettivo» controllo italiano, tanto meglio se si fosse potuto frammentare l’unità di quei popoli faticosamente raggiunta. Il fascismo non arretrò davanti alla pulizia etnica, che nella Seconda guerra assunse le tinte fosche di una violenza inaudita, nella quale gli italiani fascisti non furono inferiori ai tedeschi nazisti. Noi fingiamo di dimenticarlo, o semplicemente lo ignoriamo; ma come si poteva pretendere che quei popoli dimenticassero? Le foibe, di cui si è volutamente e grottescamente esagerato numero e portata, sono la risposta jugoslava: e i primi a servirsi di quelle cavità per i «nemici» peraltro furono gli italiani. E il più delle volte erano tombe naturali in cui in guerra si dava sepoltura ai morti, sia le vittime di combattimenti, sia persone giustiziate, accusate di crimini di guerra: in quella situazione vi furono probabilmente anche innocenti infoibati. Ma ridurre tutta la vicenda a questo è esempio di profonda disonestà intellettuale e di un pesante uso politico della storia, tanto meglio se i fatti vengono direttamente «adattati» all’obiettivo perseguito. Che fu più chiaro, con l’istituzione, nel marzo 2004 (II governo Berlusconi), con voto condiviso dal centrosinistra, di una legge istitutiva del «Giorno del ricordo» («dell’esodo degli italiani dalle terre dalmato-giuliane dei “martiri delle foibe”»). Sabato 10 febbraio ne discutiamo in un convegno a Torino. In proposito mi limito qui a ricordare quanto scrisse un testimone d’eccezione, Boris Pahor, che giudicò che quella legge «monca, unilaterale, parla del ricordo italiano, tralascia il ricordo altrui», ossia della parte jugoslava, specificamente slovena, che ha subìto un’ampia gamma di crimini e nefandezze da parte italiana.

NEGAZIONISMO, ECCO COME FUNZIONA LA LEGGE ITALIANA, scrive Elisa Chiari il 24/01/2019 su Famiglia Cristiana. E' reato anche in Italia dal 2016, in ottemperanza alle direttive europee, ma gli addetti ai lavori riconoscono che su questi temi la repressione penale è complessa, servono programmi di prevenzione. Anche per questo Liliana Segre propone una Commissione bicamerale.

Il negazionismo in Italia è reato dal 2016, da quando cioè il legislatore ha aggiunto con la legge 116/2016 un comma (3-bis) alla legge 654/1975. Da quel momento comportamenti di discriminazione e odio, istigazione di reati a sfondo razziale già puniti con la legge previgente trovano un sanzione aggravata: «da due a sei anni di reclusione» - scrive Giacomo Galeazzo in Giurisprudenza Penale (2016) «quando si fondino in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra come definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale. Presupposto della punibilità è che dal comportamento derivi un “concreto pericolo di diffusione”». La legge approvata nel 2016 applica la decisione quadro 2008/913/GAI del Consiglio dell'Unione europea che si propone di armonizzare le legislazioni nazionali europee in tema di razzismo e xenofobia individuando come condotte che meritino una sanzione di natura penale: «L'apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana in pubblico dei crimini di genocidio o contro l'umanità, i crimini di guerra, quali sono definiti nello Statuto della Corte penale internazionale (articoli 6, 7 e 8) e i crimini di cui all’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro». Nella relazione per l’attuazione del provvedimento europeo l’Italia era oggetto di una “tiratina d’orecchie”, inserita tra i sette Paesi che non menzionavano espressamente questi comportamenti nelle loro leggi penali, limitandosi all’apologia di reato (Italia, Francia, Polonia, Spagna) o ad apologia e negazione (Portogallo, Lettonia e Romania). Proprio per meglio aderire al dettato comunitario la norma italiana del 2016 è stata modificata nel 2017 introducendo il passaggio sulla "minimizzazione in modo grave" che ancora mancava. In questo modo la norma italiana configura una punibilità più estesa di quella di altri Paesi perché non si limita a sanzionare la negazione o la minimizzazione della Shoah ma estende l’aggravante a tutti i crimini di genocidio, contro l’umanità e di guerra. La storia di questa legge è stata, però, forse inevitabilmente, complicata da un iter parlamentare complesso e dal dibattito che sempre accompagna, come è normale che sia, norme che devono entrare in bilanciamento con principi fondamentali costituzionali quale quello della libera manifestazione del pensiero: un problema che i legislatori si sono posti e che hanno risolto facendo riferimento a una sentenza della Corte costituzionale (N. 87/1966) in tema di propaganda, in cui si spiega che «il diritto di libertà della manifestazione del pensiero non può ritenersi leso da una limitazione posta a tutela del metodo democratico». Altra questione, rilevano gli esperti, può sorgere in merito all’applicabilità effettiva della norma nelle aule di giustizia: in questi casi infatti, dal momento che l’accertamento della verità processuale poggia su prove diverse da quelle su cui si fonda l’evidenza della ricerca storica, può esser complesso circoscrivere la fattispecie del reato nella legge e conseguentemente dimostrare la colpevolezza in giudizio, cosa che spinge alcuni esperti a ragionare – senza per questo mettere minimamente in discussione la stigmatizzazione dei comportamenti - sull’adeguatezza dello strumento penale a contrastare fenomeni di questo tipo. Forse anche per questo ha una matrice diversa, più cultural-preventiva, il disegno di legge firmato da Liliana Segre – non ancora esaminato - che propone una commissione bicamerale di indirizzo e controllo sui fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base di alcune caratteristiche quali l’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche. La funzione, accanto al controllo di un’adeguata rispondenza della normativa al dettato europeo, ma comprende nelle intenzioni anche studi e interventi propositivi che agiscano sulla prevenzione. A questo proposito, «Oltre al disegno di legge per istituire una commissione ad hoc per contrastare le parole di odio, razzismo, intolleranza, anche nella politica – ha spiegato a senatrice a vita a Famiglia Cristiana -, vorrei presentarne altri due: uno per ripristinare l’insegnamento dell’educazione civica nelle scuole dalla scuola primaria e l’altro sul bullismo».

Ma a quanto pare non tutti i negazionismi sono uguali.

Rovigo, Anpi choc: «Le foibe sono un’invenzione storica». Salvini: «Fate schifo». L’uscita su Facebook nella Giornata della Memoria. FdI: «Intervenga il governo». Lega furiosa. In serata la controreplica: «Mai negato il fenomeno, il problema è la narrazione di una certa destra», scrive il 28 gennaio 2019 Natascia Celeghin su "Il Corriere del Veneto". «Le foibe sono un’invenzione storica». E anche in Veneto esplode il caso in cui viene negato all’eccidio degli italiani e della Dalmazia durante e al termine della Seconda Guerra Mondiale. A negare l’esistenza delle foibe in Polesine è l’Anpi Rovigo, l’Associazione nazionale partigiani d’Italia. Le polemiche sono scoppiate sui social network poco prima del Giorno della Memoria, domenica 27 gennaio, giornata dedicata alla commemorazione delle vittime dell’olocausto durante il secondo conflitto mondiale (Il 10 febbraio è invece la data nazionale del Giorno del ricordo per le vittime delle foibe).

Politici sotto choc. «Sarebbe bello spiegare ai ragazzi delle medie che le foibe le hanno inventate i fascisti, sia come sistema per far sparirei partigiani jugoslavi, che come invenzione storica. Tipo la vergognosa fandonia della foiba di Bassovizza» ha scritto l’Anpi di Rovigo su Facebook. Questo è bastato a sollevare l’indignazione dal mondo della politica. «Trovo vergognoso e inaccettabile il post Facebook dal sapore negazionista pubblicato alla vigilia del Giorno del Ricordo dall’Anpi di Rovigo secondo il quale le foibe sono una invenzione dei fascisti». Lo dichiara Luca De Carlo, deputato bellunese di Fratelli d’Italia annunciando una interrogazione parlamentare al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e per conoscenza ai ministri dell’Interno, della Difesa e dei Beni culturali. «Vogliamo sapere – aggiunge De Carlo – come possa una sezione di un’associazione che riceve centinaia di migliaia di euro di finanziamenti statali e locali permettersi di insultare le tante vittime del regime di Tito e i loro parenti. Il Presidente Conte spieghi come vengono spesi i finanziamenti accordati all’Anpi e soprattutto se non sia il caso di rivederli in virtù di queste e altre dichiarazioni di pessimo gusto rilasciate». De Luca prosegue: «Si deve appurare se questo post non sia in contrasto con la legge sul negazionismo - con tutto ciò che ne consegue - e se il presidente del Consiglio non ritiene, per impedire che casi del genere non si ripetano, di organizzare insieme alle associazioni degli esuli, iniziative straordinarie per diffondere la verità storica, in particolare tra le giovani generazioni». In serata la notizia è stata rilanciata su Facebook anche dal vicepremier Matteo Salvini: «Fate schifo», scrive il ministro dell'Interno indirizzato all'Anpi.

Lega furiosa. Anche dal mondo leghista veneto si sollevano voci di protesta. «È sconcertante e allarmante vedere come un’associazione che si vanta di tramandare la storia e la memoria neghi pubblicamente, attraverso i social, una tragedia immane come quella delle foibe in nome di un’ideologia seguita ormai da pochi nostalgici bolscevichi». Così Luciano Sandonà, consigliere regionale del gruppo Zaia Presidente, risponde tramite una nota «alle polemiche sollevate da post su Facebook pubblicato dalla sezione Anpi di Rovigo. «L’Anpi di Rovigo ha citato la foiba di Basovizza, parlandone come di una `vergognosa fandonia´ - continua Sandona’ - non solo quindi ha negato una tragedia ancora oggi troppo poco conosciuta e condannata, ma ha calpestato in modo vergognoso la memoria delle vittime innocenti barbaramente trucidate negli inghiottitoi carsici e di tutti quei cittadini di origine italiana del Venezia Giulia, Istria e Dalmazia costretti a lasciare le loro case per evitare l’atroce persecuzione delle truppe del maresciallo Josip Broz Tito».

La difesa. «L'Anpi non ha mai negato l'esistenza delle foibe, né ha neanche di sfuggita accennato alla vicenda dei profughi istriani. Il nostro riferimento era all'esistenza delle foibe come descritte dalla vulgata di destra». Afferma in una nota il comitato provinciale dell'Anpi di Rovigo, dopo le polemiche per un post sulla pagina Facebook nel quale le foibe venivano definite «un'invenzione storica». L'Anpi aggiunge che in un post successivo era stato pubblicato un link al sito dell'Associazione «La Nuova Alabarda» dove, sulla base di documenti, «se ci si prende la briga di leggerli, si potrà scoprire che il numero degli infoibati a Basovizza è infinitamente inferiore a quelli propagandati; tanto che abbiamo invitato a leggere il dossier prima di commentare, ma è evidente ciò non è avvenuto». L'Anpi rimanda quindi alla posizione ufficiale sulle foibe dall'associazione nazionale nel congresso nel 2016, e ribadisce di «non volersi prestare a polemiche o strumentalizzazioni sulle Foibe, ritenendo che i documenti degli storici abbiano chiarito ruoli e responsabilità».

L'Anpi: «Le foibe sono un'invenzione dei fascisti, Basovizza è fandonia», scrive il Il Gazzettino Lunedì 28 Gennaio 2019. «Eh sarebbe bello spiegare ai ragazzi delle medie che le foibe le hanno inventate i fascisti, sia come sistema per far sparire i partigiani jugoslavi, che come invenzione storica. Tipo la vergognosa fandonia della foiba di Basovizza...». Sono le parole-choc di un post pubblicato su Facebook da Anpi Rovigo, l'associazione partigiani. Il post di Anpi Rovigo, però, è stato subito contestato dai naviganti di Fb, e ben presto è stato oggetto di dure reazioni politiche, nelle quali tra l'altro si chiede se non sia arrivato il momento di tagliare i fondi pubblici di cui godono queste associazioni.

LA MEZZA "RETROMARCIA". «L'Anpi non ha mai negato l'esistenza delle foibe, né ha neanche di sfuggita accennato alla vicenda dei profughi istriani. Il nostro riferimento era all'esistenza delle foibe come descritte dalla vulgata di destra». Lo afferma una nota del comitato provinciale dell'Anpi di Rovigo, dopo le polemiche per un post sulla pagina Facebook nel quale le foibe venivano definite «un'invenzione storica». L'Anpi aggiunge che in un post successivo era stato pubblicato un link al sito dell'Associazione «La Nuova Alabarda» dove, sulla base di documenti, «se ci si prende la briga di leggerli, si potrà scoprire che il numero degli infoibati a Basovizza èinfinitamente inferiore a quelli propagandati; tanto che abbiamo invitato a leggere il dossier prima di commentare, ma è evidente ciò non è avvenuto».

LUCIANO SANDONÀ (GRUPPO ZAIA PRESIDENTE). «È sconcertante e allarmante vedere come un’associazione che si vanta di tramandare la storia e la memoria neghi pubblicamente, attraverso i social, una tragedia immane come quella delle foibe in nome di un’ideologia seguita ormai da pochi nostalgici bolscevichi”. Così Luciano Sandonà, Consigliere regionale del gruppo Zaia Presidente, risponde tramite una nota “alle polemiche sollevate da un post su Facebook pubblicato dalla sezione Anpi di Rovigo, in cui l’associazione dei partigiani rodigina ha parlato delle foibe come "un’invenzione’" dei fascisti utilizzata per far sparire i partigiani jugoslavi. L’Anpi di Rovigo ha citato lafoiba di Basovizza, parlandone come di una "vergognosa fandonia" - continua Sandonà -. Preoccupa vedere come il negazionismo sia ancora così forte - conclude il Consigliere di Zaia Presidente - e che, pur di proteggere un’ideologia politica, non ci si faccia scrupolo di passare sopra le 11mila persone che hanno trovato la morte in quelle foibe da loro definite “invenzione storica”».

LUCA DE CARLO (FdI). «Trovo vergognoso e inaccettabile il post Facebook dal sapore negazionista pubblicato alla vigilia del Giorno del Ricordo dall'ANPI di Rovigo secondo il quale le foibe sono una invenzione dei fascisti». Lo afferma Luca De Carlo, deputato veneto di Fratelli d'Italia, annunciando una interrogazione parlamentare al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e per conoscenza ai ministri dell'Interno, della Difesa e dei Beni culturali. «Vogliamo sapere - aggiunge De Carlo - come possa una sezione di un'associazione che riceve centinaia di migliaia di euro di finanziamenti statali e locali permettersi di insultare le tante vittime del regime di Tito e i loro parenti. Il Presidente Conte spieghi come vengono spesi i finanziamenti accordati all'ANPI e soprattutto se non sia il caso di rivederli in virtù di queste e altre dichiarazioni di pessimo gusto rilasciate sempre dalle varie sezioni dell'ANPI.

ROBERTO NOVELLI (FI). Anche Roberto Novelli, deputato di Forza Italia, accusa l'Anpi di Rovigo: «E’ inaccettabile che l’Anpi - ultima la sezione di Rovigo con un indegno post sul proprio profilo facebook, poi cancellato - prosegua imperterrita a minimizzare e talvolta negare, come in quest’ultimo caso, la tragedia delle Foibe, una drammatica pagina di storia che ha già subito per troppi anni una vergognosa opera di rimozione. Ho dato mandato ai legali di presentare denuncia contro l’Anpi Rovigo ai sensi dell’articolo 604 bis del Codice penale, che prevede la pena da due a sei anni per chi minimizza in modo grave e pubblico la Shoah o i crimini di genocidio, di guerra o contro l’umanità”.

MATTEO SALVINI (LEGA). «L'Associazione partigiani di Rovigo nega l'esistenza delle foibe, definendole fandonie. FATE SCHIFO. La sinistra che tanto ama e coccola i clandestini non si fa problemi a calpestare la memoria dei nostri connazionali massacrati per la sola colpa di essere ITALIANI» scrive il ministro dell'Interno Matteo Salvini in un post su facebook.

EMANUELE FIANO (PD). «Trovo molto grave che l'Anpi di Rovigo cancelli la vicenda delle Foibe, i crimini contro l'umanità vanno ricordati tutti, e quello fu esattamente questo». Lo scrive su Facebook Emanuele Fiano, della presidenza del gruppo Pd alla Camera.

Foibe, fuori dalle scuole di Roma i negazionisti. La destra all’attacco dell’Anpi e della Raggi, scrive mercoledì 23 gennaio 2019 secoloditalia.it. "Ho presentato una interrogazione al ministro dell’Istruzione sollevando il caso dell’iniziativa promossa dall’Anpi di Roma e patrocinata dal Campidoglio in occasione delle celebrazioni per il Giorno del Ricordo, il 10 febbraio. Il progetto destinato alle scuole, infatti, invece di ricordare i tragici fatti del confine orientale che portarono all’esodo di migliaia di italiani e ad un vero e proprio eccidio culminato con le torture e gli infoibamenti dei nostri connazionali, si pone su tesi giustificazioniste”. Lo dichiara Maurizio Gasparri (Forza Italia). “Le vicende delle Foibe e del confine orientale -aggiunge- rappresentano una triste pagina di storia italiana dimenticata per molti anni e che soltanto da poco, grazie al lavoro delle associazioni e di una parte politica, è stata finalmente portata alla luce arrivando, appunto, all’istituzione di una giornata commemorativa”. “Ma a quanto pare - continua Gasparri - non è così per tutti e l’Anpi, che evidentemente guarda ancora con nostalgia alle efferate gesta del compagno Tito, riprende una vergognosa prassi antistorica che purtroppo ha dominato per gran parte del secolo scorso e che finalmente sembrava estinta, così come il comunismo che l’aveva alimentata”.

No alle teorie negazioniste. “Esigiamo quindi l’intervento immediato del ministero - prosegue Gasparri - affinché vieti qualsiasi incontro di questo genere e ci auguriamo che anche la Raggi ascolti l’appello che arriva dalle famiglie di chi ha sofferto sulla propria pelle quei tragici fatti e cancelli il proprio sostegno ad un vero e proprio incontro negazionista”. Sempre sul tema delle foibe è stata approvata alla Camera in commissione cultura la mozione di Fratelli d’Italia che vincola i soli testimoni diretti e le associazioni degli esuli istriani, giuliani e dalmati a parlare nelle scuole della tragedia delle foibe. Federico Mollicone e Paola Frassinetti, deputati di Fratelli d’Italia e firmatari della mozione, spiegano: “Si evidenzia come sia necessario impedire che tali eventi vengano minimizzati o che siano oggetto di teorie negazioniste non corrispondenti alla realtà storica di quei tragici fatti. Il governo, pur nel rispetto dell’autonomia scolastica, ha anche accolto la richiesta che vengano proiettati nelle scuole, documentari e filmati come "Rosso Istria". Fdi ringrazia tutti i gruppi parlamentari per la sensibilità dimostrata”.

Foibe, la vergogna e il ricordo: "No ai negazionisti nelle scuole". Dopo le scritte deliranti, gli eventi: il film in Zona 7 e alla Camera la mozione FdI, scrive Alberto Giannoni, Lunedì 04/02/2019, su Il Giornale. Ricordare è doveroso. Lo confermano le scritte deliranti apparse l'altro giorno a Milano, sul muro di una scuola media in via Tabacchi. Di fronte al dilagare dell'ignoranza e dell'odio politico, è necessario tenere viva la memoria di quella tragedia, la tragedia delle migliaia di italiani che furono perseguitati, cacciati e massacrati nelle cavità carsiche del fronte orientale, durante la Seconda guerra mondiale e anche nell'immediato dopoguerra. Diverse iniziative sono in programma a Milano, in vista del giorno del ricordo, che si celebra il 10 febbraio come stabilisce una legge del 2004. E per combattere negazionismi e propaganda, la deputata milanese di Fratelli d'Italia, Paola Frassinetti, ha presentato in commissione Cultura una mozione, approvata all'unanimità, che impegna il governo a intervenire per fare in modo che nelle scuole vadano a parlare delle foibe solo figure qualificate. Il governo dovrà emanare delle circolari coerenti con questo impegno, impedendo il ripetersi di casi - come quelli recenti con l'Anpi - di iniziative ispirate o condizionate da un approccio negazionista. «È importante - spiega Frassinetti - che nel giorno nel ricordo gli studenti siano informati in modo corretto e che vadano nelle scuole dei testimoni oculari o le associazioni di esuli istriani, dalmati, giuliani e fiumani. Figure competenti e non chi va a fare propagandare o a minimizzare, perché questo è offensivo verso i martiri». Con lo stesso spirito la Zona 7 ha organizzato (sabato alle 17 al cinema Gloria in corso Vercelli 18) la proiezione di Red Land. «L'idea è della presidente del Consiglio - spiega il presidente Marco Bestetti - e l'abbiamo portata avanti per due ragioni: sappiamo che una parte del nostro Paese non ha ancora fatto i conti con una pagina nera della sua storia. Molti ragazzi non sanno niente delle foibe e della tragedia di quegli italiani che erano colpevoli solo di non essere comunisti». «Molti ragazzi - prosegue il presidente Bestetti - non ne sanno nulla e di fronte a questo silenzio che ci siamo portati dietro per 60 anni, questa storia dobbiamo guardarla negli occhi, senza nascondere nulla e senza mistificare». Red Land racconta la vicenda di Norma Cossetto, studentessa universitaria uccisa dai titini nel 1943 (e insignita della medaglia d`oro al merito civile dal presidente Carlo Azeglio Ciampi nel 2005). «Quando è uscito - prosegue Bestetti - abbiamo letto che c'era il classico boicottaggio di una certa sinistra, che mal digerisce il racconto una pagina fastidiosa: abbiamo deciso di dare quanta più visibilità possibile non solo e non tanto al film, quando alla vicenda. Se la sinistra lo boicotta, noi portiamo il film in un cinema di Milano, e lo facciamo - unica istituzione - gratuitamente, per tutti i cittadini, facendoci carico dei costi e in collaborazione con l'associazione Venezia-Giulia Dalmazia». Ci sarà anche l'attrice che interpreta Norma. Il Municipio 2, con il vicepresidente e assessore alla Cultura Marzio Nava, sta lavorando alla presentazione di un libro. E il Municipio 5 a una mostra, che sarà inaugurata il 9 febbraio alle 16 in via Tibaldi. «Presentiamo questa mostra che racconta con mezzi diversi la storia di Norma Cossetto - spiega il consigliere Carlo Serini - una storia a lungo negata dal mainstream della sinistra, anche se nota da sempre». «Ci sono dati e documenti, ma si sta affermando una lettura negazionista. Stupisce sentir parlare i negazionisti e stupisce che non ci sia, quando parlano, la stessa reazione che c'è, giustamente, quando viene negata la Shoah. In quella scritta in via Tabacchi, per esempio, c'è l'ignoranza catastrofica di chi pensa che le foibe siano una roba di fascisti quando invece fu una strage di italiani. Perciò è fondamentale il giorno del ricordo». E il presidente di Zona 4 Paolo Bassi nota: «I manifesti affissi vicino a queste scritte terribili sono una firma. Sono comparsi anche in zona Corvetto insieme a insulti alla Polizia, bestemmie e appelli alla rivolta. Nella discussione di una documento di condanna in Consiglio di Municipio il centrosinistra ha polemizzato per ore su come definirli. A me colpisce sempre il silenzio'. Insulti beceri come questi, non suscitano mai una presa di distanze o una condanna tempestiva di chi governa Palazzo Marino». 

Il Pd non vuol far proiettare il film sull'orrore delle foibe. Polemiche dall'opposizione in Zona 7. "Preferibile fare un evento sopra le parti", scrive Alberto Giannoni, Martedì 05/02/2019, su Il Giornale. Non piace a tutti la decisione del Municipio 7, che ha deciso di far proiettare al cinema il film «Red Land. Rosso Istria». L'evento costa, secondo un consigliere del Pd: 2mila euro che secondo lui avrebbero potuto essere spesi per «un convegno storico sulle foibe con esperti al di sopra delle parti». Si accende una polemica imprevista dunque, in Zona 7, sull'iniziativa deliberata in occasione della Giornata del ricordo, la ricorrenza dedicata alle vittime delle foibe. Il presidente del Municipio, Marco Bestetti, con la sua maggioranza ha deciso alcune settimane fa di promuovere la proiezione in un cinema milanese del film «Red Land», che ricostruisce la vicenda di Norma Cossetto, studentessa universitaria uccisa dai titini nel 1943. La proiezione è stata organizzata dal Municipio per sabato al cinema Gloria di corso Vercelli 18. E il consigliere Lorenzo Zacchetti (Pd) ha criticato l'iniziativa e il biglietto pagato ai cittadini dal Municipio. «Un biglietto decisamente caro - ha scritto - visto che si spendono 2mila euro (+ Iva) per far vedere un film che la sera prima va in onda su Rai3, ovviamente gratis. Complimenti per la capacità organizzativa! Con quei soldi non sarebbe stato meglio organizzare un convegno storico sulle foibe con esperti al di sopra delle parti?». In effetti la Rai nei giorni scorsi ha deciso di mandare in onda il film. Ma proiezioni simili sono state organizzate anche in altre città: a Lodi per esempio, stasera al cinema Moderno col vicesindaco Lorenzo Maggi. E a Montichiari, stasera. O a Seveso, dopodomani, o a Bergamo, o a Gallarate, sempre giovedì. Alle critiche che arrivano dalla sinistra il presidente Bestetti replica così: «Non mi stupiscono, anzi confermano quello che ho detto, che parlare di foibe fa ancora paura a qualcuno. Per l'importo, posso dire che la giunta fissa tetti massimi, poi sono gli uffici a trattare il prezzo migliore. Ma vorrei parlare dell'aspetto storico, culturale: sono proprio reazioni simili, da parte di un Pd sempre più spostato a sinistra, che ci fanno capire quanto ancora ci sia da lavorare, per parlare di episodi così bui, che qualcuno vorrebbe ancora sotto silenzio». «Non si capisce in base a cosa il film debba essere considerato di parte, e come la sinistra possa decidere cosa far vedere e cosa no». Intanto un altro appuntamento si segnala nel Municipio 4 del presidente Paolo Bassi, che ospita quello che attualmente è l'unico monumento in città dedicato alle vittime delle foibe. Giovedì sarà inaugurata l'illuminazione della stele e sarà aperta l'esposizione del fumetto «Foiba rossa», dedicato alla Cossetto, con interventi di Luciano Garibaldi, Giuseppe Manzoni di Chiosca e Claudio Giraldi, oltre che dello stesso Bassi. E in Zona 5, sono state finalmente cancellate le odiose scritte pro-foibe apparse nei giorni scorsi. Prima con l'intervento estemporaneo da alcuni militanti di destra, poi grazie al presidente della commissione Ambiente Alessandro Giacomazzi (Lega), che col collega Carlo Serini (Fdi) ha chiesto al Niur del Comune di intervenire. «Ringrazio il reparto che, come sempre, interviene celermente per ripristinare l'ordine - ha dichiarato Giacomazzi - Questa è un'azione che concretizza l'importanza del Municipio e di chi lavora capillarmente per il bene e decoro del suo territorio», mentre Serini ha sottolineato «l'assordante silenzio del sindaco e della maggioranza di sinistra del Comune».

Matteo Salvini non fa sconti all'Anpi, scrive il 4 febbraio 2019 Quotidiano.net. "È necessario rivedere i contributi alle associazioni, come l'Anpi, che negano le stragi fatte dai comunisti nel dopoguerra", dice il ministro dell'Interno a proposito delle polemiche per il convegno “Foibe e fascismo”, organizzato dall'Associazione nazionale dei partigiani il 10 febbraio a Parma. L'attacco di Salvini è l'ultimo di una lunga serie: critiche sono giunte nelle ultime ore sia da destra, sia da sinistra. Prima il post negazionista dell'Anpi di Rovigo, poi il caso Parma. Il logo dell'associazione compare sulla locandina del convegno revisionista "Foibe e Fascismo 2019", la "Quattordicesima edizione della contromanifestazione cittadina in occasione del Giorno del Ricordo" in programma il 10 febbraio alle 10.30 al Cinema Astra nella città ducale. Con l'Anpi ci sono anche l'Anppia, l'associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti, e il Comitato antifascista antimperialista e per la memoria storica a patrocinare l'evento, che vede gli interventi di alcuni storici già finiti al centro delle polemiche per le loro posizioni revisioniste. A Parma parlerà innanzitutto Sandi Volk, durante una conferenza dal titolo "I morti delle foibe riconosciuti dalla legge: 354, quasi tutti delle forze armate dell'Italia fascista". Nel programma anche una serie di letture di "testimonianze di antifascisti e partigiani". Ma sono soprattutto i due video, che verranno proiettati alla conferenza, a scatenare la polemica e le accuse di negazionismo.  Il primo è ''La foiba di Basovizza: un falso storico'' di Alessandra Kersevan, l'altro è ''Norma Cossetto: un caso tutt'altro che chiaro'' di Claudia Cernigoi. Entrambi sonoi autori del sito 'giustificazionista' '10 febbraio 1947', sul quale tra l'altro si legge che il convegno in questione è "a cura del Comitato Antifascista Antimperialista e per la Memoria Storica con l'adesione di Anpi e Anppia". Duri attacchi all'associazione, oltre che dalla Lega, sono arrivati da Fratelli d'Italia e da alcuni esponenti di Forza Italia. Ma a prendere le distanze è stata anche la deputata Pd Debora Serracchiani. "Esiste una legge dello Stato approvata a grandissima maggioranza dal Parlamento che istituisce il Giorno del Ricordo - ha dichiarato l'ex governatrice del Friuli Venezia e Giulia -: il giustificazionismo o peggio il negazionismo delle Foibe non sono accettabili, da qualunque parte vengano e a prescindere da un film su cui ognuno puo' avere la sua opinione". Con il termine Foibe si intendono gli eccidi compiuti dai partigiani jugoslavi ai danni della popolazione italiana della Venezia Giulia e della Dalmazia durante la Seconda Guerra Mondiale e nell'immediato dopoguerra. I massacri si concentrarono nell'Istria meridionale (oggi territorio croato): secondo alcuni storici si trattò di una sorta di rivolta spontanea delle popolazione rurali, in parte slave. Una vendetta delle violenze e dei torti subiti durante il dominio fascista. Secondo altri storici, invece, gli eccidi furono l'inizio di una pulizia etnica nei confronti della popolazione italiana. Si stima che nelle foibe morirono tra i 250mila e i 350mila

I partigiani ora ammettono la vergogna di esodo e foibe. Il coordinatore dell'Anpi veneto riconosce che molti perseguitati italiani non erano fascisti ma oppositori del nuovo regime comunista e illiberale, scrive Fausto Biloslavo su “Il Giornale”. Si scusa con gli esuli in fuga dall'Istria, da Fiume e dalla Dalmazia per l'accoglienza in patria con sputi e minacce dei comunisti italiani. Ammette gli errori della facile equazione profugo istriano uguale fascista e della simpatia per i partigiani jugoslavi che non fece vedere il vero volto dittatoriale di Tito. Riconosce all'esodo la dignità politica della ricerca di libertà. Maurizio Angelini, coordinatore dell'Associazione nazionale partigiani in Veneto, lo ha detto a chiare lettere venerdì a Padova, almeno per metà del suo intervento. Il resto riguarda le solite e note colpe del fascismo reo di aver provocato l'odio delle foibe. L'incontro pubblico è stato organizzato dall'Associazione Venezia Giulia e Dalmazia con l'Anpi, che solo da poco sta rompendo il ghiaccio nel mondo degli esuli. Molti, da una parte e dall'altra, bollano il dialogo come «vergognoso». Angelini ha esordito nella sala del comune di Padova, di fronte a un pubblico di esuli, ammettendo che da parte dei partigiani «vi è stata per lunghissimi anni una forte simpatia per il movimento partigiano jugoslavo». Tutto veniva giustificato dalla lotta antifascista, compresa «l'eliminazione violenta di alcune centinaia di persone in Istria - le cosiddette foibe istriane del settembre 1943; l'uccisione di parecchie migliaia di persone nella primavera del 1945 - alcune giustiziate sommariamente e precipitate nelle foibe, soprattutto nel Carso triestino, altre - la maggioranza - morte di stenti e/o di morte violenta in alcuni campi di concentramento jugoslavi soprattutto della Slovenia». Angelini ammette, parlando dei veri disegni di Tito, che «abbiamo colpevolmente ignorato la natura autoritaria e illiberale della società che si intendeva edificare; abbiamo colpevolmente accettato l'equazione anticomunismo = fascismo e ascritto solo alla categoria della resa dei conti contro il fascismo ogni forma di violenza perpetrata contro chiunque si opponeva all'annessione di Trieste, di Fiume e dell'Istria alla Jugoslavia». Parole forti, forse le prime così nette per un erede dei partigiani, poco propensi al mea culpa. «Noi antifascisti di sinistra - sottolinea Angelini - non abbiamo per anni riconosciuto che fra le motivazioni dell'esodo di massa delle popolazioni di lingua italiana nelle aree istriane e giuliane ci fosse anche il rifiuto fondato di un regime illiberale, autoritario, di controlli polizieschi sulle opinioni religiose e politiche spinti alle prevaricazioni e alle persecuzioni». Il rappresentante dei partigiani ammette gli errori e sostiene che va fatto di più: «Dobbiamo riconoscere dignità politica all'esodo per quella componente di ricerca di libertà che in esso è stata indubbiamente presente». Gli esuli hanno sempre denunciato, a lungo inascoltati, la vergognosa accoglienza in Italia da parte di comunisti e partigiani con sputi e minacce. Per il coordinatore veneto dell'Anpi «questi ricordi a noi di sinistra fanno male: ma gli episodi ci sono stati e, per quello che ci compete, dobbiamo chiedere scusa per quella viltà e per quella volgarità». Fra il pubblico c'è anche «una mula di Parenzo» di 102 anni, che non voleva mancare. Il titolo dell'incontro non lascia dubbi: «Ci chiamavano fascisti, ci chiamavano comunisti, siamo italiani e crediamo nella Costituzione». Italia Giacca, presidente locale dell'Anvgd, l'ha fortemente voluto e aggiunge: «Ci guardavamo in cagnesco, poi abbiamo parlato e adesso ci stringiamo la mano». Adriana Ivanov, esule da Zara quando aveva un anno, sottolinea che gli opposti nazionalismi sono stati aizzati prima del fascismo, ai tempi dell'impero asburgico. Mario Grassi, vicepresidente dell'Anvgd, ricorda le foibe, ma nessuno osa parlare di pulizia etnica. Sergio Basilisco, esule da Pola iscritto all'Anpi, sembra colto dalla sindrome di Stoccolma quando si dilunga su una citazione di Boris Pahor, scrittore ultra nazionalista sloveno poco amato dagli esuli e sulle vessazioni vere o presunte subite dagli slavi. Con un comunicato inviato al Giornale, Renzo de' Vidovich, storico esponente degli esuli dalmati, esprime «perplessità di fronte alle prove di dialogo con l'Anpi» che farebbero parte di «un tentativo del Pd di Piero Fassino di inserire i partigiani nel Giorno del ricordo dell'esodo». L'ex generale, Luciano Mania, esule fiumano, è il primo fra il pubblico di Padova a intervenire. E ricorda come «solo due anni fa a un convegno dell'Anpi sono stato insultato per un quarto d'ora perché avevo osato proporre l'intitolazione di una piazza a Norma Cossetto», una martire delle foibe. In sala tutti sembrano apprezzare «il disgelo» con i partigiani, ma la strada da percorrere è ancora lunga e insidiosa.

I FINANZIAMENTI AI NEGAZIONISTI.

Dal governo pioggia di milioni al cinema "rosso", scrive di Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Ce l’ha fatta Walter Veltroni, che al suo esordio da regista cinematografico ha strappato il prezioso riconoscimento di «opera di interesse culturale» per il docufilm Quando c’era Berlinguer prodotto dalla Palomar di Carlo Degli Esposti (la stessa del commissario Montalbano). Non ce l’ha fatta invece Sabina Guzzanti, con la sua Trattativa che purtroppo per lei non pizzica solo Silvio Berlusconi, ma pure Giorgio Napolitano. La sottocommissione del ministero dei Beni culturali guidato da Massimo Bray non le ha concesso il riconoscimento culturale, che Veltroni è riuscito a strappare per il rotto della cuffia (17° sui 18 ammessi). Meglio di Veltroni è riuscito un altro esordiente che fa riferimento alla medesima area politico-culturale: Ascanio Celestini, che ha ottenuto anche 150 mila euro per produrre il suo Viva la sposa. Poco prima di Natale il ministero dei Beni culturali ha sfornato una bella pioggia di contributi diretti e indiretti attraverso i riconoscimenti che faranno incassare abbondanti agevolazioni fiscali (l’interesse culturale a questo serve). Fra i fortunati che hanno conquistato anche la dichiarazione di eccellenza che il ministero rilascia ai film di essai c’è pure La mafia uccide d’estate di Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, la iena nota anche per essere il compagno di Giulia Innocenzi, da anni spalla televisiva di Michele Santoro. Il giudizio di eccellenza concesso all’opera prima di Pif consente infatti di ottenere vantaggi fiscali diretti e indiretti e anche un premio in denaro alle sale che lo trasmettono, calibrato sulla lunghezza del periodo in cui esso rimane in programmazione. È un attestato che nell’ultimo anno e mezzo è stato concesso a grandissimi registi internazionali, come Roman Polanski (Venere in Pelliccia), Quentin Tarantino (Django), Ang Lee (Vita di P), Steven Spielberg (Lincoln), Martin Scorsese (Hugo Cabret) e fra gli italiani Paolo Sorrentino (La grande bellezza), Marco Bellocchio (Bella addormentata) e Giuseppe Tornatore (La migliore offerta). Nella doppia delibera di finanziamento della sottocommissione a dicembre ci sono per altro quasi tutti gli habituè della cassa del ministero. Ottiene un milione di euro Matteo Garrone per Il racconto dei racconti, trasposizione cinematografica de Lo conto de li cunti. Novecentomila euro a Ozpetek per il suo Allacciate le cinture, ottocentomila euro a testa per firme sicure del cinema italiano come Ermanno Olmi (Cumm’è bella ‘a muntagna stanotte) e i fratelli Paolo e Vittorio Taviani (Meraviglioso Boccaccio). Ha ottenuto 300 mila euro anche Carlo Verdone (solo per la distribuzione) per il suo Sotto una buona stella, e centomila di più ne ha strappati Michele Placido con La scelta. Non mancano Francesca Archibugi (Il nome del figlio), che ottiene 500 mila euro, né Marco Bellocchio (La Prigione di Bobbio) e Cristina Comencini (Latin lover) che hanno incassato 400 mila euro di contributi pubblici. Fra i nomi noti strappa 350 mila euro Abel Ferrara per un film su Pasolini, stessa somma ottenuta dal regista più amato dalla Lega, Renzo Martinelli con il suo The missing paper. Hanno invece chiesto e ottenuto al posto dei contributi il riconoscimento di film di interesse culturale sia Nanni Moretti per il suo prossimo Margherita che Carlo Vanzina per Sapore di te, appena uscito nelle sale e perfino Enrico Vanzina per Un matrimonio da favola. È proprio un bello scherzo fatto da Bray, quello di mettere appaiati sullo stesso altissimo piano il cinema di Moretti e quello dei Vanzina. Il riconoscimento di interesse culturale è stato ottenuto a dicembre anche da Giovanni Veronesi (Una donna per amico) e da Paolo Genovese (Tutta colpa di Freud). Bocciati perché è stato ritenuto assai scarso il valore del soggetto e della sceneggiatura sia la Guzzanti, che ha ottenuto 28 punti nella valutazione finale, ben al di sotto del minimo di 36 utili ad essere presi in considerazione per finanziamenti e riconoscimenti, e anche Asia Argento (figlia del maestro dell’horror Dario), che ha proposto il suo Incompresa. Non è stato appunto compreso dalla sottocommissione ministeriale di Bray, che comunque ha assegnato a soggetto e sceneggiatura il punteggio di 34, a un soffio dalla sufficienza, e ben superiore a quello ottenuto dall’altra silurata eccellente. Grazie a questa piccola rivoluzione nelle classifiche tradizionali dei beniamini del ministero, qualche maldipancia a sinistra verrà certamente vissuto. Può diventare un caso politico quella sliding door grazie a cui è entrato Veltroni ed è uscita di scena la comica più amata dall’ala militante. Può attutire il colpo l’occhio di riguardo mostrato per Pif, ma non toglierà il sospetto su una bocciatura che sembra avere una fisionomia più politica e istituzionale che stilistica.

La notizia è che Film commission della regione Toscana è riuscita a elargire decine di migliaia di euro per finanziare il filmino di due indagati in diverse inchieste giudiziarie, scrive Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. Il consigliere regionale di Fratelli d’Italia Giovanni Donzelli, quando apprende la vicenda, scuote la testa: «Pensi che la Regione Toscana per mettere a posto i conti ha chiesto ai suoi cittadini di pagare, oltre al ticket, una gabella di 10 euro, con la scusa della digitalizzazione, per tac, radiografie e altri esami diagnostici anche se i pazienti sono poveri o malati terminali». La nostra storia riguarda Paolo Oliverio, commercialista quarantasettenne con la passione per gli affari con i padri Camilliani e gli 007, arrestato a novembre per sequestro di persona nell’ambito di un’inchiesta per riciclaggio. Oliverio dal gennaio 2013 è socio della Poyel produzioni, con capitale sociale di 100 mila euro, azienda trasferita a Napoli a ottobre e infine messa in liquidazione nel dicembre 2013, un mese dopo l’arresto di Oliverio. Nonostante la breve esistenza, la Poyel ha fatto in tempo, si apprende da Internet, a produrre il film «Giallo toscano», un thriller girato a Buonconvento (Siena), realizzato insieme con l’Accademia dei risorti, società di produzione cinematografica con sede proprio nel piccolo comune senese. Grazie al trailer si scopre pure che il film è stato realizzato con il contributo della Regione toscana e della Toscana film commission. Che ha versato, secondo i produttori, 30 mila euro. La trama è semplice: una mattina di giugno due tartufai in cerca di tuberi trovano il cadavere di una giovane archeologa. Inizia a questo punto la caccia all’assassino. Al film ha contribuito con la propria partecipazione gran parte della popolazione del paese. L’idea è stata del presidente dell’accademia, Lorenzo Borgogni, per quasi vent’anni influente portavoce di Finmeccanica, originario di Siena e residente a Buonconvento. La figlia Benedetta ha fatto l’aiutoregista. Anche Borgogni, come Oliverio, ha avuto le sue traversie giudiziarie: indagato nel 2011 nell’inchiesta su Finmeccanica, ha patteggiato una pena di tre mesi di reclusione per finanziamento illecito ai partiti e resta sotto processo per altri reati; attualmente è coinvolto anche nell’indagine sulle presunte mazzette pagate per la fornitura degli autobus di Roma Capitale. Tutto questo non ha impedito alla Regione Toscana di finanziare il progetto. «Ma il film di Buonconvento con Oliverio non c’entra nulla» puntualizza Borgogni con Libero. «È stato realizzato nel 2012 e la Poyel è nata nel 2013». Eppure nei titoli c’è scritto che è stato prodotto dalla Poyel: «In realtà l’abbiamo inserito in quel catalogo per vedere se si poteva domandare qualche contributo con questa nuova società. I soldi dalla Toscana film commission li abbiamo ottenuti come Accademia dei risorti, di cui sono presidente: 25-30 mila euro in tutto». La toppa sembra peggiore del buco: il pluriindagato Borgogni ottiene denaro pubblico per un’opera sul suo paese e poi con una società affidata a Oliverio e che millanta di aver prodotto un film non suo prova a ottenere altri finanziamenti. Ma come approda il fiscalista alla Poyel? «L’abbiamo fondata io e il mio amico Alfonso Gallo: lui ci ha messo dentro suo fratello e io Oliverio» risponde Borgogni. In effetti alla camera di commercio si apprende che soci al 50 per cento della Poyel sono la General holding company spa dei Gallo e Reb venture srl, in cui sono soci Borgogni e Oliverio, che possiede il 5 per cento delle quote. I due sono insieme anche nella System plus srl. «Nei giorni scorsi, dopo aver letto le notizie sulle presunte attività illecite di Oliverio abbiamo fatto dei controlli e scoperto numerose operazioni sospette e non autorizzate da Borgogni sui conti delle due società» avverte l’avvocato Stefano Bortone, difensore dell’imprenditore. «Per questo abbiamo presentato denuncia contro Oliverio per appropriazione indebita». L’ennesimo colpo di scena nella vicenda giudiziaria del fiscalista romano. Eppure i due erano diventati amici, dopo essersi incontrati per la prima volta tre anni fa: «L’ho conosciuto nel settembre 2010 quando ero ancora in Finmeccanica e cercavo un commercialista. Me lo presentò come professionista dello studio Lupi, un compaesano, un ex giocatore della nazionale di calcio che lo conosceva dai tempi di Milano» ricorda Borgogni. Dopo poco i due si persero di vista. Per poi rincontrarsi qualche mese più tardi: «Quando uscii da Finmeccanica Oliverio mi propose di realizzare un’attività immobiliare perché era in contatto con questa fondazione dei Camilliani che aveva molti appartamenti da valorizzare. Per questo abbiamo fondato la Reb venture, io ci ho messo i soldi, lui faceva l’amministratore. Successivamente mi ha detto che erano stati fatti dei compromessi per delle vendite, ma io non so come sia andata a finire». I due condividevano anche un ufficio a Roma, in via Gregoriana: «Ma io ci sono entrato una sola volta, poco prima che arrestassero Oliverio» aggiunge l’ex portavoce di Finmeccanica. Borgogni frequentava pure la casa del commercialista in piazza di Spagna: «Uno splendido appartamento all’angolo con via del Babuino. Ricordo che una sera a cena c’era pure padre Renato Salvatore (superiore generale dei Camilliani, arrestato insieme con Oliverio per l’accusa di sequestro di persona ndr); il commercialista nove volte su dieci parlava dei Camilliani, delle loro proprietà a Casoria, Palermo, Messina, mi chiedeva se avessi dei manager. Gliene trovai uno che lui, però, non ricontattò mai, perché cambiava continuamente idea. Il personaggio era strano, io me ne accorsi dopo un po’: per esempio non si presentava agli appuntamenti, trovando le scuse più assurde». Come quando Borgogni gli fece acquistare una casa a Montalcino del valore di 700 mila euro: «Io gli fissavo gli appuntamenti con l’architetto, con l’ingegnere per la ristrutturazione e lui a volte non si presentava nemmeno». Con i commensali, Oliverio parlava anche del suo amore per le auto: «Girava in Mini, in Range Rover, ma aveva una grande passione per i rally. Ultimamente aveva fatto una gara a San Marino, dove aveva rotto la macchina». Forse quella Lancia Delta che gli investigatori sguinzagliati alle sue costole nel 2012 hanno imbottito di microspie e che Oliverio aveva acquistato di seconda mano, pagandola 9.400 euro. Il commercialista non aveva rapporti solo con i preti, ma anche con diversi appartenenti alla Guardia di finanza e ai servizi segreti. «Lui mi parlava di Giorgio Piccirillo (dal 2008 al 2012 direttore dei servizi segreti interni, l’Aisi ndr) e citava pure Paolo Poletti (ex numero 2 dell’Aisi ndr)» ricorda Borgogni. Due nomi già emersi nelle indagini. Ma ci sarebbero molti altri personaggi influenti nell’agenda di Oliverio. Uno dei collaboratori del fiscalista, arrestato con lui a novembre, davanti al gip ha dichiarato: «Io mi fidavo di Oliverio perché quando gli squillava il telefono io vedevo nomi noti. Vantava amicizie con A. B., ma più semplicemente con personaggi di alto rango istituzionale, con il presidente di Finmeccanica, con Lorenzo Borgogni. (…) Mi faceva vedere le telefonate forse per aumentare il suo credito nei miei confronti, io ancora non so chi sia questa persona». Un dubbio che perplime pure gli inquirenti.

Chi taglia i fondi spesi male non è nemico della cultura. Repubblica invoca la protezione del cinema italiano come avviene in Francia: ma così sarebbero finanziate solo le pellicole della solita matrice ideologica, scrive Renato Brunetta su “Il Giornale”. Sono tornati con i loro costumi damascati, la parrucca incipriata, la lingua forbita. Invocano l'intangibilità di un privilegio sacro: il cinema non si tocca! Così sabato Francesco Merlo su Repubblica ha stabilito che esiste un tempio intangibile ai comuni cittadini che, poveretti, sono costretti a fare i conti con il mercato globale. Gli imprenditori del tessile, e gli artigiani del mobile si arrangino. Non pretendano di dar lezioni ai sacerdoti del Sancta Sanctorum, il quale va preservato da mani immonde e venali: è la cultura, figlioli! Essa va difesa dai barbari americani e asiatici, da Hollywood e da Bollywood. La cultura, certo, va difesa. Senza cultura non esiste neanche l'uomo come tale. Il fatto è che bisogna pur stabilire che cos'è la cultura, e chi tra i suoi protagonisti meriti una tutela eccezionale. Ciò che è insopportabile è l'ipse dixit. È insopportabile e niente affatto democratico che Francesco Merlo ed altri pretendano di trasferire in Italia la legislazione francese sul cinema, e vogliano sigillare questo privilegio nella legislazione europea. Diciamolo: è l'eterna pretesa del carrozzone dello spettacolo e dei suoi tenutari di erigersi da se stessi a sovrani del mondo. Lo conosciamo quel vagone di primissima classe. Era dipinto di nero sotto il fascismo, si ritinteggiò di rosso e si lamenta sempre perché vorrebbe più rifornimenti e più riverenze al passaggio. Cambiano i regimi, ma non la rendita di chi vi si è accomodato con il biglietto pagato dalla gente comune. Ragioniamo da persone civili. Non è in discussione se finanziare la cultura: si tratta di stabilire cosa e come. I principi sono fissati dall'articolo 9 della Costituzione, che recita: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione». L'attribuzione del compito di tradurre questi principi in scelte operative, e la fissazione della forma e dei modi di svolgimento di questo compito, come è accaduto per diverse altre previsioni costituzionali, ha subìto varie mutazioni. Alcune felici, altre meno. Un po' di storia. Solo nel 1975 (governo Moro-La Malfa) fu istituito un ministero con compiti specifici, il ministero per i Beni culturali e ambientali, per volontà di Giovanni Spadolini, cui fu affidato. Nel 1998 nacque il ministero per i Beni e le attività culturali. Il passaggio della cura dello spettacolo da un ministero con finalità economico-industriali importanti (sport, turismo, spettacolo) a un ministero che doveva promuovere attività culturali non fu certamente casuale e costituì la premessa per le successive confusioni ideologiche. È bene ripartire dalla prima domanda: perché le arti e la cultura devono essere sussidiate? E ancora, assieme alle arti e alla cultura deve anche essere sussidiato lo spettacolo? Quando lo spettacolo - quello dal vivo e quello cinematografico - diventa cultura? L'arte e la cultura sono sussidiate in tutto il mondo. Per quanto riguarda lo spettacolo, in Italia gli aiuti statali sono anteriori all'istituzione, negli anni Ottanta, del Fus (Fondo unico per lo spettacolo). Per quanto riguarda il cinema, è utile oggi ricordare che nel 1963 fu introdotta una norma che subordinava l'erogazione del sussidio al divieto di realizzare opere in lingua inglese. La smentita venne da chi più se ne intendeva. Dino De Laurentiis ha più volte dichiarato che la decisione di trasferire la sua attività negli Stati Uniti fu causata da quella innovazione normativa. A questo punto s'impone un po' di sana teoria economica. Data la distribuzione esistente del reddito, i mercati competitivi soddisfano in modo ottimale, nella gran parte delle circostanze, le preferenze dei consumatori. In base a ciò ci sono due argomenti principali, e un terzo che li rafforza, per giustificare i sussidi pubblici. Il primo argomento ha a che fare con l'efficienza allocativa dei mercati. In presenza di certe imperfezioni che generano un'esternalità (negativa o positiva), una qualche forma di «fallimento di mercato» conduce a un'allocazione delle risorse non ottimale, che è l'oggetto dell'intervento pubblico correttivo. Un secondo tema ha a che fare con l'equità della distribuzione del reddito. La tesi può essere usata a sostegno di un intervento pubblico se si dimostra che la distribuzione ineguale del reddito rende l'arte e la cultura inaccessibili ai poveri. Il terzo argomento ha a che fare con il concetto di bene meritorio. I beni meritori sono quei beni che la società ha deciso, per qualche motivo, che sia desiderabile fornire in quantità maggiori di quelle che i consumatori acquisterebbero ai prezzi di mercato (senza sussidio). Per i beni artistici e culturali si può argomentare che l'ignoranza delle arti priva molte persone di esperienze da cui trarrebbero grande giovamento. In conclusione, il sussidio pubblico è giustificato essenzialmente dal fallimento del mercato nel produrre la quantità socialmente ottimale di arte e cultura. Ecco perché il finanziamento delle attività culturali pone non pochi problemi. Si può, infatti, decidere di sussidiare l'industria cinematografica semplicemente per proteggere gli occupati di quel settore giudicato per qualche motivo un settore sensibile, così come si può decidere di effettuare investimenti infrastrutturali utili al settore o sostenere scuole di formazione. Il cinema italiano sarà competitivo solo con produttori che rischiano in proprio, non con produttori che si limitano ad amministrare l'obolo pubblico. Il che vale in generale. Concludendo, aver mescolato «ministerialmente» la cultura e lo spettacolo ha complicato e confuso le cose. Ha prodotto una grande e ignobile mistificazione: ogni volta che si chiede di tagliare il denaro speso male (e cioè di fare più efficienza, produttività, mercato, trasparenza, qualità e merito) c'è subito qualcuno (interessato) che ti taccia d'essere un becero nemico della cultura. Oggi la protezione del cinema italiano, applicando la legge francese e «repubblichina» alla Francesco Merlo, porterebbe all'aumento dei biglietti dei cinema per le opere non europee. Con il risultato che chi non ha i gusti raffinati di Francesco Merlo, che si imbeve di Godard e squisitezze sublimi, si vedrebbe costretto per risparmiare a entrare nelle sale dove si cimenterebbe con qualche sicuramente interessante opera prima o seconda di allievi selezionati dai kapò del cinema italiano, tutti di una certa matrice ideologica... Vogliamo essere liberi di essere noi stessi, senza essere educati dai Merlo incipriati. Come diceva Pirandello, «gente volgare, noialtri...».

A proposito di stampa, sinistra e finanziamento pubblico, scrive Jacopo Venier, direttore di Libera.Tv. Solidarietà al Manifesto e a Liberazione ma...In questi giorni in tantissime redazioni di giornali politici e cooperativi si vivono ore drammatiche. Il quotidiano Terra è stato il primo a cadere, poi è venuto il turno di Liberazione ed ora è il Manifesto a dover piegarsi alla liquidazione coatta. Anche l’Unità è in pericolo mentre a Nuova Ecologia non si pagano gli stipendi. Decine di altre testate sono sull’orlo del baratro. E’ questa la conseguenza del taglio drastico dei finanziamenti all’editoria deciso dal Governo Berlusconi e confermato da Monti. Con la scusa di riordinare il settore, tagliando le “testate finte” che servono solo per ottenere il finanziamento pubblico, si sta producendo una moria di “testate vere” che fanno informazione spesso scomoda. Ovviamente la prima risposta necessaria è la piena solidarietà con queste testate, con i professionisti che le realizzano, con la loro battaglia per difendere, non solo il loro lavoro, ma un pezzo del pluralismo e quindi della democrazia. Ieri la direttrice del Manifesto, in un drammatico video-editoriale, si è appellata ancora una volta ai propri lettori perché comprino il giornale in edicola ed ha dichiarato che questa lotta per la sopravvivenza è lotta politica. Sono perfettamente d’accordo con lei MA vorrei aggiungere alcune considerazioni di fondo. Perché siamo arrivati a questo punto? La crisi dell’editoria di sinistra non è solo finanziaria ma, come in qualche modo ammette Norma Rangeri, prima di tutto politica. Esistono giornali come Il Fatto che sono nati proprio quando altri entravano definitivamente in crisi. Le testate, in un sistema funzionante, dovrebbero nascere e morire non perchè ricevono o meno finanziamenti ma se sono capaci di rispondere ad un bisogno dei lettori, degli ascoltatori, dei telespettatori, di coloro che si informano sul web. Invece nessuno affronta questa crisi politica delle testate della sinistra quasi che sia un eresia dire che come i partiti anche il giornalismo di sinistra ha perso nel tempo la sua “connessione sentimentale” con il proprio popolo. Se servono appelli drammatici per far partire sottoscrizioni, vendite ed abbonamenti il problema invece esiste ed è grave. Parliamone. Parliamo anche poi del fatto che esistono anche centinaia di esperienze editoriali, di redazioni formali ed informali, di luoghi e di professionalità dove si produce informazione di qualità senza alcun finanziamento pubblico. Questo è un punto delicato. Da anni infatti, giustamente, le testate che rientravano nel quadro del finanziamento pubblico ci chiedono di unirci a loro nel pretendere che lo Stato contribuisca al pluralismo finanziandole. E’ una battaglia giusta MA solo se vediamo che forse il finanziamento non è una soluzione ma parte del problema. Nell’immediato è evidente che è necessario rifinanziare queste testate per impedire che spariscano di colpo esperienze importantissime, storiche, di valore culturale oltre che politico. Però è possibile che i giornali e le testate della sinistra possano vivere solo con i soldi dello Stato? Vivere di finanziamento pubblico significa essere impiccati ai governi e, nel tempo, assumere comportamenti non sempre compatibili con la propria missione. Questo vale sia per i giornali che per i partiti. Dice la direttrice del Manifesto che ora come non mai i suoi lettori devono comprare il giornale. Ha ragione. Sono i lettori la forza di una testata e questa deve rapportarsi e misurarsi con il loro numero. Tutte le testate hanno bisogno del sostegno dei loro lettori. Ma quelle che non hanno un finanziamento pubblico, nè possono sperare di averlo, hanno bisogno dei loro lettori più delle altre. I lettori ed il loro numero non sono una variabile indipendente, un dettaglio. Se una testata parla a tremila persone questo è il suo peso. Lo dico perchè non sempre è chiaro se i giornali sono stati fatti per i lettori, per i giornalisti che li fanno, o per chi procurava o potrà eventualmente in futuro assicurare il finanziamento. Lo dico perchè al netto della storia, della influenza, della presenza nelle rassegne stampa e nelle mazzette non sempre la diffusione delle testate e dei loro contenuti è quella che la storia ci consegna soprattutto nell’epoca di internet. Le imprese editoriali, anche quelle di sinistra, devono avere anche una loro sostenibilità economica. Il direttore di Liberazione Dino Greco, in una intervista che gli ho fatto per Libera.tv, diceva che le vendite e le sottoscrizioni, pur generose, non riusciranno mai a sostenere il giornale. Beh questo è un problema, un problema serio che non trova risposta dal finanziamento pubblico. Se un giornale non può vivere di vita propria è sempre esposto al rischio di doversi piegare per sopravvivere. A Greco rispondo che in Italia esiste un mercato immenso per la stampa di sinistra. Ci sono oltre tre milioni di persone che si considerano di sinistra a cui vendere i nostri prodotti. Dobbiamo interrogarci su come farlo e soprattutto su quali prodotti queste persone possano essere interessate a comprare. Questo è molto, molto chiaro a chi deve far quadrare un bilancio senza contare che sulle proprie risorse. Noi (testate e giornalisti) dobbiamo cambiare e cambiare molto. Al contempo dobbiamo mandare al “nostro popolo” un messaggio chiaro. Se la sinistra vuole la sua stampa deve sapere che se la deve pagare. Un tempo questo era a tutti chiarissimo. Nessuno avrebbe pensato che De Gasperi finanziasse la stampa comunista. Ed allora si facevano le feste dell’Unità, gli abbonamenti, le distribuzioni e la raccolta pubblicitaria casa per casa, negoziante per negoziante. Reperire soldi per la stampa era il cuore della militanza politica. Non sarà che anche a causa del finanziamento pubblico questa pratica, che chiariva la natura intrensicamente partigiana della professione giornalistica, è andata perduta sostituita dalla passiva attesa dei soldi dello Stato o dalla ricerca del sostengo di “imprenditori democratici” che poi sempre imprenditori sono? Se non si impara da questa crisi non si imparerà mai. Per ricominciare serve un patto per l’informazione libera e critica dove tutti, piccoli e presunti grandi, possano stare sullo stesso piano. Bisogna che tutti partano dal presupposto che la morte dell’altro non è uno spazio che si apre ma una opportunità che si chiude. Bisogna che finiscano le gelosie di testata ed anche un modo burocratico e corporativo di sentirsi giornalisti anche durante le crisi aziendali. Per ricostruire l’informazione di sinistra serve innanzitutto un bagno di realismo e di umiltà che consenta di costruire progetti sostenibili anche economicamente, adeguati ad una comunicazione moderna dove, ad esempio, la carta, pur rimanendo importante, non è più il centro. Prima di tutto però serve una scelta politica chiara che dimostri nei fatti la natura “critica” di questa informazione, la sua impermeabilità agli interessi economici dominanti, la sua avversità ad ogni burocrazia politica o sindacale anche quando questa controlla “i cordoni della borsa”. Fare informazione è battaglia quotidiana. Si può fare. Lo spazio c’è ed il futuro anche. Basta vederlo e basta volerlo.

Partigiani con i soldi pubblici: ecco gli incassi di Anpi & Co. Le iniziative dell'Anpi contro le foibe. Scoppia la polemica. Salvini vuole tagliargli i fondi: ecco tutti i contributi statali, scrive Giuseppe De Lorenzo, Martedì 05/02/2019, su Il Giornale. Per l'Anpi le Foibe sono solo "fandonie fasciste". La guerra civile italiana sembra non finire mai e la totale riconciliazione in una memoria unica e condivisa resta un miraggio, nonostante i (pochi) passi in avanti. La prossima settimana si celebrerà la Giornata del ricordo degli infoibati dalmati e istriani, donne e uomini con l'unica colpa di essere italiani. E invece di cercare confronto e memoria, l'Anpi che fa? A Parma sponsorizza il convegno in cui si proietterà il video dal titolo "La foiba di Basovizza: un falso storico"; in Veneto critica la proiezione del film "Red Land"; e a Rovigo nega l'esistenza delle fosse carsiche. Non proprio il massimo. E così è esploso lo scandalo che rischia di compromettere uno dei "tesori" dei partigiani d'oggi: le sovvezioni statali. Certo, con un comunicato l'Associazione ha preso le distanze dalle sue sezioni locali, ma lo ha fatto lasciando spalancato il portone dei "dubbi". Per i nipoti dei combattenti, le foibe sono state sì "una tragedia nazionale", ma che va "affrontata senza alcuna ambiguità, contestualizzando i fatti". Una supercazzola, insomma. "Contestualizzare" sembra infatti un modo per giustificare gli orrori titini trasformandoli in una semplice "reazione" alle occupazioni naziste e fasciste di quelle terre. Un'ambiguità che rende comprensibile le ire della Lega e dell'intero centrodestra: mentre l'assessore veneto Elena Donazzan chiede a Mattarella di "valutare lo scioglimento" dell'Anpi, il Carroccio punta a togliergli i (generosi) finanziamenti statali. "È necessario rivedere i contributi alle associazioni che negano le stragi fatte dai comunisti nel dopoguerra", ha detto il ministro dell'Interno. Apriti cielo. Quello dei fondi governativi è tabù mai affrontato prima da nessuno. Per capirne la portata basta andare sul sito del Senato e affidarsi alla relazione (del 2018) sul riparto dei versamenti alle associazioni combattentistiche. I trasferimenti provengono da due voci di bilancio: da una parte, ci sono 1,9 milioni di euro riservati dal ministero dell'Interno e altri 1,6 milioni elargiti dal ministero della Difesa. La maggior parte dei soldi (che l'Anpi tiene a precisare vengano assegnati "non a fondo perduto", ma sulla base di "progetti di ricerca") finisce a associazioni che si riconoscono a vario titolo nell'esperienza dei partigiani. Una galassia antifascista davvero variegata. I fondi della Difesa sono stati così ripartiti: un milione di euro è destinato alle associazioni combattentistiche e partigiane e appena 693mila euro a quelle d'Arma. I bonifici sono sostanziosi: 81.500 euro sono finiti all'Associazione Nazionale tra le Famiglie Italiane dei Martiri Caduti per la Libertà della Patria, 32mila all'Associazione Nazionale Veterani Reduci Garibaldini, 40mila all'Associazione nazionale partigiani cristiani e 90.100 all'Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia, dall'Internamento e dalla Guerra di Liberazione. Senza dimenticare chi le raduna: alla Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane mettiamo a disposizione altri 50.000 euro; mentre alla Federazione italiana volontari della Libertà altri 85mila. Infine c'è l'Anpi. Per la più grande delle organizzazioni della Liberazione, la Difesa riserva 100.000 euro, appena 7mila in meno del 2017. Dal 2013 ad oggi, ha incassato qualcosa come 607mila euro. A questi, ovviamente, va aggiunto il 5x1000, che dal 2014 ad oggi ha fruttato 1 milione e 200mila euro. Totale: 1,8 milioni di euro abbondanti. Mica male. Senza contare le decine di finanziamenti elargiti dagli Enti locali per iniziative di vario genere. Il fatto è che tecnicamente il ministero dell'Interno, cioè Salvini, non potrebbe tagliare i fondi dell'Anpi. Non è di sua competenza. Il Viminale infatti versa 232mila euro ad un altro ente antifascista, l'Anpia, che non sembra aver messo in dubbio le foibe. Dunque può dormire sogni tranquilli. Diverso il discorso per l'Anpi. Nonostante le rassicurazioni del presidente Carla Nespolo, il rapporto dei partigiani con le ombre della loro storia è quantomeno equivoco. Lo dimostra il "comune sentire" delle sezioni locali al di là delle dichiarazioni ufficiali del coordinamento nazionale. Ecco spiegato, allora, il perché delle reazioni politiche: invece di gridare alle "minacce" e all'"aggressiva dichiarazione" di Salvini, all'Anpi sarebbe bastato evitare le ambiguità. Senza "se" e senza "ma".

Libero, l’Anpi e i soldi dello Stato. Il paradosso di “Libero” che chiede che siano tolti i finanziamenti all’Anpi, scrive Piero Sansonetti il 6 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Libero chiede che siano tolti i finanziamenti dello Stato all’Anpi, perché la sezione di Parma dell’Anpi ha aderito ad una iniziativa negazionista sulle Foibe. L’Anpi di Parma evidentemente ha fatto una grande sciocchezza. Ma anche Libero, spesso, ne fa. E prende un finanziamento circa 40 volte superiore a quello dell’Anpi… Il giornale “Libero” (ma anche diversi esponenti della Lega e di Fratelli d’Italia) chiedono al governo di sospendere i finanziamenti all’Anpi. Cioè all’associazione nazionale dei partigiani. Su questo giornale mi è capitato talvolta di scrivere anche cose molto critiche sull’Anpi. Ricordo di averlo fatto in occasione di una polemica che fu sollevata dall’Anpi di Savona, che si era opposta alla decisione del sindaco di un paese della provincia, Noli, di dedicare una targa alla memoria di una ragazzina di 13 anni uccisa, probabilmente da un gruppo di partigiani sciagurati, pochi giorni dopo la Liberazione, nel 1945. Polemizzai aspramente, e chiesi anche la chiusura dell’Anpi di Savona, che aveva definito questa ragazzina – si chiamava Giuseppina Ghersi – “una brigatista nera e fascista” e aveva giustificato la sua eliminazione. L’Anpi nazionale si dissociò dall’Anpi di Savona ma io giudicai troppo poco drastica quella dissociazione. Vorrei essere chiaro: non ho una simpatia particolare per l’Anpi, che oggi non raccoglie più i vecchi partigiani che combatterono con coraggio e sacrifici enormi per contribuire alla liberazione dell’Italia dall’orrore nazista e fascista. La grande maggioranza di quei partigiani – che furono guidati da gente come Pertini, Longo, Parri, Mattei – oggi non c’è più. I pochi rimasti hanno superato i novanta anni. Evidentemente l’Anpi è diventata una associazione libera di persone che conservano il mito della Resistenza e vogliono difenderne l’eredità politica e l’onore. Niente di male, naturalmente. La Resistenza è stata uno dei fenomeni politici e militari più gloriosi della storia italiana del novecento, e ha avuto un ruolo fondamentale nella fondazione della Repubblica democratica e nella spettacolare ripresa – economica e civile – del nostro paese, che era stato raso al suolo dal fascismo. Quello che non ho mai sopportato dell’Anpi è la pretesa di essere, quasi per diritto divino, l’unica e insindacabile interprete e custode dei valori e delle idee dell’antifascismo. E anche, spesso, di confondere queste idee grandiose con la semplice retorica e con la rivendicazione di appartenenza e bandiere. Per me l’antifascismo è un’altra cosa: è religione della libertà e della tolleranza. E’ l’opposto dell’odio, del dogma, dell’autoritarismo. Ora però non capisco proprio perché un’associazione che comunque difende e rappresenta il ricordo della Resistenza debba essere punita, e perché dovrebbero esserle tolti i finanziamenti che riceve, sporadicamente, dallo Stato. La presidente dell’Anpi, Carla Nespolo, ha peraltro spiegato che questi finanziamenti non sono all’Anpi ma solo ad alcune iniziative dell’Anpi, di volta in volta vagliate dal governo. A quanto ammontano? A centomila euro all’anno. Si: avete capito bene: centomila euro, tutto qui. Così riporta ieri Libero in un articolo indignato del suo vice direttore Fausto Carioti, nel quale si chiede, appunto, la revoca dello stanziamento, perché l’Anpi di Parma ha dato il suo placet – molto discusso peraltro ad una iniziativa negazionista sulle Foibe. Io penso che se davvero l’Anpi di Parma ha dato il suo assenso ad una iniziativa negazionista sulle Foibe ha fatto una grandissima sciocchezza. Cosa oltretutto affermata in modo solenne, proprio ieri, dalla presidente nazionale dell’Anpi. Ma cosa c’entrano le sciocchezze dell’Anpi di Parma con la punizione governativa contro una associazione partigiana? Il governo – secondo Libero – ha il compito di punire economicamente chi dice stupidaggini? Cioè – è questo che davvero mi stupisce, proprio perché scritto da Libero – deve stabilire cos’è politically correct e custodire questo politically correct stroncando ogni idea che vada fuori dal tracciato? La cosa, capirete, stupisce ancora di più proprio perchè Libero di stupidaggini ne scrive parecchie ( come quasi tutti i giornali, del resto, compreso, forse, il nostro) e in genere le rivendica le idiozie che scrive, e di politically correct non vuole sentirne parlare: eppure anche Libero, in quanto giornale di cooperativa, riceve un bel finanziamento dalla Stato ( circa quaranta volte superiore a quello ricevuto dall’Anpi) e – credo giustamente – rivendica anche il suo diritto al finanziamento. Non c’è una clamorosa incoerenza nel chiedere che sia colpita l’Anpi perché la sua sezione di Parma è fuori controllo? A me pare di si. Mi pare soprattutto che questa richiesta sia da considerare una delle tante espressioni del nuovo populismo Cinquestelle, al quale ogni tanto Libero si oppone, ma più spesso si accoda. “Basta soldi pubblici sprecati in iniziative culturali o editoriali, o raba del genere”. Sarebbe la parola d’ordine del rinnovamento. Però non è nuova nuova: qualche anno fa c’era un ministro che diceva che con la cultura non si mangia. E prima ancora uno che parlava di culturame. E poi, all’origine di tutti questi populismi, c’era addirittura Goebbels, che pronunciò la frase epica (che oggi ha tanti, tanti seguaci…): «Quando sento parlare di cultura metto mano alla pistol». Cosa c’entra l’Anpi con la cultura? C’entra molto. La memoria, la storia, sono il cuore della cultura. Cosa c’entra Libero con la cultura? C’entra, come tutti i giornali: il giornalismo – buono o cattivo, discreto o mediocre – è la spina dorsale della cultura di un popolo. Si, lo è ancora oggi, anche se cerca di dimenticarlo e di farlo dimenticare. Non solo credo che vada mantenuto il finanziamento all’Anpi. Credo che vada aumentato. Credo che vada tenuto anche il finanziamento a Libero e agli altri giornali, e alle radio, che oggi è sotto attacco, e questo attacco è un attacco terribile ad alcune colonne portanti della democrazia. Anzi, credo che anche questi finanziamenti vadano allargati e aumentati. E credo che debbano tornare i finanziamenti pubblici ai partiti, che non ci sono più, e la loro abolizione ha contribuito in modo decisivo alla demolizione dei partiti, al crescere del liderismo puro, all’indebolimento, fortissimo indebolimento della democrazia politica. Mi piacerebbe poter archiviare questo attacco all’Anpi come un errore di Libero. Uno dei tanti errori che si fanno nel nostro mestiere.

 I finanziamenti all’editoria, scrive maicolengel Michelangelo Coltelli su Butac il 25/01/2019. Dopo le polemiche sulla copertina di Libero Quotidiano sono tanti i sostenitori dell’attuale governo che nel difendere quel testo hanno sostenuto che da quest’anno i contributi all’editoria siano stati cancellati. Io vorrei seriamente capire una cosa, usare i motori di ricerca vi schifa? Fare dei controlli prima di sostenere qualcosa vi rende meno intelligenti? La questione è di quelle che ci portiamo dietro da anni, e andrebbe raccontata per bene, cosa che tante testate han tentato di fare nel tempo. Lettera43 ad esempio aveva pubblicato un esauriente articolo a ottobre 2018, dove spiegavano: È uno degli impegni della legge di bilancio su cui la maggioranza vuole impegnare il governo: il «graduale azzeramento a partire dal 2019 del contributo del Fondo per il pluralismo, quota del dipartimento informazione editoria». Si tratta del fondo previsto dalla riforma dell’editoria varata con la legge 198 del 2016 dal governo Renzi e resa operativa da un decreto legislativo del 2017. La riforma ha escluso dai contributi statali all’editoria le testate che sono semplicemente «organi di partiti, movimenti politici, sindacati e dei periodici specializzati a carattere tecnico, aziendale, professionale o scientifico» e ha mantenuto il criterio di legare i contributi alle copie effettivamente vendute. Continuano invece a ricevere i contributi le imprese editrici cooperative e quelle che pubblicano quotidiani e periodici all’estero, le cooperative e gli enti no profit che editano testate e le pubblicazioni delle minoranze linguistiche. Il risultato di queste nuove norme si riflettono nei contributi erogati dallo Stato nel 2017 come si vede dalle tabelle qui sotto. Tra le testate edite da imprese editrici cooperative quella che ha incassato maggiori fondi è il quotidiano dei vescovi Avvenire con 2.519.173,47 euro. Poi viene Libero Quotidiano con 2.218.601,31 e in terza posizione Italia Oggi con 2.037.216,81 euro. Il quotidiano comunista Il Manifesto si posiziona solo quarto con 1.288.749,9 euro ottenuti nel 2017. Avete letto bene? Libero Quotidiano è al terzo posto come contributi per l’editoria. Si cuccano oltre 2 milioni di euro all’anno, e si permettono di fare prime pagine come quella su PIL e gay…Onestamente se il governo desse due milioni di euro a BUTAC mi sentirei in dovere di fare del mio meglio per una corretta informazione e passerei giorno e notte a verificare ogni singola riga che pubblico. Su Il Post, a seguito di una polemica televisiva tra il direttore di Repubblica e Luigi di Maio spiegavano: A godere dei finanziamenti diretti sono esclusivamente alcune categorie di giornali: quelli editi da cooperative di giornalisti, da fondazioni, enti morali e associazioni dei consumatori; quelli delle minoranze linguistiche; quelli destinati agli italiani all’estero e quelli destinati a non vedenti e ipovedenti. Questi giornali ricevono un contributo in proporzione al numero di copie vendute, che può andare dai 2,5 milioni di euro l’anno che riceve Avvenire, giornale della Conferenza episcopale italiana, fino alle poche migliaia di euro che ricevono le testate più piccole. Libero di fatto è una cooperativa di giornalisti e quindi ha diritto a quei fondi, anche se lo stesso Post ci spiega che quella cooperativa è molto di facciata e la proprietà è in pratica della famiglia Angelucci. Quindi, la maggioranza delle grandi testate nazionali non riceve finanziamenti diretti. In compenso esistono quelli indiretti di cui forse non tutti sono a conoscenza, come ci racconta Data Media Hub: Tra i contributi indiretti troviamo, appunto, l’obbligatorietà di pubblicazione degli avvisi di gare. Pubblicità legale che, secondo i dati dell’Osservatorio Stampa Fcp [Federazione Concessionarie di Pubblicità], nel 2017 ammonterebbe a poco più di 67 milioni di euro, in calo del 11.9% rispetto ai 75.5 milioni del 2016. Importo che rappresenta l’11.4% del totale della raccolta pubblicitaria dei quotidiani l’anno scorso, e che nei primi cinque mesi di quest’anno raggiunge i 23 milioni di euro [- 23.8% vs 2016], con un peso del 10.1% sul totale degli investimenti nel periodo Gennaio – Maggio 2018. A questi vanno ad aggiungersi le agevolazioni di credito. Tipologia di agevolazione che non è attualmente finanziata e che nel 2016 è stata di soli due milioni di euro circa, mentre era decisamente più sostanziosa in passato, in particolare nei primi anni della “grande crisi” della carta stampata, con 18 milioni di euro concessi nel 2008 e 13 milioni di euro concessi nel 2009. Sempre per quanto riguarda l’attualità, e il recente passato, per il sostegno a crisi aziendali e prepensionamenti dal 2014 al 2021 sono previsti stanziamenti per 120 milioni di euro, mentre la norma relativa al credito d’imposta per investimenti pubblicitari negli anni 2017 e 2018, che dopo un difficile parto ha visto la luce di recente, avrebbe un costo di 50 milioni di euro.

Quindi, per riassumere, le grandi testate nazionali eccetto rari casi, come Libero, non ricevono finanziamenti diretti, in compenso un po’ tutti ricevono finanziamenti indiretti. Quindi, per fare ulteriore chiarezza, eccetto i casi di Libero, Manifesto e Foglio nella maggior parte dei casi non si può attaccare una testata per finanziamenti diretti, nessuna di quelle note ne riceve. Si può sostenere che ricevano finanziamenti indiretti, ma quelli si applicano in percentuale a tutti gli editori, quindi sono tutti nella stessa barca, se ne critichi uno devi criticarli tutti.

Il generale della Folgore scrive a Pinotti contro l'Anpi. La lettera del generale Bertolini dell'Associazione dei Parà contro le proteste dell'Anpi per la stele in memoria dei paracadutisti tedeschi, scrive Claudio Cartaldo, Mercoledì 21/03/2018, su "Il Giornale". Non si ferma la polemica a Cassino tra paracadutisti e partigiani. La querelle della stele per i "parà nazisti", aspramente contrastata dall'Anpi, è diventata un vero e proprio caso istituzionale. Che ha coinvolto anche il ministro della Difesa, Roberta Pinotti. Il Generale Marco Bertolini della Folgore, presidente dell'Assciazione Nazionale Paracadutisti d'Italia, infatti, ha scritto una lettera al ministro per chiedere spiegazioni riguardo la "frittata" partigiana e suggerendo di togliere i fondi ai nipoti dei partigiani.

Fondi statali per i partigiani: ecco il tesoretto antifascista. "Alcuni giorni - si legge nella missiva - fa il Generale di Corpo d'Armata Hans-Werner Fritz, Presidente dell'associazione paracadutisti tedesca, mi aveva avvertito che stava venendo in Italia con un gruppo di associati per una cerimonia a Cassino in memoria dei valorosi paracadutisti tedeschi che caddero durante la Seconda Guerra Mondiale. Il generale Fritz era il mio corrispettivo presso il Coiu tedesco di Potzdam quando io ero in servizio con lui vennero affrontati molti problemi comuni, tra cui il coordinamento dei nostri sforzi per l'ormai dimenticato ripiegamento dell'Afghanistan, l'alternarsi italo-tedesco al Comando della Task Force a Erbil, ed altre cosette del genere. Ovvio quindi che tra lui e me si creasse una certa familiarità sfociata in amicizia nel corso del Congresso delle Associazioni Paracadutisti Europee del 2017, durante il quale ci siamo reincontrati, seppur in vesti differenti da quelle con le quali ci eravamo salutati un anno prima a Erbil". Dopo la protesta dell'Anpi e la cancellazione della cerimonia, il generale Bertolini ha esoposto al collega "i miei sentimenti. Che sono di vergogna profonda". E così ha deciso di prendere carta e penna e scrivere alla Pinotti "per metterla a parte della frustrazione di tutta l'Anpd'I e per suggerirle di prendere qualche misura per ribadire ai nostri commilitoni tedeschi, ma non solo, che gli appelli alla sbandierata "difesa comune" europea non sono parole vuote. E che non abbiamo dimenticato i doveri che ci derivano dalla nostra ppartenenza alla civiltà cristiana, che ha nel culto dei morti, di tutti i morti, e soprattutto dei Caduti, di tutti i Caduti, uno dei suoi più radicati appigli". Infine, l'accusa contro l'associazione dei partigiani: "Le chiedo - scrive Bertolini - anche di valutare se un'associazione come l'Anpi, protagonista di questa bella frittata oltre che di tutt'altro che edificanti manifestazioni di carattere virulentemente politico come quello che ci ha proposto la cronaca degli ultimi mesi, possa essere confusa con le associazioni d'Arma, avendo anzi contributi finanziati dal Suo Ministero che le altre non possono neppure immaginare". Finanziamenti che Giuseppe De Lorenzo e Marco Vassallo avevano svelato in un'inchiesta sul Giornale.

Fondi statali per i partigiani: ecco il tesoretto antifascista. Crescono le sovvenzioni per i gruppi partigiani. Dai garibaldini ai combattenti in Spagna: 4 milioni di euro in 6 anni, scrivono Giuseppe De Lorenzo e Marco Vassallo, Giovedì 26/10/2017 su "Il Giornale". Ogni anno decine di associazioni aspettano l’autunno con ansia. Le attende una sorta di rito: la perpetua elargizione di fondi (statali) che in buona parte dei casi significa sopravvivenza. Anche quest’anno il Governo, approvando la legge di bilancio 2017, provvederà a sovvenzionare con quasi tre milioni di euro una pletora di organizzazioni combattentistiche dalle più disparate sigle. Dai garibaldini all’Arma di Cavalleria, passando - ovviamente - per i partigiani.

Dai Mille alla Resistenza. Ecco: i partigiani. I fondi per le associazioni combattentistiche provengono da due voci di bilancio: da una parte il ministero della Difesa mette a disposizione 1,7 milioni di euro da dividere tra 47 raggruppamenti; dall’altra il ministero dell’Interno, in collaborazione con quello delle Finanze, elargisce altri 1,6 milioni. Mica bruscolini. Buona parte di questi proventi finisce nelle tasche di organizzazioni che in un modo o nell’altro si riconoscono nell’esperienza delle varie brigate antifasciste. Per esempio, la Difesa si appresta a versare 23.500 euro all’Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti in Spagna. E qui vi chiederete: cosa fa il comitato? Sul sito si trova lo statuto del gruppo costituito da "superstiti ex volontari che hanno partecipato alla guerra di Spagna nelle formazioni anti-franchiste ed i loro familiari e discendenti". Ma se qualcuno è interessato e ne condivide i principi, può iscriversi lo stesso. Le iniziative riguardano soprattutto la pubblicazione di memorie e biografie di comunisti, anarchici e antifascisti vari che presero la via della penisola iberica per combattere contro Francisco Franco. Per dire, sabato scorso si sono visti a Tolmezzo (Udine) per ricordare i volontari internazionalisti antifascisti "che dalla Carnia e dall'alto Friuli" parteciparono alla guerra spagnola "al fianco delle istituzioni democratiche". Saluti, convegni, targhe e concerto. Nella colonna delle uscite del bilancio del Governo ci sono poi 55mila euro finiti alla Federazione Italiana delle Associazioni Partigiane, 115.000 euro all’Associazione nazionale Reduci della Prigionia dell’Internamento e della Guerra di Liberazione, 84mila per la Federazione Italiana Volontari della Libertà e altri 41.800 euro all’Associazione Nazionale Combattenti della Guerra di Liberazione Inquadrati nei Reparti Regolari delle Forze Armate, che solo a pronunciare il nome serve una riga. E infine l’Anpi: alla più famosa organizzazione partigiana finiranno ben 107mila euro tondi tondi. Ognuno si è fatto il suo comitato: i partigiani, i militari, i deportati, i volontari all'estero e chi più ne ha più ne metta. Spesso i vari Enti stampano riviste, sostengono siti internet e in alcuni casi pubblicano pure libri sulla sempreverde resistenza antifascista. C’è anche il caso dell’Associazione Nazionale tra le famiglie italiane dei Martiri Caduti per la Libertà della Patria, che quest’anno incasserà 102mila euro. Voi direte: impossibile non essere d’accordo con chi rappresenta i martiri per la libertà. Certo. Il fatto è che riguarda solamente gli “antifascisti, partigiani, semplici civili” morti durante l’occupazione nazi-fascista del Centro e del Nord Italia. In particolare l’attenzione dell’ANFIM si concentra sulla strage delle Fosse Ardeatine (nacque proprio dal desiderio dei parenti delle vittime di ottenere verità) e si allarga a Marzabotto, Forte Bravetta, Leonessa e al reatino. L’obiettivo? “Mantenere viva la Memoria” e promuovere i “principi di libertà e democrazia”. Due cose - in realtà - che già fa egregiamente l’Anpi. Non potevano allora unire le forze, riducendo così le elargizioni statali? A quanto pare no, visto che la Memoria delle Fosse Ardeatine se la “contendono” l’ANFIM e la sezione locale dell'ANPI di Roma. Doppi fondi, più festa per tutti. Un piccolo inciso lo merita pure l’Associazione Nazionale Veterani Reduci Garibaldini, che “deriva direttamente” - come si legge nel sito - dalla “Società di Mutuo Soccorso fra garibaldini che fu fondata dallo stesso Generale Garibaldi nel 1871”. Visto che ormai dei Mille - per motivi anagrafici - non ne è rimasto in vita neppure uno, quando alla fine della Guerra si decise di ripristinare il sodalizio “su base democratica ed antifascista”, furono ammessi come iscritti i “reduci della Divisione italiana partigiana Garibaldi che aveva combattuto in Jugoslavia” perché “continuatori della tradizione garibaldina”. Oggi i soci sono di fatto solo ex partigiani e alcuni simpatizzanti (dal 1993), a cui non dispiaceranno certo i 23mila euro donati dal ministero.

Lievitati gli incassi. A conti fatti alle organizzazioni partigiane vanno 467mila euro l’anno, un terzo del totale. A questi però vanno aggiunti anche i fondi stanziati dal Viminale: Marco Minniti si appresta infatti a versare 202.071 euro all’Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti (ANPPIA), un ente da 3.643 soci nato nel 1954 e che ora fa appelli “alle forze democratiche” (tra cui il Pd) per fare da “argine nel modo più unitario e largo possibile, alla recrudescenza fascista”. In totale negli ultimi 6 anni l’intera galassia dei gruppi partigiani ha drenato 4 milioni di euro dalle casse dello Stato. Negli ultimi anni gli stanziamenti hanno avuto un andamento ondivago: cresciuti fino al 2014, si sono contratti nel 2015 per poi tornare a crescere. Nel 2017 la Pinotti ha registrato un incremento di 164.349 euro rispetto all’anno precedente, mentre quello del ministero dell’Interno si è ridotto di soli 77mila euro. Per molto tempo le sovvenzioni sono state elargite a pioggia, con metodi di ripartizione dei contributi slegati dalle reali attività svolte e senza trasparenza: per cinque anni la Commissione Difesa ha chiesto i rendiconti annuali degli enti beneficiari, ma li ha ottenuti solo quest’anno e solo per 27 associazioni su 47. Per carità: quale correttivo è stato fatto. Dal 2014 per ottenere i fondi bisogna presentare dei progetti precisi, altrimenti ci si deve accontentare del “contributo per i costi fissi di funzionamento” e di una decurtazione del 20% per ogni anno in cui non si elaborano programmi meritevoli di essere finanziati. Comunque vada, un po' di soldi non vengono mai fatti mancare. Non sia mai che la lotta partigiana finisca (finalmente) sugli scaffali della storia.

Ecco tutti i soldi ai nuovi partigiani. Gli esborsi alle 179 associazioni di reduci, rifinanziati dal Governo Fondi anche ai «garibaldini» che combatterono dal ’43 al ’45 in Jugoslavia, scrive il 25 Aprile 2016 "Il Tempo". Centosettantanove sfumature di partigiano. E il Governo le finanzia tutte: dai reduci garibaldini agli antifascisti. Ecco le associazioni che lo Stato foraggia e di cui si sente parlare solo il 25 Aprile. Anpi, Anvrg, Aicvas, Anvcg, Aned, Anppia, solo per citarne alcune. Con molta probabilità solo gli iscritti, vedendo queste sigle, sapranno riconoscere le associazioni di cui stiamo parlando: "Associazione Nazionale Partigiani Italiani", "Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti", "Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra", "Associazione Nazionale Ex Deportati", "Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti". C’è chi strabuzzerà gli occhi quando leggerà che il primo acronimo sta per "Associazione Nazionale Veterani e Reduci Garibaldini". Ovviamente non si tratta di un’associazione di mummie del 1861, bensì dei reduci della divisione italiana in trincea dal ’43 al ’45 con i partigiani in Jugoslavia. I suddetti acronimi appartengono all’immensa galassia delle associazioni combattentistiche che godono di stanziamenti pubblici annuali predisposti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, dai ministeri della Difesa, dell’Interno e dell’Economia. La crisi non tocca le tante associazioni rosse che possono dormire sonni tranquilli. A mettere in cassaforte il tesoretto ci ha pensato lo Stato inserendole nella legge di stabilità del 2014: «Per il sostegno delle attività di promozione sociale e di tutela degli associati svolte dalle Associazioni combattentistiche - si legge nel testo - è autorizzata la spesa di euro 1.000.000 annui per ciascuno degli anni 2014, 2015 e 2016». E stiamo parlando solo di quelle sottoposte alla vigilanza della Difesa. Al milione di euro stanziato da questo ministero, infatti, se ne aggiungono altri due disposti dal Viminale di concerto con il ministero dell’Economia. Totale: tre milioni di euro circa per sostenere associazioni combattentistiche e d’arma. Nella maggior parte dei casi non si tratta di cifre stellari. Eppure, sommando tutti i contributi diretti alle varie associazioni, l’esborso da parte dello Stato non è trascurabile. Il Viminale, nel dicembre 2014, ha previsto un contributo di 1,892 milioni di euro per tre sole associazioni: l’Associazione Nazionale Vittime Civili di Guerra a cui andrà la fetta più grossa (quasi un milione e mezzo), seguita da altre due per le quali, almeno stando ai nomi, è difficile dire in cosa divergano: ANPPIA, Associazione Nazionale Perseguitati Politici Italiani Antifascisti (227 mila euro), e l’ANED, Associazione Nazionale ex Deportati Politici nei Campi Nazisti (189 mila euro). Il rischio è di avere decine e decine di associazioni tra le quali è assai difficile cogliere distinzioni tra ambiti e finalità. Tra i tanti finanziamenti a pioggia destinati alle associazioni spicca anche quello di 34 mila euro del 24 marzo 2016 stanziato dal Governo a favore dello spettacolo teatrale "Tante facce nella memoria", di Francesca Comencini. Si tratta di sei storie di donne partigiane e non che nel ’44 vissero l’eccidio delle Fosse Ardeatine, feroce rappresaglia per l’attentato di via Rasella: una sorta di oratorio sulla memoria in scena a Roma. La regista, madre del Viceministro allo Sviluppo Economico Carlo Calenda, fa l’en plein garantendosi anche un ulteriore finanziamento da 20 mila euro concesso dalla Regione Lazio. Insomma sui soldi i partigiani non fanno resistenza. 

LE FOIBE E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.

Che le foibe siano state un tabù per decenni, lo sanno tutti. Non una riga sui libri scolastici, nessun volume storico diffuso nel grande circuito editoriale, zero commemorazioni ufficiali. Achille Occhetto, l'ex leader comunista, in un'intervista al Tempo, ammette candidamente di aver scoperto gli eccidi con cinquant'anni di ritardo. È vittima della sua stessa disinformazione? Scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Quei massacri di migliaia di italiani a fine guerra sui confini orientali sono stati nascosti e negati talmente a lungo da apparire quasi una leggenda. Forse per questo Achille Occhetto, ex segretario del Pci, che con il suo partito ha contribuito a far credere che non esistessero, afferma candidamente in un’intervista: “Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la svolta della Bolognina. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza”. D’altronde è stato l’ultimo leader dei comunisti italiani, maestri nella propaganda e nel distorcere la verità. E perciò può essere rimasto vittima della sua stessa disinformazione se ha scoperto un pezzo di storia solo nel 1989. Oppure continua a mentire come hanno fatto i suoi compagni per quasi mezzo secolo, raccontando che gli esuli dell’Istria, Fiume e Dalmazia non erano semplici italiani in fuga dalle stragi comuniste ma fascisti che scappavano per i loro misfatti. Un messaggio che aveva già fatto presa nel 1947. C’è un episodio indimenticabile. Il 16 febbraio, un piroscafo parte da Pola con migliaia di connazionali che, dopo essere sbarcati ad Ancona, sono stipati come bestie su un treno merci diretto a La Spezia. Quel treno, il 18 febbraio, arriva alla stazione di Bologna, dove è prevista una sosta per distribuire pasti caldi agli esuli. Ma ad attendere i disperati c’è una folla con bandiere rosse (toh, i compagni di Occhetto?) che prende a sassate il convoglio, mentre dai microfoni è diramato l’avviso “se i profughi si fermano, lo sciopero bloccherà la stazione”. Il treno è costretto a ripartire. Questo il clima. La propaganda comunista e la mistificazione della realtà, come sappiamo, hanno influenzato non poco la cultura italiana del secondo Novecento. Ma è stato impossibile seppellire la memoria: troppi profughi, troppi testimoni e quella destra che alimenta i ricordi. E poi c’è Trieste, che Occhetto conosce bene, città decorata con la medaglia d’oro al valore militare dal capo dello Stato, nella cui motivazione c’è scritto “…subiva con fierezza il martirio delle stragi e delle foibe, non rinunciando a manifestare attivamente il suo attaccamento alla Patria…”. Tutti sapevano delle foibe, anche se era scomodo e sconveniente parlarne. Per questo motivo facciamo fatica a credere che il prode Achille l’abbia saputo così tardi. Fosse stato per il Pci, probabilmente non se ne sarebbe mai parlato, ma per fortuna è stato sconfitto dalla storia. E al grande libro dei fatti è stata aggiunta quella pagina strappata.

Gallone: si parli delle foibe nei libri di scuola.

La senatrice di Bergamo (Bergamo, non Trieste, sic!) Alessandra Gallone chiede che non si nasconda più la verità sulle foibe ed è firmataria con altri della richiesta di una commissione d'inchiesta sulle stragi del '43. Ecco il suo intervento per il Giorno del ricordo. «Oggi celebriamo un ricordo: il ricordo delle foibe, quell’immane tragedia che toccò il nostro popolo dell’Est, gli italiani di Trieste, di Quarnaro, dell’Istria, della Dalmazia, di Fiume e di tutti i luoghi ceduti. Significò per loro l’abbandono della propria terra – terra italiana, finita nel territorio della ex Iugoslavia – ma soprattutto sopruso, devastazione, morte. In quelle fosse comuni c’è un pezzo d’Italia e uno dei pezzi d’Italia cui più dobbiamo rispetto. Furono oltre 10.000 gli italiani che trovarono una morte orribile in quelle orribili fosse per mano dei partigiani nazionalisti comunisti iugoslavi, italiani colpevoli di essere italiani, mentre gli altri venivano strappati via dalle loro case e dalle loro terre, costretti a fuggire per scampare alle persecuzioni, eppure restando determinati nella volontà di rimanere italiani. Il genocidio di questi italiani – perché di una vera pulizia etnica si trattò – fu condotto senza distinzioni politiche, di censo, di sesso, di religione o di età. Furono arrestati cattolici ed ebrei, dipendenti privati ed industriali, agricoltori, pescatori, vecchi, bambini e soprattutto carabinieri, poliziotti e finanzieri servitori dello Stato. Gli eccidi del ’43 e del dopoguerra compiuti contro migliaia di inermi ed innocenti al confine orientale dell’Italia furono un vero crimine contro l’umanità, al pari di altri stermini compiuti e che ancora oggi vengono perpetrati in altre parti del mondo. Questa giornata è per questo non solo una celebrazione nostra, ma anche un importante riconoscimento umano che vale per ogni epoca e per ogni luogo nel quale vengano lesi sacrosanti diritti umani, quali il diritto a vivere in pace nella propria terra, il diritto a non essere vittime dell’odio cieco, il diritto a non vedere profanati i cadaveri dei propri cari. E` nostro dovere ricordare per la nostra coscienza di italiani, ma oggi anche per il nostro sentimento di europei, perché oggi tutti noi vogliamo e dobbiamo vivere in pace e in collaborazione nella prospettiva della più larga unità europea. Mi chiedo anche, e vi chiedo, che sarebbe successo nell’ex Iugoslavia se il ricordo delle foibe fosse rimasto vivo, se non fosse stato coperto dalla viltà e menzogna di un’intera classe politica. Arrivo a volte a pensare che forse neppure la disgregazione della Iugoslavia avrebbe raggiunto certe punte di ferocia se in quelle terre si fosse ricordato per sempre che simili eccidi, un simile cieco furore antietnico, non può rimanere impunito. Ricordare una delle pagine più buie della storia dell’umanità è perciò indispensabile non solo come tributo morale alle vittime di quello sterminio, ma anche come occasione d’incontro per discutere, confrontarsi, far sì che simili tragedie non debbano ripetersi nella storia. Fu una guerra civile; e il furore ideologico e le vendette personali diedero vita alla pagina più triste della storia italiana. In questo quadro vanno inserite le vicende degli esuli, che hanno vissuto un duplice dramma: l’essere costretti ad abbandonare la propria casa vedendo trucidare i loro parenti e, subito dopo, l’essere accolti con indifferenza e in molti casi con ostilità da quella stessa Italia dalla quale avevano sperato di ricevere un abbraccio solidale. Per sentirci vicini a quanti hanno sofferto lo sradicamento, il minimo che possiamo fare è cercare di porre rimedio attraverso una obiettiva ricognizione storica e una valorizzazione di identità culturali di lingua e di tradizioni che non possono essere cancellate. Ma ciò che ancora mi sorprende è che nonostante sia trascorso così tanto tempo, il tempo necessario per ristabilire l’oggettività storica, il racconto di quei tragici avvenimenti non si trovi per nulla, o quanto meno non sia sufficientemente riportato nei libri di scuola dei nostri figli. Perché? Cosa dobbiamo ancora nascondere? È necessario un intervento – e so che e' in corso, per fare in modo che nelle scuole siano adottati solo libri completi di tutti gli aspetti, di tutte le vicende drammatiche del Novecento e, tra queste, la tragedia delle foibe. Non dobbiamo bendarci gli occhi né far finta di non sapere o dimenticare che i misfatti sono frutto delle azioni umane. Un Paese democratico non deve mai avere paura di portare alla luce del sole tutti gli angoli della propria storia. La responsabilità é il prerequisito di una compiuta analisi che non ci faccia mai più ricadere nell’orrore: ecco perché il nostro compito é conservare vivo il ricordo di ciascuna di tali tragedie, consegnando ai giovani il senso della sacralità della vita umana, della dignità della persona e dell’empietà di ogni azione che la sottometta a qualsiasi esigenza ideologica o strumentale. Io e molti altri colleghi siamo firmatari di una richiesta formale per l’istituzione di una Commissione monocamerale d’inchiesta sulle stragi delle foibe, non improntata a spirito di vendetta, il cui provvedimento però ad oggi non é ancora neanche stato incardinato. E al Consiglio regionale del Friuli-Venezia Giulia in questi giorni è stata formalizzata la richiesta di avviare l’esame di questo provvedimento presentato al Senato, perché, a fronte delle mancate restituzioni e dei congrui risarcimenti, appare quanto mai urgente e opportuno procedere rapidamente ad istituire questa Commissione. Concludo il mio intervento formulando l’auspicio che il significato di questa giornata si consolidi ancora di più nella percezione comune degli italiani, soprattutto dei giovani, e che si costruisca così una coscienza condivisa sulle cause e sulle responsabilità di quanto accadde in quegli anni. In nome del ricordo e dei valori da esso richiamati, possiamo guardare avanti e ricostruire un avvenire basato sul principio della dignità e del valore umano, perché senza dignità e senza valore non si é assolutamente nulla.» Sen. Alessandra Gallone.

Perché il loro è ancora un olocausto di serie B? Scrive Giannino Della Frattina, Mercoledì 07/02/2018, su "Il Giornale". È storia dolorosissima e piuttosto nota, ma mai abbastanza ricordata quella di una terribile edizione dell’Unità, il quotidiano che per decenni si è vantato già nella testata di essere stato fondato da Antonio Gramsci e che in quell’uscita in edicola del 30 novembre 1946, scriveva: «Ancora si parla di “profughi”: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi». L'«alito di libertà», secondo i compagni dell'Unità, era quello degli aguzzini del maresciallo Tito la cui pulizia etnica veniva bonariamente definita «avanzata di eserciti liberatori», mentre «gerarchi, briganti neri» erano definiti gli italiani costretti a fuggire dalle torture e dalla morte nell'orrore delle foibe. Una terribile follia, quella dei giornalisti comunisti (che almeno allora avevano il coraggio di definirsi tali), della quale nessuno ha mai nemmeno sentito il bisogno di chiedere scusa. Una delle pagine più disgustose della sinistra italiana che fa il paio con il Treno della vergogna, quello che nel 1947 portò ad Ancona gli esuli scappati da Istria, Quarnaro e Dalmazia. Con i ferrovieri che lo ribattezzarono «treno dei fascisti» e lo presero a pietrate alla stazione di Bologna. Tanti anni sono passati, il comunismo è stato sepolto dagli stessi comunisti che oggi sono i primi a vergognarsene e agli esuli istriani e dalmati è stata dedicata per legge il Giorno del ricordo. Ma il loro rimane lo stesso un olocausto di serie B. Nessuno oggi dice più che si sono meritati quelle morti orribili e neppure che erano tutti fascisti, ma insomma un po' di pregiudizio resta. Ed è facile dimostrarlo, basta pensare alle cerimonie per ricordare il loro sacrificio e l'orrore comunista. Troppo spesso i sindaci di sinistra (come a Milano Giuliano Pisapia) non ci vanno molto volentieri o addirittura non ci vanno proprio, preferendo inviare al loro posto un delegato del Comune. Un modo per far morire di nuovo i loro cari, per rubargli un'altra volta casa, affetti e patria abbandonati in una notte per evitare lo sterminio che è toccato a tanti di loro o lo strazio delle carni che ha fatto di Norma Cossetto il simbolo eterno di quelle sevizie. Perché le parole (non dette) possono ferire quanto le pallottole. Ci pensi quest'anno il sindaco Giuseppe Sala. Questi nostri fratelli hanno giù sofferto abbastanza per il solo fatto di essere italiani. I comunisti non ci sono più, loro invece ci sono ancora. Con tutto il loro orgoglio.

Dalle Foibe al Carabiniere aggredito, la follia dell’antifascismo non conosce limiti, scrive Andrea Pasini il 12 febbraio 2018 su "Il Giornale". Un sabato (anti) italiano. Pensate. Risulta sempre curioso osservare “pacifici” manifestanti, così come vengono descritti dai media coccola centri (a)sociali, muoversi con bastoni, passamontagna e cieca violenza contro i Carabinieri, in tenuta antisommossa, lo scorso fine settimana in quel di Piacenza. Indisturbati difensori del globalismo marciano tra le strade d’Italia, figli di un culto politico che vuole annientare questo Paese facendolo bruciare tra le fiamme del politicamente corretto. Il tutto mentre un difensore dello Stato, un brigadiere appartenente all’Arma dei Carabinieri, viene abbandonato al suo destino fatto di calci e pugni elargiti, senza parsimonia, dagli antifascisti che hanno sfilato per le vie de la Primogenita. Con quale motivazione? Per protestare contro l’apertura, avvenuta sabato 3 febbraio, della sede cittadina di CasaPound. Rossi, ma di vergogna. Immagini planate in mondovisione, che rimbalzano da un lato all’altro del globo, e mostrano una Nazione senza polso, allo sbando, che lascia un suo indefesso servitore nelle mani dei traditori della Patria. E lo lascia, abbandonando ognuno di noi, davanti ad un destino nefasto con 40 giorni di prognosi ed una spalla fratturata. Con la consapevolezza di aver assistito ad una tragedia, fortunatamente, sfiorata. Altrettanto curioso è vedere in azione, sempre loro gli antifascisti della porta accanto, a Torino armati, pacificamente sia chiaro, di sassi, bottiglie e chi più ne ha più ne metta da scagliare contro gli agenti di Polizia. La sinistra, nel frattempo, non prende le distanze, canta “ma che belle le Foibe da Trieste in giù”, proprio nel giorno del ricordo dei Martiri italiani infoibati dall’odio comunista. Impuniti ed arroganti, si vogliono fregiare del diritto di elargire patenti di democrazia, quando sono loro ad essere gli unici non democratici all’interno del panorama politico. Oppure, continuando a scavare nell’ambito delle curiosità, fa sorridere sentire i paladini di pace e di solidarietà, nella manifestazione di Macerata gremita di “indignati”, forse senza specchi in casa per osservare attentamente l’unica indegnità di questa Italia, pronti a ribellarsi contro Fascismo e razzismo, ma sempre propensi a lanciare un canto, quello citato nello scorso paragrafo, per irridere una pagina nera del panorama storico tricolore. Chi è ammantato dalla vergogna scagli la prima pietra. Le pietre dei cortei antifascisti. Una situazione rivoltante, che non sarebbe dovuta accadere. Perché, per chi se lo fosse dimenticato, il dramma delle Foibe colpì centinaia di migliaia, tra morti ed esuli, macchiando indelebilmente le pagine di quei giorni. Un fardello che il 10 febbraio viene ricordato, nel 2004 venne istituita la Giornata del ricordo, ma che trova il modo di dividere e far indignare la sinistra. Sinistra che sputa sulla bandiera tracciando una linea sottile di divisione tra defunti di serie A e defunti di serie B. Negli occhi i nostri connazionali fuggiti dall’Istria, dalla Dalmazia e da Fiume che lasciarono alle loro spalle la vita, per cercarne un’altra. Tutto per mano e volontà del Maresciallo Tito. L’Italia non li volle, rifiutò quei suoi figli per un netto contrasto con la propria coscienza. Una diaspora da quelle terre verso il mondo. Con l’accusa di essere semplicemente italiani. Stiamo assistendo ad una strumentale paura del ritorno del Fascismo. Fenomeno politico morto 70 anni fa, ma che per mascherare le malefatte della sinistra viene mantenuto in vita artificiosamente. Quindi se il Fascismo è morto, perché si continua a parlare di un suo possibile nuovo avvento? Per mascherare l’inettitudine della politiche attuale.

Perché la sinistra mette sotto accusa movimenti come Forza Nuova o CasaPound? Ricordiamolo ai democratici, forze politiche presenti in cabina elettorale. Forze politiche, soprattutto CasaPound, che raccolgono voti e consensi e che potrebbero, se sostenute concretamente dagli elettori, sedere in Parlamento? La risposta è molto semplice. Il Fascismo rappresenta, da esattamente 73 anni, la coperta di Linus delle sinistre. Trapunta che serve a mascherare la mancanza di progettualità politica, di argomenti, di interessi nazionali. I “democratici” non vogliono che si parli dell’assenza di risposte concrete, date agli italiani, durante l’ultima legislatura. La peggiore di sempre. Nulla di fatto sia per quanto riguarda l’immigrazione che per la povertà. Ma non finisce qui, basta osservare il sistema della banche e le migliori imprese tricolori svendute ad acquirenti esteri. Aldilà delle rispettive posizioni ideologiche è inquietante che si continui a parlare di Fascismo. E questo solo per il fatto che un delinquente, Luca Traini, ha scatenato in quel di Macerata la sua rabbia contro inermi vittime. L’assurdità è queste accuse vengono utilizzate per mascherare l’orrendo omicidio di Pamela Mastropietro, assassinata barbaramente da un gruppo di nigeriani dediti allo spaccio ed al voodoo. Dobbiamo dire basta a queste strumentalizzazioni, rivolgere lo sguardo al 2018 e indicare i colpevoli del folle business dell’immigrazione. Il rischio tangibile non è il ritorno delle camice nere o del razzismo. Il vero pericolo sta nella diffusione della paura, veicolo portato in grembo da una sinistra resasi conto che, questa volta, potrebbe perdere gran parte del suo consenso elettorale. 

L'ipocrisia del Cavaliere Augias. Dal salottino della Bignardi ha dichiarato che Berlusconi non può tenersi il titolo. Ma deve spiegare chi era l’agente Donat, scrive Giampaolo Rossi, Giovedì 20/03/2014, su "Il Giornale". Corrado Augias è stato netto e perentorio: dal salottino tv di Daria Bignardi ha dichiarato, con il suo solito stile british con il quale dissimula le prediche, che “Berlusconi è un interdetto e un condannato quindi non può tenersi il titolo di Cavaliere”. Augias è uomo di grande morale, anzi di grande moralismo; è da sempre un fustigatore del berlusconismo, che osserva con la solita superiorità antropologica degli intellettuali radical-chic. Da moralista dell’Italia migliore, a Corrado Augias non basta che Berlusconi si sia autosospeso: vuole che gli venga tolto con ignominia quel titolo di Cavaliere del Lavoro che si è guadagnato grazie alla sua straordinaria attività di imprenditore di successo. D’altro canto anche Corrado Augias è un Cavaliere; per la precisione è Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana, onorificenza e titolo che condivide con un altro illustre Cavaliere al Merito: tale Josip Broz, meglio conosciuto come Maresciallo Tito. Eh sì, perché Augias, che si scandalizza perché Berlusconi è Cavaliere, non si scandalizza del fatto che l’onorificenza di cui lui si fregia sia la stessa conferita, nel 1969, ad uno dei più feroci dittatori comunisti della storia, responsabile delle foibe e della pulizia etnica di decine di migliaia di italiani in Istria e Dalmazia. Ora, la prima questione è capire come sia possibile che la Repubblica Italiana abbia conferito la sua più importante onorificenza ad un massacratore di italiani. La seconda questione è che, come tutti i moralisti, Augias tende a moralizzare la vita degli altri per non affrontare la moralità della propria. Nell’intervista alla Bignardi lui stesso ha cercato di banalizzare, ridendoci sopra, una storia emersa quattro anni fa da un interessantissimo libro del giornalista d’inchiesta Antonio Selvatici e costruito studiando scrupolosamente gli archivi della StB (la polizia segreta cecoslovacca); la storia riguarda un intero dossier, ritrovato negli archivi, dedicato all’informatore italiano Corrado Augias, nome in codice “Donat”. In 135 pagine si elencavano gli incontri, i rapporti, i resoconti che tra il 1963 ed il 1967 interessavano il giovane Augias, allora funzionario Rai. Ovviamente all’inizio Augias ha negato, annunciando querele mai presentate e dovendo poi ammettere che quei contatti c’erano stati sotto forma di “blande frequentazioni”. Rimane sorprendente la capacità camaleontica di molti intellettuali e corposi pensatori della sinistra italiana di nascondere la propria storia e le proprie responsabilità rispetto ad un passato ingombrante. Coloro che hanno giustificato gulag, Pol Pot, foibe, dittature caraibiche, rivoluzioni proletarie, che sono stati “frequentatori” di apparati stranieri non certo alleati dell’Italia, sono riusciti a cambiarsi d’abito alla velocità della luce, inserendosi tranquillamente nei gangli del potere. È la stessa capacità camaleontica che consentì a Berlinguer di denunciare la “questione morale” in politica, dimenticando la “doppia morale” del PCI. Il caso del cavalierato di Berlusconi va oltre la miseria della polemica politica e riguarda l’ipocrisia di un paese che non fa mai i conti con la propria storia. Ora ci aspettiamo due cose: primo, che la Presidenza della Repubblica revochi la vergognosa onorificenza di Cavaliere al Maresciallo Tito. Secondo, che Corrado Augias, il grande moralizzatore, si autosospenda da Cavaliere al Merito in attesa di spiegarci per filo e per segno chi era l’agente Donat. Se, come lui ha detto, “uno che è condannato per frode fiscale non può essere Cavaliere”, allora non lo può essere neppure uno che “frequentava” i servizi segreti nemici.

Morto Rosario Villari, autore del celebre manuale di Storia (che dimenticò le foibe). Generazioni di studenti se lo ricordano soprattutto per il manuale di Storia, utilizzato in migliaia di classi delle scuole superiori e università (due milioni di copie vendute), scrive Matteo Sacchi, Giovedì 19/10/2017, su "Il Giornale". Generazioni di studenti se lo ricordano soprattutto per il manuale di Storia, utilizzato in migliaia di classi delle scuole superiori e università (due milioni di copie vendute). Ma Rosario Villari, storico di impostazione marxista morto ieri a 92 anni, era soprattutto un esperto di storia barocca. Tutti i suoi contributi scientifici più rilevanti erano relativi al Regno di Napoli nel corso dell'età moderna. Tra questi vanno ricordati Mezzogiorno e contadini nell'età moderna e La rivolta antispagnola a Napoli (Laterza 1967, poi ampliato nel 2012). Erano per l'epoca studi innovativi, soprattutto il secondo, che metteva in rilievo le componenti sociali ed economiche che avevano portato alla sollevazione «capeggiata» da Masaniello, spogliandole delle incrostazioni romantiche che vi aveva sovrapposto la storiografia risorgimentale. Lavori che gli avevano consentito di affermarsi all'estero e di diventare visiting professor a Oxford e Princeton. A quell'impostazione marxista, che schiaccia sul concetto di classe epoche caratterizzate da ceti e da una marcata dimensione non «economica», Villari continuò a restare legato anche quando iniziò ad apparire datata. Essa caratterizzò anche i suoi manuali scolastici, che davano largo spazio alla storia sociale. Ma che su determinati temi erano ferocemente selettivi (limite che non fu solo di Villari ma di una generazione di storici). Quindi Villari finì sotto accusa sul finire degli anni '90 per pesanti omissioni presenti nei testi: tanto per dire, la parola «foibe» era praticamente ignorata. C'è anche chi lo ha accusato di preconcetti antiborbonici. Di certo nella sua impostazione ebbe largo peso la militanza: fu membro del Comitato centrale del Pci. Ma i suoi testi sulla politica barocca restano di alto livello scientifico.

I libri di storia sono faziosi? Lo decidano gli insegnanti, scrive Alessandro di Nuzzo giovedì 12 Settembre 2002 su Kataweb. Torna alla ribalta - ormai periodicamente, si potrebbe dire - la polemica sui libri di testo "faziosi". Al di là delle prese di posizione, dei commenti espressi da fonti più o meno competenti, dei botta e risposta fra storici e politici, vediamo di capire qual è la sostanza della discussione. "Faziosi" sarebbero alcuni manuali di storia fra i più in uso nei licei e nelle scuole superiori italiane. Naturalmente la faziosità non riguarda periodi storici lontani e incerti come l'età antica o il Medioevo: non è in discussione il modo in cui vengono trattate la Guerra delle Due Rose, o lo scontro fra Ugonotti e Cattolici in Francia. L'accusa è tutta concentrata su un momento particolare e cruciale della storia contemporanea del nostro Paese, e cioé il periodo che va dal 1943 alla fine della seconda guerra mondiale e all'immediato dopoguerra. In sostanza, dunque, la faziosità riguarda il delicato capitolo Resistenza-Liberazione-Dopoguerra. I capi d'accusa rivolti ai manuali di storia sembrano essere essenzialmente tre: 1) Nessun accenno ai cosiddetti "delitti del dopoguerra" nel Nord Italia, e cioé alle vendette politiche e/o private che sarebbero state compiute dai "vincitori" all'indomani del conflitto 2) in particolare, nessun accenno alla tragica pagina delle "foibe" 3) una visione unilateralmente eroica e gloriosa della Resistenza. Quali sarebbero, poi, in concreto questi libri "incriminati" non è molto chiaro: la lista non è sempre univoca. Di certo pare di capire ci siano il Camera-Fabietti (libro un po' datato, per la verità, e non solo per quel che riguarda la storia contemporanea); il Villari; in qualche modo anche il Giardina, per quanto qui l'accusa sia più sfumata, forse anche per la difficoltà di affibbiare un'etichetta di "estremisti di sinistra" ai suoi autori. Se qualcuno dunque ha voglia di farsi un'idea propria e più precisa sulla questione, può prendere questi tre manuali in una qualsiasi biblioteca scolastica, leggerli e confrontarli. A noi la questione suggerisce almeno tre piccole considerazioni. 

1) L'oggettività di indagine e di giudizio è uno dei grandi problemi della ricerca storica: connaturato, si potrebbe dire, alla storiografia. Ma più in generale alla letteratura e alla cultura umanistica tout court. Forse Dante non è "fazioso", quando parla di storia contemporanea? O non lo è il Manzoni delle Osservazioni sulla morale cattolica? Se dobbiamo fare un'educazione al giudizio critico e alla parzialità delle fonti (e anche dei documenti, perché no?), dobbiamo farla per tutti i grandi argomenti di storia. Dunque dobbiamo e possiamo farla anche sui manuali, che sono fonti indirette anch'essi, e non sono certamente, si spera per nessuno, testi inviolabili. In altre parole, è l'insegnante, come sempre, che ha il diritto-dovere di filtrare i testi didattici, e di proporne, sempre e comunque, un uso critico e integrato. 

2) La paura che gli studenti, con le loro giovani menti così deboli e facilmente plasmabili, possano essere inesorabilmente "plagiati" da certi libri di testo o da certi professori, è un mito duro a morire che non si sa se sia più stupido o interessato. Chiunque abbia frequentato le aule di scuola negli ultimi anni sa bene che il vero problema è quello di promuovere nei ragazzi un minimo di coscienza e di memoria storica. Il dato di partenza, lo sappiamo, è un'indifferenza generalizzata, di cui i ragazzi non sono tanto colpevoli quanto vittime. Dunque, come insegnante, sarei ben più contento di una accesa discussione in classe sui temi della Resistenza fra studenti "di destra" e di "sinistra", che di un deserto di stimoli e di emozioni. 

3) Un'ultima cosa, questa sul merito della questione e delle accuse di cui si diceva sopra. L'omissione di alcune pagine importanti e tragiche della storia contemporanea ci può essere stata, e la si può verificare e giudicare. La visione "eroica" della Resistenza potrà anche essere stata unilaterale, e aver tralasciato quei caratteri di guerra civile di cui gli storici più aggiornati (anche di sinistra) ci parlano da alcuni anni. Però il sospetto, ed è un sospetto forte, è che in discussione siano non tanto dei singoli punti, quanto una visione generale, più che storica, etica: l'impostazione antifascista, con tutti i valori, anche educativi, che questa si porta con sé. Allora qui la questione si fa molto chiara, e la domanda da fare ai revisori è: vogliamo mettere in dubbio, o cancellare, l'impostazione antifascista? L'antifascismo a scuola è un valore, sì o no? Lo dobbiamo insegnare, o no? 

Perché in tal caso, più che censurare Villari dovremo censurare i Costituenti. E dopo aver emendato un povero manuale di storia, saremo costretti ad emendare il più importante testo di storia dell'Italia contemporanea: la Costituzione repubblicana. 

DOSSIER FOIBE ED ESODO UNA STORIA NEGATA A TRE GENERAZIONI DI ITALIANI a cura di Silvia Ferretto Clementi. Tratto dal Dossier Foibe ed Esodo, curato da Silvia Ferretto Clementi, Consigliere Regionale della Lombardia. LE RESPONSABILITA' POLITICHE 

Il silenzio degli alleati. Per non inimicarsi la Jugoslavia che, all'epoca, in piena guerra fredda, faceva parte dei "Paesi non allineati, gli americani, così come i loro alleati non indagarono su ciò che gli Jugoslavi avevano compiuto durante la guerra, né pubblicizzarono quanto gli stessi continuarono a compiere nei periodi immediatamente successivi alla sua conclusione. La necessità di utilizzare la Jugoslavia come "paese cuscinetto" tra i due blocchi, per contrastare l'egemonia sovietica nei Balcani, fondamentale per gli Alleati, portò a scelte molto difficili che migliaia di italiani pagarono sulla loro pelle. Anche a "giochi finiti" non vi fu mai alcuna ammissione esplicita ed ufficiale di quanto "avallarono". Sarebbe stato infatti estremamente difficile riuscire a spiegare all'opinione pubblica mondiale per quale motivo gli Alleati, pur sapendo della pulizia etnica in corso nella Venezia Giulia, non intervennero per scongiurare o comunque mettere fine a quella tremenda carneficina. Ma non solo. Gli Alleati consegnarono al Maresciallo Tito, così come fecero con Stalin per coloro che fuggivano dai russi stessi, decine di migliaia di profughi, civili e militari, segnandone il tragico destino. Questi ultimi infatti, riusciti con enormi difficoltà a passare il confine sfuggendo alle persecuzioni comuniste, vennero barbaramente massacrati e costituirono l'ennesimo tributo degli anglo americani a Tito e Stalin.

Il Governo italiano. Anche i vari governi italiani del dopoguerra preferirono mettere a tacere questi fatti per non doversi confrontare su alcune imbarazzanti questioni legate ai debiti di guerra nei confronti dei privati. I beni espropriati agli abitanti delle zone interessate dall'esodo del dopoguerra non furono risarciti equamente, ma con avvilenti elemosine. Riprendere la questione avrebbe significato indennizzi definitivi agli esuli con fondi sottratti alla ricostruzione dell'Italia devastata dalla guerra; si preferì, quindi, accantonare il problema insabbiandolo.

Le responsabilità del Partito Comunista Italiano. Il PCI, che doveva a tutti i costi evitare di far entrare nella coscienza comune l'idea che alcuni dei suoi leader potessero aver dato un tacito appoggio agli autori degli infoibamenti e delle deportazioni, negò sempre, anche di fronte all'evidenza, quanto stava accadendo in quelle terre, tacciando di falso chi tentò di renderlo noto all'opinione pubblica. Studiando attentamente la documentazione e le informazioni sulla storia giuliana che stanno via via venendo alla luce, appare logica ed evidente la conclusione che il PCI fosse totalmente appiattito sulla posizione di Tito. Da un lato questo atteggiamento poteva essere spiegato con lo spirito internazionalista che caratterizzava il PCI, alimentato tra l'altro dalla comune ideologia e dalla necessità di combattere un comune nemico come il nazi-fascismo. Ma dall'altro non si può non rilevare che questa sudditanza contribuì notevolmente ad assecondare le mire espansionistiche di Tito nei confronti della Venezia Giulia, dell'Istria e della Dalmazia. Questa sudditanza, infatti, favorì l'occupazione e la sottrazione di parte del territorio nazionale da parte della Jugoslavia e avallò la persecuzione della popolazione giuliano dalmata, che non risparmiò neanche antifascisti o compagni di partito contrari all'annessione slava. Indicativi la vicenda della strage di Porzus ed i numerosi casi di "delazioni utili" all'eliminazione di coloro che si opponevano al monopolio di Tito sul movimento partigiano. Significativa anche la lettera scritta dal vicepresidente dei Ministri Palmiro Togliatti il 7 febbraio 1945 al Presidente Ivanoe Bonomi, con la quale il leader comunista minacciò 25 persino la guerra civile se il CLNAI avesse ordinato ai partigiani italiani di prendere sotto il proprio controllo la Venezia Giulia, impedendo così l'occupazione e l'annessione jugoslava. Mi è stato detto che da parte del collega Gasparotto sarebbe stata inviata al C.L.N.A.I. una comunicazione, in cui si invita il C.L.N.A.I. a far sì che le nostre unità partigiane prendano sotto il controllo la Venezia Giulia, per impedire che in essa penetrino unità dell'esercito partigiano jugoslavo. Voglio sperare che la cosa non sia vera... è a prima vista evidente che una direttiva come quella che sarebbe contenuta nella comunicazione di Gasparotto è non solo politicamente sbagliata, ma grave, per il nostro paese. Tutti sanno, infatti, che nella Venezia Giulia operano oggi unità partigiane dell'esercito di Tito, e vi operano con l'appoggio unanime della popolazione slovena e croata. Esse operano, s'intende, contro i tedeschi e i fascisti. La direttiva che sarebbe stata data da Gasparotto equivarrebbe quindi concretamente a dire al C.L.N.A.I. che esso deve scagliare le nostre unità partigiane contro quelle di Tito, per decidere con le armi a quale delle due forze armate deve rimanere il controllo della regione. Si tratterebbe, in sostanza, di iniziare una seconda volta la guerra contro la Jugoslavia. Questa è la direttiva che si deve dare se si vuole che il nostro paese non solo sia escluso da ogni consultazione o trattativa circa le sue frontiere orientali, ma subisca nuove umiliazioni e nuovi disastri irreparabili. Quanto alla nostra situazione interna, si tratta di una direttiva di guerra civile, perché è assurdo pensare che il nostro partito accetti di impegnarsi in una lotta contro le forze antifasciste e democratiche di Tito. In questo senso la nostra organizzazione di Trieste ha avuto personalmente da me istruzioni precise e la maggioranza del popolo di Trieste, secondo le mie informazioni, segue oggi il nostro partito. Non solo noi non vogliamo nessun conflitto con le forze di Tito e con le popolazioni jugoslave, ma riteniamo che la sola direttiva da dare è che le nostre unità partigiane e gli italiani di Trieste e della Venezia Giulia collaborino nel modo più stretto con le unità di Tito nella lotta contro i tedeschi e i fascisti. Solo se noi agiremo tutti in questo modo creeremo le condizioni in cui, dimenticato il passato, sarà possibile che le questioni della nostra frontiera siano affrontate con spirito di fraternità e collaborazione fra i due popoli e risolte senza offesa nel comune interesse. …credo sia bene ti abbia precisato qual è il proposito della nostra posizione, la sola, io ritengo, che rifletta i veri interessi della Nazione italiana. Soltanto a questa posizione corrisponderà l'azione del nostro partito nella Venezia Giulia e non a una direttiva come quella accennata, soprattutto poi se emanata senza nemmeno la indispensabile previa consultazione del Gabinetto. L'atteggiamento del PCI nei confronti dei profughi giuliani, in linea con la posizione dei compagni slavi, fu di condanna totale e coloro che fuggirono dal comunismo vennero additati come fascisti. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall'alito di libertà che precedeva o coincideva con l'avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.

L'ostilità del partito si manifestò anche con atti di perfidia. Famosa in tal senso fu la manifestazione di ostilità dei ferrovieri di Bologna, i quali, per impedire che un treno carico di profughi provenienti da Ancona potesse sostare in stazione, minacciarono uno sciopero. Il treno non si fermò e a quel convoglio, carico di umanità dolente, fu rifiutata persino la possibilità di ristorarsi al banchetto organizzato dalla Pontificia Opera Assistenza. I "comitati d'accoglienza" organizzati dal partito contro i profughi all'arrivo in Patria furono numerosi. All'arrivo delle navi a Venezia e ad Ancona, gli esuli furono accolti con insulti, fischi e sputi e a tutti furono prese le impronte digitali. A La Spezia, città dove fu allestito un campo profughi, un dirigente della Camera del lavoro genovese durante la campagna elettorale dell'aprile 1948 arrivò ad affermare "in Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani". Questi relitti repubblichini, che ingorgano la vita delle città e le offendono con la loro presenza e con l'ostentata opulenza, che non vogliono tornare ai paesi d'origine perché temono d'incontrarsi con le loro vittime, siano affidati alla Polizia che ha il compito di difenderci dai criminali. Nel novero di questi indesiderabili, debbono essere collocati coloro che sfuggono al giusto castigo della giustizia popolare jugoslava e che si presentano qui da noi, in veste di vittime, essi che furono carnefici. Non possiamo coprire col manto della solidarietà coloro che hanno vessato e torturato, coloro che con l'assassinio hanno scavato un solco profondo fra due popoli. Aiutare e proteggere costoro non significa essere solidali, bensì farci complici. L'unica piccola concessione che venne fatta dal quotidiano fu il riconoscimento che, in effetti, tra coloro che fuggirono vi potessero essere anche persone non criminali, terrorizzate, però, non tanto dagli orrori subiti o di cui furono spettatori, bensì "da fantasmi". Ma dalle città italiane ancora in discussione, non giungono a noi soltanto i criminali, che non vogliono pagare il fio dei delitti commessi, arrivano a migliaia e migliaia italiani onesti, veri fratelli nostri e la loro tragedia ci commuove e ci fa riflettere. Vittime della infame politica fascista, pagliuzze sbalestrate nel vortice dei rancori che questa ha scatenato essi sono indotti a fuggire, incalzati dal fantasma di un terrorismo che non esiste e che viene agitato per speculazione di parte. È doveroso precisare che i profughi non crearono mai, in nessun luogo dove trovarono rifugio, problemi di criminalità. Al contrario si distinsero per la laboriosità e per il rispetto delle leggi. Il PCI ha enormi responsabilità anche nella vicenda dei loro più fidati compagni di partito, come lo furono gli operai monfalconesi (e non solo per aver organizzato un controesodo allo scopo di fornire manovalanza specializzata ai compagni slavi), bensì perché, dopo aver fatto leva sui loro sogni, sulla loro passione, sul loro entusiasmo e sulla loro buona fede, li ha dapprima abbandonati nel gulag di Goli Otok e poi, ai superstiti che riuscirono a rientrare in Italia, ha riservato un crudele trattamento. Queste persone furono, infatti, trattate come una vergogna da nascondere, fastidiosi testimoni di un fallimento che a molti costò non solo la perdita di un sogno romantico a cui avevano dedicato l'intera esistenza, ma la vita stessa. L'atteggiamento di acquiescenza ed omertà verso i crimini commessi dai "compagni slavi" del PCI è proseguito nell'immediato dopo guerra, ma anche nei decenni successivi. Un indirizzo politico fatto proprio anche da numerosi storici vicini al partito.

Il dibattito sulla faziosità dei libri di testo. Il dibattito sui libri di testo faziosi ebbe inizio solo nel febbraio del 1997 quando, in occasione del cinquantenario del Trattato di Pace, il ''Comitato per il diritto alla verità storica" promosso da Marcello De Angelis61 e da Francesco Storace, presidente della Regione Lazio, organizzò a Roma, insieme a numerose organizzazioni di esuli, un sit-in ''per denunciare la vergognosa latitanza dello Stato italiano nella difesa e nella memoria delle terre perdute", citando esplicitamente l'esempio delle foibe. In quell'occasione emerse che nei principali manuali di storia in uso presso i licei non si faceva menzione "della più grande tragedia che ha colpito il nostro popolo in questo secolo: il genocidio subito dagli italiani della Venezia Giulia ad opera dei partigiani comunisti slavi''. Gli esponenti di "Area" citarono alcuni dei più diffusi manuali di storia e sostennero che la mancanza di notizie sulle foibe era una chiara dimostrazione che ''sono scritti da storici faziosi o incompetenti ''.(62) Una petizione per la messa al bando dalle scuole dei testi in questione, inoltre, alla quale avevano aderito in molti, venne inviata al ministro Luigi Berlinguer. Contro le iniziative di Alleanza Nazionale, che dalla Regione Lazio si estendevano un po' in tutte le regioni, furono sottoscritti anche numerosi appelli. "Giustizia e libertà" raccolse migliaia di firme con un appello (riportato di seguito) scritto da Umberto Eco e firmato anche da Gae Aulenti, Giovanni Bachelet, Enzo Biagi, Alessandro Galante Garrone, Franzo Grande Stevens, Claudio Magris, Guido Rossi, Giovanni Sartori, Umberto Veronesi. I Garanti di "Libertà e Giustizia" assistono con viva preoccupazione alla proposta ventilata in commissione parlamentare di un controllo esercitato dal Ministero della Pubblica Istruzione sui manuali di storia per le Scuole. Rilevano che l'idea di un controllo governativo sulle idee espresse da libri di testo evoca stagioni evidentemente non ancora remote, in cui i regimi fascista, nazista e stalinista esercitavano tale diritto censorio, e giudicano l'idea indegna di un paese democratico. La responsabilità della stesura dei libri di testo compete agli editori e agli autori e la responsabilità della loro adozione compete agli insegnanti, alla cui oggettività e senso critico si delega il compito di giudicare se un testo sia valido, e in che misura possa essere eventualmente criticato e integrato in sede di lezione, addestrando così gli studenti non solo ad apprendere ma anche a giudicare le loro fonti di apprendimento. Questo è l'unico controllo che in un paese libero si può e si deve esercitare sui manuali scolastici. …si confida che la proposta rimanga semplicemente nel limbo delle cattive intenzioni. Tuttavia non si può fare a meno di rilevare che il fatto stesso che qualcuno l'abbia ventilata suscita serie preoccupazioni sullo stato di salute del nostro sistema democratico. Altri appelli per contrastare le "campagne contro i libri di testo faziosi" vennero sottoscritti anche da numerosi esponenti politici, sindacalisti, professori universitari, scrittori e associazioni.

Le opinioni degli storici. Giorgio Spini, chiamato in causa dalla rivista ''Area'', che lo citò tra gli storici ''faziosi o incompetenti o tutte e due le cose insieme'', si difese parlando di ''sciocchezze che si condannano da sole'' e di polemica ''messa su un piano inaccettabile e con un linguaggio che rivela la matrice nazista. E coi nazisti, che purtroppo esistono, non si discute''. Per quel che riguarda il discorso storico sulle foibe, che, secondo Spini, i manuali comunque affrontano, egli invitò a (…) ricordarci di tutte le aggressioni e atrocità commesse dagli italiani nell'ultima guerra a cominciare da quelle seguite alla conquista fascista dei Balcani. L'atroce reazione, che nessuna persona civile può approvare, con infoibamento di italiani, spesso innocenti, venne appunto dopo che furono gli italiani a gettare nelle foibe in notevole quantità i balcanici. Aggiungendo anche che, se dopo la guerra (…) ci fu in Italia tendenza a oscurare un po' quegli avvenimenti, fu perché altrimenti avremmo dovuto consegnare come criminali di guerra gli italiani che lì si erano macchiati di orrendi delitti. Un'ammonizione chiara a chi volesse rivisitare la storia in quel modo. Gabriele De Rosa, dopo aver messo in guardia l'opinione pubblica dal rischio dei "roghi", si dichiarò disponibile ad un confronto sui temi proposti, ma non a rispondere ad una condanna di precisa provenienza politica e ideologica, assolutamente illegittima. Sostenne inoltre che, considerato che i manuali parlavano di quel periodo, per tornarci sopra con più chiarezza bisognava ricordarsi di farlo con una ricostruzione globale, che tenesse conto del prima e del dopo e quindi anche degli "orrori di quella guerra e del fascismo ''. Rosario Villari dichiarò di aver dato conto sul suo manuale delle "modificazioni politico-territoriali provocate dalla seconda guerra mondiale, la cui responsabilità risale primariamente al nazifascismo, e sulle tragiche conseguenze che esse hanno avuto in Italia e in altri paesi" e di averlo fatto nella misura e nei termini da lui ritenuti convenienti alla trattazione manualistica, sulla base delle informazioni tratte dalle opere storiche citate nella bibliografia.

Le prese di posizione dei politici. Il presidente della Camera Luciano Violante, in un confronto tenutosi presso il Teatro Verdi a Trieste il 14 marzo '98 con il Presidente di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini, sul tema "Democrazia e identità nazionale: riflessioni dal confine orientale", affermò: Pochi sanno che questa terra ha avuto la deportazione, l'esodo e l'esilio. Non so se nel resto d'Italia si sa che questa terra è quella che ha pagato di più in termini di vite umane, di violenze. Non tutti sanno che la sconfitta della Seconda guerra è stata pagata qui e solo qui. Qui c'è stato un dolore non condiviso dall'altra parte d'Italia. Un dolore che si è separato e che è stato separato. I presidente di Rifondazione Comunista Armando Cossutta replicò duramente alle dichiarazioni di Violante sostenendo che fosse (…) una ignobile revisione della storia (…) Noi di Rifondazione siamo disposti a discutere dei crimini, delle violenze e delle tragedie di cui si sono macchiati i comunisti in tutto il mondo. Ma in Italia i fascisti hanno portato la guerra e la dittatura. Mentre, sempre qui, in Italia, i comunisti - ha chiesto polemicamente - di cosa dovrebbero vergognarsi? L'incontro di Trieste venne fortemente contestato da Rifondazione Comunista, anarchici e centri sociali, che lo definirono il "culmine di una campagna tendente a falsificare la storia con fini pacificatori", un episodio del revisionismo storico congruo "alla necessità per Fini di incassare una definitiva legittimazione dopo Verona e al tentativo di Violante di strappare un consenso anche a destra in vista della corsa verso la presidenza della Repubblica". Una risposta alle dichiarazioni di Violante arrivò anche da ben 75 storici italiani, che espressero in merito un netto dissenso, sottolineando in un documento "l'infondatezza storica dell'argomentazione e l'inconsistenza delle richieste avanzate". (…) sarebbe tanto semplicistico quanto unilaterale far ricadere la responsabilità delle foibe, soltanto sui partigiani dell'esercito di liberazione jugoslavo. (…) Non si può dimenticare, infatti, che la responsabilità della trasformazione di frizioni e conflitti interetnici, consueti e scontati in zone di confine, in contrapposizioni politiche irriducibili e risolvibili solo con la violenza, ricade prima di tutto sul regime monarchico-fascista che resse l'Italia dal 1922 in poi. (…) Delle foibe e delle espulsioni di massa deve essere considerato almeno corresponsabile il fascismo mussoliniano, con la sua politica imperiale ed aggressiva. (…) Iniziative come quella di Trieste sono incompatibili con la verità storica e con i valori fondamentali della Costituzione e suonano come un'offesa alla memoria di quanti hanno pagato con la vita la costruzione della democrazia in questo paese e nel resto d'Europa. (…) Faremo di tutto per impedire che delle mistificazioni diventino il fondamento della nuova memoria collettiva degli italiani. (documento firmato, tra gli altri, da Aldo Agosti, Francesco Barbagallo, Cesare Bermani, Luciano Canfora, Enzo Collotti, Luigi Cortesi, Domenico Losurdo, Salvatore Lupo, Gianni Oliva e Claudio Pavone). Al documento replicò Violante: Consentitemi di esprimere il mio rincrescimento per la leggerezza con la quale un gruppo di autorevoli storici ha sottoscritto un documento contenente falsità facilmente verificabili. Risulta evidente che se i toni ed i metodi utilizzati per denunciare la faziosità dei libri di testi e le numerose omissioni possono essere stati in alcuni casi discutibili, al contrario l'utilità ed i risultati positivi di tale azione sono chiaramente riscontrabili dando un'occhiata alle edizioni dei libri di testo pubblicate dopo al dibattito.

Libri di testo di storia faziosi, scrive il 27 gennaio 2008 Francesco Agnoli. Tempo addietro alcuni personaggi cercarono di proporre all’opinione pubblica il problema dei libri di testo di storia delle scuole superiori. Ci volle poco per sottolineare la faziosità di gran parte di quelli in circolazione, ma poi la discussione venne lasciata cadere. Eppure il problema è grave: i testi scolastici sono afflitti da mentalità ideologica. Per questo la caratteristica più tipica è la classificazione semplicistica, la contrapposizione manichea, l’adozione di pregiudizi come chiavi di interpretazione onnicomprensiva. L’ideologia infatti non guarda la realtà, rifiuta di coglierne la complessità, non ricerca né tanto meno verifica. Per questo, solitamente, produce odio, gratuito. Eppure ha un “pregio”: incasellando tutto precisamente dà l’illusione di comprendere tutta la realtà. E’ così facile, anche per l’insegnante, catalogare, classificare, dividere fascisti e antifascisti, buoni e cattivi…Eppure la verità è ben diversa, sia perché non tutti sono così etichettabili, sia perché, a ben vedere, tantissimi sono gli elementi di somiglianza tra le ideologie del Novecento, di destra e di sinistra. Basti pensare alla provenienza politica e culturale di Mussolini, leader del socialismo massimalista, direttore de l’Avanti, ammirato da Lenin come l’unico grande rivoluzionario italiano. Accanto a lui, al fondatore della destra fascista, troviamo numerose personalità provenienti dal mondo della sinistra, come Farinacci, dell’Unione socialista italiana, Arpinati, di provenienza anarchica, o, all’epoca dell’RSI, Bombacci, uno dei fondatori del PCI nel 1921. Analogamente si riscontrano tante suggestioni socialiste nel partito di Hitler. Nei giorni di Weimar, nel caos generale, compare ad esempio un movimento di personaggi col volto dipinto e penne sul capo, detti “Uccelli Migratori”: sodomiti, nudisti, orientaleggianti, antenati degli indiani metropolitani. Di lì a poco finiranno nelle Sa di Hitler. In questi gruppi paramilitari nazisti vi sono forti convinzioni marxiste, sia perché molti degli aderenti provengono dai “Vecchi combattenti rossi”, sia perché il loro capo, il potentissimo Rohm, afferma: “Noi non abbiamo fatto una rivoluzione nazionale, ma una rivoluzione nazionalsocialista, e poniamo l’accento sulla parola socialista”. Il gerarca Goebbels sostiene la superiorità del bolscevismo sul capitalismo, mentre Gregor ed Otto Strasser, figure guida del nazismo nel nord della Germania, prevedono, nel loro programma, “il passaggio della grande industria in proprietà parziale dello Stato e dei comuni”. Inoltre, in ambienti nazisti, “si manifestava molta comprensione per la dottrina marxista della lotta di classe… (così che) il bolscevismo ed il nazionalsocialismo, visti come i due movimenti rivoluzionari del XX secolo, erano posti in così ampia misura su piani paralleli che il loro contrasto risultava esclusivamente nel fatto che Lenin avrebbe voluto con il mondo redimere anche la Germania, mentre Hitler avrebbe voluto redimere il mondo attraverso la Germania” ( E.Nolte, “Nazionalsocialismo e bolscevismo”, Rizzoli). Questa breve premessa può aiutarci a capire un altro fenomeno: il passaggio, in Italia, a fine guerra, di moltissimi intellettuali dal fascismo ai partiti di sinistra, specie al PCI filo-sovietico. E’ un altro capitolo di storia che, sfuggendo alle classificazioni semplicistiche, viene occultato dai libri di scuola. Occorre invece riflettere, cercar di capire. Vi possono essere state persone che cambiarono opinione, cosa legittima, anzi, indice, spesso, di onestà intellettuale. In altri casi invece sarebbe semplicistico parlare solo di opportunismo: più esatto riconoscere l’intercambiabilità esistente, spesso, tra atteggiamenti ideologici apparentemente contrapposti. Dal fascismo, o dalle riviste fasciste, vengono Argan, Bilenchi, Bocca, Buzzati, Contini, Flora, Fò, Pavese, Pratolini, Quasimodo, Vittorini, Zavattini…Fascisti duri e poi comunisti sono gli intellettuali e scrittori Malaparte, Cantimori, Bontempelli, Piovene, Chilanti, Santarelli, Fidia Gambetti, Lajolo…, alcuni dei quali passano da “La difesa della razza” a ruoli importanti ne “l’Unità”. Il buon Davide Lajolo, ad esempio, prima di diventare vice-direttore de “l’Unità”, affermava: “(Mussolini) è nella sala. La sala è piena di Lui. Non esistiamo che in Lui…bisogna guardarlo estasiati”. Poi i tempi cambiarono, e l’eroe divenne Stalin. Ma rimase spesso la mentalità ideologica, settaria, la stessa di molti libri di storia scolastici, e dei vari Camera-Fabietti che li scrivono.

Storia, manuali faziosi ma la politica ne stia fuori. I nostri studenti hanno una visione parziale dell’intera storia d’Italia, dal Risorgimento a Berlusconi. A questa deriva sinistrorsa bisogna opporre una severa critica culturale. Senza interventi dall’alto, scrive Mario Cervi, Venerdì 15/04/2011, su "Il Giornale". Gabriella Carlucci ha ieri difeso con impeto, sul Giornale, la sua proposta d’istituire una commissione parlamentare d’inchiesta sull’imparzialità dei libri di testo scolastici. Nonostante l’appassionata perorazione, resto del parere che l’istituenda commissione sarebbe nel migliore dei casi una creatura inutile, e nel peggiore una creatura dannosa. Cercherò di spiegare i motivi del mio «no». Sono anzitutto d’accordo con Marcello Veneziani nel ritenere che le commissioni d’inchiesta non servano a niente (o servano soltanto ad assegnare qualche ulteriore auto blu e qualche appannaggio). La loro superfluità è dimostrata dall’esperienza. Trattandosi d’organismi che riproducono su scala ridotta gli equilibri delle assemblee, le deliberazioni dipendono, nei casi controversi, dal criterio secondo cui la maggioranza prevale sulla minoranza. Il che si addice perfettamente a decisioni politiche, non a decisioni che coinvolgano problemi di principio o di giustizia o etici. Si rischia insomma d’avere, con le commissioni parlamentari d’inchiesta, pronunce altalenanti in sintonia con la maggioranza del momento. Non nego - mi contraddirei se lo facessi perché questo dei libri di testo è stato un cavallo di battaglia del Giornale montanelliano - la faziosità di certi manuali scolastici ispirati a un conformismo politicamente corretto quando non a convinzioni ideologiche di una sinistra scatenata. Quei testi possono influenzare fortemente gli studenti, propinando loro come verità accertate quelle che sono soltanto asserzioni di parte, e magari dichiarazioni di fedeltà a idee e ideali demoliti, per fortuna, dalla Storia. Ma il rimedio a questo evidente e concreto pericolo sta in una scelta oculata da parte degli insegnanti e in una vigilanza attenta delle famiglie, non in misure che sappiano anche lontanamente di volontà censoria e che legittimano reazioni ammantate di nobili ideali. Un elemento mi rende particolarmente perplesso, nel proposito della Carlucci. Il suo evidente ispirarsi alle polemiche antiberlusconiane, ossia a un momento importante ma per forza di cose contingente - vi includo l’anagrafe - delle vicende nazionali. Siamo avvolti e frastornati da polemiche sulla personalità e sulle qualità umane e politiche del Cavaliere. Ma siamo anche avvolti e frastornati da tante altre polemiche che incidono profondamente nel tessuto della nostra identità e della nostra italianità. Negli scaffali delle biblioteche si allineano, è vero, pamphlet antiberlusconiani. Ma s’allineano anche, e in gran numero, saggi che contestano i momenti fondanti dello Stato e immiseriscono le vicende che accompagnarono l’Unità. Ho recensito di recente libri che descrivono il Risorgimento come un periodo in cui l’identità italiana, formata e affermata dalla Chiesa, fu violentata da un laicismo imperversante, dalla massoneria, dal Piemonte sabaudo e dai suoi alleati stranieri. Non condivido nemmeno un po’ quei giudizi, ma mi sembrerebbe arbitrario depennarli se fossero inseriti in qualche manuale. Ho letto saggi che annichiliscono le figure dei padri della Patria, saggi che mettono sotto accusa, vedendovi la causa di molti mali, la Prima Repubblica (insieme ad altri che invece della Dc, protagonista di mezzo secolo, tessono le lodi). Questo materiale immane viene affrontato e sviscerato, con esiti diversi, da molti storici e divulgatori, ciascuno di loro portandovi i suoi personali punti di vista: non di rado con intenti dissacratori e revisionisti. Può un’indagine del Parlamento - dove, a quanto risulta da alcune irriverenti domande, la conoscenza della storia non è d’alto livello - dirimere le innumerevoli questioni sul tappeto, e servirle belle che risolte a docenti e discenti? Figurarsi. È esistita, e in parte esiste tuttora, la famosa e famigerata egemonia culturale della sinistra. La vulgata cui si abbeverano gli studenti ha molto spesso un’impronta progressista che magari è invece passatista, visto che il comunismo e i suoi derivati appartengono al passato. Negletto il liberalismo, osannato a parole da tanti e nella pratica onorato da pochissimi. Ma alla deriva d’un sinistrismo di maniera si deve e si può opporre la critica, non una forma seppure attenuata di controllo dall’alto. Quella tanto evocata egemonia culturale deriva anche dal fatto che molti «moderati» - così come la Dc un tempo - attribuiscono poca importanza alla lettura e alla curiosità intellettuale, ritenute un impaccio al fare. Il fare, quando è di prima scelta, non fa impaccio a niente. Ma vale la pena di occuparsi anche d’altro. Un ultimo rilievo. Non so quanto Gabriella Carlucci sia consapevole della disistima degli italiani nei confronti del Parlamento. Se lo è, può facilmente immaginare lo scarso o nullo appeal che l’idea dì una Commissione parlamentare arbitra di temi intellettuali ha per gli italiani.

Quei libri di storia da bruciare, scrive Marina Cavalleri il 24 aprile 1997 su "La Repubblica". L'annuncio fatto ieri dagli studenti di An evoca scenari apocalittici: "La prossima settimana saremo in piazza a bruciare i libri di parte, davanti ad alcune scuole romane, al ministero della Pubblica istruzione e al Senato per chiarire che non siamo disposti ad accettare l'intolleranza ideologica dell'Ulivo". Libri al rogo, manuali di storia faziosi che meritano le fiamme. Gli studenti di destra minacciano azioni simboliche, annunciano gesti dal fosco sapore nazista o forse solo cinicamente pubblicitari. Ma invece dei libri ardono le polemiche e l'iniziativa libri al rogo, appena annunciata, annega in una pozzanghera di polemiche. Si gioca sulla Storia l'ultima guerra scolastica e dai banchi parte una crociata contro il governo. I giovani che aderiscono ad 'Azione studentesca' protestano contro il recente provvedimento che prevede la revisione dei programmi di storia e contro il ministro Berlinguer al quale si contesta di 'gestire la memoria della storia a fini di partito' . "E' una provocazione forte ma necessaria - spiega Marco Marsili responsabile nazionale di Azione studentesca - per richiamare l'attenzione sul grave rischio di indottrinamento culturale che corre la scuola pubblica". Così dopo le accuse di Ernesto Galli Della Loggia al ministro Berlinguer ("Programmi di storia nel segno della vulgata marxista"), arrivano i giovani di destra a tacciare di dittatura ideologica la sinistra alla Pubblica istruzione. Dovrebbero finire nelle fiamme testi come quelli di Spini o il Camera Fabietti. Ma il rogo annunciato però non piace ad Alleanza nazionale che sconfessa l'iniziativa: "E' una sciocca provocazione. I libri si possono confutare, ma in ogni caso i giovani, compresi quelli di Azione studentesca, farebbero meglio a leggerli". Ma la tirata d' orecchi di Fini è ancora più violenta. "Chi annuncia il rogo dei libri è un ignorante che non conosce la storia. A destra non c' è posto per cretini di questo genere". Finisce male per gli studenti di An, le fiamme non ardono. Ma già prima della stroncatura del partito c' erano state prese di distanze, polemiche, bocciature. Ernesto Galli Della Loggia precisa: "Citare i miei articoli in margine all' annuncio del rogo dei libri di testo di storia è un tipico caso di strumentalizzazione. I libri non si devono bruciare e il signor Marsilio forse non sa di avere tra i suoi progenitori i nazisti, cui è andata piuttosto male". "Sono fuori luogo", dice Marcello Veneziani, ex direttore dell'Italia settimanale, "non darei eccessiva importanza alle dichiarazioni di un gruppo il cui atteggiamento estremista non è condiviso dalla maggioranza della destra giovanile". E Giuseppe Malgieri, direttore del Secolo d' Italia: "La faziosità di alcuni libri autorizza a posizioni intransigenti: ma un conto è la denuncia, un conto i roghi".

Onestà intellettuale? Ignoranza insensibilità e faziosità dei testi scolastici i libri di testo delle scuole sono profondamente disonesti dal punto di vista intellettuale tutti sono espressione del Pensiero Unico oggi dominante, scrive Francesco Lamendola il 29 settembre 2010. All’insegnante che abbia un po’ di esperienza e un minimo di colpo d’occhio non sfugge il fatto che gli strumenti di cui si serve quotidianamente nella sua professione, i libri di testo delle scuole, sono profondamente disonesti dal punto di vista intellettuale. Egli, pertanto, è costretto a insegnare ai propri studenti servendosi di uno strumento peggio che difettoso: di uno strumento assolutamente scorretto e fuorviante, il quale tende sistematicamente a falsare la percezione della realtà, sia quella del presente che del passato. Si dirà che basta scegliere con cura i libri di testo e che ogni insegnante, dopo tutto, gode della massima libertà di optare per un libro, anziché per un altro. Verissimo: ma il fatto è che i libri di testo oggi in circolazione, praticamente senza eccezione, sono un po’ come i canali televisivi: ce ne sono tantissimi, ma tutti suppergiù si equivalgono quanto a ignoranza, insensibilità e faziosità; tutti sono espressione del Pensiero Unico oggi dominante. Nel corso di un paio d’ore di lezione, ad esempio, può capitare che un professore di liceo, rimanendo all’interno di una singola classe, debba scontrarsi più di una volta con la grossolana tendenziosità e con l’ottusa arroganza intellettuale dei libri di testo.

Supponiamo che la prima ora di lezione sia di italiano e che la seconda sia di storia. Ora di letteratura italiana: si parla del Seicento, si parla di Galilei, si parla del «Saggiatore». Si legge l’immancabile «favola dei suoni», in cui Galilei, dietro l’apparenza di celebrare la modestia intellettuale dello scienziato e l’infinità del sapere, esalta invece la manipolazione delle cose, il dominio brutale sulla natura, l’orgoglio sconfinato dell’uomo di scienza che si sente al di sopra della morale, del bene e del male. Si parla della vivisezione di una cicala, perché lo scienziato vuole comprendere l’origine del suo frinire: non una parola di rammarico per il crudele trattamento inflitto alla bestiola; non una parola di dispiacere per quella piccola meraviglia della natura che viene distrutta. L’unico rammarico è di non aver compreso come si produca il suono. Questo, da parte di Galilei. I curatori dell’antologia scolastica, tutti senza eccezione, presentano il fatto senza batter ciglio. Addirittura, la sofferenza e l’uccisione dell’animale vengono ignorati; sono un semplice inciso all’interno di una proposizione molto più ampia e complessa; tutta l’attenzione e tutta l’ammirazione del giovane lettore sono indirizzati verso l’intrepido scienziato, esploratore dell’ignoto, novello Ulisse che agisce sospinto da una santo amore di conoscenza, tanto pura quanto disinteressata. Nessun curatore di testi scolastici fa notare che questo è un esempio di scienza senza coscienza; che dallo “stupore” di Galilei verso la natura non derivano né umiltà, né compassione, né senso della bellezza; che la moderna vivisezione di milioni di cavie animali e, più in generale, l’implacabile manipolazione di esseri viventi da parte della tecnoscienza, sono la logica conseguenza di questo modo di porsi davanti alle cose, iniziato con la cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo: meccanicista, razionalista, riduzionista, utilitarista e tendenzialmente materialista.

Seconda ora di lezione: storia. Si parla dell’espansione europea negli altri continenti fra il XVI e il XVIII secolo; più precisamente, si parla dell’espansione inglese in India e in Australia. Ebbene, nemmeno una parola sullo sconvolgimento sociale ed economico portato dalla presenza britannica in India; peggio ancora, nemmeno una parola sul genocidio degli aborigeni australiani, sulla caccia all’uomo dei Tasmaniani, fino alla loro estinzione totale, allorché l’ultima rappresentante di quel popolo mite e inoffensivo, contro la sua esplicita volontà, venne imbalsamata dopo la morte ed esposta in una sala del museo di antropologia di Hobart, per la delizia della scienza e del pubblico pagante. Qui c’è qualcosa che non quadra. Qualcosa di profondamente sbagliato sia sul piano storiografico, sia sul piano etico. Si parla dell’Australia come se fosse stata disabitata, come se fosse stata “res nullius”. Non si dice che i suoi abitanti erano il popolo più antico dell’umanità e che occupavano quei luoghi da qualcosa come 40.000 anni; non si dice che i bianchi li sterminarono a freddo, per impiantare le loro fattorie e i loro allevamenti di pecore. Eppure, quello consumato contro di loro fu un genocidio. Ma l’unico genocidio di cui si parla sui libri di testo scolastici è quello degli Ebrei ad opera dei nazisti. Solo la Germania, secondo gli autori dei nostri libri di testo, porta un simile peso sulla coscienza; la Gran Bretagna no, quando mai: gli Inglesi sono “buoni”, hanno sempre combattuto guerre giuste, guerre per la libertà altrui. Hanno salvato l’Europa e il mondo dal nazismo, quindi sono i “liberatori” per eccellenza. Sarà per questo che non si dice, su quei libri di testo, che il primo esercito ad impiegare le armi batteriologiche fu quello inglese, nel 1755, allorché il generale Edward Braddock fece distribuire agli indiani del Nord America delle coperte infettate dal vaiolo, provocando deliberatamente la morte di migliaia di uomini, donne e bambini inermi? Tutti, oggi, conoscono i nomi di Hitler, di Himmler, di Eichmann; nessuno conosce il nome di Braddock.

Davvero, c’è da rimanere disgustati. Abbandonati in balia di simili libri di testo, la mente e la coscienza degli studenti sarebbero perdute, se qualche insegnate non si prendesse la briga di farli riflettere e di insegnare loro l’uso critico delle fonti. Gli stereotipi che vengono perpetuati da questa impostazione didattica sono volutamente funzionali ai poteri forti oggi dominanti: la tecnoscienza, il capitalismo selvaggio dell’alta finanza e delle multinazionali, l’Impero americano e il sionismo internazionale, con tutte le sue tentacolari diramazioni. Analoghe sconcezze si trovano, purtroppo, nei testi di quasi tutte le discipline scolastiche, in particolare in quelli di storia della filosofia, che sono redatti, la maggior parte delle volte, in maniera semplicemente oscena.  Vengono esaltati acriticamente sempre gli stessi pensatori, magari proprio in ciò che vi è di maggiormente discutibile nel loro pensiero (vedi Galilei); e vengono ignorati quelli che presentano un punto di vista alternativo all’attuale Pensiero Unico. Non parliamo poi della filosofia dell’Asia, di cui non si sa nulla, quindi nulla si insegna: la storia della filosofia è rimasta profondamente etnocentrica.

Forse solo i libri di matematica, alla fine, si salvano; perché in quell’ambito è difficile, se non impossibile, fare certi giochetti. Sia chiaro che non pretendiamo che gli autori dei libri di testo sposino, necessariamente, una visione del reale di tipo olistico, spirituale, ecologicamente sostenibile e via dicendo; sarebbe troppa grazia. Ci accontenteremmo di vedere un minimo di problematicità, un minimo di contraddittorio, un minimo di consapevolezza che, nella modernità, vi sono le luci, ma anche le ombre; vi sono le conquiste del progresso, ma vi è anche il ritorno della barbarie; le maggiori comodità materiali, ma anche la bomba atomica, la catastrofe ambientale, lo sconvolgimento climatico. Ci basterebbe che, in quei benedetti libri, non si intonassero sempre e solo i peana dei vincitori; che vi fossero un po’ di spazio, un po’ di attenzione e, perché no, un po’ di compassione anche per i vinti. Che si parlasse anche delle ragioni della cicala vivisezionata, della vecchia tasmaniana il cui cadavere fu ridotto ad attrazione da museo, dei pellerossa che morirono come mosche per il vaiolo portato alle coperte del generale Braddock. Che sui libri di storia della seconda guerra mondiale si parlasse dei sette fratelli Cervi fucilati dai fascisti, ma anche dei sette fratelli Govoni fucilati dai partigiani. Che si parlasse della distruzione di Amsterdam e Varsavia da parte dei nazisti, ma anche di quella di Amburgo e Dresda da parte degli Alleati. Che si parlasse della Risiera di San Saba, ma anche della foiba di Ugovizza; che si parlasse delle migliaia di Italiani assassinati a guerra finita, per vendetta, senza una tomba su cui i loro cari potessero posare un fiore.

Che si parlasse di Auschwitz e di Dachau, ma anche di Hiroshima e Nagasaki. Quanta falsità istituzionalizzata; quanta ipocrisia; quanta cattiva coscienza. E con questa mancanza di serietà didattica e morale, con questo servilismo verso la Vulgata dei vincitori, con questa faziosità senza pudore e senza vergogna, vorremmo insegnare qualcosa ai nostri ragazzi? Tutto quel che possiamo insegnare loro, in simili condizioni, sono il più piatto conformismo intellettuale e la più bieca ipocrisia; e i frutti li vediamo ogni giorno, osservando la spudoratezza con cui la stampa si adopera per manipolare il pubblico, senza che si levi una sola voce di virile indignazione e di protesta sacrosanta. Prendiamo il caso di Sakineh, la donna iraniana condannata a morte nel suo Paese per adulterio e complicità nell’omicidio del marito. I media occidentali ne hanno fatto una bandiera di libertà e l’hanno quasi santificata, inorriditi all’idea della sua lapidazione. Ora che, come sembra, l’esecuzione avverrà invece mediante impiccagione, il fuoco di fila delle proteste, diplomatiche oltre che di opinione pubblica (e il governo italiano, come sempre in questi casi, brilla per la sua crociata in favore della “civiltà”), si è spostato dal modo della pena alla pena in se stessa: Sakineh non dev’essere uccisa, punto e basta. Encomiabile umanitarismo; peccato che non si spenda una parola per i condannati e le condannate a morte negli altri Paesi del mondo, e specialmente per quelli degli Stati Uniti d’America, la madre di tutte le democrazie, minorenni compresi (ma li si fa aspettare nel braccio della morte finché diventino maggiorenni, prima di sopprimerli). Si vede che assassinare legalmente un uomo è meno grave che se si tratta di una donna; oppure assassinarlo con una iniezione letale o fulminandolo sulla sedia elettrica è ritenuto meno esecrabile che farlo con le pietre o con il cappio. A nessuno, pare, viene in mente che il vero problema non è umanitario, ma politico: si vuol dipingere il governo iraniano come una banda di carnefici, cosa che potrebbe anche essere: ma non per la condanna di Sakineh; lo si vuole screditare e infangare per favorire il sionismo, che vede in lui il suo peggior nemico. E questo mentre le scavatrici israeliane, con furia indecente, allo scadere della moratoria si sono rimesse febbrilmente al lavoro per costruire nuove abitazioni destinate ai coloni ebrei in Cisgiordania, con buona pace delle trattative di pace e di innumerevoli risoluzioni delle Nazioni Unite in favore dei Palestinesi.

Dunque: libri di scuola menzogneri, conformisti, culturalmente disonesti; futuri cittadini ignoranti, intellettualmente pigri e facilmente manipolabili. Una volta i libri di testo li scrivevano fior fior di specialisti; quelli di storia, ad esempio, li scrivevano insigni storici; quelli di storia dell’arte, illustri storici dell’arte. Oggi i libri di scuola li firmano non più singoli autori, ma équipe di intellettualini a un tanto il chilo, gente che nelle scuole non ci ha mai messo piede: lo si vede da come scrivono, costringendo gli insegnati a spiegare quasi ogni riga e ogni parola e a tradurle in un italiano comprensibile al pubblico cui, in teoria, sono destinati: dei giovani dal modesto retroterra culturale. Ma tanto si sa che quello dei libri scolastici è un business delle case editrici, una specie di mafia altamente sofisticata: l’ultimo ritrovato è quello di cambiare qualche paragrafo qua e là ogni due-tre anni, per impedire che il libro possa passare di mano dal fratello maggiore al fratello minore e permettere, così, alle famiglie di risparmiare qualche migliaio di euro. Insomma, per dir le cose come stanno: siamo in presenza di un panorama desolante e deprimente, di uno squallore assoluto. Tutto quello che si può sperare è che gli insegnanti, insieme al veleno, forniscano ai loro studenti anche l’antidoto: ossia che mostrino loro come ci si deve porre in maniera critica di fronte ad un libro di testo, anzi, di fronte a qualsiasi libro; così come bisognerebbe fare di fronte a qualsiasi giornale, a qualsiasi programma televisivo, a qualsiasi film. Ma ne avranno la capacità, la voglia, l’onestà intellettuale? Oppure, figli di un Sessantotto che è stato esiziale per l’università, per la cultura e per il pensare in modo non conformista, molti di loro sono i primi a sposare il Pensiero Unico; magari rimangiandosi molti dei loro ideali di allora, ma fedeli - in compenso - al servilismo intellettuale di sempre? 

Articolo già pubblicato su “il Corriere delle Regioni” il 12/05/17 e su Arianna Editrice il 29/09/2010

Libri Faziosi - Quando la storia diventa una favola... sinistra! Scrive Azione Giovani Matera. Bertold Brecht diceva "il libro è un’arma". E aveva ragione. Un’arma estremamente efficace, soprattutto se utilizzata contro chi non ha scudi per difendersi. Nelle scuole italiane quest’arma è stata usata per oltre cinquant’anni, e ha sortito l’effetto desiderato, cioè quello di indottrinare generazioni attraverso l’omissione di intere pagine della nostra storia e la mistificazione di altre. Per anni Azione Studentesca, e prima ancora Fare Fronte, si sono battuti contro la faziosità con la quale vengono scritti molti dei testi adottati negli istituti superiori, testi che trattano in particolare la storia, la letteratura, la filosofia e l’arte. Abbiamo denunciato il silenzio colpevole, quando non la connivenza, degli storici, dei docenti, della stampa e del Ministero della Pubblica Istruzione. Nulla. La situazione è addirittura peggiorata con l’entrata in vigore del Decreto sul ‘900, che impone, durante l’ultimo anno delle superiori, lo studio del XX secolo fino ai giorni nostri. Scorgendo alcuni dei testi che vengono adottati nelle scuole superiori, non si ha difficoltà a incontrare mistificazioni, commenti faziosi, veri e propri falsi storici, fino ad arrivare a una evidente campagna elettorale. In questo dossier vengono riportati alcuni esempi che dimostrano come sia facile fare propaganda ideologica, politica e partitica utilizzando la scuola pubblica. Così, come qualcuno ha detto, "la storia è stata sottomessa alla corsa al potere dell’ex PCI". Questo Dossier non rappresenta il tentativo di scagionare alcuni personaggi o fatti storici e di condannarne altri, perché non faremmo niente di diverso da quello che è stato fatto finora. La nostra unica volontà è quella di dimostrare come anche una certa cultura imposta nelle scuole abbia contribuito ad alimentare una guerra civile, spesso latente, che in Italia dura da cinquant’anni, e che ha causato lo scontro, spesso durissimo, tra intere generazioni, divise in nome di ideali e appartenenze anacronistici. Le case editrici, gli autori, i docenti e il Ministero della Pubblica Istruzione che permettono la stampa di alcuni libri di testo, devono assumersi la responsabilità di voler alimentare questo scontro, e di impedire che il popolo italiano possa ricostruirsi una sua identità comune, che può nascere solo da una lettura obbiettiva e serena della sua storia. Non si tratta di scrivere libri "di sinistra" o di "destra" (alla denuncia di Azione Studentesca l’ineffabile Ministro Berlinguer ha risposto suggerendo di scrivere libri di destra per contrastare quelli di sinistra – COMPLIMENTI!), chiediamo solo la verità.

Un esempio: nella maggior parte dei libri di storia non c’è una parola sulle migliaia di nostri connazionali uccisi nelle foibe dai comunisti di Tito per la sola colpa di essere italiani. Noi non chiediamo che se ne parli per riportare il numero esatto delle vittime del comunismo nel mondo sui libri di storia. Non ci sogniamo una edizione scolastica del "libro nero del Comunismo", non ci interessa. Noi chiediamo che se ne parli perché è vergognoso che una Nazione degna di questo nome sia disposta a dimenticare i suoi martiri in nome di un interesse di parte. Né si può dare credito a quanti sostengono che determinate pagine di storia siano state omesse per permettere proprio la costruzione di una nuova identità nazionale sul mito – debole - della Resistenza, perché, se anche questa teoria fosse credibile (e non lo è), non sarebbe più valida dopo cinquantacinque anni dalla fine della seconda guerra mondiale. Nulla giustifica la faziosità con la quale spesso si parla di determinati fatti e personaggi dei giorni nostri.

Se è vero che la storia la scrivono i vincitori, è vero anche che costoro hanno vinto più di cinquant’anni fa. Ora basta. E’ tempo che le nuove generazioni abbiano la possibilità di confrontarsi per ricucire una ferita che ha sanguinato troppo a lungo.

C’ERA UNA VOLTA…Qui di seguito riportiamo alcuni degli esempi più significativi (riportarli tutti avrebbe voluto dire scrivere centinaia di pagine!) di mistificazione dei principali testi di storia adottati nelle ultime classi delle scuole superiori.

"ELEMENTI DI STORIA – XX secolo" di Augusto Camera e Renato Fabietti IV Edizione per ZANICHELLI. Pag. 1575 "Quanto alla pretesa di una parità etico-politica delle due parti in lotta [Combattenti della Repubblica Sociale e Partigiani – ndr], si vorrà riconoscere (e i più avveduti militanti di provenienza fascista hanno effettivamente riconosciuto) che da una parte si combatteva per la libertà, dall’altra per il totalitarismo e per la schiavitù. Né si dica che se da una parte ci si schierava per i Lager dall’altra ci si batteva per i Gulag, perché, in primo luogo, i Lager erano solo la conseguenza estrema, ma logica e necessaria, di un regime che si fondava sulla disuguaglianza degli uomini, sulla sopraffazione e l’eliminazione delle "razze inferiori", sull’asservimento degli Untermenschen, mentre in linea di principio il comunismo esprimeva l’esigenza di uguaglianza come premessa di libertà (e l’ignominia dei Gulag non è dipesa da questo sacrosanto ideale, ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto o peggio dalla "conversione di Stalin al tradizionale imperialismo); in secondo luogo, i militanti comunisti italiani certamente non si battevano per importare anche in Italia i Gulag ma per eliminare ingiustizie e privilegi." Ecco quello che non temiamo di definire un bieco tentativo di giustificare l’ingiustificabile. Facciamo rispondere per noi ad Aleksandr Solzenicyn, premio Nobel per la letteratura nel 1970, privato della cittadinanza sovietica ed espulso nel 1974. Scrive Solzenicyn, affrontando un aspro parallelismo tra i servi della gleba dell’epoca zarista e i detenuti nei Gulag dell’epoca "dell’illuminato impero sovietico": "[…] Non gli è permesso il più piccolo temperino, non gli è permesso avere una scodella, di animali domestici è autorizzato a tenere solo i pidocchi. Il servo della gleba poteva di tanto in tanto buttare le reti, pescare qualcosa. Il detenuto pesca solo con il cucchiaio, nella sbobba. Il servo della gleba aveva la sua mucca, o una capra, polli. Il detenuto non si unge neppure le labbra con il latte, mai, non vede un uovo per decenni, potrebbe addirittura non riconoscerlo se lo vedesse."

Pagg. 1564-1566 "L’8 settembre 1943, nel vuoto di potere determinato dallo sfacelo dello Stato Italiano, furono uccise, soprattutto in Istria 500/700 persone. Per quanto gravi, quei fatti non corrispondevano però a un disegno politico preordinato: essi furono piuttosto la conseguenza di uno sfogo dell’ira popolare sloveno-croata contro gli italo-fascisti, paragonabile alla strage di fascisti perpetrata nel Nord Italia dopo il 25 aprile, nella quale certo non intervennero motivazioni etniche di nessun genere." […] Eccoci davanti a un vero falso storico. Tutti ormai sanno che la triste pagina delle Foibe venne scritta dai soldati di Tito tesi ad una vera e propria pulizia etnica. Le vittime italiane non erano fascisti, ma gente comune, contadini ed abitanti del luogo; donne e bambini. "[…] Noi non abbozzeremo un bilancio degli "infoibati" e dei soppressi in vario modo e in varie circostanze, in primo luogo e soprattutto perché le cifre fornite dalle varie fonti sono disparate e malcerte; in secondo luogo perché l’abitudine invalsa di usare come argomento politico il cumulo dei cadaveri gravante sulla coscienza di questo o quel partito ci sembra disgustosa." Bravi! Finalmente un po’ di onestà intellettuale… peccato solo che il disgusto che gli autori del libro provano in questa specifica circostanza non sia sorto spontaneo in tutte le altre circostanze in cui, a commettere crimini contro l’umanità sono stati esponenti della parte politica a loro avversa. "[…] Altrettanto inammissibile ci sembra il fatto che osino chieder conto della ferita sofferta dall’Italia nelle sue regioni nord-orientali coloro che di tale ferita sono stati i primi responsabili o coloro che di tali primi responsabili si dichiarano eredi e continuatori." Vergogna! Non ci sarebbe bisogno di nessun commento, se non fosse che gli autori, non paghi, accanto all’immagine della lapide commemorativa eretta sulla Foiba di Basovizza pubblicata sul loro volume, hanno scritto: "[…] Dopo la prima guerra mondiale fu usata come discarica [la Foiba di Basovizza ndr], anche di materiale bellico; ed ebbe una sua triste fama come meta di suicidi. E’ stata dichiarata come monumento nazionale nel 1992." Sul massacro di Basovizza il giornale Libera Stampa in data 1.8.1945 pubblicava un articolo dal titolo: "Il massacro di Basovizza confermato dal CLN Giuliano". Piena luce sia fatta in nome della civiltà. Una dettagliata documentazione trasmessa alle autorità alleate della zona e al Governo Italiano." L’articolo riportava un documento sottoscritto da tutti i componenti del CLN che denunciava i crimini accaduti a Trieste tra il 2 e il 5 maggio 1945: "Centinaia di cittadini vennero trasportati nel cosiddetto Pozzo della Miniera in località prossima a Basovizza e fatti precipitare nell’abisso profondo 240 metri. Su quei disgraziati vennero in seguito lanciate le salme di circa 120 soldati tedeschi uccisi nei combattimenti dei giorni precedenti e le carogne putrefatte di alcuni cavalli".

Pag. 1569 "[…] I partigiani esercitarono le rappresaglie sempre e soltanto sui nemici nazisti e fascisti fatti prigionieri, non mai sulla popolazione civile, neppure quando questa si dimostrava attesista e opportunista." Altro falso storico, stavolta addirittura clamoroso. Tanto per citare solo uno dei fatti, il 7 febbraio 1945 un gruppo di partigiani italiani della brigata comunista Garibaldi compiva il triste eccidio di Malga-Porzus a danno di 19 partigiani della brigata cattolica Osoppo, che ostacolavano l’attuazione del progetto jugoslavo, teso all’annessione di territori italiani alla Jugoslavia comunista di Tito. "[…] è anzi importante rilevare come i combattenti anti-fascisti si preoccupassero di non compromettere invano la popolazione civile". E la favola - o la farsa - continua. Se è vero che i combattenti anti-fascisti si preoccupavano di non compromettere la popolazione civile, come è possibile che abbiano piazzato una bomba in Via Rasella uccidendo, oltre a 32 militari tedeschi, anche civili italiani compreso un bambino? E come è possibile che non avvertirono il dovere morale di costituirsi quando appresero della rappresaglia che sarebbe scattata a danno di 335 civili innocenti? Anche i "combattenti per la libertà" dovrebbero sapere che non è ammissibile far pagare alla popolazione inerte le scelte che si fanno in guerra.

Pag. 1663 "[…] Al terrorismo nero si salda presto il terrorismo che si dichiara rosso e proletario, ma che in realtà matura in ambienti universitari e piccolo borghesi e consegue, oggettivamente, gli stessi risultati del terrorismo nero, cioè genera tensione e disordini, dai quali può nascere solo un’involuzione reazionaria di ispirazione fascistoide." Siamo al delirio! Al di là dei nonsensi contenuti in questa frase (non si capisce perché in ambienti universitari e della piccola borghesia non si possa essere comunisti!), la "capriola" mentale degli autori non può che far ridere come un buon numero di cabaret: il terrorismo rosso non esiste. Anche quello che si proclama tale, a ben vedere, è fascista. Bah!

Pag. 1674 "[…] La volontà di cambiamento e la protesta contro la partitocrazia e contro il consociativismo si espressero anche nei consensi relativamente numerosi ottenuti dal Movimento Sociale Italiano (5%) […] Notevole fu invece il successo ottenuto da Rifondazione Comunista (6%), da interpretare però non come protesta contro il sistema dei partiti, ma come rifiuto della società esistente e come espressione di fedeltà ai vecchi ideali della lotta proletaria." Veramente degna di due storici questa lucida analisi. "[…] Il tracollo del comunismo in URSS e nei paesi satelliti contribuì certo a ridimensionare il vecchio PCI e, almeno in un primo tempo, il nuovo PDS (i cui militanti venivano spesso detti tendenziosamente "ex-comunisti" anziché democratici di sinistra)." Non riconoscere le "mutazioni" storiche dei partiti e dei suoi militanti è pratica molto diffusa in Italia. Allo scopo segnaliamo nello stesso libro il passo che segue. Pag. 1680 Accanto all’immagine dell’etichetta comparsa su alcune bottiglie di vino prodotte a Predappio nei tardi anni ‘80, gli autori scrivono questa didascalia: "Sino agli inizi degli anni novanta, il Movimento Sociale Italiano si richiamò esplicitamente ai contenuti e allo stile del Fascismo Repubblicano. L’etichetta qui riportata, per esempio, se anche non fu esplicita iniziativa dell’MSI, certo si ispirò alla sua linea politica […]" Per dovere di cronaca, vi riportiamo quanto scritto sulla citata etichetta: Nero di Predappio – bevo e me ne frego – dona giovinezza. Vino del camerata. Ci sorge un dubbio: gli autori avevano forse assaggiato, e magari abusato, di questo vino quando hanno scritto la loro didascalia? Non paghi, comunque, continuano: "Il sillogismo implicito, insomma, assumeva nella conoscenza di molti una formulazione di questo tipo: "la Prima Repubblica è stata una vergogna; la Prima Repubblica è nata dalla Resistenza; la Resistenza è una vergogna; rivalutiamo il fascismo". A questo "revisionismo" inconsapevole della gente si saldava da tempo sia il revisionismo critico messo in cantiere da alcuni storici di professione, come il citato Renzo de Felice […]" Se de Felice fu chiaramente storico di professione, proprio non ci riesce di capire quale sia la professione di Camera e Fabietti. Inizia la campagna elettorale… "a proposito di Berlusconi".

Pag. 1682 – scheda 51.3 - Pag. 1683/1684/1690 "[…] L’articolo 1 della nostra Costituzione dichiara: "L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione." Nelle parole di Berlusconi e dei suoi portavoce la fondamentale riserva da noi corrivata venne sistematicamente omessa, e non si trattò certo di un’omissione casuale e irrilevante: così mutilato, infatti, l’art. 1 non garantisce più che la sovranità popolare sia esercitata nel rispetto delle regole previste a tutela delle minoranze, e il "popolo" si trasforma nella "gente", la cui opinione è accertata giorno per giorno mediante i cosiddetti sondaggi." "[…] L’uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla direzione generale anti-mafia, alla Banca d’Italia, alla Corte Costituzionale e soprattutto al Presidente della Repubblica [Scalfaro ndr] , condotti da Berlusconi o dai suoi portavoce, esasperarono le tensioni politiche nel Paese, sommandosi alle tensioni sociali determinate dalla disoccupazione crescente (che contraddiceva clamorosamente le promesse elettorali di Forza Italia) e dai tagli proposti dal Governo alle pensioni, alla sanità e in genere alle spese statali per la previdenza sociale[…]" "[…] Tali pronunciamenti [di Berlusconi ndr] , rafforzati da altre dichiarazioni simili di Fini e dei Cristiani Democratici, miravano esplicitamente a ridurre o a vanificare la libertà di scelta del Presidente della Repubblica […]" "[…] Di là di tutte le argomentazioni, del resto, Berlusconi aveva urgente bisogno di recuperare il potere e di varare quella riforma della giustizia ch’egli riteneva necessaria e che pensava l’avrebbe messo al riparo dagli avvisi di garanzia e da eventuali condanne." "[…] Da destra e da sinistra si ripeteva giustamente che le regole generali della vita politica dovevano essere concordate tra tutti i partiti, ma, dopo che la Commissione ebbe concluso i lavori ed ebbe approvato quasi all’unanimità un documento unico in cui si prospettavano le riforme da varare, d’un tratto Berlusconi e i suoi alleati mutarono atteggiamento, cosicché l’esito concreto della Bicamerale fu del tutto deludente." Senza commento.

Pag. 1688 – 1884 (didascalia fig. 56.33) …continua la campagna elettorale…"[…] A meno che – grazie a un’intesa internazionale – non si diminuiscano le ore settimanali di lavoro (come è stato fatto in alcuni paesi e proposto anche in Italia) […]" Il richiamo alla proposta di Rifondazione Comunista circa le 35 ore lavorative settimanali, è fin troppo evidente. Ce li immaginiamo Camera e Fabietti sotto il palco di Bertinotti a spellarsi le mani con gli applausi ogni volta che il leader di Rifondazione Comunista prende la parola. "[…] Nella Cina uscita dalle riforme varate da Den Xiao Ping nel 1978, le vecchie copie cartacee del Libretto Rosso sono merce da bancarella di souvenir, così come i grandi ritratti di Mao, Lenin, Stalin, Engels, Marx ingialliscono nei magazzini delle librerie di stato. E’ invece possibile la lettura in CD grazie l’edizione multimediale delle opere complete di Mao realizzata nel 1998." Ci piange il cuore per le opere cartacee di siffatti statisti, ma ci consoliamo tutti con l’opera multimediale di Mao. Un solo rimprovero agli autori: già che c’erano, potevano dirci dove trovarle per un "acquisto democratico e proletario"…Quasi a voler rispondere a questo nostro opuscolo, gli autori Camera e Fabietti, nel triste tentativo di difendersi dalla loro stessa incapacità a scrivere un testo di storia con quell’obiettività che si richiede ad uno storico serio, scrivono:

Pag. 1563 "Perché dunque la Repubblica potesse essere proposta come patria comune di tutti gli italiani, è stato necessario, per un verso, alterare la prospettiva storica trasformando la maggioranza afascista in maggioranza antifascista, che avrebbe opposto all’occupazione tedesca almeno una resistenza passiva, e per l’altro verso, si è dovuta negare la qualifica d’italianità ai combattenti della Repubblica Sociale Italiana di Mussolini, degradandoli a semplici mercenari al servizio degli invasori nazisti. Ed è stato altresì necessario ignorare quanto è accaduto sul nostro confine giuliano, dimenticare le stragi perpetrate da Tito , e dai suoi partigiani, dimenticare l’ignominia delle foibe, perché l’attenzione rivolta verso questi eventi e verso questi problemi avrebbe costretto a prendere atto delle lacerazioni interne alla Resistenza e a rompere ogni rapporto di collaborazione, sia pure polemica, con Togliatti e col suo partito, che a proposito della Venezia Giulia avevano assunto (o erano stati costretti ad assumere, dati i loro rapporti di sudditanza nei confronti dell’URSS) posizioni non conciliabili con gli interessi della nazione italiana. Ma la rottura con i comunisti, che nella Resistenza avevano svolto una parte di primo piano, avrebbe tolto uno dei supporti fondamentali all’inevitabile "mito" della Resistenza come fondamento unitario – comunista, "azionista", socialista, cattolico e liberal-democratico – della patria repubblicana." Ipocriti!

"MANUALE DI STORIA 3 L’Età contemporanea" A. Giardina, G. Sabbatucci, V. Vidotto per Editori Laterza, nuova edizione aggiornata. Pag. 866 "[…] Il tratto distintivo del terrorismo di destra fu il ricorso ad attentati dinamitardi in luoghi pubblici, che provocavano stragi indiscriminate, col probabile scopo di diffondere il panico nel paese e di favorire una svolta autoritaria. Dopo la strage di P.zza Fontana, vi furono le bombe in P.zza della Loggia a Brescia, nel maggio ’74, e quelle sul treno Italicus nell’agosto dello stesso anno, l’attentato alla stazione di Bologna (con oltre 80 morti) nell’agosto ’80. La ragionevole convinzione di larga parte dell’opinione pubblica che attribuisce le stragi ad esponenti della destra eversiva sostenuti dai servizi segreti, pur confortata da molti riscontri investigativi, non ha trovato ancora (salvo che per Bologna) una conferma nella magistratura giudicante […]." Vorremmo ricordare agli autori che la "ragionevole convinzione di larga parte dell’opinione pubblica" non è storia.

Pag. 943 Anche qui siamo in campagna elettorale…"[…] Le ragioni della vittoria di Berlusconi, una vittoria confermata e anzi accresciuta nelle elezioni europee di giugno, furono attribuite non solo al sostegno delle sue televisioni, ma soprattutto alla capacità di proporsi – con efficaci messaggi al tempo stesso popolari e populistici – come l’unico in grado di sostituire il ceto di governo spazzato via dagli scandali di tangentopoli […]".

Pag. 945 "[…] I referendum erano intesi a ridimensionare il potere televisivo di Berlusconi e la sconfitta dei proponenti fu interpretata come un successo anche politico dell’imprenditore milanese e della sua capacità di influenzare il grande pubblico. […]"

Pag. 946 "[…] Rimaneva invece aperto un contenzioso spesso assai aspro fra settori dell’ordine giudiziario e settori della classe politica, che criticavano il ruolo protagonistico assunto dopo Tangentopoli dalla magistratura inquirente: il contrasto era ulteriormente alimentato dal coinvolgimento in alcune inchieste del leader dell’opposizione, Silvio Berlusconi. […]"

Pag. 947 "[…] Proprio una maggiore capacità di aggregazione e una maggiore credibilità dei candidati aveva consentito allo schieramento di centro-sinistra di riconquistare nelle elezioni amministrative della primavera-autunno 1997 la guida di molti altri centri come Torino, Roma […]"

"L’ETA’ CONTEMPORANEA – il novecento e il mondo attuale" P. Ortoleva, M. Revelli. Nuova periodizzazione per Edizioni Scolastiche Bruno Mondatori. Pag. 310 "[…]Nell’esaltazione della figura di Stalin che raggiunse aspetti di un vero e proprio "culto della personalità" (come sarebbe stato definito questo fenomeno negli anni cinquanta), non si trovava, infatti, solo il rapporto capo-seguaci tipico di tutti gli stati autoritari di quegli anni ( e pure di stati meno autoritari, come gli USA), ma anche la risposta a un profondo bisogno di stabilità e di certezza: in quel clima di continui e violenti mutamenti, la figura di Stalin appariva rassicurante nella sua immensa autorità e nella sua salda permanenza al potere. Il timore da essa ispirato poteva quasi essere sentito positivamente, come il rispetto dovuto a un’autorità dura ma giusta. Il ritmo continuo delle trasformazioni sociali e politiche, che continuavano ad abbattere senza sosta ceti, come i kulàki, e figure fino a poco prima onnipotenti come i leader man mano liquidati da Stalin, poteva anche essere interpretato come la prova di una grande volontà di eguaglianza, pronta a colpire il privilegio ovunque si formasse: Stalin diveniva, in tal senso, l’incarnazione di una rivoluzione giusta e livellatrice. […]" Il passo si commenta da solo, quindi non ci dilunghiamo più di tanto. Ci preme però ricordare che i kulàki uccisi dal regime stalinista furono cinque milioni. Cinque milioni di esseri umani sterminati di cui nessuno parla e che nessuno ricorda né commemora.

Pag. 315 "La politica staliniana in tema di nazionalità comunque non fu solo di carattere repressivo. Bisogna tener conto che, nella lista dei popoli perseguitati dal regime, compaiono solo etnie nettamente minoritarie, spesso isolate nella loro zona di insediamento." Ah, bè, allora massacriamoli, sono minoritari!!!

Pag. 657 "[…] E’ stato ormai accertato che le stragi, spesso affidate a una "manovalanza neofascista", trovarono forti complicità all’interno dei servizi segreti e in alcune aree dell’apparato istituzionale e militare dello Stato. […]" No, signori "storici"… non è stato ancora accertato. E finché ci sarà chi continua a darlo per scontato, di accertarlo davvero non interesserà a nessuno… o quasi.

Pag. 662 "[…] All’emergenza fecero appello le forze di governo e il PCI per approvare una legislazione d’eccezione, che venne molto discussa e criticata; essa si rivelò del tutto inefficace nei confronti del terrorismo di destra e della "strategia della tensione", ma ebbe l’indubbio effetto di portare alla sconfitta del terrorismo di sinistra. […]"

Un libro molto interessante, arrivato alla sua settima od ottava edizione, L’eskimo in redazione, di Michele Brambilla ed. Oscar Saggi Mondadori, affronta molto bene il tema di chi, negli "anni di piombo" tentò di mettere su due piani il terrorismo di destra e il terrorismo di sinistra, arrivando quasi a giustificare quest’ultimo, o almeno a camuffarlo come un’inevitabile sbocco della ribellione giovanile. Questi "pietosi" intellettuali non sapevano che guasti gravissimi un simile atteggiamento avrebbe causato. Qualcuno non lo sa ancora, e continua così… Centinaia di giovani vite spezzate, sentitamente, ringraziano.

"POPOLI E CIVILTA’ 3" Antonio Brancati. Nuova Edizione per La Nuova Italia. Pag. 210 "L’avvento di una dittatura in Germania non costituiva per l’Europa una novità assoluta, visto che analoghi movimenti totalitari o dittatoriali si erano venuti nel frattempo insediando e consolidando anche in altri Paesi come in Italia con Mussolini, in Spagna con Primo de Rivera, in Portogallo con Antonio Salazar, in Grecia con Joannis Metaxas, in Austria con Engelbert Dollfuss, in Romania con Jon Antonescu e in Turchia con Mustafà Kemal Atatürk, fondatore della repubblica turca da lui retta con poteri dittatoriali sino alla morte.[…]" Per caso abbiamo dimenticato che nel 1924 andò al potere un certo Iosif Dzuga_vili, meglio noto come Stalin?

Pag. 565 "La strategia della tensione o del terrore, inaugurata a P.zza Fontana, sarebbe rimasta purtroppo per molti anni una costante nella cronaca politica del nostro Paese. Una lunga serie di attentati, di stragi e di violenze compiute dai terroristi delle organizzazioni neofasciste e neonaziste (Avanguardia Nazionale, Ordine Nuovo, Ordine Nero) avrebbe insanguinato le città italiane, intrecciandosi a manovre preparatorie golpiste. Nel corso degli anni settanta l’attacco allo Stato fu però sferrato anche da un estremismo di segno opposto. Al terrorismo nero, già operante, si aggiunse il terrorismo praticato da organizzazioni clandestine che si proclamavano "comuniste" (Nuclei Armati Proletari, Prima Linea e soprattutto, Le Brigate Rosse)". Ovviamente "si proclamavano"! Che lo fossero anche? Leggendo la frase sopra riportata, chissà come dovranno sentirsi stupidi tutti i giovani di sinistra, finiti per scelta o per caso nelle spire del terrorismo, e che hanno pagato le loro idee comuniste e le loro scelte estreme con la prigione e a volte la vita.

Pag. 599 "[…] dopo avere avuto un ruolo di grande rilievo nella Resistenza (il PCI n.d.r.), nella stesura della Carta Costituzionale e nella storia della Repubblica con particolare riguardo agli anni in cui aveva dato un contributo fondamentale alla lotta contro il terrorismo […]" Beh… "contributo fondamentale" ci sembra appena appena un’esagerazione…

"STORIA E STORIOGRAFIA 3" di A. Desideri e M. Themelly nuovissima e dizione per C. Editrice D’Anna. Pag. 1355 "[…] Alla fine di quel "terribile 1977" E. Berlinguer chiese l’ingresso a pieno titolo dei comunisti al governo; intendeva dare un indirizzo nuovo – non di mero restauro – alla politica della maggioranza […]" Qui la campagna elettorale è un po’ retroattiva, ma chissà che non funzioni ugualmente…

Pag. 1370 "[…] Già prima dell’esplosione del terrorismo "rosso" aveva fatto la sua comparsa in Italia il terrorismo "nero", ispirato a gruppi estremisti di destra viventi all’ombra del MSI e già operanti nella Repubblica di Salò. […]" E questi sarebbero "storici"??? Ma per favore, un po’ di serietà! Qualcuno ricorda per caso che quel MSI "ombreggiante" richiese la pena di morte per i terroristi di destra?

Pag. 1377 "[…] Nel primo Ordine Nuovo, infatti, venivano privilegiati gli aspetti più propriamente ideologici della lotta politica, con la proclamata adesione al pensiero di autori di forte impronta reazionaria (soprattutto Giulio Evola, ma anche esponenti di un pensiero genericamente spiritualista, nei quali "si mescolavano insieme la cultura occulta, la divinazione, i fenomeni medianici, la magia nera, lo yoga, le società segrete, la cabala, l’esoterismo"). […]" Evola come il mago Otelma? Un concetto interessante, più "medianico" che storico, però…

PILLOLE. Nel manuale "DIRITTO COSTITUZIONALE SIMEONE" (XIV Edizione) a proposito delle elezioni politiche del 1994 a pagina 315 si legge: "Le elezioni, svoltesi con il nuovo sistema imperfettamente maggioritario, hanno portato alla vittoria una composita coalizione in cui precariamente si armonizzavano istanze secessioniste, destra neofascista e partito azienda. Il Presidente della Repubblica ha assunto immediatamente il ruolo di difensore dei valori costituzionali della solidarietà, della democrazia parlamentare e dell’unità nazionale, esercitando una sorta di tutela presidenziale sul Governo Berlusconi". Aberrante è dire poco.

Alla voce "foiba" del "VOCABOLARIO DELLA LINGUA PARLATA IN ITALIA" di Carlo Salinari si legge: "Dolina con sottosuolo cavernoso e indica particolarmente le fosse del Carso nelle quali, durante la guerra 40-45, furono gettati i corpi delle vittime della rappresaglia nazista" Qui addirittura siamo al "ribaltone". Salinari avrebbe qualcosa da insegnare a qualcuno? E magari il vocabolario bisogna anche pagarlo…

Dal testo "LA STORIA: RETE E NODI – Manuale per una didattica modulare" di A. Brancati e T. Pagliarani. "Per il coraggio, la fermezza e la coerenza dimostrati in tante occasioni, Prodi ha saputo guadagnare la stima di altri Governi e partner internazionali" "Con l’affermazione in Gran Bretagna del laburista Tony Blair e in Francia del socialista Lionel Jospin si sono addirittura aperte le prospettive per un dialogo della sinistra moderata europea, al quale si è dimostrato interessato anche Bill Clinton" Che bello! Siamo tutti contenti se viene anche Chelsea.

Dalla postfazione al "DIZIONARIO GIURIDICO ITALIANO – INGLESE" di Francesco de Franchis, editrice Giuffré. Pag. 159 "E si arriva al colmo: nell’agosto 1994 – fatto mai accaduto in nessun paese democratico dell’Occidente (in corsivo nel testo n.d.r.) e misura dell’assoluta impresentabilità di una coalizione che deve, all’evidenza, cercare i propri modelli nei regimi sudamericani – il governo Berlusconi invia un "esposto" al Presidente della Repubblica in cui si denuncia un attentato al funzionamento degli ‘organi costituzionali perpetrato dalla procura di Milano con le sue indagini sulla criminalità organizzata: qui va rilevata, oltre alla grossolanità degli uomini, la sfacciata ribellione alla legge (in corsivo nel testo n.d.r.) da parte delle forze di governo e l’ostilità verso una sia pur piccola pattuglia di magistrati indipendenti. In un crescendo di vendetta macbethiana si colloca la vicenda di Antonio di Pietro, inquisito, oggetto di una lunga e implacabile persecuzione da parte della forza legale". E hanno avuto il coraggio di scomodare anche Shakespeare!

Pag. 173 "Resta il fatto che – a prescindere dall’individuo – il caso Berlusconi appare, sul piano politico, come il primo e il più grave nella storia di tutte le democrazie occidentali di un imprenditore che assume funzioni di governo. Si è opportunamente osservato che: “Il nuovo Governo Berlusconi si presenta come una compagine all’altezza dei propositi; dal decreto salvaladri al condono edilizio al vecchio regime dei lavori pubblici alla virtuale abolizione del Secit: un free for all degno dei fratelli Somoza” (l’autore non indica la fonte della citazione)…e un pensierino degno di Gianni e Pinotto!

Dal libro FARE STORIA di A. Brancati, ed. Nuova Italia. "Gli Ebrei, popolo ormai emarginato e separato, divennero nel Basso Medio Evo anche coloro che profanavano di nascosto i misteri cristiani (rubando e disprezzando le ostie consacrate) e che compivano omicidi rituali di bambini per poter fare con il loro sangue il pane azzimo, fatto cioè senza lievito e da essi usato nei giorni pasquali" L’autore del libro si è giustificato dicendo che nello scritto incriminato, stava riferendo solamente le calunnie che venivano rovesciate addosso al popolo ebraico. Va bene, ma è difficile che questo venga compreso da uno studente della media inferiore.

Dal libro LEGGERE EUROPA di Sambugar-E., ed. Nuova Italia. Parlando del futurismo e di Martinetti: "Affermazioni paradossali che non indicano assolutamente realistici programmi, per questo diedero cita a sfortunati e inevitabili fanatismi, esaltando ideologie violente come quella fascista. Un rinnovamento artistico che sfocia spesso nel suono un po’ vuoto di slanci verbali, e che non esita a cadere nel decisamente brutto. Il movimento futurista mancava comunque di profondi contenuti spirituali." Non molto obiettivo come commento nei confronti di quella che è stata un’avanguardia artistica dal valore universalmente riconosciuto.

Dal libro VERSO IL 2000 di D. Materazzi, ed. Thema. A proposito del Movimento Sociale Italiano. "Suo segretario politico nazionale è Giorgio Fini, mentre l’ala intransigente e nostalgica del nazional-socialismo che fa capo a Pino Rauti, è relegata al ruolo di opposizione interna" A parte la divertente miscela che l’autore ha creato tra i nomi di due diversi segretari dell’MSI, e cioè Giorgio Almirante e Gianfranco Fini, è da notare che nemmeno i più feroci detrattori del MSI sono mai arrivati ad accostare gli iscritti del partito a dei nazisti militanti.

Dal libro STORIA E STORIOGRAFIA di A. Desideri, ed. D’Anna. Nel capitolo dedicato alla Rivoluzione Francese "[…] e ciò nel momento stesso in cui la Vandea insorgeva contro la leva di 300.000 uomini, ordinata dalla convenzione. Nell’insurrezione dei contadini vandeani si possono cogliere molteplici spinte: oscuri fermenti di lotta di classe paradossalmente combattuta sotto le insegne della reazione, sobillazione nobiliare, appoggi inglesi ed europei alla causa degli insorti." Interessante notare la capacità di sintesi dell’autore che liquida una lunga e sanguinosa guerra civile in meno di tre righe nel testo. A. Desideri, da studente, avrà sicuramente vinto una medaglietta nella gara di riassunto.

Dal libro SPRINT FINALE di Attalienti, ed Ferraro. A proposito di D’Annunzio "Per quanto riguarda poi la poesia del D’Annunzio, se qua e là possiamo restare ammirati di fronte a tanta dovizia di parole e tanta abilità stilistica, raramente essa ci commuove, perché la sua perfezione estetica, come disse il Serra, è una perfezione che suona falso (al maschile sul testo)." C. Attalienti usa con una certa superficialità un plurale majestatis che sfugge alla nostra comprensione. "Raramente ci commuove…" Attalienti, invece, ci fa piangere. E tanto!

 

Gli eroi dell'Arma dei Carabinieri? I partigiani rossi li hanno cancellati, scrive il 29 novembre 2016 Francesco Specchia su “Libero Quotidiano”. Salvo D’Acquisto non era affatto solo. C’era -per dire- il maggiore Giovannini che intercalava coi i suoi «Porcomondo!» le inalazioni di Muratti accese al contrario, un vecchio trucco per sfuggire ai cecchini. Giovannini prima aiutò gli sloveni a sbarazzarsi dei crucchi; e poi, nella Milano invasa dai carrarmati, faceva il Robin Hood della liberazione con la sua “Banda Gerolamo”. C’erano anche il generale Caruso della «banda» omonima, a cui i nazisti estrassero 13 denti ma non la dignità; e il brigadiere Ioppo, il suo pard, pestato come un tamburo dal muto lamento: entrambi uniti nel dolore, e scampati alla deportazione («un eroismo diffuso a prescindere dai gradi», commenta Bruno Vespa) grazie un camion uscito fuori strada. C’erano il maggiore Di Iorio che alzava le barricate dalla stazione Roma San Giovanni; e il maggiore Bellini che, a Bussolengo, per tre volte, respinse le SS finchè un panzer dell’armata Himmler non gli sfondò le mura della caserma. E c’erano gli infoibati di Tito, i martiri delle Fosse Ardeatine, gli uomini in divisa dispersi per ordine del gerarca Kappler «la cui presenza a Roma avrebbe impedito la razzia e le deportazioni nel ghetto ebraico». Erano in tanti, i piccoli grandi eroi affondati nella storia oggi descritti nel bel libro del giornalista del Corriere della sera Andrea Galli, Carabinieri per la libertà. L'Arma nella Resistenza: una storia mai raccontata (Mondadori, pp 168, euro 18). Il libro di Galli paga un debito con la storia, ne riscrive una pagina volutamente dimenticata dalla pubblicistica ufficiale della Resistenza. Parla di 2753 carabinieri morti ammazzati col moschetto poggiato sull’omero; e che non si piegarono al servizio della Rsi, perchè «avevano una dignità che non poteva spingerli a difendere i prepotenti contri i deboli» (come disse uno di loro, il maggiore maceratese Pasquale Infissi, dimenticato perfino a Macerata). Questo libro è un vaso di Pandora, appunto, di dignità perdute. E disvela una sorta di «eroismo diffuso che non teneva conto dei gradi»; l’espressione, felice, è di Bruno Vespa che la usava per presentare questo saggio romanzato al Pavilion Unicredit Milano, con l’autore osannato da Paolo Mieli, da monsignor Vincenzo Paglia, dal generale Enzo Bernardini e dal critico letterario del Corriere Antonio D’Orrico. Platea robusta usi obbedir tacendo. Tutta pervasa del senso d’appartenenza all’Arma, la commozione degli alamari cuciti sulla pelle -avrebbe detto il generale Dalla Chiesa. Andrea Galli s’è comportato da speleologo della memoria. S’è inoltrato negli archivi, ha strappato indizi e mozziconi di cronaca tra i documenti dimenticati della Benemerita. E dalla vicenda proprio di Ettore Giovannini ne ha sfilata un’altra, e poi un’altra, e un’altra ancora: ogni racconto concatenato all’altro, in una sfilata di atti di coraggio impietosamente dimenticati. «Perchè questo libro esce solo ora? Perchè ci siamo dimenticati di loro? Perchè c’è dolo...» commenta, con placida ferocia, Paolo Mieli qui in funzione di storico «perchè i carabinieri erano fedeli all’istituzione monarchica, perchè il sacrifico di Salvo D’Acquisto consegnatosi al posto dei partigiani che causarono l’attentato sacrosanto di via Rasella provocò, negli anni, una sorta di ostracismo dell’Arma da parte dell’ideologia di sinistra. E perchè al confine orientale i carabinieri, amati dalla popolazione, finirono nelle foibe titine, uscendo automanticamente dai registri dei martiri della Resistenza...». I carabinieri del libro di Galli -ha ragione Antonio D’Orrico- assolvono, attraverso un’epica romanzesca, una funzione quasi di «filosofia della storia»: «Con la loro storia non potevano mettersi al servizio di chi non aveva storia». E giù con le citazioni delle buone azioni in alta uniforme delle copertine di Beltrame e Molino sulla Domenica del Corriere; con l’evocazione delle indagini letterarie dei Racconti del maresciallo di Mario Soldati, che proprio in un sottufficiale dell’Arma aveva scovato lo spirito del «Maigret italiano». Ma non è tanto questo che rende Carabinieri per la libertà un afflato letterario degno d’esser letto. «Qui c’è, soprattutto, un messaggio morale per le nuove generazioni», dice il Comandante generale Tullio Del Sette, il cui padre, tra l’altro, era tra i carabinieri deportati e dimenticati. Il messaggio morale degli eroi del silenzio. Il suddetto libro è davvero la sceneggiatura di una nazione, fatta di tanti Salvo D’Acquisto. Più di quanti il cuore e l’orgoglio avrebbero potuto immaginare...Francesco Specchia

Nel libro di Ernesto Galli della Loggia l’Italia che non sa cambiare. In «Credere, tradire, vivere», edito dal Mulino, l’autore sottolinea la difficoltà degli intellettuali ad ammettere i proprio errori e denuncia la confusione tra politica e morale, scrive Aldo Grasso il 24 ottobre 2016 su “Il Corriere della Sera”. Benedetto Croce sosteneva che «ogni vera storia è sempre autobiografica». Verissimo: nei giudizi, nelle ricostruzioni, nelle analisi è impossibile prescindere dalle proprie esperienze personali, dagli studi che ognuno di noi ha fatto, dalle persone che ha incontrato. Basta ammetterlo, con franchezza. Per questo Ernesto Galli della Loggia in Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica (il Mulino) non si rifugia dietro quella forma di anonimato accademico («il noi delle tesi di laurea», diceva Roland Barthes) che normalmente usano gli storici di professione, specie quando parlano di cose recenti in cui, in qualche modo, sono coinvolti: «Di qui — scrive l’autore — la natura alquanto inconsueta di questo libro: insieme libro di storia e di ricordi, di vicende pubbliche da un lato e di sentimenti personali dall’altro. E proprio in un grumo di sentimenti (e risentimenti, perché non dirlo) è da cercare l’origine del tema di fondo delle sue pagine: la difficoltà, l’impossibilità di cambiare». In una puntata della settima stagione di Grey’s Anatomy (anch’io ci metto qualcosa della mia vita), la grande Shonda Rhimes mette in bocca a Meredith queste parole: «Quando diciamo cose tipo “Le persone non cambiano”, facciamo impazzire gli scienziati. Perché il cambiamento è letteralmente l’unica costante di tutta la scienza… È il fatto che le persone cerchino di non cambiare che è innaturale, il modo in cui ci aggrappiamo alle cose come erano invece di lasciarle essere ciò che sono, il modo in cui ci aggrappiamo ai vecchi ricordi invece di farcene dei nuovi». Il cambiamento, con tutti i rischi che comporta, è il motore dell’esistenza. Perché allora ci rifugiamo nell’immobilismo delle idee, in una sorta di eden di specchiata moralità, finanche nel gattopardismo? Con questo libro variegato, Galli della Loggia ci regala l’esempio più efficace della sua maniera di affrontare la storia. Seguendolo lungo le vie più personali che qui tratteggia, ci troviamo ad avere un’immagine molto più precisa, molto più concreta di questi anni, a partire dal fatidico Sessantotto. Anni che abbiamo vissuto, ma anche anni che la memoria storica cerca di levigare, smussando i contrasti e le non poche contraddizioni. Nel parlare di questo libro non vorrei seguire il filo cronologico per non rovinare al lettore il piacere delle trame, per non rivelargli come va a finire. Preferirei parlare di alcuni temi che ricorrono e si rincorrono come leitmotiv, come fari nella notte per le nostre povere risorse intellettuali stremate dagli eccessi d’informazione. Uno di questi è appunto «quel presunto tipico vizio italiano che sarebbe il voltagabbanismo/trasformismo. Vizio storico italiano ma, beninteso, degli “altri” italiani, sempre di quelli dell’altra parte, non della nostra, che invece, come si sa, è immancabilmente quella degli italiani bravi e virtuosi per definizione». Insomma, è possibile «cambiare» senza necessariamente «tradire»? La democrazia non dovrebbe essere il luogo per eccellenza della mobilità delle idee? Anche i padri della Patria, come Camillo Benso conte di Cavour, non hanno forse seguito itinerari tortuosi prima di arrivare, nel caso specifico, a un fulgido esempio di liberalismo progressista? La tesi dell’autore è questa: in politica cambiare opinione è normale, spesso necessario (senza per questo essere additati al pubblico ludibrio). L’unica condizione per un personaggio pubblico è però di ammettere che si è cambiati. C’è un momento storico che spiega questo atteggiamento moralistico? Il capitolo «Autobiografie della nazione» andrebbe letto e riletto, riga per riga. Perché parla dei conti mai chiusi con il fascismo, della politica che stinge nella morale (e diventerà molto ambigua quando si parlerà di «questione morale» con Enrico Berlinguer), del peso della memoria e della funzione liberatrice dell’oblio. Galli della Loggia si sofferma sul caso Bobbio, quando nel dicembre del 1988 compare sulla prima pagina della «Stampa» un articolo in cui l’insigne filosofo confessa alcuni atteggiamenti «servili» tenuti durante il fascismo. Quello che colpisce non è l’onesta confessione di Bobbio quanto la reazione di alcuni suoi famosi sodali (da Alessandro Galante Garrone a Giorgio Bocca) che insultano chi tenta una qualche riflessione su quella sorprendente dichiarazione. Il passaggio dal fascismo alla democrazia è stato piuttosto caratterizzato da un trasformismo di massa e la «conversione» altro non è stata che dimenticanza (nel mio piccolo ho più volte descritto il passaggio «indolore» dalla Eiar alla Rai, con la beatificazione di quasi tutti i dirigenti storici compromessi). È stata proprio la mancanza di un processo di autoconsapevolezza sugli errori del passato ad acuire la confusione tra politica e morale, a far considerare il cambiamento con diffidenza, a dividere il mondo tra buoni e cattivi. Negli anni Sessanta era quasi impossibile non essere di sinistra: «Fu per l’appunto il mio caso. Il caso di chi allora diventò di sinistra quasi naturalmente: perché, guardandosi intorno, erano lì le idee che apparivano più moderne e più vive, lì soprattutto stavano le persone che incontravi e ti colpivano per la loro spregiudicatezza, la loro cultura e la loro capacità critica». Era in quell’ambito culturale che si cercavano i padri ideali, che si interpretavano i fermenti che arrivavano dall’estero, che i laici potevano avvicinarsi al mondo cattolico attraverso le «aperture» del Concilio Vaticano II. Ma era sempre in quell’ambito che si sarebbero presto sviluppati i germi dell’estremismo, le ondate di radicalismo manicheo, le pulsioni antiparlamentari dei gruppi gauchisti, le ideologie più utopiche o assassine. Anni terribili in cui bisognava avere il coraggio di cambiare idea, anche se per molti illustri maître à penser il cambiamento è avvenuto troppo tardivamente. L’idea che mi sono fatto sui Sixties è che sono stati un periodo decisivo di storia sociale (il nascente benessere e la segregazione razziale, il sogno americano e Il giovane Holden, il dottor Spock e la gioventù bruciata) attraverso l’accumulo di sensazioni, di filmati, di spot pubblicitari, di telegiornali e soprattutto di canzoni. Le idee innovative erano nell’aria, si respiravano con entusiasmo. Poi è arrivato il Sessantotto, il tanto evocato e osannato Sessantotto, che avrebbe ucciso tutto, con la sua pesantezza ideologica, con la sua illusione di sovvertire strutture ed equilibri del capitalismo. Non dunque un punto di partenza, ma un fatale arrivo. E poi c’è tutta la storia dell’egemonia culturale della sinistra, degli orfanelli del «Politecnico» di Vittorini, di una cultura che cercava risposte politiche alle proprie inquietudini, delle scelte di campo che talvolta obbligano alla cecità. Rappresentando se stesso all’interno di queste narrazioni che riguardano la storia del nostro Paese, la sua identità (il compromesso storico, la Biennale del dissenso di Venezia, il rapimento di Aldo Moro, l’ascesa di Bettino Craxi, la questione morale di Berlinguer, l’avvento di Berlusconi, l’idea perduta di patria…), e sono narrazioni una più interessante dell’altra, Galli della Loggia stringe un ideale patto di lealtà conoscitiva con il lettore. Pur esponendosi in prima persona, lo storico non è mai un semplice io, ma una specie di sistema complesso: dove si trovano molte funzioni, molte particolarità secondarie che legano rapporti reciproci e subiscono attrazioni vicendevoli, mentre ruotano attorno a un nucleo centrale. Ma qual è questo nucleo? È l’uso della storia. Nella sua pagina più importante, quella su cui edifica tutto il libro, l’autore pone una distinzione fondamentale tra uso politico della storia e vocazione pubblica della storia: «L’uso politico è quello che non si fa scrupoli di manipolare in vario modo i fatti o loro aspetti specifici ritenuti cruciali per giudizio universale (tacendoli o distorcendoli palesemente)… la vocazione pubblica della storia, il suo uso pubblico, è invece quella caratteristica dell’indagine storica connessa al clima generale, alla temperie ideale, dell’epoca in cui l’autore vive». Nella vita, ogni persona intelligente compie un cammino tortuoso, possibilmente di maturazione. Perciò cambia idee, si confronta continuamente con l’immagine virtuale dell’epoca, cerca di vincere l’atrofia della memoria, prende atto di quel misterioso «sentire comune» o «spirito del tempo» che la storiografia filosofica ha chiamato Zeitgeist. E infatti le pagine più trascinanti sono quelle in cui l’autore depone per un attimo la corazza dello storico e in veste di chroniqueur traccia del suo passato, delle sue avventure esistenziali, degli incontri decisivi: l’esperienza di «Mondoperaio», gli incontri con Livio Zanetti, Lamberto Sechi, Giorgio Fattori e Claudio Rinaldi, la lunga amicizia con Paolo Mieli, l’avventura di «Pagina», lo scontro con gli einaudiani di ferro… La storia delle idee lascia il posto a immagini vive e riccamente articolate. Oggi lo storico non ha più, come certi suoi colleghi del passato, punti fissi d’orientamento: le grandi ideologie, la divisione in classi, le organizzazioni sociali. È più solo, paradossalmente più nudo. La storia insegna, ma prima ancora segna.

Galli della Loggia racconta i suoi trasbordi politici in una Italia che non è mai cambiata. Liberi ma soltanto a sinistra. Il ricollocamento avviene solo in un perimetro ristretto, scrive Gianfranco Morra su "Italia Oggi", Numero 274 pag. 10 del 18/11/2016. È possibile cambiare idea politica senza essere definito voltagabbana, trasformista, traditore? Una domanda oggi attualissima, mentre circa 300 parlamentari hanno cambiato casacca anche più di una volta. Cerca di rispondere Ernesto Galli della Loggia, del quale è giunto in libreria un curioso libro: Credere, tradire, vivere. Un viaggio negli anni della Repubblica (Il Mulino, pp. 356, euro 24). Nel quale una sicura e informata storiografia si alterna con una garbata e schietta autoconfessione. I salti politici appartengono alla natura del nostro popolo. L'Italia ha iniziato il suo cammino di unificazione quando Cavour, liberale conservatore, ha fatto una apertura alla sinistra di Rattazzi, rottamando D'Azeglio: «stai sereno, Massimo». Seguirono poi gli anni del trasformismo di De Pretis, del mazziniano e garibaldino Crispi per il quale «la monarchia ci unisce e la repubblica ci divide», dell'opportunismo di Giolitti e del salto di Mussolini dal socialismo al fascismo. Un fascismo che cadde per volontà dei suoi gerarchi pentiti, mentre la monarchia cambiava le alleanze. Con un popolo quasi tutto fascista, che, quando le cose andarono male, si mise in attendismo, mentre solo alcune decine di migliaia si combatterono fra di loro in una guerra civile. Terminata la quale gli italiani erano diventati antifascisti. Anche non pochi fascisti si erano Redenti (come li chiama lo studio di Mirella Serri, edit. Corbaccio) e in gran parte confluirono nella sinistra. Compresi alcun padri della repubblica antifascista. Nel 1935 Norberto Bobbio scrisse a Mussolini una «infame lettera» (sono sue parole) per assicurarlo della sue fede fascista. E, grazie anche alla protezione del triunviro De Bono, vinse la cattedra universitaria a Camerino. E Piero Calamandrei, ancora nel 1940, collaborò alla stesura del nuovo codice di Procedura civile voluto dal Guardasigilli fascista, Grandi. Pochi come Della Loggia erano in grado di parlare con cognizione di causa dei mutamenti politici. Anche se ha bevuto sempre latte di sinistra, ne ha fatti tanti e li riconosce con sincerità: ventenne si iscrisse al Psi, appoggiò la contestazione studentesca, i suoi miti (Vietnam, Cuba) e i suoi padri surrogati, votò Pci negli anni Settanta, quando era giornalista di «Paese sera», poi si sentì radicale, divenne infine un intellettuale di Craxi. È sempre andato nel senso giusto, anche se nessuno può dubitare della sua buona fede. Lo confessa lui stesso con schiettezza: «Io seguii la corrente, in nessun senso sono stato una vittima». Sappiamo tutti che a partire dagli anni Sessanta per un uomo di cultura le porte erano aperte soprattutto se aveva la divisa di sinistra. Nel 1974 Galli ebbe l'incarico universitario di Storia contemporanea a Perugia solo dopo aver dato assicurazioni al dirigente culturale del Pci. Egli lo confessa senza difficoltà, nessuno può dubitare che lo meritava pienamente e ancor meno che tanti docenti con le sue stesse capacità, ma renitenti a quell'aggancio ideologico, sono rimasti fuori. La dittatura gramsciana sulla cultura era totale, anche grazie al menefreghismo della Dc, che da «partito dirigente» si era degradata a «partito dominante». Nella mia facoltà bolognese, forse la più cattocomunista d'Italia, si era diffusa l'abitudine che chi leggeva «Il giornale» comprasse anche la «Repubblica» con cui, prima di entrare, incartava l'altro. Un totalitarismo culturale per non pochi aspetti ancora più forte di quello del fascismo. L'ultima svolta di Galli fu per Craxi. Ormai deluso del comunismo ne capì subito le novità: far nascere finalmente in Italia una socialismo democratico europeo; far cadere il pericoloso inciucio, chiamato «compromesso storico», fra Moro e Berlinguer. Ma ne intuì, anche, i limiti. Non solo quelle ruberie, che lo porteranno alla fuga, ma anche difetti di carattere. Nel momento in cui il popolo italiano, stanco dei partiti politici, cercava un leader carismatico, non poteva essere attratto dalla sua intelligenza fredda, dall'eloquio secco, dalla condotta acida e altezzosa. Mancava di quelle doti «populiste», che condurranno alla vittoria il suo successore Berlusconi. La democrazia è un regime che favorisce i cambi delle idee. Del tutto legittimi, quando non sono mossi da motivi abietti. E vi sono momenti storici in cui solo cambiando idee e programmi è possibile migliorare la situazione. Purtroppo nella nostra repubblica i cambiamenti o non ci sono stati o non hanno cambiato nulla. Lo mostra la seconda repubblica che non è stata diversa dalla prima. Due schieramenti, uno dei quali accusava l'altro di un comunismo che non c'era più e l'altro, il pericolo di un fascismo che non era più possibile. Il gioco continuava: la destra trovava qualcosa da dire solo riesumando un cadavere contro cui combattere, la sinistra inventava un pericolo per avere una ragione di esistere e nascondere così le sue impotenza e decadenza. In questa situazione Della Loggia ha smesso di saltare. Ha fatto una indigestione di utopie, ma ora il futuro è morto prima di nascere, cambiare non si può, è giunto il momento di una dieta di contenimento: «Sono divenuto un cane sciolto genericamente democratico». Ottima consapevolezza, ma anche insufficiente. Come mostrano gli articoli che settimanalmente pubblica, esemplari per lucidità e chiarezza, critici e sollecitanti. Ma anche quasi sempre inconclusivi e inconcludenti. Un sublime gioco intellettuale, che per lo più ci dice con acutezza cosa non va, senza indicare che cosa si dovrebbe fare. Il pulmino della sinistra, nel quale si è seduto in tutti i posti e strapuntini, è fermo per mancanza di benzina. Non serve più. Ma senza comprarne uno nuovo come si fa a partire?

L’UBBIDIENTE DEMOCRATICO di Luigi Iannone. L’intento di questo libro è quello di misurare quanto sia marcato nelle singole vite e nei percorsi collettivi il nostro grado di assuefazione al conformismo. Viviamo un mondo in cui siamo allo stesso tempo attori e registi di una enorme sinfonia pervasa dal politicamente corretto tanto che per rintracciarne gli echi non dobbiamo fare molta fatica. Basta soffermarsi sugli accadimenti più banali, sui fatti di cronaca o di costume, sul linguaggio della politica o dei media. È sufficiente indugiare con animo libero su ognuno di essi per rendersi conto quanto sia difficile farne a meno. “Luigi Iannone, scrittore non allineato dalle frequentazioni raffinate, con questo libro ci accompagna nei sentieri poco battuti, lontani dal politicamente corretto. L’autore si propone di ricostruire un mosaico ‘differente’ tra presente, passato e futuro, per ribaltare schemi, épater le bourgeois, non facendo concessioni alla morale comune, ordinaria, canonica, maggioritaria nell’establishment e nell’immaginario collettivo progressista.” dalla prefazione di Michele De Feudis.

Alcune anticipazioni de L’ubbidiente democratico <<(…) incantatori di serpenti, teologi del buonismo e della correttezza politica sono la stragrande maggioranza e condizionano la formazione delle coscienze. Da parte loro c’è un’ossessione continua perché, in genere, il politicamente corretto si compone di fantasmi che si agitano al solo proferire delle ovvietà: provate, provate a dire che Cécile Kyenge è stata fatta ministro per il colore della sua pelle; che le quote rosa (e, in subordine, le donne capolista) sono una stupidaggine, oltre che una forma di razzismo al contrario; che al Ministero delle Pari opportunità ci va sempre una donna per fare la foglia di fico; che Rosario Crocetta fece una campagna elettorale costruita anche sul fatto che in una terra ‘arcaica’ come la Sicilia si presentava a Governatore un omosessuale, mentre delle proposte programmatiche si sapeva poco o nulla; provate a dire che i milioni gettati via per liberare ostaggi italiani in Paesi a rischio potrebbero servire per il nostro welfare e coloro i quali (o le quali) girano in zone di guerra come novelli San Francesco e pudiche Santa Chiara, potrebbero qualche volta passare anche dalle mie parti, nella zona bassa dello Stivale. Troverebbero in tante zone del Sud gli stessi problemi e tanto, ma proprio tanto, da fare per poveri e diseredati. Provate a dire io non sono Charlie Hebdo, perché per quanto rispetti la satira e mi risultino ripugnanti le azioni terroristiche e bestiali le loro idee, faccio fatica ad essere blasfemo contro qualunque Dio. Provate a dire queste e tante altre banali verità, e vi subisseranno di ingiurie. Verrete subito cacciati dal consesso civile e additati nella migliore delle ipotesi come degli intolleranti. Ma provate a dirle voi. A me manca il coraggio e non le dirò>>.

Libri. “L’Ubbidiente Democratico” di Iannone: per distinguersi dalla ridente polis dei corretti, scrive il 20 settembre 2016 Isabella Cesarini su "Barbadillo". Si spalanca con un’affermazione di Carmelo Bene, durante una puntata del Maurizio Costanzo Show – 1994, l’ultimo libro dello scrittore Luigi Iannone. Corsivo che diviene principio guida dell’opera L’Ubbidiente Democratico, nell’esergo del genio salentino: “Non me ne fotte nulla del Ruanda. E lo dico. Voi no. Non ve ne fotte ma non lo dite”. Si tratta di una dichiarazione, all’interno della quale non si trovano i caratteri di quel “corretto” che attualmente siamo tutti obbligati a indossare. Iannone si inoltra all’interno di un campo minato che pochi hanno l’ardire di calpestare. Il suo soliloquio si fa dapprima parola e poi pagina scomoda, poiché lontana da quello spazio così abusato e gremito del politicamente corretto. Una città immaginaria solo nel nome, zeppa di tante bravissime persone, altrettanti buoni propositi, tutti così realizzabili, ma solo nell’evanescenza dell’incompiuto. E guai a non pensarla come gli abitanti di questa ridente città: marchio d’infamia e foglio di via. In assenza di cotanto calore, l’apolide si ritrova rapidamente isolato, ma certamente sereno in compagnia di quelle idee ritenute così scomode. Pensieri come lampi; zampilli che attraversano anche gli autoctoni della lieta cittadella, ma restano sconvenienti e dunque la scelta ricade sulla comodità di restare distesi sul proprio personale divano del tacere. E rimanendo nel tema morbido del salotto, lo stesso scrittore confessa il suo – e non solo – incubo ricorrente. La vicenda onirica si svolge nel salotto più famoso e corretto d’Italia: la casa immacolata di Fabio Fazio. Cortese sino alla nausea, accogliente nelle ospitate degli abitanti della città ubbidiente: Fiorella Mannoia, Corrado Augias che in un altro alloggio ancor più confortevole illumina d’immenso Piergiorgio Odifreddi e Federico Rampini. Ancora un passaggio sull’agiata villa di Lilli Gruber che invita Roberto Vecchioni, Jovanotti e compagnia lealmente cantando. Un ripiegamento onirico, nello specifico meglio noto come incubo, dove i buoni e i giusti si avvicendano nelle notti turbate dello scrittore. Al risveglio, il tedio risulta meno onirico, ma ugualmente corposo. Quello di Iannone è un percorso che svela acutamente molte annose questioni e ripetuti meccanismi. Il cantante Simone Cristicchi è uno di quei casi, che da un certo punto in poi, entra di diritto nella categoria dei ripudiati dagli ubbidienti. Portando in scena lo spettacolo dal titolo Magazzino18, legato all’ostico argomento dei martiri delle foibe e il dramma degli esuli di Fiume, Istria e Dalmazia, Cristicchi si fa velocemente indegno della residenza sotto la volta dei corretti. All’esterno di un tale phanteon di purezza, lo scrittore Iannone colloca una figura leggendaria che trattiene tutti i caratteri del mito: Hiroo Onoda. Non come l’icona di un eccesso idealistico, quanto la delicata e meritevole descrizione di una creatura, che da lontano, si rivolge direttamente alla nostra voce interiore. Accade in questo piccolo uomo, un’espressione dell’onore nell’aderenza a quella meravigliosa forma di amor patrio, stimato malamente come espressione desueta e oltremodo scorretta. Diverso il discorso per i nostri Presidenti della Repubblica, tutti, da un momento storico in poi, cittadini onorari della cittadella corretta. Non più latori del potere temporale, ma cavalieri senza macchia, custodi eterni del potere spirituale. Figure immacolate con vite prive di umani buchi neri: coerenza e sacralità. Dunque papi e non capi di Stato in odor di santità e non in tanfo di muffa. Iniziato dallo storico revisionista Ernst Nolte, allo spirito critico che si fa maniera di voler scomporre e sezionare anche il più ameno dei luoghi comuni, Iannone procede come un bulldozer verso le considerazioni scolastiche. Con uno sguardo nostalgico a quella che ritiene l’ultima degna del nome di riforma, nella persona di Giovanni Gentile, opera una non poco interessante distinzione tra scuola come istituzione e studio. Non necessariamente le due cose coincidono. L’autore stesso, si dichiara tanto avverso alla scuola, quanto devoto all’apprendimento e all’approfondimento. Caratteristica che si dovrebbe considerare virtù, anche in merito al fatto di essere stata patrimonio di molti nomi altisonanti. A fronte del fatto che personalità come Croce e Prezzolini non raggiunsero l’incoronazione in pianta di alloro, attualmente presunti rapper, assolvono il ruolo di oracolo. Il reietto dell’arcadica cittadella dell’ubbidiente, raggiunge l’apoteosi della sua posizione in una più che scontata affermazione: “Chi sbaglia, paga”. Un coro di indignati si leva davanti a una dichiarazione così poco chic, qualunquista e fuori da ogni apericena. E anche se il profano proclamatore, circoscrive il suo pensiero nella premessa, che alcuno deve essere trattato in maniera deprecabile, non risulta comunque socialmente accettabile. Ed è proprio in tale incrocio tra la tolleranza a oltranza e la volontà di ridurre al minimo gli effetti di ogni dramma che le due strade si confondono, sino ad annullarsi all’unisono. Al contrario, accolti con una certa deferenza sono coloro che Montanelli sintetizzava nel termine “firmatari”. Una categoria numerosa che pone la sua firma ovunque, contro o in favore, poco importa. L’atto apprezzabile prescinde la causa e premia l’atto: l’autografo. Nell’Eden degli ubbidienti, persino il tempo è differente: l’unico imperativo è nella rapidità. Elemento imprescindibile che qualifica ogni tipo di legame sentimentale, amicale o lavorativo. Ogni traccia di sequenzialità, qualsiasi tratto di gradualità, necessari alla civiltà, vengono prontamente inghiottiti dalla velocità che svilisce il naturale processo di crescita identitaria e comunitaria. L’autore ci porta, non privo di un tono amaro, finanche all’interno delle rovine di Pompei. Non vi è modo di uscire da un’impasse dove si gioca al rimbalzo di responsabilità tra ministri, soprintendenti, sotto, di lato o ad angolo, se non mediante un paradosso. Singolarità, che si dispiega nella sopravvalutazione di alcuna arte contemporanea, a scapito di meraviglie antichissime e intramontabili. Alla bellezza che naturalmente affascina, l’esempio in un’emozione provata di fronte alla grandezza di un Caravaggio, si preferisce cercare il significato ancestrale di un ortaggio steso a terra in qualche galleria d’arte nel mondo. Allora, il trionfo appartiene a quel lato deteriorabile, che si elegge a tutto, con le virgolette di occasione intorno alla parola arte. Nell’incontaminato mondo degli ubbidienti, lo scrittore ci guida altresì, nella spiegazione dell’uso di una certa tipologia di linguaggio. Il mansueto democratico adopera una lingua che si esaurisce tutta nel trionfo della premessa. Un’epifania che accoglie qualunque argomento, puntualmente preceduto da un mantra, una sorta di nenia: “premesso che non ho nulla contro…”. Un noiosissimo preambolo che scagiona preventivamente da qualsiasi accusa, eccezion fatta per quella di viltà. Poiché non vi è mai l’ardire e/o semplicemente l’onestà di dire ciò che intimamente si pensa. Troppo rischioso, eccessivamente inelegante e dannoso sino alla cacciata dal borghetto della compostezza. L’opera di Luigi Iannone figura un invito alla riflessione, all’ascolto di una voce dissenziente come arma di difesa dallo smottamento di informazioni che quotidianamente ci cade indosso. Un sovraccarico di notizie, dove difficilmente si trova la bussola per l’orientamento. Se risulta poco agevole farlo nelle strade, almeno si provi un tipo di ribellione, forse più adatta alla nostra società; insorgere verso quella diffusa e prepotente forma di conformismo che si fregia nel vezzo del mascheramento anticonformista. Lo spirito libero all’interno di una cittadina tutta edificata sulla compostezza democratica, tende ad apparire alla stessa maniera dello zio pazzo in Amarcord di Federico Fellini, nella splendida interpretazione di Ciccio Ingrassia. Iannone ci dona un sapiente parallelo cinematografico per descrivere la considerazione che abbraccia coloro che provano a non appiattirsi sulla melassa perbenista: i matti del paese. E se l’autore apre in Carmelo Bene, chi scrive si permette – solo dopo aver sollecitato la lettura di questo pungente pamphlet – di usarlo in conclusione da un estratto del Maurizio Costanzo Show – 1995: “Qualcuno ed era davvero anche lui un genio, ha detto che la democrazia è il popolo che prende a calci in culo il popolo, su mandato del popolo”.

La sinistra uccide la cultura, scrive Francesco Maria Del Vigo il 4 febbraio 2016 su "Il Giornale". Qualche giorno fa il Financial Times ha pubblicato un articolo che in Italia non potrebbe mai uscire. Il senso del pezzo è questo: quasi tutti i docenti dei paesi anglosassoni sono di sinistra e il loro pensiero unico distrugge la cultura e pure gli atenei. Sacrosanto. Pare, stando alle statistiche del foglio economico, che il 60 per cento dei professori americani tifi per i Democratici, contro il 40 per cento del 1989. Risultato? Dalle cattedre universitarie si professa un solo punto di vista. Non c’è dibattito. Si vende una sola idea e la si spaccia per verità. Vado per esperienza personale – quindi fallibile – ma in Italia credo che sia peggio. A naso: il 90 per cento dei docenti universitari – e delle superiori – sono di sinistra. Non solo i docenti, anche chi seleziona e scrive i libri di testo. Vi è mai capitato di leggere i tomi di storia o filosofia delle scuole dell’obbligo? Lasciamo perdere Il giudizio su Mussolini e il fascismo – De Felice nella migliore delle ipotesi è citato come un eretico -, ma pure uno come Nietszche viene trattato come una canaglia. Dalle nostre parti vige ancora l’idea che la cultura sia proprietà della sinistra. Quando i giganti della cultura del Novecento – per esempio – sono stati tutti di destra: fosse fascista, reazionaria, conservatrice, repubblicana, liberista, liberale o monarchica. Mishima, Pirandello, Drieu la Rochelle, Heidegger, Schmitt, Fermi, Gentile, Marinetti, D’Annunzio, Junger, Guenon, Evola, Berto, Cioran, Fante, Balla, Prezzolini, Hamsun, Keller, Comisso, Ionesco, Eliot? (E ho citato solo alcuni nomi, i primi che mi sono venuti in mente. Per leggere qualcosa di più preciso consiglio l’articolo “I grandi scrittori? Tutti di destra” di Giovanni Raboni uscito sul Corriere il 27 marzo 2002). Sono stati di sinistra? Sono stati comunisti? No, e ognuno di loro ha detto qualche cosa che oggi sarebbe incappato nella censura del politicamente corretto. E anche se li fossero stati – comunisti, stalinisti o chissà cosa – non ci sarebbe alcun problema… E lì in mezzo – in questa lista assolutamente incompleta e provvisoria – ci sono froci, drogati, blasfemi e alcolizzati. Perchè ci sono centodestre (titolo di un bellissimo dizionario biografico) che fanno da contraltare al pensiero unico di sinistra. E comunque la cultura non è rossa e neppure nera. Non è islamica, nè cattolica, nè apostolica, nè romana. La cultura è cultura. Punto. A prescindere dal colore e persino dalle follie ideologiche che abbia sostenuto. Non ci sono idee o scrittori che non si possano studiare, discutere e criticare. Non c’è nulla di vietato. Il politicamente scorretto è un’impotenza intellettuale contro la quale al momento non è commercializzato alcun Viagra. Se non quello della libertà intellettuale. Che purtroppo non si compra al supermercato. Ma il problema sollevato dal Financial Times – e qualche settimana fa anche dagli accademici di Oxford – merita di essere trasportato in Italia: il politicamente corretto uccide il dibattito culturale. Perché qui da noi il corpo docenti è ancora più radical e fuori dal mondo che negli USA o in Gran Bretagna. E non ci si può mordere la lingua di fronte a un’idea solo perché farebbe sussultare la Boldrini. Poi ci chiediamo perché i nostri titoli di studio non valgono un accidente… Anzi, studiarsi a memoria le banalità che impongono certi libri di testo è una medaglia al demerito. Uno schiaffo alla libertà di pensiero, al sano diritto all’insofferenza e alla claustrofobia verso tutto cioè che è imposto. Ogni volta che conosco qualcuno che abbia raggiunto i massimo voti negli studi classici mi preoccupo e mi sincero che abbia avuto anche altre evasioni intellettuali. Meglio bigiare una lezione e leggersi in un bar – magari pure con una sigaretta in bocca – una pagina di Max Stirner o di Berto Ricci. Di un anarco libertario o di un socialfacista. Magari per poi smontarli. Roba che tra i banchi è giudicata più pornografica di una gang bang di Sasha Grey. E comunque apre di più la mente un filmato su Youporn di uno dei libri di storia imposto dallo stato nei quali le foibe vengono evase in tre righe scarse. E poi – anche in campo sessuale – D’Annunzio a Fiume aveva già fatto tutto… (Alla festa della rivoluzione, Claudia Salaris, Il Mulino). E ricordatevi: quel barbuto con l’eskimo 2.0, gli occhialoni neri e la moleskine in mano che sta seduto accanto a voi in biblioteca non è un intellettuale: probabilmente è un coglione che manda a memoria testi del sessantotto pensando che siano roba nuova. Il futuro, per ora, non è infondo a sinistra. Lì hanno spostato la discarica delle idee.

I LIBRI…

Ecco il saggio per comprendere la ferocia dei miliziani di Tito. «Foibe» documenta con precisione la pulizia etnica anti italiana, scrive Matteo Sacchi, Sabato 10/02/2018, su "Il Giornale". Le violenze compiute dai partigiani titini in Istria, Dalmazia, e in molte altre zone della Venezia Giulia sono state a lungo ignorate dalla storiografia. Quando sono tornate a essere oggetto di discussione, anche perché le violente pulizie etniche dei conflitti nella ex Jugoslavia hanno reso impossibile ignorare i precedenti, il tema è stato rapidamente politicizzato. Le formazioni politiche vicine al mondo comunista hanno spesso cercato di minimizzare ciò che per anni avevano contribuito a nascondere sotto il tappeto. Quelle di destra hanno cercato di «monetizzare» politicamente il proprio merito di aver lottato per mantenere in vita il ricordo di ciò che era toccato in sorte a questi italiani scomodi, di confine. Esiste invece la necessità di una indagine degli eventi rigorosa e il meno possibile di parte. Ecco perché da oggi troverete in edicola con il Giornale il saggio scritto da Raoul Pupo e Roberto Spazzali: Foibe (pagg. 254, euro 8,50 più il prezzo del quotidiano). Il volume inquadra con chiarezza, mettendo a disposizione del lettore i fatti, anche con un gran numero di documenti. E con le parole, proprio a partire da «Foibe». Inutili le discussioni su quante siano state le persone realmente gettate nelle cavità carsiche. «Quando si parla di foibe ci si riferisce alle violenze di massa a danno di militari e civili, in larga prevalenza italiani, scatenatesi nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945 in diverse aree della Venezia Giulia e che nel loro insieme provocarono alcune migliaia di vittime». È in questo senso ampio che va considerato il dramma commemorato oggi nel Giorno del ricordo. Quelli perpetrati sul bordo degli inghiottitoi carsici sono solo alcuni degli eccidi perpetrati. Ciò ha contribuito a rendere particolarmente sterile il dibattito sul numero degli uccisi. Più interessante è riflettere su quale fu la metodica delle violenze, concentrate soprattutto nell'autunno del 1943 e nella primavera del 1945. Le violenze furono caratterizzate da un preciso odio etnico. Le vittime non furono soltanto esponenti del regime fascista, come spesso è stato detto da parte jugoslava. Come spiegano Pupo e Spazzali, già subito dopo l'8 settembre «vennero fatti sparire i rappresentanti dello Stato, come podestà, segretari e messi comunali, carabinieri, guardie campestri, esattori delle tasse e ufficiali postali». Una precisa volontà di «spazzare via chiunque ricordasse l'amministrazione italiana». Poi la strage si estese ai possidenti terrieri e anche ai partigiani italiani non disposti a farsi assimilare. I dati sono anche più chiari per la primavera del 1945. I campi in cui vennero inviati i prigionieri italiani, come quello di Borovnica, erano sostanzialmente strutturati per liquidarne il più possibile. E che di nuovo si trattasse di un preciso piano di occupazione e pulizia etnica lo provano le subitanee e spietate iniziative contro membri dei Cln di Gorizia e Trieste. Uccidere i partigiani italiani che davano segno di autonomia. Se a questa equazione «italiano = fascista» sponsorizzata dall'alto si sommano gli odi personali e lo spazio lasciato alla criminalità comune, si capisce l'entità delle violenze e del terrore che provocarono. L'ultima parte del libro è poi dedicata specificatamente ai luoghi, con mappe che indicano la collocazione delle foibe.

L'esodo giuliano-dalmata e quegli italiani in fuga che nacquero due volte. Un'inchiesta sulle vittime della violenza titina e su chi fu costretto ad abbandonare la Patria, scrive Eugenio Di Rienzo, martedì 05/02/2019, su Il Giornale. L'appartenenza a una comunità nazionale - sostenne il filosofo francese Ernest Renan in una conferenza pronunciata alla Sorbona nel 1882 - non deriva unicamente dalla legge del sangue, ma discende anche da una scelta consapevole che si rinnova con un «plebiscito di tutti i giorni». E nessuno più dei nostri trecentomila compatrioti del confine orientale seppero onorare questo comandamento nel tragico periodo della storia del nostro Paese che va dal 1943 al 1954. Quegli uomini e quelle donne furono, infatti, Italiani che decisero di «nascere Italiani due volte», come scrive Dino Messina in un volume appassionante: Italiani due volte. Dalle foibe all'esodo: una ferita aperta della nostra storia (Solferino, pagg. 304, euro 16,50), e che riaffermarono la loro identità, in nome di una scelta etnica che fu soprattutto una scelta culturale. Da cittadini divenuti profughi, affrontarono l'odissea di un esilio senza ritorno che li portò a lasciare Istria, Fiume, Zara, Pola per una patria che si rivelò troppo spesso matrigna o per terre lontane: Australia, Canada, Argentina, Sudafrica, Rhodesia. Il saggio di Messina, commosso e partecipe perché si basa sulle testimonianze dei pochi sopravvissuti e dei tanti che hanno mutuato il ricordo dell'esodo dalla memoria familiare, ha l'andamento di una tragedia greca che si dipana in tre atti. Il primo iniziò, dopo il settembre 1943, quando Hitler costituì la Zona d'operazioni del Litorale Adriatico, una suddivisione territoriale comprendente la Venezia Giulia e le province di Trieste, Pola, Fiume, sottoposta alla diretta amministrazione militare del Reich, dove le forze d'occupazione cercarono, con largo successo, di esasperare l'ostilità dell'elemento slavo contro quello italiano. Poi venne, dall'autunno 1944 alla primavera del 1945, il «democidio» sapientemente pianificato - e scatenato contro la nostra gente - dal IX Korpus Sloveno di Tito. Il terzo atto si compì dal 10 febbraio 1947 con la firma del trattato di Parigi (con cui furono cedute a Belgrado Fiume, Pola, le isole del Quarnaro, la quasi totalità dell'Istria e gli altopiani carsici limitrofi a Gorizia), all'ottobre 1954, con il Memorandum di Londra che restituì Trieste all'Italia, concedendo, però, alla Iugoslavia un'ulteriore porzione dell'Istria e tracciando una linea di confine che fu definitivamente riconosciuta col Trattato di Osimo del novembre 1975. Di tanto disastro si volle allora rendere responsabile De Gasperi, accusato di essersi presentato al tavolo delle trattative «col capo cosparso di cenere e il rosario in mano». Era un'accusa totalmente ingiustificata. Nell'agosto del 1946, l'esponente democristiano, infatti, aveva pronunciato dinanzi ai rappresentanti delle Potenze alleate un discorso in cui respingeva il carattere punitivo del trattato di pace, affermando che i vincitori, non solo volevano compiere una spartizione del nostro territorio, in spregio alla «Carta atlantica» che riconosce alle popolazioni il diritto di consultazione sui cambiamenti territoriali. Essi, infatti, intendevano stabilire che «gli Italiani, passati sotto sovranità slava, i quali opteranno per conservare la loro cittadinanza, dovranno entro un anno essere espulsi e trasferirsi in Italia abbandonando la loro terra, la loro casa, i loro averi». Contro quello, che fu poi definito il diktat di Parigi, si mobilitò un fronte esteso di politici e intellettuali. Luigi Sturzo propose che non fossero inviati plenipotenziari per firma del trattato di pace, in segno di protesta. Benedetto Croce, Francesco Saverio Nitti, Vittorio Emanuele Orlando, il fiumano Leo Valiani rifiutarono sdegnosamente di votare alla Costituente la ratifica degli accordi siglati nella capitale francese. Lo storico Federico Chabod, partigiano in Val d'Aosta, che aveva sventato in quella regione un progetto annessionistico fomentato dalla Francia, alla fine del luglio 1945, suggerì al governo De Gasperi di utilizzare lo strumento dell'autonomia regionale per preservare l'italianità del confine orientale. Infine, il filosofo Carlo Antoni e un altro storico Ernesto Sestan (l'uno triestino, l'altro istriano) redassero, sempre per De Gasperi, due memoriali in cui si esponevano le ragioni etniche, storiche, culturali che militavano a favore della conservazione all'Italia di Trieste e di parte del goriziano e dell'Istria e dove si suggeriva di regolare il contenzioso territoriale in base al principio dell'autodeterminazione, per cui Slavi e Italiani avrebbero dovuto scegliere la loro nazionalità attraverso liberi referendum. Questa proposta divenne il cavallo di battaglia di Gaetano Salvemini, che già dal 1944 aveva denunciato la politica espansionistica di Tito e il coinvolgimento di Togliatti a suo sostegno. Nel febbraio 1945, in replica a un articolo comparso sull'Unità, smaccatamente favorevole all'annessione iugoslava di Gorizia, Trieste e dell'Istria occidentale, Salvemini accusava gli «stalinisti italiani» di voler «buttare a mare» i propri compatrioti, e di costringere gli italiani, che da sempre erano maggioranza in alcune zone miste italo-slave, ad «andarsene a casa del diavolo». Era una fin troppo facile profezia. Di lì a due anni, dai porti dell'Istria e della Dalmazia sarebbero partite navi carica di un'umanità dolente, verso una patria che si sarebbe dimostrata ingiusta e impietosa, oltre ogni misura. A essi il Pci, i suoi dirigenti, le sue organizzazioni, i suoi sindacati, i suoi militanti riservarono la qualifica di «fascisti», a causa della «vergognosa fuga dal paradiso dell'eguaglianza e della fraternità socialista». E quei «due volte Italiani» iniziarono a subire, allora, l'oltraggio del più crudele genocidio: quello della memoria.

Dossier sulle foibe "imbarazzo" rosso....Il processo sui crimini in Istria e Dalmazia: dalla voragine di Basovizza ad oggi 50 anni di silenzio. Dossier sulle Foibe, “imbarazzo” rosso. Fare giustizia si ridurrà nel tentativo di punire un “boia” sloveno di 85 anni, scrive Dimitri Buffa il 7 febbraio 2002. Da tempo a Roma è in svolgimento davanti alla prima corte d’assise un processo per crimini compiuti tra la fine della seconda guerra mondiale e l’immediato dopoguerra nelle terre di Istria e Dalmazia. Viene chiamato il processo delle foibe e rischia di rivelarsi del tutto inutile per chi si illude di potere punire a tanti anni di distanza un solo uomo per tutti: il cittadino sloveno Oscar Piskulic, un ex boia di ormai 85 anni che non corre alcun rischio di venire arrestato nei territori sloveni dove risiede. Il processo sulle foibe venne istruito da un magistrato molto scomodo, il pm Giuseppe Pititto che si vide sottratta la possibilità di seguirlo in aula. Venerdì scorso il “Corsera” parlava di un documento ufficiale recentemente scritto insieme da storici italiani e sloveni che finalmente ammette la tragica verità delle tante denuncie susseguitesi dal dopoguerra ad oggi. Niente di trascendentale a leggerne le anticipazioni, ma abbastanza imbarazzante da tenerlo in un cassetto in attesa che si svolgano le elezioni del 13 maggio. Prima di Pititto nell’inchiesta sui crimini delle foibe carsiche aveva lavorato anche il pm romano Gianfranco Mantelli il quale fece fare una serie di interrogatori di testi dell’epoca o di loro discendenti. Il 22 novembre ’94 venne ad esempio sentito padre Flaminio Rocchi, Antonio da laico, nato a Neresine (Pola) il 3 luglio ’13, residente a Roma e direttore dell’ufficio assistenza dell’Associazione nazionale Venezia Giulia Dalmazia, e autore del libro: “L’esodo dei 350 mila giuliani, fiumani e dalmati”. Altro libro da lui curato: “Innocenza di 10mila infoibati in Istria, Fiume e Zara”. Secondo il prelato fu a causa di un’interpretazione fin troppo estensiva dell’articolo 7 del trattato di pace del 10 febbraio ’47 tra Italia e Yugoslavia se certi crimini non vennero perseguiti in tempo utile. Recita tale articolo: «L’Italia non incriminerà né altrimenti perseguirà quei cittadini italiani compresi gli appartenenti alle forze alleate (dopo il 1946 vi era compresa anche la Yugoslavia) per avere agito in favore delle resistenze alleate e associate dal 10 giugno 1940 fino all’entrata in vigore del presente trattato» (16 settembre ’47). Praticamente tale articolo ha funzionato poi da foglia di fico per le atrocità commesse dai partigiani slavi e dai loro collaborazionisti comunisti italiani. Il 3 gennaio ’95 veniva sentito l’avvocato Lucio Di Priamo. Riferiva che un suo cliente a nome Stefano Potaro aveva rinvenuto nella cantina di uno zio defunto alcune vecchie pellicole sulle foibe che poi vennero restaurate dall’Istituto Luce di Roma, dal dottor Guido Cace, presidente dell’Associazione dalmati. Tali immagini vennero poi usate in una puntata di Combat film. Il 30 gennaio ’95 veniva sentito Achille D’Amelia, giornalista del TG2 Rai. Riferiva dell’archivio militare della Rsi e di quello della Marina Italiana. Faceva il nome di una sua fonte, il professor Paolo Simoncelli ordinario di Storia Moderna all’Università La Sapienza di Roma. D’Amelia aveva curato il 19 gennaio ’95 il “Dossier Istria” sul TG2 in cui si parlava di documenti che comprovavano accordi segreti tra il comandante della X Mas Borghese e Badoglio insieme anche ai partigiani bianchi per impedire le stragi in Istria tra ’44 e ’45. Anche Oskar Piskulic veniva rintracciato da D’Amelia a Rijeka in Slovenia, rilasciando un’intervista per il periodico “Globus” in cui si discolpava così: «Con il denaro con cui bisognava pagare i nostri agenti all’estero, Krajacic (all’epoca ministro dell’Interno, ndr) acquistava oggetti personali». E ancora: «Nel ’43 gli italiani mi hanno arrestato e condannato a morte, ma i miei mi hanno liberato con un’azione quasi spettacolare. Poi sono finito a Rijeka come commissario cittadino. Mio padre è morto nel ’30 come lavoratore portuale, mia madre che faceva la donna delle pulizie in una banca di Rijeka era stata denunciata da una nostra vicina italiana perché non iscritta al partito fascista, a causa di ciò mia madre perse il lavoro che fu poi assegnato a quella vicina. Dopo di ciò le autorità italiane ci hanno mandato via da Rijeka, all’inizio dell’occupazione subito aderii al nostro movimento, come tutti i fiumani che odiavano il fascismo. Sono stato in un’unità in Istria che si chiamava Gorsky Kotar. Una volta vicino a Trabnik gli italiani ci attaccarono la mattina e la sera quattro nostri partigiani che erano stati fatti prigionieri vennero uccisi con le estremità tagliate e gli occhi cavati. Ho anche lavorato in diverse organizzazioni partigiane prima di finire a Rijeka come commissario cittadino. In Istria nel 1944 aveva cominciato ad organizzarsi il corpo dei volontari serbi composto dai cetnici di Nedic. Aspettavano lo sbarco degli inglesi e dovevano essere il loro supporto. Allora abbiamo fondato una speciale unità partigiana formata dagli uomini più fedeli che non sarebbero caduti sotto l’influenza degli inglesi. Compito di tale unità era la liquidazione del corpo cetnico. Ho assistito in quel periodo all’arresto, alla deportazione e alla fucilazione di molti nostri uomini da parte delle formazioni militari italiane...». Oggi non sarà di certo un processo penale a un vecchio pieno di scheletri nei propri armadi o un documento congiunto di storici dei due paesi interessati a questo dramma dire la parola fine su questi crimini che continueranno a non avere alcuna giustizia. Sul ciglione carsico, a 9 chilometri da Trieste, sorge la borgata di Basovizza. Nei pressi si apriva il “Pozzo della miniera”, oggi meglio conosciuto come “Foiba di Basovizza”, divenuta simbolo di tutte le foibe del Carso e dell’Istria, e di tutti i luoghi che videro il martirio e la morte atroce di italiani, sia per il numero delle vittime che ha inghiottito, sia tragicità delle vicende connesse alla strage colà perpetrata. Occorre precisare che questa tristemente famosa voragine non è una foiba naturale, ma, appunto come si accennato sopra, il pozzo di una miniera scavato all’inizio del secolo fino alla profondità di 256 metri, nella speranza di trovarvi il carbone. La speranza andò delusa e l’impresa venne abbandonata. Nessuno allora si curò di coprire l’imboccatura e così, nel ’45, il pozzo si trasformò in orrida tomba. Un documento allegato a un dossier sul comportamento delle truppe jugoslave nella Venezia Giulia durante l’invasione, dossier presentato dalla delegazione italiana alla conferenza di Parigi nel ’41, descrive la tremenda via-crucis delle vittime destinate ad essere precipitate nella voragine di Basovizza, dopo essere state prelevate nelle case di Trieste, durante alcuni giorni di un rigido coprifuoco. Lassù arrivavano gli autocarri della morte con il loro carico di disgraziati. Questi, con le mani straziate dal filo di ferro e spesso avvinti fra loro a catena, venivano sospinti a gruppi verso l’orlo dell’abisso. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro.  

GLI SPETTACOLI TEATRALI…MAGAZZINO 18.

Al Magazzino 18 sembrava di stare ad Auschwitz. Parla il coautore dello spettacolo teatrale. Bernas: "Revisionismo? Questo tema era stato occultato dalla storia ufficiale", scrive Gabriele Antonucci su “Il Tempo”. «La storia non deve essere di nessuno, ma la verità deve essere di tutti». Così il giornalista e scrittore Jan Bernas, esperto di geopolitica e di storia, ha spiegato l’urgenza artistica della genesi di «Magazzino 18», spettacolo scritto insieme a Simone Cristicchi. Un’idea accarezzata per vent’anni dal regista Antonio Calenda, che ha trovato finalmente compimento grazie ai fortunati incontri con Cristicchi e con Bernas, contattato dal cantante dopo aver letto il suo libro «Ci chiamavano fascisti. Eravamo italiani». Lo spettacolo, dopo il trionfale debutto a Trieste, ha ricevuto grandi consensi in tutta Italia per l’equilibrio del testo, la sensibilità di Cristicchi e la regia emozionante di Calenda. «Magazzino 18» diventerà un libro, che uscirà a febbraio per Mondadori, corredato dalle foto realizzate dall'autore all’interno del silos dove sono ancora accatastati i beni lasciati dagli esuli italiani in fuga. Per Bernas entrare al Magazzino 18 «è stata un’esperienza incredibile, mi ha ricordato l’atmosfera del campo di concentramento di Auschwitz. Prima di tutto è necessario un permesso speciale per entrare. Una volta dentro, sono rimasto colpito da un salone enorme, pieno di sedie accatastate una sopra l’altra. Dietro ognuna è riportato il nome e il cognome del proprietario. Una stanza è piena di giocattoli, un’altra di libri, registri e perfino di lettere d’amore. Fa venire i brividi». Quanto alle polemiche sullo spettacolo, l’autore se le aspettava, «ma non così forti, violente e preconcette. Le critiche più odiose sono quelle che sono arrivate prima che lo spettacolo andasse in scena o, dopo il debutto, da chi non l’aveva neanche visto. In "Magazzino 18" non diamo colpe, è semplicemente un atto di educazione alla memoria». Per Jan la parola foiba non è soltanto un tabù, ma «una semplificazione simbolica di una vicenda molto più complessa e articolata. Le foibe, in realtà, sono la punta dell’iceberg, visto che in quel periodo tanti italiani sono morti di crepacuore, chi a seguito dell’internamento, chi morto dentro, rimanendo a Pola o a Fiume». Sono state numerose le difficoltà nello scrivere un testo che affrontava una materia così delicata. È stato più duro che scrivere un libro. Quando devi raccontare sopra un palcoscenico avvenimenti così poco conosciuti non puoi dare nulla per scontato, né dal punto di vista storico né da quello drammaturgico. Devi condensare una vicenda complessa in meno di due ore». Sulle accuse di revisionismo, lo scrittore mostra di avere idee chiare: «Se per revisionismo intendiamo che per la prima volta in Italia viene rappresentato a teatro un argomento così occultato, allora lo è. Se con quel termine indichiamo una mistificazione storica a favore di una sola parte, non lo è certamente. È stato difficile realizzare uno spettacolo equilibrato: sarebbe stato molto più facile scrivere un testo di parte». Bernas si è accostato all’esodo degli italiani dalla Jugoslavia fin da giovanissimo. «Quando ero al liceo già mi interessavo di storia. Un giorno chiesi alla mia insegnante: "Come mai sono partiti tutti quegli italiani dall'Istria?" "Perché erano tutti fascisti". Non mi sono accontentato di quella secca risposta e ho iniziato una ricerca di molti anni che mi ha condotto a visitare quei luoghi, a conoscere e a intervistare decine di esuli». Grandi emozioni gli ha riservato la prima dello spettacolo a Trieste, dove era stata allarmata perfino la Digos per il rischio di scontri tra opposte fazioni politiche: «Quella sera c’era una tensione molto forte, ma l’applauso di un quarto d’ora con il pubblico in piedi, gli anziani esuli in lacrime che ci hanno abbracciato, l’inno nazionale cantato alla fine da tutta la sala sono stati i migliori regali che io, Cristicchi e Calenda potessimo ricevere».

Ma quanto tempo deve ancora passare perché il dramma dell’esilio giuliano-dalmata e la tragedia delle foibe diventino memoria per tutti? Si chiede Federico Guiglia su “Il Tempo”. Memoria è quel luogo del nostro animo dove il ricordo dell’orribile pagina di storia, che si è scritta sul confine nord-orientale italiano soprattutto dal ’43 al ’47, può ancora ferire gli anziani testimoni, commuovere i giovani che non conoscevano, far riflettere un’intera nazione chiamata a custodire per sempre un capitolo di sé per troppi anni rimosso. Ed è incredibile che a Simone Cristicchi, artista di valore di una generazione del tutto estranea alla vicenda, venga oggi scagliato l’anatema di «propaganda anti-partigiana» per lo spettacolo profondo e delicato, esattamente com’è lui, dedicato all’esodo di trecentocinquantamila connazionali. Come ormai si sa o si dovrebbe sapere, essi furono costretti ad abbandonare la terra in cui erano nati o cresciuti per evitare, nel migliore dei casi, di perdere la loro identità italiana. Anzi, italianissima, tipica della gente di confine, lontana da Roma e perciò amante di un amore travolgente verso la nazione italiana. Nel peggiore dei casi, gli esuli fuggivano per evitare la fine orrenda dei ventimila infoibati, uccisi o torturati dai partigiani comunisti di Tito con la sola «colpa» d’essere italiani. Senza dimenticare l’esproprio dei loro beni, che spesso erano il frutto di sacrifici che si tramandavano di padre in figlio, perché in Istria, Fiume e Dalmazia si parlava italiano dalla notte dei tempi. Dunque, è stata un’epopea triste. È stata una fuga per la vita di chi, da quel giorno, da quell’ultimo imbarco verso la madre-patria, avrebbe perduto tutto, fuorché la dignità. La dignità di raccontare quel che era successo, ma senza piangersi addosso. La dignità di ricominciare daccapo in Italia o all’estero, perché una parte notevole degli esiliati è partita due volte: la prima dalla propria terra verso la propria patria. La seconda dalla patria verso il mondo. L’Australia, il Canada, l’America, sempre portandosi nel cuore quel dramma silenzioso e quasi inconfessabile, tanto tremendo era stato. Portandoselo, il lutto collettivo, con straordinaria civiltà. È un esodo che non ha prodotto alcun atto di violenza per reazione o per vendetta, a differenza di altri esodi sradicati ed espulsi in tante parti dell’universo. Di più. Questi nostri fratelli mai hanno mostrato né fatto valere rancore nei confronti di chi li aveva cacciati da casa loro. Chiedevano e chiedono solo «giustizia». Le loro lacrime mai hanno riempito gli studi televisivi, a cui per anni i sopravvissuti e le loro famiglie si sono sottratti con discrezione. Anche nel dolore essi hanno dato prova di un’italianità esemplare: gente che non protestava, che non dava la colpa agli altri dei propri e terribili guai subìti, che non s’inventava partiti per lucrare voti sulla sofferenza. Solamente e nient’altro che un grande, infinito rispetto, dunque, possiamo noi oggi restituire ai vivi e ai morti, chiedendo scusa d’essere arrivati così tardi a «comprendere» e a «condividere» la vicenda. È quel che ha fatto Simone Cristicchi con lo spettacolo «Magazzino 18», andando a spulciare, per poi narrare, le cose senza nome e senza numeri, ma da oggi con nuova anima, abbandonate dagli esiliati in quel disperato magazzino di Trieste. Cristicchi ha dato voce e senso a una storia che è rimasta muta per decenni. L’artista, che non ha ancora trentasette anni, ha potuto e saputo più degli storici paludati, perfino, che poco o niente hanno voluto ricordare di quell’esodo alla frontiera, voltando per anni la testa e la penna dall’altra parte. Il giovane Cristicchi ha potuto e saputo più dei politici navigati, mondo al quale non appartiene. E si vede, e si sente: libero artista in libero Stato. Un mondo, quello politico, che ha scoperto l’esilio e le foibe solo in tarda Repubblica quando, con legge del 2004, fu proclamato «giorno del ricordo» il 10 febbraio, anniversario del Trattato di Pace che staccò dall’Italia quei territori italiani. Da allora l’esilio e le foibe sono tornati nella nostra storia nazionale. E ogni volta la cerimonia al Quirinale rende omaggio alla memoria dei vinti e innocenti troppo a lungo dimenticati. Il tesoro della memoria. Perciò la polemica che si è scatenata contro Cristicchi e riportata dal «Tempo», con chi sollecita la cacciata dell’artista dall’Anpi reo non si capisce di che cosa, non è né giusta né sbagliata: è semplicemente incomprensibile. La verità non può far male, neanche settant’anni dopo. Neanche quand’è raccontata con forza e dolcezza per non dimenticare.

Pianse Achille Occhetto il giorno in cui, con la “svolta della Bolognina”, seppellì il Partito comunista italiano dando vita al Pds, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Può sembrare incredibile, ma è lo stesso Occhetto quello che oggi si commuove per lo spettacolo teatrale “Magazzino 18” con il quale Simone Cristicchi ha messo in scena le foibe e l’esodo istriano, giuliano e dalmata. Quei drammi che proprio la sinistra italiana, per molti decenni, non ha voluto vedere per non dover fare i conti con sé stessa e perché ottenebrata dall’ideologia, adesso inteneriscono colui che pose la prima pietra per la costruzione della sinistra postcomunista.

Occhetto, come giudica lo spettacolo di Cristicchi?

«Davvero molto bello. Trasmette un grande pathos per via di vicende drammatiche nelle quali i torti e le ragioni non stanno tutti da una parte. Si è lontani da una visione manichea. Anche se da un punto di vista della vicenda storica, infatti, nel grande capitolo del ’900, tra fascismo e antifascismo le colpe stanno dalla parte del primo, occorre dire, e nello spettacolo di Cristicchi ne ho trovato traccia, che lo stalinismo ha “macchiato” le idealità dello stesso antifascismo».

Dunque Cristicchi, nel raccontarci che gli esuli non erano fascisti ma italiani che fuggivano da una dittatura, ha usato un metro di giudizio oggettivo?

«Non c’è dubbio. Cristicchi ci dice che, al di là delle affermazioni ideologiche con le quali si combattono delle battaglie politiche, ci furono anche molti antifascisti che si ingannarono, perché non capirono fino a che punto si stava vivendo il dramma di un popolo e non uno scontro fra nostalgici del fascismo e non, come invece una certa propaganda cerca di far vedere».

C’è chi a Cristicchi vorrebbe togliere la tessera onoraria dell’Anpi.

«Un’iniziativa totalmente sbagliata. Il pezzo teatrale di Cristicchi inquadra tutta la vicenda nel torto storico fondamentale del fascismo. L’autore ci dice, fin dall’inizio, che se non ci fosse stato quel tipo di guerra e soprattutto quel tipo di odio nazionalistico che aveva suscitato le reazione dell’altra parte, probabilmente non si sarebbe arrivati a quel punto. Poi, naturalmente, mette in evidenza come anche la sinistra allora non capì fino in fondo quel dramma umano. Non fummo messi nelle condizioni di vedere che cosa realmente accadeva, di capire il reale dramma che si nascondeva oltre i pretesti ideologici».

“Magazzino 18” ha provocato uno “strappo” fra quanti sostengono che il negazionismo è da respingere sia a “destra” che a “sinistra”, e quanti continuano a ritenere che il male del fascismo non è uguale a quello, spesso definito “presunto”, compiuto ai danni degli esuli. Foibe comprese.

«Non si può negare la drammatica realtà delle foibe. Forse ci furono degli antifascisti jugoslavi onesti che rimasero impigliati in quelle vicende, si possono fare delle analisi articolate quanto si vuole, ma il dato di fatto è indubbio».

Per decenni questo capitolo della nostra storia è rimasto sconosciuto.

«Io stesso ho appreso del dramma delle foibe solo dopo la “svolta della Bolognina”. Prima non ne ero mai venuto a conoscenza».

Com’è stato possibile?

«Di fronte a una storia del ‘900 segnata dai gradi delitti e dalla conculcazione delle libertà da parte del nazifascismo, probabilmente si è cercato di non vedere, e di non ricercare, qualche cosa che poteva addolorarci. Il fatto che quella ricerca venisse poi svolta dalla parte fascista, ha provocato una reazione di tipo ideologico dall’altra parte. Il merito dello spettacolo di Cristicchi, ecco perché mi stupisco di certe posizioni, è che ha portato una vicenda drammatica e umana lontano dal furore degli opposti ideologismi, per ricollocarla nella sua drammatica realtà storica».

Lei ha pianto il giorno in cui, con la “svolta della Bolognina”, sancì la fine del Pci, ora si commuove assistendo alla messa in scena dell’esodo istriano. Se lo sarebbe mai immaginato?

«Ogni fatto umano, raccontato nella sua tensione reale, è destinato a commuovere. Non penso sia una commozione che fuoriesca da quell’orizzonte morale e ideale per cui mi sono commosso leggendo il Diario di Anna Frank o le Lettere dei condannati a morte della Resistenza. Ho ritrovato, sotto un segno diverso, lo stesso dramma pagato da innocenti».

La «guerra civile culturale» in Italia non è mai finita, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Se intorno a un cantante che mette in scena la «verità storica» sull’esodo istriano, giuliano e dalmata che «condannò» migliaia di italiani alla fame, alla sete e alla morte, si produce ancora uno «squarcio storico», allora siamo ancora lontani da una «storia condivisa». Con «Magazzino 18» andato in scena a Trieste, Simone Cristicchi racconta la verità stabilita dai documenti storici. La verità di italiani, non di fascisti, in fuga dalle «speciali purghe» titine e in cerca dell’agognata libertà. Una verità che a quanto pare può essere raccontata solo dopo una preventiva revisione del «copione» da parte dei «depositari» della verità. E se da una parte la onlus Cnj ha annunciato di aver raccolto qualche centinaio di firme di aderenti all’Anpi per chiedere che a Cristicchi venga ritirata la tessera onoraria dell’associazione dei partigiani, dall’altra c’è chi, fra i rappresentanti dei partigiani, nello spettacolo storico-teatrale di Cristicchi vede una ventata di verità. È il caso di Elena Improta, vicepresidente Anpi Roma, a cui abbiamo chiesto un commento sulla vicenda.

La vicenda Cristicchi ha riaperto una ferita che in realtà non si era mai chiusa. Che posizione ha l’Anpi sulla polemica innescata da «Magazzino 18»?

«Le posizioni nell’associazione non sono univoche. Mi sono informata, ho letto tutto e poi ho parlato con persone che hanno visto lo spettacolo di Cristicchi. Si tratta di iscritti al Partito democratico, persone che hanno avuto parenti deportati ad Auschwitz. Gente, insomma, vicina alla Resistenza e alla lotta di Liberazione. Ebbene, tutti mi hanno riferito che in quello spettacolo non hanno trovato assolutamente nulla di sconvolgente e che si tratta di una polemica assolutamente ideologica. Cristicchi ha solo voluto evidenziare che vanno condannate tutte le forme di violenza che hanno segnato la nostra storia. Non ci possiamo più nascondere».

Qualcuno, come la onlus Cnj, vorrebbe addirittura togliere la tessera onoraria dell’Anpi al cantante per aver ricordato le foibe e il destino di quegli esuli.

«Quelle associazioni e quegli esponenti territoriali dell’Anpi che hanno sottoscritto l’appello contro Cristicchi per il ritiro della tessera perché nel suo spettacolo ha ricordato le foibe, mi sembrano fuori dal mondo. Non c’è nulla di sconvolgente in quelle dichiarazioni. Ricordare quello che furono le foibe non è uno scandalo e nulla toglie al valore della Resistenza e alla lotta partigiana. Se memoria dev’essere, si ricordi tutto. È arrivato il momento di riconoscere che chi scappava da Tito non era fascista, ma cercava la libertà come la cercavano i nostri partigiani. Mi chiedo se chi ha rilasciato certe dichiarazioni abbia realmente visto lo spettacolo di Cristicchi. Il "negazionismo" va condannato a 360 gradi, anche quello sulle foibe».

C’è chi nell’Anpi ha una posizione molto rigida e si accoda alla richiesta di Cnj.

«Le opinioni di chi persegue rigidamente i valori dell’Anpi sono univoche nel senso che ricordano solo la violenza fascista, riconoscono e condannano solo quella, non quella delle foibe. Sto parlando della parte "conservatrice" che fa riferimento o che è vicina ai Comunisti italiani e a Rifondazione comunista. Sbagliano e lo ripeto. Ricordare le foibe non vuol dire negare la Resistenza o la lotta partigiana».

Accanto a Elena Improta c’è Mario Bottazzi, ex combattente partigiano ora nel comitato provinciale dell’Anpi romana. Va oltre, Bottazzi, e si chiede perché non si debbano ammettere nell’Anpi anche persone legate alla destra più moderna e antifascista. Sul «caso Cristicchi» abbiamo sentito anche Carlo Smuraglia, presidente nazionale dell’Anpi che si chiede: «Chi, come e quando ha deciso di dare la tessera ad honorem a Cristicchi? In ogni caso l’Anpi toglie le tessere solo in casi eccezionali, solo in presenza di gravissimi fatti di indegnità». Sottolinea, il presidente dell’Anpi, che «si occuperà della cosa, lo farà la sezione locale, per verificare di che spettacolo parliamo e di questa tessera ad honorem. Sarà una verifica seria e non improvvisata». E poi prosegue: «In genere sono per rispettare le manifestazioni d’arte, prenderle per quelle che sono e poi discutere. Certe cose non si affrontano a picconate, vanno rispettate. Se poi uno fa uno spettacolo per negare l’esistenza delle camere a gas, allora ci si arrabbia. Se invece affronta qualcosa che è ancora oggetto di discussione, è diverso». Infine Smuraglia ammette che su quegli esuli italiani in fuga da una dittatura perché in cerca della libertà e non in quanto fascisti, «è arrivato il momento di discutere seriamente, di affrontare l’argomento nelle sedi opportune».

Io, minacciato per il mio spettacolo sulle Foibe”, scrive in un a intervista a Simone Cristicchi “Il Giornale”.

In questi ultimi anni stai raccogliendo il testimone di Giorgio Gaber, porti in tournée in tutta Italia i tuoi spettacoli di teatro-canzone. In questi giorni sei in scena con “Magazzino 18″, uno spettacolo sulla tragedia delle Foibe che è al centro di polemiche secondo me vergognose. Che cos’è il Magazzino 18 e che cosa ti ha spinto a raccontare questa pagina tragica della storia d’Italia?

«Magazzino 18 è un luogo realmente esistente che si trova nel Porto Vecchio di Trieste, un hangar dove venivano messe le merci delle navi in transito; in questo magazzino n. 18 si trovano invece le masserizie degli esuli istriani, fiumani e dalmati, che all’indomani della Seconda Guerra Mondiale furono costretti ad abbandonare le loro terre. Sono oggetti di vita quotidiana – letti, armadi, cassapanche, foto, ritratti – che ci raccontano una tragedia cancellata per tanti anni dalla storia e dalla memoria, io la chiamo “una pagina strappata dai libri di storia”. Ogni oggetto racconta la storia di una famiglia, di un vissuto, di un tessuto sociale strappato e mai più ricomposto. Con questo spettacolo ho cercato di ricomporre la loro storia dimenticata e di raccontarla a chi, come me fino a pochi anni fa, non ne era assolutamente a conoscenza».

È una pagina nascosta per 50 anni dai libri di storia, una cosa vergognosa. Come ti spieghi questo dividere ancora i morti in ‘morti di serie A’ e ‘morti di serie B? È vero che hai ricevuto delle minacce perché metti in scena uno spettacolo sulle Foibe?

«Lo spettacolo in realtà non è soltanto sulle Foibe, che sono un piccolo capitolo di una storia più complicata. Le persone che mi hanno criticato sono di estrema destra e di estrema sinistra, nessuno si è sottratto alla lapidazione di chi cerca di fare giustizia, di dare voce a chi non l’ha avuta per tanti anni; tutte queste critiche sono arrivate da persone che non hanno nemmeno avuto il buon gusto di vedere lo spettacolo, quindi mi scivolano addosso».

Non capisco perché ti attacchino sia da destra che da sinistra…

«Da sinistra perché è uno spettacolo “da fascisti”, da destra perché probabilmente avrei dovuto essere più incisivo in alcuni particolari di questa storia, quando invece il mio spettacolo vuole tendere a una pacificazione tra le parti e forse invece alcuni esponenti dell’estrema destra non cercano il dialogo. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, non accettano alcune cose e cercano sempre lo scontro. Non ho scritto questo spettacolo con Ian Bernas per creare ulteriori scontri e offese a questa gente».

La tua è sempre stata una musica di denuncia, ho sempre i brividi quando ascolto “Ti regalerò una rosa”. Tornando a un tema che hai affrontato anche in un tuo spettacolo, chi sono oggi i veri pazzi della nostra società?

«Probabilmente i veri pazzi sono i sognatori, quelli che credono che oggi si possa rifare una nuova Italia e cambiare un po’ il mondo, con una partecipazione attiva alla vita politica e sociale. I veri pazzi sono quelli che continuano a sognare e che non si lasciano soffocare da tutto quello che sta accadendo in questo momento».

Che cosa pensi della protesta dei Forconi, che proprio in queste ore stanno paralizzando molte piazze per protestare contro la linea del Governo?

«Non ho seguito bene la questione perché in questo momento sono in tournée in Croazia, posso dire che a volte sono delle valvole di sfogo difficili da gestire, ma che ci si deve aspettare… quando le persone sono soffocate a un certo punto esplodono in qualche modo. La mia paura è che questo tipo di manifestazioni possano portare a delle violenze, e quando c’è la violenza si passa sempre dalla parte del torto».

Tu sei sempre rimasto OFF, anche dopo il successo hai sempre imposto una tua linea artistica e autorale precisa fregandotene del mercato ufficiale, sei perfettamente in linea con il nostro magazine. Che consiglio ti senti di dare ai giovani artisti che cominciano questa carriera e che ci leggono su ilgiornaleOFF?

«Il consiglio che posso dare è quello di coltivare una curiosità per il mondo senza avere delle ideologie preconcette, di affidarsi all’istinto perché molto spesso ci guida verso mete a cui non avremmo mai pensato, come è successo a me: sono passato dal fumetto alla canzone, poi dalla canzone al teatro e alla scrittura, il 4 febbraio uscirà anche il libro di “Magazzino 18″, con tutti i racconti che ho raccolto in questi anni. Bisogna mantenere le antenne puntate e presentarsi al grande pubblico con una maturità quasi già acquisita, non arrivare da debuttanti e sentirsi però debuttanti sempre, per tutto il proprio percorso».

Cristicchi: "Canterò e reciterò le foibe. E già mi insultano". Il cantautore porta a teatro il dramma giuliano-dalmata: "A 50 anni di distanza è ancora un argomento scomodo", scrive Francesco Cramer su “Il Giornale”.

Perché questo tema?

«Per emozionare e illuminare delle storie rimaste al buio».

Di cui pure lei sapeva poco?

«Pochissimo. A scuola il dramma degli esuli istriani e dalmati non viene raccontato».

Eppure lei ha fatto studi umanistici.

«Liceo classico a Roma. Ma, come molti, da ragazzino davanti alla targa "Quartiere giuliano-dalmata" mi chiedevo chi fosse il signor Giuliano Dalmata».

Un capitolo di storia che dovuto studiare da solo?

«Sì. Ringrazio la mia curiosità e la mia sete di sapere».

Quando è nata l'idea dello spettacolo?

«Un anno fa, in una libreria di Bologna, mi ha colpito un libro di Jan Bernas: "Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani". L'ho divorato».

Poi?

«Ho contattato l'autore su facebook: "Dobbiamo parlarci...". Siamo diventati amici e abbiamo cominciato ad approfondire la cosa».

Da lì è partita l'idea di raccontare a teatro le storie narrate nel libro?

«Sì. Poi ho chiesto di poter visitare il Magazzino 18 di Trieste, inaccessibile al pubblico. Lì ho varcato la porta della tragedia».

Il Magazzino 18: l'immenso deposito di cose mai ritirate dagli esuli istriani.

«Impressionante la tristezza di quel luogo. C'è di tutto: quaderni di scuola, posate, bicchieri, armadi e sedie; montagne di sedie».

Da qui il titolo dello spettacolo: Magazzino 18. Cosa vedremo a teatro?

«Le vicende umane di una pagina nera e dimenticata, attraverso il personaggio principale: un archivista del ministero degli Interni inviato al magazzino a mettere ordine».

E attraverso gli oggetti emergeranno le storie vere?

«Sì, in sei o sette brani con altrettante canzoni. Tutti episodi drammatici e commoventi».

Ci anticipi qualcosa.

«Ci sarà la storia della tragedia dei comunisti di Monfalcone, partiti per la Jugoslavia per costruire il "Sol dell'avvenire". Solo che dopo il loro arrivo Tito ruppe con Stalin e venne accusato di deviazionismo. Per i comunisti di Monfalcone non ci fu scampo: furono considerati nemici e molti finirono nel gulalg di Goli Otok-Isola calva».

Una faida tra compagni.

«Certo. Un sopravvissuto racconta: "Sono stato utilizzato come utile idiota della storia e ho contribuito a far andar via i miei connazionali. Solo dopo ho capito"».

Lei sa che raccontare queste vicende è politicamente scorretto?

«Lo so bene. Su twitter e facebook sono arrivati i primi insulti. Qualcuno mi ha pure dato del traditore».

Traditore? E perché?

«Perché il mio spettacolo "Li romani in Russia", dove racconto il dramma dei soldati italiani inviati dal Duce sul fronte sovietico, mi ha affibbiato la patente di uomo di sinistra».

Invece?

«Invece a me interessa raccontare cose accadute. La verità è che siamo un Paese ancora intossicato dall'ideologia; che tanti danni ha fatto nel passato. Tra cui strappare alcune pagine di storia del nostro popolo».

Che lei vuole riattaccare.

«Certo. La mia vuole essere un'opera di educazione alla memoria. Per non dimenticare. Mai».

Cristicchi: «Io e la mia compagnia siamo stati insultati». Il cantante parla dalla sua pagina Facebook e risponde a chi contesta il suo spettacolo «Magazzino 18», scrive Carlo Antini su “Il Tempo”. Simone Cristicchi prende la parola in prima persona. E lo fa dalla sua pagina Facebook. Il cantautore romano risponde a chi lo contesta. A chi contesta il suo spettacolo «Magazzino 18» (che dovrebbe andare in onda in seconda serata il 10 febbraio su Rai1) perché colpevole di essere antipartigiano. Cristicchi è un artista coraggioso e non si fa intimorire dalle minacce. Neppure da chi ha chiesto la sua espulsione dall’Associazione Nazionale Partigiani. «La tessera mi è stata donata dall’Anpi stessa nel 2010 come attestato di riconoscenza per lo spettacolo con il Coro dei Minatori di Santa Fiora - ha scritto Cristicchi sul suo Facebook - A quanto mi risulta, qualche mese fa la richiesta è già pervenuta all’Anpi, che ha risposto "No" al ritiro della tessera. Ora un’oceanica folla (un centinaio di firmatari) ci sta riprovando, con la benedizione del CNJ, che continua a violare leggi sulla privacy pubblicando mie corrispondenze private sul loro sito». Ma Cristicchi denuncia anche veri e propri episodi di violenza e intimidazione subìti negli ultimi mesi. «Senza pensare al fatto che io e la mia compagnia abbiamo subìto insulti e una sospetta ruota squarciata durante il tour in Istria - conferma il musicista - Bel modo di esporre le proprie idee! Complimentoni». Alla lunga prende il sopravvento la rabbia e la voglia di mettere in luce le contraddizioni del movimento. «Detto questo, se da una parte è deludente constatare cotanta presunzione, sono quasi contento che stiano uscendo allo scoperto questi atteggiamenti, le loro critiche campate in aria e la valanga di menzogne sul mio spettacolo. Così mostrano il loro vero volto, in fondo non così diverso dagli estremisti di destra che loro si vantano di "combattere". Si. Indossando le magliette "I love foiba". Da antifascista, sono schifato da tutto ciò. La tessera gliela rispedisco io! In posta prioritaria. Altrimenti, senza tante chiacchiere, si facciano loro uno spettacolo con la loro "sacrosanta" verità. In fondo, ma molto in fondo, siamo un paese democratico, no?»

Cristicchi racconta le foibe "Ora mi danno del fascista". Il cantautore porta in scena un musical sugli orrori dei comunisti titini e l'esodo degli italiani dalmati. "Sfido l'estrema sinistra: venite a vedermi", scrive di Simone Paliaga su “Libero Quotidiano”.

«"Chi è Giuliano Dalmata?" si chiede in una battuta del musical, confondendo due aggettivi per un nome e cognome, il funzionario inviato da Roma a catalogare il materiale dei profughi italiani provenienti dall’Istria e dalla Dalmazia. Probabilmente questi sono gli stessi pensieri che balzano alla mente quando a Roma ci si imbatte nel Villaggio giuliano dalmata», ci racconta Simone Cristicchi. In questi giorni che la parola negazionismo rimbalza ovunque il cantante si trova a Trieste per inaugurare il Salone del libro dell’Adriatico Orientale Bancarella (17-22 ottobre con oltre cento incontri) e per togliere il velo a una storia negata e dimenticata da anni. Si tratta di un altro negazionismo di cui pochi si ricordano: l’esodo di 300 mila italiani dalle terre italiane di Istria e Dalmazia alla fine della Seconda guerra mondiale a causa dell’occupazione jugoslava e con il beneplacito inglese. Per riportarlo al centro dell’attenzione al Politeama Rossetti di Trieste il 22 ottobre, con repliche fino al 27, verrà presentato in anteprima nazionale lo spettacolo di Simone Cristicchi e Jan Bernas Magazzino 18, per la regia di Antonio Calenda.

Cristicchi, prima che le venisse in mente di scrivere il musical sapeva di questo episodio storico?

«Vagamente. È un argomento che non si studia a scuola. L’ho conosciuto attraverso un libro che ho trovato a Bologna. Si tratta di “Ci chiamavano fascisti, eravamo italiani” (Mursia) di Jan Bernas  che poi è diventato il coautore del musical. Tra quelle pagine ho trovato testimonianze di coloro che hanno vissuto l’esodo, il controesodo di molti monfalconesi poi andati in Jugoslavia e finiti a Goli Otok… Questi fatti nessuno li conosce».

Che cosa è il Magazzino 18?

«Mi trovavo a Trieste per fare delle ricerca sulla Seconda Guerra mondiale e ho sentito dell’esistenza di un deposito dove si trovano accatastate le masserizie degli esuli, il Magazzino 18. Dopo un po’ di traversie sono riuscito a visitarlo. E mi è sembrato di rivedere Ellis Island, l’isola dove gli emigrati italiani venivano tenuti in una sorta di quarantena prima di poter sbarcare negli Stati Uniti».

Perché ha pensato di ricavare uno spettacolo dalle vicende dell’esodo?

«Perché è una storia che merita di essere raccontata. Non è stato un lavoro di poco conto. Tra ricerche e scrittura mi ci è voluto un anno di fatiche. Prima ho cominciato a lavorare al testo e poi ne sono uscite anche le canzoni… Si tratta di un musical civile con una scenografia imponente, un coro, un’orchestra. Un lavoro che senza l’aiuto del teatro stabile non avrei potuto realizzare».

Cosa ha provato quando è entrato per la prima volta nel Magazzino 18?

«Avevo l’impressione di trovarmi in un luogo quasi sacro… era ricolmo degli oggetti degli italiani che erano stati costretti a lasciare le loro terre in Istria e Dalmazia. Mobili, poltrone, attaccapanni, tutto insieme. I numeri della tombola si trovavano a fianco di un cuscino. Su ogni sedia era appiccicato il nome del proprietario… era come se questi oggetti parlassero. Avevo l’impressione si essere immerso in una atmosfera fiabesca. In questo magazzino era finito il contenuto di un’intera città. È per questo che ho deciso di ambientare il musical dentro quelle pareti, dentro quel Magazzino».

La canzone che lo racconta ha scatenato una valanga di polemiche…

«Quando l’ho pubblicata sono rimasto colpito dalla quantità di critiche dell’estrema sinistra che mi sono piombate addosso. Se prima per i temi che toccavo mi consideravano di sinistra a un tratto sono diventato un fascista. Io invece sono un artista, voglio raccontare storie. Non mi interessano questi giochi politici. Mi sento libero di occuparmi delle storie che voglio. Più mi attaccano e più io mi incaponisco. Sfido queste persone che mi accusano. Spero vengano a teatro e si ricredano. Nel testo non c’è niente di revanscista. È equilibrato e intende raccontare un pezzo dimenticato della nostra storia di italiani».

Chi ha strumentalizzato questa vicenda penalizzandone la diffusione?

«La strumentalizzazione politica è stata fatta dall’estrema destra come dall’estrema sinistra. Negli anni Settanta gli uni lo hanno impiegato come mezzo di propaganda mentre a sinistra provavano a giustificarlo. Ma il giustificazionismo è pericoloso. Si può finire con avallare qualsiasi cosa».

Cosa ha provato la gente non ideologizzata… quella che non sta né da una parte né dall’altra?

«Una reazione di vergogna. Un po’ quella che ho provato io quando ne sono venuto a conoscenza per la prima volta. Ci si chiede come sia possibile che questa tragedia sia stata rimossa dalla nostra attenzione, che se ne trovino scarse tracce anche nei manuali scolastici…».

Ha intenzione di continuare in questo filone artistico?

«Certo. È un linguaggio ideale per raccontare la nostra storia. Il teatro civile attira un pubblico di intellettuali mentre la musica è più coinvolgente. Dai bambini agli anziani, tutti possono godere dello spettacolo e imparare qualcosa sulla storia italiana. E se dovesse funzionare questo spettacolo potrei anche continuare, magari occupandomi del Risorgimento».

LA RAI SI SVEGLIA...

INTERROGAZIONE A RISPOSTA SCRITTA 4/03335 presentata da STORACE FRANCESCO (ALLEANZA NAZIONALE) in data 18 settembre 1996. Al Ministro delle poste e delle telecomunicazioni. - Per sapere - premesso che: dopo cinquant'anni di oblio il genocidio delle foibe e' approdato in RAI; gli italiani, grazie a TG2 Dossier di venerdì 6 settembre 1996, in seconda serata, sono riusciti a conoscere una tragedia assolutamente ignota alla maggior parte dei nostri connazionali; dalla trasmissione e' stata letteralmente "tranciata" l'intervista a Luigi Papo, vice presidente dell'Unione istriana, scrittore e storico che ha dedicato la vita a ricostruire fin nei dettagli la vicenda delle foibe, fino a censirne ad una ad una le vittime; Papo aveva rilasciato ad uno degli autori, Roberto Olla, una lunga e documentata intervista nella quale tra l'altro parlava di oltre diecimila italiani assassinati dai titini; l'argomento era introdotto, nel montaggio televisivo, da una specifica domanda in proposito: "ma quante sono le vittime delle foibe?"; i telespettatori non hanno potuto pero' ascoltare la risposta: infatti al posto di Papo e' comparso il giornalista Michele Cucuzza, che ha parlato di tutt'altro, e di Papo si e' persa ogni traccia; la cancellazione della voce degli istriani non e' stato l'unico "incidente" che ha turbato la trasmissione: in tutta l'Emilia Romagna, singolarmente, proprio in coincidenza con il TG2 Dossier, il segnale del secondo canale e' stato disturbato da un ronzio che ha disturbato l'audio ed ha cancellato le immagini con una sorta di "effetto pioggia"; oltre duecento sono state le telefonate di protesta che hanno mandato in tilt i centralini della televisione pubblica, mentre qualcuno ha anche avvisato la polizia e i carabinieri; la RAI ha risposto, a chi ha telefonato, che la causa era da attribuire ad un calo di tensione; un analogo caso di calo di tensione si era verificato nell'unica altra occasione in cui su Rai tre era andato in onda un servizio sulle foibe, cioe' il 25 aprile del 1995, alle 11.00, e proprio in un'altra zona calda, la provincia di Gorizia -: se corrisponda a verita' quanto sopra esposto e, in caso positivo, se non ritenga opportuno "sensibilizzare" i vertici RAI sull'accaduto; se non esistano i requisiti necessari e sufficienti per aprire un'inchiesta sulla vicenda sopra descritta; se esistano solo motivi tecnici per il calo di tensione e dell'effetto pioggia verificatesi oppure esistono dei motivi politici. (4-03335)

Arcipelago Foibe. St 1997 Istria - Il diritto alla memoria. L'inchiesta di Anna Maria Mori sulla storia sociale e politica dell'Istria negli ultimi cinquant'anni è condotta attraverso numerose interviste e filmati di repertorio. Fra gli altri contributi, quello di Claudio Magris, degli storici Elio Apih e Roberto Spazzali, di Nelida Milani, di Bianca Stella Zanini e di profughi istriani. Preziose e drammatiche le immagini dell'esodo della popolazione fra il 1945 e il 1947 e del ritrovamento delle vittime della pulizia etnica nelle foibe.

Arcipelago Foibe. St 2004 Enigma - Le foibe. In questa puntata di Enigma, condotta da Andrea Vianello, il tema della strage delle foibe viene sviscerato attraverso un ampio dibattito fra il pubblico presente in studio: Paolo Mieli, giornalista e storico, Riccardo Illy, presidente del Friuli Venezia Giulia, Lucio Toth, presidente della Federazione Esuli, Amleto Ballarini, presidente della Società Studi Fiumani, Nevencka Troha, storica.

Arcipelago Foibe. St 2005 I ricordi e le speranze - Le foibe. In questa puntata de I ricordi e le speranze, Stefano Tomassini racconta delle foibe insieme con gli ospiti Silvio Delbello, presidente dell'Unione degli Istriani, Fulvio Molinari, giornalista e autore del libro "Istria contesa", Maurizio Tremul, Presidente Unioni Italiani d'Istria e di Fiume, e Giuseppe Parlato, storico. La puntata ripercorre la storia delle foibe, cominciando dall'annuncio radiofonico dell'armistizio del 1943, che trasforma il confine Nord-Est dell'Italia in una terra di nessuno.

Arcipelago Foibe. St 2005 Porta a porta - Foibe: tragedia italiana. In occasione della celebrazione del primo "Giorno del ricordo", Bruno Vespa dedica uno speciale di "Porta a porta" alla tragedia delle foibe, con interviste a superstiti ed esuli giuliano-dalmati, nonché agli interpreti della fiction "Il cuore nel pozzo". Tra gli ospiti in studio anche Alessandro Curzi e Maurizio Gasparri.

Arcipelago Foibe. St 2008 Tg2 Dossier Storie - Le foibe. La storia delle foibe viene raccontata qui attraverso servizi e testimonianze. Fra queste, la storia di Ornela, cugina di Perlasca, che racconta delle rocambolesche vicende per salvare il marito dalle foibe, dopo il suo sequestro da parte dei partigiani slavi. O quella della Signora Mafalda Codan, che ha raccontato nei suoi diari degli anni della guerra, durante i quali, dopo esser stata costretta a scappare dall'Istria, è stata catturata a Trieste, seviziata e imprigionata.

Arcipelago Foibe. St 2012 La Storia siamo noi - Le foibe. La puntata del programma di Giovanni Minoli dedicata al "Giorno del ricordo" vede le testimonianze del sindaco di Trieste Roberto Dipiazza e dello storico Gianni Oliva. Particolarmente toccante, tra i materiali riproposti da un precedente speciale di "Mixer", l'intervista a Graziano Udivisi, unico superstite degli eccidi.

Arcipelago Foibe. St 2014 Correva l'anno - Speciale foibe. A dieci anni dall'approvazione della legge che istituisce il "Giorno del ricordo", Paolo Mieli ricostruisce i tragici fatti avvenuti sul confine orientale italiano tra la fine dell'ultimo conflitto e il dopoguerra, fra l'altro soffermandosi sulle ragioni della loro rimozione pluridecennale dalla memoria collettiva del nostro Paese.

Arcipelago Foibe. St 2015 Il tempo e la storia - Intervista a Raoul Pupo. Insieme allo storico Raoul Pupo, Massimo Bernardini rievoca i massacri delle foibe ed il dramma dei 250.000 mila esuli italiani dall'Istria e dalla Dalmazia, costretti a lasciare le terre dei propri padri dopo l'ultima guerra. Una vicenda di violenze e vendette troppo a lungo dimenticata in Italia.

Arcipelago Foibe. St 2016 Il tempo e la storia - Intervista ad Ernesto Galli della Loggia. Il professor Ernesto Galli della Loggia rilegge con Massimo Bernardini il tragico capitolo delle foibe: un orrore, per molti anni confinato nell'oblio nel nostro Paese, che ha segnato gli ultimi mesi del secondo conflitto mondiale nonché l'immediato dopoguerra nei territori di Venezia Giulia, Istria e Dalmazia.

Arcipelago Foibe. TG2 Dossier. FOIBE, LA VERITÀ NEGATA di Anna Mazzone Andato in onda:03/02/2019. Gli eccidi delle foibe, almeno diecimila italiani massacrati e uccisi dai partigiani comunisti jugoslavi di Tito dal 1943 al 1947. La storia simbolo di Norma. Aveva appena ventidue anni. L’esodo forzato dall’Istria e dalla Dalmazia di oltre trecentomila innocenti con l’unica colpa di essere italiani diventati profughi nel loro stesso Paese. Una pagina drammatica della nostra storia a lungo negata e dimenticata.

Giorno del Ricordo, ecco quale sarà la programmazione della Rai, scrive mercoledì 7 febbraio 2019 la Redazione di Secolo D’Italia. Anche quest’anno, in occasione del Giorno del Ricordo, la Rai ha messo a punto un ampio palinsesto in tv e alla radio, su Reti, Testate e Web per ricordare le vittime delle Foibe e il dramma dei tanti italiani, spogliati di tutti i loro averi, in fuga dall’Istria, Dalmazia e Friuli Venezia Giulia, sul finire della seconda guerra mondiale e nell’immediato dopoguerra. In particolare alla vigilia della ricorrenza, venerdì 9 febbraio alle 17, Rai2trasmetterà in diretta dall’Aula di Palazzo Madama, a cura di Rai Parlamento, la cerimonia di commemorazione, alla presenza del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Uno spot istituzionale prodotto da Rai per il Giorno del Ricordo sarà proposto fino a sabato 10 su tutte le Reti. La programmazione dedicata, che ha preso il via lunedì 5 febbraio su Rai3 con La Grande storia – Foibe nei luoghi della memoria, con il commento di Paolo Mieli, proseguirà giovedì 8 su Rai2, alle 11, con il programma I Fatti vostri che dedicherà uno spazio di approfondimento al ricordo della tragedia e delle persecuzioni perpetrate in quei drammatici giorni. In seconda serata Rai3 trasmetterà, alle 23.05, il documentario L’ultima spiaggia. Mola fra la Strage di Vergarolla e l’Esodo di Alessandro Quadretti. Il regista ricostruisce e racconta, insieme con Domenico Guzzo, storico esperto di terrorismo e co-sceneggiatore, una tragedia rimasta per decenni ai margini della memoria collettiva italiana. La giornata di venerdì si aprirà su Rai1 con lo spazio di approfondimento di Unomattina, mentre il Tg1 trasmetterà servizi nelle varie edizioni. In diretta dal Senato Rainews effettuerà, a partire dalle 17, collegamenti per seguire la cerimonia del Giorno del Ricordo. Alle 23.50 verrà proposta una puntata speciale della rubrica del Tg2 Punto di vista. Rai3 trasmetterà alle 13.15 Passato e Presente – Il dramma Giuliano-Dalmata. Dalle Foibe all’esodo, con il commento del prof. Raoul Pupo. Nella giornata di sabato 10 Rainews seguirà in diretta la cerimonia alla Foiba di Basovizza (Trieste), luogo riconosciuto come monumento nazionale, con collegamenti dal campo profughi di Padriciano che per oltre vent’anni accolse gli esuli istriani, fiumani e dalmati, cacciati dalle proprie case. Saranno trasmessi anche servizi e approfondimenti, fra cui la testimonianza di Erminia Bernobi, cugina e oggi unica parente in vita di Norma Cossetto. A questa si unirà anche la testimonianza di Giacomo Crosilla (il padre fu gettato in foiba e sua sorella è morta nella strage di Vergarolla) che ha ricevuto la medaglia d’onore del Presidente della Repubblica. Tanti i servizi di Rainews con dettagliate ricostruzioni storiche degli eventi. Rai2 proporrà un approfondimento nel programma Sulla Via di Damasco, dalle 7.45. Servizi e testimonianze in tutte le edizioni dei tg Rai. Rai Premium trasmetterà poi alle 21.20 una delle fiction Rai di maggior successo e impatto emotivo, Il cuore nel pozzo, per la regia di Alberto Negrin, con Leo Gullotta, Beppe Fiorello, Anna Liskova, trasmessa per la prima volta nel 2005.  Ricca la programmazione di Rai Storia: alle ore 8.50 (replica alle 14:00, 20:30, 00:30) andrà in onda Passato e Presente – Il dramma Giuliano-Dalmata.  Il giorno e la Storia verrà trasmesso alle ore 00.10 (replica alle 5:30, 8:30, 11:30, 14:00, 20:10). Alle 16 Rai Storia proporrà Mille Papaveri Rossi-TG2 Dossier, Orrore dimenticato e alle 21:10 il documentario L’ultima spiaggia. Pola fra la Strage di Vergarolla e l’Esodo. Infine alle 22.10 sarà trasmesso il docufilm Trieste, la contesa. Rai Scuola proporrà alle 18.30 lo speciale Le foibe: il dolore e l’esilio. Oltre ai diversi programmi sulle sue reti, Rai Cultura commemora il Giorno del Ricordo con uno Speciale Web sul portale di Rai Storia: online i commenti di vari storici, da Giovanni Sabbatici (che si concentra sull’ istituzione del Giorno del Ricordo) a Raoul Pupo ed Ernesto Galli della Loggia. Radio Rai seguirà la ricorrenza del Giorno del Ricordo con servizi nelle maggiori edizioni dei Giornali Radio: dall’appuntamento istituzionale del venerdì al Senato della Repubblica fino alle iniziative organizzate per la giornata di sabato 10 febbraio. Gli account social promuoveranno tutta la programmazione.

Vittime del Foibe, il giorno della ricordo: la programmazione Rai, scrive Giuseppe Ino il 07/02/2015 su Teleblog. Sarà ampia e articolata l’offerta Rai, televisiva e radiofonica, dedicata al Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle Foibe, che si celebra il 10 febbraio di ogni anno. Una solennità civile nazionale, istituita con la legge 30 marzo 2004 per commemorare le vittime dei massacri delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. La giornata più intensa sarà ovviamente quella del 10 febbraio. Si prosegue con Rai5 che venerdì 6 febbraio, alle 21.15, presenta il film documentario “Il viaggio della signorina Vila”. Liberamente ispirato a due testi che nel 2012 hanno compiuto 100 anni, “Il mio Carso” di Scipio Slataper e “Irridentismo adriatico” di Angelo Vivante, il film racconta, attraverso la voce narrante di Toni Servillo e Lucka Pocka, la storia d’amore nella Trieste di oggi di un uomo e una donna caduti da un altro tempo.  A seguire, nella stessa serata, “Trieste la contesa”: Trieste nasce come luogo dello scambio e conferma la sua inclinazione particolare dal 1719, quando Carlo VI la dichiara porto franco. Da quella data, la città è luogo di comunicazione e commercio tra l’Europa centro-orientale (ovvero l’Impero asburgico) e il Mediterraneo. Repliche previste: sabato 7 febbraio alle 18.30, domenica 8 febbraio alle 7.25, lunedì 9 febbraio alle 15.45 e venerdì 13 febbraio alle 9.35. Sabato 7 febbraio TG2 Storie dedicherà l’apertura della puntata al Giorno del Ricordo. Domenica 8 febbraio, la trasmissione di Rai1 “Domenica In”, alle 16.35, ricorderà, con un approfondimento, le vittime delle foibe. Rai Premium, lunedì 9 febbraio alle 23.30, trasmetterà la fiction “Il cuore nel pozzo”. Nel giorno della ricorrenza, martedì 10 febbraio, il palinsesto dedicato si apre con “Unomattina”, dalle 06.45 alle 11.00 su Rai1, che dedicherà uno spazio al ricordo delle vittime e al dramma dell’esodo forzato di tanti italiani dalle loro case. A seguire, su Rai2, il programma “I Fatti Vostri”, in onda alle 12.00, si occuperà dell’anniversario con un approfondimento. Poi sempre sulla stessa rete, alle 16.30, in diretta dalla Camera dei Deputati, la Celebrazione del Giorno del Ricordo. Rai3 e Rai Cultura, sempre il 10 febbraio, alle 13.15, presentano una puntata de “Il Tempo e la Storia” dedicata al racconto delle stragi di italiani avvenute nell’autunno del 1943 e nella primavera del 1945 ad opera del movimento di liberazione e delle istituzioni dello stato jugoslavo nei territori dell’allora Venezia Giulia. Ospite della puntata è il Professor Raoul Pupo, storico contemporaneista dell’Università di Trieste tra i massimi studiosi e conoscitori del fenomeno delle foibe. Ripercorrendo passo dopo passo i tragici eventi che hanno caratterizzato il biennio ’43-’45 e avvalendosi anche di testimonianze e documenti inediti, la puntata intende dare una chiave di lettura obiettiva ed equilibrata su una vicenda che ancora oggi è oggetto di divisione ed accese polemiche. In replica su Rai Storia alle 14.20 – 20,50 – 23.30) e mercoledì 11 febbraio alle 6.00 e alle 8.30. Su Rai5, martedì 10 febbraio, alle 16.10, andrà in onda lo spettacolo teatrale di Simone Cristicchi “Magazzino 18: l’esodo degli Italiani”. Ancora, su Rai Storia alle 16.00 e alle 00.30 “Mille Papaveri Rossi” – Orrore dimenticato, un approfondimento del Tg2 Dossier sulla giornata del Ricordo per onorare il sacrificio di migliaia di morti, gettati nelle foibe del Carso. La Testata Giornalistica Regionale, attraverso la TGR Friuli Venezia Giulia, coprirà la ricorrenza con diverse iniziative editoriali. La redazione in lingua italiana realizzerà servizi ed interviste per le quattro edizioni dei giornali radio, per i due telegiornali e per Buongiorno Regione. Quella in lingua slovena garantirà la copertura informativa delle principali cerimonie pubbliche in programma per la giornata, anche con dirette radiofoniche e, in particolare, domenica 8 febbraio saranno trasmesse le riprese dello spettacolo “Magazzino 18”. La rubrica Est-Ovest, in onda domenica 8 febbraio alle 10.45 proporrà un servizio dedicato alla ricorrenza. Rainews24 ha in programma dirette e reportage con l’inviata Daiana Paoli che sarà a Trieste e in Istria già a partire dall’8 febbraio. La testata seguirà in diretta le Cerimonie ufficiali sia in Italia che in Croazia, da Basovizza e da Umago, con interviste a rappresentanti della minoranza di origine italiana ma anche croati per raccontare l’integrazione oggi, con uno sguardo al futuro e uno, doveroso, al passato. Ancora, il viaggio nei luoghi dell’esodo, la visita alle foibe disseminate nel Carso e all’unico museo dedicato alla storia dell’esodo. La visita in questi luoghi sarà accompagnata dallo storico Raoul Pupo, uno dei massimi esperti delle vicende del confine orientale. Tra le numerose interviste, a molti testimoni diretti, quella ad un esule 94enne di Visinada che racconta la sua storia e gli anni durissimi in un campo profughi; a Fiore Filippaz, la cui sorella è morta di freddo a un anno a Padriciano in un campo profughi; a Luciana Melon, autrice di un volume dedicato al dialetto istriano (che spiega il legame con Venezia e l’italianità di quei luoghi). Inoltre, il 10 febbraio, la testata trasmetterà uno speciale a cura di Fausto Pellegrini con un’intervista a Simone Cristicchi – autore di Magazzino 18 – e una selezione di brani di questo appassionato lavoro dedicato all’esodo istriano-fiumano-dalmata. Su RadioRai, martedì 10 febbraio, “Radio anch’io”, in onda su Radio1 dalle 8.30 alle 10.00, dedica la puntata alla ricorrenza; nel pomeriggio la trasmissione “Restate scomodi”, in onda dalle 15:40 alle 17:00, si collegherà con Trieste. Servizi sono poi previsti nelle principali edizioni del Gr1. Su Radio2 “Pezzi da 90” ha realizzato una puntata in memoria delle vittime della foibe, dal titolo L’Inghiottitoio, che verrà inserita sul web il 10 febbraio. Tutte le testate della Rai daranno adeguata copertura informativa al Giorno del Ricordo. 

I DOCUMENTARI...

"Checkpoint Trieste", il dramma degli atleti fuggiti dalla furia di Tito. Da Mario Andretti a Abdon Pamich, un documentario per il Giorno del ricordo, scrive Tony Damascelli, Giovedì 07/02/2019, su Il Giornale.  Il giorno del ricordo ha smarrito il ricordo. Il dieci di febbraio del Quarantasette è un'immagine opaca, lontana, anche fastidiosa per una fetta di italiani, comunisti e affini, che non ha voglia di ricordare. Perché non conosce nemmeno la vergogna. Sky Sport ha messo assieme le immagini e le parole di quell'epoca cattiva che ha lasciato il segno sui nostri profughi, in fuga dalla loro terra rubata dal regime di Tito. Il lavoro di Matteo Marani, che sullo studio della storia ha raggiunto la laurea e di quel tempo maligno ha scritto libri e raccolto testimonianze, si riassume sotto il titolo di Checkpoint Trieste, un documentario all'interno del quale trova spazio forte e profondo il 10 febbraio, il ricordo, in onda domani su SkySport SerieA (ore 23,15). Qui l'esodo giuliano-dalmata trova voci e immagini degli uomini di sport che da quei luoghi furono costretti, con le loro famiglie, a scappare per non finire nella trappola della falsa libertà socialcomunista. Dunque Fiume (qualche ignorantello tra i miei colleghi, in occasione di una partita di coppa europea tra una squadra italiana e il Rijeka, scrisse «oggi la sfida contro il Rjeka di Fiume»), Montona, San Pancrazio, San Bortolo, Pola, svuotate dai nostri connazionali, senza un presente, in assenza di futuro. Sul muro di rustiche pietre di una dimora a Montona c'è una lapide a ricordo «in questa casa è nato il 28 02 1940 Mario Andretti campione del mondo di Formula 1 1978. Oldtimer Klub Pula Ruote del passato Pordenone». Andretti aveva sette anni e, nell'intervista di Sky Sport, ha ricordo vivo e grigio di quei giorni. «Arrivò il momento in cui i miei genitori dovevano decidere, rimaniamo cittadini italiani o restiamo nella zona comunista e poi pensare all'arrivo in Italia come profughi del nostro Paese; vedevo l'emozione dei nonni, dei genitori, dello zio, era davvero triste avendo vissuto lì tutta la vita, coltivato la terra e costretti ad abbandonare tutto senza sapere quello che ci attendeva». Gli Andretti raccolsero panni e affetti, viaggiarono verso la Toscana, si trasferirono a Lucca, poi l'America, per Mario la Formula 1, dodici gran premi vinti, la Ferrari, il mondiale con la Lotus Ford, mai, però, l'abbandono dell'affetto per quel pezzo di infanzia strappata via. Come lui altri futuri protagonisti del nostro sport, Ottavio Missoni, artista della moda, sesto ai Giochi di Londra del 1948 nei 400 ostacoli, i fratelli Vatta, Antonio e Sergio, maestri di football, Orlando Sirola, vincitore nel doppio con Nicola Pietrangeli agli Internazionali di Francia del '59, Agostino Straulino leggendario velista, oro alle Olimpiadi di Helsinki, quattro volte campione del mondo, Nino Benvenuti, campione del mondo dei pesi medi, da Isola d'Istria, due volte alla settimana superava in bicicletta il confine per andare ad allenarsi a Trieste, e Abdon Pamich che della nostra marcia è stato il monumento, oro a Tokyo e quaranta titoli tra italiani e europei. Pamich viene da Fiume, ricorda che lo sport era una questione culturale non semplicemente ludica. Lui è la memoria potente di quei giorni, vive a Roma nella zona dell'Eur, nel quartiere giuliano-dalmata destinato gli esuli. Altri trovarono rifugio nei centonove campi di raccolta sparsi su tutto il territorio italiano. La motonave «Toscana» trasportava da Pola a Venezia o al porto di Ancona migliaia di profughi disperati, non c'erano televisioni a inquadrare quei volti di cera o gommoni di politicanti alla ricerca dell'applauso elettorale. Abdon Pamich non avrebbe voglia di riaprire il diario di quelle espressioni cattive, di quelle voci acide, di quegli sputi miserabili, il repertorio che i comunisti e i loro fiancheggiatori riservarono agli esuli, accusati di essere fascisti e comunque conniventi con il regime, colpevoli di non avere accettato il paradiso socialista. Era quella l'accoglienza di cui parlano e scrivono oggi gli eredi ideologici di quei giorni, gli stessi che a Bologna portarono allo sciopero dei ferrovieri il diciotto febbraio del Quarantasette. Era mezzogiorno quando il merci che veniva da Trieste destinato al sud, carico di uomini, donne e bambini, pigiati tra la paglia nei vari vagoni, si sarebbe fermato. La Pontificia Opera di Assistenza e la Croce Rossa avevano preparato pasti e coperte. Nella memoria di Pamich e degli altri esuli restano gli strilli che uscivano metallici dai microfoni con i quali i sindacalisti della Cgil e gli iscritti del Partito Comunista Italiano impedirono l'assistenza, «Se i profughi si fermano per mangiare lo sciopero bloccherà la stazione», e furono sassi contro il convoglio e sputi e lancio di pomodori e uova e ancora il latte destinato agli infanti venne versato sulle rotaie, lo spregio massimo, il più vigliacco. La voce di Pamich, il suo volto di rughe che ha affrontato, superato e vinto la fatica della marcia verso la gloria, tornano a esprimere la malinconica rabbia e la rassegnazione a un tempo nemmeno dimenticato ma evitato da coloro che oggi sventolano la bandiera dell'accoglienza: «Noi fummo trattati molto peggio di quelli che oggi dicono di essere trattati male. Non ci fu accoglienza ma diffidenza, dicevano che eravamo fascisti che scappavamo dal paradiso comunista cui loro aspiravano». Nello sport avrebbero riscattato la violenza e il disprezzo. La storia non continua. La storia si è fermata.

I FILM…RED LAND ROSSO ISTRIA.

«Così sabotano il mio film sulla strage più feroce commessa dai partigiani», scrive "Il Giornale" Domenica 11/11/2012. Della maestra elementare, Corinna Doardo, 39 anni, vedova di un sarto, che aveva insegnato a leggere e a scrivere a uno stuolo di bambini, ha scritto Giampaolo Pansa ne Il sangue dei vinti: «Andarono a prenderla a casa, la portarono dentro il municipio e la raparono a zero. La punizione sembrava finita lì e invece il peggio doveva ancora venire. Le misero dei fiori in mano e una coroncina di fiori sulla testa ormai pelata e la costrinsero a camminare per la via centrale di Codevigo, fra un mare di gente che la scherniva e la insultava. Alla fine di questo tormento, la spinsero in un viottolo fra i campi. E la uccisero, qualcuno dice con una raffica di mitra, altri pestandola a morte sulla testa con i calci dei fucili». Del figlio del podestà, Ludovico Bubola, detto Mario, ha riferito Antonio Serena ne I giorni di Caino: «I barbari venuti a liberare il Veneto cominciano a segargli il collo con del filo spinato, finché la vittima sviene. Allora provvedono a farlo rinvenire gettandogli in faccia dei secchi d'acqua fredda. Ma il martire non cede e grida ancora la sua fede in faccia ai carnefici. Allora provvedono a tagliargli la lingua che gli viene poi infilata nel taschino della giacca. Quindi, quando la vittima ormai agonizza, gli recidono i testicoli e glieli mettono in bocca. Verrà poi sepolto in un campo d'erba medica nei pressi, sotto pochi centimetri di terra». Di Farinacci Fontana, che aveva appena 18 anni ed era infantilmente orgoglioso della sua fede nel Duce, compendiata fin dalla nascita in quell'assurdo nome di battesimo mutuato dal cognome di un gerarca fascista, vorrebbe parlare il regista Antonello Belluco ne Il segreto. Ma un conto è leggere certe cose sui libri degli storici revisionisti, un altro conto è guardarle al cinema, e Il segreto è appunto un film. Che nessuno deve vedere, anzi che non si deve nemmeno girare, perché è ambientato sullo sfondo dell'eccidio di Codevigo, il più cruento, insieme con quello della cartiera di Mignagola nel Trevigiano, compiuto dai partigiani in un'unica località a guerra già finita, a Liberazione già avvenuta, ad armi già deposte, in un arco temporale che va dal 29 aprile al 15 maggio, forse anche dopo, nessuno può dirlo con precisione. Così come nessuno ha mai stabilito la contabilità esatta della mattanza: c'è chi parla di 136 vittime, chi di 168 e chi di 365, come i giorni di quell'atroce 1945.

Secondo il cardiologo Luigi Masiero i giustiziati furono non meno di 600, ma il calcolo potrebbe essere inficiato dal fatto che il medico era stato, come quasi tutti, camicia nera. Un documento dell'arcidiocesi di Ravenna-Cervia ipotizza addirittura la cifra di 900 morti. Don Umberto Zavattiero, a quel tempo prevosto di Codevigo, annota nel chronicon parrocchiale: «30 aprile. Previo giudizio sommario fu uccisa la maestra Corinna Doardo. Nella prima quindicina di maggio vi fu nelle ore notturne una strage di fascisti importati da fuori, particolarmente da Ravenna. Vi furono circa 130 morti. Venivano seppelliti dagli stessi partigiani di qua e di là per i campi, come le zucche. Altri cadaveri provenienti da altri paesi furono visti passare per il fiume e andare al mare». In questa macabra ridda, diventa una certezza un titolo a tre colonne uscito sul Gazzettino soltanto 17 anni dopo, il 28 marzo 1962: «Esumate un centinaio di salme e raccolte in un piccolo ossario». È la prima cappellina sulla sinistra, nel cimitero di questo paese della Bassa padovana. Mezzo secolo fa vi furono tumulati i resti di 114 dei fascisti trucidati. Un'ottantina di loro hanno un volto negli ovali di ceramica. Tanti cognomi scolpiti sulla lapide e una postilla finale: «N. 12 ignoti». Belluco è un padovano di 56 anni, laureato in scienze politiche. Ha lavorato in Rai dal 1983 come programmista e regista per Radio 2 e Rai 3, prima a Venezia e poi a Roma. «Sono entrato grazie a un'unica referenza: l'aver vinto il premio Cento città, indetto dalla casa discografica Rca, che l'anno prima era andato al dj Claudio Cecchetto. In mensa mi chiedevano: “Tu da chi sei raccomandato?”. Tutti avevano un padrino». Nel 1987 lo convoca Antonio Bruni, dirigente della Tv di Stato: «Qua dentro, senza un partito alle spalle, non puoi far carriera. Meglio se ti cerchi un lavoro fuori». Belluco ascolta il consiglio. Si mette a girare spot e filmati per Lotto, Safilo, Acqua Vera, Lavazza, Pubblicità Progresso. Produce audiovisivi per Il Messaggero di Sant'Antonio, documentari, inchieste (sull'ecstasy, sul sequestro di Giuseppe Soffiantini, sul regista Sam Peckinpah). Nel 2006 l'esordio nel cinema con Antonio, guerriero di Dio interpretato da Jordi Mollà, Arnoldo Foà e Mattia Sbragia. La Buena Vista (Walt Disney Company) si offre di lanciare il film, ma il produttore preferisce l'italiana 01 Distribution (Rai Cinema). «Risultato: programmazione pessima. E pensare che in quattro sale di Padova aveva fatto gli stessi incassi del Codice da Vinci». Nel 2011 la sua docufiction Giorgione da Castelfranco, sulle tracce del genio viene qualificata dal ministero per i Beni culturali come film d'essai insieme con Habemus Papam di Nanni Moretti. Nello stesso anno cominciano le riprese de Il segreto, con tanto di marchio della Warner Bros sulla colonna sonora, giacché Belluco sa maneggiare tanto la pellicola quanto il pentagramma, come dimostra il Sanctus scritto a quattro mani con l'amico Pino Donaggio e cantato da Antonella Ruggiero nei titoli di coda di Antonio, guerriero di Dio. Il regista aveva già girato un quarto d'ora, dei 105 minuti previsti dal copione ambientato sullo sfondo dell'eccidio di Codevigo, quando gli capita fra capo e collo una catena di sventure difficilmente attribuibili al caso e tutte senza spiegazione: il produttore rinuncia, i contributi ministeriali e regionali vanno in fumo, le banche ritirano i finanziamenti, i collezionisti che avevano messo a disposizione materiale bellico e costumi d'epoca si defilano, la Ruggiero si rifiuta d'interpretare il tema musicale del Segreto, gli avvocati inviano diffide. «Finché un giorno Angelo Tabaro, segretario generale per la Cultura della Regione Veneto, me l'ha confessato chiaro e tondo: “Ho ricevuto telefonate dall'Anpi e dai partiti di sinistra. Non vogliono che esca questo film”».

Perché ha deciso di occuparsi dell'eccidio di Codevigo?

«Non certo per ricavarne un'opera ideologica. Nel 2010 il sindaco del paese, Gerardo Fontana, eletto con una lista civica di sinistra, mi sottopone in lettura due pagine riguardanti questa terribile storia. Sento che c'è materia su cui lavorare. Il tema non mi è indifferente: sono figlio di profughi istriani, i miei nonni e mia madre vivevano a Villa del Nevoso e scamparono alle foibe grazie a un ex repubblichino che faceva il doppio gioco per i partigiani di Tito. Butto giù una sceneggiatura e la invio a Fontana. Lui mi telefona: “Mi hai commosso”. Decidiamo di lavorare insieme al soggetto, che toccò da vicino la sua famiglia».

Ebbe qualche parente assassinato?

«Farinacci Fontana, 18 anni. Era suo cugino. Il padre Silvio, capo delle Brigate nere di Codevigo, si salvò consegnandosi ai carabinieri di Piove di Sacco. Il ragazzo, che non aveva fatto nulla di male, preferì restare in paese. Nonostante fosse stato interrogato dagli inglesi e rilasciato per la sua innocuità, finì giustiziato su ordine di un capo partigiano che faceva seviziare i prigionieri e poi li giudicava alla maniera dell'imperatore Nerone nel circo: pollice verso, morte; pollice in alto, vita. Come recita un proverbio africano, quando gli elefanti combattono, è sempre l'erba a rimanere schiacciata. Farinacci è il personaggio reale di una storia che nel Segreto è basata sulla fantasia. Di lui s'innamora Italia Martin, 15 anni. Ma Farinacci ha occhi solo per Ada, una giovane istriana. Un giorno Italia lo scopre mentre fa l'amore con Ada e per vendetta lo denuncia ai brigatisti».

Quelli sono esistiti davvero, però.

«Sì, la 28ª Brigata Garibaldi “Mario Gordini” arrivò a Codevigo il 29 aprile 1945 agli ordini di Arrigo Boldrini, detto Bulow, inquadrata nell'VIII Armata angloamericana del generale Richard McCreery. Vestiva divise inglesi, col basco fregiato di coccarda tricolore. All'epoca Bulow aveva 30 anni. L'ex parlamentare Serena nel libro I giorni di Caino scrive che Boldrini era un comunista con alle spalle un passato di capomanipolo nell'81º Battaglione “Camicie nere” di Ravenna, sua città natale. Finita la guerra, sarà deputato del Pci per sei legislature, vicepresidente della Camera e presidente dell'Anpi, l'Associazione nazionale partigiani d'Italia. Decorato dagli inglesi con medaglia d'oro al valor militare. Ma nel mio film di Bulow non parlo. Il comandante brigatista ha un nome di battaglia diverso: Ramon».

Al massimo evoca Per un pugno di dollari: «Al cuore, Ramon».

«Boldrini-Bulow s'è sempre difeso sostenendo che in quei giorni si muoveva fra Padova, Bologna, Milano, Venezia e Adria e mai ordinò le brutali uccisioni. Fatto sta che i partigiani venuti da Ravenna rastrellarono un po' in tutto il Veneto appartenenti alle disciolte formazioni della Repubblica sociale italiana e li portarono a Codevigo. Il bilancio dei processi sommari non si discosta molto da quello dell'eccidio delle Fosse Ardeatine. Solo che qui non ci sono un Herbert Kappler e un Erich Priebke che ammazzano con un colpo alla nuca 15 ostaggi in più rispetto all'ordine di rappresaglia. Dunque chi ha la responsabilità dei morti di Codevigo? Si sono forse uccisi da soli?».

Gino Minorello aveva 23 anni ed era l'organista della chiesa di Codevigo. Che cosa potrà aver mai fatto di male per meritare la morte?

«Gottardo Minato, che era il custode del cimitero, ha testimoniato che fu preso assieme a Edoardo Broccadello, detto Fiore, e a Primo Manfrin. Li misero sul ciglio della fossa. Poi diedero una fisarmonica all'organista, ordinandogli: “Suona una marcetta”. Mentre Minorello suonava, spararono a tutti e tre».

Per quale motivo la strage avvenne proprio in questo luogo?

«Siamo a meno di 5 chilometri in linea d'aria dall'Adriatico, in un territorio bagnato da quattro fiumi, Brenta, Bacchiglione, Nuovissimo e Fiumicello, sulle cui rive i prigionieri venivano spogliati, fucilati e gettati in acqua. Il mare doveva diventare la loro tomba, quando non li aspettava una fossa comune. Alcune vittime furono inchiodate vive sui tavolacci che si usavano per “far su” il maiale, come diciamo dalle nostre parti. Della maestra Doardo, forse colpevole di eccessiva severità nell'insegnare le tabelline al figlio zuccone di qualche comunista, restò integro solo un orecchio, come attestato nel referto del dottor Enrico Vidale, che esaminò le salme recuperate».

Mi racconti delle traversie del Segreto.

«Nel 2011 mi rivolgo a Sergio Pelone. Ha prodotto film di successo, come Gorbaciof, e molte opere di Marco Bellocchio, da L'ora di religione a Il regista di matrimoni».

Un produttore di sinistra.

«Maoista, a detta di Sandro Cecca, un mio amico regista. Tutti mi dissuadevano: “Figurarsi se Pelone ti produce Il segreto”. Vado nel suo ufficio a Roma e, in effetti, alle pareti noto varie scritte in cinese: massime di Mao Tse-tung, suppongo. “L'opera mi piace, può diventare un capolavoro”, mi incoraggia Pelone. Propone di chiedere i finanziamenti al ministero per i Beni culturali e alla Film commission della Regione Veneto. A quel punto diventa il capocordata. A Roma su 66 richieste di contributi ne vengono accolte solo 8. Il primo classificato è Alessandro Gassman, che becca 200.000 euro. Il cognome conta. Noi veniamo rimandati alla sessione successiva. A Venezia otteniamo 50.000 euro, un niente. Pelone firma ugualmente l'inizio delle riprese, che comincio a mie spese. Ma a marzo mi comunica che esce dal progetto perché non c'è il budget. Così ci fa perdere i finanziamenti del ministero e della Regione. E pensare che la scenografa Virginia Vianello, nipote di Raimondo, mia grande amica, mi aveva già presentato a Cinecittà Luce, che era pronta a distribuirmi il film».

Il progetto è stato azzoppato.

«E non solo finanziariamente. Dennis Dellai, regista vicentino di Così eravamo e Terre rosse, lungometraggi sulla Resistenza, che aveva promesso di mettermi a disposizione armi, automezzi e divise della seconda guerra mondiale, mi manda i costumi per girare le prime scene, però all'improvviso cambia idea. La nostra producer, Maria Raffaella Lucietto, parla con Davide Viero, aiuto regista di Dellai ed esperto di materiale bellico, il quale balbetta che tiene famiglia e che non vuole mettersi contro l'Anpi e i partigiani. Da quel momento i quattro o cinque collezionisti del Veneto ci chiudono le porte in faccia. “A Belluco non si deve dare niente”, è il passaparola».

Chi altro ha cambiato idea?

«Due del settore produzione se ne sono appena andati. Siccome realizzano audiovisivi per conto di enti pubblici, non volevano inimicarsi uno dei loro committenti».

Sia meno vago: quale committente?

«Flavio Zanonato, il sindaco di Padova. Ex Pci, oggi Partito democratico».

Non starà peccando di complottismo?

«Complottismo? Da Antonveneta mi avevano comunicato che erano disponibili 10.000 euro nell'ambito dei progetti culturali. Peccato che la fondazione bancaria sia presieduta da Massimo Carraro, già parlamentare europeo dei Democratici di sinistra, grande amico di Zanonato. Mai visti i fondi. Altri ci sono stati negati, sempre per motivi ideologici, dalle casse rurali».

Ha finito con le defezioni?

«Le racconto solo l'ultima, quella che mi ha ferito di più. Ingaggio un finalista di X Factor perché mi scriva il tema musicale del Segreto con una tonalità adatta ad Antonella Ruggiero. Spedisco testo, spartito e cover alla solista genovese. Mi scrive Roberto Colombo, il marito: “Veramente un brano interessante. Ad Antonella piace l'idea di poterlo interpretare”. Poi mi chiede: “Ci puoi mandare anche una rapida descrizione del contenuto del film?”. Mando. A quel punto ci comunica che sua moglie “ha pensato di non sentirsi a proprio agio nello sposare le tematiche della sceneggiatura”».

Tematiche politicamente scabrose.

«Le stesse che hanno indotto l'avvocato Emilio Ricci, patrocinante in Cassazione con studio a Roma, a inviarmi una raccomandata con ricevuta di ritorno in cui mi notifica che il suo assistito Carlo Boldrini, figlio ed erede di Arrigo Boldrini, venuto a conoscenza della mia intenzione di “girare un film sulle tragiche vicende relative alle stragi accadute a Codevigo nella primavera del 1945, ha evidente interesse a conoscere i contenuti della trama e dell'opera, in considerazione della complessità degli accadimenti di quel periodo e delle diverse interpretazioni-storico politiche che si sono susseguite”. Motivo per cui pretendeva una copia della sceneggiatura».

Stando allo Zingarelli, si tratterebbe di un tentativo di censura preventiva.

«L'invito perentorio mi è stato rinnovato dopo cinque mesi con una seconda raccomandata, identica alla prima. Ovviamente non gli ho spedito nulla».

È un fatto che le vicende di Codevigo furono al centro di 24 procedimenti penali riguardanti 108 omicidi, che videro imputati quattro combattenti della 28ª Brigata Garibaldi. Tutti assolti.

«Non è un film processuale. A me interessa di più capire come reagirono i bambini o perché nessuno degli abitanti di Codevigo si oppose a quella spaventosa carneficina. Perciò non comprendo da quale timore sia mosso il figlio di Boldrini, visto che nel mio film la figura del comandante Bulow, suo padre, non compare proprio».

Ha trovato un nuovo produttore per il suo film?

«Mi ero rivolto a Rai Cinema. La risposta mi è arrivata per e-mail da Carlo Brancaleoni, che dirige la struttura Produzione film di esordio e sperimentali: “Le devo purtroppo comunicare che non abbiamo ritenuto la sceneggiatura coerente con la nostra linea editoriale. Il senso narrativo essenziale, la storia d'amore dei due amanti stritolati dai meccanismi della guerra, non trova conforto, a nostro avviso, nel sottofondo storico che intende descrivere e raccontare”. Questa del “sottofondo storico” è da incorniciare. Forse la Rai trova conforto solo nei copioni che prevedono qualche milione di morti».

Dunque il produttore non l'ha trovato.

«No. Però avevo parlato con un amico del regista Dellai, il vicentino Bruno Benetti, imprenditore della Itigroup di Villaverla, che con la One art finanzia anche film statunitensi. Il suo consulente è Marco Müller, già direttore artistico della Mostra del cinema di Venezia, oggi al Festival di Roma. Un giorno dell'anno scorso Benetti mi chiama: “Müller ha letto la sceneggiatura, è rimasto impressionato. Darà l'internazionalizzazione al Segreto”. Passa qualche tempo e l'industriale telefona alla producer Lucietto: “Io non investo neanche 100 euro su un certo tipo di film”».

Adesso come se la caverà?

«Ho un po' di tempo davanti. Prima di fine aprile le riprese non possono ricominciare per motivi meteorologici, visto che l'eccidio fu commesso in primavera. Abbiamo ridotto le spese all'osso. Direttore della fotografia, scenografa e montaggista hanno accettato d'essere pagati a caratura, cioè in percentuale sui soldi che entrano in cassa. Se non entrano, lavorano gratis. C'è chi s'è offerto di noleggiarmi la macchina da presa Alexa per 1.000 euro a settimana: di norma ce ne vogliono 1.500 al giorno. L'investimento iniziale è davvero minimo: 120.000 euro. Mi rifiuto di credere che non vi sia un produttore indipendente, una casa cinematografica, una rete televisiva o anche solo un mecenate che non sia interessato a un film da cui potrebbe fra l'altro ricavare qualche soddisfazione economica».

E se non trova il mecenate?

«Il segreto uscirà comunque, questo è sicuro. Sto ricevendo attestazioni di stima commoventi. L'imprenditore Franco Luxardo, quello del maraschino, esule dalmata nipote di Pietro Luxardo, che col fratello Nicolò e la moglie di questi fu affogato nel mare di Zara dai partigiani titini, ci ha promesso 1.000 euro; a titolo personale, ha voluto precisare, perché non è riuscito a convincere nemmeno il consiglio d'amministrazione della sua azienda a compromettersi con i morti di Codevigo. Gli iscritti all'associazione Comunichiamo italiano, che ha sede a Padova, hanno deciso di autotassarsi. Se proprio non potrò entrare nel circuito normale, mi affiderò a Internet: sul sito Eriadorfilm.it si può fin d'ora prenotare il Dvd del film in edizione speciale, abbinato al libro Il segreto. Ormai ho fatto mio l'impegno dell'Amleto di William Shakespeare: parlerò anche se l'inferno stesso si spalancasse per ordinarmi di tacere».

Ma lei ha simpatia per il fascismo?

«Non vedo come potrei, essendo nato nel 1956. Giorgio Almirante sosteneva che solo chi ha vissuto sotto il Duce può ancora definirsi fascista, perché il fascismo è un'esperienza storica conclusa. Forse pensano che sia fascista perché avevo preparato la sceneggiatura di un film, Questo bacio a tutto il mondo, sulle prime due vittime delle Brigate rosse, Giuseppe Mazzola e Graziano Giralucci, un appuntato in congedo dei carabinieri e un agente di commercio che furono assassinati il 17 giugno 1974 nella sede di Padova del Msi-Dn, in via Zabarella. Anche in quell'occasione dalla Rai ricevetti la stessa risposta pervenutami per Il segreto: sceneggiatura non coerente con la nostra linea editoriale».

È di destra, allora?

«Sono un cattolico che crede nella dottrina sociale della Chiesa, nella difesa degli ultimi. Ho una buona cultura marxista, quanto basta per capire che non potrei mai essere marxista».

Dove s'è formato la cultura marxista?

«All'Università di Padova ho avuto Toni Negri come insegnante di dottrine dello Stato. Mi ha tenuto sotto esame per un'ora abbondante. Voto: 28. Più di Renato Brunetta, che in economia politica del lavoro mi ha dato 25».

Perché i registi sono tutti di sinistra?

«Perché la cinematografia è un potere politico fondamentale che è stato attribuito alla sinistra fin dalla nascita della Repubblica. Nella spartizione per aree d'influenza, Dc e Psi si sono tenuti il governo, gli enti pubblici, le banche e i consigli d'amministrazione; al Pci sono andati la scuola, la cultura e l'informazione. È sempre stato così e sempre sarà così. Non c'è regime, violenza, pallottola che salga infinitamente sulla Cattedra della Verità. Quando crollerà l'ultimo muro dell'ipocrisia umana, si apriranno le porte agli eserciti senza bandiere e ogni segreto sarà perdonato».

Come mai ha messo questo esergo al copione?

«È caduto il Muro di Berlino, ma non quello di Codevigo. Abbiamo bisogno di verità, dobbiamo abbattere il Muro del silenzio. Italia Martin, la protagonista del Segreto, è la giovane Italia di ieri. Oggi che quest'Italia è diventata vecchia, io mi preoccupo per sua nipote, condannata a portarsi in dote le acredini di allora anche nella Terza, nella Quarta, nella Quinta Repubblica, senza speranza».

Rosso Istria”, a rischio il film sulle foibe?, scrive Marco Minnucci su “Il Giornale”. Rosso Istria, il dramma del confine orientale del dopo guerra è il titolo del lungometraggio del regista Antonello Belluco, presentato a fine gennaio a palazzo Moroni, Padova. Il film sarà prodotto da Venice Film ed Eriador Film, sostenuti dalla Regione Veneto, con il suo fondo del cinema e dell’audiovisivo, con la collaborazione del Comune di Padova, della Treviso Film Commission e dell’ANVG (Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia). Il capoluogo veneto sarà il teatro delle riprese che punteranno l’obiettivo sul 1943 anno in cui, per le popolazioni civili Istriane, Fiumane, Giuliane e Dalmate, si consuma la tragedia per mano dei partigiani di Tito spinti da una furia anti-italiana. Che il lungometraggio metta in risalto la figura di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, barbaramente violentata e uccisa nel 1943 dai partigiani titini, è già scritto nel titolo, infatti era proprio Istria Rossa (il rosso è relativo alla terra ricca di bauxite dell’Istria) il titolo della tesi di laurea che Norma Cossetto stava preparando nell’estate del 1943 con il suo relatore, il geografo Arrigo Lorenzi. La Cossetto girava in bicicletta per i paesi dell’Istria, visitando luoghi, biblioteche, chiese, alla ricerca di archivi che le consentissero di sviluppare la sua tesi di laurea, che purtroppo non vedrà mai la luce perchè la studentessa verrà massacrata per la sola colpa di essere italiana. Non è un tema nuovo per Belluco, figlio di esuli, che già a novembre dello scorso anno era uscito con il film Il segreto di Italia, sulla strage compiuta dai partigiani nel 1945 a Codevigo; un film che non aveva mancato di suscitare aspre polemiche, che videro in prima fila l’ANPI di Padova. Chissà se anche in questa “opera seconda” Belluco inciamperà in quelle operazioni di boicottaggio che hanno rallentato e impedito la distribuzione del film nelle sale cinematografiche? Questa volta Belluco non sarà solo, poiché a dargli manforte ci sarà la collaborazione del cantautore Simone Cristicchi, anche lui presente alla conferenza padovana; l’autore di “Magazzino 18” sarà il compositore delle musiche che accompagneranno “Rosso Istria”. Quella tra Belluco e Cristicchi è una solidarietà artistica che, prima di sfociare in questa collaborazione, era già stata esternata dal cantautore romano sulla sua pagina Facebook con un post in cui sottolineava le similitudini tra l’ostruzionismo che aveva colpito il suo “Magazzino 18” e il “Segreto di Italia” e concludeva con questo messaggio d’ incoraggiamento: “Per fortuna, esiste una forma di promozione che nessuno può censurare. Si chiama “passaparola”. E allora…in bocca al lupo Antonello, e coraggio!” Non resta che augurarci che questa volta si faccia silenzio in sala ma, soprattutto, che ci sia una sala.

 Il Laboratorio “Teatro e Cultura” dell’Oratorio Sant’Antonio di Avetrana ha organizzato, per venerdì 8 febbraio, la proiezione del film “Red Land-rosso Istria”; un evento per ricordare le vittime delle Foibe. A seguire un dibattito sul tema “Foibe”, al termine della serata, sarà offerto con un piccolo rinfresco ai presenti, scrive il 7 Febbraio 2019 La Voce di Maruggio.

Trama. Siamo nel settembre del 1943, nei giorni in cui nei territori italiani martoriati dalla guerra scoppia il caos: il maresciallo Badoglio, capo del governo italiano, chiede ed ottiene l’armistizio da parte degli anglo–americani e unitamente al Re fugge da Roma, lasciando l’Italia allo sbando. L’esercito non sa più chi è il nemico e chi l’alleato. Il dramma si trasforma in tragedia per i soldati abbandonati a se stessi nei teatri di guerra ma anche e soprattutto per le popolazioni civili Istriane, Fiumane, Giuliane e Dalmate, che si trovano ad affrontare un nuovo nemico: i partigiani di Tito che avanzano in quelle terre, spinti da una furia anti-italiana. In questo drammatico contesto storico, avrà risalto la figura di Norma Cossetto, giovane studentessa istriana, laureanda all’Università di Padova, barbaramente violentata e uccisa dai partigiani titini, per la sola colpa di essere Italiana. Nel film, diretto dal regista italo-argentino Maximiliano Hernando Bruno, gli interpreti danno vita in modo intenso ai vari personaggi, ricreando la complessità di quei giorni di confusione e tragedia: Selene Gandini è Norma, Geraldine Chaplin un’esule sopravvissuta, Franco Nero l’intellettuale, Romeo Grebenseck il capo dei Titini, Vincenzo Bocciarelli un ufficiale italiano, Sandra Ceccarelli una madre, Eleonora Bolla una partigiana.

 Dramma ed emozioni nelle foibe di Rosso Istria, scrive Alessandro Savoia il 09/02/2019 su Il Giornale Off. Dal mensile #CulturaIdentità. Ieri sera, malgrado il festival di Sanremo, quasi un milione di persone ha seguito il film sulle foibe Red Land andato in onda su Rai 3 con uno share che ha sfiorato il 4%. Il film ha finalmente fatto luce su una pagina buia della nostra storia che per più di cinquant’anni la sinistra italiana ha cercato di nascondere. Così grazie anche all’appello, lanciato dalle nostre pagine, dal presidente di #CulturaIdentità Edoardo Sylos Labini, al quesito presentato dai deputati di Fratelli D’Italia Federico Mollicone e Paola Frassinetti, all’impegno del senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, la pellicola è arrivata in prima serata per celebrare la Giornata del Ricordo per volere del Cda Rai Giampaolo Rossi. Una storia che al cinema non era stata mai raccontata. Eppure i Massacri delle Foibesono una pagina triste del nostro Paese che merita una memoria. A pensarci è stato un regista italo argentino Maximiliano Hernando Bruno con Red Land – Rosso Istriaprodotto da Venice Film con Rai Cinema. Ci troviamo in piena Seconda Guerra Mondiale, nel settembre del 1943, e in alcuni territori già martoriati dai conflitti scoppia il caos. Le popolazioni istriane, fiumane, giuliane e dalmate, si trovano ad affrontare un nuovo nemico: i partigiani di Tito che avanzano in quelle terre, spinti da una furia anti-italiana. Alla fine si contarono ben 7.000 vittime tra donne, vecchi, bambini, partigiani italiani, intellettuali e contadini, militari e civili. Circa 350.000 gli italiani che dovettero abbandonare le loro case e la loro terra. Un’operazione di vera e propria pulizia etnica. In questo contesto drammatico e crudele emerge la figura di Norma Cossetto, giovane studentessa dell’Università di Padova, violentata, uccisa e gettata in una foiba. Prima di morire, stava ultimando la sua tesi in Lettere dal titolo Rosso Istria, per il colore della sua terra ricca di bauxite. Da qui il titolo della pellicola che si apre con Geraldine Chaplin, figlia del grande Charlie, nei panni di Giulia Visantrin che ai giorni nostri porta la nipote al Magazzino 18 del porto di Trieste, dove sono custodite le masserie degli esuli. Ai tempi era amica d’infanzia della povera Norma (Selene Gandini). Un racconto corale che si arricchisce della magistrale interpretazione di Franco Nero, influente professore di italiano e veterano della prima guerra mondiale, che non arretra davanti alle minacce dei partigiani, non si lascia intimorire dagli schizzi di sangue sulla parete della stanza dove viene trascinato, anzi li sfida. Completano il cast Romeo Grebenseck (Mate, capo dei Titini), Vincenzo Bocciarelli (l’ufficiale Mario Bellini), Sandra Ceccarelli (madre di Giulia Visantrin) e Eleonora Bolla (la partigiana Adria Visantrin). Grazie all’ottimo montaggio di Marco Spoletini (Gomorra, Dogman), le circa 2 ore e mezza scorrono via veloci, un lasso di tempo durante il quale si resta in silenzio, inchiodati a questa vicenda resa cruda e realistica, fedele e non faziosa.

 “Red Land”, “Rosso Istria”: dopo le polemiche arriva su RAI3 l’8 febbraio il film di Maximiliano Hernando Bruno, scrive la Redazione di Trieste All News il 22 gennaio 2019. “Red Land” (“Rosso Istria”), il film di Maximiliano Hernando Bruno incentrato sulle vicende dell’Istria, su Norma Cossetto e sull’esodo italiano, dopo le polemiche sulla sua scarsa distribuzione nelle sale cinematografiche e sul boicottaggio dovuto ai temi trattati arriva in televisione su RAI 3, sabato 8 febbraio, in prossimità del Giorno del Ricordo. Il film, che ha ricevuto un ottimo riscontro di pubblico con valutazioni elevate come quelle su “Coming Soon” e “IMDb”, era stato presentato, non in primo piano, a Venezia, e aveva ricevuto da subito il sostegno politico di “Fratelli d’Italia”, battutosi per incrementare le proiezioni e per favorire la sua visione scolastica come documento rappresentante – per quanto rivestito della drammatizzazione cinematografica – l’altra verità non raccontata dai testi storici che parlano della Seconda Guerra Mondiale nei territori fra il Friuli Venezia Giulia, Trieste e l’Istria divenuta poi jugoslava. “Dopo decenni di colpevoli silenzi e di coperture politiche e mediatiche, per la prima volta un film su Norma Cossetto e la tragedia delle foibe sarà trasmesso in prima serata sulla RAI. È il regalo più bello che si potesse fare agli esuli e ai loro familiari”; così in una nota congiunta i deputati di Fratelli d’Italia Federico Mollicone e Paola Frassinetti.

Che tristezza il boicottaggio di "Rosso Istria". Ma non è una novità, scrivono Luciano Toncetti e Matteo Sacchi, Sabato 24/11/2018, su Il Giornale.

Come esule istriano, sono profondamente amareggiato e deluso per il vergognoso trattamento che il film Rosso Istria sta subendo, dopo la presentazione dello stesso alla Mostra del cinema di Venezia, dove ha suscitato interesse e curiosità. Oggi lo stesso, trova difficoltà in gran parte d'Italia nell'esser proiettato, per la reticenza dei titolari delle sale cinematografiche, timorosi di subire ritorsioni e danni da parte di frange di una certa parte politica, che ancora dopo 70 anni non si rassegna alle sentenze decretare dalla Storia. Ma ciò che fa più male, è il silenzio della nostra tanto decantata democrazia, impersonata dalle TV, da autorevoli giornalisti, da politici, nonché da personaggi dei Salotti bene. Pertanto, se questa è la risposta al Niet dei nostalgici nostrani pro Tito, possiamo affermare che la Giornata del Ricordo celebrata a livello nazionale il 10 di febbraio, mi spiace di cuore constatarlo, (vista la situazione), ma è pura e semplice Ipocrisia, in quanto la si celebra perché obbligati da una legge di Stato. Tutto ciò è vergognoso e umiliante per la Gente giuliano-dalmata, che per restare orgogliosamente e ferventemente italiana, volontariamente ha perduto tutto, salvo l'onore e la dignità. Ringrazio per l'attenzione. Luciano Toncetti (Venezia-Mestre)

Gentile Toncetti, che dirle? La politica, dopo mille ritardi è arrivata ad istituire, nel 2004, il Giorno del Ricordo. Persino per arrivare all'istituzione di questo presidio minimo della memoria è stato necessario un processo lungo e accidentato (vennero presentate proposte di legge senza esito nel 1995, nel 1996 e nel 2000). Che il ricordare le vittime italiane della brutalità titina fosse ancora difficile lo hanno dimostrato le contro manifestazioni messe in scena, già nel 2005, da alcune organizzazioni di estrema sinistra e le reazioni scomposte al discorso del Presidente Napolitano (non certo accusabile di accondiscendenze al fascismo) nel 2007. Alcune frasi di Napolitano difficilmente contestabili -«Vi fu dunque un moto di odio e di furia sanguinaria, e un disegno annessionistico slavo... e che assunse i sinistri contorni di una pulizia etnica»- scatenarono un pandemonio. Il presidente della Croazia Stipe Mesich, definì il discorso razzista, revisionista e revanscista. E questa è solo la punta dell'iceberg. Negli anni in molte località italiane si sono verificate decine di atti di vandalismo contro vari simboli dell'esodo e delle foibe, spesso proprio in prossimità delle celebrazioni del 10 febbraio. Anche la Casa del Ricordo di Roma è stata presa di mira ed imbrattata dai vandali. E si ricorda lo spettacolo di Simone Cristicchi? Cristicchi in Magazzino 18 ha cercato di mettere in scena il dramma dell'esodo dall'Istria e dalla Dalmazia. Un percorso tutto poetico e struggente a partire dagli oggetti che queste persone sono state costrette ad abbandonare. Un Musical senza un'ombra di politica. Cristicchi è stato perseguitato dai duri e puri del negazionismo. Prima una raccolta di firme per far espellere Cristicchi dall'Anpi poi spettacoli interrotti, come a Scandicci, dove il palco è stato invaso dai centri sociali. Le difficoltà di Rosso Istria quindi non possono stupire. Però teniamocelo stretto il Giorno del Ricordo, sarà istituzionale e obbligatorio ma è la pietra angolare su cui poggiarsi per cambiare le cose. Matteo Sacchi

“Norma Cossetto era fascista”: il blitz dei comunisti contro Rosso Istria, scrive Valerio Benedetti su ilprimatonazionale.it il 17 Dicembre 2018. Abbiamo avuto occasione di parlare più volte di Red Land – Rosso Istria, la coraggiosa pellicola sulle foibe realizzata del regista Maximiliano Hernando Bruno. Un film che narra la tragica vicenda di Norma Cossetto, la giovane istriana di soli 22 anni che, nel 1943, fu stuprata, seviziata e infine infoibata da partigiani italiani e iugoslavi. Se Rosso Istria era già andato incontro a una semi-censura, con la proiezione in poche sale e per periodi di tempo assai limitati, ora arriva anche lo sfregio. A Pordenone, infatti, all’uscita dal cinema gli spettatori hanno ricevuto dei volantini negazionisti distribuiti da alcuni comunisti nostalgici di Tito. A denunciare l’accaduto è stato Alessandro Basso, consigliere regionale di Fratelli d’Italia in Friuli-Venezia Giulia: «In occasione della proiezione di Red Land – ha scritto Basso su Facebook – il sedicente Partito Comunista si è macchiato dell’infamia di consegnare un volantino che riporta falsità storiche innegabili». Nel volantino distribuito al termine della proiezione di Rosso Istria veniva specificato che Norma Cossetto «era una fascista, esponente della gioventù universitaria fascista e figlia di Giuseppe Cossetto segretario del Fascio del Comune di Santa Domenica di Visinada e già podestà di quel Comune». In pratica – questo è il senso – la giovane ragazza non merita, in quanto fascista, di essere ricordata. Oltre ai soliti argomenti negazionisti, diffusi da storici dilettanti e ultra-ideologizzati come Sandi Volk e Alessandra Kersevan, il volantino giustifica l’assassinio di Norma Cossetto come atto di ritorsione contro italiani e tedeschi: «È tanto strano se poi ci furono alcune vendette?». Insomma, si tratta della solita «bufala storica» delle foibe come risposta alle «atrocità italiane in Iugoslavia». Di più: quello che i membri di tale Partito comunista non riescono a mandar giù è il fatto che nel film «l’immagine dei partigiani viene denigrata». Ovvio: gli aguzzini di Norma dovrebbero essere non solo giustificati, ma altresì additati ad esempio. Torturatori e stupratori: ecco gli «eroi» di certi anti-italiani impenitenti. Valerio Benedetti

IL FESTIVAL DEI COMUNISTI…

Un Festival arcobaleno, ma per le foibe un solo minuto. Da due giorni le unioni gay tengono banco a Sanremo. Ma Conti dedica solo una frase al Giorno del Ricordo, scrive Chiara Sarra, Mercoledì 10/02/2016 su “Il Giornale”. Nastri e bracciali arcobaleno, ospiti che non mancano di parlare del loro concetto di famiglia, battute e appelli vari. Mentre dentro e fuori dal Parlamento tiene banco il ddl Cirinnà, il Festival di Sanremo si è trasformato quest'anno in un lungo spot a favore delle unioni civili e della cosiddetta stepchild adoption, la norma che permette di adottare il figlio del partner. Eppure nel giorno della ricordo ci si aspettava che almeno uno degli intermezzi fosse dedicato a ricordare i morti delle foibe. Soprattutto dopo che da più parti era arrivato l'appello a portare sul palco dell'Ariston oltre alla bandiera arcobaleno anche il Tricolore, simbolo di una strage e un gesto di unità nazionale. Un appello che a quanto pare non è stato accolto, visto che Carlo Conti ha dedicato all'evento nemmeno un minuto e si è limitato a una frase striminzita prima di annunciare Elio e Le Storie Tese. "Ricordiamo per non dimenticare", ha detto il conduttore di Sanremo. A pensar male si direbbe che gli autori si fossero totalmente dimenticati della ricorrenza e che abbiamo buttato lì una frase solo per far contenti i vari Gasparri & Co. Anche se Giorgia Meloni ringrazia su Twitter: "Grazie Carlo #Conti per aver parlato a #Sanremo2016 del #GiornodelRicordo e aver onorato la memoria dei martiri delle # foibe e dell'esodo".

I MEDAGLIATI…

Foibe, 300 fascisti di Salò ricevono la medaglia per il Giorno del Ricordo. Le onorificenze concesse dal governo per celebrare le vittime delle Foibe. Tra i commemorati decine di repubblichini, di cui 5 accusati di uccisioni, torture e saccheggi, scrive Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Medaglie di onorificenza «in riconoscimento del sacrificio offerto alla Patria» per circa 300 combattenti di Salò (tra cui almeno 5 criminali di guerra accusati di avere torturato e ucciso a sangue freddo). Partiamo dall’inizio. Le decorazioni sono state concesse dai governi a partire dal 2004 in memoria delle vittime delle foibe come previsto dalla legge istitutiva del Giorno del Ricordo. La promosse l’esecutivo Berlusconi su proposta di un gruppo di parlamentari: in prevalenza Fi e An, ma non mancavano esponenti Udc e del centrosinistra. Oltre alla conservazione della memoria, il testo disciplina la consegna delle medaglie ai familiari delle vittime sino al sesto grado. Onorificenze estese a chiunque, tra Friuli e Slovenia, sia stato ucciso «per cause riconducibili a infoibamenti». Ovvero, nel periodo che va dall’8 settembre a metà del 1947, a seguito di «torture, annegamenti, fucilazione, massacri, attentati in qualsiasi modo perpetrati». Con queste «maglie» assai larghe, tra i commemorati sono stati inseriti profili controversi. Stando almeno a carte provenienti dalla Jugoslavia ma anche dall’Italia. Nell’elenco di coloro che hanno ricevuto quello stemma «in vile metallo» - così lo definisce il provvedimento che alla Camera venne approvato con soli 15 voti contrari e all’unanimità al Senato - compaiono cinque nominativi che secondo i documenti conservati a Belgrado, presso «l’Archivio di Jugoslavia», sono «criminali di guerra». Gente che - anche prima dell’8 settembre, raccontano quelle carte - a seconda dei casi ha ucciso e torturato civili italiani e jugoslavi, ammazzato a sangue freddo, incendiato case, saccheggiato, ordinato fucilazioni di partigiani e segnalato gente da spedire nei lager in Germania. Si tratta del carabiniere Giacomo Bergognini, del finanziere Luigi Cucè, dell’agente di polizia Bruno Luciani, dei militi Romeo Stefanutti e Iginio Privileggi e del prefetto Vincenzo Serrentino (il cui nome è citato anche nel relazione della commissione d’inchiesta parlamentare «sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti»). I primi tre, raccontano fonti diverse, sia italiane sia slave, «scomparsi» o «dispersi» a partire dai primi giorni del maggio 1945, verosimilmente gettati nelle foibe. Il quarto «ucciso da slavi». Il quinto «infoibato». Il sesto, prefetto a Zara (occupazione nazista, amministrazione Rsi) catturato dai partigiani di Tito e fucilato nel 1947 dopo essere stato condannato da un tribunale jugoslavo. Uno scenario, questo dei combattenti Rsi ricordati dalle medaglie, emerso per caso dopo che lo scorso 10 febbraio al capitano dei bersaglieri Rsi Paride Mori - ucciso il 18 febbraio 1944 «in un agguato organizzato dai partigiani titini, quelli con cui stava combattendo aspramente da mesi» per stare alle parole del figlio Renato - per mano del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio è stata dedicata la medaglia del Giorno del Ricordo. All’Anpi e in altre associazioni antifasciste si sono accorti però che Mori era sì un bersagliere. Ma repubblichino (il neologismo coniato da Radio Londra). Circostanza di cui si appreso solo dopo che dal comune di Traversetolo, nel Parmense, dove il soldato era nato, il sindaco ha deciso di revocare la dedica di una strada al bersagliere di Salò inizialmente passata nell’indifferenza. Da qui in poi, polemiche a non finire. A seguito delle quali è arrivato il mezzo ripensamento di Delrio che in un tweet ha chiarito che «se la commissione che ha vagliato centinaia di domande ha valutato erroneamente, il riconoscimento dovrà essere revocato». Appunto: una decisione che potrebbe essere presa già lunedì 23, quando il gruppo di esperti (10 in tutto: tra cui rappresentanti degli studi storici della Difesa, degli Interni e della Presidenza del consiglio e da storici delle foibe) prenderà in mano il dossier Mori. Che però potrebbe rivelarsi il meno problematico. L’elenco aggiornato dei riconoscimenti circa 300 persone. Solo alcuni solo civili spariti nelle Foibe perché vittime di rappresaglie titine. E altri - i casi eventualmente da riconsiderare, una cifra che oscilla tra i 270 e i 300 a seconda delle fonti - militari inquadrati nelle formazioni di Salò. Carabinieri dell’esercito regio confluiti nella Rsi. Al pari di poliziotti e finanzieri. Militi, volontari nella Guardia Nazionale Repubblicana. Fascisti «idealisti e patrioti» come il capitano Mori che - è il ricordo del figlio - risulta «essersi opposto ai rastrellamenti ordinati dai tedeschi: lui combatteva i titini, non gli italiani». Ma nella lista ci sono almeno 5 criminali di guerra, secondo quanto stabilito dalla giustizia jugoslava. Il carabiniere Bergognini - era l’8 agosto 1942 - partecipò a un raid nell’abitato di Ustje, in Slovenia. Case incendiate, famiglie radunate nel cimitero, picchiate. Sino a che 8 uomini «vennero presi, torturati di fronte a tutti e uccisi con il coltello o con il fucile». Il finanziere Cucè spedì nei lager e fece fucilare «diversi patrioti antifascisti» torturando gente così come fecero l’agente Luciani e i militi Privileggi e Stefanutti. Testimonianze (che sono riferite ai loro reparti) raccontano di «occhi cavati, orecchie tagliate, corpi martoriati, saccheggi nelle case». Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone nella città di Zara, di cui era prefetto. Vicende, queste delle efferatezze commesse dai fascisti medagliati, ricostruite da due storici in lavori diversi: Milovan Pisarri (italiano che vive a Belgrado) e Sandi Volk (italiano della minoranza slovena). Pisarri - lavori sulla Shoah e uno in uscita sul Porrajmos, l’Olocausto dei nomadi - ha raccolto i dossier sui criminali di guerra italiani studiando documenti a Belgrado, all’Archivio Jugoslavo. Scuote la testa, ora: per le mani si è ritrovato non solo le accuse basate sulle testimonianze delle vittime. Ma anche «fascicoli in italiano, ordini e disposizioni provenienti soprattutto dall’esercito regio in rotta nei Balcani». Materiale «ancora da studiare, importantissimo». Volk si è invece occupato del conteggio dei repubblichini commemorati nel Giorno del Ricordo. «Con quelli di quest’anno si arriva a 300. Il 90 per cento apparteneva a formazioni armate al servizio dei nazisti dato che il Friuli dopo l’8 settembre era divenuto “Zona d’Operazioni Litorale adriatico”, amministrata direttamente dai tedeschi e non facente parte della Rsi». Le formazioni fasciste «non potevano avere nemmeno le denominazioni che avevano a Salò ed erano alle dirette dipendenze dell’apparato nazista». L’elenco asciutto delle motivazioni racconta tanto: anche di scelte devastanti, meditate, che legano caso, ideali ed eroismo. Quella del carabiniere Bruno Domenico, ad esempio. Che l’8 settembre (il giorno dell’armistizio, dunque Salò deve ancora nascere) nella stazione dell’Arma di Rovigno, in Istria, «rifiuta di consegnare le armi ai partigiani comunisti italo croati». Lo incarcerano assieme ad altre 16 persone: e di lui non si sa più nulla. Almeno 56 sono i finanzieri di Salò medagliati per il Ricordo. I loro nomi compaiono sul sito delle Fiamme Gialle: tutti dispersi, verosimilmente uccisi da «partigiani titini» o «bande ribelli». Spiccano le storie del maresciallo Giuseppe D’Arrigo: viene a sapere che la brigata che comanda è stata interamente catturata. Al che indossa la divisa e raggiunge i titini, per stare vicino ai suoi uomini trattandone magari la liberazione. Ma viene fucilato il 3 maggio 1945. La stessa sorte toccata a Giuseppe D’Arrigo che si unisce ai partigiani jugoslavi intenzionato a combattere i tedeschi: ma pure lui viene passato per le armi. Ennio Andreotti viene catturato dai tedeschi dopo l’8 settembre. In qualche modo si libera il 1° settembre 1944. Da questo giorno risulta disperso. «Fu presumibilmente catturato dai partigiani titini e soppresso».

Foibe, le 300 medaglie a fascisti Salò. La rabbia dell'Anpi: «Inammissibile. Legge sul Ricordo da sospendere». L'associazione dei partigiani: le onorificenze sono state concesse applicando la legge «in contrasto con i valori, princìpi e norme della Costituzione». Indagine sui dossier, continua Alessandro Fulloni su “Il Corriere della Sera”. Quelle 300 medaglie concesse dai governi in carica dal 2004 ai 300 combattenti di Salò per il «Giorno del Ricordo» dedicato alle vittime delle Foibe? Un fatto «grave e inammissibile» secondo l'Anpi (Associazione nazionale partigiani d'Italia). Le onorificenze sono state date applicando la legge - (la 92 del 2004 che ricorda le Foibe) - «in netto contrasto con i valori, princìpi e norme della Costituzione». Per questo occorre sospendere gli effetti del provvedimento, revocare i fregi già concessi dopo aver avviato «un'indagine accurata». La vicenda è emersa dopo che si scoperto che una delle medaglie date «in riconoscimento del sacrificio offerto alla Patria» era per un bersagliere della Repubblica Sociale di Salò, il capitano Paride Mori. «Un fascista idealista che non si è macchiato di nessuna colpa» è la testimonianza del figlio. Nell'elenco dei medagliati — circa 300: nella quasi totalità militari della Repubblica sociale di Salò — compaiono però altri nomi. Imbarazzanti assai. Soprattutto quello di un criminale di guerra sia per la giustizia italiana che quella jugoslava: ovvero il prefetto di Zara Vincenzo Serrentino (il cui nome è citato anche nel relazione della commissione d’inchiesta parlamentare «sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti»). Serrentino, tenente nella Grande guerra, fiumano con D’Annunzio, fece fucilare decine di persone. Catturato dai partigiani di Tito, venne fucilato nel 1947 dopo essere stato condannato da un tribunale jugoslavo. Stando inoltre a carte provenienti da Belgrado, dall'«Archivio di Jugoslavia» - l'archivio di Stato della ex Jugoslavia - ci sono altri quattro criminali di guerra tra i medagliati della foibe: si tratta del carabiniere Giacomo Bergognini, del finanziere Luigi Cucè, dell’agente di polizia Bruno Luciani, dei militi Romeo Stefanutti e Iginio Privileggi. Colpevoli, a seconda dei casi, di saccheggi, uccisioni a sangue freddo, torture. Le parole dell'Anpi sono tranchant: «Nessun riconoscimento – né per questa legge né per altre – può essere attribuito a chi militò per la Repubblica Sociale Italiana, in nome di una presunta pacificazione. Non c’è nulla da “pacificare”; c’è solo da rispettare la storia e la Costituzione, nata dalla Resistenza». Per questo la richiesta alla Presidenza del Consiglio è perentoria: bisogna «sospendere temporaneamente l’applicazione della legge sul Ricordo - (che, in sintesi, regola celebrazioni e consegna delle medaglie) e dar luogo a una indagine accurata sulle concessioni passate». Richiesta per cui l'associazione partigiana «svolgerà ogni azione necessaria». Parole, quelle dell'Anpi, cui si associa anche Giovanni Paglia, deputato di Sel, per il quale la consegna delle medaglie a «criminali di guerra riconosciuti» basterebbe a «rivedere l'intero impianto della legge e nel frattempo a liquidare l'attuale commissione» che ha valutato le richieste delle onorificenze. «Intanto, tuttavia, potrebbe bastare farla riunire - conclude Paglia - e farle adottare i provvedimenti dovuti a tutela della nostra memoria».

Foibe, le medaglie ai fascisti vanno “ritirate”. Ecco chi processa il Giorno del Ricordo, scrive Valerio Goletti su “Il Secolo D’Italia”. Dopo le polemiche sulla medaglia al capitano dei bersaglieri Rsi Paride Mori prosegue l’offensiva culturale contro la legge che istituisce la Giornata del Ricordo norma che prevede anche la consegna delle medaglie ai familiari delle vittime sino al sesto grado. Onorificenze estese a chiunque, tra Friuli e Slovenia, sia stato ucciso «per cause riconducibili a infoibamenti». La polemica contro Paride Mori fu sollevata dall’Anpi ed ora il Corriere rincara la dose, sottolineando che sono 300 i casi di onorificenze accordate a "Fascisti" da riconsiderare. 300 medaglie ai fascisti che non vanno giù agli storici contro le foibe. “L’elenco aggiornato dei medagliati per il Ricordo comprende più di 1000 persone – scrive Alessandro Fulloni su "Il Corriere della Sera"  – Molti di questi sono civili spariti nelle Foibe perché vittime di rappresaglie titine. E altri – i casi eventualmente da riconsiderare, una cifra che oscilla tra i 270 e i 300 a seconda delle fonti – militari inquadrati nelle formazioni di Salò”. Fulloni sostiene poi che nell’elenco delle medaglie “sospette” ci sarebbero anche 5 “criminali di guerra”. Ma chi lo ha stabilito? La giustizia jugoslava, e tanto gli basta.  Ma ancor di più Fulloni prende per oro colato le affermazioni dello storico Milovan Pisarri, il quale si sarebbe preso la briga si spuntare uno a uno i nomi degli ex militi Rsi che hanno ricevuto le onorificenze. In pratica si tratta di uno storico talmente super partes da definire la legge che istituisce la Giornata del Ricordo un episodio di “revisionismo di Stato” e non gli va giù che la Repubblica nata dalla Resistenza possa addirittura “premiare” dei fascisti. Un’offensiva contro la Giornata del Ricordo. Dei combattenti della Rsi che hanno ricevuto onorificenze da quando c’è la legge sulle vittime delle foibe (2004) si è occupato anche un altro storico molto “imparziale”: si tratta di Sandi Volk, uno che sostiene che la ricostruzione delle vicende delle foibe è viziata da “mistificazione” ideologica al servizio del neoirredentismo di destra. Si comincia con il dare spazio alle tesi di chi vorrebbe ancora occultare la verità sulle foibe per arrivare dove? Magari a chiedere di sopprimere la legge sulla Giornata del Ricordo?

Via la medaglia al fascista Mori. Grazie all’Anpi rivive l’odio di 70 anni fa, continua Valerio Goletti su “Il Secolo D’Italia”. Insignito di una medaglia alla memoria nel giorno del Ricordo, il 10 febbraio, quando l’Italia rende omaggio alle vittime delle foibe, il fascista Paride Mori è oggi al centro di un’anacronistica polemica che, per i catacombali testimoni del decrepito antifascismo, dovrebbe imbarazzare Palazzo Chigi e la presidente della Camera Boldrini. Mori non fu una vittima degli infoibatori comunisti (morì in un agguato dei partigiani il 18 febbraio del 1944) ma comunque un italiano valoroso, che fece parte del Battaglione Mussolini dei bersaglieri che dopo l’8 settembre del 1943 difese il territorio italiano dall’invasione delle truppe di Tito. Opera assai meritoria ma non abbastanza per la parte che dalle infamie del maresciallo Tito fatica a prendere le doverose distanze. In un libro la storia e la vita di Paride Mori. Come racconta Alberto Zanettini in un libro dedicato a Paride Mori era il 9 settembre 1943 quando a Verona “alcuni ufficiali decisero di formare un Battaglione di Bersaglieri volontari, intitolato a “Benito Mussolini”, al quale aderirono in breve tempo, circa quattrocento uomini, il più giovane aveva 15 anni e il più anziano ne aveva 60 … il tenente Paride Mori era tra questi volontari”. “Per circa 20 mesi sopportarono le imboscate, la fame, il freddo, in numero molto inferiore al nemico, stimato ad uno a dieci, ma nonostante ciò resistettero e riuscirono a mantenere saldi alcuni confini nazionali che altrimenti sarebbero passati in mano alle orde comuniste di Tito. Poi il 30 aprile del 1945, a guerra finita, i bersaglieri si arresero ai partigiani di Tito con la garanzia di aver salva la vita e di poter raggiungere da subito le proprie case. Ma i comunisti di Tito non mantennero fede alle promesse, i bersaglieri furono imprigionati, torturati e fatti morire di fame e di stenti, i cadaveri, invece di seppellirli, li gettavano nelle buche che servivano da latrine per i prigionieri. I pochi sopravvissuti fecero rientro in Italia il 27 giugno 1947”. Che Mori non fosse un sanguinario nazista si evince dalle lettere alla moglie e al figlio, cui scriveva: “Come vedi io faccio il bravo soldato e servo la Patria con le armi ben salde nel pugno e tu devi fare il bravo ragazzo amando l’Italia, perlomeno quanto l’ama il tuo Papà e prepararti a servirla quando sarai grande”.

I SACERDOTI INFOIBATI…

Foibe: anche decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi, scrive “Imola Oggi”. Cinquanta sacerdoti tra le vittime delle foibe. Il racconto di Piero Tarticchio, parente di un sacerdote martire di quel periodo. La storia delle foibe è legata al trattato di pace firmato a Parigi il 10 Febbraio 1947, che impose all’Italia la cessione alla Jugoslavia di Zara – in Dalmazia –, dell’Istria con Fiume e di gran parte della Venezia Giulia, con Trieste costituita territorio libero tornato poi all’Italia alla fine del 1954. Dal 1947 al 1954 le truppe jugoslave di Tito, in collaborazione con i comunisti italiani, commisero un’opera di vera e propria pulizia etnica mettendo in atto gesti di inaudita ferocia. Sono 350.000 gli Italiani che abbandonarono l’Istria, Fiume e la Dalmazia, e più di 20.000 le persone che, prima di essere gettate nelle foibe (cavità carsiche profonde fino a 200 metri), subirono ogni sorta di tortura. Intere famiglie italiane vennero massacrate, molti venivano legati con filo spinato a cadaveri e gettati nelle voragini vivi, decine e decine di sacerdoti furono torturati e uccisi. Nella sola foiba di Basovizza sono stati ritrovati quattrocento metri cubi di cadaveri. Per decenni questa barbarie è stata nascosta, tanto che l’agenzia di stampa “Astro 9 colonne”, nel fare un conteggio dei lanci di agenzia pubblicati dal dopoguerra ad oggi sul tema delle foibe, ha scoperto che fino al 1990 erano stati poco più di 30. Negli anni Novanta l’attenzione per il tema è aumentata: oltre 100 fino al 1995, l’anno successivo i lanci sono stati ben 155. Negli anni recenti ogni anno ce ne sono stati addirittura più di 200. Dopo anni di silenzio la vicenda è arrivata in Parlamento, e con la legge n. 92 del 30 marzo 2004 è stato istituito il “Giorno del Ricordo”, per conservare la memoria della tragedia delle foibe. Calcolare esattamente il numero delle vittime è difficile, ma sono stati almeno 50 i sacerdoti uccisi dalle truppe comuniste di Tito. Interpellato da ZENIT, Piero Tarticchio, che all’epoca dei fatti aveva sette anni, ha ricordato la tanta gente che partecipò al funerale del suo parente don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino e attivo nell’opera caritativa di assistenza ai poveri, ucciso il 19 settembre del 1943 e sepolto il 4 novembre. Il sacerdote venne preso di notte dai partigiani jugoslavi, insultato e incarcerato nel castello dei Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo averlo torturato, lo trascinarono presso Baksoti (Lindaro), dove assieme a 43 prigionieri legati con filo spinato venne ucciso con una raffica di mitragliatrice e gettato in una cava di bauxite. Tarticchio ha raccontato a ZENIT che il 31 ottobre, quando venne riesumato il cadavere, si vide che in segno di scherno gli assassini avevano messo una corona di filo spinato in testa a don Angelo. Don Tarticchio viene oggi ricordato come il primo martire delle foibe. Un’altra delle vittime fu don Francesco Bonifacio, un sacerdote istriano che per la sua bontà e generosità veniva chiamato in seminario “el santin”. Cappellano a Volla Gardossi, presso Buie, don Bonifacio era noto per la sua opera di carità e zelo evangelico. La persecuzione contro la fede delle truppe comuniste era tale che non poté sfuggire al martirio. La sera dell’11 settembre 1946 venne preso da alcune “guardie popolari”, che lo portarono nel bosco. Da allora di Don Bonifacio non si è saputo più nulla; neanche i resti del suo cadavere sono mai stati trovati. Il fratello, che lo cercò immediatamente, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie false. Per anni la vicenda è rimasta sconosciuta, finché un regista teatrale è riuscito a contattare una delle “guardie popolari” che avevano preso don Bonifacio. Questi raccontò che il sacerdote era stato caricato su un’auto, picchiato, spogliato, colpito con un sasso sul viso e finito con due coltellate prima di essere gettato in una foiba. Per don Francesco Bonifacio il 26 maggio 1997 è stata introdotta la causa di beatificazione, per essere stato ucciso “in odium fidei”. In “odium fidei” fu ucciso il 24 agosto del 1947 anche don Miroslav Buselic, parroco di Mompaderno e vicedirettore del seminario di Pisino. A causa della guerra in molte parrocchie della sua zona non era stato possibile amministrare la cresima, così don Miroslav accompagnò monsignor Jacob Ukmar per amministrare le cresime in 24 chiese diverse. I comunisti, però, avevano proibito l’amministrazione. Alla chiesa parrocchiale di Antignana i comunisti impedirono l’ingresso a monsignor Ukmae e don Miroslav. Nella chiesa parrocchiale di Pinguente una massa di facinorosi impedì la cresima per 250 ragazzi, lanciando uova marce e pomodori, tra insulti e bestemmie. Il 24 agosto nella chiesa di Lanischie, che i comunisti chiamavano “il Vaticano” per la fedeltà alla chiesa dei parrocchiani, monsignor Ukmar e don Milo riuscirono a cresimare 237 ragazzi. Alla fine della liturgia i due sacerdoti si chiusero in canonica insieme al parroco, ma i comunisti fecero irruzione, sgozzarono don Miroslav e picchiarono credendolo morto monsignor Ukmar, mentre don Stjepan Cek, il parroco, riuscì a nascondersi. Alcuni testimoni hanno raccontato che prima di essere sgozzato don Miloslav avrebbe detto “Perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Al funerale i comunisti non permisero ai treni pieni di gente di fermarsi, nemmeno nelle stazioni vicine. Al processo i giudici accusarono monsignor Ukmar e il parroco di aver provocato gli incidenti, così il monsignore, dopo aver trascorso un mese in ospedale per le percosse ricevute, venne condannato ad un mese di prigione. Il parroco fu invece condannato a sei anni di lavori forzati. Su don Milo, il tribunale del popolo sostenne che non era provato che “fosse stato veramente ucciso”. Poteva essersi “suicidato a scopo intimidatorio”. Le prove erano però così evidenti che l’assassino venne condannato a cinque mesi di prigione per “troppo zelo nella contestazione”. Nel 1956, in pieno regime comunista la diocesi avviò segretamente il processo di beatificazione di don Miloslav Buselic, ed è diffusa ancora oggi la fama di santità di don Miro tra i cattolici d’Istria.

Crimini titini: cinquanta i sacerdoti infoibati, da Bonifacio a Bulesic, scrive Antonio Pannullo su “Il Secolo d’Italia”. È stato solo con la legge del 2004 che ha istituito il Giorno del Ricordo in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, per iniziativa del deputato triestino Roberto Menia, che la maggioranza degli italiani ha saputo cosa successe alla frontiera nordorientale negli anni Quaranta. Ventimila gli italiani uccisi, infoibati, oltre 350mila le popolazioni che dovettero forzosamente abbandonare l’Istria e la Dalmazia spinti dalla furia dei partigiani comunisti di Tito. Fu un genocidio in piena regola, che ha rispettato tutti i canoni: prima lo sterminio indiscriminato delle popolazioni residenti in un determinato territorio, tanto da costringere i superstiti ad abbandonarlo, poi l’occupazione di quel territorio e la confisca – meglio: il ladrocinio – delle terre e delle case ai proprietari legittimi. Ferite queste, insieme con gli assassinii di massa, che non sono mai state rimarginate. Tra gli infoibati, ossia le persone gettate, spesso vive, nelle depressioni carsiche chiamate foibe, ci furono persino sacerdoti. E anche questo è stato appreso recentemente, poiché per decenni su quella vicenda calò una pesantissima cortina di silenzio con la complicità del debole governo democristiano che non voleva dispiacere alla Jugoslavia ma che soprattutto non voleva rinunciare all’apertura a sinistra, che poi realizzò. Sembra che i sacerdoti assassinati in questo modo siano stati non meno di cinquanta, alcuni dei quali a tutt’oggi sconosciuti e alcuni dei quali di cui non è mai stato trovato il corpo. Come accadde per don Francesco Bonifacio, torturato e assassinato dai titini, che è stato proclamato beato il 4 ottobre 2008 nella chiesa di San Giusto a Trieste da Benedetto XVI. 62 anni dopo i fatti. Francesco Bonifacio era nato nel 1912 a Pirano, oggi in Slovenia, e per la sua bontà era stato soprannominato el santin. Nel 1946 era cappellano a Villa Gardossi, un grosso comune agricolo nell’entroterra, e fu lì che fu sorpreso da quattro “guardie popolari”, nome dietro cui si nascondevano i feroci assassini titini, i quali lo derisero, poi picchiarono selvaggiamente,lo lapidarono, lo spogliarono e lo finirono a coltellate prima di gettarlo in una foiba, detta di Martines, che non lo ha mai più restituito. Il fratello, che lo cercò immediatamente avendo saputo che cosa fosse successo, venne incarcerato con l’accusa di raccontare storie. Molti anni dovettero passare prima che si facesse luce sulla vicenda. Vennero fuori i testimoni che raccontarono le atrocità di quelle ultime ore. Ma la cortina di silenzio era già scesa, di lui non si parlò più per anni. Nel 1957 il vescovo di Trieste, Santin, avviò la causa di beatificazione, ma la pratica restò ferma per 40 anni, a riprova del fatto che sulla foibe doveva calare il silenzio per sempre. Solo Benedetto XVI, recentemente, ha avuto il coraggio di dichiarare Bonifacio ucciso in odio alla Fede. A Bonifacio si è aggiunto, nel settembre del 2013, il nome di Miro Bulesic, assassinato dai partigiani rossi nell’agosto del 1947 nell’Istria settentrionale. Bulesic è stato beatificato nell’Arena di Pola nel corso di una commovente cerimonia, nel corso della quale si è appreso che nelle diocesi croate negli anni Quaranta furono trucidati ben 434 sacerdoti, tra secolari e regolari, più altri 24 morti per le torture e le sevizie in carcere. Quel 24 agosto 1947, nel corso delle cresime nella chiesa di Lanisce, esponenti comunisti irruppero nell’edificio di culto, distrussero tutto, misero a ferro e fuoco la chiesa stessa e bastonarono selvaggiamente don Miro, gettandolo contro il muro e alla fine sgozzandolo con un coltello. Il responsabile, individuato, fu poi assolto. Ma la mattanza dei religiosi era cominciata molto prima: nel settembre 1943 i partigiani jugoslavi di notte sequestrarono don Angelo Tarticchio, parroco di Villa di Rovino, e lo gettarono nelle carceri del castello di Montecuccoli a Pisino d’Istria. Dopo qualche giorno venne portato Lindaro insieme con altre 43 persone, legate insieme col filo spinato, e colpito da raffiche di mitra e gettato in una cava di bauxite. Quando don Angelo fu riesumato si vide che gli assassini gli avevano messo sulla testa una corona di spine fatta di filo spinato. Tra i sacerdoti uccisi e infoibati vanno ricordati anche don Alojzij Obit del Collio, che scomparve nel gennaio del 1944, don Lado Piscanc e don Ludvik Sluga di Circhina, assassinato insieme con altri 13 loro parrocchiano nel febbraio dello stesso anno, don Anton Pisk di Tolmino, scomparso e poi verosimilmente infoibati ad ottobre 1944, don Filip Tercelj di Aidussina, sequestrato dalla polizia segreta jugoslava nel gennaio 1946 e successivamente scomparso, don Izidor Zavadlav di Vertoiba, arrestato e fucilato il 15 settembre 1946, e molti altri rimasti ancora senza nome.

L’INDIFFERENZA…

Smaila: “In Italia, due pesi e due misure. Delle Foibe non interessa a nessuno”, scrive il 17/02/2016 Marco Fornasir su “Il Giornale”. «Sei libero domenica 7 febbraio? Mi piacerebbe averti con me a Verona per le celebrazioni del Giorno del Ricordo. Parlerà mia mamma». Il tono di Smaila, sempre un po’ scherzoso, aveva qualcosa di perentorio e ho risposto subito di sì. E’ stata una buona scelta, ho avuto l’occasione di stare con lui in auto un paio d’ore, il tempo di andare a Verona da Milano e ritorno, e ho avuto modo di parlarci a lungo, soprattutto toccando il tema della sua fiumanità, i ricordi legati a Fiume, quella che, per lui nato a Verona, è la sua seconda città. Una chiacchierata in dialetto (io sono di Gorizia) e Smaila ha tenuto a sottolineare che a casa si è sempre parlato dialetto fiumano (i veri fiumani dicono ja per dire sì, retaggio dell’Austria-Ungheria, mentre i croati dicono da), era un modo per rimanere con le radici in Istria e per potersi intendere con i rimasti, i parenti che non se la sono sentita di abbandonare case, beni e attività per venire a vivere in Italia. Ognuno aveva le sue buone ragioni, ma per lungo tempo i rimasti sono stati visti dagli esuli come dei traditori. Oggi il tema dei rimasti è molto vivo e le associazioni degli esuli hanno riallacciato buoni contatti con le Comunità Italiane delle varie città dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia. Come si viene a scoprire poco a poco, Fiume, pur facendo parte dell’Istria, è proprio sul confine tra Istria e Dalmazia e i fiumani si sono sempre sentiti, e lo sono veramente, un’altra cosa rispetto all’Istria e alla Dalmazia. Fiume era il porto più importante dell’Adriatico, più di Trieste, ed era di fatto lo sbocco al mare dell’Ungheria. Un’importante linea ferroviaria collegava direttamente Fiume a Budapest e qui vivevano molte famiglie ungheresi importanti, proprietarie delle più belle ville di Abbazia. Fiume, come ricorda Smaila, era una vera città colta, evoluta, multi-etnica e multi-culturale nel vero senso della parola. Grazie all’amministrazione austro-ungarica, l’integrazione non era forzata e naturalmente ogni gruppo etnico aveva le sue chiese e seguiva i propri ritmi e le proprie tradizioni, il tutto con un’armonia che oggi, in pieno periodo di globalizzazione, è veramente difficile vedere. Passato l’impero austro-ungarico, a Fiume venne il periodo di d’Annunzio e dei suoi legionari, che sbloccarono la questione fiumana con un atto di forza, facendo di Fiume una città completamente libera (e qualcuno aggiunge anche dissoluta…). Poi arrivò il governo italiano, i fascisti con l’italianizzazione forzata dei cognomi, poi i tedeschi con l’occupazione di quasi due anni, poi i partigiani titini e infine la Federazione Jugoslava. Tutti questi cambiamenti avvennero in meno di trent’anni. La famiglia Smaila, dopo l’esodo, si stabilì in un primo tempo a Lucca e successivamente a Verona, dove, nel 1950, nacque Umberto. Si erano ambientati bene a Verona, ma il cuore batteva forte per Fiume e, già nel 1952, la famiglia Smaila cominciò a passare il confine per andare a trovare i parenti rimasti: genitori, sorelle, fratelli, zii e cugini. I primi anni in treno e dal 1956 con una fiammante Fiat 600, un’auto rivoluzionaria per l’epoca. A quel tempo non c’era l’autostrada e il viaggio era lungo e impegnativo. Soprattutto il passaggio al confine era qualcosa di traumatico, con il controllo certosino di tutto il bagaglio trasportato. Molti esuli avevano chiuso con l’Istria, non volevano più tornare a vedere com’erano diventate quelle terre da sempre considerate italiane. Molti invece, soprattutto spinti dalla presenza dei parenti rimasti, compivano annuali pellegrinaggi nelle loro terre d’origine. Su come avvenivano questi viaggi da Verona a Fiume in 600, Umberto Smaila ha fatto un pezzo di cabaret durante la manifestazione di Verona, intrecciando ricordi e battute, ma al tempo stesso presentando concetti e sentimenti che sono quelli comuni a tutti gli esuli dal confine orientali, per intenderci quelli che hanno pagato interamente il debito di guerra di tutta l’Italia nei confronti della Jugoslavia, 125 milioni di dollari del tempo. Non sono mai stati risarciti dallo Stato italiano (si calcola che finora lo Stato ha restituito loro al massimo il 5%). «Comunque fin dall’adolescenza avevo capito in cosa consisteva il paradiso socialista incarnato nella Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia» spiega Umberto. «C’erano code dappertutto, in particolare per i generi alimentari. Spesso, quando arrivava il tuo turno, la merce era finita e tornavi a casa con poco o niente. Per questo quando partivamo per le vacanze estive, rigorosamente a Fiume, portavamo un bel po’ di roba, dalla pasta al caffè, dal formaggio grana all’olio di oliva. Molti prodotti non esistevano nei negozi e per i nostri parenti il nostro arrivo era una festa. Le vacanze a Fiume erano caratterizzate da un’ottima cucina» ricorda ancora Smaila. «La nonna Anna (mamma di mio papà Guerrino, aveva fatto le scuole ungheresi e parlava correttamente il magiaro) a 90 anni si faceva tutta la via Monte Grappa per andare al mercato a prendere il pesce fresco per me. La nostra via era ripida e io ancora oggi mi chiedo come faceva a quell’età a percorrerla senza sforzo apparente. La famiglia di mia madre, Giuseppina detta Mery Nacinovich, aveva uno stabile con trattoria sottostante (confiscato tutto dai titini) in via Trieste, dove alla zia Nina avevano lasciato in uso un piccolo appartamento. Qualche volta andavo a dormire da lei e sentivo giù nei giardinetti suonare la fisarmonica con ballate popolari». Riguardo alla cucina, Umberto Smaila ha ricordi affettuosi, limpidi e dettagliati. «Tutte le mie zie facevano a gara per farmi mangiare e penso sempre ai molti piatti prelibati che mi preparavano: le paprike impinide (d’inverno capuzzi impinidi), brodetto di seppie con polenta e un risotto con scampi e sugo di pomodoro, veramente eccezionale. La zia Ninetta era la specialista in goulasch. Gli anni passavano e mangiare mi piaceva sempre. Quando diventai più indipendente, alla fine della vacanza mi recavo da solo in una griglieria, a Susak (un sobborgo di Fiume) e mi ordinavo una doppia razione di rasnici e di civapcici, investendo in un colpo solo i 500 dinari che avevo messo da parte. Era il mio modo di salutare le mie terre». La memoria di Umberto non smette di offrire racconti e aneddoti legati alle sue solide radici istriane. «Finita la prima liceo classico, i miei genitori mi regalarono una Lambretta e per un po’ di tempo d’estate andavo a Fiume in Lambretta, seguendo la 1100 del papà (un’auto più grande e comoda che aveva sostituito la mitica 600). Con quello scooter mi sono divertito alla grande, di sera con mio cugino coprivamo i 10 km che separano Fiume da Abbazia per andare a ballare e al ritorno faceva così freddo che ci lacrimavano gli occhi. Ricordo che una volta mi ero portato a Fiume una fonovaligia Europhon con un filo elettrico di 100 metri, avevo installato il tutto a casa di un’amica e dall’ultimo piano mettevamo le canzoni dei Beatles e ballavamo nei giardinetti sotto casa. Per Fiume era una cosa mai vista prima. Fascino e potenza della cultura occidentale, negli anni 1964/1966 si sentivano solo musiche dei Beatles e tutti volevano vestire i jeans, che compravano negli empori di Trieste. Io stesso portavo ai miei cugini jeans ogni volta che arrivavo a Fiume. Nonostante il regime di Tito non vedesse di buon occhio questa apertura, l’esigenza dei giovani locali di sentirsi uguali ai ragazzi che vivevano all’Ovest era un fiume in piena che non si poteva più contenere. Insieme a mio cugino Paolo ci davamo un gran daffare per movimentare l’estate dei nostri coetanei fiumani. Di giorno si andava con il trolleybus a Cantrida, dove al Bagno Riviera avevamo a disposizione dei trampolini per i tuffi. Il bagno era quello frequentato dai rimasti, mentre i croati frequentavano un altro stabilimento. Lì si parlava italiano, cioè dialetto fiuman». Nel fluire dei ricordi di Umberto Smaila, siamo nel frattempo arrivati a Verona dove ha inizio la celebrazione del Giorno del Ricordo. La mamma di Umberto è fresca di parrucchiere e un po’ agitata per quello che dirà dal palco ai suoi concittadini veronesi, molti dei quali di origine fiumana. La mamma è personaggio di spicco a Verona e viene sempre intervistata come testimone vivente della tragedia del confine orientale. Presto darà alle stampe le sue memorie di fiumana e di esule. «Mia mamma – commenta Smaila – è sempre stata legata al tricolore, ai valori italiani. Mio papà era più legato a Fiume e al movimento autonomista di Riccardo Zanella, che voleva lo Stato Libero di Fiume. Infatti mia mamma ha sempre detto mi son italiana, mentre mio papà diceva mi son fiuman. Io come la penso? Sono orgoglioso di essere di quelle terre e di avere entrambi i genitori fiumani». La celebrazione volge al termine e si riprende la strada di casa. La conversazione prosegue toccando anche la politica. «Io ero critico col regime jugoslavo, ma vivevo un momento spensierato della mia vita e non volevo essere causa di discussioni in famiglia, quando eravamo a Fiume. Lì si evitava di discutere di politica, si parlava più che altro di famiglia e di ricordi. Invece i figli di mio zio Mario fra di loro avevano accese discussioni per motivi politici, io mi tenevo volutamente fuori da quel contesto, mi limitavo a osservare. E’ incredibile come la guerra ha cambiato i destini di una famiglia: io avevo tre zii, cognati di mia madre, che hanno avuto tre cognomi diversi. Il primo, lo zio Romano Bradicich, partì in camicia nera alla conquista dell’Abissinia e si fece ben 11 anni di prigionia sotto gli inglesi, ha vissuto anche lui a Verona. Suo fratello Anselmo era andato a fare il comandante delle navi da crociera a Genova e aveva cambiato il cognome in Bradini, non volendo avere più niente a che fare con le terre natìe. L’ultimo fratello, un comunista in buona fede, era andato partigiano, era rimasto in Jugoslavia e il suo cognome era Bradicic, alla croata. Ci sarebbe da fare un film su una storia così». Siamo quasi a Milano e la nostra conversazione arriva al dunque. «Guarda, la nostra storia non interessa a nessuno in Italia. Negli ultimi tempi, grazie al Giorno del Ricordo e alle altre iniziative che sono sorte (penso allo spettacolo Magazzino 18 di Simone Cristicchi che ha aperto gli occhi ad almeno un milione di persone) si è incominciato a fare un po’ di luce sulla tragedia degli esuli e sull’orrore delle foibe. In Italia c’è una visione camaleontica della storia, basti pensare alla lapide che c’è alla stazione di Bologna per ricordare il passaggio del treno dei profughi dall’Istria, quando attivisti comunisti buttarono sui binari i panini e il latte per i bambini preparato da organizzazioni caritatevoli. Su quella lapide c’è scritto che ci furono incomprensioni. Finchè quella parte politica che ha sempre visto i profughi come fascisti, per il solo torto di aver voltato le spalle al paradiso comunista di Tito, non capirà di avere completamente sbagliato le sue considerazioni, non si potranno fare passi in avanti. E quella lapide è lo specchio di come stanno le cose. Si celebra l’epopea partigiana come ricetta salvifica per l’Italia, dimenticando un po’ troppo spesso che senza l’aiuto americano non si sarebbero potuti cogliere i risultati raggiunti. Qui tutti hanno la memoria corta, se si pensa che fino a poco tempo fa era una prassi quella di bruciare bandiere americane in certe manifestazioni di piazza; fortunatamente ora questi episodi sono più rari ma bisogna continuare a restringere sempre più gli spazi a certi inutili e idioti estremismi. Per i nostri morti sono sempre stati utilizzati due pesi e due misure, gli infoibati ammazzati dai comunisti titini non hanno mai avuto la stessa considerazione di cui hanno goduto gli ebrei ammazzati dai nazisti nei campi di concentramento. Per questioni di real-politik, comunisti e democristiani hanno fatto a gara nel tentativo di seppellire tutta la vicenda delle terre perdute in Istria e Dalmazia, escludendo questa parte di storia italiana dai libri di storia delle scuole, facendone divieto di parlarne in pubblico. Gli unici che parlarono di quelle vicende furono i partiti di destra, che spesso lo fecero per ottenere dei vantaggi elettorali, con questo però dando poi ragione a chi sosteneva che gli esuli e i profughi erano tutti fascisti. E’ come un cane che si morde la coda, sembra che non ne verremo mai fuori, ma la Giornata del Ricordo, le testimonianze sempre più diffuse e i passi compiuti finalmente da certi politici verso la verità storica tengono accesa la mia speranza e quella di tanti esuli di essere considerati perseguitati alla pari con gli altri. Coloro che lasciarono quelle terre per me sono degli eroi, soprattutto per quanto hanno subito dopo il rientro in Italia e sono italiani due volte, la prima per nascita e la seconda per scelta».

Vivere sotto perenne giudizio. Ognuno di noi, durante la sua esistenza, perennemente, è sempre sottoposto al giudizio degli altri ed a questo deve essere conforme. In famiglia i genitori hanno l’obbligo di educare ed istruire i figli secondo canone generale. A scuola si insegna subdolamente la dottrina di Stato: quella laicista e di sinistra. Nei concorsi pubblici o negli esami di Stato si è sottoposti al giudizio di canoni di Stato attraverso commissari divenuti vincitori o abilitati in virtù del trucco. Nei rapporti confessionali ci si deve attenere al dettato religioso interpretato. Viviamo tra il martello del clericalismo e l’incudine dell’anticlericalismo. In questa democrazia menzoniera non c’è spazio per la libertà.

DALLE FOIBE A GLADIO. ECCO COME NACQUE L'ANTICOMUNISMO IN ITALIA. Scrive Saverio Paletta il 10 febbraio 2018 su “L’indygesto.it". Parla Giacomo Pacini, storico delle organizzazioni paramilitari segrete. Nazionalisti? «Sicuramente, ma, non sembri un paradosso, erano per certi versi più nazionalisti gli jugoslavi, partigiani prima e militari subito dopo, a cui si contrapponevano». Possiamo definirli patrioti? «Certamente. Perché nella brigata partigiana Osoppo, c’era di tutto: cattolici (la maggioranza) giellini, repubblicani, laici. E avevano in comune due dati: la provenienza dall’Esercito, quindi una certa preparazione militare, e l’antifascismo». Parla Giacomo Pacini. Toscano doc, storico e saggista, Pacini è uno studioso esperto di servizi segreti e organizzazioni paramilitari, a cui ha dedicato alcuni importanti volumi, tra cui Le organizzazioni paramilitari nell’Italia repubblicana (Prospettiva Editori, Roma 2008) e Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia. 1943-1991 (Einaudi, Torino 2014). L’argomento della conversazione che segue è la nascita di Gladio, il più importante (e l’unico davvero conosciuto) organismo Stay Behind in Italia. Una nascita avvenuta nel cuore della Resistenza nel momento più tragico della fine della Seconda guerra mondiale: l’invasione jugoslava dei confini orientali, col contorno di stragi di civili che ne conseguì. Al punto che oggi, dopo anni di rimozioni, c’è chi parla di pulizia etnica a danno degli italiani. Gladio, com’è noto anche grazie alle ricerche di Pacini, nacque dalla brigata Osoppo. Poi, come conseguenza della politica jugoslava, soprattutto della sua influenza sul Pci (e quindi sulla brigata comunista Garibaldi), iniziò a diventare altro. Cioè una struttura segreta armata, anche a causa delle violenze subite dagli italiani.

È corretto parlare di pulizia etnica?

«Io non mi impegnerei a dare una risposta a un tema storiografico ancora troppo dibattuto. Tuttavia si può affermare una cosa: la resistenza jugoslava rispetto alla resistenza comunista italiana era più incline a saldare l’aspetto etnico nazionale con quello marxista rivoluzionario. In parole povere, di sicuro gli jugoslavi erano più nazionalisti dei comunisti italiani e perseguivano una politica annessionista».

Quindi l’antifascismo funzionò anche da copertura per operazioni di pulizia etnica?

«Sì, ma nella misura in cui è legittimo parlare di pulizia etnica alla luce dei risultati della storiografia recente. I partigiani titini colpirono molti italiani che non erano stati fascisti né avevano avuto particolari legami politici. Ma l’aspetto ideologico dell’antifascismo, che fu un collante tra la resistenza slava e parte di quella italiana, ebbe un suo peso autonomo. A ciò si deve aggiungere anche il ruolo forte di Mosca, che fino a un certo punto, cioè fino alla rottura tra Stalin e Tito, teneva le redini del discorso. L’analisi da fare è più complessa. Al netto di tutto, resta comunque un dato incontrovertibile: per gli jugoslavi la resistenza e la lotta antifascista furono anche occasioni per risolvere a loro favore frizioni etniche plurisecolari».

Non solo nei confronti degli italiani.

«Certo, anche i croati e gli sloveni filofascisti o legati a progetti politici non jugoslavisti ebbero ripercussioni pesanti. Il panslavismo fu anche un processo di nazionalizzazione violenta».

Torniamo alla vicenda di Gladio e della brigata Osoppo e dei rapporti di quest’ultima con la brigata Garibaldi.

«Gli osovani, così si chiamavano i militanti della Osoppo, erano in prevalenza cattolici, tuttavia fino a un certo punto collaborarono con i garibaldini».

Poi il legame si spezzò.

«La diffidenza tra cattolici e comunisti c’era anche prima, ma la rottura iniziò a delinearsi a partire dall’ottobre 1944, in seguito all’incontro tra Palmiro Togliatti e Milovan Gilas, durante il quale Togliatti diede il via libera alla collaborazione tra i garibaldini e i partigiani del IX Korpus sloveno».

Una collaborazione che, in realtà, era una vera e propria subordinazione. In pratica, i comunisti fecero da quinta colonna.

«In quella fase storica fu così, purtroppo. Ma val la pena di ricostruirne in sintesi i passaggi salienti. Tutto inizia da una lettera inviata nel settembre 1943 da Edvard Kardelj a Vincenzo Bianco, delegato da Togliatti presso il Fronte di liberazione sloveno. In questa missiva Kardelj ordina la subordinazione della brigata Garibaldi al IX Korpus. Ancora oggi fa una certa impressione un passaggio piuttosto esplicito di questa lettera, in cui l’esponente titino afferma: «Difficilmente comprendo perché alcuni di voi insistano sul tema dell’italianità»».

I vertici del Pci come la accolsero?

«Rimasero perplessi: Longo e perfino Secchia, ad esempio, temevano che questa disposizione di tipo militare ma sostanzialmente politica avrebbe creato spaccature all’interno della Resistenza. Come di fatto avvenne. Alla lettera seguì l’incontro, a Bari, nella notte tra il 16 e il 17 ottobre 1944 tra Togliatti e Gilas, a cui partecipò Kardelj. Quest’ultimo redasse il verbale della riunione, in cui affermava che il segretario del Pci non aveva messo in discussione «che Trieste spetti alla Jugoslavia»».

Forse perché, visto che l’iniziativa jugoslava aveva la benedizione di Mosca, non c’erano troppe alternative.

«Anche questo, certo. Va detto che non siamo in possesso della versione di questi colloqui di Togliatti anche se è nota una ulteriore lettera che egli inviò a Bianco il 18 ottobre in cui definiva positivo l’accordo con gli jugoslavi e sosteneva che il Partito Comunista doveva partecipare attivamente «alla organizzazione di un potere popolare in tutte le regioni liberate dalle truppe di Tito»».

Insomma, Togliatti cedette su tutta la linea. Ma era davvero d’accordo?

«A livello tattico sì. A livello strategico, invece, anche lui temeva che l’occupazione slava avrebbe alienato molti consensi ai comunisti».

Comunque i dissidi tra osovani e garibaldini iniziano proprio in seguito al via libera di Togliatti.

«Inevitabilmente. La scelta della Garibaldi di porsi alle dipendenze del IX Corpus costituì uno snodo cruciale nella storia della Resistenza nel Nord-Est e sarebbe stata foriera di pesanti conseguenze per il futuro della regione».

Può farsi risalire a questa fase l'idea primigenia che avrebbe poi portato alla creazione di Gladio?

«Diciamo che fu in quel momento che tra gli osovani cominciò a radicarsi la convinzione che la propria missione non si sarebbe esaurita con la sconfitta del fascismo e che, anche a guerra finita, si doveva restare armati contro un nuovo nemico: il comunismo».

Anche perché l’accordo Togliatti-Gilas non fu l’unico trauma.

«Infatti: il 7 febbraio 1945 ci fu l’eccidio di Porzus, in cui 17 osovani furono passati brutalmente per le armi dai garibaldini. A quel punto il dissidio divenne ostilità aperta; nella memoria collettiva degli osovani la strage di Porzus (partigiani che uccido altri partigiani) divenne un qualcosa di indelebile e, insieme ai successivi quaranta giorni di occupazione slava di Trieste, costituì un momento chiave nel processo che portò alla decisione di creare il complesso delle strutture anticomuniste di tipo Stay Behind»

Al punto che gli osovani, in nome dell’italianità, tentarono di accordarsi con i marò del principe Borghese?

«Si può oggi affermare con ragionevole certezza che ci fu più di un contatto. Per esempio; se il pretesto per la strage di Porzus fu un presunto incontro tra il capo osovano Bolla e uomini di Borghese in realtà mai avvenuto, è vero che di una possibile collaborazione tra osovani e marò della Decima si era discusso fin dal gennaio 1945 in un incontro riservato svoltosi a Vittorio Veneto fra il capitano Manlio Morelli della stessa X-mas e il comandante osovano Verdi (Candido Grassi). Quel progetto rimase però lettera morta. Un estremo e documentato tentativo di accordo tra Osoppo e X-mas vi fu a fine febbraio 1945 con la mediazione di Antonio Marceglia, già capitano di vascello della marina militare e noto per essere stato tra gli affondatori delle corazzate inglesi Queen Elizabeth e Valiant. Marceglia (detto in estrema sintesi) fu inviato nei territori del nord su disposizione del controspionaggio americano per preservare gli impianti del triangolo industriale dai tedeschi in ritirata e per cercare di operare al fine di favorire proprio un'intesa fra reparti dell'esercito di Salò in disfacimento, uomini della Decima e, appunto, le brigate Osoppo. L'obiettivo era creare una sorta di fronte italiano che avrebbe dovuto combattere in funzione sia antinazista, sia anticomunista e difendere l'italianità della regione da qualunque forza straniera. Ma fu tutto inutile, perché in una relazione che scrisse a fine febbraio, Marceglia sostenne che la Xmas era ormai troppo malridotta, soffriva di una eccessiva dispersione nel territorio e comunque molti dei suoi uomini non avrebbero accettato di collaborare con una formazione partigiana, seppur anticomunista. Cosa che, almeno stando ai documenti di cui disponiamo, Borghese avrebbe invece avallato».

Il peggio sarebbe arrivato con la fine della guerra.

«Fu il terzo trauma. Il primo maggio 1945 gli jugoslavi entrarono a Trieste e, come noto, vi rimasero per 40 giorni. Furono giorni terribili per i triestini, molti dei quali subirono le stesse violenze capitate agli istriani e agli abitanti della parte orientale della Carnia. In quell’occasione, c’è da dire, iniziò a maturare anche la rottura all’interno del Pci tra i fedeli alla linea jugoslava e quelli che, al contrario, presero posizione a favore dell’italianità».

I titini miravano all’annessione di Trieste.

«Miravano certamente ad annettere più territorio italiano possibile. Anche questa fretta di giungere a una conclusione spiega le violenze nei riguardi della popolazione. In ogni caso, l’occupazione jugoslava fu uno shock profondissimo per molti triestini e fece definitivamente maturare, negli osovani, l’idea di proseguire la propria attività antislava anche dopo la guerra. Infatti, a partire dal ’46, la Osoppo rinacque come struttura segreta, sotto il comando del colonnello Luigi Olivieri».

Ma anche nel campo comunista si verificò una cosa simile.

«Sì, nella storia degli organismi segreti anti-titini operanti nel Nord-Est fino ai primi anni cinquanta, vi è anche il particolare caso di gruppi armati facenti capo al rappresentante dell'ala filo-sovietica del Partito Comunista del Tlt, Vittorio Vidali, uno stalinista fedele a Mosca, già combattente nella guerra civile spagnola. Questi gruppi si tenevano in contatto coi servizi segreti militari italiani e si dichiaravano pronti a prendere la difesa dell’Italia in caso di un’altra invasione jugoslava. È una storia, questa, per certi versi ancora tutta da scrivere».

Un trauma anche per loro.

«Indubbiamente. A dare ancora più solidità a questa sorta di patto segreto anti-slavo arrivò poi la nota risoluzione del Cominform del 28 giugno 1948 che sancì lo strappo fra Stalin e Tito. La spaccatura in seno ai comunisti della regione divenne a quel punto insanabile con l'ala filoslava capeggiata da Babic che uscì dal partito e fondò il cosiddetto Fronte Popolare italo-slavo. In seguito a ciò, nella Zona B sotto controllo slavo, i titini diedero inizio a una dura persecuzione verso quei comunisti istriani schieratisi su posizioni cominformiste o che avevano dimostrato sentimenti italiani. Diego De Castro (nel dopoguerra rappresentante diplomatico italiano presso il Governo Militare Alleato) ha raccontato che in quei mesi, in alcuni incontri riservati che ebbe con Vidali, questi promise che non avrebbe esitato a mettere a disposizione uomini armati qualora fosse stato necessario fermare le mire titine».

Ma a questo punto la Osoppo era già una struttura segreta consolidata di cui la Democrazia cristiana e alcuni settori militari conoscevano l’esistenza.

«E nel 1956 divenne Gladio. Ricordo che allora era ministro della Difesa l’ex partigiano Paolo Emilio Taviani».

Ma quale peso effettivo ha avuto Gladio nella storia repubblicana?

«Fu essenzialmente un deterrente. Questa struttura, inserita nel progetto Stay Behind della Nato, non fu mai operativa, perché per fortuna non ce ne fu mai bisogno. Certo, i membri di Gladio si addestravano per tenersi pronti, ma l’unico episodio bellico oggi conosciuto avvenne proprio lungo il fronte orientale e prima della nascita di Gladio. Fu un breve scontro armato coi soldati jugoslavi a Topolo, un piccolo villaggio di confine, subito dopo le elezioni del ’48».

Nel 1990 Andreotti rivelò l’esistenza di Gladio e fornì una lista parziale dei suoi componenti.

«Ci si interroga ancora oggi sui motivi per cui Giulio Andreotti fece quella rivelazione e soprattutto con quelle modalità. Fu un caso unico in tutto l’Occidente. È parere ormai unanime che egli volesse tentare la corsa al Quirinale e, per farlo, cercò, anche attraverso la rivelazione di Gladio, di ingraziarsi il Pci, ma è anche vero che dando in pasto all'opinione pubblica Gladio consentì di tenere nascoste altre strutture, diverse e distinte da Gladio e che verosimilmente potrebbero aver avuto un ruolo in alcune vicende oscure della storia d'Italia».

Però a Gladio fu attribuito di tutto. Soprattutto gli si attribuì un ruolo determinante negli episodi più oscuri della strategia della tensione.

«A quasi trent’anni dalla rivelazione di Gladio, c’è un dato ormai certo: non è spuntata una prova di un suo coinvolgimento in attività eversive. Gladio, che fu composta essenzialmente da partigiani antifascisti, fu una struttura segreta a orientamento anticomunista. E questo anticomunismo si coagulò nel confine orientale d’Italia attorno alla paura del pericolo jugoslavo, una paura che continuò a lungo, soprattutto a Trieste». (a cura di Saverio Paletta)

Le altre Gladio e le altre stragi: conversazione con Giacomo Pacini, su "Parentesi Storiche" del 27 agosto 2017. A cura di Enrico Ruffino, Venezia. Giovane storico non accademico, tra i più apprezzati nel panorama nazionale, Giacomo Pacini è anche uno degli studiosi più disponibili al dialogo. Capita spesso che se hai qualche dubbio, non riesci ad associare un volto ad una persona, un fatto ad un evento, lui è sempre lì pronto a sciorinarti vita, morte e miracoli di un personaggio, associarlo ad un evento, inquadrarlo in una storia più grande. Si può dire che Pacini è una enciclopedia vivente, una risorsa preziosa per un paese che naviga nei meandri delle mezze verità, che viaggia sulla linea d’onda di ricostruzioni poco accurate che, spesso o volentieri, tralasciano alcuni scenari. Oggi gli abbiamo chiesto della sua più recente fatica, Le altre Gladio (Einaudi, 2015). Il nuovo libro di Giacomo Pacini, Le altre Gladio. La lotta segreta anticomunista in Italia, 1943-1991 (Einaudi, 2016), ma anche di lavori in corso, appena abbozzati, per i quali non ha mancato di darci ricostruzioni preziose. Un’intervista che va letta interamente per capire cosa accade nella nostra, martoriata prima Repubblica. 

Voglio iniziare con una provocazione: sei di destra o di sinistra?

«E io voglio evitare di cavarmela con la scontata risposta: “Ma oggi cosa sono destra e sinistra?” Diciamo che mi sono sempre riconosciuto in un’area definibile di sinistra, ma mi piacerebbe una sinistra che, accanto ai pur fondamentali diritti civili, si ricordasse degli altrettanto importanti diritti sociali.  Altrimenti non ti devi stupire se vinci ai Parioli e perdi nelle periferie».

Naturalmente la provocazione non era fine a se stessa, era finalizzata al tuo lavoro su le altre gladio. Le poche critiche che hai ricevuto per quell’imponente ricerca sono provenute da sinistra, la quale ti ha additato una certa propensione al “filo-atlantismo” o “propagandismo di destra”. Personalmente, non riesco a capire perché, a fronte di un dispendioso lavoro di archivio, si cerchi ancora di valutare le grandi questioni con criteri politici. Quindi, ti domando: a cosa credi sia dovuto questo atteggiamento?

«Premesso che qualsiasi recensione, anche la più negativa, se fatta in buona fede va sempre accettata, in questo caso stiamo davvero parlando di un qualcosa di minimale. Nello specifico, una “studiosa” in una recensione on-line ha sostenuto che l’aver parlato di un alto numero di morti nelle foibe mi equiparerebbe, appunto, a certi “sfegatati propagandisti” (di destra naturalmente). Non solo, ella ha addirittura scoperto che per il mio libro mi sarei ispirato nientemeno che a un articolo uscito sulla rivista di destra Area nel 1997 (quando ancora facevo le superiori). Che dire? E’ chiaro che non si può che sorridere. Diciamo che alla recensitrice non è andato giù soprattutto il secondo capitolo del libro (e viene il sospetto abbia letto solo quello) dove trattavo dei presupposti ideologici delle organizzazioni Stay Behind, ricostruendo, tra le altre cose, la storia dell’insanabile contrasto che si creò tra i partigiani comunisti delle brigate Garibaldi e i partigiani cattolici e liberali delle brigate Osoppo. Nel farlo, inevitabilmente, ho dovuto trattare di tragedie come le foibe, la strage di Porzus o i cosiddetti quaranta giorni di occupazione slava di Trieste (dei quali secondo l’autrice della recensione “da un punto di vista storiografico” non sarebbe accettabile parlare). Tutto questo non è piaciuto. Me ne faccio una ragione, in fondo il libro ha avuto un tale numero di recensioni positive su gran parte della stampa nazionale e su riviste scientifiche da lasciarmi stupito e (bando alla falsa modestia) inorgoglito, considerando che è stato un lavoro molto impegnativo anche perché svolto in totale autofinanziamento, senza nemmeno un centesimo di sostegno pubblico. Per cui ci mancherebbe non accettare delle recensioni negative».

E più in generale?

«Più in generale, diciamo che è vero che parte della storiografia ha avuto, e parzialmente ha ancora, difficoltà a studiare sine ira et studio un fenomeno complesso come l’anticomunismo. Che in Italia ha avuto degenerazioni terribili e penso di averne scritto in abbondanza. Per esempio, perdona l’antipatica autocitazione, personalmente credo di aver contribuito a portare alla luce uno dei documenti più eloquenti (come lo ha definito Vladimiro Satta commentandolo nel suo libro I nemici della Repubblica) circa l’interesse del servizio segreto militare nell’attuare azioni di provocazione contro la sinistra. Si tratta di una relazione del cosiddetto Ufficio Rei del Sifar risalente al settembre 1963 e nella quale, in coincidenza con la nascita del primo governo organico di centrosinistra, si programmavano appunto in modo esplicito azioni mirate per danneggiare il Pci. E altro potremmo citare»

Mi saltano in mente le parole di Aldo Giannulli che in più occasioni ha sostenuto che si è ben studiato l’antifascismo ma mai bene l’anticomunismo. Tuttavia non ti sembra un po’ riduttivo quest’interpretazione in chiave tutta anticomunista?

«La storia dell’anticomunismo in Italia può davvero essere ridotta solo a una questione di bombe e stragi? E si può sul serio sostenere che da Portella della Ginestra in poi tutto debba sempre e comunque essere inserito nello scenario secondo il quale fascisti a libro paga dei servizi segreti venivano utilizzati per creare tensione e favorire un colpo di stato anticomunista? La risposta mi sembra ovvia; no. Se nessuno può negare che più di una volta il Pci abbia difeso le istituzioni e la democrazia pagandone anche un caro prezzo, è altrettanto vero che il quarantennio democristiano non può essere descritto solo come una sorta di catena di complotti per fermare la democratica ascesa del Pci stesso. Tutto questo non solo non corrisponde al vero, ma ha anche impedito alla sinistra di elaborare fino in fondo una seria riflessione su quanto, dal 1948 a gran parte degli anni settanta, abbia indirettamente pesato nel mancato ricambio della classe dirigente al potere la dicotomia tra l’inserimento del Pci in una democrazia occidentale e il suo legame mai pienamente scisso con l’Urss. Quella che (mi rendo conto, in modo un po’ semplicistico) viene solitamente chiamata “doppiezza”. Sinceramente, mi sembrano considerazioni perfino banali, ma talvolta chi ha ancora la testa rivolta al Novecento fatica a accettarle».

Infatti, il tuo libro va in tutt’altra strada.

«Come mi è capitato di dire in alcune presentazioni, il mio libro è stato un tentativo (naturalmente non sta a me dire se riuscito) di ricostruire la storia legale e non legale della lotta anticomunista in Italia. Ma evitando giudizi categorici o perentori e per questo se al termine della lettura chi ritiene che la lotta anticomunista in Italia sia stata solo una sequela di bombe e stragi e chi, al contrario, nega che tale lotta abbia conosciuto anche simili degenerazioni, rimarrà deluso, credo che il libro avrà raggiunto uno dei suoi obiettivi. 

Attorno a Gladio (quale Gladio, poi?) è stata costruita una grande “tragediografia”. E’ stata assunta, un po’ come la P2, a grande deus ex machina della tragedia repubblicana.

«Quando nell’ottobre 1990 Andreotti rivelò l’esistenza di Gladio scoppiò una vera e propria bufera politica. Per mesi la vicenda riempì le prime pagine di tutti i giornali (nei due anni successivi è stato calcolato che furono scritti oltre 3000 articoli) alimentando infiniti dibattiti che culminarono in una richiesta di “impeachment” mossa contro il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga. D’altronde, le illazioni che per anni erano circolate intorno all’esistenza di un servizio segreto parallelo che operava nell’ombra sembravano aver trovato un riscontro ufficiale e improvvisamente Gladio diventò la chiave per capire ogni mistero della storia d’Italia, dalle stragi, ai tentati colpi di stato, agli omicidi politici. Oggi sappiamo che non era così; Gladio era una porzione di un sistema di sicurezza molto più complesso e articolato che ho cercato di ricostruire nel mio libro, intitolato appunto Le Altre Gladio».

Cos’era Gladio?

«Nello specifico, la Gladio (o Stay Behind italiana) era un’organizzazione segreta che fu creata nell’autunno 1956 e che essenzialmente aveva il compito di attivarsi in caso di invasione del territorio italiano da parte di un esercito straniero (nella fattispecie ovviamente le truppe del Patto di Varsavia). Fino ai primi anni 70, la dottrina militare italiana era imperniata sul concetto della cosiddetta Difesa Arretrata e Manovra in Ritirata, che, in estrema sintesi, voleva dire il lasciare volutamente, all’inizio delle ostilità, una parte del territorio nazionale in mano all’avversario ingaggiando combattimenti non per arrestare il nemico ma per rallentarne l’avanzata e logorarlo al fine di poter arretrare le proprie forze e sistemarle in posizioni più idonee da dove poi doveva partire la controffensiva. Da qui l’importanza del ruolo di Gladio, divisa in 5 cosiddetta Unità di Pronto Impiego (Upi), che allo scoppio delle ostilità avrebbero dovuto raggiungere le zone del confine orientale loro assegnate e dare inizio alla lotta partigiana proprio in quella parte di territorio nazionale lasciata volutamente sguarnita ed in cui l’esercito invasore doveva essere, diciamo così, impantanato e poi bloccato. Questa tattica mutò nel 1972 allorché furono varate da Shape (comando supremo delle potenze alleate in Europa) nuove tecniche di guerra non ortodossa e, per quanto riguarda l’Italia, fu adottata la dottrina della cosiddetta Difesa Avanzata, che in sostanza voleva dire una difesa ancorata, fissa, appoggiandosi ai rilievi montuosi lungo la frontiera alpina e una difesa mobile nella fascia di pianura tra Udine e l’Adriatico.  In fondo, se ci pensiamo bene, di per sé Gladio non aveva nulla di veramente originale. Addirittura dai tempi delle guerre napoleoniche esistevano strutture di questo tipo, contigue alle forze armate e capaci di utilizzare tecniche di guerriglia contro un eventuale esercito che avesse invaso il proprio territorio. Gladio, in particolare, traeva la sua origine da similari organizzazioni armate a carattere segreto che erano state attive durante la seconda guerra mondiale nei territori occupati dai tedeschi. Alla base della nascita di Gladio stava poi anche l’idea che la Guerra Fredda avrebbe cambiato per sempre il modo di combattere, ossia che non ci sarebbe più stato soltanto un canonico conflitto militare tra eserciti, ma che, appunto, la cosiddetta guerra di guerriglia avrebbe assunto un’importanza sempre maggiore».

Quanto Gladio, in quel 1990, era spendibile politicamente?

«Una questione mai del tutto chiarita è perché Andreotti nel 1990 decise di rivelare, con quella modalità, l’esistenza di Gladio. Naturalmente la fine della Guerra Fredda aveva ormai reso superflua quella struttura (che peraltro nel corso degli anni ottanta aveva subito molti cambiamenti interni), ma quello di renderne nota l’esistenza fu ugualmente una decisione improvvisa, avvenuta a totale insaputa, per esempio, dell’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga (che conosceva Gladio dal 1966, anno in cui divenne sottosegretario alla Difesa) o della stessa Nato. Certamente Andreotti lo fece perché pressato dalla magistratura, che da tempo era alla ricerca di una organizzazione segreta, della cui esistenza, come accennato, si vociferava da anni (dai tempi del caso dell’inchiesta sulla cosiddetta Rosa dei Venti del giudice istruttore padovano Giovanni Tamburino). Ma si è anche spesso sostenuto, probabilmente con più di una ragione, che Andreotti lo fece per lanciare una sorta di ponte alla sinistra e ottenerne quantomeno una non ostilità in vista della futura nomina a Presidente della Repubblica per la quale all’epoca egli sembrava il naturale candidato. Poi, come noto, gli eventi dei primi mesi del 1992 cambiarono completamente le carte in tavola».

Ci sono dei passaggi nella storia dell’Italia repubblicana che sono stati completamente omessi sia dal discorso pubblico che, ancora più grave, dalla storiografia stessa. Uno di questi è il ruolo che il terrorismo palestinese ha assunto in Italia. Pochi ricordano le stragi palestinesi (entrambe all’aeroporto di Fiumicino in anni diversi) e si trovano ben poche (nessuna che io conosca) che analizzino l’altro terrorismo. Non pensi che Gladio possa essere stato un parafulmine per rimuovere anche questa storia? Oltre che per coprire le altre organizzazioni paramilitari, quelle “illegali”? Insomma, come spieghi la rimozione dal discorso pubblico del ruolo del terrorismo palestinese in Italia?

«Che Gladio sia servita come parafulmine di altre strutture, realmente coinvolte in alcune oscure vicende della storia italiana, è un’ipotesi che ho cercato di sviluppare nell’ultima parte del libro e che credo abbia trovato un riscontro assolutamente positivo. Quanto al terrorismo palestinese e alla scarsa attenzione a esso dedicata, io allargherei la questione. Naturalmente non bisogna generalizzare, ma, con le dovute e lodevoli eccezioni, va detto che la storiografia non sempre ha brillato per dinamismo e innovazione e ha oggettivamente accumulato dei ritardi (che finalmente cominciano a essere colmati) su molte delle vicende post-1945, non solo sul terrorismo palestinese. Per dire, allorché si parla del ruolo dell’Italia nella Guerra Fredda capita che lo si studi ancora quasi esclusivamente nel contesto del conflitto est-ovest, ignorando il fondamentale scenario mediterraneo. Ossia, il conflitto, per così dire, “nord-sud” per l’approvvigionamento delle risorse petrolifere.  Anche per questo vicende come, appunto, le stragi palestinesi di Fiumicino (o casi come quello dell’aereo Argo 16) sono ancora quasi del tutto ignoti. Ci aggiungerei un’altra vicenda; quanti per esempio, anche tra autorevoli storici dell’Italia Repubblicana, conoscono la storia della scomparsa della nave Hedia, affondata nel Mediterraneo nel marzo 1962?  Ne ha parlato qualche tempo fa Mimmo Franzinelli. Fu una vera e propria Ustica dei mari, morirono 19 italiani e un gallese e recenti ricerche hanno evidenziato che con quel mercantile venivano trasportati clandestinamente verso l’Algeria aiuti per i ribelli del Fronte di Liberazione Nazionale. E potremmo continuare; è proprio la storia della diplomazia parallela che l’Italia condusse nel Mediterraneo che attende ancora di essere conosciuta nella sua interezza».

Volevo arrivare al “Lodo Moro”. Innanzitutto, è esistito o non è esistito? E se si, che ruolo ha assunto?

«Il Lodo Moro è una verità storica acclarata. Naturalmente ancora molto materiale documentale dovrà emergere prima di avere un quadro esaustivo, ma sulla esistenza di un patto di non belligeranza tra l’Italia e la galassia palestinese non vi sono più dubbi. Sulla base del materiale oggi disponibile, si evince che i primi contatti tra funzionari dei Servizi segreti italiani e emissari palestinesi avvennero a fine 1972 nell’ambito di una trattativa che portò alla liberazione di due militanti del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (Fplp) arrestati nel precedente agosto per aver nascosto un ordigno in un mangianastri portato inconsapevolmente su un aereo israeliano da due turiste inglesi. Fu però con il ritorno di Aldo Moro al ministero degli Esteri nell‘estate 1973 che il patto prese davvero forma. In particolare dopo l’arresto avvenuto a Ostia nel settembre 1973 di 5 palestinesi trovati in possesso di missili Strela che intendevano usare per abbattere un aereo israeliano. Nell’ambito delle complesse trattative che portarono alla loro liberazione (e che coinvolsero anche la Libia) l’Olp si impegnò ufficialmente a non effettuare più azioni di guerra sul suolo italiano. Tuttavia le frange più estremiste della galassia palestinese non accettarono quell’intesa e si resero responsabili della strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973. Fu solo dopo quella tragedia che il cosiddetto Lodo Moro cominciò a diventare qualcosa di davvero strutturato e funzionante, grazie soprattutto al fondamentale lavoro di mediazione svolto del colonnello Stefano Giovannone, capo centro Sismi a Beirut, funzionario dei Servizi molto legato a Aldo Moro».

Credi che in futuro, come per esempio ha sostenuto il magistrato Rosario Priore, il Lodo Moro possa consentire di riscrivere parti della storia italiana?

«Riscrivere la storia è un’affermazione molto impegnativa. Diciamo che certamente consentirà di rileggere parte della storia della politica estera italiana degli anni settanta. Ti faccio un esempio; il 23 gennaio 1974 Moro di fronte alla Commissione Esteri del Senato pronunciò uno dei suoi discorsi più appassionati in favore dei palestinesi, affermando che essi non stavano cercando assistenza, ma una patria ed era perciò assolutamente necessario che finisse l’occupazione israeliana dei territori. Un intervento che, come dimostrano alcuni dispacci giunti dai nostri ambasciatori dalle capitali arabe, fu molto apprezzato e elogiato in gran parte del Medio Oriente. Con l’apparente paradosso che alcuni giorni dopo, quando Moro si trovava in visita al Cairo, fu lo stesso ministro degli Esteri egiziano, Ismail Fahni, a fargli presente che era andato perfino oltre nel suo sostegno all’Olp e che la questione di una patria per i palestinesi andava affrontata solo quando ci sarebbero state le condizioni opportune. Grazie al materiale documentale di cui oggi disponiamo, possiamo con ragionevole certezza affermare che quel discorso Moro lo pronunciò proprio nel contesto delle trattative riservate di quei giorni e che dovevano portare alla messa a punto definitiva del Lodo. Fu, in qualche modo, un segnale all’universo palestinese della reale disponibilità italiana, al fine di evitare che si potessero ripetere tragedie come quella di Fiumicino del precedente dicembre 1973. Questo è un esempio di cosa intendo quando affermo che i documenti sul Lodo Moro ci possono consentire di avere una ricostruzione più ampia della storia della politica estera italiana. Sono argomenti di cui ti parlo qui in modo sintetico, ma che spero in futuro di poter trattare ampiamente in un saggio specifico».

LA STRAGE DI VERGAROLLA E LA CULTURA ROSSO SANGUE DELLA SINISTRA COMUNISTA.

Vergarolla: la strage dimenticata che stroncò per sempre Pola italiana, scrive il 18/08/2018 Marco Fornasir su "Il Giornale". La strage di Vergarolla, avvenuta alle 14.15 di domenica 18 agosto 1946, è la più sanguinosa (circa 100 vittime) fra quelle dell’Italia repubblicana. Tenuta nascosta per oltre mezzo secolo, non viene conteggiata tra le stragi nazionali, ma come altre stragi del nostro Paese non ha ancora ottenuto una verità processuale. Forse adesso alcune associazioni di esuli cercheranno di ottenere l’attenzione della Commissione Stragi: si spera almeno in una verità parlamentare. Quel fungo disegnato da nuvole di fumo in una normale domenica estiva a Pola, tragicamente simile al fungo atomico di Hiroshima, ebbe sugli italiani che caparbiamente resistevano a Pola lo stesso effetto che ebbe sui giapponesi: resa incondizionata. Le conseguenze della strage di Vergarolla furono impressionanti: oltre ai 64 cadaveri identificati anche se disintegrati (di una signora fu ritrovato solo un dito con la fede, piccolo ma determinante dettaglio; di uno dei figli del dottor Micheletti – l’eroe di quei giorni, medaglia d’argento al Valor Civile – fu rinvenuta solo una scarpetta) ci furono circa una cinquantina di altri sventurati che persero la vita in quello scoppio. Probabilmente uomini e donne che scappavano dai territori istriani occupati dai titini e che non erano mai stati registrati come domiciliati a Pola per paura di ritorsioni contro le loro famiglie rimaste in zona B. Basandosi sulle ossa e i resti umani reperiti, il dottor Micheletti stimò insieme a un dottore inglese che i morti totali avrebbero potuto essere compresi tra 110 e 116. In una relazione ufficiale il dottor Chiaruttini dichiarò che ci furono circa 100 morti. La terra tremò per una vasta area e i vetri di molte case di Pola andarono in frantumi, come le speranze di mantenere Pola in territorio italiano. Purtroppo ancor oggi questo episodio difficilmente viene identificato come un attentato contro la popolazione italiana e, perfino dagli attuali vertici della Comunità italiana di Pola, viene derubricato a semplice incidente (nei discorsi ufficiali si cita solo: tragica fatalità, tragico incidente). In quel periodo a Parigi erano in corso i negoziati per definire lo status dei territori italiani in tutta la Venezia Giulia e in Dalmazia e l’italianissima Pola faceva sentire quasi quotidianamente la sua voce per manifestare la volontà di rimanere parte integrante, magari sotto forma di enclave, di una ancora acerba Repubblica Italiana o di far parte del Territorio Libero di Trieste. Quella strage fiaccò definitivamente il morale dei nostri connazionali, fino alla firma del Trattato di Parigi (10 febbraio 1947) e all’esodo. Tra i pochi testi che si sono occupati di questo eccidio, lo studio più approfondito che prende in esame tutti gli aspetti della tragedia è La strage di Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive (editore LCPE), dell’ex-direttore del mensile L’Arena di Pola Paolo Radivo, figlio di istriani. Con un grande sforzo di ricerca, Radivo compara gli articoli dell’epoca con i documenti successivamente rinvenuti e ulteriori testimonianze. Il corposo volume di Radivo potrà essere il testo-chiave in caso di una commissione d’inchiesta. Quella domenica d’agosto erano in programma le gare natatorie della Pietas Julia, evento che attirò sulla spiaggia di Vergarolla buona parte della gioventù italiana di Pola e dintorni. Al momento dell’esplosione (14.15) erano presenti sulla spiaggia solo italiani, per lo più giovanissimi con le rispettive famiglie.

A esplodere furono degli ordigni incustoditi di vario genere che erano stati disinnescati e accatastati sulla spiaggia. Per esplodere, quegli ordigni avrebbero dovuto essere nuovamente riattivati e poi innescati, quindi in nessun modo si trattò di un incidente ma di un vero e proprio attentato. Rosmunda Bronzin Trani vide un uomo vestito (cosa un po’ strana d’estate) che aggiuntava dei fili elettrici presso la catasta dei residuati. E’ probabile che quell’uomo, mai identificato, sia stato l’esecutore materiale della strage, magari utilizzando l’attrezzatura delle vicine miniere di carbone dell’Arsa. Terminate ufficialmente le ostilità, Pola era rimasta territorio italiano sotto amministrazione alleata. Il maresciallo Tito pretendeva di acquisirla nella neonata Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia e la Conferenza della Pace di Parigi era orientata in tal senso. Va sottolineato che il delfino di Tito Milovan Gilas, poi caduto in disgrazia, in una intervista rilasciata al quindicinale fiumano Panorama (21 luglio 1991) dichiarò: «Nel 1946 io ed Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana… bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto.» Pola fu annientata, il suo spirito e quello dei suoi abitanti fu completamente distrutto. Le autorità jugoslave incolparono subito il governo alleato di scarsa sorveglianza, mentre a Pola il muro di omertà ha coperto e continua a coprire mandanti ed esecutori. Da qualche anno spuntano testimonianze che portano inequivocabilmente nella direzione dell’attentato, ma ancora la prova regina non c’è (come non c’è per altre stragi più recenti). E fin qui niente di nuovo: anche se non hanno ancora un colpevole, per alcune si è arrivati alla definizione di mandanti ed esecutori analizzando la realtà socio-politica dell’epoca. Ma le altre stragi italiane (da piazza Fontana a Bologna, che fino ad oggi è considerata la più tragica con le sue 85 vittime) vengono celebrate con tutti gli onori e con ampia partecipazione delle istituzioni e delle forze politiche. E hanno comitati che pungolano le autorità a ricercare la verità, anche quando questa ricerca sembra vivere momenti di pausa.

Vergarolla, purtroppo, non gode del medesimo trattamento, come quasi tutte le vicende che riguardano il periodo sul finire della seconda guerra mondiale nei territori del confine orientale: nessun comitato delle vittime, nessun processo (se si esclude quello sbrigativo e inconcludente doverosamente cominciato dagli anglo-americani e finito in una sciatta archiviazione), nessun riconoscimento. Anzi, ogni anno alcune associazioni di esuli si recano a una messa a Pola il 18 agosto e subito dopo rendono omaggio alle vittime deponendo una corona sul cippo accanto al duomo che ricorda quella tragedia. Si sperava di poter aggiungere al cippo due lastre di marmo con i nomi delle vittime. Inizialmente le autorità di Pola sembrarono favorevoli, ma poi avvenne il voltafaccia: non solo nessuna aggiunta al cippo esistente, ma addirittura la rimozione del cippo stesso per motivi archeologici. E’ vero, alla cerimonia prendono parte il console generale italiano di Fiume e un rappresentante della Regione Friuli Venezia Giulia, quest’ultimo l’unico a parlare, nei discorsi ufficiali, di strage. La Comunità Italiana di Pola “subisce” questa cerimonia e, quando vi partecipa, continua a parlare di disgrazia, di tragica esplosione, di tragica fatalità. In un’Europa unita, che ha abolito i confini, sarebbe ora di abbattere anche quelli culturali e riconoscere reciprocamente fra gli Stati gli episodi che ancor oggi risultano controversi: non si può ammettere nel 2018 che su episodi come questo non si riesca ad avere una verità condivisa. Per questo c’è necessità di riaprire un processo che consenta alle vittime e ai loro congiunti di avere una verità processuale. Se ciò non sarà possibile, aprire un fascicolo presso la Commissione Stragi del Parlamento potrebbe essere l’inizio di un percorso che consenta di individuare autori e mandanti di quella carneficina.

Strage di Vergarolla: quando si usava il tritolo per cacciare gli italiani, scrive Marco Fornasir il 18/08/2016 su "Il Giornale". La strage di Vergarolla, avvenuta domenica 18 agosto 1946, è forse la più sanguinosa (circa 100 vittime) fra quelle dell’Italia repubblicana. Volutamente nascosta per oltre cinquant’anni, viene finalmente portata alla luce in tutti i suoi aspetti grazie al libro del direttore de L’Arena di Pola Paolo Radivo. Un’esplosione potente squarciò la spiaggia di Vergarolla alle 14:15 di domenica 18 agosto 1946. La terra tremò per una vasta area e i vetri delle case di Pola andarono in frantumi, come le speranze di mantenere Pola in territorio italiano. Sessantaquattro sono le vittime identificate e sepolte, ma circa cento persone furono spazzate via da quello che ancor oggi a fatica viene identificato come un attentato contro la popolazione italiana e, perfino dagli attuali vertici della Comunità italiana di Pola, viene derubricato a semplice incidente. Quell’esplosione, tragicamente simile al fungo atomico di Hiroshima, ebbe anche lo stesso effetto di quelle bombe micidiali. Si può dire che l’attentato di Vergarolla, come avvenne in Giappone, costrinse la popolazione alla resa: in quel periodo a Parigi erano in corso i negoziati per definire lo status dei territori italiani in Istria e in Dalmazia. L’italianissima Pola faceva sentire quasi quotidianamente la sua voce per manifestare la volontà di rimanere parte integrante di una ancora acerba Repubblica Italiana, magari sotto forma di enclave. Quella strage fiaccò definitivamente il morale dei nostri connazionali e da allora ci fu un lento e inesorabile abbandono di ogni speranza, fino alla firma del Trattato di Parigi (10 febbraio 1947) e all’esodo. A settant’anni di distanza, dopo alcuni libri che hanno riacceso le luci su quel grave e criminale episodio, è stato realizzato finalmente uno studio approfondito che prende in esame tutti gli aspetti della tragedia. Il volume è: La strage d Vergarolla (18 agosto 1946) secondo i giornali giuliani dell’epoca e le acquisizioni successive (editore Libero Comune di Pola in Esilio – LCPE), l’autore è il direttore del mensile L’Arena di Pola Paolo Radivo, figlio di istriani. Inoltre è stato realizzato, sempre con il contributo determinante dell’LCPE, il documentario di Alessandro Quadretti L’ultima spiaggia. Pola fra la strage di Vergarolla e l’esodo. Ambedue sono importanti strumenti per capire cosa è effettivamente successo in quella tragica domenica d’agosto. Il corposo volume di Radivo conta ben 648 pagine ed è uno studio completo sulla vicenda, il documentario riporta anche le testimonianze dei pochi testimoni sopravvissuti, forse l’ultima occasione di sentire dalle voci di chi c’era la verità dei fatti. Ma chi non ha mai sentito parlare di questa strage, per intenderci più sanguinosa di quella della stazione di Bologna, ha necessità di alcuni particolari e di inquadrare i fatti nel periodo storico. Terminate ufficialmente le ostilità, Pola era rimasta territorio italiano sotto amministrazione alleata. Il maresciallo Tito pretendeva di acquisire anche l’italianissima Pola nella neonata Repubblica Federativa Popolare di Jugoslavia (dal 1963 Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia) e la Conferenza della Pace di Parigi era in corso. Va sottolineato che il delfino di Tito Milovan Gilas, poi caduto in disgrazia, in una intervista rilasciata al quindicinale fiumano Panorama (21 luglio 1991) dichiarò: «Nel 1946 io ed Edward Kardelj andammo in Istria a organizzare la propaganda anti-italiana… bisognava indurre gli italiani ad andare via con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto.» In questo contesto si svolsero quella domenica di agosto le gare natatorie della Pietas Julia, evento che attirò sulla spiaggia di Vergarolla buona parte della gioventù italiana di Pola e dintorni, compresa la squadra del Centro Sportivo Proletario, filo-jugoslava, che vinse una delle gare e lasciò la zona verso l’ora di pranzo. Al momento dell’esplosione (14:15) erano presenti sulla spiaggia solo italiani, per lo più giovanissimi con le rispettive famiglie. A esplodere furono degli ordigni (di vario genere, per lo più bombe di profondità) che erano stati disinnescati e accatastati sulla spiaggia. Erano 12, 28 o 32, a seconda dei documenti del Governo Militare Alleato, e non potevano assolutamente esplodere da soli. Tanto che i ragazzini vi salivano a cavalcioni e le signore vi stendevano ad asciugare i teli da mare e i costumi da bagno. Per esplodere quegli ordigni avrebbero dovuto essere nuovamente riattivati e poi innescati, quindi in nessun modo si trattò di un incidente ma di un vero e proprio attentato. E la testimonianza di Claudio Bronzin, all’epoca un ragazzino, squarcia il muro di silenzio: ricorda che sua zia Rosmunda vide un uomo vestito (cosa un po’ strana d’estate) che aggiuntava dei fili elettrici presso la catasta dei residuati. E’ probabile che quell’uomo, mai identificato, sia stato l’esecutore materiale della strage, magari utilizzando l’attrezzatura delle vicine miniere di carbone dell’Arsa. Il risultato della strage fu impressionante: oltre ai 64 cadaveri identificati anche se disintegrati (di una signora fu ritrovato solo un dito con la fede, piccolo ma determinante dettaglio, di uno dei figli del dottor Micheletti fu rinvenuta solo una scarpetta) ci furono circa una quarantina di altri sventurati che persero la vita in quello scoppio. Probabilmente uomini e donne che scappavano dai territori istriani occupati dai titini e che non erano mai stati registrati come domiciliati a Pola per paura di ritorsioni contro le loro famiglie rimaste in zona B. Basandosi sulle ossa e i resti umani reperiti, il dottor Micheletti stimò insieme a un dottore inglese che i morti totali avrebbero potuto essere compresi tra 110 e 116. In una relazione ufficiale il dottor Chiaruttini dichiarò che ci furono circa 100 morti. Pola fu annientata, il suo spirito e quello dei suoi abitanti fu completamente distrutto. Le autorità jugoslave incolparono subito il governo alleato di scarsa sorveglianza, mentre a Pola il muro di omertà ha coperto e continua a coprire mandanti ed esecutori. Da qualche anno spuntano testimonianze che portano inequivocabilmente nella direzione dell’attentato, ma ancora la prova regina non c’è (come non c’è per molte altre stragi più recenti). Il nome che ricorre più frequentemente è quello di Ivan (Nini) Brljafa, un partigiano dell’Istria interna che a Pola ebbe poi anche qualche incarico locale dal governo jugoslavo. Brljafa si suicidò nel 1979 in seguito alla scoperta di un tumore ai reni, ma pare che lasciò un biglietto in cui confessava di aver agito su ordine di Albona (sede all’epoca di un comando dei servizi segreti jugoslavi). Altri testimoni raccontano che il giorno dopo il massacro due polesani avrebbero festeggiato insieme ai due attentatori in una trattoria di Monte Castagner, mentre dieci giorni dopo quattordici polesani brindarono alla strage in un’osteria di Monte Grande. Ma anche qui nessuna pistola fumante. Però, grazie al libro di Radivo che compara gli articoli dell’epoca con i documenti successivamente rinvenuti e ulteriori testimonianze, sono venuti alla luce numerosi elementi, soprattutto per quello che riguarda i movimenti delle truppe alleate e delle truppe titine in zona subito prima dell’attentato. E anche ciò che avvenne subito dopo viene esaminato in profondità. Inoltre vengono messi a fuoco molti dettagli che riguardano i soccorsi dopo l’esplosione, l’assistenza ai feriti e il penoso momento dei funerali cittadini. Tra tutti emerse la figura del dottor Geppino Micheletti (cugino del noto filosofo goriziano Carlo Michelstaedter) che operò consecutivamente fino a tarda sera tutti i feriti gravi, anche dopo aver saputo che i suoi figli Carlo e Renzo erano stati spazzati via dall’esplosione. Solo a tarda sera si recò a Vergarolla alla ricerca dei resti di uno dei due. Fu decorato con la medaglia d’argento al valor civile. Lui rimase a Pola fino al settembre 1947, quando partì per l’esilio, dicendo che mai avrebbe potuto curare qualcuno con il sospetto di curare un criminale coinvolto nella strage.

Rivelazioni. Istria 1946: a Vergarolla fu vera strage, scrive Lucia Bellaspiga, giovedì 12 giugno 2014 su "Avvenire". Il 18 agosto del 1946 è una domenica e a Vergarolla, la spiaggia di Pola, migliaia di polesi sono radunati per le gare di nuoto e l’anniversario della Pietas Julia, la società nautica cittadina, di chiaro orientamento patriottico. In quel momento gli eccidi e le foibe hanno già insanguinato Istria, Fiume e Dalmazia, ma da un anno a Pola un governo militare angloamericano protegge la città dai titini intanto che a Parigi le grandi potenze ancora discutono sul suo destino e ridisegnano i confini adriatici. Quel giorno, dunque, la popolazione assiste a una gara sportiva di forte valore filoitaliano, tantissimi sono i bambini, il caldo ha attratto nel bel mare istriano almeno duemila persone. È lì tra loro che alle 14.10 un’esplosione gigantesca letteralmente polverizza decine e decine di corpi (i soccorritori dovranno recuperare i poveri resti sugli alberi fino a grande distanza). Sulla sabbia giacevano da mesi residuati bellici che però erano stati disinnescati e più volte controllati dagli artificieri inviati dalle autorità anglo-americane: «Ormai facevano parte del paesaggio, ci stendevamo sopra i vestiti o mettevamo la merenda al fresco sotto la loro ombra», testimoniano oggi i sopravvissuti. Eppure qualcuno aveva riattivato quegli ordigni per farli esplodere esattamente quel giorno. Oggi possiamo scriverlo senza paura di essere smentiti dai negazionisti, che per decenni hanno parlato di 'incidente', perfino di autocombustione: a 70 anni dalla strage, due studi in contemporanea sono stati commissionati a storici super partes dal Libero Comune di Pola in Esilio (Lcpe, l’associazione che raccoglie tutti gli esuli da Pola) e dal Circolo Istria di Trieste, e le conclusioni cui i due storici sono addivenuti, pur divergendo su alcuni aspetti, concordano su un punto inconfutabile: fu strage volontaria. «È già un risultato epocale – commenta Paolo Radivo, direttore dell’Arena di Polae consigliere del Lcpe –: da molti anni ogni 18 agosto ci rechiamo a Vergarolla, oggi Croazia, per celebrare i nostri morti insieme alla comunità degli italiani rimasti a Pola». Lo scorso agosto l’onorevole Laura Garavini del Pd ha mandato un ampio messaggio e annunciato un’interrogazione parlamentare: «Era la prima volta». Aria nuova anche in Regione Friuli Venezia Giulia, dove la presidente Debora Serracchiani (Pd) inviò un suo contributo sulla mattanza che «per le modalità subdole con cui fu perpetrata e per la cortina di silenzio e travisamenti che a lungo la avvolse è uno degli episodi più cupi del dopoguerra». Se già qualche anno fa dagli archivi di Londra erano trapelati i primi indizi di un attentato volontario, tali elementi non erano ancora sufficienti. Così nei mesi scorsi William Klinger, massimo studioso italiano di Tito, si è recato negli archivi di Belgrado, mentre l’altro giovane storico, Gaetano Dato, ha consultato quelli di Zagabria, Londra, Washington e Roma. Sì, perché ciò che emerge chiaramente da entrambi gli studi è che per capire cosa avvenne su quella spiaggia bisogna guardare agli scenari mondiali: Vergarolla è il crocevia della storia moderna post bellica, la palestra in cui nasce la guerra fredda. «Klinger ha il merito di inserire la strage nella più generale politica aggressiva jugoslava contro l’Italia sconfitta ma anche contro i suoi stessi alleati anglo-americani», spiega Radivo. Già all’indomani della strage partirono due inchieste, una della corte militare e l’altra della polizia civile alleate, non a caso intitolate “Sabotage in Pola”, cioè nettamente orientate a negare l’incidente fortuito. Klinger non prova la responsabilità diretta della Ozna («negli archivi di Belgrado non ci sono i dispacci dell’epoca, l’ordine tassativo era di distruggere all’istante qualsiasi istruzione ricevuta »), ma racconta il contesto, la spietatezza della polizia di Tito, che controllava buona parte del Pci italiano e soprattutto in quel 1946 stava alzando il tasso di violenza in un crescendo di azioni, tant’è che sia gli americani che gli inglesi in documenti scritti lamentano col governo jugoslavo «le attività terroristiche e criminali». Inoltre sempre Klinger nota come all’epoca la stampa jugoslava desse conto di ogni minimo avvenimento, eppure non dedicò una sola riga a una strage terrificante: un silenzio quantomeno sospetto. Gaetano Dato spiega nei dettagli le dinamiche dell’esplosione: «Scoppiarono una quindicina di bombe antisommergibile tedesche e testate di siluro che erano state disinnescate, ma che con l’ausilio di detonatori a tempo furono riattivate». Dato avverte però che nella sua ricerca sceglie di «mettere da parte le memorie» dei testimoni, perché teme che «involontariamente selezionino una parte di verità, cancellando o modificandone altre», ma questo rischia a volte di essere il punto debole del suo lavoro di storico, che lascia aperte tutte le ipotesi: «Se devo dire la mia personale opinione – ci dice – fu una strage jugoslava, ma non posso tralasciare altre piste: quella italiana, con gruppi monarchici o fascisti che stavano organizzando la resistenza contro Tito, e quella di anticomunisti jugoslavi». Ma di entrambe, ammette, non ci sono prove. «È vero che all’epoca c’erano ancora italiani che intendevano combattere in difesa dell’italianità – commenta Radivo –, ma Vergarolla certo non aizzò i polesi a sollevarsi, anzi, ne fiaccò per sempre ogni istanza». Secondo Radivo, dunque, per comprendere i mandanti occorre vedere i risultati, «e questi furono la rinuncia a combattere per Pola italiana, con la fine di ogni manifestazione da quel giorno in poi, e mesi dopo la partenza in massa con l’esodo, ormai visto come unica salvezza. Ed entrambi i “cui prodest?” portano alla Jugoslavia». D’altra parte un’escalation di azioni precedenti hanno sbocco naturale proprio nei fatti di Vergarolla: nel maggio del ’45, già in tempo di pace, la nave Campanella carica di 350 prigionieri italiani da internare nei campi di concentramento titini cola a picco contro una mina e le guardie jugoslave mitragliano in acqua i sopravvissuti; pochi mesi dopo a Pola esplodono altri depositi di munizioni in centro città; nel giugno del ’46 militanti filojugoslavi fermano il Giro d’Italia e sparano sulla polizia civile; 9 giorni prima di Vergarolla soldati jugoslavi  assaltano con bombe a mano una manifestazione italiana a Gorizia; la domenica prima della strage una bomba fa cilecca sulla spiaggia di Trieste durante una gara di canottaggio: sarebbe stata un’altra carneficina... per la quale bisognerà attendere il 18 agosto. Negli archivi di Londra un documento attesta la «volontà espressa degli jugoslavi di boicottare qualsiasi manifestazione italiana, anche sportiva». Non scordiamo che il 17 agosto del ’46, il giorno prima, a Parigi si era chiusa la sessione plenaria della Conferenza di pace e stavano iniziando le commissioni per decidere sui confini orientali d’Italia: era una data topica e i giochi non erano ancora chiusi. «I polesi potevano ancora sperare che la città venisse attribuita al Territorio Libero di Trieste, sogno sfumato solo un mese dopo, il 19 settembre»: le istanze di italianità erano ancora vive e i titoisti dovevano annientarle.

COS’E’ IL GIORNO DELLA MEMORIA.

Cos'è il "giorno della memoria", scrive il 28 gennaio 2016 Lettera 43. Il 27 gennaio è il giorno della memoria, dedicato al ricordo delle vittime della Shoah. Nel novembre del 2005 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite istituì il giorno della memoria il 27 Gennaio di ogni anno. In questa data, nel 1945, le truppe dell’Armata Rossa liberarono il campo di concentramento di Auschwitz, dove per la prima volta, attraverso le scoperta del campo stesso e degli strumenti di annientamento e grazie alle testimonianze dei sopravvissuti, il mondo venne a conoscenza degli orrori del genocidio nazista. In Italia la giornata commemorativa era stata istituita nella stessa data cinque anni prima, su proposta del deputato Furio Colombo, che inizialmente proponeva di commemorare il genocidio il 16 Ottobre, in ricordo del rastrellamento del ghetto di Roma del 1943 in cui furono deportati oltre mille ebrei. Nel 1996 la Germania aveva scelto lo stesso giorno per commemorare le vittime del nazionalsocialismo. Nel campo di concentramento di Auschwitz furono uccise fra il 1942 e il 1945 oltre un milione di ebrei. Il campo ricopriva una superficie di 40 km quadrati, diviso in tre campi: Monowitz, il campo di lavoro, Auschwitz, il campo d concentramento, e Birkenau, adibito allo sterminio e diventato il simbolo della Shoah. Paola Sereni, per decenni preside della Scuola Ebraica di Milano, parla del valore di questa giornata.

«Il giorno della memoria fu istituito per ricordare la Shoah. Questo è il termine esatto per definire lo sterminio degli ebrei. Non Olocausto. Olocausto è una parola greco- latina che indicava un sacrificio religioso, talvolta anche volontario. Chiaramente, non è il più adatto a definire quanto è successo e il termine più adatto è Shoah, che più o meno significa sterminio.»

Parliamo del 27 gennaio.

«Il 27 gennaio è il giorno in cui l’armata russa liberò il campo di Auschwitz. C’è una scena stupenda all’inizio de "La Tregua" di Primo Levi, in cui l’autore descrive l’arrivo di quattro soldati russi a cavallo che dal bordo del campo, sbalorditi e distrutti da quello che vedevano, guardavano in giù verso il campo disseminato di cadaveri e esseri viventi più morti che vivi. Si può dire che l’orrore sia stato scoperto in quel momento, anche se in realtà qualcosa si sapeva già, e si sa anche che gli eserciti alleati e i russi non fecero niente per impedirlo. Non bombardarono mai i campi, o i binari che portavano ai campi, ad esempio. Non diffusero le notizie. Per cui si sapeva e non si sapeva, e lo sterminio continuò per anni. Il numero dei campi è impressionante. Guardando una mappa, si può vedere che tutta la Germania, buona parte della Polonia e dell’Austria sono ricoperte di segni che ne indicano la presenza. Non tutti erano campi di sterminio. Molti erano campi di concentramento, dove però ovviamente si moriva lo stesso: di freddo, di fame, di malattie, di indifferenza, di crudeltà, di tutto ciò che può provocare il vivere al freddo, ammassati uno sull’altro, in condizioni igieniche impossibili. Il significato è non solo quello di ribadire l’unicità di questo sterminio, che comprende un numero di vittime enormi che si aggira intorno ai 6 milioni. Si distingue da molti altri per aver eliminato non solo uomini o avversari politici, ma degli ebrei che avevano la sola colpa di essere nati ebrei. Oltre un milione e mezzo di bambini vennero uccisi senza motivo. Ti rendi conto di cosa significa? Bambini che, se non uccisi immediatamente, venivano sottoposti esami e esperimenti, gli venivano inoculate malattie per vederne il percorso. C’è una caratteristica di odio insensato e crudeltà gratuita. Tutti quelli che sono stati nei campi raccontano di aver subito inutili crudeltà, per esempio l’appello fatto in piedi al freddo ogni mattina e che durava ore, insulti, botte, separazione di madri dai figli. È un’organizzazione che, infatti, Primo Levi definisce una “logica perversa”, perché era tutto razionalmente organizzato ai fini della distruzione, ma anche della crudeltà. Tutto era concesso. Questo a mio avviso distingue questo avvenimento, l’inutile, cieca crudeltà, l’odio inculcato in tutti i seguaci di Hitler, perché non fu fatto da una persona ma da centinaia di migliaia, da milioni di persone assolutamente convinte e autorizzate ad esercitare ogni genere di vessazione. Non c’è una spiegazione razionale per quest’odio così terribile, che aveva portato a decidere nella riunione di Wansee del 1942, la soluzione finale, lo sterminio totale degli ebrei, che per fortuna non fu “finale”. Nonostante la strage immensa, Hitler non è riuscito nel suo intento di eliminare gli ebrei dalla faccia della terra.»

Com’è possibile che migliaia di persone si siano trasformate in dei mostri? E perchè gli ebrei non si ribellarono? 

«C’è stata un’opera di plagio e convinzione incredibile, che ha coinvolto un numero altissimo di persone. È difficile capire come il fanatismo e la propaganda serrata abbiano potuto persuadere così tutti questi individui. Ci si domanda perché gli ebrei non reagirono - che poi non è neanche vero che non lo fecero mai, potremmo parlare a lungo della rivolta del ghetto di Varsavia e nel campo di Sobibor - ma non potevano reagire, erano disarmati, inermi, morti di fame di fronte ad un esercito agguerrito e spietato. Come si poteva reagire? Ti tiravano giu dal letto, nella tua casa, e ti trascinavano, armati fino ai denti, via con loro. Chi reagiva veniva ucciso sul momento. Si può leggere al riguardo il bellissimo libro “16 ottobre 1943” di Giacomo Debenedetti, che racconta la razzia nel ghetto di Roma, in cui vengono portati via donne, bambini, vecchi, senza distinzione, senza che nessuno di questi soldati mostri la minima emozione di fronte ai pianti, al terrore e alla disperazione. Come si poteva reagire? Come potevano degli inermi, di fronte a soldati crudeli e armati fino i denti, reagire? La reazione venne a volte più tardi, come in qualche ghetto, in qualche campo, ma celebre è soprattutto la rivolta del ghetto di Varsavia, perchè ormai consapevoli di essere destinati alla morte, decisero di vendere cara la pelle e ribellarsi, e fu una cosa eroica, da cui nessuno uscì vivo. In Israele c’è un kibbutz, Yad Mordechay, che rievoca il nome del capo della rivolta del ghetto. Lì fu la forza della disperazione, erano così convinti che sarebbero morti che decisero di farlo combattendo. Ma altrimenti era impossibile, erano ridotti allo stremo. Come dice Primo Levi, “dovevano non solo uccidere la vita, ma calpestare la loro dignità”, la loro umanità, la loro personalità. Erano ridotti a pezzi, non erano persone, erano numeri, il numero che avevano stampato sul braccio. Erano "stucke", come dicevano i tedeschi, "pezzi". E allora mi sembra logica la commemorazione di una simile tragedia.»

L’antisemitismo esiste ancora?

«Purtroppo serpeggia ancora, non solo nel mondo arabo, ma anche al di fuori, spesso mascherato da sentimento anti israeliano. Ma Israele non rappresenta tutti gli ebrei. Israele è uno stato, che ha commesso anche una quantità di errori che è giusto criticare. Ma non criticarlo in quanto stato ebraico, criticarlo come si può criticare l’azione di qualsiasi paese. Invece l’antisemitismo moderno ha preso le forme di un sentimento anti-Israele. Ma non tutti gli ebrei sono israeliani. Sono italiani di religione ebraica, o francesi di religione ebraica. Non sono israeliani. Se volessero essere israeliani vivrebbero in Israele. Se non vivono lì è perché si sentono tanto ebrei quanto però appartenenti alla nazione in cui vivono. E questo sentimento (l'antisemitismo, ndr) è pericoloso, per cui bisogna cercare di spiegare ai giovani, e questo lo fanno i sopravvissuti come Liliana Segre quando vanno nelle scuole, che non esistono differenze fra un essere umano e un altro - e di fronte all’immigrazione siamo di nuovo posti davanti a questi problemi -. Ma soprattutto che non bisogna girare la testa da un’altra parte, come è stato fatto durante la deportazione, nell’indifferenza totale di quasi tutti gli altri. Certo, ci furono alcuni, che poi vennero definiti Giusti da Israele, che hanno corso anche dei rischi enormi per salvare delle vite. Ma fondamentalmente regnava l’indifferenza, e lo racconta benissimo Liliana Segre. Quando fu prelevata e messa su un pulmino e portata alla Stazione Centrale di Milano dalla sua casa in zona Magenta, passò in mezzo all’indifferenza totale. Nessuno si preoccupò di capire cosa succedesse. Arrivò alla stazione e non solo tedeschi, ma purtroppo anche italiani collaborazionisti la spinsero sul treno a calci e pugni. Per questo è giusto che se ne parli, per questo è giusto che i pochi sopravvissuti che sono rimasti spieghino ai ragazzi cosa è successo e insistano, per persuaderli, dicendo loro che non devono accettare nessuna disuguaglianza, non devono sentirsi superiori a nessuno, non disprezzare chi è diverso, non essere indifferente di fronte alle sofferenze degli altri. Devono cercare di essere uomini fra uomini uguali, di essere giusti. Per questo deve essere trasmesso questo duplice messaggio: da un lato il racconto reale di quello che è successo, perché è stato unico, crudele e ingiustificato, frutto di una lunga tradizione di antigiudaismo, anche cristiano, insensato e istintivo, che durò per secoli, alimentato dell’accusa di deicidio e culminato nel razzismo feroce di Hitler. Dall’altro un insegnamento che deve trasferirsi e aprire le coscienze. Ieri sera (il 26 gennaio, ndr) ho visto in tv l’intervista alla Boldrini, che era stata ad Auschwitz con 120 ragazzi, e diceva che dopo quella visita i ragazzi non erano più gli stessi. Avevano capito. A noi interessa che capiscano. Che capiscano cos’è la barbarie, capiscano cos’è l’ingiustizia, capiscano l’orrore della violenza gratuita, capiscano soprattutto cos’è l’indifferenza e quanto può essere terribile. Nel memoriale della Shoah di Milano c’è una grande scritta all’ingresso: “indifferenza”. Vuol dire che tutto ciò, la partenza dal binario 21 da cui partivano i convogli di ebrei per Auschwitz, avvennero nella totale indifferenza dei milanesi. Questo è il messaggio che deve passare: mai più indifferenza per i mali altrui, per le ingiustizie, le sofferenze gratuite di un gruppo, mai più sentirsi superiori agli altri, perché l’indifferenza è un modo per collaborare col male. Per questo secondo me la giornata della memoria ha un senso, ha importanza. In realtà è un incitamento alla vita. A una vita migliore, più giusta, più viva. Non è solo il ricordo o il racconto di stragi e di morti, ma soprattutto l’invito che non succeda mai più e che si cambi la mentalità.»

In uno dei libri più famosi sul genocidio nazista, “La Notte” di Elie Wiesel, l’autore, davanti ad un ragazzino impiccato, con tutti i prigionieri costretti ad osservare la sua agonia, si chiede “dov’è Dio?”. E la risposta che gli sale da dentro è terribile: “Dio è lì, appeso a quella forca”. Ecco, in che modo un ebreo risponde a questa domanda davanti a quanto successo?

«Non risponde, credo. Gli ortodossi sono arrivati alla conclusione, addirittura, in un certo frangente, che la Shoah fosse una punizione per aver contravvenuto alle regole delle Torah, ma in genere la domanda resta irrisolta. È una delle domande che ci porremo sempre: perché il male? Perché tanto dolore? È la domanda che si sono posti i filosofi per secoli: perché Dio permette il male? Ognuno risponda come vuole. Io non mi permetto.»

L'uso improprio della Shoah. Quando l'Olocausto diventa arma politica, scrive Bruno Giurato il 27 gennaio 2012 su Lettera 43. Il Giorno della memoria ci porta nel cuore di tenebra della storia europea e mondiale. I campi di concentramento sono stati raccontati come «il luogo della morte di Dio», come aberrazione dell'idea di progresso, come gorgo esistenziale da cui nessuno può tirarsi fuori. E come l'evento storico che ha distrutto per sempre l'idea atemporale di poesia e di bellezza. Tanto che il filosofo Theodor Adorno si chiedeva: «Ha senso fare poesia dopo Auschwitz?». Ma spesso il destino dei grandi intenti, delle grandi idee, è quello di finire ricoperti di melassa buonista, o peggio ancora essere usati come arma impropria (molto impropria) per pigliarsela con l'avversario di turno.

RISCHIO DI VOLGARIZZAZIONE. Alvin Rosenfeld, autorevole storico Usa, ha scritto un libro contro gli “usi impropri” della Shoah. Nel suo The end of the Holocaust ha denunciato i rischi di «volgarizzazione» e di «banalizzazione» della più grande tragedia del XX secolo. Mentre Valentina Pisanty ha pubblicato Negare, banalizzare, sacralizzare la Shoah, in cui punta il dito contro la «retorica celebrativa, consolatoria e autoindulgente» del Giorno della memoria. Prima di essere sommersi dalle foto dei campi di sterminio postate e condivise a catena dai nostri amici di Facebook, o dagli status con le lacrime agli occhi che troviamo su Twitter, e prima di trovarci senza accorgercene in una grande puntata di Uomini e donne, dove si piange in massa senza uno straccio di catarsi, forse è opportuno tornare ai classici.

«CHI È IL MIO EBREO?». Primo Levi in Se questo è un uomo racconta già dalle prime, rapide pagine, la dimensione infera del campo di concentramento: lo schizzare di urla e insulti e il tatuaggio che fa l'uomo numero. La quotidianità di un luogo dove «è vietato tutto», in cui per mangiare bisogna rubare e che, anche lavandosi la faccia con l'acqua fangosa, bisogna tenere coperta e gamella tra le gambe, perché gli altri internati sono pronti al furto.

IL CATTIVO VINCE SEMPRE. Levi, poi, spiega come l'uomo diventi cattivo coi suoi simili. Che i più cattivi, i più stupidi, i più crudeli diventano dei «Prominent». Racconta la condizione umana, oltre l'esempio dei campi di sterminio. In Sommersi e i salvati, per esempio, dove descrive la “zona grigia” fatta da coloro che nel sistema-lager sono conniventi, colpevoli senza parere. Praticamente tutti. Levi quindi non ci consegna solo pagine di memoria sulla Shoah, ma anche un modello umano ordinario fatto di crudeltà, un meccanismo di sopraffazione sempre attivo. E non solo ad Auschwitz. Quanto alle posizioni politiche, poi, quelle di Levi sono a prova di retorica: fu lui, ebreo, a dire, nel 1969: «Ognuno è ebreo di qualcuno». In occasione della ricorrenza ci sarebbe da domandarsi: «Chi è il mio ebreo personale?». Giusto per evitare di sentirsi troppo puri. Poi uno sfoglia le prime pagine dei giornali e si imbatte in titoli come quello de Il Giornale: «A noi Schettino, a voi Auschwitz». Oppure entra in Facebook e si trova davanti le foto di un bambino palestinese bruciato vivo dal fuoco israeliano, immagine usata dai filopalestinesi come arma politica. La mente va a quel Se non ora quando?, titolo di un libro di Levi diventato lo slogan di chi manifestava contro il Cav, altrimenti detto «Er Banana».

PRENDIAMOCELA CON VAURO. E ancora assiste a polemiche assurde come quella contro Vauro reo di aver tratteggiato la giornalista Fiamma Nirenstein con il fascio littorio e la stella di David. Il giornalista Peppino Caldarola in un articolo sul Riformista l'aveva subito attaccato, scrivendo che Vauro l'aveva disegnata come una «sporca ebrea». Vauro l'aveva querelato. E ha vinto la causa. Ma l'intellighenzia tutta si è rivoltata contro il vignettista toscano: Pierluigi Battista sul Corriere della Sera ha usato la questione per chiedersi «a che punto è l'antisemitismo in Italia». Nei panni di Battista forse ci preoccuperemmo più degli usi strumentali di un dibattito culturale, che trasforma una questione davvero importante in melassa, arma d'offesa politica. O magari in soggetto da barzelletta.

Shoah, l'Olocausto degli ebrei. A cura di Edoardo Angione su "studenti.it". Shoah, storia e significato dell'Olocausto, la persecuzione ed il genocidio degli ebrei avvenuto durante la Seconda guerra mondiale ad opera dei nazisti.

Significato della Shoah. La Germania nazista adottò "la soluzione finale" della questione ebraica nel 1942All’epoca della Repubblica di Weimar, quindi dal 1919 in poi, gli ebrei tedeschi si sentivano tedeschi a tutti gli effetti, ed erano riusciti ad avere successo e ad arricchirsi. Per i nazisti, gli ebrei erano un pericoloso nemico interno, colpevole di molti dei problemi che affliggevano la Germania. Non sappiamo se all’inizio la retorica di Hitlerfosse solo propaganda. Tutto quello che sappiamo è che dopo anni di atroci discriminazioni che rendevano la vita impossibile per gli ebrei tedeschi, nel 1942 la Germania nazista adoperò spazi, uomini e risorse per mettere in pratica ciò che i gerarchi nazisti avevano definito “la soluzione finale”: lo sterminio di tutti gli ebrei.    

Olocausto: forma di sacrificio in cui le vittime venivano interamente bruciate. Proprio in questi anni, in cui gli ultimi superstiti della Shoahhanno più di 80 anni, e strampalate teorie cospirazioniste negano l’esistenza stessa della Shoah, è importante ricordare lo sterminio di milioni di ebrei ad opera dei nazisti, un fenomeno reale e documentato, che avvenne nel cuore d’Europa in tempi neanche tanto lontani. Alcuni storici ed alcuni sopravvissuti hanno chiamato e chiamano tuttora questo fenomeno Olocausto, una parola greca, che fa riferimento a sacrifici praticati nell’epoca antica (in particolare da greci ed ebrei) in cui le vittime - agnelli, tori e capre - venivano bruciate per intero, esattamente come migliaia di ebrei, dopo essere stati giustiziati vennero bruciati dai nazisti nei forni crematori. I sacrifici venivano tuttavia praticati per motivi religiosi, per ingraziarsi una divinità o per espiare dei peccati, e nella Shoah non c’era nulla di religioso, né tantomeno nulla da espiare. Per questo motivo si preferisce oggi il termine Shoah, una parola biblica che significa "catastrofe". 

L’antisemitismo. Gli ebrei si emanciparono con la Repubblica di Weimar. L’antisemitismo, ovvero l’odio e la discriminazione nei confronti delle persone di fede e di famiglia ebraica, esisteva in Germania ed in Europa da molto prima dell’avvento del nazismo. Si trattava di un fenomeno antico, risalente al medioevo, ma che nel corso del XIX secolo si era andato acuendo, in particolare in Russia ed in Germania. Negli anni ‘20 del ‘900 tuttavia, con la Repubblica di Weimar, gli ebrei tedeschi avevano raggiunto ormai una libertà ed un’eguaglianza sociale totali, ed erano perfettamente integrati nel mondo lavorativo tedesco. Si trattava di una minoranza, corrispondente a circa l’1% della popolazione. Alcuni ebrei erano persone facoltose, inserite nell’alta borghesia, nel mondo degli affari, ma anche in politica e nelle arti. Gli ebrei tedeschi avevano combattuto nell’esercito tedesco durante la prima guerra mondiale, alcuni di loro avevano sposato tedeschi di origine non ebrea, alcuni avevano abbandonato la propria religione.  1933: Hitler scatenò una violenta propaganda contro gli ebrei. Adolf Hitler era riuscito a conquistarsi il favore dei tedeschi grazie alla propaganda, ed una delle armi della propaganda è quella di semplificare le cose, offrendo alle persone delle certezze facili. In questo caso, Hitler aveva convinto i tedeschi del fatto che la prima guerra mondiale era stata persa non per un complesso concorso di cause che tuttora, un secolo dopo, ancora studiamo. La realtà proposta dal nazismo era molto più facile: era colpa del tradimento e dell’intrigo dei politici, dei comunisti, e soprattutto degli ebrei. L’unico modo per tornare ad avere una Germania forte, ricca e rispettata internazionalmente, era la liquidazione di nemici interni: politici, comunisti, disfattisti, ed in particolare ebrei. Gli ebrei sarebbero stati colpevoli di aver inquinato la razza tedesca, che secondo le teorie del razzismo scientifico dell’epoca sarebbe stata destinata invece ad assumere un ruolo di comando nel mondo intero. 

Persecuzioni degli ebrei. La persecuzione contro gli ebrei iniziò quando Hitler conquistò il potere in Germania. Le persecuzioni contro gli ebrei nella Germania nazista iniziano non appena Hitler ottiene il potere.

Nel 1933 iniziano le prime violenze contro gli ebrei in Germania, spesso perpetuate ed organizzate dalle SA di Hitler.

Nel 1935 viene approvata una legge per la cittadinanza (leggi di Norimberga, a settembre), secondo la quale gli ebrei non sono più considerati cittadini tedeschi. Da questo momento non possono più votare e non possono più sposarsi con cittadini tedeschi. Nei negozi tedeschi spuntano i primi cartelli con scritto “gli ebrei non possono entrare”. Varie leggi discriminano gli ebrei in vario modo, impedendo loro, tra le altre cose, di uscire la sera, o di possedere una bicicletta.

Nel 1936 (marzo) viene proibito ai medici ebrei di praticare la propria professione negli ospedali pubblici tedeschi. Stesso discorso per gli avvocati e gli insegnanti. Naturalmente, il provvedimento riguarda anche i professionisti del futuro: gli ebrei non possono più ottenere l’abilitazione per questi titoli. 

Nel luglio del 1937 Monaco ospita una mostra di ‘arte degenerata’: un vero e proprio attacco rivolto dai nazisti all’arte moderna, ideato da Goebbels. Più che una mostra era una gogna, che metteva in ridicolo gli artisti contemporanei non conformi ai rigidi canoni nazisti, giudicando le loro opere il frutto di menti folli e malate. Naturalmente la colpa della ‘degenerazione’ veniva fatta ricadere sull’influsso ebraico. 

Notte dei cristalli, 9 novembre 1938: notte in cui vennero distrutte le vetrine dei negozi, sinagoghe e case degli ebrei. Una svolta decisiva si avrà il 9 novembre del 1938 con la Notte dei cristalli, un gigantesco pogrom pilotato dalle SS, durante il quale vengono devastati negozi gestiti da ebrei, sinagoghe e case per tutta la Germania, oltre che nei territori recentemente annessi (Austria e Cecoslovacchia). Da questo momento la pesante discriminazione civile si trasforma in persecuzione di massa, volta a rendere la vita degli ebrei impossibile, spingendo molti di loro ad emigrare. Secondo Hitler, e secondo la penetrante propaganda nazista, gli ebrei stavano spingendo i paesi stranieri a muovere guerra alla Germania. 

Il genocidio degli ebrei ed i campi di concentramento.

1939: gli ebrei vennero trasferiti nei ghetti nazisti con l'obiettivo di realizzare la "soluzione finale". L’inizio della seconda guerra mondiale, con l’invasione della Polonia, segna un deciso cambiamento di rotta nelle politiche dei nazisti a danno degli ebrei. Già dalla fine del 1939, dopo che hanno conquistato in modo fulmineo la Polonia, paese dove abitavano circa 3 milioni di ebrei, i nazisti iniziano a confinarli in ghetti. Si trattava di piccole aree completamente isolate dal mondo circostante, spesso recintate, dove gli ebrei venivano deportati ed obbligati a vivere in condizioni misere, senza la possibilità di lavorare. In polonia ed in Unione Sovietica i tedeschi avrebbero istituito più di 1000 ghetti. Si trattava di una misura provvisoria, in attesa di una strategia efficace per l’eliminazione totale. Un ghetto che è rimasto particolarmente famoso è ad esempio quello di Varsavia, che in meno di due chilometri quadrati ospitava 400.000 ebrei, che nella primavera del 1943 avrebbero organizzato un’insurrezione armata, soffocata sanguinosamente dai nazisti. Nei ghetti, gli ebrei erano costretti ad indossare segni di identificazione, come bracciali o targhette. Se da una parte l’ordine era fatto rispettare da una polizia interna, dall’altra i ghetti vedono numerose forme di resistenza, come l’introduzione di cibo, informazioni armi e medicine.

1941: il nazismo obbligò gli ebrei ad indossare segni di riconoscimento, una stella di David, per impedirgli di lavorare. Nell’autunno del 1941 gli ebrei, che dal settembre del ‘41 sono obbligati ad indossare una stella di David gialla cucita sugli abiti sin dall’età di 6 anni, non possono più emigrare dal Reich: tutti quelli che non erano riusciti ad andarsene prima si trovavano dunque in trappola, perché il 20 gennaio del 1942 ha luogo la Conferenza di Wannsee, presso una villa nell’omonimo quartiere di Berlino. A Wannsee si incontrano 15 importanti gerarchi delle SS, dello stato nazista e del partito nazista, per discutere del modo in cui sarebbe stata applicata la soluzione finale, nome in codice per l’eliminazione fisica sistematica degli ebrei d’Europa. Non viene auspicata un’unica soluzione, ma in generale da questo momento le politiche naziste sono apertamente indirizzate ad uno sterminio di massa degli ebrei. Vengono studiate strutture dedicate allo sterminio, approntate in luoghi come Auschwitz, dove gli ebrei saranno eliminati in massa attraverso metodi come le camere a gas. Altri prigionieri ebrei, organizzati in squadre speciali (Sonderkommando), avevano il compito di eseguire, tra le altre cose, la cremazione dei numerosi cadaveri in forni crematori industriali. Moltissimi altri prigionieri invece continueranno a perdere la vita nei campi di lavoro, obbligati a compiere sforzi disumani per sostenere l’economia bellica della Germania. Gli ebrei venivano deportati nei campi in Germania tramite le "marce della morte". Più tardi, nell’inverno tra il 1944 ed il 1945, mentre i Russi avanzeranno verso la Germania, le SS deporteranno gli ebrei russi verso i campi di concentramento ad ovest, all’interno dei confini della Germania. Molti di loro moriranno o saranno uccisi durante le devastanti marce che ricordiamo come marce della morte, e per molti di quelli che riusciranno a raggiungere i campi (come Bergen-Belsen, nella Germania occidentale), il destino non sarà migliore.  

Gli ebrei in Italia. La Repubblica di Salò guidata da Mussolini collaborava con i nazisti nella deportazione degli ebrei nei campi di concentramento. Nell’estate del 1943, dopo la caduta del regime fascista in Italia, Mussolini viene liberato dai nazisti e posto al comando di un nuovo regime fascista, la Repubblica di Salò, che sostanzialmente eseguiva direttive dei nazisti. Se l’Italia fascista era stata responsabile di persecuzioni e discriminazioni nei confronti degli ebrei, la Repubblica di Salò si ritrova a collaborare strettamente con i nazisti in vista della ‘soluzione finale’. A settembre iniziano gli arresti e le deportazioni sistematiche che avrebbero portato, secondo le stime degli storici, poco meno di 10.000 ebrei italiani ad essere deportati nei campi di concentramento e di sterminio nell’Europa centrale e orientale, ed in particolare ad Auschwitz, tra il settembre del ‘43 ed il febbraio del ‘45. Gli altri erano costretti a nascondersi per mesi. Piero Terracina è uno dei sopravvissuti al campo di concentramento di Auschwitz. Tra le tante testimonianze di ebrei italiani sopravvissuti ad Auschwitz (tra cui bisogna ricordare Primo Levi) abbiamo quella di Piero Terracina, uno degli ultimi sopravvissuti tuttora in vita (all’inizio del 2016), che nel 1944, quindicenne, viene arrestato e deportato insieme a tutta la sua famiglia. Sarà l’unico a sopravvivere. Terracina era stato cacciato dalla propria scuola nel 1938 in seguito alle leggi razziali, per poi iscriversi ad una scuola ebraica appositamente istituita, dove insegnavano numerosi professori a cui il fascismo non consentiva più di lavorare. Con l’occupazione tedesca, iniziata nel ‘43, la famiglia Terracina era stata costretta a nascondersi e a fuggire, senza ovviamente poter lavorare. Nel 1944, denunciati da un delatore, i Terracina vengono arrestati dalle SS. L’intera famiglia viene schedata, e dopo qualche giorno dal carcere di Regina Coeli viene deportata ad Auschwitz, prima in camion e poi in treno. Piero Terracina racconta di come, arrivati ad Auschwitz, suo padre, suo nonno e sua madre siano stati separati dai membri più giovani della famiglia, e mandati direttamente a morire nelle camere a gas, perché inadatti al lavoro. A questo punto, i prigionieri rimasti venivano denudati, rasati a zero e disinfettati, e gli veniva tatuata una matricola sul braccio sinistro, che da allora li avrebbe identificati, sostituendo i loro nomi e la loro vecchia identità. Piero Terracina era stato assegnato ad una squadra di scavatori che lavoravano senza sosta e senza acqua sotto al sole per 8-10 ore al giorno. Verrà liberato soltanto il 27 gennaio del 1945: pesava ormai 38 chili, e tutti i suoi familiari erano morti.

Le conseguenze. E' difficile stimare il numero preciso delle vittime in quanto parte della documentazione fu distrutta dai nazisti. Il termine ebraico Shoah, che si trova anche nella bibbia, significa una catastrofe, una tempesta devastante, e probabilmente non ci sono parole migliori per descrivere quella che fu una catastrofe non soltanto per gli ebrei, ma per tutta l’Europa e per tutto il mondo. Gli ufficiali nazisti non ci hanno lasciato documenti precisi con un conteggio delle vittime, e per questo motivo calcolare quante persone siano state uccise dai nazisti non è un compito facile per gli storici. Ci sono alcune buone ragioni per cui i documenti relativi alle vittime dell’olocausto sono scarsi: a partire dal 1943, quando si inizia a temere che i paesi dell’Asse avrebbero perso la guerra, buona parte della documentazione raccolta riguardo alle vittime inizia ad essere distrutta dai nazisti, che immaginavano che al termine della guerra ci sarebbero stati dei processi. Soltanto con la fine della seconda guerra mondiale i paesi vincitori iniziano ad impiegare personale incaricato di contare le vittime del nazismo.  Per calcolare i danni bisogna affidarsi a stime e calcoli demografici. Per arrivare alle stime attuali, sono state utilizzate fonti di vario tipo, comprendenti non soltanto archivi nazisti e censimenti, ma anche indagini compiute alla fine della guerra, ed in particolare studi demografici. I dati riguardano esclusivamente vittime civili e disarmate. Secondo queste stime, gli ebrei sterminati sistematicamente dai tedeschi per motivi razziali ammontano a circa 6 milioni di persone. Bisogna aggiungere a questa cifra circa 200.000 zingari, e circa 250.000 disabili. I civili sovietici che possiamo considerare vittime del nazismo ammonterebbero a circa 7 milioni, ai quali andrebbero aggiunti 3 milioni di prigionieri di guerra. I polacchi sono circa 1,8 milioni, i cittadini serbi 312.000. I criminali comuni uccisi dal nazismo, che includono anche i cosiddetti ‘asociali’ (tra cui anche migliaia di omosessuali) sono circa 70.000.   Alcuni leader del Nazismo furono processati a Norimberga tra il 1945 e il 1946. Non erano mancati alcuni tentativi di reazione da parte degli ebrei, come ad esempio una rivolta nel ghetto di Varsavia nel 1943. Alcuni ebrei vennero salvati grazie all’eroismo e all’altruismo di alcune persone, ebree e non: un ottimo esempio è quello raccontato nel film Schindler’s List. Dopo la guerra, alcuni tra i principali leader del nazismo vengono processati a Norimberga (1945-1946). Tra le prove utilizzate nei processi c’erano alcune copie di carte d’archivio ottenute dall’esercito americano, inglese e sovietico.  

Interpretazioni della shoah: i motivi del genocidio. Il termine genocidio indica l'uccisione di un'intera popolazione senza distinzioni di età, razza e religione. Il termine "genocidio" viene utilizzato ufficialmente per la prima volta nel 1946, mentre i dirigenti della Germania nazista venivano processati a Norimberga per crimini contro l’umanità. Lo sterminio di circa due terzi degli ebrei che abitavano l’Europa è considerato appunto un genocidio, ovvero l’uccisione deliberata di un intero popolo, senza distinzioni di età, sesso, opinioni o religione. Non si tratta dell’unico genocidio della storia: soltanto nel ‘900 c’è stato quello degli armeni in Turchia durante la Prima Guerra Mondiale. Per molti storici anche la deportazione di milioni di contadini (e spesso di intere popolazioni) compiuta da Stalin tra gli anni ‘30 e gli anni ‘40, comportando veri e propri stermini, è un genocidio. Uno degli ultimi grandi genocidi del ‘900 è poi quello compiuto dalla dittatura comunista in Cambogia tra 1975 e 1976. Ma i casi non mancano neanche andando indietro nella storia: basti pensare allo sterminio degli Incas e degli Aztechi nelle americhe, o a episodi come la crociata contro gli Albigesi nella Francia del Medioevo. Cos’è dunque a rendere unica la shoah? Stabilire una classifica di quale sia stato il peggiore sterminio di massa di popolazioni inermi (inclusi i bambini) nella storia è assolutamente inutile. Forse è importante però ricordare come ciò che rende unica la ‘soluzione finale’ teorizzata dai nazisti è il suo carattere sistematico e pianificato. Nel cuore della civilissima Europa, nel periodo in cui gli europei si consideravano i popoli più ‘avanzati’, sia tecnologicamente che culturalmente, di tutto il mondo, Hitler ed il nazismo pianificavano la cancellazione totale di tutti gli ebrei dalla faccia della terra. Hitler teorizzava la distruzione degli ebrei già prima di salire al potere. Un altro fattore incerto e che in qualche modo divide gli storici è la decisione di sterminare gli ebrei. Secondo gli intenzionalisti già dal 1920, nascita del partito nazista, lo sterminio era deciso. Secondo i funzionalisti invece la shoah è il frutto di una serie di avvenimenti successivi al 1933, che avevano portato il regime nazista a radicalizzarsi e ad andare oltre quelli che erano i piani originari. Oggi si tende ad adottare una posizione intermedia, che tiene conto del ruolo fondamentale di Hitler nel teorizzare la distruzione degli ebrei già da prima degli anni ‘30, ma senza dimenticare come le decisioni, a partire dal 1933, vengono prese in stretta connessione con gli eventi della seconda guerra mondiale. La ricerca e le testimonianze dei sopravvissuti permettono di non dimenticare questi episodi drammatici. In ogni caso, grazie alla ricerca e alla testimonianza dei sopravvissuti (gli ultimi dei quali stanno sparendo in questi anni), tra cui spicca l’opera di Primo Levi (Se questo è un uomo, del 1947, e I sommersi e i salvati, del 1986), oltre che alla presenza di film, documentari e serie televisive, il negazionismo, tuttora diffuso (in particolare in rete) non ha intaccato il posto centrale che lo sterminio degli ebrei ha assunto nella memoria collettiva. 

Concetti chiave

Le origini dell'antisemitismo. L’antisemitismo era un fenomeno antico, ma era incrementato in modo particolare nell’Europa dell’800. Negli anni ‘20 del ‘900, gli ebrei tedeschi si erano emancipati, riuscendo a prosperare e ad inserirsi in pieno nella Germania della Repubblica di Weimar. Facendo proprie una serie di teorie provenienti dal razzismo scientifico in voga tra 800 e 900, Adolf Hitler individua negli ebrei il principale nemico della nazione e della razza germanica.

La persecuzione degli ebrei in Germania. Con l’invasione della Polonia (settembre del ‘39), il nazismo inizia a rinchiudere in ghetti gli ebrei dei territori conquistati, obbligandoli ad indossare segni di riconoscimento, impedendo loro di lavorare:

Nel ‘41 gli ebrei non possono più emigrare dalla Germania;

Il 20 gennaio del ‘42 viene discusso il modo in cui applicare la soluzione finale;

Nel corso dell’anno vengono approntate le prime strutture per lo sterminio;

Nell’inverno tra 1944 e 1945, con l’avanzata russa, gli ebrei vengono deportati nei campi in Germania tramite le marce della morte.

Persecuzione degli ebrei in Italia. La Repubblica di Salò instaurata nel settembre del ‘45, collabora strettamente con gli occupanti tedeschi nell’arresto e nella deportazione sistematica di ebrei italiani. 10.000 di loro saranno deportati nei lager, in particolare ad Auschwitz, tra il settembre del ‘43 ed il febbraio del ‘45.

Le vittime del nazismo. Al termine della guerra, i nazisti hanno distrutto moltissimo materiale relativo alla “soluzione finale”, ed in generale agli stermini compiuti nei lager. Per calcolare i danni bisogna affidarsi a stime e calcoli demografici. Le stime più affidabili indicano circa 6 milioni di ebrei uccisi. Altre vittime del nazismo sono 200.000 zingari, 250.000 disabili, decine di migliaia di detenuti politici e di asociali. I principali leader del nazismo saranno processati per questi crimini di guerra a Norimberga tra il 1945 ed il 1946, sulla base di prove ottenute da carte d’archivio.

Diverse interpretazioni della Shoah. Il genocidio degli ebrei è stato un fenomeno pianificato dall’alto e portato avanti in modo sistematico, esclusivamente su base razziale. Hitler aveva già teorizzato lo sterminio degli ebrei da prima di andare al potere, ma allo stesso tempo gli eventi della guerra hanno influenzato le decisioni del regime. La ricerca degli studiosi e la testimonianza dei sopravvissuti alla Shoah ci permettono di non dimenticare questi episodi drammatici della nostra storia.

Pesci nel Mar Morto come nella Bibbia. "È la profezia di Ezechiele che si compie". L'immagine scattata da Noam Bedein per il Dead Sea Revival Project mostrerebbe pesci nel Mar Morto. Un fotoreporter israeliano dice di aver fotografato pesci nuotare nello specchio d'acqua più salato al mondo: è la prima volta. La circostanza è riportata nella Bibbia e sarebbe presagio della fine del mondo, scrive Nicolò Delvecchio l'8 ottobre 2018 su "La Repubblica". Immaginare vita nel Mar Morto non è cosa semplice, soprattutto per chi ha visitato il lago della depressione più profonda della Terra, a 400 metri al di sotto del livello del mare. Già nel 2011, però, alcuni ricercatori avevano scoperto che le doline - una sorta di conche - di acqua dolce sul suo fondo producevano numerose forme di vita, prevalentemente batteri. Ma ora la scoperta del fotoreporter israeliano Noam Bedin andrebbe oltre. Il fotografo del progetto Dead Sea Revival Project, avrebbe infatti immortalato dei pesci nuotare nel Mar Morto. Una circostanza che sarebbe oscuro presagio di una profezia biblica, raccolta da Ezechiele, per cui al ritorno della vita in quell'area sarebbe corrisposta la fine del mondo. "Il Mar Morto è tutt'altro che morto. È l'ottava meraviglia del mondo", ha detto. Lo stesso Bedin ha spiegato il fenomeno come la realizzazione della profezia di Ezechiele. "Venite sul Mar Morto e osservate la profezia che si compie!", ha detto. Per la Bibbia, infatti, l'area intorno al lago sarebbe stata in passato una delle più fertili della regione, fino alla distruzione di Sodoma e Gomorra che ne ha cambiato per sempre i connotati rendendola arida e priva di vita. "Allora Lot alzò gli occhi e vide che tutta la valle del Giordano era un luogo irrigato da ogni parte - prima che il Signore distruggesse Sòdoma e Gomorra -; era come il giardino del Signore, come il paese d'Egitto, fino ai pressi di Zoar” (Genesi 13:10). Per la profezia, un giorno dell'acqua proveniente dall'est avrebbe ricoperto tutta la regione, riportando la vita nel mare e nel deserto circostante: "Mi disse: «Queste acque escono di nuovo nella regione orientale, scendono nell'Araba ed entrano nel mare: sboccate in mare, ne risanano le acque. Ogni essere vivente che si muove dovunque arriva il fiume, vivrà: il pesce vi sarà abbondantissimo, perché quelle acque dove giungono, risanano e là dove giungerà il torrente tutto rivivrà". (Ezechiele 47:8-9), e ancora: "Lungo il fiume, su una riva e sull'altra, crescerà ogni sorta di alberi da frutto, le cui fronde non appassiranno: i loro frutti non cesseranno e ogni mese matureranno, perché le loro acque sgorgano dal santuario. I loro frutti serviranno come cibo e le foglie come medicina" (Ez. 47:12). Nonostante il taglio mistico dato al fenomeno, è proprio l'abbassamento del livello dell'acqua uno dei punti su cui Bedin cerca di sensibilizzare l'opinione pubblica. "Il Mar Morto offre scenari spettacolari grazie alle sue costruzioni di sale, ma ogni giorno perde l’equivalente di 600 piscine olimpiche di acqua, una vera e propria catastrofe ambientale”, ha detto. “La prossima generazione non potrà godere del Mar Morto come lo conosciamo oggi". Negli ultimi due anni il giornalista ha documentato i cambiamenti e i fenomeni geologici del lago con dei tour in barca per educare i visitatori sullo stato dei cambiamenti del bacino. In passato fiumi e torrenti, in particolar modo il Giordano, riversavano le acque dolci nel Mar Morto, che è diventato così salato perché l'acqua, evaporando, rilasciava sul suolo sali minerali disciolti che si accumulavano. Questo ha impedito che forme di vita più grandi, come i pesci, sopravvivessero. Negli anni Cinquanta però le autorità di Amman hanno deviato il corso del Giordano per raccogliere acqua potabile, e questo ha causato il drastico abbassamento del livello dell'acqua del lago che continua a diminuire per più di un metro all'anno. Un progetto per risolvere il problema potrebbe essere quello dell'impianto di desalinizzazione sul Golfo di Aqaba, che permetterebbe alla Giordania di ottenere acqua potabile dal Mar Rosso e di riaprire la diga del Giordano verso nord. Problemi politici hanno però bloccato il progetto, e l'impianto è in fase di stallo. Nel frattempo, lo stillicidio del Mar Morto continua. E non sarà qualche pesce a fermarlo.

L’ANTISEMITISMO DELLA SINISTRA.

Il filosofo Finkielkraut: “Ma quale populismo, il pericolo viene dal salafismo”, scrive Eugenio Palazzini il 20 Febbraio 2019 su ilprimatonazionale.it. Il caso del filoso francese Alain Finkielkraut, aggredito verbalmente a Parigi, è stato particolarmente pompato dai media come monito contro il populismo. Quest’ultimo d’altronde, secondo la vulgata politicamente corretta, reca in sé tutti i mali possibili: razzismo, intolleranza, barbarie e antisemitismo. Intervistato stamani da Repubblica, Finkielkraut ha però smontato questa teoria utilizzata ad arte per contrastare un fenomeno politico che i benpensanti di turno non riescono a digerire perché mette in discussione tutte le loro certezze. “Alcuni manifestanti si sono avvicinati per propormi di entrare nel corteo e indossare il gilet giallo, non so se fossero sinceri o ironici, comunque non erano ostili”, racconta il filosofo francese al quotidiano fondato da Scalfari. “Erano in tanti, urlavano forte. Ho capito solo che era meglio andarsene perché rischiavo di essere linciato. Se non ci fossero stati i poliziotti mi avrebbero spaccato la testa. Detto questo, non mi sento né vittima né martire”. Incalzato dalle domande della giornalista di Repubblica, Finkielkraut racconta poi come e da chi è stato insultato: “Solo dopo, rivedendo le immagini, ho ricostruito che non si sente ‘sporco ebreo’ ma ‘grossa merda sionista’, ‘razzista’, ‘fascista’. Un uomo ha urlato: ‘La Francia è nostra’. Qualcuno penserà alla citazione del vecchio slogan nazionalista antisemita ‘La Francia ai francesi’. Non credo. L’uomo aveva la barba, la kefiah, il governo l’ha identificato come qualcuno vicino ai salafiti. Il senso era: ‘La Francia è la terra dell’Islam‘. Questo insulto deve farci riflettere”.

Salafiti e sinistra radicale. In effetti dovrebbe far riflettere, soprattutto chi come Repubblica punta sovente il dito sul ‘pericolo fascista’ in Europa. Non a caso la giornalista del quotidiano italiano chiede a Finkielkraut se a suo avviso “il movimento dei gilet gialli non è piuttosto infiltrato dall’estrema destra”. La risposta del filoso è abbastanza emblematica: “Esiste un vecchio antisemitismo in stile anni Trenta che si ricicla oggi. Tutti continuano a ripetere la frase di Brecht: "Il ventre che ha partorito la bestia immonda è ancora fecondo". Ed è vero, ma oggi la Bestia Immonda esce anche da un altro ventre. Gli ebrei sono il primo bersaglio di una convergenza delle lotte tra la sinistra radicale antisionista e giovani di banlieue vicini all’islamismo”. Finkielkraut va poi oltre e spiega perché a suo modo di vedere è assurdo dividere la politica in buoni e cattivi: “Posso contribuire all’analisi del problema, dicendo ad esempio che la soluzione non è la contrapposizione tra un’Europa progressista aperta e un’Europa chiusa, populista e nazionalista. L’ho anche detto a Macron quando mi ha chiamato sabato”. Il filosofo chiarisce poi la sua posizione sul popolismo: “Non conosco abbastanza bene la situazione in Italia, ma sono convinto che bisogna rispettare la libertà e la saggezza dei popoli europei quando rifiutano di aderire a una visione multiculturale della società. Liquidare l’attuale governo italiano con il termine "lebbra nazionalista" è stato un grave errore di Macron”.

Il ruolo dei gilet gialli. E sui gilet gialli, Finkielkraut non è affatto tranciante: “Penso ancora che ci sia qualcosa di positivo. Grazie alla casacca fluorescente è diventata visibile la Francia rurale, delle periferie lontane. Sono i perdenti della globalizzazione e dello Stato sociale. Purtroppo il movimento è stato corrotto dal successo mediatico”. Ma il filosofo francese anche su chi manifesta contro l’antisemitismo ha qualcosa da dire: “Sono commosso dai tanti messaggi di solidarietà che ho ricevuto. Ma quando vedo che alla manifestazione contro l’antisemitismo non è stata invitata Marine Le Pen, nonostante abbia preso le distanze da suo padre, mentre è presente la sinistra radicale che ha messo tutti i problemi dell’islamismo nelle banlieue sotto al tappeto, mi dico che c’è ancora molta strada da fare”. Eugenio Palazzini

“Chi attacca Finkielkraut vuole una Francia senza ebrei”. Parla Robert Redeker. Il professore di Filosofia di Tolosa che, nel 2006 dopo la lectio di Papa Benedetto XVI a Ratisbona, venne condannato a morte, al Foglio: “L’antisemitismo è l’autodistruzione dell’occidente”, scrive Giulio Meotti il 19 Febbraio 2019 su Il Foglio. “Alain Finkielkraut è un pensatore essenziale e rappresenta il popolo della Francia molto più degli ubriachi che gli urlavano in faccia ‘siamo il popolo’”, ha detto ieri al Figaro Robert Redeker. “E’ un momento di fusione tra il vecchio antisemitismo e il nuovo, sempre più forte, del tipo islamo-goscista, in cui l’antisionismo spesso nasconde l’antisemitismo”. Sabato, durante una manifestazione dei gilet gialli a Parigi, contro Finkielkraut sono fioccati insulti del tipo “sporco sionista di merda”, “Palestina”, “ebreo di merda”, “tornatene a Tel Aviv” e “Dio ti punirà” (uno degli aggressori identificati dalle forze dell’ordine gravitava nella galassia dell’islam radicale). “Era un miscuglio di giovani della periferia – ha detto poi Finkielkraut – dell’estrema sinistra e forse di soraliani”, dal nome dell’agitatore di estrema destra che raduna sotto di sé anche la sinistra complottista. L’aggressione è avvenuta sullo sfondo di un boom di episodi antisemiti, che nel 2018 in Francia sono stati 541, il 74 per cento in più rispetto all’anno precedente. C’è chi ha minimizzato l’attacco all’accademico figlio di ebrei polacchi e che siede fra gli “immortali” dell’Académie française, la prestigiosa istituzione fondata dal cardinale Richelieu nel 1635. “Alain Finkielkraut ha diffuso l’odio in Francia, contro i giovani nei sobborghi, contro i musulmani, contro l’istruzione nazionale”, ha twittato Thomas Guénolé, un politologo vicino alla sinistra di Jean-Luc Mélenchon. L’avvocato vicino all’ex presidente Hollande, Jean-Pierre Mignard, ha detto invece che “Finkielkraut è un apologeta del conflitto”. “Al momento c’è un clima molto malsano in Francia”, dice Robert Redeker al Foglio. Lui è il professore di Filosofia di Tolosa che, nel 2006 dopo la lectio di Papa Benedetto XVI a Ratisbona, venne condannato a morte e costretto a nascondersi in Francia da una fatwa islamista. Redeker, il cui libro “L’eclissi della morte” uscirà in Italia per la Queriniana alla fine di marzo, ci spiega che non è un caso che l’aggressione antisemita a Finkielkraut sia avvenuta negli stessi giorni del boom di attacchi alle chiese. “L’antisemitismo e l’anticattolicesimo sono virulenti. Ci sono stati diversi attacchi questa settimana alle chiese. E ci sono molti atti antisemiti. Credo che questi due tristi fenomeni siano collegati. L’antisionismo è la stessa cosa dell’antisemitismo. Questi insulti vogliono dissociare gli ebrei e la Francia. Vogliono far credere che gli ebrei siano un corpo straniero in Francia. Ma mentre è un argomento tradizionale per l’estrema destra, ora si trova sulla bocca dell’estrema sinistra, come in questa aggressione contro il mio amico Finkielkraut. L’antisionismo ricicla l’accusa degli anni Trenta in cui si respingevano gli ebrei come coloro che non hanno posto in Francia. Questo è il nuovo antisemitismo islamo-goscista. Non si nasconde più. E’ una fusione di tre elementi: l’antisemitismo tradizionale di estrema destra, l’anticapitalismo di estrema sinistra (il famoso ‘socialismo degli imbecilli’) e l’islamismo”. Cosa sta succedendo nella patria dei Lumi? “La Francia è afflitta da un accumulo di odii. Non dobbiamo dimenticare l’odio di sé dimostrato da un virulento anticattolicesimo, molto presente nella casta dei media, nell’educazione, e che, ovviamente, non infastidisce gli islamisti. Questo violento anticattolicesimo, che non confondo con la laicità, indebolisce enormemente la salute del nostro paese. L’antisemitismo e l’anticattolicesimo in occidente sono una guerra contro le Scritture (i vangeli, l’Antico testamento), quindi credo anche alla letteratura e alla cultura in generale. Un attacco alla cultura del libro. Questo fenomeno è ovviamente un’autodistruzione dell’occidente. L’antisemitismo è il segno di una civiltà che non ha più fiducia in sé stessa. Gli ebrei sono al centro dell’identità francese. L’antisemitismo è quindi un attacco alla Francia. Il nuovo antisemitismo islamico di sinistra è l’arma di questo suicidio dell’occidente”. In una intervista al Point, il sociologo Danny Trom, autore di un libro appena uscito sulla fine dell’ebraismo europeo, ha detto che “il processo di emigrazione farà il suo corso, completando la partenza degli ebrei dell’Europa che iniziò alla fine del XIX secolo e culminato nell’Olocausto”. Conclude Robert Redeker al Foglio: “La Francia senza gli ebrei è qualcosa di impensabile. Sarebbe la sua morte”.

Antisemitismo: il rischio di una fusione tra movimentismo rosso-bruno e islam. L’antisemitismo come sintomo di una malattia ben più grave. Ecco perché in Europa dovrebbe suonare ogni tipo di campanello d’allarme, scrive Maurizia De Groot Vos su rightsreporter.org il 20 Febbraio 2019. Cimiteri ebraici deturpati e vandalizzati con svastiche, ristoranti kosher e negozi gestiti da ebrei marchiati con la parola “juden”, attacchi a chi porta la kippah un po’ ovunque. Solo in Francia nel 2018 gli attacchi antisemiti sono aumentati del 74% rispetto all’anno prima, 541 attacchi nel 2018 contro i 311 del 2017. Non è chiaro se ci sia una correlazione tra il fatto la Francia ospiti la comunità ebraica più grande d’Europa, la seconda a livello mondiale dopo quella americana, con il fatto che sempre in Francia vi sia la più grande comunità islamica in Europa, circa l’11% della popolazione. Ma i sospetti sono molto forti anche perché, considerando l’intero continente, si è appurato che gli attacchi antisemiti crescono maggiormente in quei paesi dove la presenza islamica è più elevata. Ma c’è un altro fattore da non sottovalutare che sfugge da molte delle logiche del passato. Mentre nel recente passato gli attacchi antisemiti e le provocazioni quali il negazionismo e il revisionismo, provenivano principalmente dalla destra estrema, oggi la più attiva in termini di antisemitismo è la sinistra estrema o quei movimenti non chiaramente identificabili con un colore politico che racchiudono però il peggio dei due estremismi. Qualcuno li chiama “movimenti rosso-bruni” proprio perché racchiudono il peggio della destra e della sinistra, il peggio del comunismo e del fascismo. In realtà questi movimenti rappresentano una nuova tendenza politica in forte espansione in tutto il continente europeo, movimenti che nascono approfittando del crescente malessere che serpeggia tra le classi più deboli e che sfocia molto spesso in atti di violenza che per fortuna sono (ancora) nella maggioranza verbali e confinati nei social. Ma passare dai social alle strade il passo è breve. Quello che sta accadendo in Francia lo dimostra ampiamente.

Il rischio di una fusione tra movimentismo rosso-bruno e islamismo. Premesso che, come già detto in altra occasione, l’antisemitismo non ha un colore politico ben definito e identificarlo solo nella destra e nella sinistra estrema sarebbe riduttivo, il movimentismo rosso-bruno sembra attirare molto l’islamismo. Successe la stessa cosa durante l’ascesa del nazismo quando a spingere Hitler verso la soluzione finale fu, tra gli altri, il Gran Mufti di Gerusalemme, Amin al-Husseini. Quando sento parlare di “ritorno del fascismo o del nazismo” non sono però troppo convinta che sia la terminologia giusta. Il movimentismo rosso-bruno è qualcosa di diverso proprio perché naviga in un limbo dove può raccogliere il peggio della destra e della sinistra, gente che deve trovare un nemico comune per avere un senso di comunità.

E quale miglior nemico se non gli ebrei? Quale miglior nemico se non quello che da sempre è la valvola di sfogo dei peggiori istinti che la razza umana abbia mai concepito? In una recente intervista Iddo Netanyahu, fratello del Premier israeliano, ricorda che l’antisemitismo è una malattia mentale da cui non si guarisce. La cosa mi convince solo in parte. L’antisemitismo non è una malattia ma un sintomo, il primo sintomo di quella malattia che nel secolo scorso portò alla Shoah, una malattia alla quale non puoi dare un nome preciso perché in se racchiude quanto di peggio la natura umana abbia mai concepito e che se proprio dobbiamo identificare potremmo racchiudere nella parola “prevaricazione”. La prevaricazione della razza ariana che era alla base del nazismo la possiamo tranquillamente paragonare alla prevaricazione religiosa che è alla base dell’islamismo. Il concetto di “eliminazione fisica” del cosiddetto “nemico del popolo” portato avanti da Hitler è lo stesso concetto usato dal movimentismo rosso-bruno e dall’islamismo, anche se in quest’ultimo caso viene interpretato con “nemico dell’islam”. Ecco perché l’antisemitismo esploso negli ultimi mesi in Europa non andrebbe affatto sottovalutato nemmeno da chi non è ebreo, perché è quel primo sintomo che annuncia la malattia grave, quella stessa malattia che l’ultima volta che apparve costò decine di milioni di morti.

La guerra santa islamica contro Lenin e i bolscevichi. Lenin si affrettò ad assicurare a turkmeni, kazaki, uzbeki, kirghisi, tagiki "libertà e autonomia", scrive Rino Cammilleri, Giovedì 21/02/2019, su Il Giornale.  Nel saggio di Alberto Rosselli Breve storia della guerra civile russa 1917-1920 (Archivio Storia, pagg.110, euro 14,50) un capitolo è dedicato a un episodio poco noto, la «guerra santa» islamica contro i bolscevichi all'indomani dell'avvento al potere di Lenin. Il quale sapeva che nelle regioni musulmane dell'ex impero zarista, la cui completa colonizzazione era piuttosto recente, i russi erano considerati poco meno che invasori. Perciò si affrettò ad assicurare a turkmeni, kazaki, uzbeki, kirghisi, tagiki «libertà e autonomia»: nel 1918 cominciarono a spuntare governi provvisori e repubbliche indipendenti asiatiche. Ma non avevano capito niente del bolscevismo. Infatti, Lenin mandò l'Armata Rossa, che aveva appena sconfitto i «bianchi» del generale Wrangel in Crimea. Centinaia di capi islamici vennero eliminati e il potere dei soviet fu instaurato dovunque. E subito, nel 1919 si scatenò la rivolta jihadista, con a capo Irgash, che unì le tribù asiatiche nella guerra santa contro i bolscevichi. Gli insorti erano i Basmachi, che in lingua uzbeka sta per «brigante». Niente di nuovo sotto il sole: chi resiste a un potere totalitario passa alla storia come fuorilegge; i vandeani, gli insorgenti italiani, i cristeros messicani...I Basmachi, 30mila guerriglieri a cavallo, diedero non pochi pensieri a Lenin, il quale giocò un'altra carta: il turco Enver Pascià, già leader del partito dei Giovani Turchi che avevano sterminato gli armeni. Lenin nel 1921 lo mandò a Bukhara in Uzbekistan per convincere i mullah ad accettare il nuovo potere rosso. Ma Enver voleva la creazione di un vasto stato «panturanico» a egemonia turca che comprendesse tutta l'Asia islamica e l'Anatolia. E diventò la guida del jihad. Con la sua morte sul campo, nel 1922, non cessò la guerriglia. Fu Stalin, a chiudere la questione. Eliminò 10mila capitribù, abolì il nomadismo degli allevatori, mise alla fame tutti quelli che rifiutavano di lavorare nelle comuni agricole gestite da funzionari russi. Moltissimi pastori e mandriani preferirono riparare oltre il confine cinese. Ma non per questo cessò la lotta degli irriducibili, che continuarono ad attaccare le guarnigioni sovietiche anche durante la seconda guerra mondiale. Erano circa 2500 jihadisti, suddivisi in una novantina di bande armate. Nel 1945 cominciò la campagna di bonifica che nel '47 poteva considerarsi conclusa. Dei Basmachi non si parlò più per decenni. Oggi hanno cambiato nome.

Perché fra i populisti di destra e sinistra fermenta l’antisemitismo. “Gli ebrei hanno i piedi su due binari: l’islam radicale e l’antisemitismo della vecchia Europa. M5s zitto sull’Iran genocida”. Parla Manfred Gerstenfeld, scrive Giulio Meotti su Il Foglio il 2 Maggio 2017. Pinchas Goldschmidt, presidente della Conferenza dei rabbini, l’ha messa così al Parlamento europeo: “Gli ebrei hanno i piedi su due binari: l’islam radicale e l’antisemitismo della vecchia Europa”. Questo secondo treno oggi spinge molti partiti “antisistema” di destra e di sinistra. Il “problema ebraico” dei populisti non si limita ai neofascisti Jobbik in Ungheria e Alba Dorata in Grecia. In Francia il Front national di Marine le Pen ha chiesto agli ebrei di togliersi la kippah per laicizzare in chiave antislamica lo spazio pubblico, e indulge su Vichy. La sinistra di Jean-Luc Mélenchon vuole boicottare Israele, e quando ci fu l’assalto filopalestinese agli edifici ebraici di Parigi, durante la guerra a Gaza del 2014, condannò gli ebrei francesi che avevano manifestato a favore di Israele, definendoli “minoranza aggressiva” (eco degli “ebrei dominatori” di cui nel 1967 parlò Charles de Gaulle). La sinistra inglese “Momentum” di Jeremy Corbyn sull’antisemitismo ha perso non pochi deputati e amministratori, tanto da essere al secondo posto nella lista degli antisemiti del Centro Wiesenthal. In Olanda, Geert Wilders è fiero delle credenziali pro Israele (come l’Ukip in Inghilterra), mentre il partito olandese multiculturale Denk è stato fondato da Tunahan Kuzu, che si è rifiutato di stringere la mano al premier israeliano Benjamin Netanyahu. In Italia il partito che cova più risentimento su Israele è il Movimento 5 Stelle. In Spagna c’è Podemos, il cui fondatore, Pablo Iglesias, ha chiesto di boicottare i prodotti israeliani e paragonato Gaza al ghetto di Varsavia. “Ogni movimento va visto nel suo paese”, dice al Foglio Manfred Gerstenfeld, nato a Vienna nel 1937 e trasferitosi in Israele, ex presidente del Jerusalem Center for Public Affairs e forse il maggiore studioso di antisemitismo europeo. “Marine Le Pen e Wilders sono diversissimi. L’origine fascista del Front national è chiara, sta facendo uno sforzo per liberarsene, ma ha un certo numero di fascisti in posizioni chiave. Wilders è un liberale andato a destra, se non c’era il problema islamico sarebbe rimasto fra i liberali. L’ex leader dell’Afd Frauke Petry è contro l’antisemitismo, mentre altri sono vicinissimi al fascismo. Il Front National ha un problema con gli ebrei, Le Pen vuole liberarsi delle scuse francesi di Chirac e Hollande per l’attegiamento di Vichy durante la Shoah, però non vuole essere negazionista. Nel postmoderno le cose non sono più chiare. Il socialista Benoit Hamon è peggio di Marine Le Pen per Israele, come certamente Mélenchon. La sinistra populista è nella terza fase dell’antisemitismo, non contro gli ebrei come religione o contro la nazione ebrea, ma contro lo stato ebraico. Alexis Tsipras e Netanyahu sono amici e vogliono stare assieme contro i turchi. Il corbinismo è debole verso gli antisemiti, mentre Ken Livingstone è chiaramente antisemita. Il M5s è un movimento che chiude gli occhi sull’Iran genocida. Per me è antisemitismo. Il più grande pericolo per gli ebrei d’Europa è stata l’immigrazione islamica non selettiva. A questo va aggiunto che l’antisemitismo fa parte della cultura europea, dallo Shylock di Shakespeare a ‘Goldmann Sachs controlla il mondo’ e ‘Israele sta sterminando i palestinesi’. Ma questo è nel mainstream europeo, non solo nei partiti populisti”.

L'allarme antisemitismo è a destra e a sinistra. Cari compagni, potete anche tenere in alto una bandiera palestinese, ma se non vi battete contro l'odio per gli ebrei siete in un vicolo cieco. Prigionieri involontari dell'onda nera, scrive Pepino Caldarola il 29 ottobre 2018 su Lettera 43. Esiste un antisemitismo di destra. Esiste un antisemitismo di sinistra. Il dramma sta nella frase senza aggettivi: esiste l’antisemitismo. I fatti dicono di stragi, come a Pittsburgh, di assassini isolati, ce ne sono stati in Francia, di sinagoghe e cimiteri ebraici violati, di scritte sui muri di città di tutto il mondo, della paura, che giustamente gli ebrei negano di avere, che colpisce alcune comunità che vedono partire per Israele chi non ha più fiducia nell’Europa. In un mondo percorso da ideologie suprematiste e dall’odioverso il diverso, non solo diverso nel colore, l’antisemitismo cresce anche se fingiamo di non vederlo. Carla Di Veroli, esponente del Pd romano e nipote di Settimia Spizzichino nonché ex assessore all’XI municipio, scrive un post su Facebook in cui nota come la notizia di Pittsburgh sia sparita immediatamente dall’orizzonte dell’inforamazione. Flaminia Sabatello, che scrive post di satira straordinari, registra volta a volta la robaccia che gira contro gli ebrei. Ieri su Facebook c’era la foto di un donnone in camicia nera che da Predappio inneggiava ad Auschwitz. Siamo ben oltre il limite di guardia. L’antisemitismo di sinistra ha radici nella cultura dei seguaci dell’Urss e soprattutto in quel movimento anticoloniale che individuò in Israele la casamatta dell’Occidente contro il mondo arabo. Non vale la pena rileggere la storia. È bene andare subito alle conclusioni. Per quanto si possa essere distanti dall’attuale governo di Gerusalemme, e io ne sono distantissimo, la critica a Israele ormai troppo spesso sta diventando rivalutazione dell’antisionismo e dell’antisemitismo.

LE VERE RADICI DEL SIONISMO. A questi immemori vorrei ricordare come il sionismo, oltre a essere un movimento di tipo risorgimentale teso a dare una patria a ebrei da millenni scacciati e perseguitati, è stato un movimento fondamentalmente di sinistra che ha dato vita nella società israeliana a forme di partecipazione inedite. Il sionismo non è tutto di sinistra e l’ondata culturale prevalente nella classe dirigente israeliana vede prevalere altre correnti. Ma non si sfugge dal punto di fondo. La difesa di Israele è per un democratico di sinistra un punto fermo. Così come lo è dare una patria ai palestinesi e costringere il governo di Gerusalemme, una volta garantita la fine del terrorismo anti-ebraico, a fare passi avanti coraggiosi per una tregua lunga che dia ai palestinesi quella libertà e quel diritto a un territorio che sono una innegabile necessità. Non aiutano le posizioni di quei dirigenti di sinistra, è il caso di Jeremy Corbyn, che partecipano a cerimonie in cui si celebrano i terroristi che ammazzarono la squadra israeliana alle Olimpiadi di Germania. Vorrei dire con determinazione che è di sinistra chi è contro l’antisemitismo senza coprirsi dietro l’antisionismo e la critica a Israele.

A DESTRA RIGURGITI DI RAZZISMO ESTREMO. L’antisemitismo di destra è meno “politico” ma si regge su fondamenta culturali, diciamo così, più profonde, che sono religiose, di tipo razzista estremo, dell’idea che le patrie, il cosiddetto sovranismo, debbano essere composte solo dal popolo di destra essendone tutte le altre componenti, religiose, etniche e politiche, estranee. Molti esponenti di destra e soprattutto molti neo-xenofobi si coprono dietro il sostegno a Israele che purtroppo non distingue gli amici dai falsi amici. La destra fa della vicinanza all’attuale governo di Israele il passepartout per coprire le proprie nefandezze in patria. Sull’anniversario delle leggi razziali non abbiamo letto nulla scritto da esponenti del governo sovranista-populista. Un intellettuale raffinato come Marcello Veneziani si è lamentato sul Tempo per il troppo spazio, dice lui, dato all’anniversario delle leggi razziali piuttosto che alla fine della Prima guerra mondiale, fonte di «dolore ed eroismo» (scrive ancora lui).

LA SINISTRA SIA IN PRIMA LINEA CONTRO L'ANTISEMITISMO. Nelle comunità ebraiche in questi anni l’avversione verso la sinistra è cresciuta per via delle critiche a Israele. Improvvisamente alcune comunità hanno scoperto Gianfranco Fini, Gianni Alemanno e oggiMatteo Salvini. Sono cittadini italiani ed è giusto che scelgano i leader che preferiscono. Non capisco perché facciano così fatica ad aprire un dialogo con la sinistra in cui sono in tanti i difensori di Israele, sempre sotto esame a differenza di Alemanno e Salvini, e i nemici dell’antisemitismo. Credo però che il tempo delle polemiche inutili stia finendo e la realtà dell’attuale processo storico ci metta di fronte alla durezza dell’ondata nera che non si fermerà agli arabi e agli africani. Quando il razzismo risorge la minaccia anti-ebraica cresce. È qui che si vede se nella sinistra c’è gente che capisce in quale tempo stiamo vivendo rinunciando a schemi stereotipati. Essere in prima fila contro l’antisemitismo politico, religioso, razziale è una caratteristica di una sinistra moderna. Potete anche tenere in alto una bandiera palestinese, ma se non vi battete contro l’antisemitismo siete in un vicolo cieco, prigionieri involontari della destra più oscura. Io sto dall’altra parte.

Da Fourier a George Sand ecco gli antisemiti di sinistra. Un saggio di Michel Dreyfus racconta con coraggio le tendenze anti ebraiche del socialismo francese, scrive Matteo Sacchi, Giovedì 18/01/2018, su Il Giornale. Quando si pensa all'antisemitismo è quasi automatico pensare al nazismo o a un certo tipo di destra. Ma è davvero così? No, esiste un antisemitismo di sinistra che però è stato spesso ficcato sotto il tappeto della Storia. E non si tratta solo delle persecuzioni contro le religioni, compresa quella ebraica, nella Russia dei soviet o sotto Stalin. Esiste un antisemitismo di sinistra ben più antico e pernicioso che la maggior parte degli studiosi si è guardata bene dall'evidenziare. Ha fatto una scelta diversa lo storico francese Michel Dreyfus, grande esperto di movimenti operai, che ha pubblicato un saggio coraggioso: L'antisemitismo a sinistra in Francia. Storia di un paradosso (1830-2016). Il volume (e-book 6,99 euro, print on demand 13,51 euro), pubblicato in Italia dall'associazione Free Ebrei e tradotto da Vincenzo Pinto, prende in esame il caso francese, che è emblematico. Soprattutto tenendo conto che Oltralpe hanno vissuto molti dei più noti socialisti utopisti. Ecco, è proprio tra le loro fila che si scoprono un gran numero di antisemiti a sorpresa. Dopo la caduta di Napoleone, la Francia iniziò ad avere un nuovo periodo di vivacità economica e nel sistema bancario e imprenditoriale non mancavano nomi ebraici. Questo poco aveva a che fare con le condizioni economiche della maggior parte degli ebrei francesi. Ma tanto bastò a molti socialisti per tirar fuori, rinfrescandoli, i peggiori stereotipi medievali sull'usuraio ebreo. Attaccare il capitalismo e attaccare gli ebrei divenne un tutt'uno. Pierre Leroux (1797-1871), forse addirittura il coniatore del termine «socialismo», in De la Ploutocratie del 1843 si esprimeva così: «I più grandi capitalisti di Francia... Ebrei che non sono cittadini francesi, semmai aggiotatori cosmopoliti». Il suo bersaglio principale era il banchiere James de Rothschild (1792-1868), ma rapidamente il focus dell'odio si allargò a tutti i suoi correligionari. E la sua excusatio di non attaccare gli ebrei in quanto individui, bensì lo «spirito ebraico, cioè lo spirito di guadagno, di lucro, di utile» lascia, ovviamente, il tempo che trova. La famosa scrittrice George Sand, a lui vicina, sposò e propalò le stesse tesi persino in una pièce teatrale del 1840, Les Mississipiens. L'autrice mette in scena un finanziere ebreo, Samuel Bourset, che ritrae come un essere repellente. Non erano casi isolati. Sono fortissimi gli stereotipi anti ebraici anche negli scritti di Charles Fourier (1772-1837). Nel Nouveau Monde industriel se la prende con la Rivoluzione francese per aver emancipato gli ebrei. Situazione che lui avrebbe voluto risolvere a colpi di esproprio proletario e lavoro coatto: «Ogni governo attento ai buoni costumi dovrà obbligare gli ebrei al lavoro produttivo, non ammetterli che nella proporzione di un centesimo nel vizio: una famiglia mercantile ogni cento famiglie agricole e manifatturiere». Anche Pierre-Joseph Proudhon (1809-1865), uno dei padri dell'anarchismo, dimostra di essere accecato dal preconcetto anti ebraico: «Ebrei, fare un articolo (di legge, ndr) contro questa razza che infetta qualsiasi cosa, che si infila dovunque senza mai fondersi con un altro popolo. Richiedere la loro espulsione dalla Francia, eccetto gli individui sposati con francesi; abolire le sinagoghe, non assumerli in alcun posto lavorativo, perseguire infine l'abolizione di questo culto». Come si vede un programma che non avrebbe sfigurato in un discorso hitleriano. Certo, nella sinistra francese il clamoroso caso delle accuse false contro il capitano di Stato maggiore, di religione ebraica, Alfred Dreyfus (1859-1935) finì per portare a posizioni decisamente diverse verso l'ebraismo. Ma il saggio dimostra come i preconcetti anti ebraici rimasero ampiamente sotto traccia. Se tutti ricordano il famoso J'accuse di Émile Zola, va detto che molti socialisti restarono tiepidi verso la vicenda. Il Partito Operaio Francese, a esempio, e i suoi organi di stampa oscillarono a lungo tra l'indifferenza e l'ostilità verso Dreyfus. Tanto che nel 1898 intervenne il socialista libertario Adolphe Tabarant (1863-1950) ad esortare i suoi compagni a non cadere nell'«antisemitismo imbecille». Né la situazione era completamente risolta alle soglie della Seconda guerra mondiale. Le componenti della Sezione Francese dell'Internazionale Operaia più fortemente pacifista accusava i governi francesi di contrapporsi a Hitler in quanto al soldo dell'«internazionale ebraica». Così Ludovic Zoretti (1880-1948): «Il popolo francese non ha alcuna voglia di vedere una civiltà annientata e milioni di esseri umani sacrificati per rendere la vita più confortevole a centomila ebrei della regione dei Sudeti». E anche dopo la guerra non mancarono confusioni tra posizioni politiche ostili a Israele e posizioni anti ebraiche. Insomma, leggendo il saggio di Michel Dreyfus viene da chiedersi se le attuali polemiche sulla ripubblicazione di Céline abbiano senso. Semmai avrebbe senso ristudiare tutto l'antisemitismo, anche quello su cui la sinistra preferisce far finta di nulla.

L'antisemitismo della sinistra, scrive Ian Buruma il 4 maggio 2016 su La Repubblica. Ken Livingstone, ex sindaco di Londra ed esponente della sinistra del Labour, è stato sospeso dal partito per aver affermato che nei primi anni Trenta, «prima che impazzisse e uccidesse sei milioni di ebrei», Hitler era stato sostenitore del sionismo. Dopotutto Hitler, stando a Livingstone, prima di «impazzire» si era semplicemente limitato a tentare di cacciare gli ebrei dai rispettivi Paesi affinché si trasferissero in Palestina. E questo presumibilmente avrebbe fatto di lui un sionista. Dal punto di vista storico tale affermazione rappresenta un'assurdità (Hitler non sostenne mai la Palestina come Stato ebraico), e l'implicita conclusione che l'odio del Führer nei confronti degli ebrei lo ponesse sullo stesso fronte degli ebrei che intendevano costituire un proprio Stato per sottrarsi alla violenza dell'antisemitismo è come minimo offensiva. Ma Livingstone era probabilmente sincero quando si difendeva dicendo che «un vero antisemita non odia solo gli ebrei che vivono in Israele, ma anche quelli che ha come vicini...». L'odio per gli ebrei di Israele sarebbe dunque accettabile poiché «sono sionisti». Corbyn, leader dello stesso partito di Livingstone, era indubbiamente altrettanto sincero nel dire che l'antisemitismo non può essere un problema della Sinistra, dal momento che il Labour è da sempre «antirazzista». La convinzione che i pregiudizi razziali, compreso l'antisemitismo, siano un fenomeno esclusivamente di destra è diffusa nella sinistra europea. Tale posizione risale probabilmente ai tempi dell'affaire Dreyfus: nel 1894, a seguito di un processo truccato, il capitano dell'esercito francese Alfred Dreyfus fu falsamente accusato di tradimento e la società si divise tra anti-dreyfusiani (conservatori), e difensori (liberali) dell'ufficiale ebreo. I conservatori erano in maggioranza cattolici "allergici" alla Repubblica, associata al pensiero liberale e agli ebrei. L'antisemitismo francese reazionario rifletteva una tendenza diffusa nell'Europa del XX secolo: nazionalisti "sangue e terra" ( Blut und Boden), cristiani conservatori, fanatici anti-bolscevichi e despoti ossessionati dall'ordine sociale erano spesso antisemiti. Gli ebrei vivevano meglio sotto i governi di sinistra. Ciò porta a dimenticare che anche la sinistra è da sempre attraversata da una vena antisemita. Stalin, com'è noto, perseguitò gli ebrei, che considerava agenti del capitalismo e traditori dell'Unione Sovietica. E prima ancora, Karl Marx aveva gettato le basi (pur essendo ebreo di nascita) di una perniciosa varietà di antisemitismo che finì col contagiare la sinistra, in particolare quella francese. Fu lui ad affermare che «il denaro è il geloso Dio di Israele», e che «l'ebraico era la musa delle quotazioni di Borsa». Non che ignorasse i rischi dell'antisemitismo: Marx pensava piuttosto che questi sarebbero semplicemente svaniti una volta che il paradiso dei lavoratori fosse stato edificato. È evidente che si sbagliava. Nel 1948 l'Unione Sovietica e la sinistra in generale si dimostrarono favorevoli alla costituzione del nuovo Stato di Israele. Per decenni poi, socialisti di origini russe e polacche dominarono la scena politica israeliana. Il sionismo non era ancora considerato una forma di razzismo, paragonabile all'apartheid sudafricano. Non c'era bisogno di «odiare gli ebrei di Israele». Nei primi anni Settanta, dopo l'occupazione della Cisgiordania e altri territori, le cose hanno iniziato a cambiare. Una o due intifada più tardi la sinistra israeliana ha perso il potere, cedendo il passo alla destra, e da allora Israele è sempre più spesso associato a quei fenomeni a cui la sinistra si era sempre opposta: colonialismo, oppressione delle minoranze, militarismo e nazionalismo esasperati. Per alcuni, la prospettiva di poter nuovamente odiare gli ebrei — questa volta in nome di principi nobili — è stata forse un sollievo. Al tempo stesso, e quasi per le stesse ragioni, Israele è diventato "popolare" a destra. Gli stessi che fino a poco tempo fa avrebbero potuto essere accesi antisemiti sono diventati paladini di Israele, e approvano l'intransigenza del suo governo contro i palestinesi. Secondo un'opinione assai diffusa a destra, Israele è il bastione della «civiltà giudeo-cristiana» nella «guerra contro l'Islam». Come affermato dal demagogo olandese Geert Wilders: «Quando la bandiera di Israele non sventolerà più sulle mura di Gerusalemme, l'Occidente avrà smesso di essere libero». Così la stessa retorica sceglie semplicemente un nuovo bersaglio: i musulmani. Ci viene detto e ridetto che non potranno mai essere dei cittadini leali, che sono infidi, che la loro religione non è compatibile con i valori dell'Occidente, e via dicendo. Nella maggior parte dei casi tali affermazioni, rese persino più convincenti dalle minacce reali che scaturiscono da un violento movimento rivoluzionario interno al mondo islamico, dovrebbero essere viste per quello che sono: pregiudizi vecchi e triti che mirano a emarginare una minoranza impopolare. La violenza islamista non fa che incoraggiare la politica dell'odio e della paura. Nella cosiddetta «guerra contro l'Islam», molti dei combattenti occidentali sono gli anti-dreyfusiani dei nostri giorni. Nulla di tutto ciò giustifica lo spregevole linguaggio di Ken Livingstone e di altri come lui. L'antisemitismo di sinistra è tossico quanto la sua controparte di destra, ma il ruolo di Israele all'interno del dibattito politico occidentale dimostra come i pregiudizi possano passare da un gruppo all'altro, mentre il sentimento che ne è all'origine rimane lo stesso. ( Traduzione di Marzia Porta)

L’antisemitismo a sinistra inizia ben prima di Israele, scrive il 26 gennaio 2012 su L’Inkiesta. L’antisemitismo popola una parte del discorso politico, del linguaggio, e delle associazioni mentali che si collocano a sinistra. È una questione che a sinistra, sia nelle classi politiche dirigenti – o se si preferisce nelle “leadership” – di sinistra si discute di malavoglia; e soprattutto è una discussione e un tema che solleva molto rumore tra i militanti di sinistra. La discussione intorno alla vicenda giudiziaria che ha coinvolto Peppino Caldarola, e Antonio Polito da una parte e e Vauro dall’altra, che si è sviluppata su questo periodico nel thread dell’intervento di Caldarola lo dimostra. Quella discussione tuttavia non è solo significativa per gli argomenti che si usano, bensì per la loro reiterazione. I termini, gli argomenti, la retorica di quella discussione potevano essere scritti e detti nel 2003, nel 2002, nel 1988, 1982. Le date non sono scelte a caso. Riguardano: la discussione per esempio, a proposito della seconda intifada; la discussione sulla prima intifada, l’estate calda del 1982, intorno alla “Guerra in Libano”. Ma si potrebbe anche andare indietro e ritrovare alcuni toni già nel 1967 intorno alla discussione sulla “crisi politica” che poi sbocca nella cosiddetta “Guerra dei sei giorni”. Ma non solo. Vado ancora più indietro e toni e parole che corrono sul filo dell’antisemitismo a sinistra si ritrovano nel silenzio che la sinistra italiana ha rispetto alla psicosi da complotto dell’ultimo Stalin, tra 1951 e 1953. Ogni volta la discussione parte dalle politiche di Israele e dunque si potrebbe concludere che è con Israele che si origina il problema. È una conclusione impropria. Comunque Israele non è l’origine del problema. In altre parole non è vero l’antisemitismo a sinistra si diffonde perché Israele fa scelte discutibili. L’antisemitismo a sinistra nasce prima. Il linguaggio antisemita (esempi, parole, immagini, etc.) popola il cosmo politico e culturale della sinistra europea almeno a partire dalla fine del Settecento, si diffonde nel corso dell’Ottocento, si rafforza soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento. In quella fase sono le componenti operaistiche che spesso diventeranno il nerbo del riformismo e della destra socialista della Seconda Internazionale (a dimostrazione che l’antisemitismo non è solo patrimonio degli estremisti, ma spesso anche dei gradualisti e dei riformisti) ad assumere un linguaggio fortemente antisemita in cui l’antisemitismo di destra e populista, un linguaggio a impatto popolare altissimo e non patrimonio di “quattro sfigati” si incontra con l’ideologia operaista e sindacalista dei ceti operai e delle aree industriali emergenti. Che cosa voglio dire con questo? Che da quello scenario che già preoccupava, dentro la sinistra, le componenti più sensibili a possibili derive autoritarie a sinistra, la cultura diffusa a sinistra non ha mai progredito, o se l’ha fatto ha compiuto solo delle mosse tattiche, apparentemente liberatorie da quel linguaggio. Viceversa quel linguaggio appartiene al profondo, è parte di una storia culturale, lessicale, del proprio immaginario sociale che ha attraversato in momenti diversi e a fasi alterne le molte anime della sinistra: quella estremista pauperista o settaria, ma anche quella gradualista, riformista. Antisemitismo a sinistra è un libro – informato quanto pacato – pubblicato da Gadi Luzzatto Voghera per Einaudi e accolto nel silenzio glaciale della sinistra (lo steso si potrebbe dire di Simon Levis Sullam, L’archivio antiebraico, Laterza). Se il complesso della sinistra fosse scesa dal piedistallo e avesse voluto con interesse, ma anche con reale intenzione di sapere, affrontare un problema che ha, avrebbe intanto capito che l’antisemitismo a sinistra e di sinistra ha una storia, presenta sfaccettature, versioni diverse, immagini ripetute, iconografia spalmate lungo l’asse di tutte le sue diverse “anime”: Ma quel tema (e da ultimo quei libri) non sono mai entrati nella riflessione pubblica a sinistra, perché presuntuosamente una parte consistente del vissuto di sinistra e a sinistra quel tema lo avverte come un fastidio come se qualcuno pretendesse di fare degli esami di democraticità a qualcuno che per definizione – collocandosi a sinistra – non ha bisogno di superare. Così periodicamente a seconda dei momenti o dei contesti quel tema e quel sentimento, mai affrontato, solo retoricamente respinto come se qualcuno offendesse il buon nome di qualcun altro solo a proporlo, riaffiora potente nell’immaginario potente. Riemerge con la stessa facilità e convinzione con cui si fa strada la sindrome del complotto, una visione della realtà che non appartiene solo ai cultori dei Protocolli dei Savi Anziani di Sion, ma anche a molte altre frange politiche, a molte altre tendenze culturali. Può essere che nel “Giorno della Memoria” quel sottofondo culturale si attenui, ma in realtà entra “solo in sonno”. Poi a seconda della situazione, o degli umori, ritorna, potente. Appunto perché quella convinzione appartiene a una sfera della convinzione che non si risolve una volta per tutte. Il primo passo dunque nasce dalla presa d’atto che l’antisemitismo a sinistra c’è, è diffuso, ed ha una sua storia (oltre ché una sua cultura). Ovvero non è un incidente di percorso o un lapsus. Ma quel primo passo a sinistra non è stato ancora fatto. È uno dei tanti segnali di una “sinistra bloccata”.

L’ANTISEMITISMO FRANCESE.

Perché la Francia è la culla dell’antisemitismo, scrive Daniele Zaccaria il 21 Febbraio 2019 su Il Dubbio. Dalla giudeofobia di matrice cristiana alle moderne persecuzioni. L’odio per gli ebrei ha contagiato anche illuministi come Voltaire e intellettuali di sinistra. Un odio che ha radici profonde. Dalla giudeofobia al moderno antisemitismo, in mezzo mille anni di pregiudizi e persecuzioni in cui l’odio per gli ebrei si è diffuso a macchia d’olio e si è trasmesso, di generazione in generazione, alla fibra più profonda della nazione. Per poi uscire fuori, a fiammate improvvise nel corso della Storia, come una belva balza fuori dall’antro per smembrare la sua preda. La Francia galleggia nell’antisemitismo come in un brodo primordiale. Le croci uncinate nei cimiteri ebraici, le sinagoghe profanate, gli sfregi ai reduci della Shoah, le stelle gialle sui negozi, le aggressioni verbali e fisiche, gli schizzi di letame ideologico da parte di alcuni esponenti dei gilet gialli, insomma tutta l’escalation di atti antisemiti che stanno infestando la patria dei diritti dell’uomo (oltre seimila, più 75% in un anno) affonda le radici in una cultura estesa, in un “senso comune” che viene da lontano. Non solo giudeofobia cristiana, non solo ostilità verso il popolo “deicida” che paga con la diaspora la crocifissione di Gesù. L’avversione per gli ebrei ha pervaso anche il pensiero degli intellettuali e dei filosofi dell’illuminismo; non solo la destra nazionalista e fascistoide del caso Dreyfus, non solo i vigliacchi collaborazionisti del regime Vichy, ad alimentare la fame della belva hanno contribuito anche figure della gauche socialista e repubblicana con il benestare o addirittura con il sostegno attivo della popolazione. Inizialmente fu una questione di religione e la Francia non fece che seguire la corrente che spinse gli ebrei nel ghetto in tutta Europa, il loro monoteismo intransigente, l’ermetismo delle pratiche, il nucleo irriducibile del loro credo erano ritenuti incompatibili con le esigenze del potere temporale della Chiesa e con la sua vocazione evangelica; l’unica salvezza era la conversione ma in questo la Spagna della Santa inquisizione fu molto più brutale della Francia, perseguitando con tenacia la sua comunità, i suoi marranos come venivano chiamati gli ebrei convertiti che in privato continuavano ad osservare il proprio culto. E’ solo all’inizio del XIV secolo che l’emarginazione assume le forme della persecuzione con il re Filippo il Bello che espelle i juifs dal territorio confiscando i loro crediti da usura e i loro beni che vengono messi all’asta. Non è una rappresaglia religiosa – fino a pochi anni prima Filippo era in affari con diversi commercianti ebrei- ma un atto di opportunismo e avidità che si serve anche del pregiudizio ideologico nei confronti di mercanti e di banchieri che lavorano per interessi “stranieri” o comunque estranei a quelli del popolo. Insondabili nel loro credo spirituale, inarrestabili nella loro capacità di creare reticoli complessi di ricchezza: la mitologia dell’ebreo infido dalle mani nodose e il naso arcuato che si arricchisce con i suoi commerci obliqui ai danni della comunità si alimenta nei secoli, si impasta con l’odio dei cristiani, cattolici e riformati, contagia le idee anche delle menti più stimabili e sofisticate della loro epoca. Fanno davvero impressione in tal senso le considerazioni abiette di Voltaire (padre delle Lumières e del moderno concetto di tolleranza) nelle forme e nei contenuti espressi sul celebre Dictionaire Philosophique: «In loro vedrete soltanto un popolo ignorante e barbaro che unisce da sempre l’avarizia più sordida alla superstizione più detestabile» , un popolo «rampante nell’infelicità e insolente nella prosperità» (Essai sur le Moeurs). Anche quando si tratta di gettare fango contro i musulmani, Voltaire si accanisce sui loro fratelli maggiori: «Proprio come gli ebrei sono posseduti dalla brama di conquista, senza generosità, senza clemenza, senza ospitalità». E così le persecuzioni subite sono nient’altro che la conseguenza di questa «natura» deviata che influenza il loro infausto destino: «Se gli ebrei volevano conquistare il mondo e sono diventati degli asserviti la colpa è soltanto la loro».

Stereotipi, luoghi comuni, maldicenze, ormai l’odio è codificato e inoculato nell’opinione pubblica. Al punto che persino socialisti utopisti come Pierre-Joseph Proudhon e Charles Fourier ci lasciano pagine degne di un propagandista del Terzo Reich. Guardate cosa scrive nei Carnets il gentile sognatore Proudhon, sentimentale filosofo “della miseria”: «Bisogna opporsi a questa razza che avvelena tutto e si infiltra ovunque senza mai fondersi con nessun popolo; bisogna abolire le sinagoghe e impedire loro di lavorare, fino a vietare del tutto il loro culto. Non è per nulla che i cristiani li chiamano deicidi: gli ebrei sono i nemici del genere umano, la loro razza deve essere mandata in Asia o al limite sterminata». Meno estremo ma ugualmente ostile Fourier, inventore del “falansterio”: «La nazione ebraica non è civilizzata, è patriarcale, non ha sovrano e crede lodevole ogni furberia, si dedica esclusivamente ai traffici, all’usura e alle depravazioni mercantili. Ogni governo dovrebbe costringere gli ebrei al lavoro produttivo e accettarli solo in minima percentuale» (OEuvres complètes). Nel XIXesimo secolo con l’esplosione del capitalismo industriale si modellano i tratti dell’antisemitismo contemporaneo che scioglie le antiche credenze misogiudaiche del cristianesimo nell’immagine complottista dell’ebreo burattinaio che, mosso dalla cupidigia, muove le fila dell’economia mondiale, lo stesso figuro che, per dirla con lo storico dell’800 Jules Michelet «ha un’unica patria: la borsa di Londra. E un’unica radice: la terra dell’oro» (Le Peuple). E che dire di Jean Jaures, fondatore del partito socialista francese che ne La question juive en Algérie fustiga «l’infaticabile attività commerciale con la quale a poco a poco si accaparrano della ricchezza, delle funzioni amministrative e del potere pubblico: in Francia l’influenza politica degli ebrei è enorme ma indiretta, non si esercita con la forza del numero ma con quella del denaro, sono una razza sottile, concentrata ma divorata dalla febbre del guadagno e che maneggia con facilità i meccanismi di rapina, di menzogna e di estorsione del capitalismo».

Il caso Dreyfus, scoppiato qualche anno dopo scuote la Francia, l’antisemitismo violento e carognesco delle classi dirigenti della Terza Repubblica, è come un terremoto che fa rinsavire di colpo molti intellettuali e uomini politici, tra cui proprio Jaures il quale diventa un appassionato sostenitore dell’ufficiale ebreo accusato ingiustamente di tradimento. Lo stesso Emile Zola, autore del celebre J’accuse in difesa di Dreyfus, appena tre anni prima ne L’Argent descriveva gli ebrei servendosi di stereotipi da fisiognomica nazista: «Era tutta un’ebreitudine malferma, delle facce grasse e unte, dei profili scavati da uccelli voraci, una straordinaria riunione di grossi nasi, vicini l’uno all’altro come su una preda». Ma il buon esito dell’affaire Dreyfus non fa che rimandare la temperie di qualche decennio. L’occupazione nazista e la nascita del regime fantoccio di Vichy che sarà responsabile della deportazione di 75mila ebrei nei campi di sterminio nazisti coagula tutte queste tendenze. L’autore che più le incarna nella sua tragica letterarietà è Louis Ferdinand Céline, sublime scrittore e antisemita feroce, ai limiti del fanatismo, al punto da predicare la necessità di eliminare fisicamente tutti gli ebrei dalla faccia della terra. Nelle cupe e scioccanti pagine di Bagatelle pour un massacre Céline annega negli abissi del razzismo biologico: «L’ebreo è come un negro, la razza semita non esiste, è un’invenzione dei massoni, l’ebreo è il prodotto dell’incrocio dei negri e dei barbari asiatici».

La soluzione? L’autore di Voyage au bout de la nuit non si vergogna di esporla ne L’Ecole des Cadavres, pubblicato nel 1938 l’anno successivo alle Bagatelle, 24 mesi prima dell’insediamento del generale Pétain a Vichy: «Questi ibridi, questi mostri razziali devono sparire. Nell’allevamento umano sono un bluff, una cosa a parte, dei bastardi cancerosi, dei parassiti inassimilabili, sono qui per la nostra infelicità e non ci portano che infelicità». Proprio come Voltaire anche Céline attribuisce le loro disgrazie alla loro natura malvagia: «Gli ariani non hanno mai perseguitato gli ebrei, gli ebrei si perseguitano da soli». La fine del nazifascismo e la scoperta sconvolgente dell’Olocausto apriranno gli occhi al mondo sulle persecuzioni ai danni degli ebrei. La società che nasce dalle macerie della Seconda guerra mondiale relega l’antisemitismo in un angolo buio della politica e dal dopoguerra il vessillo viene agitato quasi unicamente agitato dall’estrema destra nazionalista e clericale. Almeno fino all’irruzione della questione palestinese nel dibattito pubblico (e nelle nevrosi di molti intellettuali); le posizioni anti- israeliane da parte della sinistra radicale e della comunità musulmana tratteggiano una nuova forma di avversione verso gli ebrei che prende il nome di antisionismo: nella sua versione più radicale ed essenzialista si oppone all’esistenza stessa dello Stato ebraico e in quella più “politica” contesta il suo espansionismo territoriale ai danni degli arabi. Concettualmente antisemitismo e antisionismo non sono sinonimi in quanto quest’ultimo non ha connotazioni razziali o culturali, ma nell’uso comune lo slittamento tra i due termini avviene regolarmente. Oggi i due personaggi pubblici francesi più accesamente antisemiti provengono entrambi dalle file della sinistra, per così dire, antisionista: il comico Dieudonné e lo scrittore e polemista Alain Soral. Ex militante comunista poi passato al Front National, Soral è stato addirittura condannato lo scorso 17 gennaio a un anno di prigione per incitamento all’odio razziale nei confronti degli ebrei definiti sul suo sito internet (seguito da centinaia di migliaia di seguaci) «esseri odiosi e manipolatori». Quanto a Dieudonné, il comico di origine antillese nasce in una famiglia di sinistra e da giovane frequenta lui stesso i gruppi universitari di gauche iniziando a scrivere spettacoli teatrali antirazzisti in cui critica il trattamento dei neri e degli arabi da parte della Francia post- colonialista e prende le parti della popolazione kanaka della Nuova Caledonia. Convertito all’islam, comincia ad attaccare Israele e gli ebrei, spingendosi sempre più oltre. Anche lui è stato condannato per incitazione all’odio razziale e per apologia di terrorismo (prese le parti del jihadista Amedi Coulibaly autore della strage al supermercato ebraico di Parigi lo stesso giorno della strage nella redazione di Charlie Hebdo). Gran tifoso del regime iraniano, ha anche inventato un gesto, la quenelle, una specie di saluto nazista al contrario diventato virale tra i suoi fan e negli anni si è avvicinato al partito di Marine Le Pen. Sia Soral che Dieudonné hanno nel tempo affinato le tecniche per aggirare la legge e l’espediente più efficace è sostituire il termine «ebreo», con «sionista». A volte con effetti grotteschi come è accaduto a Dieudonné che, intervistato da una televisione iraniana, ha avuto il coraggio di affermare con sprezzo della Storia: «I sionisti hanno ucciso Gesù cristo». E’ proprio in virtù di questo slittamento che l’aggressione avvenuta sabato scorso a Parigi nei confronti del filosofo ebreo Alain Finkelkraut da parte di un piccolo gruppo di gilet gialli non può essere derubricata a semplice schermaglia anti- israeliana: «Merda antisionista, la Francia è nostra» hanno gridato gli esagitati contro Finkelkraut. Ma nostra di chi? Dei non ebrei naturalmente, anche se oggi è più conveniente chiamarli sionisti.

Quel bisogno primordiale del Capro espiatorio, scrive Daniele Zaccaria il 29 ago 2016 su “Il Dubbio”. Il giustizialismo è la traduzione politica di una pulsione profonda: tra sacrifici umani e letterari, le società espiano le proprie colpe individuando una vittima designata all'interno del gruppo, da Edipo a Dreyfus, da Gesù Cristo al signor Malaussène. E se questa cupa processione di forche, questa esultanza scomposta per un brillìo di manette, questo sangue che scorre sotto l'applauso ammorbante del "popolo", questo tutti contro uno (o contro pochi) non fosse altro che un rito catartico, un esorcismo collettivo per placare gli istinti violenti della comunità? Il giustizialismo non è soltanto una cultura propagandata e codificata dall'alto, non è solo cinica manutenzione degli spiriti indignati da parte delle élites o dei tribuni della plebe, ma anche una forza primordiale che delinea una precisa condizione psicologica, qualcosa che attiene alle pulsioni profonde degli esseri umani e alla loro vita collettiva. Individuare una vittima all'interno di un gruppo (popolo, etnia, scuola, squadra, famiglia, setta, confraternita) per poi spingerla ai margini di quel gruppo permette di convogliare la violenza endemica verso un obiettivo esterno, che sia esso un individuo o una minoranza di individui, un politico corrotto o un immigrato clandestino. E non importa se siano colpevoli o innocenti, poiché la logica tribale del sacrificio è estranea alle corrispondenze del diritto. La maggioranza ha bisogno di emettere una condanna per mondare se stessa da ogni colpa: è la regola aurea del capro espiatorio. Nelle società moderne la costruzione del capro espiatorio avviene nell'intreccio malsano tra la propaganda dei governi e i pregiudizi popolari, tra manipolazione ideologica e credenze striscianti. Il caso più famoso è l'Affaire Dreyfus, l'ebreo alsaziano ufficiale dell'esercito accusato ingiustamente di spionaggio e alto tradimento che ha rappresentato per la società francese di fine Ottocento il colpevole ideale; per dirla con le parole di Georges Clemenceau «Dreyfus è il capro espiatorio del giudaismo sul quale convergono e si accumulano tutti i presunti crimini precedentemente commessi dagli ebrei». Ebrei traditori, zingari, omosessuali, donne in burquini, kulaki, minoranze etniche, oppositori politici, ma anche sovrani decaduti, banchieri, massoni, re Mida globali, kasta, ciò che caratterizza il capro espiatorio sono le sue qualità estreme; estrema povertà, estrema ricchezza, estrema bellezza o bruttezza, estrema distanza o vicinanza dal gruppo che lo respinge o lo scaccia via. Come fa notare l'antropologo e filosofo francese Réné Girard autore del celebre Le bouc émissaire (1982), probabilmente lo studio più approfondito sul concetto di capro espiatorio, «il rito sacrificale non è altro che la replica del primo linciaggio spontaneo che riporta l'ordine all'interno di una collettività. Attorno alla vittima sacrificata la comunità trova pace, producendo una specie di solidarietà nel crimine». Il sacrificio è dunque violenza legalizzata e funzionale all'equilibrio sociale del gruppo, in particolare nei momenti di crisi (carestie, guerre, epidemie, conflitti sociali). Nella Bibbia (Levitico) il capro sacrificato deve placare l'ira di Dio, è un animale scelto a sorte su cui però converge il biasimo di tutta la comunità, in realtà, sottolinea Girard, la bestia viene uccisa affinché tutti possano mondarsi dei propri peccati e non per paura di una reale ritorsione divina. L'aspetto religioso non è altro che il contenitore simbolico, l'involucro di un espiazione tutta umana. Un tratto talmente interiorizzato e trasmesso nel corso della storia che spesso chi viene colpito dalla vendetta del gruppo accetta docilmente suo destino senza ribellarsi, giocando il ruolo della vittima consenziente. Le tecniche di manipolazione, la semplice prostrazione degli individui nei confronti del potere inquisitorio, la sproporzione di mezzi tra accusa e difesa rendono tutti noi dei potenziali Benjamin Malaussène, il surreale personaggio inventato dallo scrittore Daniel Pennac direttore tecnico di un grande magazzino nonché "capro espiatorio di professione". Nella mitologia classica la prima vittima consenziente è Edipo, l'incestuoso e parricida Edipo, che accetta senza battere ciglio il verdetto ottuso dei tebani i quali lo credono colpevole di aver portato in città un'epidemia di peste; vittima di una mistificazione, Edipo è un innocente perseguitato dal pregiudizio popolare. Le sue parole remissive, la sua stoica accettazione di una colpa che non ha commesso equivalgono a una confessione estorta sotto tortura nella cella buia di un commissariato. Questo tratto di vittima consenziente emerge ancora di più nel sacrificio di Cristo come è raccontato dal Nuovo Testamento: "l'agnello di Dio", letteralmente capro espiatorio umano-divino, afferma di sacrificarsi per salvare il genere umano ma allo stesso tempo si dichiara innocente, accetta il martirio non perché si ritiene colpevole di lesa maestà ma perché sa che c'è bisogno di un colpevole per interrompere il circolo vizioso della violenza. È uno schema ciclico, perché la società contemporanea sostituisce rapidamente i suoi idoli e i suoi bersagli, sempre alla ricerca di nuove vittime, di nuovo sangue da far scorrere per placare la rabbia repressa e alienata delle maggioranze. La rete da questo punto di vista è un formidabile moltiplicatore dell'indignazione popolare e della calunnia collettiva. Diffamare qualcuno senza prove, additare un comportamento non conforme alla volontà del gruppo, perché infedele, osceno, immorale, vedere ovunque complotti e cospirazioni da parte di misteriosi burattinai o di fantomatiche spectre del crimine planetario incarnate dai "signori" disincarnati dell'economia, del farmaco, della guerra, della droga, della religione, dell'informazione, dell'immigrazione testimonia questo bisogno corale di costruire sempre nuovi capri espiatori. Che poi uno lo faccia al grido di "onestà, onestà" o a quello di "fuori gli immigrati" poco cambia.

Cos’è la cultura? Solo un “libretto di istruzioni”…, scrive Corrado Ocone il 26 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Antonio Genovesi, allievo di Vico, teologo, maestro dell’illuminismo napoletano, filosofo eclettico. Usò la scienza anche per studiare il commercio. Sabato a Vatolla, in provincia di Salerno, nel castello De Vargas ove soggiornò per più anni Giambattista Vico, alle ore 19, si è svolto il convegno Opportunità, pace e ricchezza. Il libero commercio dalle lezioni di economia di Antonio Genovesi ad oggi.  Sono intervenuti Corrado Ocone e Lorenzo Infantino (moderati da Antonluca Cuoco). È stata l’occasione per ricordare Genovesi, allievo di Vico e padre dell’illuminismo napoletano, pensatore di calibro europeo del tutto dimenticato. Qui un suo profilo. Una decina di anni fa la casa editrice dell’Università di Cambridge pubblicò un documentato volume (mai tradotto in italiano) di un noto storico inglese, John Robertson, in cui si stabiliva un legame, intellettuale ma anche concreto e pratico (le idee e i libri circolavano con molta rapidità nella settecentesca “repubblica delle lettere”), fra l’illuminismo scozzese e quello napoletano. Gli esponenti di entrambi, al contrario degli illuministi francesi, temperavano infatti il culto della Ragione con un istintivo senso storico e (almeno negli scozzesi) con una profonda venatura scettica. Credo che, pur con i dovuti limiti, questa tipizzazione valga anche per Antonio Genovesi, il padre dell’illuminismo napoletano. Se non proprio scettico, egli, che aveva una formazione filosofica e teologica (era lui stesso un sacerdote), anzi propriamente metafisica, era sicuramente un eclettico: possedeva una solida cultura classica, e insieme una vasta conoscenza degli autori moderni e a lui contemporanei, ma riteneva che elementi di verità fossero nel pensiero di ogni filosofo e che era saggio prendere il meglio da più parti. Quanto al senso storico, Genovesi lo aveva sicuramente appreso anche alla scuola di Giambattista Vico, che, essendosi trasferito a Napoli venticinquenne nel 1738 (era nato a Castiglione, in provincia di Salerno, il primo novembre 1713), fece in tempo a frequentare (l’autore della “Scienza nuova” sarebbe poi morto nello stesso anno in cui fu pubblicata l’edizione definitiva del suo capolavoro: il 1744). È ai primi anni Cinquanta del secolo che è databile quella “svolta” negli interessi di Genovesi (nell’Autobiografia egli parlerà di “sbalzo”) che lo porterà rapidamente a tralasciare gli studi di metafisica e teologia e ad occuparsi quasi esclusivamente di economia. Certo, si trattava della scienza del momento, legata all’intensificarsi dei commerci e allo sviluppo economico degli Stati europei, ma l’affermarsi dell’economia era il portato anche, più radicalmente, dello spirito immanentistico connesso all’età moderna (Benedetto Croce avrebbe parlato della “scoperta” settecentesca delle due “scienza mondane”, cioè l’estetica e appunto l’economia). Napoli, città di porto e cosmopolita per quanto con un retroterra arretrato e semifeudale (la vasta provincia del Regno borbonico), partecipava in pieno al moto di idee che da Parigi alla Gran Bretagna percorreva l’Europa: l’abate Ferdinando Galiani, altro esponente di spicco dell’illuminismo partenopeo, nel 1751 aveva pubblicato il trattato Della moneta che gli avrebbe presto dato fama europea. Genovesi, da parte sua, da un lato, concludeva nel 1752, con la pubblicazione dell’ultimo tomo, il suo trattato di Metafisica, che non pochi problemi gli aveva dato con la censura regia e soprattutto ecclesiastica; dall’altro, maturava delle idee del tutto nuove sullo scopo della sua attività di studioso che ne avrebbero fatto in poco tempo, come lui stesso ebbe a dire, da filosofo e metafisico un “mercatante”. In questo processo lo agevolò certamente l’essere entrato a far parte del circolo, e anzi nelle grazie, di un illuminato mercante e mecenate toscano trapiantato a Napoli, Bartolomeo Intieri. Il quale, consapevole, nello spirito dei lumi, della necessità di formare una classe dirigente su idee nuove e praticamente utili, finanziò e affidò al nostro una cattedra di “meccanica e economia” all’Università di Napoli (probabilmente la prima cattedra di economia al mondo). Il 5 novembre 1754, con grande successo, parlando a braccio, Genovesi tenne la memorabile prolusione con cui inaugurava il suo corso, le cui idee sistemò poi nel Ragionamento sul commercio in generale (1757), Le sue Lezioni di commercio o sia d’economia civile, pubblicate per la prima volta nel 1765, diventeranno un classico e saranno tradotte e discusse in mezza Europa. E’ difficile, almeno per me, giudicare la validità e forza delle idee economiche di Genovesi, né tantomeno la loro possibile “attualità”: un tema, quest’ultimo, che il senso storico mi porterebbe a consigliare di affrontare con molta cautela. Non manca però chi (ad esempio Stefano Zamagni), mutuando da Genovesi e dagli altri illuministi napoletani l’espressione “economia civile”, vede oggi nelle sue idee un’alternativa al pensiero economico puro o classico, basato sull’idea di un homo aeconomicus inteso a perseguire razionalmente il proprio interesse. In effetti, è sicuramente vero che i temi etici nel pensiero di Genovesi si intrecciano a quelli più propriamente economici e finiscono per dare ad essi il tono e la sostanza. È pur vero, tuttavia, che, stando almeno a certi passi delle sue opere, la natura non meramente altruistica dell’uomo gli era, senza moralismi di sorta, molto chiara. Tanto che lo stesso concetto di “reciprocità” che, secondo lui, è alla base dello scambio mercantile, conserva a mio avviso un che di utilitaristico che non lo discosta troppo dall’impostazione che sarà data qualche decennio dopo di lui da Adam Smith. Anche l’autore della Ricchezza delle nazioni (1776) aveva, fra l’altro, parlato della “fiducia” (“pubblica”) che è alla base del rapporto economico, occupandosene nell’opera filosofica che è da considerarsi come la premessa teorica del suo capolavoro: la Teoria dei sentimenti morali (1759). Mi sembra che ci troviamo di fronte a motivi propri dell’epoca, di un periodo in cui l’economia non aveva del tutto sviluppato quell’autonomia dalle altre scienze che è stata poi, nei secoli a seguire, il motivo del suo successo ma anche della sua crisi attuale. Tipicamente illuministico è anche il tema della “felicità”, che, sulla scia di Genovesi, gli illuministi napoletani hanno sviluppato e diffuso nel mondo (di esso se ne trovano echi evidenti, per il tramite di Gaetano Filangieri e Benjamin Franklin, nella stessa Costituzione americana). Anche in questo caso, il pensiero di Genovesi, legato in senso stretto alle virtù morali e civili, non presenta quegli aspetti utilitaristici che ritroveremo in seguito fra gli economisti. Ad ogni modo, a me sembra particolarmente interessante considerare anche la concezione della cultura e dei fini o dello scopo del lavoro intellettuale che aveva il nostro e che, anche per questa parte, lo trova completamente aderente allo spirito del suo tempo, cioè all’illuminismo. Il riferimento in questo caso è soprattutto il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, che egli compose nell’autunno del 1753 nella casa di villeggiatura di Intieri dalle parti di Vico Equense e pubblicò l’anno dopo poco prima che iniziassero i suoi corsi di economia. In esso egli prese di mira i filosofi, e i “cento e cento altri dialettici e metafisici” che, “per sette e più secoli… fecero a gara a chi potesse essere più ferace in inutili immaginazioni ed astrazioni”. Il loro compito sarebbe stato invece quello di dare “rischiaramento e aiuto” ai popoli e soprattutto ai governanti che avrebbero dovuto guidare gli Stati secondo i dettami della pura ragione. Come si vede, qui c’è una netta presa di distanza da quegli interessi metafisici che lo avevano impegnato, quasi come per liberarsene con cognizione, nella prima fase della sua attività. Il rapporto fra scienza e prassi è stabilito in maniera netta: le scienze da preferire e studiare saranno quelle utili a migliorare e a “incivilire” il popolo umano. In effetti, la scienza scopre, da una parte, certe “verità” nella realtà e, dall’altro, le propone ai saggi legislatori del “dispotismo illuminato” che le “applicano”, anche con l’ausilio della tecnica, all’azione. Questa concezione del mondo come un libro che noi dobbiamo solo leggere e interpretare (secondo l’espressione di Galileo Galilei), della verità come “rispecchiamento” e della prassi come “applicazione” è quella che successivamente il pensiero occidentale post- illuministico metterà per lo più in discussione. Essa, infatti, tendenzialmente, lascia poco spazio alla libertà, cioè all’inventiva e imprevedibile creatività umana. Da un lato, Marx tenderà a risolvere le contraddizioni teoriche immediatamente nell’agire pratico (“non si tratta di capire il mondo ma da trasformarlo”); dall’altra, i liberali tenderanno a scindere l’attività culturale, per sua natura disinteressata, da quella pratica volta a raggiungere un fine di utilità. L’enorme fiducia nella cultura, istillata nei napoletani da Genovesi e a seguire dagli altri esponenti della cultura illuministica cittadina (lo stesso Filangieri, Francesco Maria Pagano o il suo allievo prediletto Giuseppe Maria Galanti) avrà, anche simbolicamente, il suo esito finale nel fallimento della rivoluzione napoletana del 1799. Una classe politico- intellettuale che si affida alla cultura e alla morale senza fare i conti con la maturità del popolo e con la situazione in cui deve operare, constaterà amaramente Vincenzo Cuoco (allievo di Galanti) è destinata a fallire e a rimanere nella storia come mera per quanto nobile testimonianza. Ovviamente, Genovesi non fece in tempo a vedere i fumi della Rivoluzione (era morto a Napoli il 22 settembre 1769) ma nella sua personalità si rispecchiano in maniera così tipica i pregi e le virtù del suo tempo, molto più che in altri pensatori stranieri, che, per noi italiani, è veramente assurdo non conoscerne e aver dimenticato la sua lezione.

Emile Zola: Quei giornali che vivono di scandali! Scrive Émile Zola il su “Le Figaro” il 25 novembre 1897 ripubblicato il 9 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Che dramma straziante, e quali splendidi personaggi! Di fronte a documenti di una bellezza così tragica che la vita ci mette davanti, il mio cuore di romanziere freme di appassionata ammirazione. Non so intravedere una psicologia più nobile. Non è mia intenzione parlare del caso. Se talune circostanze mi hanno permesso di studiarlo e di farmene un’opinione formale, non dimentico che un’inchiesta è in corso, che la giustizia se ne sta occupando e che per onestà è giusto attendere, senza contribuire all’ammasso di pettegolezzi volti a ostruire un caso così chiaro e così semplice. Ma i personaggi, da questo momento, appartengono a me, che sono soltanto un passante con gli occhi aperti sulla vita. E se il condannato di tre anni or sono e l’accusato d’oggi per me rimangono sacri fino a che la giustizia non avrà completato la sua opera, il terzo grande personaggio del dramma, l’accusatore, non avrà certo a soffrire se parlerò di lui con onestà e con coraggio. Ecco che cosa ho visto di Scheurer- Kestner, ecco che cosa penso e che cosa affermo. Forse un giorno, se le circostanze lo permetteranno, parlerò degli altri due. Una vita cristallina, la più nitida, la più diritta. Non una tara, mai la più piccola debolezza. Una medesima opinione, costantemente seguita, senza ambizione militante, sfociata in un’altra posizione politica dovuta unicamente alla simpatia rispettosa dei suoi pari. E non un sognatore, né un utopista. Un industriale, che ha vissuto chiuso nel suo laboratorio, dedito a ricerche particolari, senza conta- re la preoccupazione quotidiana di una grande ditta commerciale da mandare avanti. Ed anche una situazione patrimoniale invidiabile. Tutte le ricchezze, tutti gli onori, tutte le gioie, il coronamento di una bella vita interamente dedicata al lavoro e alla lealtà. Più un solo desiderio da esprimere, ossia quello di finire in modo degno, in questa felicità e nella stima generale. Eccolo, l’uomo. Lo conoscono tutti, non vedo chi mi potrebbe smentire. Ed è proprio l’uomo attorno al quale si sta per svolgere uno dei drammi più tragici e più appassionati. Un giorno, un dubbio si affaccia nel suo spirito, poiché è un dubbio che è nell’aria e che ha già rubato varie coscienze. Un tribunale militare ha condannato, per alto tradimento, un capitano che, chissà, forse è innocente. Il castigo è stato tremendo, la degradazione pubblica, l’internamento in un luogo lontano, l’esecrazione di tutto un popolo che si accanisce, infierendo sull’infelice già a terra. E, qualora fosse innocente, gran Dio! Che brivido di pietà, che orrore agghiacciante! Al pensiero che non ci sarebbe riparazione possibile. Nello spirito del signor Scheurer-Kestner, è nato il dubbio. Da quel momento, come ha spiegato lui stesso, inizia il tormento, rinasce l’ossessione man mano che le cose gli giungono all’orecchio. È un’intelligenza solida e logica quella che, a poco a poco, finisce per essere conquistata dal bisogno insaziabile della verità. Non c’è nulla di più alto, di più nobile e il travaglio che quest’uomo ha vissuto è uno spettacolo straordinario ed entusiasmante, per me, portato come sono dal mio mestiere a scrutare nelle coscienze. Il dibattito sulla verità e in nome della giustizia, non esiste lotta più eroica. In breve, alla fine Scheurer- Kestner giunge alla certezza. La verità la conosce, ora deve fare giustizia. È un momento pauroso e posso immaginare cosa debba essere stato per lui quel momento d’angoscia. Non gli erano certo ignote le tempeste che stava per sollevare, ma la verità e la giustizia sono sovrane, poiché esse soltanto assicurano la grandezza delle nazioni. Può accadere che interessi politici le oscurino per qualche istante, ma un popolo che non basi su di esse la sua unica ragione d’essere sarebbe, oggi, un popolo condannato. Fare luce sulla verità, certo; ma potremmo avere l’ambizione di farcene un vanto. Alcuni la vendono, altri vogliono almeno trarre vantaggio dall’averla detta. Il progetto di Scheurer- Kestner era di restare nell’ombra, pur compiendo la sua opera. Aveva deciso di dire al governo: «Le cose stanno così. Intervenite, abbiate voi stessi il merito d’essere giusti, riparando a un errore. Chi fa giustizia, trionfa sempre». Circostanze delle quali non voglio parlare fecero sì che non venisse ascoltato. Da quel momento in poi, ebbe inizio la sua ascesa al calvario, un’ascesa che dura da settimane. Si era sparsa la voce che egli fosse in possesso della verità, e chi detiene la verità, senza gridarla ai quattro venti, che altro può essere se non un nemico pubblico? Stoicamente, per quindici giorni interminabili, rimase fedele alla parola data di tacere, sempre nella speranza di non doversi ridurre a prendere il posto di quelli che avrebbero dovuto agire. E sappiamo bene quale marea d’invettive e di minacce si sia abbattuta su di lui durante questi quindici giorni; un vero torrente di accuse immonde, di fronte al quale è rimasto impassibile, a testa alta. Perché taceva? Perché non mostrava il suo incartamento a chiunque lo volesse vedere? Perché non faceva come gli altri che riempivano i giornali delle loro confidenze? Quanto, ah, quanto è stato grande e saggio! Taceva, perfino al di là della promessa fatta, proprio perché si sentiva responsabile nei confronti della verità. Una povera verità, nuda e tremebonda, schernita da tutti e che tutti sembravano avere interesse a soffocare, lui pensava soltanto a proteggerla contro l’ira e le passioni altrui. Aveva giurato a se stesso che non l’avrebbero fatta sparire e intendeva scegliere il momento e i mezzi adatti per assicurarle il trionfo. Che può mai esserci di più naturale, di più lodevole? Per me non esiste niente di più sovranamente bello del silenzio di Scheurer- Kestner, dopo tre settimane di ingiurie e di sospetti da parte di un intero popolo fuori di sé. Ispiratevi a lui, romanzieri! In lui sì avreste un eroe! I più benevoli hanno avanzato dubbi sul suo stato di salute mentale. Non era per caso un vegliardo indebolito, caduto nell’infantilismo senile, uno di quegli spiriti che il rimbambimento incipiente rende inclini alla credulità? Gli altri, i pazzi e i delinquenti, l’hanno accusato senza tante cerimonie d’essersi lasciato “comprare”. Semplicissimo: gli ebrei hanno sborsato un milione per acquistare tanta incoscienza. E non si è levata una risata immensa, come risposta a tanta stupidità! Scheurer- Kestner, è là, con la sua vita cristallina. Fate un confronto tra lui e gli altri, quelli che lo accusano e lo insultano, e giudicate. Bisogna scegliere tra questo e quelli. Trovatela, la ragione che lo farebbe agire, al di fuori del suo bisogno così nobile di verità e di giustizia. Coperto d’ingiurie, l’animo lacerato, sentendo vacillare il suo prestigio sotto di sé, ma pronto a sacrificare tutto pur di portare a buon esito il suo eroico compito, egli tace, aspetta. Fino a che punto si può essere grandi! L’ho detto, del caso in sé non mi voglio occupare. Tuttavia, è bene che io lo ripeta: è il più semplice, il più trasparente del mondo, per chi voglia prenderlo per quello che è. Un errore giudiziario, eventualità deplorevole, sì, ma sempre possibile. Sbagliano i magistrati, possono sbagliare i militari. Cos’ha a che fare, questo, con l’onore dell’esercito? L’unico bel gesto, qualora sia stato commesso un errore, è di porvi riparo: e la colpa nascerebbe nel momento in cui qualcuno s’intestardisse a non voler ammettere di essersi sbagliato, nemmeno di fronte a prove decisive. Non ci sono altre difficoltà, in fondo. Andrà tutto bene, purché si sia decisi a riconoscere di aver potuto commettere un errore e di avere esitato, in seguito, a convenirne, perché era imbarazzante. Quelli che sanno, mi capiranno. Quanto al temere complicazioni diplomatiche, è uno spauracchio per gli allocchi. Nessuna delle potenze vicine ha niente a che spartire con il caso e converrà dirlo forte. Ci troviamo soltanto di fronte a un’opinione pubblica esasperata, sovraffaticata da una campagna che è tra le più odiose. La stampa è una forza necessaria; sono convinto che nel complesso faccia più bene che male. Ma certi giornali, quelli che gettano lo scompiglio, quelli che seminano il panico, che vivono di scandali per triplicare le vendite, non sono certo meno colpevoli. L’antisemitismo idiota ha gettato il seme di questa demenza. La delazione è dappertutto, nemmeno i più puri e più coraggiosi osano fare il loro dovere per il timore di venire infangati. E così, eccoci in questo orribile caos, nel quale tutti i sentimenti sono falsati, in cui non è possibile volere la giustizia senza venire trattati da rimbambiti o da venduti. Le menzogne mettono radici, le storie più assurde vengono riportate con sussiego dai giornali seri, l’intera nazione sembra in preda alla follia, quando un po di buon senso rimetterebbe subito a posto le cose. Oh, come sarà semplice, torno a dirlo, il giorno in cui quelli che sono alla guida oseranno, nonostante la folla aizzata, comportarsi da galantuomini! Immagino che nel silenzio altero di Scheurer- Kestner, ci sia anche il desiderio di aspettare che ciascuno faccia il suo esame di coscienza prima di agire. Quando ha parlato del suo dovere che, perfino sulle rovine del suo prestigio, della sua felicità e dei suoi beni, gli ordinava, dopo averla conosciuta, di servire la verità, quest’uomo ha detto una frase ammirevole: «Non avrei più potuto vivere». Ebbene, ecco che cosa devono dirsi tutte le persone oneste immischiate in questa storia: che non potranno più vivere, se non faranno giustizia. E, qualora ragioni politiche volessero che la giustizia venisse ritardata, si tratterebbe di una notizia falsa che servirebbe soltanto a rinviare l’epilogo inevitabile, aggravandolo ulteriormente. La verità è in cammino e niente la potrà fermare. Pubblicato su “Le Figaro” il 25 novembre 1897 

«Dreyfus è innocente!» Così Zola inventò l’intellettuale moderno. Scrive Vincenzo Vitale il 7 Agosto 2018 su "Il Dubbio".  Si dice affaire Dreyfus e dovrebbe dirsi affaire Zola. Infatti, se non ci fosse stato l’intervento determinante – nei modi che vedremo – del celebre scrittore francese Emile Zola, all’epoca già molto noto e apprezzato in tutta Europa, molto probabilmente il Capitano di artiglieria Albert Dreyfus sarebbe silenziosamente deceduto alla Caienna francese, seppellito dalla infamante accusa di spionaggio a favore dei tedeschi e ignoto ai più: archiviato lui stesso come un doloroso fatto di cronaca e null’altro. Invece, come è noto, fu Zola a fare, di Dreyfus, Dreyfus; vale a dire probabilmente il più clamoroso e discusso caso giudiziario della storia europea non solo della fine dell’ottocento francese, ma anche dei secoli precedenti e successivi. Tuttavia, non si tratta, come vedremo, soltanto di un caso giudiziario, per quanto importante e significativo; si tratta di qualcosa di più e di diverso: il caso Dreyfus si fa infatti cogliere come un autentico prisma di rifrazione che permette di scorgere ed interpretare le dinamiche profonde e perfino le scansioni antropologiche del tessuto sociale europeo della fine dell’ottocento, ma anche – ed è questo un aspetto di supremo interesse, in quanto non esclusivamente storiografico – di quello contemporaneo, in tutte le sue implicazioni politiche, giuridiche, umane e sociali. Insomma: conoscere e comprendere il passato per interpretare il presente. Nulla sollecita e propizia questa ben nota operazione culturale come il caso Dreyfus che qui si presenta. Innanzitutto, i fatti. Dopo la cocente sconfitta di Sedan del 2 settembre del 1870, ove lo stesso Napoleone III era stato fatto prigioniero, dopo che, a pochi giorni dalla caduta di Parigi del 18 gennaio 1871, era stato proclamato nella sala degli specchi di Versailles l’impero tedesco, la Francia, riedificata in Terza Repubblica, si era data nel 1875 una Costituzione. Ma il quadro politico e sociale, all’inizio dell’ultimo decennio del secolo, è quanto mai instabile e insicuro. L’eco del boulangismo ancora vivo ( movimento politico guidato dal generale Boulanger, che si prefiggeva di abbattere la Terza Repubblica con un colpo di stato militare), l’incapacità rivelata durante la guerra franco- prussiana, gli orrori della Comune di Parigi, la rapida successione di Ministeri deboli, la spiccata e violenta faziosità dei partiti, i ricorrenti e gravi scandali finanziari ( non ultimo quello di Panama) contribuiscono a fornire anche agli osservatori stranieri un’immagine della Francia come paese agonizzante. Forse la sola istituzione che sembri ancora salvarsi dallo sfacelo è l’esercito, da poco efficacemente riorganizzato ex novo da Charles de Freycinet, ministro della guerra fra il 1889 e il 1990. È ovvio perciò come in questa Francia le tensioni sociali, lievitando ormai in modo non controllabile, né potendosi più risolvere e conciliare in un conflitto verso l’esterno, esigano, per essere placate e per consentire il ritorno ai binari della normalità, delle vittime: la prima di queste ha nome Dreyfus. Lo esige la Ragion di Stato: per questo, la sorte di Alfred Dreyfus, capitano del 14° Reggimento di artiglieria, addetto allo Stato Maggiore generale del Ministero della Guerra, comandato al primo ufficio di artiglieria, quarantotto anni, coniugato, due figli, israelita, di origine alsaziana, era segnata. Fin dall’inizio. In questo quadro generale, non è difficile individuare i profili determinanti della vicenda di Dreyfus. Accusare Dreyfus di tradimento; condurlo sul banco degli imputati sulla sola base di un bordereau, contenente rivelazioni di segreti militari a favore dei tedeschi, ma in realtà di mano altrui; condannarlo alla degradazione e alla deportazione perpetua nell’Ile du Diable, sulla scorta di un documento che ne avrebbe provato la certa colpevolezza, ma che, essendo segretissimo, non viene mostrato neppure al difensore; assolvere, dopo soli tre minuti di camera di consiglio, il comandante Walsin- Esterhazy – il vero responsabile – solo allo scopo di non sconfessare l’operato del precedente collegio giudicante, che aveva già condannato Dreyfus; imprigionare il tenentecolonnello Picquart, che aveva scoperto l’imbroglio, accusandolo di falso; indurre al suicidio il Maggiore Henry, l’autore sciagurato del documento falso adoperato per condannare Dreyfus… sono questi in tratti tipici di ogni persecuzione sociale – come bene individuati da René Girard – e Dreyfus ne è il capro espiatorio. E si tratta, come spesso accade, di una persecuzione giudiziaria, vale a dire messa in opera attraverso le forme del diritto e l’operato dei giudici: quanto di meglio per dissimulare sotto le specie della legalità formale, la più perfida e sconcertante delle iniquità. Allo scopo di perfezionare lo schema della persecuzione, occorrono alcuni elementi che sono qui presenti in modo paradigmatico. Il primo è che deve trattarsi di un’accusa che abbia un contenuto universalmente repellente, non suscettibile, tendenzialmente, di suscitare eccezioni o ripensamenti: infatti, Dreyfus viene accusato di spionaggio, reato spregevole di per sé, e che, nella Francia di fine ottocento, mette a repentaglio la sola istituzione ancora meritevole di credibilità, vale a dire l’esercito. Nessuno potrebbe permettersi di revocare in dubbio la necessità di condannare in modo esemplare il colpevole di un illecito così pericoloso e antinazionalista. Il secondo elemento consiste nella circostanza che l’accusato non può mai essere uno qualunque, uno di cui sia indifferente la qualità sociale, ma, al contrario, deve essere portatore di uno stigma che lo consegni ad una classe minoritaria ma identificabile di individui: il negro, il deforme, lo straniero. Infatti, Dreyfus è ebreo e, per giunta, di origine alsaziana. Quanto di meglio per sollecitare lo spregio dell’antisemitismo e del nazionalismo militarista di coloro che vedono negli ebrei la causa di ogni male e negli alsaziani – sempre a metà fra Germania e Francia – il germe di ogni tradimento. Infine, la persecuzione va dissimulata, preferibilmente nascosta dietro le forme rassicuranti del diritto e del processo, allo scopo di non svelare il meccanismo vittimario e persecutorio. Infatti, Dreyfus viene processato ben due volte, così come Zola imputato di diffamazione, ed essi vengono sempre condannati. Ed Esterhazy, il vero colpevole, viene addirittura assolto, dopo appena tre minuti di camera di consiglio. Tanto per non smentirsi. Orbene, il solo modo di contrastare i nefandi effetti della persecuzione sta nello svelamento dei meccanismi che la fanno funzionare: una persecuzione messa a nudo come strumento di violenza, svelata come persecuzione, si sgonfia come un palloncino senza più ossigeno, depotenziandosi in modo irreversibile. Occorre tuttavia qualcuno che si incarichi di questo svelamento: Emile Zola si assume questo compito difficile, scomodo, impopolare. Egli è il rivelatore. Anche del rivelatore della persecuzione si richiedono comunque precise caratteristiche, tutte ampiamente possedute da Zola: coraggio per opporsi alla massa della opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione; sufficiente notorietà per trovare una platea di ascolto quanto più diffusa possibile; capacità soggettive di comunicazione universale. E infine, quella più importante: la passione per la verità del diritto, vale a dire per la giustizia. Così, Zola, scrivendo infuocati editoriali sulla stampa parigina in difesa dell’innocente Dreyfus e accusando i suoi carnefici, inaugura la figura dell’intellettuale in senso moderno. Si badi. Il termine “intellettuale” fino al settecento era stato sempre usato in senso aggettivale, non quale sostantivo, come oggi viene normalmente adoperato. Furono gli illuministi francesi a propiziare questo nuovo uso del termine, a partire da Diderot, il quale, nella sua celebre Lettre sur la liberté de la presse, segna probabilmente il transito dal clericus tardo medievale all’intellettuale in senso moderno.

Si badi ancora a non confondere l’intellettuale con il filosofo o con il pensatore: costoro certamente pensano in modo originale, ma non sempre rivestono il ruolo del vero intellettuale. Questi è invece caratterizzato dal collocarsi sempre all’opposizione di ogni potere che, mettendo fra parentesi le ragioni del diritto – e perciò della giustizia – voglia manifestarsi quale pura sopraffazione: il potere economico, quello politico, quello ideologico, quello comunicativo, quello giudiziario, quello della mafia e anche (come insegna Sciascia) quello dell’antimafia. L’intellettuale, identificandosi non con uno status personale, ma con un ruolo sociale, si presenta perciò come il “demistificatore delle accuse”, colui che svela pubblicamente il meccanismo persecutorio, opponendosi al potere violento che di volta in volta sia capace di attivarne i percorsi. Ecco perché Zola si colloca agli antipodi sia dall’intellettuale organico caro a Gramsci o a Lenin (l’intellettuale al servizio del potere); sia da quello che – secondo la lezione, di matrice platonica, di Fichte – indichi al potere il traguardo da raggiungere (il potere al servizio dell’intellettuale); sia da quello sdegnosamente rinchiuso, secondo la lezione di Max Weber, nella turris eburnea del suo sapere (l’intellettuale al servizio di se stesso). Zola, infatti, è al servizio esclusivamente della verità e della giustizia. In tal modo, egli si colloca all’opposizione sia dell’esercito, minacciato dalle sue rivelazioni; sia dei Consigli dei giudici militari che avevano condannato l’innocente Dreyfus e assolto il colpevole Esterhazy; sia dei ministri che tali nefandezze avevano propiziato e coperto; sia dei nazionalisti e conservatori, che lo consideravano un pericolo pubblico; sia perfino dei socialisti, perché di origine borghese; nonché della borghesia, perché egli non esita a criticarla. Insomma, dicendo la verità sul caso Dreyfus, Zola attira su di sé le veementi reazioni di tutti, al punto da essere condannato per diffamazione e dover riparare a Londra. Si attua così il tipico “spostamento mimetico” – messo in luce dall’antropologia di Girard – in forza del quale, la violenza indirizzata verso il perseguitato viene spostata verso chi, demistificando l’accusa come persecutoria, diviene a sua volta un nuovo capro espiatorio. Impegnandosi in questo compito socialmente soteriologico, teso a demistificare l’accusa, Zola si colloca così in singolare continuità con il compito che dovrebbe essere proprio del giudice in uno Stato di diritto, anch’egli impegnato a demistificare le accuse non provate, cerebrine, fumose, non previste dal codice penale (si pensi al concorso esterno in associazione mafiosa): ma oggi purtroppo, in Italia, compito di rado condotto a buon fine. In ogni caso, Zola è stato ed ancora è il paradigma dell’intellettuale moderno, oggi forse in via di estinzione. Lo fu certamente Pasolini, del quale rimane indimenticabile la posizione assunta, dopo i fatti di Valle Giulia, attraverso i celebri versi dettati a difesa delle forze dell’ordine (i figli dei braccianti del Sud), aggrediti dai sessantottini rivoluzionari (i figli della opulenta borghesia del Nord); o, ancora, quella assunta contro l’aborto come pratica legalizzata: «Se tutti gli uomini sono stati embrioni, perché non tutti gli embrioni possono diventare uomini?», si chiedeva Pasolini. Lo fu certamente Sciascia che denunciò il potere, sottratto ad ogni critica, del quale certa antimafia può impunemente usare. Grandinarono su entrambi ovviamente reprimende, accuse, censure, da stolidi e saccenti alfieri del nulla, sedicenti custodi dell’etica pubblica. Altri in Italia, nell’Italia di oggi, potrebbero e dovrebbero assumere quel ruolo. Ma, come sopra rilevato, ci vorrebbe coraggio. E, come tutti sappiamo, il coraggio chi non l’ha non se lo può dare.

Scheurer-Kestner interviene e da quel momento si accese una fiammella di verità. Sul finire del 1897, Zola non può fare a meno di constatare che il vicepresidente del Senato Auguste Scheurer- Kestner, è roso dal dubbio che Dreyfus possa essere innocente, scrive Vincenzo Vitale il 9 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Nel 1894, quando ha inizio il caso Dreyfus, attraverso il casuale ritrovamento in un cestino dei rifiuti da parte di una addetta alle pulizie – che poi alcuni dissero essere membro del controspionaggio – di un bordereau contenente rivelazioni militari destinate agli odiati tedeschi, Emile Zola, scrittore già molto conosciuto e molto apprezzato in tutta Europa, si trova a Roma. Fa ritorno in Francia solo alla fine dell’anno ed è perciò naturale che non abbia avuto notizia sufficiente di quanto accaduto durante il suo soggiorno italiano. Ecco perché il primo intervento giornalistico di Zola, qui pubblicato, si colloca soltanto nel novembre del 1897, quando già le prime parti del dramma sono state abbondantemente consumate. Sulla scorta di quel documento strumentalmente attribuito a Dreyfus, questi viene arrestato nell’ottobre del 1894 e sommariamente giudicato, subendo una condanna che da tutti si esigeva esemplare: degradazione e deportazione perpetua all’Isola del diavolo, nella Caienna francese. Prove a carico: nessuna. Tuttavia, la durezza della condanna era equivalente ad una condanna a morte che lentamente avrebbe consumato l’innocente Dreyfus, con lo stesso scorrere delle ore e dei giorni e, per giunta, sostenuta dalla esecrazione generale per il colpevole di un crimine così nefando. Un vero orrore. Ecco dunque che sul finire del 1897, Zola non può fare a meno di constatare che il vicepresidente del Senato Auguste Scheurer- Kestner, uomo probo e di cui tesse le lodi, è roso dal dubbio che Dreyfus possa essere innocente e che, poi, avendo egli conosciuto meglio i profili giudiziari del caso, di questa innocenza abbia raggiunto la certezza. Ragion per cui, scrive Zola: «Conosce la verità e ora deve fare giustizia». Scheurer- Kestner è un chimico, un industriale di successo, fiero oppositore di Napoleone III, di origine alsaziana, politico di razza. Ciò basta a mettere in chiaro due aspetti rilevanti. Innanzitutto, che non occorre essere giuristi professionisti per capire quando si metta in opera una persecuzione giudiziaria, destinata a sacrificare una vittima – allo scopo di garantire la minacciata coesione sociale – invece che a realizzare la giustizia. Scheurer- Kestner lo capisce semplicemente ascoltando senza pregiudizi il racconto a lui fatto dal fratello di Dreyfus, Mathieu, e dalla moglie, Lucie Hadamard: basta un po’ di normale buon senso. Inoltre, va notato che è proprio lui, in prima battuta, a subire lo spostamento mimetico proprio di ogni persecuzione. Infatti, su di lui – alsaziano come Dreyfus – cadono, in questo momento, gli strali dei benpensanti, di quelli che sono certi, certissimi della colpevolezza di Dreyfus, ma che ovviamente si rifiutano ostinatamente di pensare, ritenendo il pensiero e il suo esercizio compiti che possono bene essere affidati ad altri, incaricati di pensare per tutti. Qualche anno dopo, un altro vero intellettuale, Karl Kraus, scrivendo dal cuore profondo dell’Europa, la regale Vienna, l’avrebbe icasticamente chiarito nei suoi Detti e contraddetti: «Tutta la vita dello Stato e della società è fondata sul tacito presupposto che l’uomo non pensi. Una testa che non si offra in qualsiasi situazione come un capace spazio vuoto non avrà vita facile nel mondo». E dunque, nel bel mezzo di milioni di individui dalla testa vuota che intendono custodire la facilità della propria vita, Scheurer- Kestner preferisce avere una vita difficile, pur di pensare; e, pensando, non può evitare di dire la verità e cioè che Dreyfus è stato condannato da perfetto innocente. Zola viene attratto proprio da questo aspetto e perciò, senza ancora voler trattare esplicitamente dell’affaire, assume le difese dell’uomo politico, in vario modo sospettato, accusato dagli anti- dreyfusard di demenza senile e perfino di essersi fatto comprare dagli ebrei che avrebbero sborsato una bella somma allo scopo. Follie, assurdità, veleni contro la ragione dettati da un becero antisemitismo e da un nazionalismo cieco, grida Zola. Questi, dal canto suo, non è certo nuovo ad assumere posizioni oppositive. Basti pensare a quando, nel 1866, appena ventiseienne, ancora squattrinato, ma incaricato da parte del quotidiano L’Evénement – di proprietà del celebre Le Figaro – di seguire le mostre pittoriche del Salon parigino, stronca letteralmente la paludata giuria dell’esposizione, prigioniera di vetusti schemi accademici. Egli assume le difese criticamente fondate di coloro che saranno chiamati poi “impressionisti”: Edouard Manet – la cui Colazione sull’erba giudica un capolavoro – Claude Monet, Pisarro e Cèzanne, di cui diviene grande amico. Si attira così le ire dei benpensanti, di coloro che preferivano la pittura manieristica e odiavano le opalescenze impressionistiche come traviamenti dell’anima e della mente. Ma Zola non cede. Risultato: l’editore, travolto dalle polemiche, è costretto a sospendere la rubrica tenuta da Zola e questi resta disoccupato e senza un soldo. È appena il caso di ricordare che la storia si assumerà il compito di consacrare definitivamente gli impressionisti, difesi da Zola, seppellendo nell’oblio i suoi critici. Ecco perchè lo scrittore sa bene – quando prende le difese di Scheurer- Kestner – che dire la verità esige sempre un prezzo, a volte molto alto. Ma sa anche che – come recita la chiusa di questo articolo – «la verità è in cammino e niente la potrà fermare».

«La caccia all’ebreo traditore». Scrive Émile Zola su “Le Figaro” il primo dicembre 1897 ripubblicato il 12 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Contavo di scrivere per Le Figaro tutta una serie di articoli sul caso Dreyfus, un’intera campagna, via via che gli avvenimenti si fossero svolti. Per caso, durante una passeggiata, ne avevo incontrato il direttore, Fernand de Rodays. Ci eravamo messi a discorrere, accalorandoci, proprio in mezzo ai passanti, e da lì era nata bruscamente la mia decisione di offrirgli degli articoli, avendolo sentito d’accordo con me. Mi trovavo così impegnato, quasi senza volerlo. Aggiungo, tuttavia, che prima o poi ne avrei parlato, poiché tacere mi era impossibile. Non dimentichiamo con quale vigore Le Figaro cominciò e soprattutto finì per sposare la causa. Il concetto è noto. Ed è di una bassezza e di una stupidità semplicistica, degne di quelli che l’hanno immaginato. Il capitano Dreyfus viene condannato da un tribunale militare per alto tradimento. Da quel momento, diventa il traditore, non più un uomo ma un’astrazione, colui che incarna l’idea della patria sgozzata, venduta al nemico vincitore. Non si tratta solo di tradimento presente e futuro, rappresenta pure il tradimento passato, poiché a lui si ascrive l’antica sconfitta, nell’ostinata convinzione che solo il tradimento abbia potuto far sì che fossimo battuti. Ecco quindi l’anima nera, il personaggio abominevole, la vergogna dell’esercito, il bandito che vende i fratelli, proprio come Giuda ha venduto il suo Dio. E, trattandosi di un ebreo, è semplicissimo: gli ebrei che sono ricchi e potenti e senza patria, del resto, lavoreranno sott’acqua, con i loro milioni, per toglierlo dai guai; compreranno le coscienze e tesseranno attorno alla Francia un complotto esecrabile pur di ottenere la riabilitazione del colpevole, pronti a sostituirgli un innocente. La famiglia del condannato, anch’essa ebrea, naturalmente, entra nell’affare. Affare sì, poiché è a peso d’oro che si tenterà di disonorare la giustizia, d’imporre la menzogna, di sporcare un popolo con la più impudente delle campagne. Il tutto per salvare un ebreo dall’infamia e sostituirlo con un cristiano. Insomma, si crea quasi un consorzio finanziario. Vale a dire che alcuni banchieri si riuniscono, mettono dei fondi in comune, sfruttano la credulità pubblica. Da qualche parte, c’è una cassa che paga per tutto il fango smosso. C’è una vasta impresa tenebrosa, uomini mascherati, forti somme consegnate di notte, sotto i ponti, a degli sconosciuti, ci sono grandi personaggi da corrompere, pagandone a prezzi folli l’antica onestà. E a poco a poco questo sindacato si allarga, finisce per essere un’organizzazione potente, nell’ombra, tutta una spudorata cospirazione per glorificare il traditore e per annegare la Francia sotto una marea d’ignominia. Esaminiamolo, questo sindacato. Gli ebrei si sono arricchiti, e sono loro a pagare l’onore dei complici, profumatamente. Mio Dio, chissà quanto avranno già speso! Ma, se sono arrivati appena a una decina di milioni, capisco benissimo che li abbiamo sacrificati. Siamo di fronte a cittadini francesi, nostri uguali e nostri fratelli, che l’antisemitismo imbecille trascina quotidianamente nel fango. Si è tentato di schiacciarli per mezzo del capitano Dreyfus; del crimine di uno di loro, si è cercato di fare il crimine di un’intera razza. Tutti traditori, tutti venduti, tutti da condannare. E volete che gli stessi non protestino furiosamente, non cerchino di discolparsi, di restituire colpo su colpo in questa guerra di sterminio della quale sono oggetto? Va da sé, naturalmente, che si augurino con tutto il cuore di vedere risplendere l’innocenza del loro correligionario; e se la riabilitazione appare loro possibile, chissà con quanto ardore si staranno impegnando per ottenerla. Ciò che mi lascia perplesso è che, se esiste uno sportello dove si va a riscuotere, non ci sia nel sindacato qualche autentico briccone. Vediamo un po, voi li conoscete bene: come si spiega che il tale, o il tal altro, o il tal altro ancora, non lo siano? E’ incredibile, ma tutta la gente che si dice gli ebrei abbiano comprato gode di una solida reputazione di probità. C’è forse un fondo di civetteria? Forse, gli ebrei vogliono soltanto merce rara, essendo disposti a pagarla? Io, però, dubito molto di questo sportello, anche se sarei prontissimo a giustificare gli ebrei qualora, portati all’esasperazione, si difendessero con i loro milioni. In un massacro, ognuno si serve di quello che ha. E parlo di loro con la massima tranquillità perché non li amo e non li odio. Non ho amici ebrei particolarmente vicini al mio cuore. Per me sono uomini, e tanto basta. Ma per la famiglia del capitano Dreyfus è ben diverso, e qui se qualcuno non comprendesse, non s’inchinasse, sarebbe un cuore davvero arido. Sia ben chiaro! tutto il suo oro, tutto il suo sangue, la famiglia ha il diritto e il dovere di offrirlo, se crede innocente il suo rampollo. Quella è una soglia sacra che nessuno ha il diritto di insozzare. In quella casa che piange, dove c’è una moglie, dei fratelli, dei genitori in lutto, è d’obbligo entrare con il cappello in mano; e soltanto gli zotici si permettono di parlare ad alta voce e mostrarsi insolenti. Il fratello del traditore! è l’insulto che si getta in faccia a quel fratello. Sotto quale morale, sotto quale Dio viviamo, mi chiedo, perché ciò sia possibile, perché la colpa di uno dei componenti venga rimproverata a tutta la famiglia? Non c’è niente di più vile, di più indegno della nostra cultura e della nostra generosità. I giornali che ingiuriano il fratello del capitano Dreyfus, solo perché ha fatto il suo dovere, sono un’onta per la stampa francese. E chi mai doveva parlare, se non lui? E’ compito suo. Quando la sua voce si è levata a chiedere giustizia, nessuno più aveva il diritto d’intervenire, si sono fatti tutti da parte. Lui solo aveva la veste per sollevare la spinosa questione di un possibile errore giudiziario, della verità su cui far luce, una verità lampante. Hanno un bell’accumulare ingiurie, nessuno potrà oscurare il concetto che la difesa dell’assente l’hanno in mano quelli del suo sangue, che hanno conservato la speranza e la fede. E la prova morale più forte in favore dell’innocenza del condannato è proprio la convinzione incrollabile di un’intera e onorata famiglia, di una probità e di un patriottismo senza macchia. Poi, dopo gli ebrei fondatori, dopo la famiglia che ne è a capo, vengono i semplici membri del sindacato, quelli che si sono fatti comprare. Due tra i più anziani sono Bernard Lazare e il comandante Forzinetti. In seguito, sono venuti Scheurer- Kestner e Monod. Ultimamente, si è scoperto il colonnello Picquart, senza contare Leblois. E spero bene, dopo il mio primo articolo, di far parte pure io della banda. Del resto, appartiene al sindacato, viene tacciato d’essere un malfattore e d’essere stato pagato, chiunque, ossessionato dall’agghiacciante brivido di un possibile errore giudiziario, si permetta di volere che sia fatta la verità, in nome della giustizia. Siete stati voi a volerlo, a crearlo, questo sindacato. Voi tutti che contribuite a questo spaventoso caos, voi falsi patrioti, antisemiti sbraitanti, semplici sfruttatori della pubblica sconfitta. La prova non è forse completa, di una luminosità solare? Se ci fosse stato un sindacato, ci sarebbe stata un’intesa; e dov’è l’intesa? E’ semplicemente nato in alcune coscienze, all’indomani della condanna, un senso di malessere, un dubbio, di fronte all’infelice che grida a tutti la sua innocenza. La crisi terribile, la pubblica follia alla quale assistiamo, è sicuramente partita da lì, dal lieve brivido rimasto negli animi. Ed è il comandante Forzinetti l’uomo di quel brivido che tanti altri hanno provato, quello che ce ne ha fatto un racconto così cocente. Poi, c’è Bernard Lazare. Preso dal dubbio, lavora a far luce. La sua inchiesta solitaria si svolge però in mezzo a tenebre che gli è impossibile diradare. Pubblica un opuscolo, ne fa uscire un secondo alla vigilia delle sue rivelazioni di oggi; e la prova che lavorava da solo, che non era in relazione con nessun altro membro del sindacato, è che non ha saputo, non ha potuto dire niente della verità vera. Un sindacato proprio strano, i cui membri si ignorano! C’è poi Scheurer- Kestner, a sua volta torturato dal bisogno di verità e di giustizia, e che cerca, tenta di arrivare a una certezza, senza sapere niente dell’inchiesta ufficiale ufficiale, dico – che contemporaneamente veniva svolta dal colonnello Picquart, messo sulla buona strada dalle sue stesse funzioni presso il ministero della Guerra. C’è voluto un caso, un incontro, come si saprà in seguito, perché i due uomini che non si conoscevano, che lavoravano ognuno per conto proprio alla stessa opera, finissero all’ultimo momento per raggiungersi e procedere fianco a fianco. La storia del sindacato è tutta qui: uomini di buona volontà, di verità e di equità, partiti dai quattro punti cardinali, senza conoscersi e lavorando a leghe di distanza, ma incamminati tutti verso uno stesso fine, procedendo in silenzio, esplorando il terreno e convergendo tutti un bel mattino verso lo stesso punto d’arrivo. Com’era inevitabile, si sono trovati tutti e presi per mano a quel crocevia della verità, a quel fatale appuntamento della giustizia. Come vedete siete voi che, ora, li riunite, li costringete a serrare i ranghi per dedicarsi a un medesimo sforzo sano e onesto, questi uomini che voi coprite d’insulti, che accusate del più nero complotto, quando miravano unicamente a un’opera di suprema riparazione. Dieci, venti giornali, ai quali si mescolano le passioni e gli interessi più diversi, una stampa ignobile che non posso leggere senza che mi si spezzi il cuore per lo sdegno, non ha cessato, come dicevo, di convincere il pubblico che un sindacato di ebrei fosse impegnato nel più esecrabile dei complotti, acquistando le coscienze a peso d’oro. Lo scopo era in un primo momento quello di salvare il traditore e sostituirlo con un innocente; poi, quello di disonorare l’esercito, di vendere la Francia come nel 1870. Sorvolo sui romanzeschi par- ticolari della tenebrosa macchinazione. E questa opinione, lo riconosco, è diventata quella della grande maggioranza del pubblico. Quante persone ingenue mi hanno avvicinato in questi otto giorni, per dirmi con aria stupefatta: «Come! Dite che Scheurer- Kestner non è un bandito? e anche voi vi mettete con quella gentaglia? Ma non lo sapete che hanno venduto la Francia?». Il cuore mi si stringe per l’angoscia, perché so bene che una simile perversione dell’opinione pubblica rende molto facile imbrogliare le carte. E il peggio è che i coraggiosi sono rari, quando c’è da andare controcorrente. Quanti ti mormorano all’orecchio di essere convinti dell’innocenza del capitano Dreyfus, ma che non se la sentono di assumere un atteggiamento pericoloso, nella mischia! Dietro l’opinione pubblica, sulla quale contano naturalmente di potersi appoggiare, ci sono gli uffici del ministero della Guerra. Non voglio parlarne, oggi, perché ancora spero che giustizia sarà fatta. Ma chi non si rende conto che siamo di fronte alla cattiva volontà più cocciuta? Non si vuole riconoscere di aver commesso degli errori e, vorrei dire, delle colpe. Ci si ostina a coprire i personaggi compromessi e si è pronti a tutto, pur di evitare il tremendo repulisti. E la cosa è talmente grave, che gli stessi che hanno in mano la verità, dai quali si esige furiosamente che la dicano, esitano, aspettano a gridarla pubblicamente, nella speranza che la stessa si imponga da sé e che venga loro risparmiato il dolore di doverla dire. Ma è pur sempre una verità quella che, da oggi, io vorrei diffondere in tutta la Francia. Ossia che si è sul punto di farle commettere, a lei che è la giusta, la generosa, un autentico crimine. Non è più la Francia, dunque, perché si possa ingannarla a tal punto, aizzarla contro un infelice che, da tre anni, espia, in condizioni atroci, un crimine che non ha commesso? Sì, esiste laggiù, in un’isola sperduta, sotto un sole spietato, un essere che è stato separato dai suoi simili. E non solo il mare lo isola, ma undici guardiani lo circondano notte e giorno come una muraglia vivente. Undici uomini sono stati immobilizzati per sorvegliarne uno solo. Mai assassino, mai pazzo furioso è stato murato in modo così totale. E l’eterno silenzio e la lenta agonia sotto l’esecrazione di una nazione intera! Osereste dire, ora, che quest’uomo non è colpevole? Ebbene, è proprio quello che affermiamo, noi, gli appartenenti al sindacato. E lo diciamo alla Francia e ci auguriamo che prima o poi ci ascolti poiché sempre essa si infervora per le cause giuste e belle. Le diciamo che noi vogliamo l’onore dell’esercito, la grandezza della nazione. E’ stato commesso un errore giudiziario e, finché non sarà riparato, la Francia soffrirà, malaticcia, come per un cancro segreto che corrode a poco a poco le armi. E se, per farla ritornare sana, è necessario ricorrere al bisturi, si faccia! Un sindacato per agire sull’opinione pubblica, per guarirla dalla demenza in cui l’ha gettata certa ignobile stampa, per riportarla alla sua fierezza, alla sua secolare generosità. Un sindacato per ripetere ogni mattina che le nostre relazioni diplomatiche non sono in gioco, che l’onore dell’esercito non è affatto in causa, che solo alcune individualità possono essere compromesse. Un sindacato per dimostrare che qualsiasi errore giudiziario è riparabile, e che perseverare in un errore del genere, con il pretesto che un consiglio di guerra non può sbagliarsi, è la più mostruosa delle ostinazioni, la più spaventosa delle infallibilità. Un sindacato per condurre una campagna fino a che verità sia detta, fino a che giustizia sia resa, al di là di tutti gli ostacoli, quand’anche occorressero ancora anni di lotta. Sì, di questo sindacato faccio parte anch’io e spero tanto che voglia farne parte tutta la brava gente di Francia! Articolo Pubblicato su “Le Figaro” il primo dicembre 1897 

Io accuso quel colonnello diabolico. Il celeberrimo articolo intitolato J’Accuse nel quale Emile Zola elenca i nomi dei responsabili della macchinazione giudiziaria contro Alfred Dreyfus. Scrive Émile Zola sul quotidiano «L’Aurore» il 13 gennaio 1898 e ripubblicato il 15 Agosto 2018 su "Il Dubbio". «Monsieur le Président, permettetemi, grato, per la benevola accoglienza che un giorno mi avete fatto, di preoccuparmi per la Vostra giusta gloria e dirvi che la Vostra stella, se felice fino ad ora, è minacciata dalla più offensiva ed inqualificabile delle macchie. Avete conquistato i cuori, Voi siete uscito sano e salvo da grosse calunnie. Apparite raggiante nell’apoteosi di questa festa patriottica che l’alleanza russa ha rappresentato per la Francia e Vi preparate a presiedere al trionfo solenne della nostra esposizione universale, che coronerà il nostro grande secolo di lavoro, di libertà e di verità. Ma quale macchia di fango sul Vostro nome, stavo per dire sul Vostro regno – soltanto quell’abominevole affare Dreyfus! Per ordine di un consiglio di guerra è stato scagionato Esterhazy, ignorando la verità e qualsiasi giustizia. È finita, la Francia ha sulla guancia questa macchia, la storia scriverà che sotto la Vostra presidenza è stato possibile commettere questo crimine sociale. E poiché è stato osato, oserò anche io. La verità, la dirò io, poiché ho promesso di dirla, se la giustizia, regolarmente osservata non la proclamasse interamente. Il mio dovere è di parlare, non voglio essere complice. Le mie notti sarebbero abitate dallo spirito dell’uomo innocente che espia laggiù nella più spaventosa delle torture un crimine che non ha commesso. Ed è a Voi signor presidente, che io griderò questa verità, con tutta la forza della mia rivolta di uomo onesto. In nome del Vostro onore, sono convinto che la ignoriate. E a chi dunque denuncerò se non a Voi, primo magistrato del paese? Per prima cosa, la verità sul processo e sulla condanna di Dreyfus. Un uomo cattivo, ha condotto e fatto tutto: è il luogotenente colonnello del Paty di Clam, allora semplice comandante. La verità sull’affare Dreyfus la saprà soltanto quando un’inchiesta legale avrà chiarito i suoi atti e le sue responsabilità. Appare come lo spirito più fumoso, più complicato, ricco di intrighi romantici compiacendosi al modo dei romanzi feuilletons, carte sparite, lettere anonime, appuntamenti in luoghi deserti, donne misteriose che accaparrano prove durante gli appuntamenti. È lui che immaginò di dettare l’elenco a Dreyfus, è lui che sognò di studiarlo in una parte rivestita di ghiaccio, è lui che il comandante Forzinetti ci rappresenta armato di una lanterna, volendo farsi introdurre vicino l’accusato addormentato, per proiettare sul suo viso un brusco raggio di luce e sorprendere così il suo crimine nel momento del risveglio. Ed io non ho da dire altro che se si cerca si troverà. Dichiaro semplicemente che il comandante del Paty di Clam incaricato di istruire la causa Dreyfus, come ufficiale giudiziario nel seguire l’ordine delle date e delle responsabilità, è il primo colpevole del terribile errore giudiziario che è stato commesso. L’elenco era già da tempo nelle mani del colonnello Sandherr direttore dell’ufficio delle informazioni, morto dopo di paralisi generale. Ebbero luogo delle fughe, carte sparivano come ne spariscono oggi e l’autore dell’elenco era ricercato quando a priori si decise poco a poco che l’autore non poteva essere che un ufficiale di stato maggiore e un ufficiale dell’artiglieria: doppio errore evidente che mostra con quale spirito superficiale si era studiato questo elenco, perché un esame ragionato dimostra che non poteva agire soltanto un ufficiale di truppa. Si cercava dunque nella casa, si esaminavano gli scritti come un affare di famiglia, un traditore da sorprendere dagli uffici stessi per espellerlo. E senza che voglia rifare qui una storia conosciuta solo in parte, entra in scena il comandante del Paty di Clam da quando il primo sospetto cade su Dreyfus. A partire da questo momento, è lui che ha inventato il caso Dreyfus, l’affare è diventato il suo affare, si fa forte nel confondere le tracce, di condurlo all’inevitabile completamento. C’è il ministro della guerra, il generale Mercier, la cui intelligenza sembra mediocre; c’è il capo dello stato maggiore, il generale de Boisdeffre che sembra aver ceduto alla sua passione clericale ed il sottocapo dello stato maggiore, il generale Gonse la cui coscienza si è adattata a molti. Ma in fondo non c’è che il comandante di Paty di Clam che li conduce tutti perché si occupa anche di spiritismo, di occultismo, conversa con gli spiriti. Non si potrebbero concepire le esperienze alle quali egli ha sottomesso l’infelice Dreyfus, le trappole nelle quali ha voluto farlo cadere, le indagini pazze, le enormi immaginazioni, tutta una torturante demenza. Ah! Questo primo affare è un incubo per chi lo conosce nei suoi veri dettagli! Il comandante del Paty di Clam, arresta Dreyfus e lo mette nella segreta. Corre dalla signora Dreyfus, la terrorizza dicendole che se parla il marito è perduto. Durante questo tempo, l’infelice si strappava la carne, gridava la sua innocenza. E la vicenda è stata progettata così come in una cronaca del XV secolo, in mezzo al mistero, con la complicazione di selvaggi espedienti, tutto ciò basato su una sola prova superficiale, questo elenco sciocco, che era soltanto una tresca volgare, che era anche più impudente delle frodi poiché i “famosi segreti” consegnati erano tutti senza valore. Se insisto è perché il nodo è qui da dove usciva più tardi il vero crimine, il rifiuto spaventoso di giustizia di cui la Francia è malata. […] Ma questa lettera è lunga signor presidente, ed è tempo di concludere. Accuso il luogotenente colonnello de Paty di Clam di essere stato l’operaio diabolico dell’errore giudiziario, in incoscienza, io lo voglio credere, e di aver in seguito difeso la sua opera nociva, da tre anni, con le macchinazioni più irragionevoli e più colpevoli. Accuso il generale Marcire di essersi reso complice, almeno per debolezza di spirito, di una delle più grandi iniquità del secolo. Accuso il generale Billot di aver avuto tra le mani le prove certe dell’inno- cenza di Dreyfus e di averle soffocate, di essersi reso colpevole di questo crimine di lesa umanità e di lesa giustizia, per uno scopo politico e per salvare lo stato maggiore compromesso. Accuso il generale de Boisdeffre ed il generale Gonse di essersi resi complici dello stesso crimine, uno certamente per passione clericale, l’altro forse con questo spirito di corpo che fa degli uffici della guerra l’arcata santa, inattaccabile. Accuso il generale De Pellieux ed il comandante Ravary di avere fatto un’indagine scellerata, intendendo con ciò un’indagine della parzialità più enorme, di cui abbiamo nella relazione del secondo un imperituro monumento di ingenua audacia…accuso i tre esperti in scrittura i signori Belhomme, Varinard e Couard, di avere presentato relazioni menzognere e fraudolente, a meno che un esame medico non li dichiari affetti da una malattia della vista e del giudizio. Accuso gli uffici della guerra di avere condotto nella stampa, particolarmente nell’Eclair e nell’Eco di Parigi, una campagna abominevole, per smarrire l’opinione pubblica e coprire il loro difetto. Accuso infine il primo consiglio di guerra di aver violato il diritto, condannando un accusato su una parte rimasta segreta, ed io accuso il secondo consiglio di guerra di aver coperto quest’illegalità per ordine, commettendo a sua volta il crimine giuridico di liberare consapevolmente un colpevole. Formulando queste accuse, non ignoro che mi metto sotto il tiro degli articoli 30 e 31 della legge sulla stampa del 29 luglio 1881, che punisce le offese di diffamazione. Ed è volontariamente che mi espongo. Quanto alla gente che accuso, non li conosco, non li ho mai visti, non ho contro di loro né rancore né odio. Sono per me solo entità, spiriti di malcostume sociale. E l’atto che io compio non è che un mezzo rivoluzionario per accelerare l’esplosione della verità e della giustizia. Ho soltanto una passione, quella della luce, in nome dell’umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità. La mia protesta infiammata non è che il grido della mia anima. Che si osi dunque portarmi in assise e che l’indagine abbia luogo al più presto. Aspetto. Vogliate gradire, signor presidente, l’assicurazione del mio profondo rispetto». Articolo pubblicato sul quotidiano «L’Aurore» il 13 gennaio 1898.

Quel giorno Zola schiaffeggiò il potere. Il coraggio dello scrittore che diventa giurista per fare il suo dovere da intellettuale: denunciare, scrive Vincenzo Vitale il 15 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Siamo così giunti all’apice della vicenda, al punto culminante dopo il quale nulla sarà più come prima. In data 11 gennaio 1898, il Consiglio di Guerra, appositamente convocato per giudicare la condotta di Esterhazy, dopo la denuncia presentata a suo carico da Mathieu Dreyfus, clamorosamente, lo assolve, con ciò implicitamente ma definitivamente confermando la colpevolezza di Alfred Dreyfus.La cosa inaccettabile e che fa subito intendere come questo verdetto sia stato dolosamente preordinato, sta nella circostanza che la camera di consiglio è durata soltanto tre minuti – dico tre minuti di orologio – e che la prova documentale della colpevolezza di Esterhazy non è stata neppure presa in considerazione. Ciò significa che questo secondo Consiglio di guerra sapeva già come decidere – cioè come non decidere – ancor prima della udienza e della camera di consiglio: era etero- diretto da coloro che avevano ordinato di assolvere Esterhazy, allo scopo di mettere una pietra tombale su Dreyfus. Zola non può allora che alzare la voce per denunciare questo scandalo, confezionando quello che è stato definito l’atto forse più rivoluzionario del secolo: il J’accuse.Ovviamente, occorre prima denunciare con forza le gravissime nefandezze commesse durante il processo a Dreyfus, anche per cercare di sollevare le coscienze di una opinione pubblica spesso distratta o, peggio, condizionata dalle voci di corridoio e da quelle della stampa popolare che, come abbiamo visto, era tutta schierata contro Dreyfus.Si può condannare un essere umano alla deportazione perpetua sulla scorta di un biglietto di origine molto incerta, tanto che, per esser considerato prova a carico, va corredato da altro documento, il quale, però, essendo segretissimo per ragioni di sicurezza nazionale, non viene mostrato a nessuno, neppure al difensore?Non solo. Ogni cosa viene imputata a Dreyfus: se conosce le lingue; se non le conosce; si turba, allora è prova del delitto; non si turba, allora è prova del suo professionismo delinquenziale… Siamo alla pura follia! Eppure è quello che accaduto.Malgrado ciò – osserva stupito Zola – i protagonisti di queste nefandezze riescono a dormire… Ma non basta. Il colonnello Picquart aveva raggiunto la prova certa della colpevolezza di Esterhazy, attraverso il reperimento di un telegramma a lui indirizzato da un agente straniero, mentre a casa dello stesso era stato reperito materiale propagandistico contro la Francia.Ma Esterhazy “doveva” essere assolto: e lo fu. Non si vuole qui sottrarre la necessaria attenzione con cui si invita illettore a meditare sul celebre scritto di Zola.La seconda parte non è che una sorta di crescendo rossiniano, col quale Zola inchioda ogni soggetto che ebbe parte in questa terribile vicenda alle proprie responsabilità.Zola opera qui, come si accennava prima, una vera e propria demistificazione dell’accusa, smascherando – e per questo è il rivelatore – la persecuzione giudiziaria alla quale era stato sottoposto l’innocente Dreyfus.Egli mostra in tal modo come ogni intellettuale – parola che va usata con parsimonia ed oculatezza– altro non sia che un vero “eretico”, in quanto capace di operare scelte personali e spesso scomode, di contro ad una opinione dominante e tendenzialmente totalizzante.Singolare e degna di nota la consonanza di significato individuabile fra questa vocazione dell’intellettuale a svolgere una funzione oppositiva del potere e la definizione – assai pregnante – che del giurista forniva qualche decennio or sono Salvatore Satta nei suoi indimenticabili Quaderni del diritto e della procedura civile.Per Satta, il giurista è colui che dice di no, colui che sa e ha il coraggio di dire di no a tutti coloro – e sono tanti – vorrebbero che invece dicesse si, collaborando o prestando acquiescenza alle persecuzioni sociali contro inermi innocenti, mistificate dall’involucro giuridico e processuale.Come dire insomma che ogni giurista, per restare fedele al suo ruolo, non può che svolgere una funzione oppositiva del potere, dedicandosi alla demistificazione delle accuse false e persecutorie, così acquisendo la veste di intellettuale; mentre, di converso, ogni intellettuale, destinato ad opporsi ereticamente al potere persecutorio, allo scopo di smascherarlo, non può non prestare attenzione alle vicende giuridiche e processuali della propria epoca, alla loro valenza profondamente umana, morale, politica.E per far questo non occorre la laurea in giurisprudenza. Basta non tenere gli occhi chiusi e farsi guidare dal normale buon senso: Dostoevski, pur studiando da ingegnere, mostrava più sensibilità giuridica e comprensione dei connessi problemi di tanti altri che avessero seguito studi di giurisprudenza, Zola non era che uno scrittore. Non era perciò un esperto di diritto, ma, per non far la fine miseranda di molti esperti di qualcosa – i quali mostrano di saper tutto, ma non capiscono nulla – si rifiutava di chiudere gli occhi.E, peccato ancor più grave, intendeva farsi guidare dal buon senso. In quella società – ma anche nella nostra – come dire di volersi suicidare.

L’odio antiebraico è il vero colpevole, scrive Vincenzo Vitale il 16 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Questo articolo, pubblicato pochi giorni dopo che il fratello di Deyfus, Mathieu, ha formalmente denunciato Esterhazy per il delitto di spionaggio, per il quale era stato ingiustamente condannato Alfred, segna una sorta di messa a punto operata da Zola. Infatti, lo scrittore, nutrendo una qualche riposta fiducia che il nuovo processo a carico di Esterhazy possa condurre al riconoscimento della innocenza di Dreyfus, sente il bisogno qui di chiarire la situazione come si era delineata fino a quel punto. Per il resto, scrive Zola, «Un nuovo Consiglio di Guerra è al lavoro… non resta che tacere e aspettare». Questo prudente atteggiamento di attesa non esenta tuttavia dal cercare di capire cosa sia accaduto nei periodi precedenti e come possa essere che un innocente sia finito alla deportazione perpetua. Zola individua così alcuni elementi determinanti della situazione. Innanzitutto, la stampa. Da un lato lo scrittore denuncia il comportamento della maggioranza dei giornali, da subito ostili a Dreyfus, ma in modo pregiudiziale. Sono soprattutto i giornali popolari a stimolare «passioni nefaste», conducendo campagne settarie e spingendo il pubblico dei lettori non a farsi una idea propria e indipendente, ma a schierarsi necessariamente contro il capitano ebreo. Un vero inquinamento sociale organizzato a tutti i livelli e, quel che è peggio, in perfetta buona fede. Ma è noto che di buona fede son lastricate le vie dell’inferno. Invece, la grande stampa nazionale – quella delle classi colti e della grande borghesia – ha fatto forse di peggio, registrando in modo anonimo tutto e il contrario di tutto, la verità come l’errore, indifferentemente. E tutto ciò spacciato per imparzialità, men- tre si tratta in modo evidente di una condotta pericolosamente pilatesca di evitare di dire la verità, che invece andrebbe gridata forte dai tetti. In secondo luogo, un elemento determinante è senza alcun dubbio l’antisemitismo, come dice Zola, “il vero colpevole”. E qui bisogna intendersi. Tutti siamo un po’ abituati a considerare patria dell’antisemitismo la Germania e, in particolare, quella nazista, dove in effetti si toccarono vertici di efferatezza difficilmente eguagliabili. Invece, l’origine dell’antisemitismo risa a periodi precedenti e comunque trova in Francia una delle sue espressioni più compiute e strabilianti. Non per nulla Isacco Pinto, un ebreo portoghese, in un suo commento alle opere di Voltaire, ne muove a questi un cauto ma fermo rimprovero. E Voltaire, in una lettera di risposta, datata 21 luglio 1762, pur riconoscendo il torto di avere attribuito «a tutto un popolo i vizi di molti individui», fa carico agli ebrei di essere irrimediabilmente superstiziosi, «e la superstizione è il più abominevole flagello della terra». Si può discutere a lungo sulla natura dell’antisemitismo voltaireano nel considerarlo dovuto solo a una radicata avversione al misticismo ebraico, sepolcro della ragione, o piuttosto a fobie, paradossalmente irrazionali, come quando, al capitolo VIII dell’Essais sur les moeurs, definisce gli ebrei «specie d’uomini inferiori». Resta il fatto che l’odio antiebraico scorre come una linfa segreta lungo tutto il corso della storia culturale francese (ed europea, come nota Léon Poliakov). Forse, eccettuato sicuramente Rousseau, pochi altri pensatori francesi del XVIII e del XIX secolo vanno esenti dal germe maligno dell’antisemitismo: per esempio, esso vegeta il Lamartine e ( in tono velato) in Balzac; in Charles Fourier e in Proudhon. Ecco perché il processo che si sta celebrando a carico di Esterhazy viene visto da Zola come un processo all’antisemitismo, che, nella temperie culturale francese di fine secolo, si sposa con il patriottismo e con il militarismo, propiziando il nascere e l’affermarsi di una miscela esplosiva che, naturalmente, alligna più fra le classi medio- basse che nelle fasce più acculturate della popolazione. Il terzo elemento preso in esame da Zola è la presenza degli spettatori di questa grande tragedia nazionale ed europea, ciascuno depositario di una parte che svolge fino in fondo. Il risultato è un pantano di interessi, di passioni, di storie insulse e spesso inventate, di vergognosi pettegolezzi, ove il semplice buon senso «viene schiaffeggiato ogni mattina». Zola spera che il processo in quel momento in corso nei confronti di Esterhazy, davanti al secondo Consiglio di Guerra, riconoscendone la colpevolezza e scagionando perciò Dreyfus, torni a far prevalere il buon senso. Non sarà così. 

Povera Francia, sei tornata alle guerre di religione! Zola ringrazia il “coraggio” di “Le Figaro” per aver pubblicato i suoi articoli e attacca la stampa che “avvelena il popolo”. Scrive Émile Zola su “Le Figaro” il 5 dicembre 1897 e ripubblicato il 16 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Quello che leggerete è il terzo e ultimo articolo che mi fu permesso di dare a Le Figaro. Ho avuto persino qualche difficoltà a farlo passare e, come si vedrà, ritenni saggio congedarmi con lo stesso dal pubblico, intuendo che mi sarei trovato nell’impossibilità di continuare la mia campagna, che tanto turbava i lettori abituali del giornale. Riconosco perfettamente, a un giornale, la necessità di fare i conti con le abitudini e le passioni della sua clientela. Perciò, ogni volta che ho subito questo genere di battuta d’arresto, me la sono presa soltanto con me stesso, per essermi sbagliato sul terreno e sulle condizioni di lotta. Le Figaro si è dimostrato comunque coraggioso nell’accettare i miei tre articoli, e io lo ringrazio. Ah! quale spettacolo, dopo tre settimane, e quali tragici, indimenticabili giorni abbiamo attraversato! Non ne ricordo altri che abbiano suscitato in me tanta umanità, tanta angoscia e tanta generosa collera. Esasperato, ho vissuto nell’odio della stupidità e della malafede, a tal punto assetato di verità e di giustizia da riuscire a comprendere i grandi moti dell’anima che possono portare un placido borghese al martirio. In verità, si è trattato di uno spettacolo inaudito, che per brutalità, per sfrontatezza, per ammissioni ignobili andava al di là di tutto quello che di più istintivo e di più vile abbia mai confessato la belva umana. Un simile esempio di follia e di perversione da parte di una folla è raro ed è sicuramente per questo che, oltre a ribellarmi come uomo, mi sono tanto appassionato come romanziere, come drammaturgo, sconvolto dall’entusiasmo di fronte a un caso di così tremenda bellezza. Oggi, ecco, la storia entra nella fase regolare e logica, quella che abbiamo desiderato, che abbiamo incessantemente chiesto. Un tribunale militare è all’opera, il nuovo processo ha come scopo la verità, e noi ne siamo convinti. Non abbiamo mai voluto altro. Non resta, ora, che ta- cere e aspettare, perché non siamo noi a doverla dire, la verità, è il Consiglio di guerra che la deve accertare, renderla lampante. E non ci sarà un nostro nuovo intervento, a meno che essa non ne esca incompleta ed è un’ipotesi del tutto inammissibile. Ma, essendo terminata la prima fase, vero caos in piena tenebra, vero scandalo in cui tante coscienze sporche si sono messe a nudo, dev’esserne redatto il processo verbale, bisogna trarne le conclusioni. Perché, nella profonda tristezza delle constatazioni che si impongono, c’è l’ammaestramento virile, il ferro rovente con cui si cauterizzano le piaghe. Riflettiamoci: l’orrendo spettacolo che abbiamo appena dato a noi stessi deve guarirci. Per cominciare, la stampa. Abbiamo visto la stampa scadente in fregola, intenta a battere moneta con le curiosità malsane, a guastare la folla per vendere le denigrazioni dei suoi scribacchini, che non trovano più compratori da quando la nazione è calma, sana e forte. Sono soprattutto i facinorosi nella sera, i giornali di tolleranza che adescano i passanti con i loro titoli a caratteri cubitali, promettendo dissolutezza. Facevano il loro commercio abituale, ma con un’impudenza significativa. Abbiamo visto, un gradino più su, i giornali popolari, i giornali da un soldo, quelli che si rivolgono alla massa e che formano l’opinione dei più, rinfocolare passioni atroci, condurre furiosamente una campagna di settari, uccidendo nel nostro caro popolo di Francia ogni generosità, ogni desiderio di verità e di giustizia. Voglio credere alla loro buona fede. Ma quale tristezza, questi cervelli di polemisti invecchiati, di agitatori dementi, di patrioti meschini che, diventati conduttori di uomini, commettono il più nero dei crimini, quello di ottenebrarne la coscienza pubblica e di fuorviare un intero popolo! Quest’impresa è tanto più esecrabile quando è condotta, come in certi giornali, con una bassezza di mezzi, un’abitudine alla menzogna, alla diffamazione e alla delazione che rimarranno l’onta più grande della nostra epoca. Infine, abbiamo visto la grande stampa, la stampa detta seria e onesta, assistere a tutto questo con un’impassibilità, direi quasi una serenità stupefacente. Questi giornali onesti si sono accontentati di registrare tutto con cura scrupolosa, la verità come l’errore. Hanno lasciato che il fiume avvelenato scorresse, senza mettere un solo abominio. Sì, certo, questa è imparzialità. Però, a stento qua e là una timida valutazione, e non una sola voce alta e nobile, non una, capite? che si sia alzata da questa stampa onesta, per schierarsi dalla parte dell’umanità, dell’equità oltraggiata! E abbiamo visto soprattutto – poiché in mezzo a tanti orrori è sufficiente scegliere il più ripugnante – abbiamo visto la stampa, quella ignobile, continuare a difendere un ufficiale francese che aveva insultato l’esercito e sputato sulla nazione. Non basta! Abbiamo visto giornali che lo scusavano, altri che gli infliggevano il loro biasimo, sì, ma con qualche riserva. Ma come! Non c’è stato un grido unanime di rivolta e di esecrazione! Che cos’è mai accaduto perché un crimine che in un altro momento avrebbe sollevato la coscienza pubblica in un bisogno furente di immediata repressione, abbia potuto trovare delle circostanze attenuanti in quegli stessi giornali tanto suscettibili in tema di fellonia e di tradimento? L’abbiamo visto, ripeto. E ignoro cosa abbia prodotto un sintomo come questo sugli altri spettatori, visto che nessuno parla, nessuno s’indigna. So che, per quanto mi riguarda, mi ha fatto rabbrividire, poiché rivela con inaspettata violenza la malattia di cui soffriamo. La stampa ignobile ha divorato la nazione e un accesso di quella perversione, di quella corruzione in cui essa l’ha gettata, ha finito per mettere l’ulcera completamente a nudo. L’antisemitismo, ora. È il vero colpevole. Ho già detto come questa campagna barbara, che ci riporta indietro di secoli, offenda il mio bisogno di fraternità, la mia passione per la tolleranza e l’emancipazione umana. Ritornare alle guerre di religione, ricominciare le persecuzioni religiose, volere lo sterminio tra le razze, sono cose di un’assurdità tale, nel nostro secolo di affrancamento, che un simile tentativo mi sembra soprattutto imbecille. Non poteva nascere che da un cervello fumoso e squilibrato di credente, che da una grande vanità di scrittore rimasto a lungo sconosciuto e desideroso di recitare una parte a tutti i costi, sia pure odiosa. E non voglio ancora credere che un movimento del genere possa davvero prendere un’importanza decisiva in Francia, in questo paese di libero esame, di bontà fraterna e di limpida ragione. Eppure, assistiamo a misfatti terribili, devo confessare che il male è gravissimo. Il veleno è nel popolo, anche se il popolo non è tutto avvelenato. Dobbiamo all’antisemitismo la pericolosa virulenza che gli scandali di Panama hanno preso qui da noi. E questo penoso caso Dreyfus è tutta opera sua: soltanto l’antisemitismo ha reso possibile l’errore giudiziario e sconvolto oggi la folla, impedendo che quell’errore venga tranquillamente e nobilmente riconosciuto, per la nostra integrità eil nostro buon nome. Non c’era niente di più semplice e di più naturale del fare luce sulla verità, appena sorti i primi seri dubbi; come si può non capire che, perché si sia arrivati alla pazzia furiosa in cui ci troviamo, è giocoforza che ci sia un veleno nascosto che ci fa delirare tutti? Questo veleno è l’odio feroce contro gli ebrei che ogni mattina, da anni, viene versato al popolo. Sono una banda, quelli che fanno questo mestiere di avvelenatori, e il bello è che lo fanno in nome della morale, in nome di Cristo, atteggiandosi a vendicatori e a giustizieri. E chi ci dice che sul Consiglio di guerra non abbia agito l’ambiente stesso in cui esso deliberava? Un ebreo traditore che vende il suo paese, la cosa va da sé. E se anche non si trova alcuna ragione umana che spieghi il crimine, se anche l’imputato è ricco, savio, lavoratore, senza passioni e con una vita impeccabile, non basta forse il fatto che sia ebreo? Oggi, da quando cioè chiediamo che si faccia luce, l’atteggiamento dell’antisemitismo è ancora più violento, più tracotante. E’ il suo processo, quello che si sta per istruire, e che schiaffo sarebbe per gli antisemiti qualora l’innocenza di un ebreo trionfasse! Un ebreo innocente. Possibile? Crolla tutta un’impalcatura di bugie, subentra l’aria pura, la buona fede, l’equità, ed è la rovina per una setta che agisce sulla folla degli ingenui solamente in forza dei suoi eccessi ingiuriosi e dell’impudenza delle sue calunnie. Ed ecco cos’altro abbiamo visto: il furore di questi malfattori pubblici al solo pensiero che si possa fare un po di luce. E inoltre, ahimè, abbiamo visto lo smarrimento della folla che costoro hanno pervertito, e tutta questa opinione pubblica sconvolta, tutto questo caro popolo di umili e di semplici, che oggi si scaglia contro gli ebrei e che domani farebbe una rivoluzione per liberare il capitano Dreyfus, se qualche onest’uomo lo infiammasse del fuoco sacro della giustizia. Infine, gli spettatori, gli attori, voi e io, noi tutti. Quale confusione, quale pantano accresciuto di continuo! Abbiamo visto infervorarsi di giorno in giorno la mischia delle passioni e degli interessi, e poi storie insulse, pettegolezzi vergognosi, smentite di inaudita impudenza, il semplice buon senso venire preso a schiaffi ogni mattina, il vizio acclamato, la virtù zittita, insomma l’agonia di tutto quello che costituisce l’onore e la gioia di vivere. Si è finito per odiarlo, tutto questo, certo! Ma chi aveva voluto questo stato di cose, chi lo trascinava per le lunghe? I nostri capi, quelli che, avvertiti da più di un anno, non osavano far niente. Inutile supplicarli, inutile preconizzare loro, fase per fase, la tremenda tempesta che si stava addensando. L’inchiesta l’avevano già fatta; l’incartamento l’avevano tra le mani. Ma fino all’ultima ora, nonostante le suppliche, si sono intestarditi nella loro inerzia, piuttosto che prendere in mano la situazione, per limitarla, a rischio di sacrificare subito le individualità compromesse. Il fiume di fango è straripato, com’era stato loro predetto, ed è colpa loro. Abbiamo visto energumeni trionfare con l’esigere la verità da quelli che dicevano di saperla, quando questi non potevano dirla finché c’era in corso un’inchiesta. La verità è stata detta al generale incaricato dell’inchiesta, e a lui soltanto è affidata la missione di farla conoscere. La verità sarà inoltre detta al giudice istruttore, e lui soltanto ha la veste per ascoltarla e per basare sulla stessa il suo atto di giustizia. La verità! che concezione ne avete, in un’avventura come questa, che scuote tutta un’organizzazione decrepita, per credere che sia un oggetto semplice e maneggevole, da tenere nel cavo della mano e da mettere quando si vuole in mano ad altri, come se fosse un sasso o una mela? La prova, ah sì, la prova che si pretendeva, immediata, come i bambini pretendono che si mostri loro il vento che passa. Siate pazienti e la vedrete splendere, la verità; ma occorrerà in ogni caso un po d’intelligenza e di probità morale. Abbiamo visto sfruttare vilmente il patriottismo, agitare lo spettro dello straniero in una questione d’onore che riguarda unicamente la famiglia francese. I peggiori rivoluzionari hanno gridato che si insultavano l’esercito e i suoi capi, quando, com’è giusto, si chiede solo di non metterli troppo in alto, fuori della portata di chiunque. E, di fronte ai caporioni, di fronte a qualche giornale che aizzava l’opinione pubblica, ha regnato il terrore. Non un esponente delle nostre assemblee ha avuto un grido da onest’uomo, tutti sono rimasti muti, esitanti, prigionieri dei loro gruppi, tutti hanno avuto paura dell’opinione pubblica, sicuramente preoccupati, in previsione delle prossime elezioni. Né un moderato, né un radicale, né un socialista, nessuno di quelli che dovrebbero tutelare le pubbliche libertà, si è ancora alzato a parlare secondo coscienza. Come volete che il paese sappia orientarsi nella tormenta, se quegli stessi che si dicono sue guide tacciono per meschina tattica di politicanti oppure per il timore di compromettere la loro situazione personale? E lo spettacolo è stato così penoso, così crudele, così duro per la nostra fierezza, che intorno a me sento ripetere: «La Francia è proprio malata perché abbia potuto prodursi una simile crisi di aberrazione pubblica» No! è soltanto sviata, fuori di sé del suo cuore e della sua indole. Le si parli il linguaggio dell’umanità e della giustizia e si ritroverà intera, nella sua generosità leggendaria. Il primo atto è terminato, sull’orrendo caso è calato il sipario. Auguriamoci che lo spettacolo di domani ci consoli e ci ridia coraggio. Ho detto che la verità era in cammino e che niente l’avrebbe fermata. Un primo passo è fatto, un altro si farà, poi un altro, poi il passo decisivo. E’ matematico.

Per il momento, in attesa della decisione del Consiglio di guerra, la mia parte è terminata; ed è mio ardente desiderio che, fatta la verità, resa giustizia, io non debba più lottare né per l’una né per l’altra. Articolo pubblicato su “Le Figaro” il 5 dicembre 1897

La condanna di Dreyfus divenne scandalo mondiale. Dopo la pubblicazione del J’Accuse di Emile Zola l’intera opinione pubblica mondiale si divise tra dreyfusardi e antidreyfusardi, scrive Vincenzo Vitale il 21 Agosto 2018 su "Il Dubbio". La pubblicazione del J’accuse ha l’effetto di una bomba sociale. Finalmente le coscienze, assopite, sembrano risvegliarsi non solo in Francia, ma in tutta Europa. Ci si divide fra dreyfusardi e antidreyfusardi senza ritegno alcuno, ma con accanimento tanto maggiore quanto più la propria posizione fosse in vista. Si ruppero amicizie decennali, si separarono coniugi e famiglie, si litigò nei pubblici locali e nelle dimore private, ci si sfidò a duello, si minacciò da varie nazioni europee di non partecipare alla Esposizione Universale, prevista a Parigi, all’ombra della torre Eiffel, per l’anno 1900. Insomma, lo scandalo della condanna di Dreyfus divenne di portata europea e perfino mondiale, se è vero che perfino alla Casa Bianca e al Cremlino si dibatteva della sua innocenza o colpevolezza. Era inevitabile peraltro che, in forza dello spostamento mimetico tipico delle persecuzioni, una volta che il meccanismo persecutorio sia svelato, la violenza si converta a carico del rivelatore, cioè di Zola. Questi infatti viene processato per diffamazione dei vertici militari e governativi e dei giudici militari e, in seguito, dei periti calligrafi i quali, mentendo, attestarono che la grafia del bordereau spionistico che fu attribuito a Dreyfus, era effettivamente la sua. Quella che oggi si pubblica è l’autodifesa pronunciata da Zola davanti alla giuria che l’avrebbe comunque condannato a un anno di reclusione e a 3.000 franchi di multa. Lo scrittore denuncia subito una evidente forzatura, tanto inammissibile quanto antigiuridica, vale a dire che il Primo Ministro, Felix Jules Méline, ha dichiarato di aver fiducia in quei giudici popolari davanti ai quali Zola si difende e ai quali egli affida pubblicamente la difesa dell’esercito. Come dire che egli, il Primo Ministro, si attende una esemplare condanna di Zola, attraverso la quale soltanto l’esercito potrà essere ristorato del danno alla sua immagine prodotto dal J’accuse. Zola nota subito che se per un verso ciò costituisce una indebita pressione sull’organo giudicante, per altro verso è una colossale sciocchezza. Infatti, accusare alcuni componenti dell’esercito, sia pure di alto grado, ma nominativamente individuati, di aver consumato un infame delitto ai danni di Dreyfus – come appunto ha fatto Zola – non vuol dire certo denigrare l’esercito nel suo insieme; anzi, è un sicuro indice di voler operare all’interno dell’esercito un salutare repulisti, allo scopo non di diffamarlo, ma di valorizzarlo nelle sue componenti più vere e trasparenti. Come non rilevare qui una singolare coincidenza con alcuni casi italiani, soprattutto degli ultimi anni? Capita infatti che se un giornalista o un osservatore politico critichi pubblicamente – ed anche duramente – l’operato di un pubblico ministero, immediatamente salti su il Consiglio Superiore della Magistratura, lamentando che quelle critiche delegittimano l’intera Magistratura e aprendo perfino un fascicolo che vien definito “a tutela”. E non si sa davvero a tutela di cosa e di chi, se non di ruoli e posizioni che in tal modo vengono posti al di là di ogni possibile critica, collocati in una dimensione di immunità assoluta, al punto che criticare uno significa delegittimare tutti: assurdità evidente sia per la ragione giuridica che per quella comune, perché conferisce licenza di fare e disfare arbitrariamente proprio a colui che invece andrebbe controllato, in quanto se ne lamenta un qualche abuso o errore (a torto o a ragione). Come dire che se l’insegnante richiama uno scolaro che disturba in classe, allora necessariamente delegittima la classe intera: un corto circuito dell’intelletto che però alligna in Italia ormai da decenni e che alla fine delegittima soltanto l’insegnante, riducendolo al silenzio. Zola perciò sceglie di non difendersi per nulla: e coraggiosamente, perché sa bene che alte sono le probabilità di essere condannato, come poi in effetti sarà. Egli si limita a rilevare come ormai, giunte a quel punto le cose, dopo che il vero colpevole, Esterhazy è stato assolto, il caso non riguarda più soltanto Dreyfus e la sua innocenza, ma riguarda la Francia intera e l’immagine che la Francia potrà fornire di se al mondo: è ancora la Francia dei diritti dell’uomo, “quella che ha donato la libertà al mondo e che doveva donargli la giustizia”? Si noti che Zola risulta doppiamente sospetto alla opinione dei benpensanti. Da un lato, in quanto scrittore e perciò pericolosamente votato a pensare con la propria testa; dall’altro, in quanto di origine italiana, nato da padre veneziano. Ma lui se ne fa un vanto, osservando che da qualsiasi luogo provenga la sua famiglia – e proviene da Venezia, “la splendida città la cui antica gloria è cantata in tutte le memorie” – egli è un francese a tutti gli effetti, non foss’altro che per i quaranta volumi scritti in lingua francese e venduti in decine di milioni di copie in tutto il mondo. La chiusa è profeticamente vera: “Un giorno la Francia mi ringrazierà di aver contribuito a salvare il suo onore”. Non solo la Francia.

«La Francia è ancora quella dei diritti dell’uomo?» Ecco l’autodifesa dello scrittore Emile Zola, processato per diffamazione dei vertici militari e governativi e dei giudici militari. Scrive Émile Zola su «L’Aurore» il 22 febbraio 1898 e ripubblicato il 21 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Signori giurati, nella seduta del 22 gennaio alla Camera, il signor Méline, presidente del Consiglio dei Ministri, ha dichiarato, tra gli applausi entusiasti della sua compiacente maggioranza, di aver fiducia nei dodici cittadini nelle cui mani rimetteva la difesa dell’esercito. Signori, parlava di voi. Come già il generale Billot aveva suggerito la sentenza al Consiglio di Guerra incaricato di assolvere il comandante Esterhazy, impartendo dall’alto della sua tribuna agli ufficiali subordinati la consegna militare di rispettare senza discuterla la cosa giudicata, così Méline ha voluto darvi l’ordine di condannarmi in nome del rispetto dell’esercito, che egli mi accusa di avere oltraggiato. Denuncio alla coscienza degli onesti questa pressione dei pubblici poteri sulla giustizia del Paese. Ci troviamo di fronte a dei costumi politici abominevoli che disonorano una nazione libera. Vedremo se obbedirete. Ma non è affatto vero che io sia qui, davanti a voi, per volontà del presidente Méline. Malgrado il suo personale turbamento, egli ha ceduto alla necessità di perseguirmi perché terrorizzato di quanto la verità in cammino avrebbe compiuto. Questa è una verità a tutti nota: se sono davanti a voi è perché l’ho voluto. Io solo ho deciso che l’oscura, la mostruosa questione fosse affidata alla vostra giurisdizione, e sono stato io solo che di mia iniziativa ho scelto voi, l’emanazione più alta e diretta della giustizia francese, affinché la Francia sappia tutto e si pronunci. Il mio atto non ha avuto altro intento e la mia persona non conta, l’ho sacrificata volentieri, unicamente soddisfatto per aver messo nelle vostre mani non solo l’onore dell’esercito, ma l’onore vacillante della nazione intera. Mi perdonerete, dunque, se nelle vostre coscienze non è ancora stata fatta piena luce. Non dipende da me. Nel volervi portare tutte le prove, nello stimarvi i soli degni e competenti, è come se stessi sognando. Hanno cominciato a togliervi con la sinistra quello che fingevano di darvi con la destra. Ostentavano di accettare la vostra giurisdizione, ma se alcuni confidavano in voi per vendicare i membri di un tribunale militare, altri ufficiali restavano intoccabili, superiori alla vostra stessa giustizia. Comprenda chi vuole e chi può. Si tratta di una assurda ipocrisia e l’evidenza lampante che ne scaturisce è che hanno avuto paura del vostro buon senso, che non hanno osato correre il pericolo di lasciarmi dire tutto e di lasciarvi giudicare tutto. Asseriscono di aver voluto limitare l o scandalo; e cosa pensate di questo scandalo, del mio atto che consiste nel mettervi al corrente del caso nella volontà che fosse il popolo incarnato in voi a fungere da giudice? Sostengono inoltre che non potevano accettare una revisione mascherata, confessando in tal modo di non avere in fondo che un solo timore, quello del vostro controllo sovrano. La legge trova in voi la sua rappresentazione totale; ed è la legge del popolo eletto quella che ho desiderato, che da buon cittadino rispetto profondamente, non già la procedura ambigua grazie alla quale hanno sperato di poter ingannare persino voi. Eccomi scusato, signori, di avervi distolto dalle vostre occupazioni, senza avere avuto la possibilità di inondarvi di quella verità intera che sognavo. La luce, la luce completa, non ho avuto che questo appassionato desiderio. E questi dibattimenti ve lo hanno dimostrato: abbiamo dovuto lottare, passo dopo passo, contro una volontà occultatrice incredibilmente ostinata. Abbiamo dovuto lottare per afferrare qualche brandello di verità; hanno discusso su tutto, ci hanno rifiutato tutto, hanno terrorizzato i nostri testimoni nella speranza di impedirci di portare delle prove. Ed è solo per voi che ci siamo battuti, affinché questa prova vi viene se sottoposta nella sua interezza, affinché poteste pronunciarvi senza rimorsi della vostra coscienza. Sono convinto che terrete nella dovuta considerazione i nostri sforzi, visto che molta chiarezza è stata fatta. Avete ascoltato i testimoni, ora ascolterete il mio difensore che vi racconterà la vera storia, la storia che fa uscire tutti di senno ma che nessuno conosce. Ed eccomi qui tranquillo; la verità è ora nelle vostre mani e procederà. Il presidente Méline ha creduto suo dovere suggerirvi la sentenza affidandovi l’onore dell’esercito. Ed è in nome dell’onore dell’esercito che, a mia volta, faccio appello alla vostra giustizia. Smentisco nella maniera più assoluta il presidente Méline, io non ho mai oltraggiato l’esercito. Al contrario ho espresso il mio affetto, il mio rispetto per la nazione in armi, per i nostri soldati, pronti a insorgere alla prima minaccia per difendere il suolo francese. Ed è altrettanto falso che io abbia attaccato i generali che li condurrebbero alla vittoria. Affermare che alcuni individui degli uffici del Ministero della Guerra hanno compromesso con la loro azione persino l’esercito equivale forse a insultare l’esercito nel suo insieme? Non significa piuttosto comportarsi da buon cittadino il liberarlo da ogni compromesso, gettare un grido d’allarme affinché gli errori che ci hanno portato alla disfatta non si ripetano e non ci conducano a nuove sconfitte? Del resto io non mi difendo, lascio alla storia il compito di giudicare il mio atto che era assolutamente necessario. Ma affermo che l’esercito disonorato quando si permette ai gendarmi di solidarizzare con il comandante Esterhazy dopo le lettere abominevoli che egli ha scritto. Affermo che questo valoroso esercito viene insultato ogni giorno da quei banditi che, con il pretesto di difenderlo, lo insozzano della loro vile complicità, trascinando nel fango tutto quello che la Francia ha ancora di buono e di grande. Affermo che sono loro a disonorare il grande esercito nazionale quando al grido di «Viva l’esercito!» mescolano quello di «A morte gli ebrei!». E hanno gridato «Viva Esterhazy!». Gran Dio! II popolo di San Luigi, di Bayard, di Condé e di Hoche, il popolo delle cento splendide vittorie, delle grandi guerre della Repubblica e dell’Impero, il popolo la cui forza, grazia e generosità hanno abbagliato l’universo, quel popolo grida «Viva Esterhazy!». Questa è una infamia da cui può lavarci soltanto il nostro sforzo di verità e di giustizia. Voi conoscete molto bene la leggenda che si è creata. Dreyfus è stato condannato giustamente e legalmente da sette ufficiali infallibili, tanto che a nessuno è permesso di sospettare l’errore senza offendere l’intero esercito. Dreyfus espia il suo orribile mi- sfatto in una tortura vendicatrice. E, poiché è ebreo, si crea un sindacato ebreo, un sindacato internazionale di senza patria, che mette a disposizione centinaia di milioni con lo scopo di salvare il traditore anche al prezzo delle più infami trame. Da quel momento questo sindacato ha operato in modo criminale comprando le coscienze e gettando la Francia in un’agitazione omicida, deciso a venderla al nemico, a mettere a fuoco l’Europa con una guerra generale piuttosto che rinunciare al suo spaventoso disegno. Come potete vedere è estremamente semplice, perfino infantile e imbecille. Ma è di questo pane avvelenato che la stampa ignobile nutre il nostro povero popolo da diversi mesi. E non c’è da meravigliarsi se assistiamo a una crisi così disastrosa, perché quando si seminano l’idiozia e la menzogna non si può che raccogliere follia. Certamente Signori, non vi farò l’affronto di credere che vi siate finora attenuti a queste favole per bambini. Vi conosco e so chi siete. Siete il cuore e la ragione di Parigi, della mia grande Parigi, dove sono nato, che amo di un affetto infinito, che studio e descrivo da quasi quarant’anni. E nel contempo so anche quello che state pensando in questo momento, perché prima di sedere qui come accusato sono stato seduto là, sul banco che ora occupate voi. Voi rappresentate l’opinione media, impersonate, tutti insieme, la saggezza e la giustizia. Tra poco il mio pensiero vi seguirà nella sala delle vostre deliberazioni e sono convinto che il vostro sforzo sarà quello di salvaguardare i vostri interessi di cittadini, che sono naturalmente gli interessi della nazione intera. Potrete sbagliarvi, ma sarà nella convinzione che, assicurando il vostro bene, assicurate il bene di tutti. Vi vedo nelle vostre famiglie, la sera, alla luce di una lampada; vi sento conversare con i vostri amici, vi accompagnano nelle vostre officine, nei vostri negozi. Siete tutti lavoratori: commercianti, industriali, alcuni di voi esercitano libere professioni. E la vostra legittima preoccupazione è lo stato deplorevole in cui sono caduti gli affari. Ovunque la crisi attuale minaccia di trasformarsi in un disastro, gli incassi diminuiscono, le transazioni si fanno sempre più difficili. A causa di ciò, il pensiero che qu i domina, che leggo sui vostri volti, è che se ne ha abbastanza, che è ora di finirla. Non siete arrivati a dire come molti: «Che importa che un innocente sia all’isola del Diavolo! L’interesse di un singolo merita il turbamento di una grande nazione?». Vi dite tuttavia che la nostra agitazione, quella di noi affamati di verità e di giustizia, viene pagata troppo a caro prezzo con tutto il male che ci si accusa di fare. E se mi condannerete, signori, non saranno che questi i motivi alla base del vostro verdetto: il desiderio di rasserenare i vostri cari, il bisogno che gli affari riprendano il loro corso, la convinzione che colpendo me metterete un freno a una campagna di rivendicazione nociva agli interessi della Francia. Ebbene, signori, vi sbagliereste nel modo più assoluto! Vogliate farmi I’onore di credere che io qui non difendo la mia libertà. Colpendomi non farete che ingigantirmi. Chi soffre per la verità e la giustizia diventa augusto e sacro. Guardatemi, signori: ho l’aria di un venduto, di un mentitore e di un traditore? Per quale motivo agirei allora? Non celo né ambizione politica né fanatismo da settario. Sono un libero scrittore che ha dedicato la vita al lavoro, che domani rientrerà nei ranghi e riprenderà il lavoro interrotto. E sono delle bestie coloro che mi chiamano italiano, a me, nato da madre francese, allevato da nonni della Beauce, contadini di quella terra generosa, a me che ho perduto il padre a sette anni, che sono andato in Italia soltanto a cinquantaquattro anni per documentare un libro. Il che non m’impedisce d’essere fiero che mio padre fosse di Venezia, la splendida città la cui antica gloria è cantata in tutte le memorie. E quand’anche non fossi francese, i quaranta volumi in lingua francese che ho seminato in milioni di esemplari nel mondo intero basterebbero, credo, a fare di me un francese, utile alla gloria della Francia! Perciò non mi difendo. Ma quale errore sarebbe il vostro qualora foste convinti che colpendo me ristabilireste l’ordine nel nostro infelice Paese! Non lo capite che il male di cui la nazione muore è proprio l’oscurità in cui ci si ostina a lasciarla, è l’equivoco in cui agonizza? Le colpe dei governanti si aggiungono al le colpe, una menzogna ne rende necessaria un’altra, finché il cumulo diventa spaventoso. È stato commesso un errore giudiziario, e da quel momento per nasconderlo è stato necessario commettere ogni giorno un nuovo attentato al buon senso e all’equità. La condanna di un innocente ha portato con sé l’assoluzione di un colpevole; ed ecco che, oggi, vi si chiede di condannarmi per avere gridato la mia angoscia nel vedere la patria avere imboccato questa terrificante strada. Condannatemi, dunque! Ma sarà un errore che si aggiungerà agli altri, un errore di cui in seguito porterete il peso nella storia. E la mia condanna, lungi dal riportare la pace che desiderate, che tutti noi desideriamo, altro non sarà che un nuovo seme di passione e di disordine. Vi avverto, la misura è colma, non fatela straripare.Come fate a non rendervi conto della crisi tremenda che il Paese sta attraversando? Ci considerano gli autori dello scandalo, affermano che sono gli amanti della verità e della giustizia a fuorviare la nazione, a spingerla alla sommossa. In verità, ciò significa ingannare il mondo intero. Il generale Billot, tanto per fare un nome, non è stato forse avvertito da ben diciotto mesi? Il colonnello Picquart non ha forse insistito affinché prendesse nelle sue mani la revisione per evitare che la tempesta scoppiasse e sconvolgesse tutto? Il senatore Scheurer- Kestner non l’ha supplicato, con le lacrime agli occhi, di pensare alla Francia, di risparmiarle una simile catastrofe? No, no! Il nostro desiderio è stato di facilitare le cose, di attutirle e, se il Paese ora soffre, la colpa è del potere che, desideroso di copri re i colpevoli, spinto da interessi politici, ha rifiutato tutto, nella speranza di essere abbastanza forte per impedire che si facesse luce. Da quel giorno ha manovrato sempre nell’ombra, in favore delle tenebre, ed è lui, lui solo, il responsabile del disperato turbamento che affligge le coscienze. L’affaire Dreyfus, signori miei, oggi è di ventato marginale, è ormai un fatto remoto e lontano, rispetto ai terrificanti problemi che ha sollevato. Non si tratta più dell’affaire Dreyfus, si tratta ormai di sapere se la Francia è ancora la Francia dei diritti dell’uomo, quella che ha donato la libertà al mondo e che doveva donargli la giustizia. Siamo ancora il popolo più nobile, il più fraterno, il più generoso? In Europa, conserveremo ancora la nostra fama di equità e di umanità? Allora, non sono queste tutte le conquiste che avevamo fatto e che erano rimesse in discussione? Aprite gli occhi e capirete che se l’anima francese è in preda a una simile confusione ciò è dovuto al fatto che è profondamente sconvolta di fronte a un terribile pericolo. Un popolo non sarebbe sconvolto a tal punto se la sua stessa vita morale non fosse in pericolo. L’ora è di una gravità eccezionale, è in gioco la salvezza della nazione.Quando avrete compreso questo, signori, avrete coscienza che esiste un solo rimedio possibile: dire la verità e renderegiustizia. Tutto ciò che ritarderà la luce, tutto ciò che aggiungerà tenebre a tenebre non farà che prolungare eaggravare la crisi. Il compito dei buoni cittadini, di quelli che sentono il bisogno imperioso di farla finita, è di esigere piena chiarezza. Siamo già in molti a pensarlo. Gli uomini di lettere, di filosofia e di scienza si levano da ogni luogo in nome dell’intelligenza e della ragione. E non vi parlo dei paesi stranieri, del brivido che si è propagato in tutta l’Europa. Lo straniero non è necessariamente sinonimo di nemico. Non parliamo dei popoli che possono essere domani nostri avversari. Ma la grande Russia, nostra alleata, la piccola e generosa Olanda, tutti i popoli amici del Nord, le terre di lingua francese, come la Svizzera e il Belgio, perché mai avrebbero il cuore grosso, traboccante di sofferenza fraterna? Sognate forse una Francia isolala dal mondo? Volete che nessuno, quando passerete la frontiera, sorrida più alla vostra leggendaria buona fama di equità e di umanità? Ahimè, signori! Come tanti altri, forse anche voi aspettale l’avvenimento imprevisto, la prova dell’innocenza di Dreyfus, che dovrebbe scendere dal cielo come la folgore. Di norma la verità non procede affatto così; essa richiede ricerca e intelligenza. La prova! Sappiamo bene dove potremmo trovarla. Ma lo pensiamo soltanto nel segreto delle nostre anime, e la nostra angoscia di patrioti è che ci si sia esposti a ricevere un giorno lo schiaffo di questa prova, dopo avere impegnato l’onore dell’esercito i n un a menzogna. Voglio inoltre dichiarare con chiarezza che, se abbiamo notificato come testimoni alcuni membri delle ambasciate, la nostra volontà formale era all’inizio d i non citarli in questa sede. Si è sorriso della nostra audacia. Non credo che ne abbiano sorriso al ministero degli Affari Esteri, dove sicuramente hanno capito. Abbiamo semplicemente voluto dire a quelli che sanno tutta la verità che anche noi la sappiamo. Quella verità corre per le ambasciate e domani sarà conosciuta da tutti. E, per i l momento, ci è impossibile andarla a cercare là dove si trova, protetta da formalità invalicabili. Il governo, che non ignora niente, che è convinto come noi dell’innocenza di Dreyfus, potrà, quando lo vorrà e senza rischio, trovare i testimoni che finalmente facciano luce.Lo giuro! Dreyfus è innocente! Impegno la mia vita e il mio onore. In questo momento così solenne, davanti a questo tribunale che rappresenta la giustizia umana, davanti a voi, signori giurati, che siete l ‘ emanazione stessa della nazione, davanti a tutta la Francia, davanti al mondo intero, io giuro che Dreyfus è innocente. Per i miei quarant’ anni di lavoro, per l’autorità che questa fatica può avermi dato, giuro che Dreyfus è innocente. E per tutto quello che ho conquistato, per il nome che mi sono fatto, per le mie opere che hanno contribuito all’espansione delle lettere francesi, giuro che Dreyfus è innocente; che tutto questo crolli, che le mie opere periscano, se Dreyfus non è innocente! Dreyfus è innocente. Tutto sembra essere contro di me, le due Camere, il potere civile, il potere militare, i giornali a grande tiratura, l’opinione pubblica da questi avvelenata. E io posseggo solamente i miei ideali di verità e di giustizia. Eppure sono tranquillissimo, vincerò. Non ho voluto che il mio Paese restasse nella menzogna e nell’ingiustizia. Oggi, qui, mi si può colpire. Un giorno la Francia mi ringrazierà di aver contribuito a salvare il suo onore. Pubblicata su «L’Aurore» il 22 febbraio 1898

“Il monumento più ripugnante dell’infamia umana”. La Corte di Rennes ancora una volta e in modo totalmente antigiuridico, condanna di nuovo Dreyfus, ma soltanto a dieci anni, “compreso il sofferto”, scrive Vincenzo Vitale il 23 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Negli oltre diciotto mesi che separano la pubblicazione di questo articolo da quella del precedente, sono accadute molte cose determinanti per le sorti della vicenda di Dreyfus. Non solo la condanna di Zola per la presunta diffamazione a carico dei giudici militari, ma anche la radiazione dai ranghi dell’esercito del colonnello Picquart, colui che aveva scoperto la colpevolezza di Esterhazy e l’innocenza di Dreyfus, ma soprattutto il fatto decisivo: il maggiore Henry confessa al Ministro Cavaignac di aver personalmente confezionato e perciò materialmente falsificato il documento sulla base del quale era stato condannato Dreyfus. Subito dopo Henry si suicida, mentre Esterhazy, comprendendo che ormai la sua posizione è indifendibile, ripara precipitosamente in Inghilterra: e Proust sapidamente commenta: “Il caso era puro Balzac, ora diventa shakespeariano”. Queste novità conducono naturalmente a riaprire il procedimento nei confronti di Dreyfus, che viene riportato in Francia per un nuovo processo da celebrare a Rennes, mentre Paty de Clam, autore primo di tutto il complotto contro Dreyfus, viene arrestato. Tuttavia, assurdamente e contro ogni lecita aspettativa, la Corte di Rennes ancora una volta e in modo totalmente antigiuridico, condanna di nuovo Dreyfus, ma soltanto a dieci anni, “compreso il sofferto”. Prevedo il quesito di ciascuno: ma potevano farlo? No. E tuttavia lo fecero. E lo fecero per una ragione che agli occhi di quei sedicenti giudici appariva tanto cogente da indurli ad andare contro il buon senso: continuare, contrariamente ad ogni attesa, a difendere l’operato dei primi giudici, alla cui corporazione (l’esercito) loro stessi appartenevano. Come dire che fra la libertà di coscienza – che doveva di filato indurre alla assoluzione di Dreyfus con la formula più ampia – e la difesa corporativa della classe di appartenenza, la Corte di Rennes preferisce questa a quella. Nulla di nuovo, per carità. Capita anche nel nostro tempo che alcuni Tribunali si facciano un po’ troppo condizionare dall’opera di una Procura, troppo sensibilizzandosi alle sue richieste ed alla sue attese. E tuttavia, sempre e in ogni caso, determinazione assurda e antigiuridica, come assurda e antigiuridica fu la condanna di Rennes, che, non a caso, ci fu, ma fu straordinariamente mite, considerata la gravità del reato contestato (spionaggio e alto tradimento), e tenendo conto che Dreyfus aveva trascorso già cinque anni in deportazione: segno che i componenti della Corte di Rennes, pur decisi a difendere la corporazione, non volevano esagerare; così, tanto per poter dormire la notte. E dormirono. Ma Zola, per queste medesime ragioni, non dormiva. Anzi. In questo articolo, pubblicato due giorni dopo la condanna di Rennes, egli non manca di fustigare letteralmente coloro che si erano resi responsabili di questo ulteriore scempio perpetrato nei confronti delle più elementari ragioni della giustizia attraverso la nuova condanna inflitta a Dreyfus, sia pure irrogatrice di una pena assai modesta e in gran parte già scontata. Inflitta, insomma, per salvare – come si dice con efficace proverbio contadino – capra e cavoli: la capra della salvaguardia dell’operato dei precedenti giudici che avevano condannato il capitano ebreo e i cavoli della propria coscienza che avrebbe potuto loro impedire, appunto, di dormire. Così, Zola non esita a denunciare il processo di Rennes come “il monumento più ripugnante dell’infamia umana”. E aggiunge icasticamente che “L’ignoranza, l’idiozia, la follia, la crudeltà, la menzogna, il crimine vi sono ostentati con una tale spudoratezza che le generazioni future ne arrossiranno di vergogna”. E ciò è tanto più vero, in quanto Zola aveva raggiunto la assoluta ed incontestabile certezza della colpevolezza di Esterhazy, il quale, tempo prima, aveva fornito documenti segreti al Colonnello Schwartzkoppen, addetto militare presso l’Ambasciata tedesca a Parigi. Ecco perché, sulla scorta di ciò, l’avvocato Labori, difensore di Dreyfus, aveva chiesto di sentire come testimoni alcuni addetti militari stranieri informati della circostanza: richiesta tuttavia puntualmente rigettata dai giudici. Come dire, chiosa Zola, che la Corte abbia affermato, a scanso di equivoci, “non vogliamo che ci venga fornita la prova, perché vogliamo condannare”. E, d’altra parte, perché meravigliarsi se l’avvocato Labori, nel corso del processo, era stato addirittura ferito da una revolverata esplosa da un sicario rimasto ignoto? Se questo era il clima in cui questo nuovo processo veniva celebrato, cosa attendersi di diverso, se non una nuova condanna per l’innocente Dreyfus?

Processo Dreyfus. Francia, vergognati! Il nuovo procedimento nei confronti di Dreyfus si conclude con una nuova condanna, anche se più lieve, scrive Émile Zola riportato il 23 Agosto 2018 da "Il Dubbio". Sono terrorizzato. E non è più la collera, l’indignazione vendicatrice, il bisogno di gridare il crimine commesso, di pretenderne il castigo in nome della verità e della giustizia; è il terrore, il sacro spavento di un uomo che vede realizzarsi l’impossibile, i fiumi risalire verso le sorgenti, la terra capovolgersi sotto il sole. E ciò che io grido è lo sconforto della nostra generosa e nobile Francia, è la paura dell’abisso in cui sta scivolando. C’eravamo illusi che il processo di Rennes fosse il quinto atto della terribile tragedia che viviamo da quasi due anni. Le pericolose peripezie sembravano ormai dissolte, credevamo di andare verso una conclusione che portasse alla pacificazione e alla concordia. Dopo la dolorosa battaglia, la vittoria del diritto si rendeva inevitabile, il dramma doveva concludersi felicemente con il classico trionfo dell’innocente. E invece ci siamo sbagliati: si annuncia una nuova peripezia, la più inattesa, la più spaventosa di tutte, che rende nuovamente cupo il dramma, che lo prolunga e lo proietta verso un finale ignoto, davanti al quale la nostra ragione rimane turbata e vacilla. Il processo di Rennes è soltanto il quarto atto. Gran Dio. Come sarà il quinto? Quali dolori e quali nuove sofferenze potrà mai generare, verso quale espiazione suprema getterà la nazione? Perché è più che certo che l’innocente non può essere condannato due volte e che una conclusione del genere spegnerebbe iI sole e solleverebbe i popoli! Ah, quel quarto atto del processo di Rennes, con quale agonia morale l’ho vissuto dal fondo della più completa solitudine in cui mi ero rifugiato, con lo scopo di scomparire dalla scena da buon cittadino, desideroso di non dare altre occasioni al fanatismo e al disordine! Con quale angoscia nel cuore aspettavo notizie, lettere, giornali, e quali ribellioni, quali sofferenze nel leggerli! Le splendide giornate di quel mese d’agosto si rabbuiavano, e mai ho avvertito l’ombra e il freddo di una soglia così agghiacciante sotto cieli tanto smaglianti. Certamente in questi due anni le sofferenze non sono mancate. Ho sentito le folle inseguirmi gridando «Amore!», ho visto passare ai miei piedi un immondo torrente di oltraggi e di minacce, ho conosciuto per ben undici mesi la disperazione dell’esilio. Inoltre ho subito due processi, spettacoli lacrimevoli di viltà e d’iniquità. Ma cosa sono i miei due processi se confrontati a quello di Rennes? Idilli, scene rinfrescanti in cui fiorisce la speranza. Abbiamo assistito a tante mostruosità: i procedimenti giudiziari conto il colonnello Picquart, l’inchiesta della Sezione Penale, la legge d’incompetenza a procedere che ne è conseguita. Ma oggi che l’inevitabile progressione ha fatto il suo corso, tutto questo sembra puerile, e il processo di Rennes sboccia nella sua enormità all’apice come un orrendo fiore da un letamaio. In esso abbiamo visto uno straordinario concentrato di attentati contro la verità e la giustizia. Una banda di testimoni dirigeva il dibattimento, ogni sera metteva a punto loschi tranelli per il giorno successivo, avanzava richieste a colpi di menzogne al posto del pubblico ministero, terrorizzava e insultava chi osava contraddirla, s’imponeva con l’insolenza dei suoi galloni e pennacchi. Un tribunale, preda di questa invasione di ufficiali, soffriva visibilmente nel vederli in veste di criminali e obbediva a una mentalità tutta particolare, che bisognerebbe lungamente smontare per poter giudicare i giudici. Un pubblico ministero grottesco ai limiti dell’imbecillità, che lasciava agli storici di domani una requisitoria nata da un animale umano non ancora classificato, la cui inconsistenza stupida e omicida, di una crudeltà talmente senile e cocciuta da apparire incosciente, sarà causa di un eterno stupore. Una difesa che da principio si tenta di assassinare, poi si mette a tacere ogni volta che diventa imbarazzante, alla quale si rifiuta di produrre la prova decisiva nel momento in cui reclama i soli testimoni che veramente sanno. Questa vergogna è durata un mese intero al cospetto dell’innocente, quel povero Dreyfus ridotto a un brandello umano che farebbe piangere anche le pietre. I suoi vecchi commilitoni sono venuti a dargli l’ennesimo calcio e i suoi vecchi superiori a schiacciarlo con i loro gradi, pur di salvare se stessi dalla galera: non c’è stato nessun grido di pietà o un fremito di generosità in quelle anime vili. La nostra dolce Francia ha offerto questo spettacolo al mondo intero. Quando verrà pubblicato in extenso, il resoconto del processo di Rennes sarà il monumento più ripugnante dell’infamia umana. Esso supera ogni cosa e mai documento più criminale sarà stato fornito alla storia. L’ignoranza, l’idiozia, la follia, la crudeltà, la menzogna, il crimine vi sono ostentati con una tale spudoratezza che le generazioni future ne arrossiranno di vergogna. In esso vi sono le prove della nostra bassezza di cui arrossirà l’umanità intera. Ed è proprio da qui che nasce il mio sgomento, perché se un simile processo si è potuto svolgere, se una nazione può offrire al mondo civile una simile dimostrazione del suo stato morale e intellettuale, bisogna che essa attraversi una crisi spaventosa. Si tratta dunque della morte prossima? E quale bagno di bontà, di purezza, di equità ci salverà dal fango velenoso in cui agonizziamo? Come scrivevo nel mio J’accuse, in seguito alla scandalosa assoluzione di Esterhazy, è impossibile che un Consiglio di Guerra cancelli ciò che un altro Consiglio di Guerra ha fatto. Ciò è contrario alla disciplina. E la sentenza del Consiglio di Guerra di Rennes che, nel suo imbarazzante gesuitismo, non ha il coraggio di pronunciare un sì o un no, è la prova eclatante che la giustizia militare è impotente ad essere giusta, perché non è libera e rifiuta l’evidenza, al punto da condannare nuovamente un innocente piuttosto che mettere in dubbio la propria infallibilità. Si è ostentata come un’arma d’esecuzione in mano agli ufficiali. A questo punto essa non saprebbe essere altro che una giustizia sommaria, da tempo di guerra. Ma in tempo di pace deve scomparire, dal momento che è incapace di equità, di semplice logica e di buon senso. Si è condannata da sé. Ma ci rendiamo conto della situazione atroce che ci viene imposta tra le nazioni civili? Un primo Consiglio di Guerra, ingannato dalla sua ignoranza delle leggi e dalla sua inettitudine nel giudicare, condanna un innocente. Un secondo Consiglio di Guerra, che a sua volta è stato forse tratto in errore dal più spudorato complotto di menzogne e di inganni, assolve un colpevole. Un terzo Consiglio di Guerra, dopo che è stata fatta luce, dopo che la più alta magistratura del Paese ha deciso di lasciargli l’onore di riparare l’errore, osa negare la chiara evidenza e condanna di nuovo l’innocente. E l’irreparabile, è stato commesso il delitto supremo. Gesù è stato condannato una sola volta. Ma crolli pure tutto, che la Francia sia preda delle fazioni, che la patria in fiamme sprofondi tra le macerie, che l’esercito stesso ci rimetta il suo onore, piuttosto che confessare che dei colleghi si sono sbagliati e che alcuni ufficiali hanno mostrato di essere dei bugiardi e dei falsari! L’idea sarà crocifissa, la sciabola deve regnare. Ed eccoci in questa magnifica situazione davanti all’Europa e al mondo intero che è convinto dell’innocenza d Dreyfus. Qualora un dubbio fosse ancora rimasto presso qualche popolo lontano, lo scandalo lampante del processo di Rennes avrebbe ottenuto l’effetto di illuminarlo. Le corti delle grandi potenze vicine sono informate, conoscono documenti, hanno la prova dell’indecenza di tre o quattro nostri generali e della paralisi vergognosa della nostra giustizia militare. La nostra Sedan morale è perduta ed è cento volte più disastrosa dell’altra, dove si è versato soltanto del sangue. Lo ripeto. Ciò che mi sgomenta è che questa disfatta del nostro onore sembra insanabile. Come annullare infatti le sentenze di tre Consigli di Guerra, dove troveremo l’eroismo di confessare la colpa per poter camminare di nuovo a fronte alta? Dov’è il governo coraggioso e di salute pubblica, dove sono le Camere che comprenderanno e agiranno prima dell’inevitabile crollo? La cosa peggiore è che siamo arrivati ormai a una fondamentale scadenza. La Francia ha voluto festeggiare il suo secolo di lavoro, di scienza, di lotte per la libertà la verità e la giustizia. Come vedremo in seguito, non è mai esistito secolo più nobile. E la Francia ha dato appuntamento presso di sé a tutti i popoli per glorificare la sua vittoria, la Libertà conquistata, la verità e la giustizia promesse al mondo. Fra qualche mese i popoli arriveranno, ma troveranno che un innocente è stato condannato due volte, la verità soffocata, la giustizia assassinata. Siamo caduti nel loro disprezzo, ed essi verranno a fare bagordi, berranno il nostro vino, abbracceranno la nostra servitù, come si usa fare nell’infima stamberga dove è consentito comportarsi da canaglie. Possiamo mai accettare che la nostra Esposizione Universale sia il luogo malfamato e disprezzato dove il mondo intero vorrà darsi ai bagordi? No! Abbiamo immediatamente bisogno del quinto atto della mostruosa tragedia, quand’anche dovessimo lasciarci ancora un po’ della nostra carne. Abbiamo bisogno del nostro onore per accogliere i popoli in una Francia guarita e rigenerata. Quel quinto atto che cerco e immagino mi ossessiona, non faccio che pensarci. Nessuno si è accorto che l’affaire Dreyfus, questo gigantesco dramma che agita l’universo, sembra messo in scena da qualche sublime drammaturgo, desideroso di farne un incomparabile capolavoro? Ricordo le straordinarie peripezie che hanno sconvolto tante coscienze. Ad ogni nuovo atto la passione è aumentata e l’orrore è esploso più intenso. In questa opera vivente, il destino è il genio che anima i personaggi e determina i fatti, sotto la tempesta che egli stesso scatena. E poiché sicuramente desidera che il capolavoro sia completo, ci prepara chissà quale sovrumano quinto atto che ricollocherà la gloriosa Francia alla testa delle nazioni. Perché, siatene convinti, è il destino che ha voluto il crimine supremo di vedere l’innocente condannato una seconda volta. Occorreva che il crimine venisse commesso per la grandezza della tragedia, per la bellezza sovrana, per l’espiazione che forse permetterà l’apoteosi. Visto che è stato toccato il fondo dell’orrore, non mi resta che aspettare il quinto atto che metterà fine al dramma, liberandoci e ridonandoci una nuova integrità e giovinezza. Oggi parlerò con franchezza del mio timore, che è sempre stato, come ho lasciato più volte intendere, che la verità, la prova decisiva e schiacciante ci venga dalla Germania. Non è più tempo di tacere su questo pericolo mortale. Diversi segnali ci dicono che conviene considerare coraggiosamente il caso in cui fosse proprio la Germania a portarci il quinto atto, come un fulmine a ciel sereno. Ecco la mia confessione. Nel gennaio 1898, prima del mio processo, io venni a sapere con certezza che Esterhazy era «il traditore», che lui aveva fornito a Schwartzkoppen un considerevole numero di documenti, molti dei quali scritti personalmente, e che la lista completa si trovava a Berlino al Ministero della Guerra. Io non faccio il patriota di mestiere, ma confesso che le rivelazioni che mi furono fatte mi sconvolsero; da quel momento la mia angoscia di buon francese non è più cessata, ho vissuto nel terrore che la Germania, forse nostra futura nemica, ci schiaffeggiasse con le prove che sono in suo possesso. Ma come! Il Consiglio di Guerra del 1894 condanna Dreyfus innocente, il Consiglio di Guerra del 1898 proscioglie Esterhazy che è colpevole, la nostra nemica detiene le prove del duplice errore commesso dalla nostra giustizia militare e tranquillamente la Francia si ostina in quell’errore, accettando lo spaventoso pericolo dal quale è minacciata! Dicono che la Germania non può servirsi di documenti ottenuti per mezzo dello spionaggio. Cosa ne sappiamo? Se domani scoppiasse la guerra, non comincerebbe forse con la perdita dell’onore del nostro esercito di fronte all’Europa, con la pubblicazione dei documenti che mostrano l’infame ingiustizia in cui certi ufficiali si sono intestarditi? È tollerabile un pensiero del genere, potrà la Francia godere di un istante di riposo fin tanto che saprà in mano allo straniero le prove del suo disonore? Lo dico con semplicità: non riuscivo più a darmi pace. Così insieme a Labori decidemmo di citare come testimoni gli addetti militari stranieri, pur sapendo benissimo che non li avremmo condotti alla sbarra, ma volendo far capire al governo che sapevamo la verità nella speranza che agisse. Hanno fatto orecchie da mercante, hanno ironizzato e lasciato l’esercito in mano alla Germania. E le cose sono rimaste ferme fino al processo di Rennes. Appena rientrato in Francia sono corso da Labori, ho insistito disperatamente perché venissero fatti passi presso il ministero per segnalare la terrificante situazione, per domandargli se non intendesse intervenire affinché, grazie alla sua mediazione, ci venissero dati i documenti. Certamente la questione era molto delicata, inoltre c’era quel povero Dreyfus da salvare, ragion per cui bisognava essere pronti a tutte le concessioni per timore di irritare l’opinione pubblica già sconvolta. D’altronde, se il Consiglio di Guerra avesse assolto Dreyfus, i documenti avrebbero perso il loro valore e l’arma, di cui la Germania si sarebbe potuta servire, si sarebbe spezzata. Dreyfus prosciolto, ecco l’errore riconosciuto e riparato. L’onore sarebbe stato salvo. E il mio tormento patriottico è ricominciato ancora più forte, non appena ho saputo che un Consiglio di Guerra stava per aggravare il pericolo condannando di nuovo l’innocente, l’uomo del quale la pubblicazione dei documenti di Berlino griderà un giorno l’innocenza. Ecco perché non ho cessato d’agire, supplicando Labori di reclamare questi documenti e di citare come testimone Schwartzkoppen, il solo che possa fare piena luce. E il giorno che Labori, l’eroe ferito da una pallottola sul campo di battaglia, approfittando di un ‘ occasione offertagli dagli accusatori, ha chiamato alla sbarra Io straniero indegno, quel giorno che si è alzato per chiedere che venisse ascoltato l’uomo che con una sola parola poteva porre fine all’affaire, quel giorno egli ha adempiuto fino in fondo al suo dovere, è stato la voce eroica che nulla potrà far tacere, la cui richiesta sopravvive al processo, e al momento opportuno dovrà fatalmente farlo ricominciare per chiuderlo con la sola soluzione possibile: l’assoluzione dell’innocente. La richiesta dei documenti è stata inoltrata, sfido a che quei documenti non siano prodotti. Vedete in quale maggiore e intollerabile pericolo ci ha messo il presidente del Consiglio di Guerra di Rennes usando il suo potere discrezionale per impedire la pubblicazione dei documenti. Niente di più brutale, mai porta è stata chiusa più intenzionalmente alla verità. «Non vogliamo che ci venga fornita la prova, perché vogliamo condannare». E un terzo Consiglio di Guerra si è aggiunto agli altri due nel cieco errore, per cui una eventuale smentita dalla Germania colpirebbe ora tre sentenze inique. Non è demenza pura, non c’è da urlare di ribellione e d’inquietudine? Il governo che i suoi funzionari hanno tradito, che ha avuto la debolezza di lasciare che bambini cresciuti, dalla mentalità ottusa, giocassero con i fiammiferi e i coltelli; il governo che ha dimenticato che governare significa prevedere deve affrettarsi ad agire se non vuole abbandonare a capriccio della Germania il quinto atto, l’epilogo che tutta Ia Francia dovrebbe temere. È lui, il governo, che ha il compito di recitare al più presto questo quinto atto, per impedire che lo facciano dall’estero. Può procurarsi i documenti, la diplomazia ha risolto difficoltà ben più grandi. Il giorno in cui saprà chiedere i documenti del bordereau, li otterrà. E questo sarà il fatto nuovo che renderà necessaria una seconda revisione davanti alla Corte di Cassazione. Questa volta spero istruita e in grado di cessare senza alcun rinvio nella pienezza della sua magistratura sovrana. Ma se il governo dovesse di nuovo tirarsi indietro, i difensori della verità e della giustizia faranno quanto è necessario. Non uno di noi diserterà il suo posto. La prova inconfutabile prima o poi finiremo per averla. Il 23 novembre saremo a Versailles. Il mio processo ricomincerà, perché si vuole farlo ricominciare in tutta la sua ampiezza. Se finora giustizia non è stata ancora fatta, daremo un nuovo contributo per ottenerla. Il mio caro e valoroso Labori, il cui onore si è nel tempo accresciuto, pronuncerà perciò a Versailles l’arringa che non ha potuto pronunciare a Rennes; è semplicissimo, niente andrà perduto. Io non lo farò certo tacere. Dovrà soltanto dire la verità, senza temere di nuocermi, poiché sono pronto a pagarla con la mia libertà e col mio sangue. Davanti alla Corte d ‘ Assise della Senna ho giurato l’innocenza di Dreyfus. La giuro davanti al mondo intero che ora la grida con me. E torno a ripeterlo: la verità è in cammino e niente potrà fermarla. A Rennes ha appena compiuto un passo da gigante. Non mi resta che lo spavento di vederla piombare a saccheggiare la patria, come una folgore scagliata dalla Nemesi vendicatrice, se non ci affrettiamo a farla risplendere noi stessi sotto il nostro vivido sole di Francia.

“Che l’innocente Dreyfus sia riabilitato, soltanto allora la Francia sarà riabilitata con lui”. La bellissima lettera, pubblicata su l’Aurore il 29 settembre 1899, che Emile Zola scrisse alla moglie di Alfred Dreyfus riportata il il 26 Agosto 2018 da "Il Dubbio". Signora, Le rendono l’innocente, il martire. Rendono alla sua sposa, a suo figlio, a sua figlia, il marito e il padre, e il mio primo pensiero va alla famiglia finalmente riunita, consolata, felice. Quale che sia ancora il mio lutto di cittadino nonostante il dolore indignato e la ribellione in cui continuano ad angosciarsi le anime giuste, vivo con Lei questo momento meraviglioso, bagnato di lacrime benefiche, il momento in cui Lei ha stretto tra le braccia il morto risuscitato, uscito vivo e libero dalla tomba. E, malgrado tutto, questo è un grande giorno di vittoria e di festa. Immagino la prima sera alla luce della lampada, nell’intimità familiare, quando le porte sono chiuse e tutti le infamie della strada si spengono sulla soglia di casa. I due bambini sono là, accanto al padre tornato da un viaggio lungo e oscuro. Lo baciano in attesa del racconto che farà più tardi. Che pace fiduciosa e che speranza per un domani riparatore, mentre la madre si aggira con dolce premura, avendo ancora, dopo tanto eroismo, un compito grandioso da compiere, quello di rimettere in piedi con le sue cure e la sua tenerezza la salute del crocifisso, del povero essere che le hanno restituito. C’è tanta dolcezza nel chiuso della casa, una bontà infinita effonde da ogni parte nell’intimità della stanza in cui la famiglia sorride. E noi siamo là, nell’ombra, muti, ricompensati, tutti noi che abbiamo voluto ciò e che abbiamo lottato da tanti mesi per questo momento di felicità. Quanto a me, confesso che il mio impegno inizialmente non è stato altro che un’opera di solidarietà umana, di pietà e d’amore. Un innocente soffriva il più orrendo dei supplizi, non ho visto altro e ho dato inizio a una campagna unicamente per liberarlo dei suoi mali. Dal momento in cui mi venne provata la sua innocenza nacque in me una straziante ossessione: il pensiero di tutto quello che l’infelice aveva sofferto e di quello che ancora soffriva nel carcere dove agonizzava, murato da una fatalità mostruosa di cui non poteva nemmeno sciogliere l’enigma. Quale tempesta dentro di lui, e quale smaniosa attesa che si rinnovava ad ogni nuova aurora! E non ho più vissuto, il mio è stato il coraggio della pietà, e l’unico obiettivo è stato di mettere fine alla tortura, di sollevare la pietra affinché il giustiziato ritornasse alla luce del giorno e fosse restituito ai suoi che avrebbero curato le sue ferite. Una questione sentimentale, come dicono i politici con una leggera alzata di spalle. Buon Dio, sì! Ma il mio cuore era infiammato e io andavo in soccorso di un uomo in preda allo sconforto, fosse egli ebreo, cattolico o maomettano. Allora credevo che si trattasse di un semplice errore giudiziario, ignoravo I’enormità del crimine che teneva quell’uomo in catene, oppresso nel fondo di un’atroce fossa dove altri spiavano la sua agonia. Non provavo perciò nessuna collera contro i colpevoli, peraltro ancora sconosciuti. Semplice scrittore strappato al consueto lavoro dalla compassione non perseguivo alcun fine politico e non lavoravo per alcun partito. Il mio unico partito all’inizio della campagna non era altri che servire l’umanità. In seguito capii la terribile difficoltà del nostro compito. Nello svolgersi ed estendersi della battaglia, sentivo che la liberazione dell’innocente richiedeva sforzi sovrumani. Tutte le potenze sociali erano alleate contro di noi che non avevamo dalla nostra che la sola forza della verità. Dovevamo compiere un miracolo per risuscitare il sepolto. Quante volte durante quei due anni crudeli ho disperato di riaverlo, di restituirlo vivo alla sua famiglia! Era laggiù, nella sua tomba, e potevamo essere in cento, in mille o in ventimila, ma la pesante pietra di iniquità era tale che temevo di vedere le nostre braccia indebolirsi prima dell’ultimo sforzo supremo. Mai, mai più! Forse un giorno, tra molto tempo, avremmo imposto la verità e ottenuto giustizia. Ma l’infelice sarebbe morto e la sua sposa, i suoi figli, mai più avrebbero potuto dargli il bacio gioioso del ritorno. Signora, ecco che oggi abbiamo compiuto il miracolo. Due anni di lotte imponenti hanno realizzato l’impossibile; il nostro sogno si è avverato perché il giustiziato è sceso dalla croce, l’innocente è libero, suo marito Le è stato reso. Egli ha smesso di soffrire, conseguentemente è fìnita anche la sofferenza dei nostri cuori e l’intollerabile simulacro cessa di turbare i nostri sonni. Ed è per questo, lo ripeto, che oggi è un giorno di grande festa e di grande vittoria. Tutti i nostri cuori comunicano con discrezione col Suo, non c’è cuore di moglie e di madre che non si sia intenerito pensando a questa prima serata d’intimità, alla luce della lampada, nell’emozione affettuosa del mondo intero dalla cui simpatia Lei è circondata. Signora, indubbiamente questa grazia è amara. Come è possibile imporre dopo tante torture fisiche una simile tortura morale? E che senso di ribellione si prova nel dirsi che si è ottenuto per pietà quel che dovrebbe dipendere soltanto dalla giustizia! Il peggio è che tutto sembra essere stato concertato per approdare a quest’ultima iniquità. I giudici hanno voluto tornare a colpire l’innocente per salvare i colpevoli, pronti a rifugiarsi nell’ipocrisia rivoltante di un’apparente misericordia. «Tu vuoi l’onore, noi ti faremo l’elemosina della libertà, affinché il tuo disonore legale copra i crimini dei tuoi carnefici». E non c’è, nella lunga serie di infamie commesse, un attentato più abominevole contro la dignità umana. È veramente il colmo, far mentire la divina pietà, farne lo strumento della menzogna, umiliare l’innocente affinché il crimine passeggi al sole gallonato e impennacchiato! Inoltre, quale tristezza nel constatare che il governo di un grande Paese si rassegna ad essere misericordioso a causa della sua disastrosa debolezza, quando dovrebbe essere giusto! Tremare di fronte all’arroganza di una fazione, credere di poter conseguire la pacificazione con l’ingiustizia, sognare non si sa quale abbraccio menzognero e avvelenato è il colmo dell’accecamento volontario. Il governo, all’indomani stesso della scandalosa sentenza di Rennes, non avrebbe dovuto deferirla alla Corte di Cassazione, alla giurisdizione suprema di cui invece si beffa con tanta insolenza? La salvezza del Paese non era forse in quell’atto di necessaria energia che avrebbe salvato il nostro onore agli occhi del mondo e che avrebbe ristabilito il regno della legge? La pacificazione definitiva è possibile solo nella giustizia, qualsiasi viltà sarà soltanto causa di una nuova febbre, e ciò che finora ci è mancato è un governo coraggioso, che voglia compiere il suo dovere fino in fondo per riportare sul dritto cammino la nazione smarrita e disorientatadalle menzogne.Ma il nostro decadimento è tale che siamo ridotti a congratularci con il governo per essersi mostrato pietoso. Ha osato essere buono, gran Dio! Quale folle audacia, che coraggio eccezionale esporsi ai morsi delle belve, i cui branchi selvaggi sbucati dalla foresta ancestrale si aggirano tra di noi! Essere buoni quando non si può essere forti è di per sé meritorio. E del resto. Signora, la riabilitazione che doveva essere immediata per la giusta gloria del Paese stesso, suo marito può aspettarla a fronte alta, poiché non c’è innocente che sia più innocente di lui di fronte a tutti i popoli della terra. Signora, lasci che Le dica, l’ammirazione, la venerazione, il culto che proviamo per Suo marito. Ha talmente sofferto senza nessuna ragione, assalito dall’imbecillità dalla cattiveria umana, che vorremmo curare ognuna delle sue ferite con tenerezza. Sappiamo bene che la riparazione è impossibile, che mai la società potrà pagare il suo debito verso iI martire vessato con un’ostinazione così atroce, ed è per questo che nei nostri cuori gli eleviamo un altare, non potendo dargli niente di più puro, né di più prezioso di questo culto di commossa fraternità. Egli è diventato un eroe più grande degli altri perché ha più sofferto. L’ingiusto dolore lo ha reso sacro; è entrato, augusto e purificato, in quel tempio dell’avvenire in cui hanno sede gli dèi, le cui immagini toccano i cuori facendovi nascere un’eterna fioritura di bontà. Le indimenticabili lettere che Le ha scritto, Signora, resteranno come il più grande grido d’innocenza martirizzata che mai sia stato emesso da un’anima. E se finora nessun uomo è stato fulminato da un destino più tragico, non c’è neppure nessuno che sia salito più in alto di lui nel rispetto e nell’amore degli uomini.Poi, come se i suoi aguzzini avessero voluto innalzarlo ulteriormente, gli hanno imposto la tortura suprema del processo di Rennes. Davanti a quel martire schiodato dalla croce, sfinito, sostenuto soltanto dalla sua forza morale, essi hanno stilato selvaggiamente, vilmente, coprendolo di sputi, massacrandolo di coltellate, versando sulle sue piaghe fiele ed aceto. E lui, lo stoico, ha conservato un contegno ammirevole, senza un lamento, un coraggio fiero, la tranquilla certezza nella verità, che susciteranno lo stupore delle generazioni future. Lo spettacolo è stato così bello, così straziante, che l’iniqua sentenza ha sollevato i popoli da quel dibattimento mostruoso durato un mese, dove ogni udienza gridava più forte l’innocenza dell’accusato. Il destino si compiva, l’innocente diventava Dio, affinché un esempio indimenticabile venisse donato al mondo.A questo punto. Signora, arriviamo alla sommità. Non c’è gloria, non c’è lode più nobile. Verrebbe quasi da chiedersi: a che pro una riabilitazione legale attraverso la formulazione di un giudizio d’innocenza se nell’universo non troveremmo più un galantuomo che non sia già convinto di quell’innocenza? E questo innocente improvvisamente è diventato il simbolo della solidarietà umana da un capo all’altro della terra. Laddove la religione di Cristo aveva impiegato quattro secoli a formarsi e a conquistare alcune nazioni, la religione dell’innocente condannato due volte ha fatto immediatamente il giro del mondo, riunendo in una immensa umanità tutte le nazioni civili. Cerco, nel corso della storia un analogo movimento di fraternità universale, ma non lo trovo. L’innocente condannato due volte ha fatto più per la fraternità tra i popoli, per l’idea di solidarietà, di giustizia, che cento anni di discussioni filosofiche e teorie umanitarie. Per la prima volta nella storia, l’umanità intera ha emesso un grido di liberazione ribellandosi generosamente per la giustizia, come se ormai formasse un solo popolo, il popolo unico e fraterno sognato dai poeti.Egli può dormire tranquillo e fiducioso. Signora, nel dolce rifugio familiare, riscaldato dalle Sue mani pie. E Lei può contare su noi per la sua glorificazione. Siamo noi, i poeti, a concedere la gloria, e la parte che gli assegneremo sarà così bella che nessun altro uomo della nostra epoca lascerà un ricordo altrettanto commovente. Sono stati già scritti molti libri in suo onore, un’intera biblioteca si è moltiplicata per dimostrare la sua innocenza e per esaltare il suo martirio. Mentre da pane dei suoi carnefici sono rari i documenti volumi e gli opuscoli scritti, gli amanti della verità e della giustizia non hanno cessato né cesseranno di contribuire alla storia, di pubblicare gli innumerevoli documenti dell’immensa inchiesta che un giorno permetterà di stabilire definitivamente i fatti. È il verdetto di domani che si prepara e esso porterà all’assoluzione trionfale, alla clamorosa riparazione; alla memoria del glorioso torturato tutte le generazioni in ginocchio chiederanno perdono per il delitto commesso dai loro padri.E siamo sempre noi poeti, Signora, a inchiodare i colpevoli alla gogna eterna. Coloro che noi condanniamo le generazioni future li fischieranno e li disprezzeranno. Ci sono nomi di criminali che, marchiati d’infamia da noi, negli anni a venire non saranno che immondi relitti. La giustizia immanente si è riservata questo castigo, ha incaricato i poeti di legare all’esecrazione dei secoli coloro le cui malefatte sociali, i cui crimini enormi sfuggono ai tribunali ordinari. So bene che per questi animi meschini e gaudenti questo è solo un castigo lontano del quale sorridono.L’insolenza immediata li appaga. Trionfare a furia di pedate è iI successo brutale in grado di soddisfare la loro fame volgare. Quale importanza può avere l’indomani nella tomba o l’infamia, quando non si può più arrossirne! La spiegazione dello spettacolo vergognoso che ci è stato offerto è in questa bassezza d’animo: le menzogne sfrontate, le frodi provate, le spudoratezze lampanti, tutto ciò che non dovrebbe durare più di un’ora e costituire la rovina dei colpevoli. Ma questi non hanno una discendenza? Non temono che il rossore della vergogna salga un giorno sui volti dei loro figli e dei loro nipoti? Ah, poveri pazzi! Sembra che neppure Ii sfiori l’idea che questa gogna, dove noi inchioderemo i loro nomi, è stata erettaproprio da loro. Voglio credere che si trattidi cervelli ottusi, nei quali un particolare ambiente e uno spirito professionaleabbiano provocato una deformazione. Come nei giudici di Rennes checondannano nuovamenteun innocente per salvare l’onore dell’esercito: si può immaginare qualcosa di più stupido? L’esercito, già! Lo hanno servito bene, compromettendolo in questa avventura scellerata. Sempre lo scopo volgare, immediato, senza alcuna accortezza per il domani! Bisognava salvare i pochi ufficiali colpevoli, a costo di un autentico suicidio del Consiglio di Guerra, di un sospetto gettato sull’alto comando ormai solida- le. E del resto, fa sempre parte dei loro crimini l’avere disonorato l’esercito ed essere stati gli artefici di nuovi disordini e di un rinnovato risentimento, al punto che se il governo pur di pacificare un po’ gli animi ha graziato l’innocente, lo ha fatto senza dubbio cedendo all’urgente bisogno di riparare l’errore, essendovi costretto dal rifiuto di rendere giustizia.Ma bisogna dimenticare, Signora, e soprattutto disprezzare. Nella vita è un grande sostegno disprezzare le viltà e gli oltraggi. Per me è stato salutare. Sono ormai quarant’ anni che lavoro, quarant’anni che mi tengo in piedi grazie al disprezzo per le ingiurie che mi è valsa ciascuna delle mie opere. E, dopo due anni che ci battiamo per la verità e la giustizia, l’ignobile moltitudine si è talmente ingrossata attorno a noi che ne usciamo corazzati per sempre, invulnerabili alle ferite. Per quanto mi riguarda, ho radiato dalla mia vita, i giornali ignobili, questi fantocci di melma. Non esistono più, salto il loro nome quando me lo trovo sotto gli occhi, salto perfino le note che citano i loro scritti. È una semplice norma d’igiene. Ignoro quel che fanno, il disprezzo li ha cacciati dalla mia mente in attesa che la fogna li spazzi via interamente.Ciò che io consiglio all’innocente è l’oblio sprezzante di tante atroci ingiurie. Egli è un uomo a parte, posto così in alto che non deve più esserne colpito. Che possa rivivere al Suo fianco, sotto il sole limpido, lontano dalle folle sediziose, per ascoltare soltanto il concerto di simpatia universale che sale verso di lui! Pace al martirizzato che ha tanto bisogno di riposo, e che attorno a lui nel rifugio dove Lei lo amerà e lo guarirà ci sia soltanto la carezza commosa delle persone e delle cose. Quanto a noi, Signora, continueremo la lotta, ci batteremo per la giustizia con la stessa tenacia di ieri. Ci occorre la riabilitazione dell’innocente, non tanto per riabilitare la persona, che ha già tanta gloria, quanto per riabilitare la Francia, che sicuramente potrebbe morire di questi eccessi d’ingiustizia.Il nostro sforzo futuro sarà quello di riabilitare la Francia agli occhi delle nazioni il giorno in cui casserà la sentenza infame. Un grande Paese non può vivere senza giustizia, e il nostro resterà in lutto fintanto che non avrà cancellate l’onta, questo schiaffo alla sua più alta giurisdizione, questo rifiuto del diritto che colpisce ogni cittadino. Nel momento in cui viene meno la garanzia delle leggi, i l legame sociale è sciolto e tutto crolla. E in questo rifiuto del diritto c’è stato un tale castello d’insolenze, un insieme di bravate così tracotanti, che non abbiamo neppure la speranza di far scendere il silenzio sul disastro, di seppellire il cadavere in segreto per non arrossire di fronte ai nostri vicini. Il mondo intero ha visto e ha capito; è davanti al mondo intero che la riparazione deve avvenire, tonante quanto I’errore.Volere una Francia senza onore, isolata e disprezzata, un sogno criminale. Senza dubbio gli stranieri verranno alla nostra Esposizione, non ho mai dubitato che essi invaderanno Parigi la prossima estate, come si corre ai baracconi della fiera tra lo splendore dei lumi e il baccano delle musiche. Ma può bastare alla nostra fierezza? Non dobbiamo tenere tanto alla stima quanto al denaro di quei visitatori venuti da ogni parte del globo? Festeggiamo la nostra industria, le nostre scienze, le nostre arti esponiamo i nostri lavori del secolo. Oseremo esporre la nostra giustizia? E immagino la caricatura straniera, l’isola del Diavolo ricostruita e mostrata al Champ de Mars. Brucio di vergogna, non capisco come l’Esposizione possa venire inaugurata senza che la Francia abbia ripreso il suo rango di nazione giusta. Che l’innocente sia riabilitato, soltanto allora la Francia sarà riabilitata con lui. Concludendo, torno a ripeterlo, Signora, Lei può affidarsi ai buoni cittadini che hanno fatto restituire la libertà a Suo marito e che gli faranno restituire l’onore. Nessuno abbandonerà il combattimento perché sono coscienti che lottando per la giustizia lottano per il Paese. L’ammirevole fratello dell’innocente darà loro ancora una volta esempio di coraggio e di saggezza. E poiché non abbiamo potuto, in un colpo solo, renderLe l’amato libero e puro dall’accusa menzognera, Le chiediamo soltanto ancora un po’ di pazienza, augurandoci che i Suoi figlioli non debbano crescere ancora moltoprima che il loro nome sia legalmente lavato da ogni macchia. Oggi il mio pensiero torna inevitabilmente verso quei cari bambini, e li vedo tra le braccia del padre. So con quale premura gelosa e con quale miracolo di delicatezza Lei li ha tenuti nella completa ignoranza. Credevano il loro padre in viaggio; poi la loro intelligenza ha finito per svegliarsi, diventavano esigenti, interrogavano, volevano una spiegazione per una così lunga assenza. Che dire loro, quando il martire era ancora laggiù nella tomba infame, quando la prova della sua innocenza risiedeva soltanto in qualche raro devoto? Il Suo cuore deve essersi spezzato orribilmente. Tuttavia, in queste ultime settimane, non appena l’innocenza ha brillato per tutti di una luminosità solare, avrei voluto che Lei prendesse per mano tutti e due i Suoi bambini e li conducesse nella prigione di Rennes, affinché avessero per sempre nella memoria il padre ritrovato là, cosparso d’eroismo. Avrei voluto che avesse detto loro che cosa aveva sofferto ingiustamente, quale grandezza morale era la sua, di quale appassionata tenerezza dovevano amarlo per fargli dimenticare l’ingiustizia degli uomini. Le loro piccole anime si sarebbero temprate in quel bagno di virtù.Del resto, non è tardi. Una sera, alla luce della lampada familiare, nella pace del focolare domestico, il padre li chiamerà a sé, li farà sedere sulle sue ginocchia, e racconterà loro tutta la tragica storia. Bisogna che sappiano affinché lo rispettino e adorino come merita. Quando avrà finito di raccontare, sapranno che non c’è al mondo un eroe più acclamato, un martire la cui sofferenza abbia sconvolto più profondamente i cuori. E saranno molto fieri di lui, porteranno il suo nome gloriandosene, come il nome di un coraggioso e di uno stoico che si è purificato fino al sublime, preda del più crudele dei destini che la scelleratezza e la viltà umane abbiano mai lasciato compiersi. Un giorno saranno i figli dei boia e non quelli dell’innocente che dovranno arrossire tra l’orrore universale.Voglia gradire, Signora, l’espressione del mio più profondo rispetto.

Dreyfus doveva essere assolto e non soltanto perdonato, scrive Vincenzo Vitale il 26 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Il 29 settembre del 1899, il Presidente della Repubblica Loubet, per mettere fine allo scandalo della condanna doppia di un innocente, e del quale ormai tutto il mondo sapeva, firma la Grazia per Dreyfus, rendendolo, dopo circa sei anni di vera e propria tortura, alla moglie e ai figli. Dieci giorni dopo, Zola pubblica questa appassionata e appassionante lettera alla moglie di Dreyfus, che costituisce una sorta di sintesi della sua posizione pubblica. Innanzitutto, egli mette in chiaro, con molta onestà intellettuale, di aver creduto, sulle prime, trattarsi soltanto di un errore giudiziario – grave e spiacevole – ma sempre un errore e nulla di più. Solo poco alla volta, si era invece reso conto che si trattava di una mostruosa macchinazione difficilissima da smontare e in forza della quale “tutte le potenze sociali erano alleate contro di noi”, cioè contro coloro che difendevano Dreyfus e che invece contavano solo sulla forza della verità. Da questo punto di vista, Zola rappresenta davvero la figura del moderno intellettuale, libero da condizionamenti ideologici, capace di coltivare una idea politica – in quanto essere pensante – ma altrettanto capace di contraddirla se ce ne fosse stato bisogno. Ecco perché, per lui, che Dreyfus fosse ebreo, cattolico o maomettano non poteva che essere indifferente: bastava fosse un uomo. Ma Zola non manca di mettere il dito sulla piaga, sulla vera piaga, evidenziando che la Grazia, pur mettendo fine alle terribili sofferenze di Dreyfus, è “amara”. E perché sarebbe amara? Lo è per il semplice motivo che mentre la Grazia concessa dal sovrano – in questo caso dal Presidente – non si basa sul riconoscimento della innocenza della persona graziata, ed anzi ne presuppone la colpevolezza, per ragioni di elementare giustizia, Dreyfus doveva essere assolto nel merito da ogni imputazione, e non soltanto perdonato. Zola denuncia senza mezzi termini la pochezza di una nazione che – come la Francia – nella incapacità di rendere giustizia, cioè a ciascuno il suo, debba ricorrere alla misericordia del perdono. Ciò è null’altro che voler essere “buoni”, quando non si è capaci di essere “forti”. Ma in questo modo – c’è da aggiungere – si mistifica allo stesso tempo sia la giustizia, sia la misericordia. Infatti, la vera misericordia suppone sempre che sia stata preliminarmente soddisfatta la giustizia. Solo se la giustizia non ha più nulla da pretendere, può legittimamente entrare sul palcoscenico del mondo la misericordia, la quale, secondo il tradizionale insegnamento della scolastica, non nega mai la prima, ma anzi la porta a compimento. Se per ragioni di stretta giustizia devo pagare una somma a un mio creditore che mi concesse un prestito, non posso certo restituirgliela a titolo di misericordia: quella somma gli è dovuta, punto e basta. Se invece farò dono di una somma a un indigente per consentirgli di sfamarsi, quella sarà vera misericordia. Ebbene, graziando Dreyfus, è come se la Francia abbia preteso di concedere per la misericordia del perdono quella “elemosina della libertà” – scrive efficacemente Zola – a chi invece aveva diritto di essere riconosciuto del tutto innocente del delitto per cui era stato condannato. Insomma, una meschinità della quale vergognarsi e indegna di una nazione che accampi il merito di aver fatto da apripista nel dissodare l’aspro terreno dei diritti e della libertà. Ecco dunque l’annuncio alla destinataria dello scritto e al mondo intero: Zola non si fermerà, fin quando l’innocente Dreyfus non avrà ottenuto la piena riabilitazione. Certo, lo scrittore comprendeva bene le motivazioni empiriche che avevano indotto il Presidente Loubet a concedere la Grazia. Loubet aveva ben compreso probabilmente l’innocenza di Dreyfus, ampiamente dimostrata dalla precipitosa fuga del vero colpevole – Esterhazy – in Inghilterra; dal suicidio di Henry, l’autore del falso documento che era servito per condannare Dreyfus; dall’arresto di Paty du Clam, il vero e terribile autore della spudorata macchinazione. E perciò sperava che la Corte di Rennes avrebbe rimediato al misfatto, avendo del resto in mano gli elementi processuali per farlo. Ma non aveva fatto i conti con lo spirito corporativo di quei sedicenti giudici, tanto intenso da sfociare nella stupidità, se stupido è – secondo una nota definizione di Carlo Cipolla (autore di un sapido libretto sulle leggi fondamentali della stupidità umana) – colui che per danneggiare un altro (Dreyfus), alla fine danneggia anche se stesso ( la Corte di Rennes e l’intero esercito). Di fronte a questa perdurante e in definitiva stupidissima ostinazione della Corte di Rennes, e probabilmente diffidando della stessa Cassazione alla quale si poteva pur inoltrare ricorso, al Presidente non restava che la Grazia, utile per finirla una buona volta con questa terribile storia che aveva infangato la reputazione della Francia in tutta Europa. Ma per la seconda volta, egli non aveva fatto i conti con un’altra ostinazione, ben più ragionata della prima: quella di Zola, nel richiedere a gran voce la piena riabilitazione di Dreyfus. “Che l’innocente sia riabilitato, soltanto allora la Francia sarà riabilitata con lui”. 

Amnistia a Dreyfus, sì, ma questa è un’amnistia sciagurata! Lettera riportata da "Il Dubbio il 29 agosto 2018 di Émile Zola a Émile Loubert, presidente della Repubblica dal 1899 al 1906 che concesse la grazia ad Alfred Dreyfus. Signor presidente, circa tre anni fa, il I 3 gennaio 1898, indirizzai al Suo predecessore Félix Faure una Lettera di cui egli non tenne sventuratamente conto per la sua buona reputazione. Ora che egli dorme il sonno eterno, la sua memoria rimane oscurata dalla mostruosa iniquità che io gli denunciavo, e della quale si è reso complice, usando tutto il potere che gli derivava dalla sua alta magistratura per coprire i colpevoli. Ed eccoLa ad occupare il suo posto, ecco che l’abominevole affaire, dopo avere macchiato tutti i governi complici o vili che si sono succeduti, si conclude sbrigativamente in un supremo diniego di giustizia, in un’amnistia che le Camere hanno appena votato con il coltello alla gola, e che porterà nella storia il nome di amnistia sciagurata. Il Suo governo precipita nell’errore insieme ai governi che l’hanno preceduto, assumendosi la più pesante delle responsabilità. Una pagina della sua vita sta per essere macchiata, la sua magistratura rischia di uniformarsi a quella precedente, a sua volta insozzata da una macchia indelebile. Mi permetta perciò, signor presidente, di esprimerle tutta la mia angoscia. Visto che la mia prima Lettera è stata una delle cause di questa amnistia, all’indomani della sua approvazione concluderò con questa nuova Lettera. Quanto meno non mi si potrà rimproverare d’essere un chiacchierone. Il 18 luglio 1898 partivo per l’Inghilterra e sono tornato soltanto il 5 giugno 1899: in quegli undici mesi ho taciuto. Ho di nuovo parlato nel settembre 1899, dopo il processo di Rennes. Poi sono ripiombato nel più completo silenzio, che ho spezzato una solta volta nel maggio scorso, per protestare davanti al Senato contro l’amnistia. Sono più di diciotto mesi che aspetto giustizia, fissata ogni tre mesi e regolarmente rinviata alla sessione successiva. Ho trovato tutto ciò tragico e comico. Oggi, al posto della giustizia, arriva quest’amnistia scellerata e oltraggiosa. Penso pertanto che il buon cittadino che sono stato, il silenzio che ho rispettato per non essere causa d’imbarazzo né di disordini, la grande pazienza che ho mostrato nel contare su una giustizia così lenta mi diano oggi il diritto e il dovere di parlare. Lo ripeto, devo concludere la mia opera. Una prima fase dell’affaire Dreyfus, che chiamerò il crimine assoluto, termina in questo momento. Prima di rientrare nuovamente nel silenzio, è necessario che spieghi il punto a cui siamo giunti, qual è stata la nostra opera e qual è la nostra certezza per domani. Non ho bisogno di risalire alle prime infamie dell’affaire, mi è sufficiente ritrarlo all’indomani della raccapricciante sentenza di Rennes, quella provocazione insolente ed iniqua che ha fatto fremere il mondo intero. È qui, signor presidente, che comincia la colpa del suo governo e conseguentemente la sua. Sono certo che un giorno ciò che è accaduto a Rennes verrà raccontato documenti alla mano: alludo al modo in cui il Suo governo si è lasciato ingannare e ha creduto quindi di doverci tradire. I ministri erano convinti dell’assoluzione di Dreyfus. Come avrebbero potuto dubitarne quando la Corte di Cassazione credeva di avere imbrigliato il Consiglio di Guerra nei termini di una sentenza così netta, in cui l’innocenza s’imponeva anche senza dibattimento? Come potevano minimamente preoccuparsi, quando i loro subordinati, intermediari, testimoni, attori perfino nel dramma, promettevano loro la maggioranza se non l’unanimità? E sorridevano dei nostri timori, lasciavano tranquillamente il tribunale in preda alla collusione, alle false testimonianze, alle manovre flagranti di pressione e d’intimidazione; spingevano la loro cieca fiducia fino a compromettere Lei, signor presidente, omettendo di avvisarla, perché voglio credere che il minimo dubbio Le avrebbe impedito di prendere, nel suo discorso di Rambouillet, l’impegno di inchinarsi di fronte alla sentenza, quale essa fosse. Governare significa forse non prevedere? Ecco un governo nominato per assicurare il buon funzionamento della giustizia e per vegliare sull’onesta esecuzione di una sentenza della Corte di Cassazione. Esso non ignora quale pericolo corra quella sentenza in mani fanatiche che ogni sorta di malvagità hanno reso poco scrupolose. E non fa niente, si compiace nel suo ottimismo, lascia che il crimine si compia alla luce del sole! Posso convenire che quei ministri volessero allora la giustizia: ma Le chiedo, che cosa avrebbero fatto qualora non l’avessero voluta? Poi esplode la condanna, una mostruosità fino ad allora inaudita di un innocente condannato due volte. A Rennes, in seguito all’inchiesta della Corte cli Cassazione, l’innocenza era evidente, non poteva lasciare adito a dubbi di sorta. Invece arriva il fulmine e l’orrore passa sulla Francia e su tutti i popoli. Come reagirà il governo, tradito, ingannato, provocato, il cui incomprensibile abbandono è sfociato in un simile disastro? Voglio ancora ammettere che il colpo che si è ripercosso così dolorosamente nell’animo di tutti i giusti abbia turbato anche i suoi ministri che avevano l’incarico di assicurare il trionfo del diritto. Ma cosa vorranno fare, quali saranno le loro decisioni all’indomani del crollo di tutte le loro certezze, una volta constatato che, lungi dall’essere stati artefici di verità e di giustizia, hanno causato con la loro inettitudine e la loro leggerezza uno sfacelo morale dal quale la Francia impiegherà molto tempo a riaversi? Ed è qui, signor presidente, che ha inizio l’errore del Suo governo e Suo personale, errore che ci ha separati da tutti voi, per una divergenza d’opinioni e di sentimenti che non ha mai cessato d’ingrandirsi. Esitare per noi era impossibile, non c’era che un mezzo per liberare la Francia dal male che la divorava, se la si voleva guarire per ridarle realmente la pace: infatti non c’è pacificazione se non nella tranquillità della coscienza, né ci sarà salvezza per noi finché sentiremo in noi il veleno dell’ingiustizia commessa. Bisognava trovare il modo di convocare nuovamente e immediatamente la Corte di Cassazione; e non mi si dica che era impossibile, il governo disponeva degli elementi necessari, anche al di fuori dell’abuso di potere. Bisognava liquidare tutti i processi in corso, lasciare che la giustizia compisse il suo corso senza che un solo colpevole le potesse sfuggire. Bisognava ripulire l’ulcera a fondo, dare al nostro popolo un’alta lezione di verità e di giustizia, restituire alla Francia il suo primato morale dinanzi al mondo. Soltanto allora si sarebbe potuto dire che la Francia era guarita e pacificata. È stato in quel momento che il suo governo ha preso l’altro partito, e cioè la risoluzione d’insabbiare una volta di più la verità, di sotterrarla, pensando che ciò fosse sufficiente perché non esistesse più. Nello sgomento in cui l’aveva gettato la seconda condanna dell’innocente, non ha saputo escogitare che il doppio provvedimento: prima la grazia dell’innocente e poi, per ottenere il silenzio, il bavaglio dell’amnistia. Le due misure sono collegate e si completano, sono la rabberciatura di un governo allo stremo che è venuto meno alla sua missione e che, per togliersi d’impaccio, non trova di meglio che rifugiarsi nella ragion di Stato. II Suo governo ha voluto coprirla, signor presidente, dal momento che aveva avuto il torto di lasciarla impegnare. Ha voluto salvarsi a sua volta, credendo forse di appigliarsi alla sola azione in grado di salvare la Repubblica minacciata. Il grande errore è stato perciò commesso quel giorno, nel momento in cui si presentava l’ultima occasione per agire e restituire alla patria la sua dignità e la sua forza. So bene che in seguito, nel corso dei mesi che si sono succeduti, la salvezza è diventata sempre più difficile. Il governo sì è lasciato schiacciare in una situazione senza uscita e quando davanti alle Camere ha affermato che non avrebbe potuto più governare qualora gli avessero rifiutato l’amnistia aveva senza dubbio ragione. Ma non è stato il governo che, disarmando la giustizia quando essa era ancora possibile, ha reso necessaria l’amnistia? Scelto per salvare tutto, ha lasciato che tutto crollasse nella peggiore delle catastrofi. E quando è intervenuto per trovare l’estrema riparazione, non ha saputo immaginare di meglio che terminare come i governi Méline e Dupuy avevano cominciato: l’insabbiamento della verità e l’assassinio della giustizia. Non è una vergogna della Francia che nessuno dei suoi uomini politici si sia sentito sufficientemente forte, intelligente e coraggioso per prendere in mano la situazione, per gridarle la verità e per essere da essa seguito? Per tre anni abbiamo visto gli uomini che si sono succeduti al potere prima vacillare e poi sprofondare nello stesso errore. E non parlo né di Méline, l’uomo nefasto che ha voluto il crimine, né di Dupuy, l’uomo ambiguo, asservito in partenza al partito dei più forti. Ma parlo di Brisson, che ha avuto il coraggio di chiedere la revisione; non è doloroso l’errore irrimediabile in cui è caduto permettendo l’arresto del colonnello Picquart all’indomani della scoperta del falso Henry? Parlo di Waldeck– Rousseau, i cui coraggiosi discorsi contro la legge di incompetenza a procedere avevano avuto così nobilitazioni le risonanza in tutte le coscienze. Non è disastroso che si sia sentito in obbligo di legare il suo nome a questa amnistia che, con brutalità anche maggiore, dichiara incompetente la giustizia? Ci chiediamo se un nemico al governo non ci sarebbe stato più utile, visto che gli amici della verità e della giustizia, quando sono al potere, non sanno trovare altri mezzi per salvare se stessi e il Paese che quello di ricorrere a loro volta alla menzogna e all’iniquità. Signor presidente, se la legge d’amnistia è stata votata dalle Camere con la morte nel cuore, è chiaro che lo scopo è di assicurare al Paese la salvezza. Nel vicolo cieco in cui si è cacciato, il suo governo ha dovuto scegliere il terreno della difesa repubblicana, di cui ha sentito la solidità. L’affaire Dreyfus ha per l’appunto indicato i pericoli che la Repubblica correva, a causa del doppio complotto del clericalismo e del militarismo che agivano in nome delle forze reazionarie del passato. E da quel momento il piano politico del governo è semplice: sbarazzarsi dell’affaire Dreyfus insabbiandolo, lasciar in tendere alla maggioranza che, se non obbedirà docilmente, non avrà le riforme promesse. Tutto ciò andrebbe bene se per salvare il Paese dal veleno clericale e militarista non lo si lasciasse immerso in un altro veleno, quello della menzogna e dell’iniquità in cui lo vediamo agonizzare da tre anni. Senza dubbio l’affaire Dreyfus è un terreno politico detestabile. O quanto meno lo è diventato a causa dell’abbandono nel quale è stato lasciato il popolo, in mano ai peggiori banditi e nel putridume della stampa ignobile. E concedo ancora una volta che nell’ attuale momento l’azione sia difficile, se non impossibile. Ma nondimeno l’idea che si possa salvare un popolo dal male che lo consuma, decretando che quel male non esiste più, è una concezione miope. L’amnistia è fatta, i processi non si faranno più e non sarà più possibile perseguire i colpevoli: ma ciò non toglie che Dreyfus, innocente, sia stato condannato due volte, e che questa orrenda ingiustizia finché non sarà riparata continuerà a far delirare la Francia in preda a incubi orribili. Voi avete ben sotterrato la verità, ma essa cammina sotto terra e un giorno riaffiorerà ovunque, esplodendo in ve- vendicatrici. E la cosa peggiore è che voi contribuite alla demoralizzazione degli umili, oscurando in loro il sentimento dì giustizia. Dal momento che non ci sono puniti, non ci sono neppure colpevoli. Come vuole che gli umili sappiano se sono in preda alle menzogne corruttrici di cui sono stati alimentati? Occorrerebbe una lezione per il popolo, mentre al contrario gli ottenebrate la coscienza e finite per il pervertirla del tutto. Il nodo è tutto qui: il governo afferma di tendere alla pacificazione con la legge d’amnistia, e noi al contrario sosteniamo che esso corre il rischio di preparare nuove catastrofi. Torno ancora una volta a ripetere che non c’è pace nell’ingiustizia. La politica vive alla giornata, crede all’eternità solo perché ha guadagnato sei mesi di silenzio. È possibile che il governo goda di un po’ di tregua, e ammetto perfino che la impiegherà utilmente. Ma la verità si risveglierà, griderà, scatenerà delle tempeste. Da dove verranno? Lo ignoro, ma verranno. E da quanta impotenza saranno colpiti gli uomini che non hanno voluto agire, con quale peso li schiaccerà questa amnistia scellerata in cui hanno gettato alla rinfusa persone oneste e delinquenti! Quando il Paese saprà, quando il Paese sollevatosi vorrà rendere giustizia, la sua collera non comincerà col cadere su coloro che non l’hanno illuminato quando potevano farlo? Il mio caro e grande amico Labori l’ha dello con la sua meravigliosa eloquenza: la legge d’amnistia è una legge dettata dalla debolezza e dalla impotenza. La viltà dei governi che si sono succeduti si è accumulata e questa legge nasce da tutti i cedimenti degli uomini che, messi di fronte a u n’ingiustizia insopportabile, non hanno avuto la forza di impedirla né di porvi rimedio. Di fronte alla necessità di dover colpire in alto, tutti si sono piegati e hanno indietreggiato. All’ultimo momento, dopo tanti crimini, non è né l’oblio né il perdono che ci viene porto, ma la paura, la debolezza, l’impotenza in cui si sono trovati i ministri a far semplicemente applicare le leggi esistenti. Dicono di volerci pacificare con concessioni reciproche: non è vero, la verità è che nessuno ha avuto il coraggio di usare la scure con la vecchia società corrotta, e per nascondere questa codardia parlano di clemenza, assolvendo Esterhazy il traditore, e Picquart, l’eroe al quale l’avvenire innalzerà monumenti. Questa è un’infamia che sarà sicuramente punita poiché non ferisce soltanto la coscienza ma corrompe la moralità nazionale. È questa una buona educazione per una Repubblica? Quali lezioni donate alla nostra democrazia quando le insegnate che ci sono ore in cui la verità e la giustizia non esistono più se l’interesse dello Stato lo esige? È la ragion di Stato rimessa sul piedistallo da uomini liberi che l’hanno condannata nella Monarchia e nella Chiesa. Bisogna veramente che la politica sia una grande pervertitrice d’anime. E dire che molti dei nostri amici che fin dal primo giorno hanno validamente combattuto, aderendo alla legge d’amnistia come a una misura politica necessaria, oggi hanno ceduto al sofisma! Mi si spezza il cuore nel vedere l’onesto e coraggioso Rane prendere le difese di Picquart contro lo stesso Picquart, mostrandosi felice del fatto che l’amnistia, che gli impedirà di difendere il suo onore, lo salverà dall’odio certo di un Consiglio di Guerra. E Jaurès, il nobile e generoso Jaurès che si è prodigato così magnificamente, sacrificando il suo seggio di deputato in questi tempi di appetiti elettorali, anche lui accetta di vederci amnistiati, Picquart ed Esterhazy, Reinach e du Paty de Clam, me e il generale Mercier, tutti nello stesso sacco! La giustizia assoluta finisce dunque là dove comincia l’interesse di un partito? Ah, quale serenità essere un solitario, non appartenere a nessuna setta, dipendere soltanto dalla propria coscienza, e che agiatezza nel procedere dritti per il proprio cammino, non amare che la verità, e volerla perfino quando potrebbe scuotere la terra e far cadere il cielo!

Signor presidente, nei giorni della speranza dell’affaire Dreyfus, avevamo fatto un bel sogno. Non avevamo tra le mani un caso unico, un crimine nel quale erano coinvolte le forze più reazionarie che sono di ostacolo al libero progresso dell’umanità? Mai si era presentata un’esperienza più decisiva e mai sarebbe stata data al popolo una lezione più nobile. In pochi mesi avremmo illuminato la sua coscienza, avremmo fatto molto di più per istruirlo e maturarlo di quanto un secolo di lotte politiche non avesse fatto. Sarebbe bastato mostrargli l’operato di tutti i poteri deleteri, complici del più esecrabile dei crimini: l’annientamento di un innocente le cui inqualificabili torture strappavano all’umanità un grido di rivolta. Confidando nella forza della verità attendevamo il trionfo. Sarebbe stata l’apoteosi della giustizia: il popolo cosciente che si levava in massa acclamando Dreyfus al suo rientro in Francia; il Paese che ritrovava la sua consapevolezza e innalzava un altare all’equità, celebrando la festa del diritto glorioso e sovrano riconquistato. E tutto sarebbe finito con un bacio universale, con i cittadini pacificati e uniti dalla comunione della solidarietà umana. Ahimè, signor presidente, sa bene ciò che è avvenuto: l’ambigua vittoria la confusione per ogni piccola parte di verità conquistata, l’idea della giustizia a lungo oscurata nella coscienza dello sventurato popolo. Sembra che la nostra idea di vittoria fosse troppo immediata e grossolana. La vita non contempla trionfi strepitosi che sollevino una nazione, che in un giorno la consacrino forte e potente. Simili evoluzioni non si realizzano in un istante ma soltanto nello sforzo e nel dolore. La lotta non finisce mai, ogni passo in avanti avviene al costo di una sofferenza e soltanto i figli potranno constatare i successi raggiunti dai padri. E se nel mio ardente amore per il popolo francese non mi consolerò mai di non aver potuto trarre per la sua educazione civica la nobile lezione che l’affaire Dreyfus comportava, sono altresì da molto tempo rassegnato nel vedere la verità penetrarlo lentamente, fino al giorno in cui sarà maturo per il suo destino di libertà e di fraternità. Non abbiamo mai pensato ad altro che al popolo, ad un tratto l’affaire Dreyfus si è dilatato diventando un caso sociale e umano. L’innocente che soffriva all’isola del Diavolo era soltanto l’accidente, tutto il popolo soffriva con lui sotto il peso schiacciante di potenze malefiche, nell’impudente disprezzo della verità e della giustizia. Salvandolo, salvavamo tutti gli oppressi e gli umiliati. Ma soprattutto, ora che Dreyfus è libero e restituito all’amore dei suoi, chi sono i furfanti e gli imbecilli che ci accusano di voler riaprire l’affaire Dreyfus? Sono coloro che, nei loro loschi maneggi politici, hanno forzato il governo ad esigere l’amnistia continuando a corrompere il Paese con le menzogne. Che Dreyfus cerchi con tutti i mezzi legali di ottenere la revisione del giudizio di Rennes è certamente giusto, e noi il giorno in cui si presenterà l’occasione lo aiuteremo con tutte le nostre forze. Immagino che perfino la Corte di Cassazione sarà felice di avere l’ultima parola per l’onore della sua suprema magistratura. Si tratta solamente di questo, di una questione giudiziaria, nessuno di noi ha mai avuto la stupida idea di ravvivare quello che è stato l’affaire Dreyfus: e oggi l’unico desiderio auspicabile e possibile è quello di trarre da questo caso le conseguenze politiche e sociali, la messe di riforme di cui esso ha mostrato l’urgenza. Sarà la nostra difesa in risposta alle accuse abominevoli che ci vengono rivolte, e soprattutto sarà la nostra vittoria definitiva. Signor presidente, un’espressione mi irrita ogni volta che la sento pronunciare, è il luogo comune secondo il quale l’affaire Dreyfus ha fatto tanto male alla Francia. L’ho sentita pronunciare e scrivere da tutti, miei amici la ripetono correntemente, e forse l’avrò usata io stesso questa espressione assolutamente falsa. E non mi riferisco all’ammirevole spettacolo che la Francia ha offerto al mondo, questa lotta gigantesca per una questione di giustizia, questo conflitto di tutte le forze attive in nome di un ideale. Così come non parlo dei risultati già ottenuti: gli uffici del Ministero della Guerra ripuliti, tutti gli attori equivoci del dramma spazzati via: poiché la giustizia, malgrado tutto, ha fatto un po’ del suo dovere. Ma il bene immenso che l’affaire Dreyfus ha fatto alla Francia non è, in realtà, l’essere stato l’accidente putrido, la piaga che appare in superficie e che rivela il marciume interiore? Bisogna ritornare all’epoca in cui il pericolo clericale faceva alzare le spalle, in cui era di moda prendere in giro Homais, volterriano ritardato e ridicolo. Le forze reazionarie avevano continuato a strisciare sotto il selciato della nostra grande Parigi inando la Repubblica, contando già d’impadronirsi della città e della Francia il giorno in cui le attuali istituzioni sarebbero crollate. Ed ecco che l’affaire Dreyfus smaschera tutto prima che l’insabbiamento sia pronto, ecco che i repubblicani finiscono per accorgersi che rischiano di vedersi confiscare la loro Repubblica se non vi riportano l’ordine. Tutto il movimento di difesa repubblicano è nato da lì, e se la Francia si salverà dal lungo complotto della reazione lo dovrà all’affaire Dreyfus. Auspico che il governo porti a buon fine il dovere di difesa repubblicana che ha appena invocato per ottenere dalle Camere il voto sulla sua legge d’amnistia. E’ il solo mezzo di cui dispone per essere finalmente coraggioso ed efficace. Ma non rinneghi l’affaire Dreyfus, lo riconosca come il bene più grande che potesse capitare alla Francia, e dichiari con noi che senza l’affaire Dreyfus oggi la Francia sarebbe di sicuro nelle mani dei reazionari. Quanto alla mia questione personale, signor presidente, io non recrimino. Sono quarant’anni che faccio il mio lavoro di scrittore, senza inquietarmi né delle condanne né delle assoluzioni pronunciate sui miei libri, lascio all’avvenire la cura di formulare il giudizio definitivo. Un processo restato a metà non può dunque turbarmi eccessivamente. È un affaire in più che la storia giudicherà. E se rimpiango la desiderabile esplosione di verità che un nuovo processo avrebbe potuto far scaturire, mi consolo pensando che la verità troverà ugualmente una via per affermarsi. Eppure Le confesso che sarei stato molto curioso di sapere cosa una nuova giuria avrebbe pensato della mia prima condanna, emessa sotto la minaccia di generali armati della clava del terribile falso Henry. E questo non vuol dire affatto che io abbia una grande fiducia nella giuria, così facile da sviare e da terrorizzare in un processo puramente politico. Ciò nonostante, sarebbe stata una interessante lezione il dibattimento che si riapriva dopo che l’inchiesta della Corte di Cassazione aveva ottenuto la prova di tutte le accuse da me mosse. Se lo immagina? Un uomo condannato sulla base di un falso che ritorna davanti ai suoi giudici dopo che il falso è stato riconosciuto e confessato! Un uomo che aveva accusato altri in base a fatti di cui un’inchiesta della Corre Suprema ha ormai accertato l’assoluta verità! In quell’aula avrei vissuto delle ore gradevoli, perché un’assoluzione mi avrebbe fatto piacere; e, nel caso ci fosse stata un’altra condanna, la vile stupidità o la passione cieca hanno per me una bellezza particolare che mi ha sempre appassionato. Ma devo essere chiaro, signor presidente. Le scrivo unicamente per mettere fine a tutta questa vicenda, ed è bene che io ripeta davanti a Lei le accuse che avevo esposto al presidente Félix Faure, per stabilire definitivamente che esse erano giuste, moderate, perfino carenti, e che la legge del suo governo ha amnistiato in me un innocente. Ho accusato il tenente colonnello du Paty de Clam «di essere stato il diabolico artefice dell’errore giudiziario, voglio sperare inconsapevolmente, e di avere in seguito difeso la sua opera nefasta per tre anni attraverso le più assurde e colpevoli macchinazioni». Per chi abbia letto il rapporto del terribile capitano Cuignet, che al contrario si spinge fino all’accusa di falso, mi sembra un’espressione discreta e cortese, non è vero? Ho accusato il generale Mercier «di essersi reso complice, quanto meno per debolezza di carattere, di una delle più grandi ingiustizie del secolo». Su questo punto faccio onorevole ammenda e ritiro la debolezza di carattere. Ma, se il generale Mercier non ha l’attenuante di una debole intelligenza, allora negli atti a lui ascritti che l’inchiesta della Corte di Cassazione ha appurato e che il Codice qualifica come criminali la sua responsabilità è totale. Ho accusato il generale Billot «di avere le prove certe dell’innocenza di Dreyfus e di averle nascoste, di essersi reso colpevole del crimine di lesa umanità e di lesa giustizia a scopo politico e per salvare lo Stato Maggiore compromesso». Tutti i documenti ad oggi conosciuti provano che il generale Billot era per forza di cose al corrente delle manovre criminali dei suoi subordinati; inoltre aggiungo che dietro suo ordine il dossier segreto su mio padre è stato consegnato ad un giornale immondo. Ho accusato i generali de Boisdeffre e Gonse «di essersi resi complici dello stesso crimine, l’uno senza dubbio per passione clericale, l’altro forse per quello spirito di corpo che fa degli uffici della Guerra l’arca santa inattaccabile». Il generale de Boisdeffre si è giudicato da sé all’indomani della scoperta del falso Henry, offrendo le sue dimissioni e uscendo dalla scena pubblica. Uscita tragica di un uomo che precipita nel nulla dopo essere stato elevato ai più alti gradi e alle più alte funzioni: quanto poi al generale Gonse, fa parte di coloro che l’amnistia salva dalle più pesanti e acclarate responsabilità. Ho accusato il generale de Pellieux e il comandante Ravary «di aver condotto un’inchiesta scellerata, intendo dire un ‘ inchiesta mostruosamente parziale, di cui abbiamo, nel rapporto del secondo, un imperituro monumento di ingenua audacia». Che si rilegga l’inchiesta della Corte di Cassazione e si vedrà che la collusione è accertata e provata dai documenti e dalle testimonianze più schiaccianti. L’istruzione dell’affaire Esterhazy non fu che un’arrogante commedia giudiziaria. Ho accusato i tre esperti calligrafi, Belhomme, Varinard e Couard, «di aver fatto dei rapporti falsi e fraudolenti, a meno che un esame medico non li dichiari affetti da una malattia della vista e della mente». Dichiaravo ciò di fronte alla straordinaria affermazione dei tre esperti, i quali asserivano che il borderea non era stato scritto da Esterhazy; errore che, a mio parere, un bambino di dieci anni non avrebbe commesso. Oggi sappiamo che lo stesso Esterhazy riconosce di aver compilato il bordereau. E il presidente Ballot Beaupré nel suo rapporto ha dichiarato solennemente che a suo parere, non c’era nessuna possibilità di dubbio. Ho accusato gli uffici del Ministero della Guerra «di aver condotto una campagna stampa, in particolare su “L’Éclair” e “L’Echo d Paris”, una campagna sporca, per sviare l’opinione pubblica e coprire la loro colpa». Non insisto; penso che la prova stia in tutto ciò che è emerso in seguito e in quello che gli stessi colpevoli hanno dovuto confessare. Infine, ho accusato il primo Consiglio di Guerra «di avere violato la legge, condannando un presunto colpevole sulla base di un documento rimasto segreto», e il secondo «di avere coperto questa illegalità, per ordine dell’autorità, commettendo a sua volta il crimine giuridico di assolvere coscientemente il vero colpevole». Per il primo Consiglio di Guerra, il fatto d’avere prodotto un documento segreto è stato nettamente stabilito dall’inchiesta della Corte di Cassazione, peraltro confermata anche al processo di Rennes. Per il secondo è sempre l’inchiesta ad aver provato la collusione e il continuo intervento del generale de Pellieux, nonché l’evidente pressione con cui è stata ottenuta l’assoluzione in ossequio al desiderio dei superiori. Come vede, signor presidente, non c’è una delle mie accuse che le colpe e i crimini scoperti non abbiano confermato, e ripeto che queste accuse oggi appaiono assai tenui e modeste di fronte all’agghiacciante cumulo delle infamie commesse. Confesso che non avrei mai osato supporne una tale quantità. Allora, le chiedo, qual è il tribunale onesto, o semplicemente ragionevole, che si coprirebbe di vergogna condannandomi ancora, ora che la prova di tutte le mie accuse è così chiara ed evidente? E non sembra anche a Lei, che la legge del Suo governo che concede l’amnistia a me, innocente, insieme al branco di colpevoli che ho denunciato, sia veramente una legge scellerata?

È dunque finita, signor presidente, almeno per il momento, per questo primo periodo dell’affaire che l’amnistia ha chiuso forzatamente. Come risarcimento ci promettono la giustizia della Storia. È un po’ come il paradiso cattolico, che serve a far pazientare le vittime miserabili strangolate dalla fame su questa terra. Soffrite, amici miei, mangiate il vostro pane secco, dormite per terra, intanto che i felici di questo mondo dormono tra le piume e si cibano di prelibatezze. Allo stesso modo, lasciate che gli scellerati occupino le posizioni più alte, mentre voi, i giusti, venite spinti nel fango. E aggiungono che, quando saremo tutti morti, ci erigeranno delle statue. Da parte mia, voglio, e perfino spero, che la rivincita della Storia sia più seria delle delizie del paradiso. Comunque sia, un po’ di giustizia su questa terra mi avrebbe fatto piacere. Io non mi lamento del nostro destino perché sono convinto che siamo quasi in porto, come si suol dire. La menzogna non può durare all’infinito, mentre la verità, che è una sola, ha dalla sua parte l’eternità. Così, signor presidente, il suo governo dichiara che riporterà la pace con la legge d’amnistia, e noi dal canto nostro crediamo che prepari al contrario nuove catastrofi. Un po’ di pazienza e si vedrà chi ha ragione. Secondo me, non smetterò di ripeterlo, l’affaire Dreyfus non può finire finché la Francia non saprà e non riparerà l’ingiustizia commessa. Ho detto che il quarto atto era stato era stato recitato a Rennes, e che per forza di cose ci sarebbe stato un quinto atto. Me ne resta nel cuore l’angoscia, ci si dimentica sempre che l’Imperatore tedesco ha la verità tra le mani e che può sbattercela in faccia a suo piacimento quando lo vorrà. Sarà un quinto atto agghiacciante, che io ho sempre temuto e di cui un governo francese non dovrebbe accettarne la spaventosa eventualità neppure per un istante. Ci hanno promesso la Storia e anch’io rimando Lei al suo giudizio. Le riserverà una pagina dicendoci quello che Lei avrà fatto. Pensi a quel povero Félix Faure, a quel conciatore di pelli deificato così popolare al suo apparire, che aveva commosso perfino me con la sua bonomia democratica: per l’avvenire sarà soltanto l’uomo ingiusto e debole che ha permesso il martirio di un innocente. E veda se non le piacerebbe molto di più essere ricordato sul marmo come l’uomo della verità e della giustizia. Forse è ancora in tempo. Quanto a me, non sono che un poeta, un narratore solitario che scrive appartato la sua opera mettendoci tutto se stesso. Ritengo che un buon cittadino debba accontentarsi di offrire al suo Paese il lavoro che riesce ad assolvere nel modo meno maldestro; ed è per questo che mi chiuso nei miei libri. Ritorno dunque semplicemente ad essi, poiché la missione che mi ero assegnato è compiuta. Ho fatto la mia parte fino in fondo, quanto più onestamente mi è stato possibile, e rientro definitivamente nel silenzio. Devo però aggiungere che le mie orecchie e i miei occhi rimarranno bene aperti. Sono un po’ come suor Anna, mi preoccupo giorno e notte di quel che si profila all’orizzonte, confesso perfino di nutrire la tenace speranza di poter vedere presto tanta verità e giustizia avanzare verso di noi dai campi lontani dove l’avvenire. Voglia gradire, signor presidente, l’assicurazione del mio profondo rispetto.

Perché Zola condanna gli atti di clemenza. L'articolo summa dell'affaire Dreyfus di Vincenzo Vitale del 29 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Il 14 dicembre del 1900 il Parlamento approva una apposita legge di amnistia per tutti i reati comunque collegati o collegabili al caso Dreyfus. Il 22 dello stesso mese Zola tuona ancora una volta con questo articolo che, da un certo punto vista, rappresenta una sorta di summa della sua posizione pubblica. Da questo scritto, molto articolato, è possibile estrapolare alcuni punti che meritano adeguata riflessione. Innanzitutto, Zola bolla l’amnistia come semplice ma terribile manifestazione della volontà di insabbiare il caso Dreyfus. E dunque, proprio gli organi rappresentativi del popolo francese, il parlamento e il governo, proprio loro che avrebbero dovuto trarre un importante insegnamento, hanno invece preferito chiudere entrambi gli occhi, insabbiando tutto nel dimenticatoio. Insomma, quasi peggio della Grazia già elargita a Dreyfus. In questo modo, non solo si condanna ulteriormente Dreyfus – in quanto l’amnistia presuppone che il reato sia stato commesso e lo sia stato proprio da quegli imputati – ma si deturpa la giustizia, umiliandola ancora una volta e gravemente. Si persiste nello scempio del diritto e delle istituzioni repubblicane, come nulla fosse accaduto. Questa amnistia infatti serve soltanto a coprire, senza peraltro riuscirvi, ciò che Zola definisce il “crimine assoluto”, la condanna, reiterata, di un innocente. E dopo la seconda incomprensibile e grottesca condanna di Rennes, invece di ricorrere in Cassazione – come si poteva e doveva – si preferì elargire prima la Grazia a Dreyfus e poi l’amnistia a tutti coloro che sia pure indirettamente con il caso avevano avuto qualcosa a che fare. La polvere sotto il tappeto. In secondo luogo, Zola stigmatizza quanto sia illusorio ritenere che l’amnistia possa godere di una efficacia pacificatrice delle contese asperrime nate dal caso Dreyfus. Al contrario, essa non fa che perpetuare il disordine sociale nato da quella vicenda, senza in realtà pacificare nessuno. Anzi. Dal momento che l’amnistia è dettata dal senso di impotenza e di debolezza, mai potrà condurre alla pace. Solo la giustizia feconda la pace. Non basta. Zola polemizza intensamente con chi non perde occasione per denunciare che la vicenda Dreyfus ha fatto molto male alla Francia, mettendone in luce mancanze e contraddizioni. Ragion per cui sarebbe stato meglio che esso non fosse mai accaduto. Al contrario, Zola è fermamente convinto che la vicenda di Dreyfus, per quanto dolorosa e dotata di una grande capacità divisiva, rappresenti per la Francia una sorta di benefica crisi di crescita e di affermazione repubblicana. Zola sa bene insomma che prima che il caso deflagrasse con tutta la sua forza dirompente, sotterraneamente agivano in Francia, da decenni, le forze del militarismo, dell’antisemitismo, del nazionalismo; ma ciò accadeva in modo pressoché silente e perciò molto pericoloso per le istituzioni repubblicane, ancora giovani e fragili. L’esplosione del caso Dreyfus, invece, ha necessitato di portare alla luce la posizione di tutti coloro che intendevano fare di quelle ideologie una miscela venefica, capace di minare dall’interno la libertà e la forza del popolo francese. Ed è noto, grazie alle osservazioni già in precedenza fatte, che una volta che i meccanismi persecutori vengano portati alla luce, essi si depotenziano, lasciandosi valutare per quello che in effetti sono: persecuzione e non processo di diritto; ideologia e non verità; guerra sociale e non pace. Paradossalmente, nonostante il suo enorme carico di dolori e di sofferenze, il caso Dreyfus è allora servito – secondo Zola – a purificare la Francia, a rendere noto a tutti che militarismo, nazionalismo e antisemitismo non rappresentano che un ritorno al passato; un passato di cui la Francia non sente il bisogno. Questo passato non va rivissuto, neppure nel ricordo. Questo passato va seppellito definitivamente. Ne va delle sorti della Francia, per Zola. Della stessa Europa, per noi.

Affaire Dreyfus, un caso mai chiuso. Ma oggi esiste un nuovo Zola? Scrive Vincenzo Vitale l'1 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Si pubblicano oggi le lettere che Dreyfus scrisse dal carcere, alcune subito dopo il suo arresto, quando ancora nessuno poteva lontanamente immaginare quali sviluppi avrebbe fatto registrare il caso, altre dopo la inaspettata condanna. Ne emerge un essere umano serio, consapevole della propria innocenza, composto e psicologicamente molto forte. E tuttavia sempre pieno di speranza che le proprie ragioni sarebbero state prima o poi riconosciute. Speranza riposta invano se soltanto fondata sui giudici e sui militari. La vera speranza andava riposta invece in alcune dimensioni irrinunciabili di ogni democrazia: la libera stampa, la libertà dell’intellettuale, la libertà del giudizio. Non sarà mai abbastanza sottolineata l’importanza capitale che una stampa libera da influenze e condizionamenti è in grado di evidenziare allo scopo di salvaguardare l’assetto di una democrazia. Non sono tanto idealista da non ammettere che ogni giornale e ogni giornalista possano o perfino debbano avere una propria idea di politica e di società e che, attraverso questa idea, vedranno necessariamente il mondo e ne forniranno una interpretazione. Il problema non è questo, posto che anche i giornalisti sono esseri umani pensanti, dotati di una precisa sensibilità, come tutti gli altri. Il punto è che essi devono essere lasciati liberi di formarsi una loro idea sui fatti che cadono sotto la loro osservazione e di scriverne come ritengono, interessando quella parte di opinione pubblica che ritenga sensate le loro prospettive. Questo fece l’Aurore di Parigi, dopo che Le Figaro si era attestato su più prudenti posizioni filogovernative e perciò antidreyfusarde. Ed ebbe la piena libertà di farlo. Oggi, in Italia, dopo oltre un secolo dall’Affaire, la stampa gode della medesima libertà? Non sarei così sicuro nel dare una risposta affermativa. Troppe volte accade che un ministro rimbrotti un giornalista, reo di aver pubblicato una informazione sgradita; che il potente di turno cerchi di emarginare una testata scomoda; che il Consiglio Superiore della Magistratura si metta a strillare sol perché si metta in dubbio, con adeguate motivazioni, la bontà di una qualche iniziativa di un pubblico ministero. In tutti questi casi, non mi risulta che la libertà di stampa sia stata efficacemente difesa da alcun ente o da alcuna istituzione. Semplicemente, si preferisce far finta di nulla, lasciando che le cose vadano come devono andare: ma chi ragiona in tal modo – un vero condensato di sciatteria del pensiero – non sa che gioca col fuoco. Da un secondo punto di vista, fondamentale è la libertà dell’intellettuale, cioè di colui che sia capace di svolgere una funzione di severa critica del potere, di qualunque potere: economico, politico, finanziario, criminale, mafioso e antimafioso, giudiziario, editoriale, comunicativo …. Qui, il ruolo è svolto da Zola, il quale sa bene di andare incontro allo spostamento mimetico – già segnalato – e che ne farà a sua volta un capro espiatorio. E tuttavia, egli va ugualmente avanti, perché ne va non solo del destino di Dreyfus e della Francia – come da lui più volte ricordato – ma perfino della sua propria identità. E se ne ebbe mali di ogni genere. Non solo fu condannato per diffamazione e dovette riparare a Londra; ma fu anche personalmente calunniato in quanto di origine italiana; e lo fu anche nella persona del padre, peraltro deceduto da tempo, in difesa della onorabilità del quale si impegnò a scrivere diversi articoli. E resta il giallo della sua morte. Una morte strana e su cui mai fu dissipata una qualche incertezza, per avvelenamento di una stufa accanto alla quale si era assopito. Ci sono oggi in Italia intellettuali come Zola? Non ne conosco. Latitano. E perciò non ci sono. Occorre infine che sia garantita ai giudici la necessaria libertà di giudizio, esente da pressioni di ogni genere e dall’insano desiderio di coprire gli errori altrui, commettendone di nuovi e perciò di più gravi. Oggi i giudici italiani sono garantiti nella loro libertà di giudizio? Non molto, a dire il vero. Anche perché militano in senso contrario la vicinanza politica di molte forze e soprattutto la divisione in correnti, il vero cancro della magistratura italiana. Sicché, sembra risuoni ancora il monito espresso da Salvatore Satta molti decenni fa, allorché notava (nei “Quaderni del diritto e della procedura civile”) che i giudici italiani devono guardarsi, per tutelare la loro indipendenza, proprio da quell’organo che dovrebbe tutelarla e che invece sottilmente la insidia: il Consiglio Superiore della Magistratura. Ogni popolo ha il suo Dreyfus, questa in fondo la lezione della storia. E non si creda che l’affaire sia alla fine stato pacificato nella coscienza pubblica dei francesi. Infatti, nel 1994 – appena oltre un ventennio fa – l’allora sindaco di Parigi Chirac aveva commissionato un busto bronzeo di Dreyfus – in occasione del centenario del caso – per collocarlo presso l’Ecoile Militaire. Ma i militari si opposero con fermezza, dirottando la statua ai giardini delle Tuileries. Il caso Dreyfus, per i francesi, non è ancora chiuso. E per noi?

Mia amata Lucie, urleremo la mia innocenza fino alla fine. Pubblichiamo le lettere che Alfred Dreyfus scrisse dal carcere alla moglie, scrive "Il Dubbio" l'1 Settembre 2018

DICEMBRE 1894. Mia amatissima, La tua lettera che attendevo con impazienza mi ha provocato un grande sollievo e al contempo il tuo pensiero mi ha fatto salire le lacrime agli occhi, mia amatissima. Non sono perfetto. Quale uomo può vantarsi di esserlo? Ma quello che posso garantire è che ho sempre seguito la via del dovere e dell’onore; non sono mai sceso a compromessi al riguardo con la mia coscienza. Per di più, nella mia grande sofferenza, nel più spaventoso martirio immaginabile, in questa lotta terribile sono sempre stato sostenuto dalla mia coscienza che vegliava retta e inflessibile. La mia riservatezza un po’ altezzosa, la libertà con cui dicevo la mia ed esprimevo il mio giudizio, il mio essere un po’ indulgente, tutto ciò gioca ora a mio sfavore. Non sono né flessibile, né abile, né adulatore. Noi non abbiamo mai voluto fare visite di cortesia; restavamo appartati a casa nostra, accontentandoci di essere felici. E oggi mi si accusa del crimine più mostruoso che un soldato possa commettere! Ah! Se potessi mettere le mani sul miserabile che non solamente ha tradito il suo paese, ma ha anche tentato di far ricadere la sua infamia su di me, non so quale supplizio inventerei per fargli espiare quello che mi ha fatto passare. Bisogna pertanto sperare che il colpevole venga trovato. Altrimenti, se ciò non avvenisse, bisognerebbe disperare della giustizia a questo mondo. Concentrate su questa ricerca tutti i vostri sforzi, tutto il vostro ingegno, tutta il mio patrimonio, se necessario. I soldi non sono niente, l’onore è tutto. Dì a M. che conto su di lui per questo compito. Non è al di sopra delle sue forze. Debba smuovere cielo e terra, bisogna ritrovare quel miserabile. Ti bacio mille volte quanto ti amo. Tuo devoto, ALFRED

Mathieu Dreyfus, son frère aîné. Mille baci ai bambini. Il mio affetto a tutti i nostri familiari e i miei ringraziamenti per la loro devozione alla causa di un innocente.

LUNEDÌ, 11 DICEMBRE 1894. Mia amatissima, Ho ricevuto la tua lettera di ieri, così come quella di tua sorella e di Henri. Speriamo che ben presto mi sia fatta giustizia e che possa ritrovarmi con voi. Con te e i nostri cari bambini, con voi tutti, ritroverò la calma di cui ho tanto bisogno. Il mio cuore è profondamente ferito e tu puoi facilmente comprenderlo. Aver consacrato tutta la propria vita, tutte le proprie forze, tutta la propria intelligenza al servizio del proprio paese, e vedersi accusato del crimine più mostruoso che un soldato possa commettere, è spaventoso. Al solo pensiero, tutto il mio essere si rivolta e freme d’indignazione. Mi domando ancora per quale miracolo non sia diventato folle, come la mia mente abbia potuto resistere ad uno choc così Te ne supplico, mia amata, non assistere ai dibattiti. È inutile che tu t’imponga ulteriori sofferenze, quelle che hai già sopportato, con una grandezza d’animo ed un eroismo di cui sono fiero, sono più che sufficienti. Serba la tua salute per i nostri bambini; avremo anche entrambi bisogno di prenderci cura l’un dell’altro per scordare questa terribile prova, la più terribile che le forze umane possano sopportare. Abbraccia forte i nostri amati bambini per me, fintanto che non possa farlo io stesso. Vi penso tutti affettuosamente. Ti bacio quanto ti amo. Tuo devoto, ALFRED

MARTEDÌ, 12 DICEMBRE 1894. Mia amata Lucie, Puoi farmi da portavoce presso tutti i membri delle nostre due famiglie, presso tutti quelli che si interessano di me, per dire loro quanto io sia stato toccato dalle loro lettere e dalle loro testimonianze di supporto. Io non posso rispondere loro perché cosa potrei mai raccontare? Le mie sofferenze? Possono comprenderle da soli, e io non amo lamentarmi. D’altronde la mia mente è a pezzi e le idee sono alle volte confuse. Solo il mio spirito resta vigoroso come il primo giorno, davanti all’accusa spaventosa e mostruosa che mi è stata gettata in faccia. Al pensiero tutto il mio essere si rivolta ancora. Ma la verità finisce sempre per venire alla luce, a dispetto di tutto. Non siamo più in un secolo dove la luce può essere offuscata. Bisognerà che la si renda totale ed assoluta, bisognerà che la mia voce sia sentita in tutta la nostra cara Francia, come è stato per la mia accusa. Non devo solamente difendere il mio onore ma anche l’onore di tutto il corpo degli ufficiali di cui faccio parte e di cui sono degno. Ho ricevuto i vestiti che mi hai inviato. Se ne hai l’occasione, potresti inviarmi la mantellina, la pelliccia è inutile. E’ nell’armadio nell’anticamera. Abbraccia i nostri cari per me. Ho pianto sulla bella lettera del nostro caro Pierrot; non vedo l’ora di poterlo abbracciare, così come tutti voi. Mille baci per te. Tuo devoto ALFRED

GIOVEDÌ, 14 DICEMBRE 1894. Mia amata Lucie, Ho ricevuto la tua bella lettera così come delle nuove lettere dalla famiglia. Ringrazia molto tutti da parte mia; tutte queste testimonianze di affetto e di stima mi toccano più di quanto non sappia dire. Aver dovuto ascoltare tutto quello che mi è stato detto, quando nella mia anima e nella mia coscienza so di non essere mai venuto meno al mio dovere, di non aver mai commesso nemmeno la più leggera imprudenza, è la più spaventosa delle torture morali. Dunque cercherò di vivere per te, ma ho bisogno del tuo aiuto. Qualunque cosa avvenga di me, bisogna assolutamente cercare la verità, smuovere cielo e terra per scoprirla, se necessario dilapidare nell’impresa tutti i nostri soldi, al fine di riabilitare il mio nome gettato nel fango. Bisogna lavare questa macchia immeritata a qualunque costo. Non ho il coraggio di scriverti più a lungo. Abbraccia da parte mia i tuoi cari genitori, i bambini, tutti quanti. Mille e mille baci, ALFRED

Cerca di ottenere il permesso di vedermi. Penso che non possano rifiutartelo oramai.

LUNEDÌ, 24 DICEMBRE 1894. Mia amata, Scrivo di nuovo a te, dato che sei il solo filo che mi lega alla vita. So bene che tutta la mia famiglia, che tutta la tua, mi amano e mi stimano; ma infine, qualora scomparissi, il loro dispiacere, per quanto grande, finirebbe per scomparire con gli anni. È solamente per te, mia povera cara, che ho la forza di lottare; è il tuo pensiero che mi blocca la mano. Quanto sento, in questo momento, il mio amore per te; non è mai stato così grande, così esclusivo. E poi, una fievole speranza mi sostiene ancora un po’: quella di poter un giorno riabilitare il mio nome. Ma soprattutto, credimi, se avrò davvero la forza di lottare fino alla fine contro questo calvario, sarà unicamente per te, mia povera cara, sarà per evitarti un ulteriore dispiacere da aggiungere a tutti quelli che hai sopportato fino adora. Fai tutto quello che è umanamente possibile per riuscire a vedermi. Ti bacio mille volte quanto ti amo, ALFRED

24 DICEMBRE 1894 (NOTTE TRA LUNEDÌ E MARTEDÌ). Mia cara adorata. Ho appena ricevuto la tua lettera; spero che tu abbia ricevuto le mie. Povera cara, come devi soffrire, come ti compiango! Ho pianto molte lacrime sulla tua lettera, non posso accettare il tuo sacrificio. Devi restare lì, devi vivere per i bambini. Pensa a loro prima di pensare a me; sono dei poveri piccoli che hanno assolutamente bisogno di te. I miei pensieri mi riconducono sempre verso di te. L’avvocato Demange, che è appena venuto, mi ha detto quanto tu sia stata ammirevole; mi ha fatto un tuo elogio al quale il mio cuore faceva eco. Sì, mia amata, sei impareggiabile in quanto a coraggio e devozione; vali più di me. Ti amavo già con tutto il mio cuore e tutta la mia anima; oggi faccio di più, ti ammiro. Tu sei certamente una delle donne più nobili su questa terra. La mia ammirazione per te è tale che, se riuscirò a bere l’amaro calice fino alla fine, sarà per essere degno del tuo eroismo. Ma sarà davvero terribile subire quest’umiliazione vergognosa; preferirei trovarmi di fronte ad un plotone d’esecuzione. Non temo la morte; non voglio il disprezzo. Qualunque cosa avvenga, ti prego di raccomandare a tutti di alzare la testa come io stesso faccio, di guardare il mondo in faccia senza vacillare. Non abbassate mai il viso e proclamate la mia innocenza ad alta voce. Ora, mia amata, lascerò di nuovo cadere la mia testa sul cuscino e penserò a te.Ti bacio e ti stringo al cuore. ALFRED

Abbraccia forte i piccoli per me. Potresti essere tanto buona da far depositare 200 franchi alla cancelleria della prigione?

25 DICEMBRE 1894. Mia amata, Non posso datare questa lettera perché non so neanche a quale giorno siamo. È Martedì? È mercoledì? Non lo so. Fa sempre notte. Appena il sonno abbandona le mie palpebre, mi alzo per scriverti. Alle volte mi sembra che tutto ciò non sia mai capitato, che non ti abbia mai lasciata. Durante le mie allucinazioni, tutto quello che ci è capitato mi sembra un brutto incubo; ma il risveglio è terribile. Non posso più credere a niente, se non che nel tuo amore, nell’affetto di tutti i nostri cari. Bisogna sempre cercare il vero colpevole; tutti i mezzi sono buoni. Il caso da solo non basta. Forse riuscirò a sormontare il terrore orribile che m’inspira la pena infamante che subirò. Essere un uomo d’onore e vedersi strappare, quando si è innocenti, il proprio onore, cosa c’è di più spaventoso? È il peggiore tra tutti i supplizi, peggiore anche della morte. Ah! Se arriverò fino alla fine, sarà per te, mia cara adorata, perché tu sei il solo filo che mi lega alla vita. Come ci amiamo! Oggi soprattutto mi rendo conto di tutto il posto che occupi nel mio cuore. Ma prima di tutto, prenditi cura di te, occupati della tua salute. È necessario, ad ogni costo, per i bambini, loro hanno bisogno di te. Infine, continuate le vostre ricerche a Parigi così come laggiù. Bisogna tentare di tutto, non tralasciare niente. Ci sono sicuramente delle persone che conoscono il nome del colpevole. Ti bacio, ALFREDO

17.00. Sono più calmo, la tua vista mi ha fatto bene. Il piacere di abbracciarti fisicamente e interamente mi ha fatto un bene immenso. Non potevo più attendere per questo momento. Grazie della gioia che mi hai donato. Quanto ti amo, mia amatissima! Infine speriamo che tutto ciò abbia termine. Bisogna che conservi tutte le mie energie. Ancora mille baci, mia amata, ALFRED

GIOVEDÌ, 11 DELLA SERA. Mia amata, Le notti sono lunghe; è verso di te che mi rivolgo, è dal tuo sguardo che attingo tutte le mie forze, è nel tuo amore profondo che trovo il coraggio di vivere. Non che la lotta mi faccia paura, ma la sorte è stata veramente troppo crudele con me. È possibile immaginare una situazione più spaventosa, più tragica per un innocente? È possibile immaginare un martirio più doloroso? Fortunatamente godo dell’affetto profondo di cui entrambe le nostre famiglie mi circondano e soprattutto del tuo amore, che mi ripaga di tutte le mie sofferenze. Perdonami se mi lamento delle volte; non credere affatto per questo motivo che la mia anima sia meno vigorosa, ma persino gridare mi fa del bene e a chi altro lo farei sentire se non che a te, moglie mia amata? Mille dolci baci per te e i piccoli, ALFRED

MERCOLEDÌ, ORE 5. Mia amata, Voglio ancora scriverti queste poche parole affinché tu possa trovarle domani mattina al tuo risveglio. La nostra conversazione, anche se attraverso le sbarre della prigione, mi ha fatto bene. Le mie gambe tremavano mentre scendevo, ma mi sono irrigidito per non cadere a terra dall’emozione. Persino ora la mia mano non è ancora ben ferma: il nostro incontro mi ha scosso violentemente. Se non ho insistito affinché tu restassi più a lungo, è perché ero al limite delle mie forze; avevo bisogno di andare a nascondermi per piangere un po’. Non credere per questo che la mia anima sia meno vigorosa o meno forte, ma il corpo è un po’indebolito da tre mesi di prigionia, senza aver respirato l’aria esterna. Per poter resistere a tutte queste torture è stato necessario che io avessi una robusta costituzione. Ciò che mi ha fatto maggiormente bene è stato di sentirti così coraggiosa e vigorosa, così piena d’amore per me. Continua in questo modo, moglie mia cara, imponiamo il rispetto al mondo con la nostra attitudine e il nostro coraggio. Quanto a me, avrai notato che ero deciso a tutto; voglio il mio onore e lo avrò, nessun ostacolo mi fermerà. Ringrazia molto tutti, ringrazia da parte mia l’avvocato Demange per tutto quello che ha fatto per un innocente. Riferiscigli tutta la gratitudine che provo per lui, io sono stato incapace di esprimergliela. Digli che conto su di lui in questa lotta per il mio onore. Abbraccia i piccoli per me. Mille baci, ALFRED

Il parlatorio è occupato domani Giovedì tra l’una e le quattro. Dovrai quindi venire o al mattino tra le dieci e le undici o la sera alle quattro. Ciò non avviene che di giovedì e di domenica.

L’ANTISEMITISMO ISLAMICO.

Benito Mussolini, in un libro l'amicizia tra il Duce e l'islam, scrive il 23 Aprile 2017 “Libero Quotidiano”. E' un tema poco esplorato, quello del rapporto tra Fascismo e nazismo da una parte e musulmani dall'altra. Ma negli ultimissimi tempi, due libri hanno fatto luce su questi rapporti, evidenziando come fossero forti e strutturali, in una chiave soprattutto anti-ebraica. "Bambini in fuga" di Mirella Serri racconta soprattutto del forte legame non solo ideologico tra Adolf Hitler e il Gran Muftì di Gerusalemme. In "Mussolini e i musulmani", invece, Giancarlo Mazzucca e Gianmarco Walch si concentrano sul fascino che islam e mondo arabo ebbero sul Duce. Un interesse che, scrivono i due autori, ebbe origine da un misto di ragioni di carattere personale e di politica estera. Nel primo caso si trattò di una affettuosa amicizia che Mussolini intrattenne con la giornalista Leda Rafanelli, detta l'odalisca, di fede musulmana, negli anni Dieci del Novecento. Nel secondo caso, negli anni Trenta, fu l'antisemitismo a spingere il capo del governo italiano e gli islamici dalla stessa parte della barricata. In quegli anni il Duce guardò con sempre maggiore attenzione ai paesi islamici, imponendo nel 1934 a Radio Bari di trasmettere programmi in lingua araba e curando i rapporti commerciali con quei Paesi, da cui, come scrive il quotidiano Il Messaggero, venne ricambiato con fervore: là nacquero infatti diversi movimenti come le Falangi Libanesi, le Camicie Verdi, il Partito Giovane Egitto e le Camicie Azzurre che seguivano il fascismo come esempio tramite il quale nazionalizzare le masse per via autoritaria. Il feeling proseguì negli anni di guerra con il progetto di costruire in Italia una legione araba fedele alle forze dell'Asse, con la benedizione del Gran Muftì di Gerusalemme, al quale Mussolini nel '36 diede la disponibilità a fornire uomini e materiale per mettere in atto l'avvelenamento dell'acquedotto di Tel Aviv, città nella quale avevano trovato rifugio gran parte degli Ebrei in fuga dalle leggi razziali in Europa. Il piano fu poi abbandonato, ma al Gran Muftì arrivarono dal governo italiano 138mila sterline, che allora erano una cifra davvero cospicua.

L'antisemitismo islamico in breve, scrive a Marzo 2014 informazionecorretta.com.

L'antisemitismo islamico. Gli studi sulla natura dell’antisemitismo islamico definiscono diversi atteggiamenti nella legge islamica e nella teologia islamica sugli ebrei. Ebrei e cristiani sono considerati monoteisti e quindi hanno diritto alla protezione sotto lo status della dhimma. Ciononostante, secondo il pensiero islamico gli ebrei sono colpevoli di aver distorto il messaggio biblico e di aver rifiutato il profeta Muhammad. Le fonti islamiche si esprimono diversamente riguardo agli ebrei: alcune descrivono gli ebrei positivamente, mentre altre li considerano manipolatori e complottardi, secondo la storia islamica e gli avvenimenti nella vita del profeta. A causa di fonti teologiche e giuridiche contrastanti, è difficile definire un pensiero coerente sugli ebrei nell’Islam. Storicamente sia gli ebrei sia altre minoranze non-islamiche sotto dominio musulmano, sono state vittime di segregazione sociale nel sistema della dhimma, che ha alimentato lo stereotipo dell’ebreo debole e infedele. Lo storico del Medio Oriente Bernard Lewis ha puntualizzato che, comunque, l’ostilità islamica verso gli ebrei non è mai stata razziale o etnica, come si è sviluppata in Europa.

Antisemitismo islamico ed europeo. Molti storici concordano nel ritenere che l’antisemitismo europeo sia stato importato nel Medioevo durante il XIX secolo. Gli stereotipi antisemiti occidentali, tra cui in particolare la paura di un “complotto giudaico” per il dominio del mondo, si sono radicati nel mondo islamico, che già riteneva l’ebreo come un potenziale pericolo per l’ordine e l’autorità islamica. Inoltre, l’influenza islamica in molti Paesi arabi negli anni ’30 e ’40 ha anche mobilizzato le masse arabe e musulmane contro le comunità ebraiche. Il Gran Mufti di Gerusalemme Haj Amin al-Husseyni è ritenuto la figura centrale nello sviluppo del pensiero teologico islamico antisemita. Anche in questo periodo la letteratura europea antisemita è ampiamente diffusa tra i lettori arabi, compreso il “Mein Kampf” di Hitler e i “Protocolli dei Savi di Sion” che sono stati dei best-seller negli ultimi anni sia nei Paesi arabi sia tra le comunità di lingua araba in Europa.

Antisemitismo islamico e terzomondismo. La fondazione dello Stato di Israele ha consolidato la convinzione che gli ebrei siano una minaccia per l’Islam e per la nazione araba. Mentre si ritiene che il conflitto arabo-israeliano sia principalmente politico o territoriale, gran parte dell’ostilità anti-israeliana nei Paesi arabi si nutre di stereotipi antisemiti. L’antisionismo e l’odio anti-israeliano sono spesso veicoli di convinzioni profondamente anti-giudaiche, poiché l’esistenza di Israele è percepita come un affronto all’identità arabo-islamica. La retorica anti-israeliana usa un linguaggio terzomondista, mascherando l’antisemitismo con il linguaggio della lotta contro l’oppressione israeliana del popolo palestinese. Palestinian Media Watch e MEMRI documentano la diffusione capillare dell’antisemitismo nei media, nella letteratura, nella politica e nei dibattiti del mondo arabo, islamico e palestinese in particolare. L’antisionismo e l’anti-colonialismo hanno coalizzato correnti della sinistra profondamente anti-israeliana e correnti islamiste ferocemente anti-ebraiche, unendo visioni apparentemente inconciliabili. Nonostante le profonde differenze di visione rispetto ai diritti umani e alla secolarizzazione, la sinistra estrema e i movimenti islamisti condividono l’ostilità anti-ebraica, anti-israeliana e anti-occidentale che ha origine anche nel pensiero marxista, nel pensiero post-coloniale e nel pensiero islamico.

Antisemitismo islamico in Europa. L’antisemitismo islamico in Europa è un fenomeno in crescita, sia per il numero sempre maggiore di musulmani sia per gli incidenti antisemiti di allarmante gravità, che sono causati anche dall’estrema destra e dall’estrema sinistra. Gli episodi di antisemitismo islamico sono particolarmente violenti, tra cui l’attentato alla scuola ebraica a Tolosa perpetrato da Mohammad Merah, i costanti attacchi fisici e verbali agli ebrei in Belgio e in Svezia e l’incitamento all’odio anti-ebraico nelle moschee in tutta Europa. Le autorità europee, nonostante il fenomeno dell’antisemitismo islamico sia di crescente gravità, non hanno ancora adottato una politica precisa, rifiutandosi di affrontare il problema diffuso nelle comunità originarie del Medio Oriente e dell’Africa islamica. La propaganda antisemita nei media arabi diffusi in Europa così come la crescente ostilità antiebraica nelle frange dell’estrema destra e il sempre più radicale antisionismo nell’estrema sinistra fanno sorgere dubbi sul futuro dell’ebraismo europeo e delle relazioni tra Europa e Israele.

Odio verso gli ebrei ed Israele giustificato dal Corano. Se si usa l’aggettivo islamico per definire una forma specifica di antisemitismo, soprattutto oggi, s’intende un tipo di ostilità verso gli ebrei, l’ebraismo, il sionismo e lo Stato di Israele che si giustifica sulla base dell’Islam e dei suoi precetti. Questo vale in particolare per quelle correnti dell’Islam che sono spesso definite “fondamentaliste”, e che sostengono che la soluzione per i problemi dell’Islam oggi sia il ritorno ai principi base del credo islamico. Questa corrente dà particolare rilievo al precetto di guerra santa, la cosiddetta “jihad”, contro gli infedeli. Gli infedeli sono identificati principalmente come ebrei e cristiani, che in diversi modi minacciano l’identità, la cultura e il credo della “umma” islamica – la comunità transnazionale che rappresenta più di un miliardo di fedeli. La base ideologica della guerra islamica contro gli ebrei, sia retorica sia pratica, deriva principalmente da fonti islamiche, come nel Corano la guerra che il Profeta Muhammad ha mosso contro gli ebrei nel VII secolo in Arabia, negli Hadit e nelle varie tradizioni che si sono definite nel tempo con riguardo agli ebrei. In questo modo si è creato uno stereotipo che sta alla base dell’antisemitismo islamista che dipinge l’ebreo come infido, sleale, sovversivo, disobbediente verso Dio, colpevole di aver ucciso i profeti che sono stati mandati al popolo ebraico e soprattutto come nemico dell’unità e del credo dell’Islam. È un antisemitismo la cui ragion d’essere versa nell’autorità divina; pertanto il carattere degli ebrei e dello Stato di Israele è predeterminato dal Corano e il conflitto non si risolverà finché i musulmani non riusciranno a distruggere gli ebrei. Oltre a questa particolarità islamica, dal XIX secolo elementi di anti-giudaismo europeo si sono fatti strada nel mondo arabo e islamico, tra cui in particolare l’accusa di omicidio rituale, originato da fonti cristiane medievali e oggi molto diffuso nei media in lingua araba. Inoltre vi è anche la convinzione che gli ebrei cerchino di dominare il mondo, che controllino le banche, i media, il sistema capitalista internazionale, gli Stati Uniti e l’imperialismo occidentale, e che siano anche responsabili del comunismo e delle tendenze laiche in generale. Per questo i “Protocolli dei Savi di Sion” sono così popolari nel mondo arabo-islamico, in cui per anni è stato un best-seller.

Nazionalismo arabo e rivoluzione islamica come fonte ulteriore di antisemitismo. Sin dalle sue origini nel XX secolo, il nazionalismo arabo ha sviluppato una forma di esclusione verso le minoranze non-arabe e, in molti casi, ha adottato una posizione di sospetto e ostilità verso gli ebrei, che sono considerati o come agenti dell’Occidente o come una quinta colonna sionista. Dopo la fondazione di Israele nel 1948, la condizione degli ebrei nei Paesi arabi è divenuta insostenibile proprio a causa di tale ostilità, ma molto probabilmente gli ebrei sarebbero stati espulsi prima o dopo anche senza l’esistenza di Israele. È successo ai francesi in Algeria, agli italiani, greci e altri in Egitto e sta accadendo lo stesso alle minoranze non-islamiche, in particolare ai cristiani, che soffrono di discriminazione e persecuzione in tutto il Medio Oriente. Assistiamo oggi al tramonto dell’antica storia dei cristiani in Iraq e Siria, mentre vediamo che nei Territori Palestinesi i cristiani sopravvivono a fatica, che in Egitto, Pakistan sono discriminati e il loro futuro è molto incerto anche in Libano. Tutto ciò sta accadendo circa sessant’anni dopo la pulizia etnica di circa un milione di ebrei in tutto il Medio Oriente, mettendo in dubbio l’intero discorso sulla tolleranza musulmana.

Il fattore islamista ha invece assunto un ruolo primario dopo la vittoria degli ayatollah nella rivoluzione islamica nel 1979. Durante gli ultimi trentacinque anni abbiamo assistito alla diffusione di quello che chiamerei “Sciismo rosso”, propugnato dall’Iran, Hezbollah e altri movimenti legati al regime degli ayatollah, capace di essersi posto a capo della “alleanza degli oppressi” contro quello che ritengono “l’arroganza del mondo” (USA) e il “piccolo Satana”, Israele. Questa ideologia clericale, che usa un linguaggio di estrema sinistra per esportare la rivoluzione, adotta una teoria completamente antisemita che unisce il credo in una cospirazione ebraica mondiale con la negazione della Shoah, l’influenza occulta degli ebrei in tutte le sfere di potere in Occidente. L’Iran ha esteso la sua influenza sul mondo arabo, che è pronto a credere in queste idee, anche se vede con sospetto le intenzioni iraniane.

L’aspetto più pericoloso, a mio avviso, consiste nel fatto che questa propaganda tossica si è profondamente radicata nella società e nella politica del mondo islamico, creando un enorme distacco dalla realtà e rendendo difficile qualsiasi soluzione ragionevole alla questione della Palestina.

L’antisemitismo in Europa è arabo e islamico. Riflettere su questa verità incontrovertibile è scomodo per i media e la politica europea, impone di trarre conseguenze gravi, a partire dalla presa d’atto di un odio contro gli ebrei connaturato con la natura stessa del Corano, scrive Carlo Panella il 26 aprile 2018 su Lettera 43. Parole chiare sull’impressionante ondata di antisemitismo omicida che scuote l’Europa: è arabo, è islamico, non è europeo. Tutti, proprio tutti gli episodi di ferocia antisemita che hanno sconvolto l’Europa, l’omicidio della anziana ebrea Mireille Knoll poche settimane fa a Parigi, sempre a Parigi quello dell’anziana ebrea Sarah Halmi nel 2016, quello feroce (fu rapito e torturato a morte per giorni) del giovane ebreo Ilan Halmi, così come gli innumerevoli episodi di violenza in Francia, gli attentati antiebraici di Bruxelles e Tolosa e l’ultimo episodio di violenza contro un giovane a Berlino colpevole solo di portare la Kippah, sono opera di arabi e islamici, non di esponenti della estrema destra europea.

L'IPOCRISIA DEI MEDIA EUROPEI. Gli ebrei fuggono dalla Francia in Israele al ritmo di 6-8 mila l’anno perché perseguitati, uccisi, violentati da arabi e islamici al grido di «Allah akbar» o di «sporco giudeo», non da neonazisti nostrani. È questo il prodotto - nascosto ipocritamente - della società multietnica. Prodotto negato da chi sui media, con ciglio corrucciato, denuncia genericamente l’antisemitismo e non lo ricollega alla sua chiara, evidente, inequivocabile matrice arabo islamica. Matrice - sia chiaro - che nulla ha a che fare col conflitto israelo-palestinese, ma che riecheggia i tanti brani del Corano e soprattutto degli Hadith che definiscono gli ebrei «porci e scimmie» e che sostengono che «il giorno del Giudizio Ultimo non verrà sino a quando l’ultimo ebreo non sarà ucciso». Gli ebrei fuggono dalla Francia in Israele al ritmo di 6-8 mila l’anno perché perseguitati, uccisi, violentati da arabi e islamici al grido di «Allah akbar» o di «sporco giudeo», non da neonazisti nostrani. Questa matrice arabo-islamica e coranica dell’antisemitismo è la ragione per la quale le comunità musulmane “moderate” e i dirigenti della comunità araba nulla fanno per contrastarlo. Anzi. Riflettere su questa verità incontrovertibile è scomodo per i media e la politica europea, impone di trarre conseguenze gravi, a partire dalla presa d’alto di un antisemitismo islamico connaturato con la natura stessa del Corano, con la definizione degli ebrei come complottatori e traditori del patto stretto con Allah, più volte e chiaramente elevata dal Profeta in più versetti.

SERVE UNA RIFORMA DELL'ISLAM. Impone di riflettere con gravità prima di affermare che «l’Islam appartiene alla Germania», come ha fatto recentemente Angela Merkel in polemica con il suo ministro dell’Interno Horst Seehofer che giustamente affermava il contrario. Impone infatti di chiedere con fermezza ai musulmani di operare una lettura critica del testo coranico, di storicizzarlo, (Maometto abbandona l’ecumenismo nei confronti degli ebrei quando valuta che lo ostacolano nella guerra della Medina contro gli abitanti politeisti della Mecca). Impone insomma di affrontare di petto una enorme verità: l’antisemitismo è connaturato con la tradizione islamica e senza una riforma razionalista non ne verrà mai espulso. Ma l’Islam è incapace di tale riforma, se non in sue componenti minoritarie (per esempio, in Marocco). Beninteso, non vogliamo qui negare che esista e operi un antisemitismo europeo, potentemente presente in Polonia, in Ucraina e altrove (anche in Gran Bretagna e il laburista Corbyn ne è complice), ma questa tradizione non si esprime se non attraverso slogan o attacchi alle cose (lapidi, cimiteri ebraici, ecc…). L’antisemitismo violento, fisico, omicida in Europa è monopolio praticamente esclusivo della componente arabo islamica, anche di seconda o terza generazione. E va detto. Con forza.

L’antisemitismo arabo continua a diffondersi: “Il nostro odio per gli Ebrei è basato sulla nostra fede. Il Corano ci dice di odiarli, non di amarli”, scrive Emanuel Baroz il 18 novembre 2010 su focusonisrael.org.

Come parlano gli arabi degli ebrei.

 Abdallah Jarbù, ministro di Hamas per gli affari religiosi alla tv Al-Aqsa (Gaza) il 28/02/10: “Gli ebrei soffrono di disordini mentali, perchè sono ladri e aggressori, un ladro o un aggressore che prende una proprietà o una terra sviluppa disordini psicologici e spasimi di coscienza, perchè ha preso qualcosa che non è suo. Loro (gli Ebrei) vogliono presentarsi al mondo come se avessero dei diritti, ma di fatto sono batteri estranei, microbi senza uguali nel mondo. Non sono io che dico questo, è il Corano stesso che dice che non hanno uguali nel mondo:” Troverai che gli uomini più potenti che odieranno i credenti sono Ebrei”. Possa Egli annichilire questo popolo immondo che non ha religione nè coscienza. Io condanno quei credenti che normalizzano i rapporti con loro, coloro che accettano di sedersi accanto a loro, e coloro che credono che essi sono esseri umani. Essi non sono esseri umani, non sono un popolo. Non hanno una religione, una coscienza o valori morali”.

Salam Abd Al-Qawi, clerico egiziano alla tv Al-Nas (Egitto) l’8 gennaio del 2009: “Il nostro odio per gli Ebrei è basato sulla nostra fede. Il Corano ci dice di odiarli, non di amarli”.

Un esponente religioso mussulmano in una tv araba: “Se gli Ebrei ci restituissero la Palestina cominceremmo ad amarli? Certamente no. Non li ameremo mai. Assolutamente no. Le vostre convinzioni sugli Ebrei devono essere che essi sono infedeli e essi sono nemici. Sono nemici non perchè hanno occupato la Palestina. Sarebbero nostri nemici anche se non avessero occupato niente”.

Muhammed Al.Kuraikhi alla tv del Qatar il 09/02/09: “Noi tratteremmo gli Ebrei come nostri nemici anche se ci restituissero la Palestina perchè essi sono infedeli”.

Wael Al- Zarrad, clerico palestinese alla tv Al-Aqsa il 28/02/08: “In breve questo sono gli Ebrei. Il nostro sangue chiede vendetta contro di loro e si placherà solo con la loro distruzione, Allah lo vuole, perchè essi hanno cercato di uccidere il nostro Profeta diverse volte”.

Masoud Anwar, clerico egiziano alla tv Al-Rahma (Egitto) il 09/01/09: “I più grandi nemici dei mussulmani – dopo Satana – sono gli Ebrei. Chi ha detto questo? Allah lo ha fatto.

Dr. Hassan Hanizzadeh, commentatore iraniano, Jaam-E Jam2 tv (Iran) il 20/12/05: “Nel 1883, circa 150 bambini francesi, vennero assassinati in modo orribile nei sobborghi di Parigi prima della Pasqua ebraica. Recenti ricerche hanno dimostrato che li uccisero gli Ebrei per prendere il loro sangue. Questo fatto provocò rivolte a Parigi e allora il governo francese si trovò sotto pressione. Un simile incidente avvenne a Londra, dove molti bambini inglesi vennero uccisi dai rabbini”.

L’antisemitismo, malattia (infantile e senile) del mondo arabo, provoca danni non solo sul campo di gioco. Un problema di mentalità che nel vicino oriente ha generato distruzione di capitale umano, guerre costose e ossessioni ideologiche. Un editoriale di Bret Stephens, scrive il 17 Agosto 2016 Il Foglio. Venerdì, alle Olimpiadi di Rio, il judoka israeliano Or Sasson ha sconfitto l’egiziano Islam El Shehaby, il quale, dopo l’incontro, ha ignorato la mano tesa del suo avversario, guadagnandosi i fischi del pubblico. Si è venuto a sapere che El Shehaby aveva ricevuto pressioni da gruppi anti-israeliani perchè si ritirasse prima dell’incontro. Dopo molte polemiche con il Cio, la federazione egiziana di judo ha deciso di rispedire in patria il proprio atleta. In un editoriale apparso sul Wall Street Journal, Bret Stephens ha spiegato che questo gesto simboleggia l’odio cieco per gli ebrei e per Israele che pervade il mondo arabo, il quale si trova in declino anche a causa di questo atteggiamento. Stephens osserva come tale aspetto della realtà mediorientale sia spesso taciuto in analisi accademiche e articoli giornalistici. Rimane il fatto che, continua Stephens, negli ultimi 70 anni il mondo arabo, “si è liberato della sua popolazione ebraica, circa 900.000 persone, senza smettere di odiarla. Con il passare del tempo questo si è rivelato disastroso: una combinazione di capitale umano perso, guerre esageratamente costose, ossessioni ideologiche mal indirizzate e un panorama intellettuale funestato da teorie del complotto e dalla ricerca costante di un capro espiatorio. I problemi del mondo arabo sono i problemi della mentalità araba, e il nome di quei problemi è l’antisemitismo.” La relazione tra stagnazione sociale e politica e antisemitismo non è una novità recente. Nel 2005 lo storico Paul Johnson, in una ricerca per Commentary, ne dava ampi esempi. La Spagna espulse gli ebrei nel 1492, “privando la madrepatria e le colonie di una classe sociale già nota per le sue capacità finanziarie”. Nella Russia zarista le leggi antisemitiche causarono migrazioni di massa degli ebrei e “un enorme incremento della corruzione nella Pubblica amministrazione”. La Germania nazista avrebbe potuto vincere la corsa allo sviluppo di armi atomiche, “se Hitler non avesse mandato in esilio negli Stati Uniti Albert Einstein, Leo Szilard, Enrico Fermi e Edward Teller”. Questi fenomeni si sono ripetuti nel mondo arabo e, contrariamente all’immaginario popolare, precedettero la creazione dello stato di Israele. “Nel 1929 vi furono sanguinosi pogrom in Palestina, replicati in Iraq nel 1941 e in Libano nel 1945. Non è accurato accusare Gerusalemme di aizzare l’antisemitismo rifiutando di cedere territori in cambio di pace. Tra gli egiziani l’odio per Israele si affievolì appena dopo che Menechem Begin restituì il Sinai ad Anwar Sadat. Tra i palestinesi l’antisemitismo aumentò notevolmente durante gli anni del processo di pace di Oslo”. Johnson aveva definito l’antisemitismo come una malattia “altamente infettiva, endemica in certe località e società, che non rimane confinata tra le persone più deboli o meno istruite”. L’antisemitismo potrà anche essere irrazionale, ma la sua efficacia sta nel trasformare l’irrazionalità personale e istintiva, offrendole uno sbocco sistematico e politico, concludeva Johnson: “Per chi odia gli ebrei ogni crimine ha il medesimo colpevole e ciascun problema ha la stessa soluzione”. Stephens nota come sia facile cedere all’antisemitismo, semplificando la propria visione del mondo, ma condannandosi a un permanente oscurantismo. A riprova di ciò, il commentatore elenca semplici fatti: “Non esiste alcuna grande università nel mondo arabo, non vi è una seria comunità scientifica locale e la produzione letteraria è minima. Nel 2015 l’ufficio brevetti degli Stati Uniti ha registrato 3.804 brevetti da Israele, e solo 364 dall’Arabia Saudita, 56 dagli Emirati Arabi Uniti e 30 dall’Egitto”. Nonostante Israele convogli acqua in Giordania per aiutare lo stato arabo e offra intelligence all’Egitto per combattere l’Isis nel Sinai, osserva Stephens, la popolazione araba non se ne rende conto, e l’unica immagine che ha di Israele è di “soldati israeliani in tenuta antisommossa che malmenano un palestinese”. La dolorosa realtà, nota Stephens, è che “le nazioni di successo provano a emulare i propri i propri vicini. Nel mondo arabo, invece, generazione dopo generazione, si è insegnato a odiare i propri vicini”. Vi è comunque qualche speranza di cambiamento. Negli ultimi cinque anni il mondo arabo è stato costretto a confrontarsi con i propri fallimenti senza poter addossare alcuna colpa a Israele. Questo però non basta conclude Stephens: “Finché un atleta arabo non può rispondere alla cortesia di una stretta di mano da parte di un suo omologo israeliano, la malattia della mentalità araba e la sfortuna del suo mondo continueranno. Per Israele è un peccato. Per gli arabi è una calamità. Chi odia soffrirà sempre più di chi è odiato”.

Ebrei perseguitati nei Paesi arabi. L’odio precede la nascita d’Israele. Esce in libreria giovedì 15 novembre il saggio di Georges Bensoussan, «Gli ebrei del mondo arabo» (traduzione di Vanna Lucattini, Giuntina, pagine 171, euro 15). Il saggio di Bensoussan (Giuntina) riporta l’attenzione su fatti tragici che molti non vogliono affrontare. In Francia l’autore ha attirato su di sé accuse di razzismo, scrive il 12 novembre 2018 Paolo Mieli su "Il Corriere della Sera". Alcuni ebrei provenienti dai Paesi arabi in un campo di raccolta allestito in Israele. La foto risale al 1950, due anni dopo la fondazione dello Stato ebraico, nel quale affluirono molti profughi dai Paesi arabi (Jewish Agency for Israel) . Sotto l’occupazione tedesca della Tunisia (novembre 1942-maggio 1943) alcune case di ebrei furono saccheggiate e alcune donne ebree furono stuprate da musulmani. «In generale gli autori di queste violenze furono incoraggiati dai tedeschi», ha scritto Norman Stillman anche se, «temendo disordini di maggiore ampiezza, il comandante tedesco intervenne per mettere fine a quegli incidenti». Quegli «incidenti», in ogni caso, furono ricondotti — in tema di responsabilità — all’occupazione nazista. Ma lo stesso Stillman notò, non senza sorpresa che «i saccheggi di case ebraiche ad opera degli arabi furono più gravi dopo che i tedeschi si ritirarono dalla città». Proprio così: le violenze antiebraiche in Tunisia nel corso della Seconda guerra mondiale sono cresciute dopo il ritiro dei nazisti. E quando arrivarono gli Alleati, Philip Jordan, corrispondente di guerra britannico, scrisse che «tutti gli ebrei della città avevano subito saccheggi dagli arabi e che erano state rubate persino porte e finestre». Anche, se non soprattutto, dopo che i soldati con la svastica se n’erano andati. Come mai? E perché subito dopo il mondo arabo si è svuotato dei suoi ebrei nel corso di appena una generazione (1945-1970)? Tra l’altro quasi senza espulsioni palesi, eccetto l’Egitto… Perché questo strappo così rapido da una terra sulla quale gli ebrei vivevano da oltre duemila anni? Georges Bensoussan ha scritto un libro, Gli ebrei del modo arabo. L’argomento proibito, che sta per essere pubblicato da Giuntina, nel quale analizza le vessazioni a cui sono stati sottoposti gli israeliti in quell’area geografica da molto prima che esplodesse il conflitto tra Israele e i palestinesi. Gli ebrei sono stati costretti ad abbandonare quelle terre in una misura davvero rimarchevole: se ne dovettero andare novecentomila persone nel secondo dopoguerra, nell’arco di poco più di due decenni. Un esodo che, secondo Bensoussan, «mise fine ad una civiltà bimillenaria, anteriore all’Islam e all’arrivo dei conquistatori arabi». Come è potuto accadere? «Più del sionismo e della nascita dello Stato di Israele», risponde l’autore, «sono stati l’emancipazione degli ebrei attraverso l’istruzione scolastica e l’incontro con l’Occidente dei Lumi a provocarne la scomparsa in quei Paesi, quindi il loro riscatto, un evento inconcepibile per l’immaginario di un mondo in cui la sottomissione dell’ebreo aveva finito per costituire una pietra angolare». Generalmente, scrive Bensoussan, «ci dicono che le società ebraiche d’Oriente sarebbero declinate con il conflitto arabo-israeliano e che l’antigiudaismo arabo sarebbe una ricaduta del conflitto palestinese». Ma «questa tesi è smentita da moltissimi testimoni occidentali riguardo agli anni 1890-1940, siano essi amministratori coloniali, militari, medici, giornalisti o viaggiatori». Tutti raccontano «della virulenza di un sentimento antiebraico, ad ogni evidenza variabile a seconda delle regioni e dei periodi, senza connessione alcuna con la questione palestinese».

Nato in Marocco nel 1952, lo storico francese Georges Bensoussan è autore di molti studi sulla Shoah, l’antisemitismo e il sionismo, tradotti anche in Italia. Bensoussan è uno storico francese ebreo nato nel 1952 in Marocco. Timido, ha sempre scelto di starsene in disparte. Non ha mai amato il palcoscenico letterario. Fino al 2015 non godeva, anzi, di grande notorietà, nonostante avesse scritto diversi libri, avesse ricevuto importanti premi, fosse stato nominato direttore editoriale del Mémorial de la Shoah. Che cosa è allora che lo ha portato alla ribalta nel 2015 quando aveva 63 anni? Nel corso di una trasmissione radiofonica su France2, Répliques, gli sfuggirono (o forse le pronunciò intenzionalmente) le seguenti parole: «Il sociologo algerino Smaïn Laacher, con grande coraggio, ha detto che nelle famiglie arabe in Francia — è risaputo ma nessuno vuole dirlo — l’antisemitismo arriva con il latte materno». Era la citazione di un ragionamento altrui, anche se ad ogni evidenza Bensoussan lo condivideva nel merito. Comunque sarebbe passata inosservata se non fosse sceso in campo il «Movimento contro il razzismo e per l’amicizia tra i popoli», accusando lo storico d’aver fatto sue «parole antiarabe e razziste» per di più «in un servizio pubblico». Il Movimento chiese alla radio nonché ai responsabili del Mémorial di prendere le distanze da Bensoussan, e lo trascinò per ben due volte in giudizio. Radio e Mémorial lo misero in quarantena assai prima della sentenza definitiva e pochi solidarizzarono con Bensoussan: tra questi meritano di essere ricordati Pierre Nora, Alain Finkielkraut e, dall’Algeria, Boualem Sansal. Dopodiché la sua vita fu praticamente distrutta. Infine nel 2018 è arrivata la definitiva assoluzione, ma ormai sarebbe stato difficile per lui recuperare una qualche serenità. Ma, con ostinazione, Bensoussan ha continuato a studiare le condizioni in cui gli ebrei vivevano nel mondo arabo quando lo Stato di Israele non era ancora neanche all’orizzonte. Mettendo in evidenza anche i (pochi) caratteri positivi di quella coabitazione con il mondo musulmano. In un quadro per il resto agghiacciante. All’inizio del XVI secolo il frate francescano Francesco Suriano descriveva con queste parole la vita degli israeliti in Palestina: «Questi cani, gli ebrei, sono calpestati, picchiati e tormentati come meritano. Vivono in questo Paese in una condizione di sottomissione che le parole non possono descrivere. È una cosa istruttiva vedere che a Gerusalemme Dio li punisce più che in ogni altra parte del mondo. Ho visto questo luogo per lungo tempo. Essi sono anche uno contro l’altro e si odiano, mentre i musulmani li trattano come cani… Il più grande obbrobrio per un individuo è di essere trattato da ebreo». E ancora: «Ovunque — scrive nel 1790 l’inglese William Lemprière a proposito degli ebrei di Marrakech — sono trattati come esseri di una classe inferiore alla nostra. In nessuna parte del mondo li si opprime come in Berberia… Malgrado tutti i servigi che gli ebrei rendono ai mori, essi sono trattati con più durezza di quanto farebbero con i loro animali». La stessa immagine che usa l’abate francese Léon Godard nel 1857, di ritorno da un viaggio: «Gli ebrei in Marocco sono considerati tra gli animali immondi… La tolleranza dei prìncipi musulmani consiste nel lasciare vivere gli ebrei come si lascia vivere un gregge di animali utili». «Se un musulmano li colpisce», prosegue Godard, agli ebrei «è proibito, pena la morte, di difendersi eccetto che con la fuga o con la destrezza». A ridosso della Seconda guerra mondiale, il Marocco fu relativamente al riparo dalle esplosioni di violenza antiebraica. Molto relativamente. Nel Maghreb, qualcuno sostiene, la popolazione musulmana non avrebbe gioito per le misure antiebraiche promulgate da Vichy. Avrebbero perfino manifestato solidarietà nei confronti dei perseguitati. Ma secondo Bensoussan (e con lui, adesso, la maggioranza degli storici) «la popolazione musulmana tutt’al più rimase indifferente». In Tunisia (finché fu una colonia) le autorità francesi fingevano di non vedere le persecuzioni antiebraiche per evitare di affrontare la maggioranza araba. Lo stesso accadde in Marocco dopo i pogrom di Oujda e Jérada (giugno 1948): le stesse autorità francesi raccomandarono a quelle locali «di usare indulgenza» (nei confronti dei responsabili degli atti antiebraici) al fine di «evitare ogni esplosione di violenza da parte araba». E nel secondo dopoguerra dopo la nascita dello Stato di Israele (1948)? Ad eccezione dell’Egitto, sostiene lo storico, non ci sono state praticamente espulsioni di ebrei dal mondo arabo. E la Tunisia è stato il Paese più tollerante. Qui la Costituzione del 1956 assicurava che gli ebrei erano cittadini come gli altri e potevano «esercitare qualsiasi professione». Tuttavia «dovevano sempre aspettare più degli altri le necessarie autorizzazioni amministrative» e, per così dire, «elargire più bustarelle». Anche sotto la guida del presidente Bourghiba, gli ebrei furono a poco a poco estromessi dai posti più importanti («eccetto che al Ministero dell’Economia dove non c’erano musulmani competenti per rimpiazzarli»).

Nel 1960 gli ebrei rappresentavano ancora il 14% della popolazione di Tunisi, ma nel Consiglio comunale della capitale ce n’erano solo due su sessanta membri (il 3%). Poi venne la «guerra dei Sei giorni» (1967) e per gli israeliti furono dolori. Scriveva — in una lettera del 7 giugno 1967 a Georges Canguilhem — Michel Foucault che all’epoca insegnava all’università di Tunisi: «Qui lunedì scorso c’è stata una giornata (una mezza giornata) di pogrom. È stato molto più grave di quanto abbia detto “Le Monde”, una cinquantina buona di incendi. Centocinquanta o duecento negozi — ovviamente i più miserevoli — saccheggiati, lo spettacolo della sinagoga sventrata, i tappeti trascinati per strada, calpestati e bruciati, gente che correva per le strade si è rifugiata in un edificio al quale la folla voleva dar fuoco. E poi il silenzio, le saracinesche abbassate, nessuno o quasi nel quartiere, i bambini che giocavano con le suppellettili rotte… Quanto successo appariva manifestamente organizzato… Se poi a questo si aggiunge che gli studenti, per “essere di sinistra” hanno dato mano (e un po’ di più) a tutto questo, si è abbastanza tristi. E ci si domanda per quale strana astuzia (o stupidità) della storia il marxismo ha potuto dare occasione (e vocabolario) a tutto ciò».

Al Cairo, nel 1927, dall’oggi al domani, la legge egiziana chiude agli ebrei l’accesso agli impieghi pubblici. Qui nel 1950 (ben diciassette anni prima di quel che si sarebbe venuto a creare dopo la guerra dei Sei giorni), Sayyd Qutb, successore di Hassan el-Banna a capo dei Fratelli musulmani, pubblicò un manifesto, La nostra battaglia contro gli ebrei, che conteneva parole inquietanti. «Gli ebrei», si poteva leggere in questo testo, «hanno ricominciato a fare il male… Allah inviò loro Hitler per dominarli; poi la nascita di Israele ha fatto provare agli arabi, i proprietari della terra, il sapore della tristezza e della sofferenza».

In Siria dopo il 1945 imperversa una violenza antiebraica che spinge la maggior parte dei 15 mila ebrei del Paese ad andarsene; tutte persone che sono poi scomparse da ogni «memoria ufficiale». Nei confronti degli ebrei rimasti si ebbero attentati come la bomba che colpì un’istituzione ebraica a Damasco nel 1948, e le altre che nel corso dell’estate di quello stesso anno, uccisero decine di israeliti. Analoghe violenze si ebbero in Yemen. In Libia rimasero solo cinquemila ebrei su trentacinquemila e questa minoranza «fu progressivamente spinta a partire, strangolata socialmente e assoggettata a un clima di paura». A Tripoli nel 1961 la legge stabilì che a ogni ebreo che intrattenesse «rapporti ufficiali o professionali» con Israele (vale a dire, per la maggior parte dei casi, con i loro connazionali trasferitisi nello Stato ebraico) sarebbero stati confiscati i beni.

Ma perché di tutto questo si comincia a parlare in modo esplicito soltanto adesso? La storia degli ebrei del mondo arabo, risponde Bensoussan «è stata a lungo confiscata». Il più delle volte è stata scritta da degli ebrei di corte ed è per questo che solo recentemente si è emancipata dalla visione irenica di un tempo. A lungo il racconto ufficiale illustrava un universo sereno di un “mondo che abbiamo perduto”, una visione storica unita a un pensiero consolatore, «tanto grande era il dolore di mettere a nudo una vita da dominato». Più si scendeva in basso nella scala sociale e «più la memoria ebraica diventava dolorosa», mentre coloro che coltivavano una memoria felice, «il più sovente provenivano da ambienti agiati, dove i contatti con il popolino musulmano erano generalmente limitati al personale di servizio». Accade così, conclude lo studioso, che «scrivere la storia degli ebrei dell’Oriente arabo mette a nudo i rapporti di servitù mascherati da racconti folcloristici». Una complicazione che ha fin qui impedito di raccontare la vera storia degli ebrei nel mondo arabo.

Bibliografia. Un testo di grande rilievo per quanto riguarda i temi trattati da Georges Bensoussan è lo studio di Bernard Lewis Gli ebrei nel mondo islamico (traduzione di Silvia Bemporad Servi, Sansoni, 1991). Riguarda invece un caso specifico, quello della Libia, il saggio di Renzo De Felice Ebrei in un Paese arabo (il Mulino, 1978). L’esperienza personale del filosofo Michel Foucault è riferita dal suo amico Paul Veyne nel libro Foucault, il pensiero e l’uomo (traduzione di Laura Xella, Garzanti, 2010). Da segnalare anche il saggio di Marcel Gauchet Il disincanto del mondo (traduzione di Augusto Comba, Einaudi, 1992) e le memorie dello storico ebreo Saul Friedländer A poco a poco il ricordo (traduzione di Natalia Ginzburg, Einaudi, 1990).

L’ANTISEMITISMO TEDESCO.

Perché l'odio contro gli ebrei? Sulle origini dell'antisemitismo, scrive "Viaggio-in-germania.de". 

Origine n°1: "Gli ebrei sono quelli che hanno crocefisso Gesù". La più antica fonte dell'antisemitismo è cristiana: "Gli ebrei sono quelli che hanno crocefisso Gesù!". Per molti secoli la chiesa ha alimentato nel popolo questa convinzione demagogica che serviva a giustificare la persecuzione e l'eliminazione della "concorrenza" religiosa. La comunità religiosa degli ebrei era sparsa in tutta l'Europa, e costituiva sempre un corpo estraneo in una società in cui la chiesa voleva essere l'unica autorità, non solo religiosa, ma anche culturale e politica. Solo per la loro esistenza, gli ebrei erano un pericolo costante per una società medievale dominata dalla religione cristiana. Il loro costante rifiuto di farsi cristiani era una specie di delegittimazione della validità universale della fede cristiana. Così è nato l'odio e anche la spiegazione "teologica" per quest'odio. L'idea della "colpa collettiva" degli ebrei per la morte di Gesù fu praticamente la condanna a morte per decine di migliaia di essi. Questa convinzione si mantenne molto a lungo, a livello più o meno conscio, in vasti strati della popolazione.

Origine n°2: "Gli ebrei sono responsabili della peste". Questa è una variante dell'odio di origine cristiana descritta sopra. Nel medioevo, la peste fu una delle malattie più terribili e più temute capace di annientare decine di migliaia di persone e di spopolare intere regioni. L'origine era misteriosa, e dalla convinzione che fosse il diavolo a mandare la peste in terra fino a dare la colpa agli ebrei (che avrebbero avvelenato i pozzi) il passo non era lungo. Numerosi teologi cristiani (come p.e. Johannes Chrysostomos o l'arcivescovo Agobardo di Lione) avevano attribuito a gli tutti ebrei un carattere criminale e così, gli ebrei erano facilmente individuati come quelli che scatenavano periodicamente la peste per eliminare i cristiani. Un'altra teoria sosteneva che la peste era una punizione di Dio per il fatto che i cristiani tolleravano gli ebrei nelle loro città. Comunque sia, i risultati erano gli stessi: ogni volta che il flagello della peste colpì l'Europa aumentarono le sommosse popolari antisemite, i massacri e saccheggi, spesso con il tacito consenso – se non con l'appoggio attivo – delle autorità. Un esempio per tanti casi simili: nel 1349, a Strasburgo, furono sepolti vivi 2.000 ebrei ritenuti responsabili di quella terribile epidemia.

Origine n°3: "Gli ebrei sono avari, degli usurai che si arricchiscono con i soldi degli altri". Durante il Concilio Laterano del 1215 il Papa Innocente III, un nemico giurato degli ebrei, fece rilasciare una serie di norme che dovevano segnare il destino degli ebrei per molti secoli. Vietò per esempio ai cristiani di prestare soldi contro interessi e consigliò di escludere gli ebrei dalle altre associazioni professionali. Successivamente, quasi tutte le associazioni professionali, riferendosi a queste prescrizioni della chiesa, vietarono agli ebrei l'esercizio della loro professione e costrinsero questi a delle attività professionali (cambiamonete, prestasoldi etc.) che il popolo, comprensibilmente, odiava. Tutti, anche i contadini più poveri, dovevano rivolgersi prima o poi a un ebreo per farsi prestare dei soldi e ogni raccolta andata male portava a un odio crescente verso di loro. Ma anche gli imperatori avevano un gran bisogno di denaro, motivo per cui di solito i poteri imperiali erano molto più tolleranti nei confronti degli ebrei dai quali spesso dipendevano.

Origine n°4: "Gli ebrei non vogliono integrarsi nel mondo cristiano-occidentale". Relegati da leggi religiose e civili nei loro ghetti, periodicamente perseguitati e anche sterminati, gli ebrei svilupparono una forte identità culturale che li fece sopportare e sopravvivere. Ma il loro essere diversi che si vedeva anche nel modo di vestirsi e in molte abitudini quotidiane, la loro "resistenza culturale", li rese ancora più oggetto di sospetti e di attacchi ingiusti. Colui che è diverso è tendenzialmente pericoloso. E questo valeva non solo per la società medioevale, ma anche per oggi.

Origine n°5: "Gli ebrei vogliono manovrare tutti i paesi secondo i loro interessi". Questa è la versione più recente dell'antisemitismo, è quella inventata dai nazisti per canalizzare e deviare i mille motivi di scontentezza e di rabbia del popolo contro una facile preda e per dare una semplice "spiegazione" alle molte ingiustizie nel mondo che molta gente non riusciva a spiegarsi. In tutti i governi, in tutte le organizzazioni internazionali si potevano trovare degli ebrei, anche in posizioni importanti, e così era molto facile trovare delle "prove" per questa assurda affermazione. Secondo la teoria di Hitler l'antisemitismo doveva diventare così una lotta di tutti i popoli contro un nemico universale. Per essere giustificato, lo sterminio sistematico aveva bisogno di una motivazione più forte, più "politica" e non solo etnica o religiosa.

Hermann Hesse sulle origini dell'antisemitismo: "L'uomo primitivo odia ciò di cui ha paura, e in alcuni strati della sua anima anche l'uomo colto è primitivo. Anche l'odio dei popoli e delle razze contro altri popoli e razze non si basa sulla superiorità e sulla forza, ma sull'insicurezza e sulla paura. L'odio contro gli ebrei è un complesso di inferiorità mascherato: rispetto al popolo molto vecchio e saggio degli ebrei certi strati meno saggi di un'altra razza sentono un'invidia che nasce dalla concorrenza e un'inferiorità umiliante. Più fortemente e più violentemente questa brutta sensazione si manifesta nella veste della superiorità, più è certo che dietro si nascondono paura e debolezza." (1958)

La teoria razziale e l'antisemitismo di Hitler.

La teoria razziale: Al centro della teoria di Hitler sta l'idea della razza. Tutta la storia, dice Hitler nel suo libro "Mein Kampf" (1925), è solo espressione dell'eterna lotta tra le razze per la supremazia. La guerra è l'espressione naturale e necessaria di questa lotta in cui il vincitore, cioè la razza più forte, ha il diritto di dominare. L'unico scopo dello stato è mantenere sana e pura la razza e creare le condizioni migliori per la lotta per la supremazia, cioè per la guerra. E la guerra è l'unica cosa che può dare un senso più nobile all'esistenza di un popolo. Di tutte le razze quella cosiddetta "ariana" o "nordica" è, secondo Hitler, la più creativa e valorosa, in fondo l'unica a cui spetta il diritto di dominare il mondo. Tradotto nella realtà questo significava per Hitler prima l'unificazione del continente europeo sotto il dominio della nazione tedesca, per cercare poi nuovo spazio vitale all'est, cioè in Polonia e in Russia. Ma questo doveva essere, come scrive Hitler, solo il preludio dell'ultima grande sfida, dello scontro finale contro gli Stati Uniti. É un fatto singolare e molto significativo, che l'andamento reale della seconda guerra mondiale rispecchia quasi esattamente questa teoria, che Hitler aveva sviluppato 14 anni prima dell'inizio della guerra. É un esempio lampante della testardaggine con cui Hitler seguiva le proprie idee e cercava di applicarle a tutti i costi, una caratteristica che si nota spesso in lui. Ci sono numerose contraddizioni e imprecisioni nella teoria razziale di Hitler. Già il concetto di base, la "razza ariana", è un'assurdità storica. Inoltre Hitler confonde spesso "razza" con "popolo" o "nazione", confonde i concetti "tedesco", "germanico" e "ariano". Ma probabilmente tutto questo non è molto importante per Hitler, dato che alcuni capitoli più avanti scrive con molta franchezza "la propaganda non ha il compito di essere vera, ha invece l'unico compito di essere efficace." Infatti, questa propaganda doveva rivelarsi molto efficace. Sicuramente al disoccupato faceva piacere sentire che in fondo non era un piccolo disgraziato ma uno che apparteneva a una razza superiore. Parlando del suo futuro Reich Hitler promette: "Essere uno spazzino in un tale Reich sarà onore più alto che essere un re in uno stato estero".

L'antisemitismo: Il secondo elemento fondamentale è l'antisemitismo. Per Hitler gli ebrei non sono una comunità religiosa, ma una razza, e cioè la razza che vuole rovinare tutte le altre. Mescolandosi con gli altri popoli, gli ebrei cercano di imbastardirli, distruggendo la purezza della razza e eliminando così la loro forza, necessaria per la lotta per la supremazia. L'ebreo è il nemico più pericoloso, è cattivo fino in fondo. Hitler dice: "Gli Ebrei sono come i vermi che si annidano nei cadaveri in dissoluzione." L'antisemitismo diventa in Hitler una vera e propria ossessione. Pacifismo, marxismo, la democrazia, il pluralismo, persino il capitalismo internazionale e la "Lega dei popoli", predecessore del ONU, tutto questo è risultato del lavoro distruttivo e sotterraneo degli ebrei. Hitler: "L'Ebreo è colui che avvelena tutto il mondo. Se l'ebreo dovesse vincere, allora sarà la fine di tutta l'umanità, allora questo pianeta sarà presto privo di vita come lo era milioni di anni fa." Oggi queste parole suonano decisamente ridicole, e anche all'epoca molti le ritenevano tali e vedevano in esse solo uno strumento politico per incanalare la rabbia del popolo su un capro espiatorio. Ma l'odio di Hitler contro gli ebrei non era solo strumento politico, era reale con tutto il suo evidente anacronismo e la sua irrazionalità. Gli orrendi eventi degli anni 1940-1945, quando l'antisemitismo non poteva più servire come strumento politico, lo dimostrano in modo spaventoso. E nella lotta contro gli ebrei Hitler si vede come pioniere di tutta l'umanità: Nel aprile del 1945, quando Hitler presagiva già la propria fine, detta al suo segretario: "Un giorno si ringrazierà il Nazionalsocialismo del fatto che io ho annientato gli ebrei in Germania e in tutta l'Europa centrale".

Lo scrittore tedesco Hermann Hesse scrisse sull'antisemitismo: "L'uomo primitivo odia ciò di cui ha paura, e in alcuni strati della sua anima anche l'uomo colto è primitivo. Anche l'odio dei popoli e delle razze contro altri popoli e razze non si basa sulla superiorità e sulla forza, ma sull'insicurezza e sulla paura. L'odio contro gli ebrei è un complesso di inferiorità mascherato: rispetto al popolo molto vecchio e saggio degli ebrei certi strati meno saggi di un'altra razza sentono un'invidia che nasce dalla concorrenza e un'inferiorità umiliante. Più fortemente e più violentemente questa brutta sensazione si manifesta nella veste della superiorità, più è certo che dietro si nascondono paura e debolezza." (1958)

“La città senza ebrei”, il film che predice di 20 anni l’arrivo di Hitler. La pellicola, uscita nelle sale nel 1924, racconta la storia di una città in cui si decide di cacciare tutti gli ebrei. Emblema dell’antisemitismo del periodo, il film profetizza quello che avverrà, qualche anno dopo, con l’Olocausto, scrive LinkPop il 9 Aprile 2018 su "L’Inkiesta”. “È terribile espellere gli ebrei, ma bisogna anche venire incontro alle richieste della popolazione”. Chi lo ha detto? Nessuno, o quasi. La frase, mai pronunciata nella realtà da alcun capo di Stato (o dittatore), si trova in un film austriaco del 1924, “La città senza ebrei” (Die Stadt ohne Juden), in cui si prediceva, con 20 anni di anticipo, la salita al potere del nazismo. La pellicola, che conobbe un certo successo all’esordio, scomparve – insieme alla maggior parte dei film muti – all’arrivo del sonoro. Gli appassionati la davano ormai per persa per sempre e dovevano accontentarsi di qualche spezzone danneggiato trovato in Olanda nel 1991. Ben poco, per un film che, basato sul libro satirico/distopico dello scrittore austriaco ebreo Hugo Bettauer, raccontava con spirito purtroppo profetico la storia di una città in cui l’insofferenza verso gli ebrei, col passare del tempo, diventa odio, fino a quando, basandosi su accuse false e pretestuose, la popolazione decide di cacciarli in massa – nessuno (forse) immaginava, alla prima, che qualche anno dopo sarebbe accaduto davvero. Solo nel 2015, per puro caso, una versione ancora integra del film spuntò in un mercatino dell’usato di Vienna. Un colpo di fortuna che, vista anche l’importanza storica della pellicola, l’Austrian Film Archiv non si lascia sfuggire e organizza una raccolta fondi per finanziare il suo restauro. Ora è di nuovo possibile vedere “La città senza ebrei”, con tutte le scene di malcontento verso gli ebrei, le proteste, gli insulti. E poi le espulsioni, i saluti con bambini in braccio e tanti pianti. Tutte cose che, nel giro di qualche anno, sarebbero passate nella realtà. Solo la fine sarebbe stata diversa: nel film la popolazione della città chiede di riaccogliere gli ebrei, ormai resasi conto di come fossero peggiorate le cose in città senza di loro. Nella realtà lo sappiamo tutti. Anche Bettauer, l’autore del libro, pagò subito per il successo del film. Nonostante il successo nelle sale, la destra politica decise di reagire e Bettauer venne ucciso da un nazista al termine di una campagna di odio mediatico nei suoi confronti. L’uomo se la cavò con una sentenza lieve. Come spiega alla Bbc lo storico Nikolaus Wostry, “Personaggi come Hugo Bettauer cercavano di trovare un clima diffuso di tolleranza, non solo per gli ebrei ma anche per omosessuali e donne lavoratrici”. Non andò così. La destra, maggioritaria in Austria e in Europa, entrò subito in conflitto con lui e con le sue idee. Cosa accadde dopo, è storia nota. Ma, rivedendo il film, non si può più dire che nessuno fosse stato avvertito.

Perché Hitler odiava gli ebrei, scrive il 23 luglio 2018 Lettera 43. Adolf Hitler, tra i personaggi più noti della storia contemporanea, è forse uno degli uomini più folli che l’umanità abbia conosciuto. Ma perché quest’uomo, non tanto alto, con il baffo squadrato e la voce strillante, ce l’aveva così tanto con il popolo ebreo? Perché il suo sogno era lo sterminio delle altre razze, per creare un popolo formato dalla sola “razza pura”? Queste e altre, le domande, che ancora oggi gli studiosi si pongono, sull’uomo dalle mille sfaccettature e dai tanti misteri.

La Germania, una nazione antisemita. L'odio e la rabbia verso il popolo ebreo aveva da sempre aleggiato nel popolo tedesco, ancora prima che Hitler salisse al potere. Basti pensare al cosiddetto "cancelliere di ferro", Bismarck e a Guglielmo II che, con la loro politica d’espansione, diedero vita al cosiddetto “Pangermanesimo", termine di origine polemica francese, denunziante l'espansionismo tedesco che voleva unificare sotto un unico sovrano tutti i popoli di stirpe germanica, proclamando la loro superiorità biologica ed etnica. Il senso di dominio tedesco, come si può ben capire, è stato dunque sempre molto presente in Germania, e Hitler, salendo al potere, si ritrovò in un territorio già fortemente preparato in tal campo.

L'odio di Hitler verso gli ebrei: questioni di razza. Per Hitler e i nazisti, era la “razza ariana” ad essere la migliore, la più forte. Gli ebrei invece erano identificati come razza inferiore, tanto da non essere nemmeno considerati come “esseri umani”. Essi erano considerati infatti:

l'ncarnazione del male sotto ogni punto di vista;

una razza pericolosa per la tranquillità della popolazione tedesca;

portatori di malattie e quindi portatori di morte;

“quelli che hanno crocefisso Gesù”;

un popolo molto ricco, che da sempre avrebbero voluto manovrare tutti i paesi secondo i loro interessi. Questa la versione più recente dell’antisemitismo, inventata dai nazisti per canalizzare e deviare i mille motivi di scontentezza e di rabbia del popolo contro una facile preda e per dare una semplice “spiegazione” alle molte ingiustizie nel mondo che molta gente non riusciva a spiegarsi.

Hitler e lo sterminio degli ebrei: le ragioni personali. Gli ebrei in realtà da sempre hanno fatto parte della vita del Fuhrer: nelle vene di Hitler scorreva sangue ebreo. A tal proposito due, le ipotesi:

la nonna paterna, domestica presso una famiglia di ricchi ebrei avesse avuto una relazione clandestina, con un ebreo appunto, dalla quale sarebbe nato Alois, il padre di Hitler;

la nonna paterna fosse un'ebrea convertita. Il suo cognome, Schicklgruber, era difatti comune fra gli ebrei ai quali, l’imperatrice Maria Teresa concesse la cittadinanza austriaca dopo la loro conversione al cattolicesimo.

Il padre, con il quale il rapporto non fu dei migliori, era dunque per metà ebreo. E fu proprio il rapporto di Hitler con il padre, un ubriacone che in casa era autore di atti di violenza, specialmente contro i figli, a far nascere in lui, quel profondo odio non solo verso di lui, ma verso ciò che lui rappresentava, ovvero il popolo ebreo. A rafforzare la sua convinzione vi fu anche l’aspetto psicologico e sociale che si respirava in quel periodo, durante il quale l’antisemitismo era un fenomeno di intolleranza diffuso in tutta la Germania, nonché le letture antisemite che Hitler ebber modo di fare a Vienna e che fecero gli davano la visione del popolo ebreo come iniziatore del male e capace di sovvertire l’ordine della società, e che aveva come unico scopo, quello di voler governare la Germania al posto dei tedeschi. L’antisemitismo diviene man mano una vera e propria ossessione per Hitler, il suo unico e solo obiettivo, soprattutto dopo la morte del padre. Un forte desiderio di cancellare il suo passato che lo porta a creare “la soluzione finale”: la repressione di ciò che per lui era stata causa di sofferenza. In realtà c'è anche chi, come il «cacciatore di nazisti» Simon Wiesenthal, ha sostenuto che, così tanta avversione fu dovuta al fatto che una prostituta ebrea contagiò il giovane Adolf con la sifilide al tempo del suo soggiorno viennese; e chi invece la riconduce al rancore ad un medico ebreo, Eduard Bloch, che sottopose a cure sbagliate la madre Klara. Ma sarebbero queste, ipotesi molto meno accreditate.

La storia della Shoah inizia da una fake news e finisce con l'Olocausto. Dall'antisemitismo all'Olocausto: ecco come si è arrivati alla pagina più nera della storia dell'umanità, scrive il 26 gennaio 2018 Giuliana Rotondi su Focus. Per "Shoah" comunemente si intende la morte di quasi 6 milioni di Ebrei, uccisi tra il 1939 e il 1945. Un'interpretazione più ampia di Olocausto include anche soldati sovietici morti nei lager (tra i 2 e i 3 milioni), i polacchi (quasi 2 milioni), gli zingari (90.000-220-000), i disabili (150.000), i testimoni di Geova (2.000) e gli omosessuali - il cui dato certo non è noto. In principio furono dicerie: fumosi proclami in nome di una presunta superiorità della razza ariana. Poi, con l'ascesa di Hitler al potere (1933), gli slogan lasciarono posto a leggi discriminatorie. Così, in un crescendo, si arrivò ai ghetti, ai primi massacri e alla pianificazione della famigerata soluzione finale: il progetto che istituiva i campi di sterminio, luoghi deputati alla morte seriale di milioni di ebrei, le principali vittime della Shoah - anche se un'interpretazione più ampia di Olocausto contempla anche altre vittime: Rom, Sinti, comunisti, testimoni di Geova, gay e disabili.

PRIMA DEL III REICH. La propaganda antisemita in Europa non iniziò con il terzo Reich, ma molti secoli prima. In origine aveva basi soprattutto religiose (i cristiani attribuivano agli ebrei la responsabilità della morte di Gesù). Dopo la rivoluzione francese (1789), con la secolarizzazione della società, i partiti nazionalisti diedero all'antisemitismo una connotazione politica: ritenevano gli ebrei responsabili di una cospirazione giudeo-bolscevica che minacciava i valori della società tradizionale cristiana. A gettare benzina sul fuoco fu, nel 1903, la divulgazione di una delle più celebri fake news della storia: i Protocolli dei Savi di Sion, un falso documento "ritrovato" nella Russia degli zar che parlava di una cospirazione ebraica e massonica per impadronirsi del mondo. Il presunto complotto fu poi presentato per la bufala che era nel 1921, dal Times, con alcuni articoli che ne svelavano genesi e falsità. 

CAPRI ESPIATORI. Hitler intercettò l'odio verso gli ebrei e ne fece la sua bandiera politica. Il malcontento in Germania, dopo la disfatta della I Guerra mondiale, stava mettendo a dura prova la tenuta sociale del Paese. Lui ebbe l'intuizione e la capacità di farsene carico e nel suo Mein Kampft (1925) disse di chi era la colpa: principalmente (ma non solo) degli ebrei. "Se gli Ebrei fossero soli su questa terra, essi annegherebbero nella sporcizia e nel luridume, combattendosi ed eliminandosi in lotte gonfie d'odio" scriveva. Il futuro Führer con queste parole sapeva di guadagnare consenso tra un popolo ridotto in miseria e di aprirsi la strada al cancellierato (1933).

DALLE PAROLE AI FATTI. L'obiettivo politico iniziale del regime nazista fu l'allontanamento degli ebrei dal Paese. Il Reich creò quindi le premesse per il loro isolamento. Prima proclamò le cosìddette Leggi di Norimberga (1935), che escludevano gli ebrei dalla vita sociale e dagli incarichi pubblici; tre anni dopo impose la arianizzazione delle attività ebraiche autonome, dei servizi, dell'industria e del commercio. La notte dei cristalli, infine, li segregò: tra il 9 e 10 novembre 1938 su impulso del Ministro della propaganda Goebbels, in Germania, Austria e Cecoslovacchia furono distrutte le sinagoghe, i cimiteri e i luoghi di aggregazione della comunità ebraica. Migliaia di negozi e di case vennero oltraggiate e circa 30.000 ebrei furono privati dei beni e portati in campi di concentramento.

NEI GHETTI. A quel punto, chi potè lasciò il Paese. Chi rimase andò incontro all'inferno. Nel 1939 con l'invasione della Polonia e lo scoppio della II Guerra mondiale la condizione di vita degli ebrei divenne ancora più critica. Molti finirono in ghetti sovraffollati, come quello di Varsavia, istituito nel 1940, che arrivò a contare 400.000 persone in uno spazio di quattro chilometri per due. La vita all'interno del ghetto di Varsavia era terribile: la fame e le malattie decimavano la popolazione, e per qualunque cosa a dominare era la microcriminalità: la presenza dei Judenräte (kapò locali) e di una polizia ebraica al servizio dei tedeschi divideva la comunità in bande fratricide, tra recriminazioni e guerre senza quartiere. Nel frattempo il "commissariato del Reich per la difesa della razza tedesca", guidato dal comandante della polizia Himmler, pianificava le operazioni di pulizia etnica con l'obiettivo di svuotare dagli ebrei la Germania e i nuovi territori annessi (solo in Polonia erano 3 milioni): dove metterli tutti?

IN ETIOPIA O IN MADAGASCAR? Himmler propose di creare una non meglio precisata colonia africana. Recuperò anche un vecchio piano di fine '800 che prevedeva la creazione di una colonia ebrea in Madagascar. Il previsto trasferimento via nave, però, presentava grosse difficoltà. Non ultima il fatto che gli inglesi, che avevano il controllo dei mari, non li avrebbero fatti passare. Mussolini propose un "piano B": la creazione di un territorio autonomo ebraico in Etiopia, che allora era colonia italiana. Probabilmente Hitler non prese neppure in considerazione l'ipotesi. Quello che sappiamo è che con l'avanzare della guerra e con l'invasione dell'Unione sovietica (1941) la situazione precipitò. I ghetti non bastavano più a ospitare i milioni di ebrei residenti nelle regioni orientali: a partire dal luglio 1941 si scatenò così un'ondata di stermini di massa.

LA SOLUZIONE FINALE. Il punto di non ritorno fu raggiunto dopo il 1942, quando durante la conferenza di Wannsee furono decise le modalità della "soluzione finale della questione ebraica". Fu allora che, nella massima segretezza furono creati i "centri di sterminio" di Chełmno, Bełżec, Sobibór, Treblinka, Majdanek, Jasenovac e Auschwitz-Birkenau. Nei campi di sterminio vennero deportati e uccisi circa tre milioni di ebrei (il 90% delle vittime totali), con una "procedura standardizzata" che ricordava il lavoro delle moderne fabbriche. Molti storici lo ritengono un evento senza precedenti: mai fino a quel momento si era pianificata con tanta lucidità la morte di milioni di uomini, donne, vecchi e bambini. La media giornaliera di morti in un campo era di 6.000 persone: chi non veniva gasato, moriva per il troppo lavoro o per gli esperimenti pseudoscientifici cui era sottoposto.

LA FINE DELL'INCUBO. Nonostante i campi di sterminio dovessero rimanere un segreto istituzionale, nei villaggi vicini iniziarono a circolare notizie inquietanti: i fumi delle ciminiere dei crematori di Auschwitz ad esempio erano sempre accesi ed erano visibili fino a 19 chilometri di distanza tra odori nauseabondi che si diffondevano nell'aria. La gente che voleva sapere, iniziò capire. Mentre gli altri chiudevano gli occhi. Dopo il loro arrivo, le forze alleate obbligarono i civili che vivevano nei dintorni dei lager a visitarli e prendere coscienza degli orrori che vi erano stati commessi. Nell'immagine, civili tedeschi costretti a passare accanto ai cadaveri di 30 donne ebree, a Volary, nei Sudeti. Non mancarono casi eroici di persone che si distinsero per coraggio e umanità, mettendo in salvo centinaia di vite, ma sono stati casi sporadici. Nella primavera del 1945, però, anche chi non aveva voluto o potuto vedere, fu costretto ad aprire gli occhi, mentre il mondo si confrontava con l'enormità dell'Olocausto.

Notte dei cristalli, cos'è, scrive il 20 luglio 2018 Lettera 43. Con l'ascesa al potere di Hitler prese il via la propaganda antisemita che, attraverso l'utilizzo di stereotipi e immagini già esistenti, dipingeva gli Ebrei come un "corpo estraneo" che viveva a spese della nazione che li ospitava, avvelenando la sua cultura. Le dimostrazioni pubbliche di antisemitismo assunsero diverse forme, da quelle contenute nei cartelloni pubblicitari a quelle pubblicate dai giornali, o emesse attraverso film e programmi-radio. Gli Ebrei non furono però gli unici ad essere esclusi dalla nuova "comunità popolare", anche i Rom (Zingari), gli omosessuali, i testimoni di Geova e tutti quei Tedeschi considerati geneticamente inferiori o pericolosi per la "salute nazionale" (come persone affette da malattie psichiche o da handicap fisici o mentali) vennero considerati "antinazionali".

Dalle leggi di Norimberga alla notte dei cristalli. La suddetta discriminazione fu ufficialmente sancita il 15 settembre 1935 dalle cosiddette "leggi di Norimberga" che presero il nome dalla città dove furono emanate e che tolsero agli ebrei, e non solo, la parità dei diritti conquistata nel 1848. Le leggi di Norimberga, rappresentanti una fondamentale tappa nel processo che condusse all’Olocausto, erano due:

la legge sulla cittadinanza del Reich, che negava agli ebrei la cittadinanza germanica. Ciò comportò la perdita di tutti i diritti garantiti ai cittadini come, ad esempio, il diritto di voto.

la legge per la protezione del sangue tedesco, che vietava i matrimoni tra ebrei e cittadini di sangue tedesco o affini e le relazioni extraconiugali tra ebrei e cittadini di sangue tedesco o affini.

La discriminazione antisemita subì un'ulteriore accelerazione a partire dal novembre 1938, quando, traendo pretesto dall'uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi per mano di un ebreo, i nazisti organizzarono un grande "pogrom" in tutta la Germania: quella tra il 9 e il 10 novembre 1938 è passata alla storia come "notte dei cristalli" per via delle numerose vetrine di negozi appartenenti agli ebrei che furono infrante dalla furia dei dimostranti. In ventiquattro ore, il bilancio di vittime e distruzioni fu sconvolgente: sinagoghe distrutte, abitazioni devastate, decine ebrei feriti e migliaia uccisi. Da allora in poi la vita degli ebrei rimasti in Germania divenne pressoché impossibile, furono infatti taglieggiati nei loro beni, privati del loro lavoro, accusati di cospirare contro il Reich e dunque minacciati di nuove violenze e misure di repressione.

Hitler e la soluzione finale. Quanto detto, portò al concepimento da parte di Hilter, a guerra mondiale già iniziata, del mostruoso progetto di una "soluzione finale" (in tedesco "Endlösung der Judenfrage"), consistente nella deportazione in massa e nel progressivo sterminio del popolo ebraico a scopo di “purificazione razziale”, in conseguenza al mito, elaborato già agli albori del nazismo, della purezza della razza ariana, minacciata dagli ebrei e in secondo degli zingari, degli omosessuali e degli handicappati. Fu così progettato un articolato sistema, basato sul lager, in cui dapprima i deportati erano sfruttati come forza lavoro e, una volta giunti allo stremo, eliminati nelle camere a gas. Si ricorda inoltre che l'organizzazione di tale sterminio fu affidata alle SS, e i lager vennero principalmente installati in Polonia e in Germania; basti pensare a quelli di Auschwitz, Dachau e Buchenwald.

La notte del cristalli: quando il male divenne assoluto. Quattrocento i morti, 10mila tra vetrine e luoghi di culto distrutti e incendiati, la via che doveva portare ad Auschwitz e alla Soluzione finale fu imboccata in quel momento, scrive Paolo Delgado il 10 Novembre 2018.  Kristallnacht, la Notte dei Cristalli: forse mai nella storia un evento tanto feroce e tanto atroce è stato ricordato con un nome così poetico. Nella notte tra il 9 e il 10 novembre circa 7500 negozi ebrei furono assaltati, distrutti, spesso rasi al suolo, 1400 sinagoghe e Yeshivot, case di studio e preghiera, vennero devastate e incendiate. Le strade delle città tedesche furono cosparse dai vetri dei negozi contro i quali si era scatenato il primo pogrom della Germania nazista: erano quelli i “cristalli”. Gli ebrei furono assaliti spesso anche nelle loro case, aggrediti e picchiati a morte per strada e nelle abitazioni: le vittime accertate furono 91 ma lo storico del nazismo Richard Evans, la cui trilogia sul Terzo Reich è per ora forse la più esaustiva storia della Germania nazista, ritiene che i morti siano stati molti di più: intorno ai 400. La polizia aveva l’ordine di intervenire solo per arrestare le vittime: nella notte e nel giorno seguente, mentre gli attacchi proseguivano e si moltiplicavano, furono presi e spediti nei lager 30mila maschi ebrei tra i 16 e i 60 anni. Anche ai vigili del fuoco era stato ordinato di non muoversi a meno che le fiamme non minacciassero anche edifici ariani. Le sinagoghe e le yeshivot bruciarono letteralmente sotto gli occhi di polizia e pompieri immobili. In compenso Reinhard Heydrich, potentissimo capo dell’SD, il servizio di sicurezza delle SS, si era premurato di mobilitare sia la Gestapo che la Kripo, la polizia criminale, per proteggere tedeschi non ebrei e turisti. Il costo delle vetrine destinate a fissare nella memoria quella tremenda notte fu altissimo e ricadeva spesso sui proprietari degli stabili, quasi tutti “ariani”: 40 milioni di marchi. Furono addebitati agli ebrei, ai quali vennero anche confiscati i risarcimenti delle assicurazioni. Non bastava a compensare i gravissimi danni che la furia del pogrom aveva inflitto all’economia tedesca. Nel vertice dei gerarchi nazisti che si riunì il 12 novembre fu Goering a trovare una parziale soluzione: un miliardo di marchi di multa a carico della comunità ebraica. «Così quei porci ci penseranno bene prima di commettere un secondo omicidio», commentò. Poi aggiunse: «Non vorrei essere un ebreo in Germania di questi tempi». L’omicidio a cui alludeva Hermann Goering era quello del funzionario presso l’ambasciata a Parigi Ernst vom Rath. A sparargli era stato un ebreo diciassettenne, Herschel Grynzspan. Era nato ad Hannover, in una famiglia di ebrei polacchi trasferitisi in Germania nel 1911, ed era arrivato a Parigi due anni prima per sfuggire a una vita quotidiana già flagellata dal razzismo antisemita. Lo aveva spinto a sparare la crisi dei profughi che si era aperta in ottobre tra Germania e Polonia. Il 29 ottobre erano stati espulsi circa 12mila ebrei polacchi residenti in Germania ma la Polonia aveva aperto i confini solo per quelli con i documenti in ordine. Ottomila persone erano rimaste per giorni nella terra di nessuno tra i due confini sbarrati, sotto una pioggia sferzante. Tra loro c’erano i genitori di Herschel, che il 7 novembre aveva deciso di compiere un gesto clamoroso per imporre il dramma degli apolidi ebrei all’attenzione di un mondo che voleva tenere assolutamente gli occhi chiusi. Aveva comprato una rivoltella, si era recato all’ambasciata, aveva chiesto di parlare con l’ambasciatore o con qualche alto funzionario per richiedere il visto per tornare in Germania. L’unico funzionario disponibile in quel momento era vom Rath. Appena entrato nel suo studio Herschel gli aveva sparato cinque colpi, uno dei quali fatale, arrendendosi poi senza opporre resistenza alla polizia francese. Negli ultimi anni uno storico ha avanzato l’ipotesi che tra l’attentatore e la sua vittima ci fosse una relazione omosessuale e che ad armare la mano dell’attentatore fosse stata la passione non la politica. Sporadici attacchi contro sinagoghe in Germania, in quei casi effettivamente spontanei, c’erano stati già il giorno dell’attentato, mentre vom Rath combatteva tra la vita e la morte. Il funzionario spirò il 9 novembre, la data più sacra per i nazional-socialisti, ricorrenza del fallito putsch hitleriano del 1923 a Monaco. Il fuhrer si trovava effettivamente a Monaco per il tradizionale raduno dei vecchi combattenti ma decise di rinunciare al discorso dopo aver saputo della morte del funzionario. Al suo posto parlò Goebbels ed esortò al pogrom: «Il fuhrer ha deciso che non ci saranno manifestazioni organizzate dal partito. Ma se dovessero verificarsi spontaneamente non saranno ostacolate». Contemporaneamente venivano diramati ordini ai Gauleiter per scatenare gli attacchi in tutta la Germania e nell’Austria annessa pochi mesi prima. La disposizione era di evitare le divise delle SA e agire in borghese, mettendo fine agli attacchi entro le 5 del mattino. Contemporaneamente lo Standartenfuhrer delle SS Heinrich Muller inviava un messaggio alle sedi della Gestapo avvertendo degli imminenti assalti e ordinando alla di collaborare con la polizia evitando però i saccheggi. A mezzanotte meno un minuto arrivò la prima telefonata ai vigili del fuoco di Monaco: la vetrina di un negozio ebreo era stata infranta ed era stato appiccato il fuoco alla merce. Appena tre minuti e una seconda telefonata diede un nuovo e più grave allarme, stavolta era in fiamme una sinagoga. Per gli ebrei si erano aperte le porte dell’inferno. Nelle ore seguenti attacchi, incendi, aggressioni, pestaggi, in alcuni casi stupri si verificarono ovunque ci fosse una comunità ebraica. A decidere il pogrom era stato in realtà il solo Goebbels, con il “permesso” del fuhrer. Gli altri gerarchi nazisti restarono spiazzati e furibondi. «Suppongo che la responsabilità di aver iniziato questa operazione in un momento particolarmente difficile sul fronte diplomatico sia della megalomania e della stupidità di Goebbels». Commentò gelido il Rechsfuhrer delle SS Himmler. «Ne ho abbastanza di queste manifestazioni che non danneggiano gli ebrei ma me, in quanto responsabile supremo della tenuta dell’economia», sbottò Goering. In effetti Saul Friedlander, massimo studioso della persecuzione degli ebrei nella Germania nazista, ritiene che a muovere Goebbels fosse la necessità di risollevare le proprie quotazioni agli occhi di Hitler, offuscate dall’irritazione del fuhrer per la sua relazione con l’attrice Lida Baarova. Ma questi sono in realtà particolari. La sterzata dalla discriminazione alla persecuzione che fu inaugurata dalla Kristallnacht era in realtà già scritta, comunque imminente. I primi anni del regime nazional-socialista, dal 1933 al 1936, erano stati durissimi per gli ebrei. I nazisti erano partiti con il boicottaggio dei negozi ebrei già il primo aprile 1933, due mesi dopo essere arrivati al potere. Una settimana dopo era stato il turno della legge che proibiva agli ebrei di lavorare nell’amministrazione pubblica. Da quel momento aggressioni e discriminazioni erano state all’ordine del giorno, il numero dei paesi judenfrei, senza più ebrei, si era moltiplicato. Nel 1935 le leggi di Norimberga avevano privato della cittadinanza gli ebrei e proibito i matrimoni misti. L’obiettivo, allora, era solo spingere gli ebrei ad abbandonare la Germania e aveva avuto successo. Se ne erano andati circa 25mila ogni anno, fino a un quarto dell’intera popolazione ebraica. Ne restavano 300mila, senza contare i mischlinge, i cittadini di sangue misto. Nel 1936, in occasione delle Olimpiadi, però le manifestazioni antisemite erano state quasi messe al bando. Un’atleta ebrea era addirittura salita sul podio col saluto nazista. Anche a giochi olimpici chiusi il clima era rimasto relativamente sereno fino a tutto il 1937.La nuova ondata era iniziata con l’Anschluss, l’annessione dell’Austria. All’improvviso la Germania si era ritrovata con altri 191mila ebrei, problema che si sarebbe riproposto in forma macroscopica durante la guerra, in particolare con l’invasione della Polonia e poi dell’Urss. Il paese razzista che voleva essere judenfrei, contava d’occupazione in occupazione milioni di ebrei al proprio interno, e l’elemento ebbe il suo peso nell’ulteriore passaggio dalla persecuzione allo sterminio. Anche prima del grande pogrom il ‘38 era stato un anno terribile. Erano riprese le aggressioni per le strade, in giugno era stata incendiata la grande sinagoga di Monaco, in agosto quella di Norimberga. Il 17 agosto era stato cambiato il nome di tutti gli ebrei: doveva sempre essere preceduto da Israel per i maschi, Sara per le femmine. In settembre arrivò la proibizione di esercitare per gli avvocati ebrei, in ottobre il ritiro dei passaporti sostituiti da una speciale carta d’identità. Ma la Notte dei Cristalli fu il punto di non ritorno. Pochi giorni dopo, il 15 novembre, gli ebrei furono cacciati dalle scuole. A fine mese le varie autorità locali si videro riconosciuto il potere di imporre il coprifuoco per gli ebrei. In dicembre fu vietato loro l’accesso a gran parte degli spazi pubblici tedeschi. La “soluzione finale” era ancora lontana. Ma la via che doveva portare ad Auschwitz fu imboccata quella notte.

L’ANTISEMITISMO ITALIANO.

Leggi razziali, 80 anni fa la nascita del razzismo di Stato in Italia. Cos'erano e perché è importante ricordare i provvedimenti contro gli ebrei che portarono il nostro paese a condividere le responsabilità della Shoah, scrive Eleonora Lorusso il 5 settembre 2018 su "Panorama". Nel settembre del 1938 l'Italia fascista varò le leggi razziali, firmate senza battere ciglio dal re Vittorio Emanuele III, che macchiò per sempre di infamia Casa Savoia.

Le leggi razziali in Italia. Il Regime di Benito Mussolini, con il Regio Decreto del 5 settembre del '38, si adeguò di fatto alla legislazione antisemita della Germania nazista, che fin dal 1933, anno dell'ascesa al potere del Führer, varò una serie di provvedimenti contro gli ebrei, che portarono all'Olocausto, ovvero il genocidio di 6 milioni di persone, compresi donne e bambini, ricordati con la Giornata della Memoria, il 27 gennaio.  Nel 1933 si stima che ci fossero 13 milioni di ebrei in Europa, dei quali circa 40.000 in Italia. Anche questi diventarono progressivamente vittime di un "razzismo di Stato", prima tramite leggi discriminatorie a livello sociale ed economico, poi con la violenza vera e propria.

I primi provvedimenti. Anche dopo l'introduzione delle prime norme anti-semite in Germania, in Italia non si assisteva ancora a forme di discriminazione. Dopo che i Patti Lateranensi avevano definito l'ebraismo come culto ammesso, il governo fascista nel 1930 emanò la Legge Falco, che istituiva e rendeva obbligatoria l'iscrizione all'Unione delle comunità ebraitiche italiane, vista con favore però degli ebrei come forma di semplificazione burocratica. Fu, invece, nel 1938 che la situazione cambiò profondamente. Il 14 luglio viene redatto il primo il primo documento che parlava ufficialmente di "razza ariana italiana". Era redatto da 10 docenti universitari di Neuropsichiatria, Pediatria, Antropologia, Demografia e Zoologia, e tra i firmatari figuravano anche Giorgio Almirante, Giorgio Bocca, Giuseppe Bottai, Giovanni Gentile, Giovanni Papini, Amintore Fanfani, accanto a Pietro Badoglio, Emilio Balbo e Galeazzo Ciano.

La nascita della "razza ariana italiana". Il testo era diviso in punti e sanciva alcuni concetti ritenuti fondamentali:

1) Le razze umane esistono; 

2) Esistono grandi razze e piccole razze; 

3) Il concetto di razza è un concetto puramente biologico. Esso quindi è basato su altre considerazioni che non i concetti di popolo e di nazione, fondati essenzialmente su considerazioni storiche, linguistiche, religiose; 

4) La popolazione dell'Italia attuale è nella maggioranza di origine ariana e la sua civiltà è ariana. 

Al punto 5 si definiva "leggenda l'apporto di masse ingenti di uomini in tempi storici", affermando che "dopo l'invasione dei Longobardi non ci sono stati in Italia altri notevoli movimenti di popoli capaci di influenzare la fisionomia razziale della nazione; 

6) Esiste ormai una pura "razza italiana"; 

7) E' tempo che gli Italiani si proclamino francamente razzisti;  

8) È necessario fare una netta distinzione fra i Mediterranei d'Europa (Occidentali) da una parte, e gli Orientali e gli Africani dall'altra; 

9) Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto. Anche l'occupazione araba della Sicilia nulla ha lasciato all'infuori del ricordo di qualche nome; e del resto il processo di assimilazione fu sempre rapidissimo in Italia. Gli ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani.

10) I caratteri fisici e psicologici puramente europei degli Italiani non devono essere alterati in nessun modo.

La discriminazione a scuola, nel lavoro e nella società. Dalla definizione di razze alla discriminazione ed espulsione di cittadini (e bambini) ebrei dalla vita sociale e dal mondo lavorativo e scolastico il passo fu breve. Con la Disciplina dell'esercizio delle professioni da parte di cittadini di razza ebraica, del 29 giugno del 1939, venivano imposte limitazioni e divieti, in particolare per chi era "giornalista, medico-chirurgo, farmacista, veterinario, ostetrica, avvocato, procuratore, patrocinatore legale, esercente in economia e commercio, ragioniere, ingegnere, architetto, chimico, agronomo, geometra, perito agrario, perito industriale". Con il Regio decreto legge N.1728 nel novembre 1938 (Provvedimenti per la Difesa della Razza Italiana) si stabilì poi il divieto di matrimoni misti tra ebrei e "cittadini italiani di razza ariana". Proibito anche prestare servizio militare o come domestici presso famiglie non ebree; possedere aziende con più di 100 dipendenti, essere proprietari di terreni o immobili oltre un certo valore; essere dipendenti di amministrazioni, enti o istituti pubblici (quindi anche scuole di ogni grado), banche di interesse nazionale o imprese private di assicurazione. Venivano fatte eccezioni per i familiari di caduti nelle "guerre libica, mondiale, etiopica e spagnola, e caduti per la causa fascista"; mutilati, invalidi, volontari di guerra o decorati, iscritti al Partito Fascista della prima ora, legionari di Fiume o per coloro che avevano ottenuto benemerenze eccezionali. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, esattamente il 13 dicembre 1943, iniziò anche per gli ebrei italiani il periodo di deportazione e sterminio.

L'esempio della Germania. Le leggi razziali italiane seguirono l'esempio di quelle tedesche, emanate a partire dal 1933 e proseguite tra il '35 e il '38. Si iniziò con la Legge per il rinnovo dell'Amministrazione Pubblica, che pensionava gli impiegati pubblici non di discendenza ariana. Seguirono le leggi per la protezione dei caratteri ereditari, del sangue e dell'onore tedesco, oltre a quelle sulla cittadinanza, sui nomi, sul passaporto degli Ebrei, fino all'Ordinanza per l'esclusione dall'economia tedesca per questi ultimi.

Cibo razionato per i bambini. A gennaio del 1942, la Conferenza di Wannsee discusse invece della "Soluzione Finale" della questione ebraica, mentre il 18 settembre del 1942 venne emanato un Decreto per il razionamento alimentare per gli Ebrei, che vietava loro di ricevere carne e prodotti derivati, uova, farinacei (dolci, pane bianco, panini, fecola di grano, ecc) e latte fresco. Le uniche eccezioni erano ammesse per bambini e ragazzi ebrei fino ai 10 anni, che potevano ricevere la razione di pane uguale a quella dei "normali consumatori" e per i bambini ebrei fino ai 6 anni d'età, che potevano contare sulla razione di grassi assegnata ai coetanei tedeschi, ma senza sostituti del miele e senza cacao in polvere. I ragazzi di età compresa dai 6 ai 14 anni non ricevettero invece più il supplemento di marmellata, mentre i bambini ebrei sino ai 6 anni continuarono a poter avere mezzo litro di latte fresco scremato al giorno.  

Le recenti polemiche: da Vittorio Emanuele III ad Attilio Fontana. Il 17 dicembre scorso è rientrata in Italia la salma dell'ex re Vittorio Emanuele III, non senza polemiche: la Comunità ebraica italiana ha espresso "profonda indignazione", ricordando l'ex re come "complice di quel regime fascista di cui non ostacolò l'ascesa", colui che "avallò le leggi razziali" e che con quell'atto ha "gettato discredito e vergogna su tutto il paese", come spiegato da Noemi Di Segni. E' di pochi giorni fa, invece, la bufera scatenata dalle parole del candidato di centrodestra alla Presidenza della Regione Lombardia. Attilio Fontana, parlando di immigrazione, ha sostenuto la necessità di difendere la "razza bianca" dall'invasione di migranti. Dopo essersi scusato per "l'espressione sbagliata" ha anche ricordato la Costituzione ("È la prima a parlarne")...Il riferimento è all'articolo 3, che però recita: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.

Le leggi razziali e la loro voce: "La Difesa della Razza" (1938-1943). Diretto da Telesio Interlandi, il periodico fu strumento di divulgazione dell'antisemitismo e delle teorie razziste del fascismo, alle quali si cercò di dare una pretesa base scientifica, scrive Edoardo Frittoli il 5 settembre 2018 su "Panorama". Il primo numero del quindicinale "La Difesa della Razza" uscì esattamente un mese prima della firma delle leggi razziali, il 5 agosto del 1938. Il 14 luglio precedente fu stilato il "manifesto degli scienziati razzisti", effetto della sempre più stretta omologazione ideologica con la Germania nazista. Tra i firmatari più eminenti tra gli accademici italiani furono il patologo Nicola Pende, l'antropologo Lidio Cipriani, il demografo Franco Savorgnan, lo zoologo Edoardo Zavattari, il neuropsichiatra Arturo Donaggio. Secondo alcune fonti il testo del manifesto sarebbe stato dettato dallo stesso Mussolini e affermava l'esistenza delle diverse razze umane secondo una classificazione che pretendeva di basarsi sull'esperienza scientifica. Uno dei primi articoli del manifesto accusava gli Ebrei per la loro pretesa di ritenersi una razza separata e superiore alle altre, con l'aggravante politica di aver costituito la spina dorsale dell'antifascismo. La rivista quindicinale "La Difesa Della Razza", fortemente voluta da Mussolini in funzione divulgativa delle teorie razziste nella cultura e nell'educazione degli Italiani doveva riprendere, approfondire e sviluppare i temi contenuti nel manifesto razzista, dopo essere stata legittimata, rafforzata e resa autorevole dalla firma delle leggi del settembre 1938.

Il razzismo in rotativa. Stampato a Roma dall'editore Tumminelli, il quindicinale fu diretto sin dal primo numero da Telesio Interlandi, già direttore del fasciatissimo quotidiano "Il Tevere". Intransigente verso alcuni degli esponenti più moderati degli anni del regime fascista come Balbo, Bottai e Piacentini, Interlandi espresse sulle pagine della rivista il punto di massima adesione ed omologazione al razzismo nazionalsocialista, tanto da ricevere durante gli anni della direzione alcuni rimproveri di Mussolini che desiderava distinguere il razzismo italiano da quello hitleriano. Un altro eccesso nella linea editoriale di Interlandi fu la scelta estrema di abbracciare un approccio zoologico alla teoria delle razze umane, facendo inorridire gli antropologi e aprendo un delicato fronte con la Chiesa cattolica. Nel primo numero de "La Difesa della Razza", diffuso in circa 150mila copie, era riportato integralmente il testo del Manifesto degli scienziati razzisti con una grafica chiara ed ordinata. Il punto focale degli articoli si concentrava sulla teorizzazione dell'esistenza biologica delle razze umane e di conseguenza dichiarava l'esistenza di una "pura razza italiana" di origine ariano-nordica non ben definita in termini scientifici. Tra le piccole e grandi razze europee non poteva naturalmente figurare alcuna contaminazione dall'Africa. Nel caso ad esempio dell'invasione araba della Sicilia, i redattori del manifesto si premurarono sin da subito di escludere ogni tipo di mescolanza rimasta attraverso i secoli. La volontà enunciata nelle pagine di apertura del primo numero del quindicinale era certamente quella di dare una base biologica ed ereditaria al carattere antropologico della popolazione italiana, senza dimenticare l'aspetto psicologico relativo alla formazione di una consapevolezza collettiva dell'appartenenza ad una nobile razza ariana. Per quanto riguarda gli Ebrei, il manifesto li indicava come non appartenenti alla razza italiana. Anche in questo caso l'affermazione non presentava basi scientifiche ma piuttosto la diseguaglianza si sarebbe sviluppata per una sorta di segregazione naturale dovuta alle antiche origini non-europee dei semiti.

Italiani, gente ariana. All'interno del numero 1 del periodico si affronta anche la questione delle popolazioni, o meglio razze, del continente africano con particolare attenzione alle popolazioni indigene delle colonie dell'Impero fascista. Altra teoria razzista enunciata già dal primo numero della rivista sarà quella del sangue. La divisione pseudo-scientifica delle razze umane si basava, secondo gli accademici del manifesto, sulla presunta analisi della distribuzione etnico-geografica dei gruppi sanguigni. Naturalmente la razza italiana sarebbe biologicamente analoga (teoria mancante di ogni prova scientifica abbinata) alle più pure razze ariane germaniche e scandinave. Durante gli anni della diffusione de "La Difesa della Razza", sulle pagine del giornale furono colpiti, oltre agli Ebrei, anche le razze "inquinate dal meticciato" in cui si pretese di dimostrare scientificamente il pericolo della progressiva corruzione dell'arianesimo dovuta all'origine aggressiva dei caratteri delle razze inferiori contaminanti.

L'antisemitismo per tutti. La grafica semplice e curata del quindicinale volle "aiutare" gli italiani nel processo di assimilazione dell'odio antisemita con tavole e vignette che sintetizzavano le malefatte degli Ebrei e ribadivano i divieti e le restrizioni dettati dalle leggi promulgate nel settembre 1938. Molte e variegate furono le firme che si avvicendarono sulle pagine del periodico razzista: spicca quella di Julius Evola, poi escluso da Interlandi per avere introdotto teorie vicine al razzismo esoterico caro al Terzo Reich ma sgradito agli "scienziati" fascisti e per l'esplicito desiderio di Mussolini di mantenere separati nell'approccio l'antisemitismo germanico da quello italiano. A "La Difesa della Razza" collaborarono nomi importanti della politica italiana nel dopoguerra. Tra questi ultimi figurano Giovanni Spadolini e Amintore Fanfani, tra i grandi giornalisti dell'Italia repubblicana Indro Montanelli. Per alcuni anni il segretario di redazione sarà Giorgio Almirante che- come il direttore Interlandi- diventerà esponente di primo piano del Ministero della Cultura Popolare della RSI.

La fine delle pubblicazioni e la caduta del Fascismo. L'ultimo numero del quindicinale uscì il 20 giugno del 1943, un mese prima dell'arresto di Mussolini. Lo stesso Interlandi fu catturato e rinchiuso nelle carceri del Forte Boccea di Roma. Fuggito dopo l'occupazione tedesca della Capitale, fu attivo come responsabile della propaganda radiofonica della Repubblica Sociale per l'Italia Liberata. Sarà arrestato nuovamente dopo una breve latitanza nelle campagne del bresciano l'11 ottobre 1945. Sarà graziato per gli effetti dell'amnistia Togliatti l'anno successivo. Morirà 20 anni dopo a Roma, nel 1965, portando con sè nella tomba il terribile bagaglio della corresponsabilità per aver sostenuto e divulgato quelle idee che formarono la base pseudo-scientifica dell'Olocausto degli Ebrei italiani.

L'Italia ebbe le leggi razziali. Ma non fu mai antisemita. Hannah Arendt e Gideon Hausner, procuratore generale al processo contro Eichmann, elogiarono il comportamento del nostro Paese. Che in pratica ignorò il diktat nazista, scrive Marcello Veneziani, Lunedì 27/01/2014, su "Il Giornale". Oggi è il Giorno della Memoria anche se da dieci giorni se ne parla ampiamente sui giornali e in tv. Non ha torto Elena Loewenthal, studiosa di cultura ebraica, a scrivere un libretto Contro il giorno della memoria e a proporre un intenso silenzio più che una così retorica esibizione a settant'anni dalla Shoah. Per la ricorrenza sarà proiettato oggi e domani in alcune città il film di Margarethe von Trotta dedicato ad Hannah Arendt, la principale studiosa ebrea del nazismo e dei regimi totalitari, sfuggita alle persecuzioni naziste. Il film trae spunto dal celebre testo della Arendt, La banalità del male (edito da Feltrinelli), nato dai suoi reportage per il processo al nazista Adolf Eichmann, cinquant'anni fa in Israele. La banalità del male è importante anche per le pagine dedicate agli italiani in relazione alle deportazioni. Scrive la Arendt: «L'Italia era uno dei pochi paesi d'Europa dove ogni misura antisemita era decisamente impopolare». Infatti, aggiunge, «l'assimilazione degli ebrei in Italia era una realtà». La condotta italiana «fu il prodotto della generale spontanea umanità di un popolo di antica civiltà». Un popolo che dai tempi dei Romani conviveva con gli ebrei, e continuò a conviverci, con alti e bassi, anche all'ombra della Chiesa cattolica e del Papa re pur nella considerazione degli ebrei come popolo deicida. «La grande maggioranza degli ebrei italiani - scrive la Arendt - furono esentati dalle leggi razziali», concepite da Mussolini «cedendo alle pressioni tedesche». Perché gran parte degli ebrei erano iscritti al Partito fascista o erano stati combattenti, nota la Arendt, e i pochi ebrei veramente antifascisti non erano più in Italia. Persino il più razzista dei gerarchi, Roberto Farinacci, «aveva un segretario ebreo». Si potrebbe ricordare il concordato del 1931 tra lo Stato fascista e la comunità israelitica italiana, accolto con soddisfazione dagli ebrei. A guerra intrapresa «gli italiani col pretesto di salvaguardare la propria sovranità si rifiutarono di abbandonare questo settore della loro popolazione ebraica; li internarono invece in campi, lasciandoli vivere tranquillamente finché i tedeschi non invasero il paese». E quando i tedeschi arrivarono a Roma per rastrellare gli ottomila ebrei presenti «non potevano fare affidamento sulla polizia italiana. Gli ebrei furono avvertiti in tempo, spesso da vecchi fascisti, e settemila riuscirono a fuggire». Alcuni con l'aiuto del Vaticano. Le stesse tesi aveva espresso al processo Eichmann il procuratore generale Gideon Hausner, il quale definì l'Italia «la nazione più cara a Israele». I nazisti, aggiunge la Arendt, «sapevano bene che il loro movimento aveva più cose in comune con il comunismo di tipo staliniano che col fascismo italiano e Mussolini, dal canto suo, non aveva molta fiducia nella Germania né molta ammirazione per Hitler». L'Italia fascista, secondo la studiosa ebrea, adottò nei confronti dei rastrellamenti un sistematico «boicottaggio». Nota la Arendt: «il sabotaggio italiano della soluzione finale aveva assunto proporzioni serie, soprattutto perché Mussolini esercitava una certa influenza su altri governi fascisti, quello di Pétain in Francia, quello di Horthy in Ungheria, quello di Antonescu in Romania, quello di Franco in Spagna. Finché l'Italia seguitava a non massacrare i suoi ebrei, anche gli altri satelliti della Germania potevano cercare di fare altrettanto... Il sabotaggio era tanto più irritante in quanto era attuato pubblicamente, in maniera quasi beffarda». Insomma il caso di Giorgio Perlasca, il fascista che salvò cinquemila ebrei, non fu isolato. Quando il fascismo, allo stremo della sua sovranità, cedette alle pressioni tedesche, creò un commissariato per gli affari ebraici, che arrestò 22mila ebrei, ma in gran parte consentì loro di salvarsi dai nazisti, come scrive la studiosa ebrea. Nota la Arendt, perfino eccedendo, che «un migliaio di ebrei delle classi più povere vivevano ora nei migliori alberghi dell'Isère e della Savoia». Insomma «gli ebrei che scomparvero non furono nemmeno il dieci per cento di tutti quelli che vivevano allora in Italia». Si può dire che morirono più italiani nelle foibe comuniste che ebrei italiani nei campi di sterminio? Odiosa contabilità, ma per amore di verità va detto. Certo, la Shoah nel suo complesso è una catastrofe imparagonabile. Anche per gli storici israeliti Leon Poliakov e George Mosse l'Italia boicottò le deportazioni naziste e protesse gli ebrei. Le origini culturali dell'antisemitismo per la Arendt sono riconducibili a leader, movimenti e ideologi di sinistra. Ne “Le origini del totalitarismo” ricorda che fino all'affaire Dreyfus in Francia, «le sinistre avevano mostrato chiaramente la loro antipatia per gli ebrei. Esse avevano seguito la tradizione dell'Illuminismo, considerando l'atteggiamento antiebraico come una parte integrante dell'anticlericalismo». In Germania, ricorda, i primi partiti antisemiti furono i liberali di sinistra, guidati da Schönerer e i socialcristiani di Lueger. Non si tratta di assolvere regimi né di cancellare o relativizzare le leggi razziali del '38 che infami erano e infami restano. Né si tratta di salvare il fascismo dal nazismo e dal razzismo, ma di riconoscere la pietà e la dignità del popolo italiano, che in quella tragedia si comportò con più umanità. Magari in altri casi no, si pensi alla guerra civile, al triangolo rosso, alle stragi d'innocenti o di vaghi sospettati; ma nel Giorno della Memoria della Shoah, ricordiamoci che gli italiani furono meno bestie di tanti altri. Per una volta non denigriamoci. Quanto alla Arendt, fu dura per lei la sorte di apolide, straniera nella sua terra natia, la Germania, poi vista con diffidenza per la sua relazione giovanile con Heidegger, quindi detestata dalla sinistra per la sua critica al totalitarismo e al comunismo, e pure in aperto conflitto col mondo ebraico. Dopo aver letto La banalità del male lo studioso di mistica ebraica Gershom Scholem la accusò (il carteggio è riportato in fondo a Ebraismo e modernità, edito da Feltrinelli) di avversare il sionismo e di non amare gli ebrei. «Io non amo gli ebrei - rispose lei - sono semplicemente una di loro». Una lezione di verità per tutti.

Il concordato dimenticato tra ebrei e fascisti, scrive Marcello Veneziani su Il Giornale il 27 gennaio 2015. Se questa è la Giornata della Memoria, è giusto ricordare oltre le sciagurate leggi razziali e gli orrori della Shoah, un evento positivo e obliato che riguardò gli ebrei e lo Stato italiano, nel 1930. Fu il Concordato tra Stato fascista ed ebrei. Lo Stato pontificio e poi lo Stato laico e liberale non avevano riconosciuto giuridicamente la comunità israelitica in Italia; lo fece il regime di Mussolini. Fu insediata una commissione paritaria, tre rappresentanti ebrei e tre giuristi per lo Stato italiano. In particolare se ne occupò un giurista cattolico liberale, Nicola Consiglio, che aveva avuto un ruolo importante nei Patti Lateranensi (è stato pubblicato il suo diario a cura di Luca de Ceglia). Consiglio elaborò la legge che portò al pieno riconoscimento delle comunità israelitiche. Scrive Renzo De Felice: «Il governo fascista accettò pressocchè in toto il punto di vista ebraico». A legge varata, il presidente del consorzio ebraico, Angelo Sereni, telegrafò a Mussolini «la vivissima riconoscenza degli ebrei italiani» e sulla rivista Israel Angelo Sacerdoti definì la nuova legge “la migliore” fra quelle emanate dagli stati. Consiglio ricevette una medaglia d’oro dalla Comunità ebraica. Poi arrivarono le sanzioni economiche per l’impresa d’Etiopia, quindi l’alleanza con Hitler e le infami leggi razziali. Poi nell’Italia antifascista, il presidente del nefasto tribunale della razza, Gaetano Azzariti, diventò collaboratore di Togliatti e Presidente della Corte Costituzionale… Gli assurdi testacoda della storia.

CRISTIANI ED EBREI. UN CONFLITTO LUNGO DUE MILLENNI.

Vittorio Feltri il 14 Settembre 2018 su "Libero Quotidiano" contro David Parenzo: "L'unico ebreo del tutto fesso". Sono un estimatore di Giuseppe Cruciani, conduttore principe della radiofonica Zanzara, programma di successo. E noi abbiamo il privilegio di averlo quale collaboratore, autore di pregevoli articoli che pubblichiamo con soddisfazione nostra e dei lettori. Ciò detto, ci giunge notizia che la ex ministro Kyenge è stata ospite della trasmissione durante la quale, come è suo costume, ha dichiarato che un individuo di colore oggi in Italia deve avere paura. Di chi? Di tutti noi che siamo razzisti. Se questa sua affermazione fosse fondata, le chiederei sommessamente, perché allora centinaia di migliaia di africani continuano a voler sbarcare nel nostro Paese? Se vengono qui in massa, pur consapevoli che siamo crudeli con i neri, mi domando come mai costoro non cessino un istante di tentare lo sbarco sulla penisola. Io se sapessi che in Senegal mi detestano, eviterei di recarmi laggiù. Mi sembra logico stare lontano da popoli inospitali e pronti ad aggredirmi. Viceversa i signori di pelle scura, pur dicendo di essere odiati da queste parti, non smettono di chiederci ospitalità. E il bello, anzi il brutto, è che seguitiamo ad accoglierli e a mantenerli ovviamente a nostre spese. O siamo scemi noi, più probabilmente, o sono scemi loro che corrono in bocca al lupo. Un lupo talmente buonino che non sbrana alcuno, come risulta dalle statistiche, ignorate da madame Kyenge. La quale avrebbe l'obbligo di rivelarci quanti negri abbiamo ucciso o almeno pestato. I dati ufficiali sono a disposizione di chiunque li voglia compulsare: gli episodi di razzismo nella nostra patria si contano sulle dita di due mani. Se su 60 milioni di connazionali, i razzisti sono una ventina - esagero - significa che accusarli in massa di xenofobia è una idiozia macroscopica che contrasta con i dati statistici. Non importa: il cervello della Kyenge forse non è in grado di elaborare in chiave sociologica i numeri ufficiali. Poco male. E non sorprende neppure il fatto che David Parenzo, aiutante di battaglia di Cruciani, sostenga questo concetto: Libero scrive che ci becchiamo le malattie quale la tubercolosi a causa degli immigrati, mentre nel Paese aumenta l'idiozia in quanto aumentano i nostri lettori. Però, che arguzia. La tubercolosi non viene dal continente nero, bensì da Zurigo o da Stoccolma. Simile idea può maturare soltanto nella testa di un cretino, con rispetto parlando. Difatti Parenzo è l'unico ebreo sciocco che abbia mai conosciuto. Non è cattivo, figuriamoci: è semplicemente privo di neuroni sufficienti per capire la realtà. In ciò è simile alla sua amica Kyenge, ex ministro inadeguato alla integrazione. Noi di Libero non disprezziamo né l'uno né l'altra: li compatiamo. P.s. Alla ex ministra scura di pelle raccomandiamo di pulire la cacca del suo simpatico cane anziché incolpare altri di spargere merda intorno a casa. Vittorio Feltri

Roma e gli ebrei, una storia lunga 22 secoli. Il libro di Riccardo Calimani, La Città eterna degli ebrei. La storia dei «giudii» a Roma dall’antichità al Novecento e alle leggi razziali in un volume pubblicato da Mondadori: ventidue secoli di aperture e feroci conflitti, scrive Gian Antonio Stella l'8 ottobre 2018 su "Il Corriere della Sera". «Lunedi i soliti 8 ebrei corsero ignudi il palio loro favoriti da pioggia, vento et freddo degni di questi perfidi, mascherati di fango al dispetto delle gride. Dopo queste bestie bipede correranno le quadrupede domani». Rileggiamo: «queste bestie bipede». Bastano queste righe pubblicate negli «Avvisi di Roma» del 16 febbraio 1583 per capire quanto fossero radicate le ostilità anti-ebraiche nella Città eterna che ottant’anni fa si adeguò silente, per non dire di peggio, alle leggi razziali del 1938 che avrebbero aperto la strada, cinque anni dopo, alla retata nazista. Per oltre due millenni, infatti, come documenta lo storico Riccardo Calimani nella Storia degli ebrei di Roma. Dall’antichità al XX secolo appena edita da Mondadori, i rapporti tra i romani e «li giudii» erano stati segnati da periodi di conflitti e aperture, aperture e conflitti. Dalla lettera del 325 di Costantino a tutte le Chiese dell’impero («Vi esorto pertanto a non serbare nulla in comune con l’odiosissima turba giudaica») all’ordine agli ebrei di portare una «rotella gialla» sul petto, dalla bolla di Paolo IV Cum nimis absurdum che istituì il Ghetto di Roma alle «prediche coatte», dalle feste per la Breccia di Porta Pia (vista da qualche ebreo come «il Giorno in cui il Signore ha tratto il suo popolo fuori dal crogiolo delle sofferenze, portandolo da schiavitù in libertà») fino alle virtuose solidarietà e alle odiose complicità negli anni della «Difesa della Razza». Nulla però spiega cosa rimestasse per secoli nella pancia del popolino quanto le infami bravate del carnevale romano, cancellato per i troppi eccessi solo da Clemente IX nel 1667. Bravate dedicate in larga parte, come ricordano quelle del marchese del Grillo, agli ebrei. «Giudate», le chiama Giovanni Mario Crescimbeni, fondatore dell’Accademia dell’Arcadia, nell’Istoria della volgar poesia: «Giudate perciocché in esse non si tratta d’altro che di contraffare e schernire gli Ebrei in istranissime guise, ora impiccandone per la gola, ora strangolandone e facendone ogn’altro più miserabil giuoco». Ed ecco «l’ebreo dentro la botte rotolato dalla plebaglia» raffigurato nella celebre incisione di Bartolomeo Pinelli. Il rito umiliante del calcio nelle natiche al Gran Rabbino prostrato davanti al «Senatore». La sommossa che scoppia, raccontata nel Meo Patacca, alla notizia (falsa) degli ebrei alleati dei turchi nell’assedio a Vienna: «Sul mezzo dì, pe’ la città si sparze / sta nova appena, e la sentì la plebbe / ch’arrabbiata de collera tutt’arze / e li Giudii già lapidà vorrebbe…». «Gli ebrei non appartengono alla razza italiana. Dei semiti che nel corso dei secoli sono approdati sul sacro suolo della nostra Patria nulla in generale è rimasto», dice il «Manifesto degli scienziati razzisti» pubblicato il 5 agosto 1938 nel primo numero de «La Difesa della Razza»: «Gli ebrei rappresentano l’unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani». In realtà, spiega Calimani, «gli ebrei vivevano a Roma probabilmente ben prima della seconda metà del II secolo a.C. quando, in particolare tra il 161 e il 165, Roma e Gerusalemme cominciarono ad avere i primi contatti politici ufficiali». Molti altri si aggiunsero dopo le campagne di Pompeo con «l’arrivo di numerosi ebrei ridotti in schiavitù, sia a causa delle annessioni romane di territori dell’Asia minore, della Siria e dell’Egitto, dove esistevano comunità ebraiche molto numerose, sia a causa dell’occupazione della stessa Giudea». In città, «molti dei nuovi arrivati andarono a vivere in quartieri assai popolosi: gli ebrei erano numerosi nell’isola Tiberina, tant’è che al ponte Cestio fu dato il nome di pons Iudaeorum…». E non c’era solo il Ponte dei Giudei. Via via, infatti, come ricorda lo storico capitolino Claudio Rendina, si aggiunsero Piazza Giudia, l’Ortaccio degli Ebrei («detto anche de’ Giudei, sprezzante definizione del cimitero israelita alle falde dell’Aventino»), un altro Campo Giudeo a Trastevere, la Piazza delle Scòle, dove avevano sede ben cinque scuole ebraiche… Già ai tempi del consolato di Marco Tullio Cicerone, scrive Calimani, «secondo alcune fonti gli ebrei che vivevano in città erano circa 50-60.000, su una popolazione di quasi un milione di abitanti». E insomma tutta la storia degli ebrei, quando il fascismo scelse di cavalcare il razzismo, era intrecciata da oltre ventidue secoli con la storia della città Caput Mundi. Di famiglia ebraica era Tito Flavio Giuseppe, nato col nome di Yosef ben Matityahu, lo storico che dopo esser finito a Roma come prigioniero entrò nelle grazie di Vespasiano, di cui prese il nome gentilizio, per vivere fino alla morte alla corte imperiale. E così Pietro Pierleoni, eletto Papa (ma considerato antipapa) nel 1130 col nome di Anacleto II contro Innocenzo II imposto dai Frangipane. E Sidney Sonnino, romano d’adozione, più volte ministro nonché presidente del Consiglio del Regno. E il grande sindaco capitolino Ernesto Nathan che a settant’anni fu il più vecchio dei volontari decisi a combattere nella Grande guerra. Alla quale parteciparono non solo patrioti di famiglia ebraica ma addirittura dei «rabbini militari» mandati al fronte per tener su il morale ai soldatini fedeli al Talmud… Ne avevano passate tante, gli ebrei romani, già prima del 1938. Ma in quell’annus horribilis tirava un’aria davvero fetida. Scrive Calimani: «Sui giornali, per esempio sul “Popolo” di Torino, si potevano leggere articoli in cui comparivano affermazioni come: “Diecimila volontari ebrei nelle file dei rossi spagnoli”. Oppure sulla “Sera” di Milano si poteva trovare un titolo di questo tipo: “I figli dei matrimoni misti con gli ebrei sono predisposti alla tubercolosi”. Il 12 gennaio, sul “Regime Fascista”, Roberto Farinacci aveva scritto: “Chiediamo che i 43 milioni di italiani cattolici abbiano in tutti i centri più delicati dello Stato e della vita della Nazione i propri legittimi rappresentanti; essendo gli ebrei quasi la millesima parte della popolazione, bisognerebbe concludere che su mille posti uno spetterebbe agli ebrei, novecentonovantanove ai cattolici”». Va da sé che nella piccola comunità israelita montasse di giorno in giorno la paura. Pio XI, certo, non era d’accordo con questi sedicenti «cattolici» fascisti. Basti rileggere la parole nette che usò il 28 luglio 1938 davanti agli alunni del Pontificio collegio urbano De Propaganda Fide, che erano più di duecento e arrivavano da trentasette Paesi: «Il genere umano non è che una sola e universale razza di uomini. Non c’è posto per delle razze speciali… La dignità umana consiste nel costituire una sola e grande famiglia, il genere umano, la razza umana. Questo è il pensiero della Chiesa». Non bastasse, fece pubblicare sull’«Osservatore Romano» una chiusa: «Ci si può chiedere quindi come mai, disgraziatamente, l’Italia abbia avuto bisogno di andare ad imitare la Germania». Il Duce, arrogante, rispose nel discorso a Trieste del 18 settembre: «Coloro i quali fanno credere che noi abbiamo obbedito ad imitazioni, o peggio, a suggestioni (di Hitler), sono dei poveri deficienti…». Cinque anni dopo dalla Tiburtina partivano i vagoni per Auschwitz. Oltre all’ottantesimo delle leggi razziali, che vennero introdotte dal regime fascista a partire dal settembre 1938, fino ai provvedimenti organici del successivo novembre, ricorre sempre in questi giorni il settantacinquesimo anniversario della razzia nel ghetto ebraico di Roma, compiuta dalle SS di Herbert Kappler il 16 ottobre 1943 durante l’occupazione nazista. Nella retata i tedeschi catturarono un migliaio di civili che furono avviati allo sterminio. Per ricordare quei tragici eventi e trarne i necessari insegnamenti dinanzi ai problemi attuali, l’Istituto nazionale «Ferruccio Parri» e la Fondazione Centro di documentazione ebraica contemporanea (Cdec) hanno organizzato il 10 e l’11 ottobre a Macerata il convegno «A ottant’anni dalle leggi razziali. Una riflessione tra storia e contemporaneità». All’incontro, che si tiene presso l’aula verde del Polo Pantaleoni, partecipano tra gli altri: Michele Battini, Francesca Cavarocchi, Fabio Dei, Filippo Focardi, Valeria Galimi, Betti Guetta, Paolo Pezzino, Liliana Picciotto, Antonella Salomoni, Elisabetta Ruffini, Michele Sarfatti.

La lunga lotta di Roma contro Israele. Lo scontro con il popolo ebraico coinvolse gran parte dell'Impero, scrive Rino Cammilleri, Sabato 04/08/2018, su "Il Giornale". Quanto fossero ingestibili gli ebrei l'Impero Romano lo sapeva. Bastava che uno di loro si atteggiasse a «messia» e ai romani toccava intervenire con grande dispendio. Dopo che Vespasiano e Tito ebbero domato la rivolta del 66-70 d.C. distruggendo addirittura il Tempio, gli ebrei sopravvissuti e non venduti schiavi si rifugiarono presso i correligionari della diaspora. Ma il loro esclusivismo non mancava, neanche «all'estero», di creare problemi con gli autoctoni. Si conosce la «soluzione finale» con cui Adriano nel 135 d.C. la fece finita radendo al suolo Gerusalemme e cambiandogli pure nome. Dopo l'insurrezione del «messia» Bar Kokhba, Gerusalemme divenne colonia romana, Aelia Capitolina, piena di templi pagani e col divieto assoluto per ogni ebreo di rimettervi piede, pena la morte. Ma non tutti sanno che tra il 70 e il 135 d.C. ci fu un'altra, grande rivolta, questa volta nella diaspora. La racconta per la prima volta Lidia Capponi ne Il mistero del Tempio. La rivolta ebraica sotto Traiano (Salerno Editrice, pagg. 140, euro 14,50). Dopo la mano pesante degli imperatori Flavi, Nerva aveva abolito il fiscus iudaicus, cioè la tassa che colpiva gli ebrei in quanto tali. Ciò aveva provocato malumori in quei «greci», cioè i pagani, che con gli ebrei vivevano a contatto. Il successore di Nerva, Traiano, dopo la conquista della Dacia mosse contro l'impero dei Parti, nel quale stavano importanti comunità giudaiche. Per garantirsene se non l'appoggio almeno la neutralità, Traiano ventilò agli ebrei due golosissime opportunità: il ritorno in patria degli esuli (anche quelli di seconda e terza generazione vivevano con questo sogno) e la ricostruzione del Tempio a spese dello stato romano. Incaricò all'uopo due personaggi altolocati scelti appositamente perché discendenti dei due più importanti profanatori del Tempio: Tiberio Giulio Alessandro Giuliano e Gaio Giulio Antioco Epifane Filopappo. Il primo era figlio di Tiberio Giulio Alessandro, che aveva abbandonato la religione ebraica per far carriera nell'impero ed era stato luogotenente di Tito nell'assedio di Gerusalemme culminato nel disastroso incendio del Tempio. Il secondo discendeva da quell'Antioco IV Epifane che aveva scatenato la rivolta dei Maccabei portando l'«abominio della desolazione» profetizzato da Daniele nel Tempio. Traiano conquistò l'Armenia e la Partia, occupando nel 116 la capitale dei parti, Ctesifonte. Il Senato gli diede il titolo di Parthicus e ne decretò la divinizzazione. Primo errore. Secondo errore: Traiano fece erigere sue statue, ormai «divine», in Gerusalemme. Ma ormai le speranze messianiche le aveva sollevate e fu catastrofe: gli ebrei si ribellarono ad Alessandria, Cirene, Cipro e in tutto l'ex impero partico, costringendo Traiano a mandare legioni su legioni. Fu un bagno di sangue. La sinagoga di Alessandria, orgoglio dei giudei, fu rasa al suolo e la repressione costò centinaia di migliaia di morti. Traiano morì nel 117 e l'evento fu festeggiato per sempre dai rabbini.

Filosofia e religione s’incontrarono. La rivoluzione culturale di Cristo. La nuova fede coniugò le pratiche di culto e il discorso speculativo su Dio, scrive Marco Rizzi il 4 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Intorno alla metà del II secolo dopo Cristo, nella città greca di Corinto, un rabbino ebraico si imbatté casualmente in un cristiano ed ebbe con lui una lunga discussione sull’interpretazione delle profezie messianiche contenute nella Bibbia. Il loro dialogo venne poi messo in forma scritta dall’interlocutore cristiano, Giustino, ed è giunto sino a noi con il titolo di Dialogo con l’ebreo Trifone. Nelle battute iniziali, però, quest’ultimo identifica Giustino come un filosofo, giacché indossava un mantello con cappuccio, il pallium, caratteristico dei maestri di filosofia. Lungi dall’esserne imbarazzato, Giustino ricostruisce il suo percorso intellettuale che lo aveva visto vagare da una scuola filosofica all’altra (platonica, stoica, aristotelica…) rimanendone sempre insoddisfatto, sinché non si era imbattuto in un maestro che lo aveva introdotto alla lettura della Bibbia e alla «filosofia» cristiana, presentata come l’unica vera che permette di raggiungere con certezza le verità ultime su Dio, il mondo e l’uomo. Un paio di decenni più tardi, Melitone, vescovo della città di Sardi in Asia Minore, scrivendo direttamente all’imperatore Marco Aurelio, noto amico dei filosofi ma non altrettanto dei cristiani, segnalerà la coincidenza cronologica tra la fondazione dell’impero da parte di Augusto e la nascita della «nostra filosofia», quella dei cristiani, volendo così sottolineare il comune destino che legava entrambi. L’idea che il cristianesimo fosse una «filosofia» rimase costante nel pensiero cristiano di tutti i primi secoli, generando pensatori di spicco quali Origene e Agostino. Si tratta di una novità importante rispetto al mondo antico, che ha cambiato profondamente il significato e il ruolo stesso della religione e della filosofia. Fino alla comparsa del cristianesimo, la religione costituiva anzitutto un’attività pubblica, un «fare» che si concretizzava in riti e sacrifici, cui assistere e partecipare; nessuno vi collegava un «credere», al massimo ci si rifaceva al mito tradizionale come ad uno sfondo narrativo. Il discorso su Dio era invece proprio della filosofia, anzi di una parte specifica di essa, ovvero quella che si occupava dei principi fondamentali della realtà (in greco le archai), che ad esempio la tradizione platonica identificava nelle idee, nel numero, nella materia, oltreché appunto nel divino. Le diverse filosofie, poi, potevano ispirare una specifica etica, che si traduceva in un concreto stile di vita: la vita ritirata e al riparo dagli affanni degli epicurei, il rigoroso impegno civile degli stoici e così via. Affacciandosi nel mondo greco e romano dopo la sua genesi nell’ebraismo, il cristianesimo legò invece in unità tutti questi ambiti: la pratica cultuale (anzitutto il battesimo e la celebrazione eucaristica) si associò a un sistema di conoscenze e di credenze relative a Dio e alla sua intrinseca realtà (a partire dalla persona di Cristo, Dio incarnato, nel suo rapporto con il Dio creatore del mondo, il Padre), dal cui insieme scaturiva un’etica esigente che a sua volta si alimentava alla liturgia e alla lettura della Bibbia. Se prima la filosofia rappresentava un interesse limitato alle ristrette élite che possedevano gli strumenti materiali e intellettuali per poterla coltivare, ora essa si universalizza e si allarga a tutti gli strati sociali, attraverso la mediazione degli intellettuali e dei predicatori cristiani, che si impegnano a ridefinire gli orizzonti della speculazione tradizionale a partire dalla Bibbia e dalla sua interpretazione.

In questo modo, il cristianesimo riuscì a intercettare e a plasmare nella direzione voluta fenomeni sociali e culturali abbozzati o già in atto. Presentandosi nel mondo romano come una «filosofia», il cristianesimo si inserì efficacemente, da un lato, nella crescente vita intellettuale delle città dell’impero, specie nel periodo di pace e prosperità del II secolo, e dall’altro poté superare le perplessità suscitate dal fatto che a differenza delle religioni tradizionali e dello steso ebraismo non celebrava sacrifici o altri riti paragonabili (l’idea della celebrazione eucaristica come «sacrificio» si affermerà solo nel IV secolo). A sua volta, il cristianesimo rafforzò, fino a egemonizzarla, la tendenza della filosofia di epoca imperiale a concentrarsi sul divino quale tema metafisico centrale: con i pensatori cristiani, il discorso su Dio cessa di essere una parte, per quanto importante, della riflessione sulle archai, per acquisire piena autonomia e collocarsi al culmine dell’intero sistema delle conoscenze, cui tutte le altre discipline risultano finalizzate. La filosofia inizia così il cammino che la condurrà a essere ancilla theologiae, «serva della teologia» nel sistema medioevale delle arti liberali, scolasticamente organizzate nell’insegnamento del trivio e del quadrivio. Nella società cristiana medievale, però, sia la teologia, sia la filosofia torneranno ad essere dominio di una ristretta élite, in qualche misura rinnegando l’iniziale presentazione del cristianesimo quale «vera» filosofia e canale universale di accesso alla verità su Dio e sull’uomo.

Perchè gli ebrei sono stati sempre perseguitati, scrive il 19 agosto 2017 Lettera 43. Gli ebrei, a partire dalla tirannia degli assiri e dei babilonesi, dei greci e dei romani, fino al tragico climax del nazismo e del fascismo, sono stati, sempre, perseguitati e sono stati, sempre, oggetto di discriminazione, di isolamento, di tirannia e, in ultimo, di genocidi da parte degli altri popoli.

Un breve excursus storico. Già gli assiri, infatti, sottoposero gli ebrei sottomessi a un lungo dominio e molti di loro vennero deportati. Gli ebrei stessi, per esempio, dal 438 d.C., con gli editti di Valentiniano e di Teodosio, furono esclusi prima da ogni carica pubblica e poi dal diritto di accesso alle università. La discriminazione durò, in generale, fino al 1791, con l'intervento di Napoleone, a favore degli ebrei, che emancipò, di fatto, la popolazione ebraica. Ma alcuni divieti furono ripristinati dal Congresso di Vienna, nel 1815. Nel 1871 vi fu l'emancipazione degli ebrei da parte della Germania e di tutti i paesi europei tranne la Russia che concessero la massima libertà, di fatto, agli ebrei. In alcuni paesi si concedettero dei diritti limitati agli ebrei stessi: con la speranza che questi "cambiassero per il meglio". Fino al fascismo e al nazismo, dove si stabilì l'inferiorità degli ebrei e la "superiorità della razza ariana" e con la triste storia delle deportazioni, delle discriminazioni e dei campi di concentramento. Fino ad oggi: dove si sta registrando, negli stati europei, un'accelerazione delle partenze verso Israele: soprattutto da Francia, Ucraina e Belgio. Questo a causa di antisemitismo, instabilità interna dei tre paesi citati e difficoltà economiche. Queste molte partenze per Israele si stanno registrando, anche, dall'Italia. Quindi, un dato, anche, attuale.

Ma perchè gli ebrei sono stati, sempre, perseguitati? Ecco un breve elenco di ragioni.

Gli ebrei sono coloro che hanno tradito Gesù. Innanzitutto, c'è una ragione cristiana dell'antisemitismo. Infatti, gli ebrei sono stati quelli che hanno crocifisso Gesù. Quindi, per la loro esistenza, la popolazione ebraica era un pericolo costante nei confronti di una società (medievale) dominata dalla religione cristiana. L'idea della colpa degli ebrei per la morte di Gesù rappresentò la "condanna" per molti di essi.

Gli ebrei diffondevano la peste. Inoltre, nel Medioevo, con l'insorgere della peste, si diceva che gli ebrei avessero avvelenato i pozzi, diffondendo la stessa. Molti teologi cristiani affermavano, infatti, che gli ebrei avessero un carattere criminale. Questi erano "rei" di diffondere questa paurosa malattia: per cancellare dalla faccia della terra i cristiani.

La comune idea sugli ebrei. C'era, anche, la comune idea che gli ebrei fossero degli avari, degli usurai e che si arricchissero con i soldi degli altri. Molti ebrei erano, nelle popolazioni dove emigravano, anche dei prestasoldi e cambiamonete. Vi furono delle norme, per esempio, rilasciate da Papa Innocenzo III contro la popolazione ebraica. Infatti, vi fu questa idea di "ghettizzare" questi cittadini e di escluderli dalle associazioni professionali.

La persecuzione per la mancata integrazione nel mondo cristiano e occidentale. Un'altra ragione della persecuzione di questo popolo era (si diceva) la sua mancata integrazione nel mondo cristiano e occidentale. Relegati, infatti, da sempre nei loro ghetti: ciò causò persecuzioni e stermini nei confronti degli ebrei. Il loro modo di vestirsi, le loro abitudini quotidiane e il loro forte radicamento culturale erano, infatti, fonte di attacchi da parte delle popolazioni che li ospitavano. La loro diversità (e la loro ricchezza culturale e materiale) hanno sempre fatto paura agli stati ospitanti.

I ruoli chiave occupati dagli ebrei nei governi. Un'altra fonte di persecuzione degli ebrei fu quella più recente: secondo la quale in tutti i governi e le istituzioni si potevano trovare degli ebrei. Questo grazie, anche, alla loro intelligenza. E quindi, gli ebrei facevano paura: per la loro ascesa al potere. Fino al nazismo e al fascismo. Dove facevano paura questi ruoli di responsabilità occupati dagli ebrei stessi, ma dove l'antisemitismo doveva diventare una lotta di tutti i popoli contro un nemico enorme e universale: la popolazione ebraica. Venne stabilita la superiorità della razza ariana e gli ebrei venivano visti come degli "strozzini" e degli approfittatori dal nazismo. Quando, davanti ai negozi, si esponevano i cartelli di non acquistare presso i vari negozi ebraici.

Insomma, per concludere, questo popolo è stato, sempre, discriminato perchè è stato, sempre, una forte comunità culturale, nonchè economica e religiosa. Con gli ebrei c'è sempre stato, da parte del mondo occidentale e da parte delle varie popolazioni, un "senso di inferiorità" mascherato, che spingeva a perseguitarli, sempre e a discriminarli (vedi tutte le popolazioni e il nazismo e il fascismo). Dietro alla persecuzione agli ebrei si celava e si cela ancora paura, debolezza e, anche, inettitudine.

IL GIORNO DELLA MEMORIA. TUTTI GLI ECCIDI DIMENTICATI DAI COMUNISTI.

Carlo Angela. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Carlo Angela (Olcenengo, 9 gennaio 1875 – Torino, 3 giugno 1949) è stato un medico, politico e antifascista italiano. Il 29 agosto 2001 gli fu conferita da Yad Vashem l'onorificenza di Giusti tra le nazioni per aver aiutato, a rischio della propria vita, molti ebrei durante la Shoah. Figlio di Pietro, Carlo Angela si laureò in medicina nel 1899 all'Università di Torino. A Parigi frequentò i corsi di neuropsichiatria di Babinski. Durante la Grande Guerra fu ufficiale medico della Croce Rossa Italiana presso l'Ospedale Territoriale "Vittorio Emanuele III" di Torino. Entrò in politica dopo la prima guerra mondiale, aderendo al movimento Democrazia Sociale, un movimento politico nato dalle ceneri del Partito Radicale Italiano. All'interno del partito vi erano molte contraddizioni: insieme con parlamentari di sinistra ve n'erano altri che divennero ministri nel primo governo Mussolini, formato dopo la marcia su Roma. Angela abbandonò allora il partito e si alleò con i socialisti riformisti di Ivanoe Bonomi, con i quali si presentò alle elezioni del 6 aprile 1924, senza essere eletto. Dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti, nel giugno del 1924, Carlo Angela accusò esplicitamente i fascisti sul settimanale Tempi Nuovi «per il nefando delitto che ha macchiato indelebilmente l'onore nazionale». Dopo alcuni anni passati come medico condotto del piccolo paese di Bognanco, nell'Ossolano, durante il periodo della dittatura fascista Angela rinunciò ad incarichi politici e si trasferì a San Maurizio Canavese, con l'incarico di direttore sanitario della casa di cura per malattie mentali "Villa Turina Amione". Fu qui che durante l'occupazione tedesca e la Repubblica Sociale Italiana Carlo offrì rifugio a numerosi antifascisti ed ebrei, falsificando le cartelle cliniche per giustificarne il ricovero. Nella sua opera di soccorso agli ebrei Angela fu aiutato dal suo vice Brun, da madre Tecla e dagli infermieri Fiore De Stefanis, Carlo e Sante Simionato. Sospettato dalla polizia fascista, Angela fu convocato e interrogato a Torino e rischiò anche la fucilazione durante una rappresaglia. Durante la Liberazione, Carlo Angela fu nominato sindaco di San Maurizio Canavese. In seguito si presentò alle prime elezioni democratiche dopo oltre vent'anni, nella stessa lista di Norberto Bobbio, Massimo Mila e Ada Gobetti Marchesini, quella del Partito d'Azione, in cui militò dopo aver fatto parte di Giustizia e libertà. Divenne anche presidente dell'ospedale Molinette di Torino. È il padre del giornalista televisivo e scrittore Piero Angela e nonno del divulgatore Alberto Angela.

L'onorificenza di "Giusti tra le nazioni". Le condizioni indispensabili per riconoscere un «giusto» sono tre: aver salvato ebrei, averli salvati sotto la minaccia di un grave pericolo per la propria vita, non aver mai percepito alcun compenso. Le azioni compiute da Angela rimasero sconosciute per oltre mezzo secolo, a causa della discrezione della sua famiglia, e vennero alla luce soltanto nel 1995, quando Anna Segre decise di pubblicare il diario del padre Renzo, scritto durante il periodo in cui era scampato ai campi di sterminio, con la moglie Nella, nella clinica "Villa Turina Amione". Sulla base delle prove e delle testimonianze raccolte e che gli sono state presentate, il 29 agosto 2001 una commissione israeliana ha conferito al professor Angela l'onorificenza di Giusti tra le nazioni inserendo il suo nome nel Giardino dei giusti di Yad Vashem di Gerusalemme: la cerimonia è avvenuta a San Maurizio Canavese il 25 aprile 2002. Il consigliere dell'ambasciata d'Israele a Roma Tibor Schlosser, a nome di tutta la comunità ebraica mondiale, ha consegnato il riconoscimento a Sandra e Piero, i figli di Carlo Angela. Dal 3 giugno 2000, una strada porta il nome di Carlo Angela a San Maurizio Canavese e una targa è stata apposta all'ingresso della clinica di fronte al Palazzo Comunale. Dal maggio 2017 gli è stata inoltre dedicata la scuola elementare di Ceretta, una fazione di San Maurizio.

Il Partito Comunista contro Alberto Angela: "Sull'Urss e la Shoah dice il falso". L'attacco via Twitter dopo la puntata di "Ulisse" di sabato scorso: "L'Urss non deportò mai propri cittadini ebrei verso la Germania nazista", scrive Ivan Francese, Mercoledì 17/10/2018, su Il Giornale. Fra tanti elogi dopo la puntata di "Ulisse" sul 75esimo anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma e sulla Shoah, per Alberto Angela arriva anche qualche critica. Isolata ma durissima. A mettere nel mirino il famoso giornalista e divulgatore scientifico è il Partito Comunista di Marco Rizzo, irriducibile bolscevico. A scatenare le ire dei comunisti un passaggio dedicato da Angela alle presunte deportazioni di ebrei russi verso la Germania nazista con la complicità delle autorità sovietiche. "Nel caso della Russia di Stalin, prima della guerra furono i russi a consegnare ai nazisti migliaia e migliaia di ebrei in omaggio al patto Molotov-Ribbentropp", ha spiegato il giornalista durante la puntata di sabato. Piccata la replica del partito di Rizzo, pubblicata a stretto giro sui social network. “Nella scorsa puntata di Ulisse si afferma che l’URSS consegnò ebrei ai tedeschi. FALSO. L’URRS fu rifugio per migliaia di ebrei e liberò gran parte dei campi di concentramento nazisti. Basta equiparazioni e falsificazioni storiche anticomuniste”, si legge in un tweet del Partito Comunista. Che poi su Facebook rincara la dose: "La discriminazione razziale in Unione Sovietica non è mai esistita, basti ricordare che una parte rilevante dei dirigenti bolscevichi erano di origine ebraica, anche tra i più stretti collaboratori di Stalin." Per il momento, però, non si ha ancora notizia di alcuna replica da parte di Angela.

Da Dagospia 18 ottobre 2018:

Duccio Trombadori su Facebook: "Alberto Angela, con la sua faccia di cazzo, si è permesso di infamare il popolo russo e l'Armata Rossa di concorso in genocidio degli ebrei. È un mascalzone in libertà. Deve essere messo in condizione di non nuocere. E così sarà."

La redazione di TPI: Duro attacco ad Alberto Angela da parte del Partito Comunista di Marco Rizzo. Il celebre conduttore televisivo, nella scorsa puntata della trasmissione Ulisse, si è occupato tra le altre cose delle presunte deportazioni di ebrei russi in Germania durante la seconda guerra mondiale. Angela ha sostenuto che l’Unione Sovietica consegnò i propri cittadini ebrei ai nazisti. Per il Partito Comunista si tratta di una falsificazione storica bella e buona. Questo il tweet: “Nella scorsa puntata di Ulisse si afferma che l’URSS consegnò ebrei ai tedeschi. FALSO. L’URRS u rifugio per migliaia di ebrei e liberò gran parte dei campi di concentramento nazisti. Basta equiparazioni e falsificazioni storiche anticomuniste”. Sulla puntata si era espresso, in questo caso favorevolmente, anche Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma, in riferimento al 75esimo anniversario della deportazione degli ebrei dalla capitale. “Una delle cose che più ho apprezzato è il grande coraggio di Alberto Angela e degli autori della trasmissione di realizzare un prodotto di questo tipo per la prima serata del sabato sera”, le sue parole riportate da La Repubblica. “Parlare di memoria e far comprendere quanto è accaduto è un esercizio difficile i cui risultati sono però visibili per chi guarda la puntata”. “Dobbiamo parlare di queste cose – aveva sottolineato Angela prima della puntata – perché non vengano dimenticate. Dalla ex Yugoslavia al Ruanda i genocidi hanno continuato a esistere. Chi si occupa di Storia sa che con il passare delle generazioni i fatti si stemperano ma non deve succedere. Quel che è accaduto ai tempi dei nostri nonni, non lontanissimi, può accadere di nuovo. Ricordare è un vaccino, significa creare anticorpi affinché non accada mai più”.

Le difficoltà di riassumere la storia senza esser imprecisi e presi (bipartisan) per la collotta, scrive il 19 ottobre 2018 Luca Grisolini su Casentinopiu. Alberto Angela non ha sproloquiato, o per lo meno non lo ha fatto del tutto, quando sabato sera, davanti a 3,5 milioni di spettatori, ha affermato: «Nel caso della Russia di Stalin prima dello scoppio della guerra erano proprio i russi a consegnare ai tedeschi, ai nazisti, migliaia e migliaia di ebrei in omaggio a un accordo, che la Germania e la Russia avevano fatto, l’accordo Molotov-Ribbentrop che aveva stabilito una specie di pace tra le due nazioni». In effetti è documentato che in seguito agli accordi del Patto Molotov-Ribbentrop ci fu effettivamente una ri-consegna a Hitler di prigionieri tedeschi “ospitati” nei gulag, principalmente ebrei e comunisti teutonici. Da dove nasca il “migliaia e migliaia” non lo so, ma una cosa è certa. Esiste una fonte altamente accreditata che dimostra come per lo meno alcune centinaia di ebrei furono consegnati, unitamente ad altri comunisti “pericolosi oppressori” già incarcerati, dall’NKVD alla Gestapo. Questa fonte si chiama Margarete Bauber Neumann, ex deputata del Partito Comunista Tedesco riparata in URSS nel 1935 a Mosca insieme al secondo marito Heinz Neumann, membro del buro del KPD e collaboratore del Comintern fatto sopprimere nel 1937 da Stalin. E’ questa donna a raccontare l’epopea propria e di altri ex ospiti dell’Hotel Lux di Mosca, tutti comunisti espatriati ben presto diventati temuti da Stalin e dunque imprigionati, come lei, nei gulag quali “soggetti socialmente pericolosi”. Nel 1940, unitamente ad un altro migliaio di persone tra comunisti e ebrei di origini tedesca, fu consegnata a Brest Litovsk ai tedeschi, che la imprigionarono per cinque anni a Revensbruck. Racconterà questa esperienza in un libro dal titolo emblematico uscito nel 1948: “Prigioniera di Stalin e Hitler”. Ora, che l’URSS avesse, in questi anni, una doppia faccia sulla questione ebraica è di fatto tangibile. Basti pensare al ruolo avuto dagli ebrei nella rivoluzione russa e nella costruzione della macchina dei gulag. Genrikh Yagoda, primo fondatore dell’NKVD era ebreo, così come lo erano, nel 1934, circa il 35% degli alti funzionari degli apparati di sicurezza dell’Unione Sovietica. Molti dei quali successivamente eliminati quali personaggi scomodi dalle purghe staliniani, non certo come ebrei. Eppure la lotta antisionista legata a ragioni economiche fu portata avanti sin dal 1918 con la creazione di uffici appositi (come la Yevsktsii) che fagocitassero dentro il partito le istituzioni ebraiche e alimentassero popolarmente l’odio contro gli ebrei interni quali detentori di privilegi al pari dei kulaki. Lotte portate avanti in nome di ateismo e collettivizzazione: si pensi che durante la NEP oltre 1 milione di ebrei furono costretti a chiudere le proprie attività, sostenuti da una campagna mediatica che riprendeva i temi classici dell”ebreo ricco e manipolatore”. Motivazioni economiche e diplomatiche, prima che razziali: le stesse che portarono Stalin, nel 1941, a lanciare un’appello “ai nostri fratelli ebrei di tutto il mondo”. Due anni dopo aver pragmaticamente espulso, quale regalo a Hitler (non richiesto) gli ebrei dall’esercito, dall’insegnamento e dalla carriera diplomatica. Non è un caso se proprio nelle zone di occupazione tedesca sorsero le prime brigate partigiane ebraiche, autonome nell’azione, mal tollerate dalla popolazione locale (ricordiamoci che il popolo russo è pur sempre figlio dei pogrom) e slegate rispetto all’Armata Rossa. Fu allora il regime staliniano un regime antisemita? Mancano ancora troppi dati per dirlo con sicurezza e una certa omertà impedisce di acclarare ulteriori dettagli. Di certo fu un regime double face, capace di servirsi e buttar via, come aveva fatto con tanti altri figli della rivoluzione russa e delle sue idee, essere umani in base a pragmatiche questioni di comodo. Detto questo: sicuramente non ci furono le responsabilità di genocidio simili per numeri e cause a quelle della Germania. Ma sicuramente, come ci racconta Margherete Bauber Neumann (non una revisionista, non una sionista ma una comunista e una testimone) ci furono ebrei tedeschi riconsegnati alla Germania in nome di logiche diplomatiche, nonostante fosse palese la sorte alla quale si affidavano. Furono mille, migliaia? Furono solo tedeschi o anche polacchi, in seguito alla spartizione del 1939? E gli ebrei deportati da Brest Litovsk insieme alla Bauber Neumann, furono consegnati come regalo in nome di un comune odio antisemita o forse perché, come tanti altri, oltre ad essere giudei erano anche comunisti oramai divenuti scomodi? Mi piacerebbe che Alberto Angela indicasse fonti più precise, come certo saprebbe fare, per giustizia e per cercare davvero di cambiare questo modo di far storia. Un modo fatto di revisionismi e falsificazioni cinematografiche e televisive, come quelle che omettono il ruolo decisivo dell’Armata Rossa (ben più impattante rispetto a quello dell’esercito angloamericano) nella liberazione dei campi di sterminio nazisti, peraltro realtà conosciute dagli americani già dal dicembre 1942 senza reagire in alcun modo. Ma un mondo fatto anche di negazioni dell’evidenza, come quello di Rizzo e dall’attuale Partito Comunista che invece di affrontare la realtà e anzi voler essi stessa scoprirla, ancora si trincerano verso logiche astoriche e difensive prive di senso e altamente autolesioniste. Mi scuso per la lungaggine, ma la storia e il suo studio purtroppo non si possono esaurire a un programma del sabato sera.

Stalin e l’ebraismo: il grande eccidio, scrive Gabriele Rèpaci il 23/10/2018 su dasandere.it. A fianco ai numerosi elogi per la puntata di “Ulisse – Il piacere della scoperta”, il programma diretto da Alberto Angela, dedicata al 75esimo anniversario del rastrellamento del ghetto di Roma e sulla Shoah, al conduttore è giunta anche qualche critica. Nel corso della trasmissione è stato affermato che «nel caso della Russia di Stalin, prima della guerra furono i russi a consegnare ai nazisti migliaia e migliaia di ebrei in omaggio al patto Molotov-Ribbentropp». Subito pronta è stata la replica di Marco Rizzo segretario del Partito Comunista che dalla sua pagina facebook ha puntualmente ribattuto: «La discriminazione razziale in Unione Sovietica non è mai esistita, basti ricordare che una parte rilevante dei dirigenti bolscevichi erano di origine ebraica, anche tra i più stretti collaboratori di Stalin». Purtroppo i dati storici contraddicono le affermazioni di Rizzo. La perdita della prospettiva internazionalista e la conseguente “nazionalizzazione” del bolscevismo sotto Stalin, ha fatto riemergere in Unione Sovietica alcuni dei tratti più deteriori dello sciovinismo grande-russo come l’antisemitismo. Al centro dello scatto Iosif Vissarionovič Džugašvili (1878 – 1953) è stato un rivoluzionario, politico e militare sovietico. Conosciuto anche come Iosif Stalin, fu segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e, in tale ruolo, assumendo sempre più potere, a partire dal 1924, instaurò progressivamente una dittatura nel proprio Paese (l’Unione Sovietica), fino alla morte, avvenuta nel 1953. Di ritorno dall’Unione Sovietica, dove aveva condotto un’inchiesta sulla demografia ebraica, lo scrittore Joël Cang valutava che gli ebrei viventi nelle quindici repubbliche dell’URSS ammontassero, nel 1959, a una cifra pari a quella dell’anteguerra, vale a dire ad una cifra che si attestava sui tre milioni e mezzo: più del doppio della popolazione d’Israele. Il censimento del 1939 aveva stabilito una minoranza ebraica di 3.100.000 su una popolazione totale di circa 200 milioni. A questa cifra (che evidentemente non comprendeva i 300.000 ebrei assimilati o che tali si consideravano) bisogna aggiungere i due milioni di ebrei che vivevano sui territori annessi della Polonia orientale, dei tre paesi baltici, della Bucovina e della Bessarabia. Il censimento del 1959 parla di 2.268.000 ebrei, dei quali il 20,8% ha dichiarato che lo yiddish era la propria lingua materna. Numero degli ebrei per repubblica: 875.000 nella Repubblica Federativa Russa, 840.000 in Ucraina, 15.000 in Bielorussia, 94.000 in Uzbekistan, 52.000 in Georgia, 25.000 in Lituania, 95.000 in Moldavia (Bessarabia), 37.000 in Lettonia, 5.000 in Estonia. Il censimento non indica il numero degli ebrei nelle repubbliche del Kazakhstan, Azerbaigian, Kirghisistan, Tagikistan, Armenia, Turkmenistan, per il motivo che il numero degli ebrei in queste repubbliche non raggiungeva la soglia minima perché la minoranza sia menzionata. La maggior parte degli ebrei sovietici era concentrata nelle grandi città. Così, secondo Cang, circa 700.000 ebrei vivevano a Mosca, 300.000 a Leningrado, 250.000 a Kiev, 250.000 a Odessa, 70-80.000 a Dnepropetrovsk e a Cernovits; 40-50.000 in ciascuna delle seguenti città: Minsk, Bobrojsk, Riga, Vilna, Kishinev, Lvov e Alma Ata. Per quanto riguarda le attività lavorative degli ebrei dell’Unione Sovietica, nel 1939 il 70% avrebbe lavorato come operai o impiegati nelle aziende dello Stato; il 20% erano artigiani (specialmente sarti), il 6% agricoltori (220.000 famiglie che coltivavano, soprattutto in Crimea e nel Birobidžan, 1.500.000 acri di terra). Dopo il 1939 le colonie agricole ebraiche sono scomparse e, nell’insieme, il numero degli ebrei che esercitano un lavoro manuale è diminuito in favore di quelli che esercitano un lavoro non manuale. Così si ebbero 30.000 scienziati ebrei, 2.000 architetti, numerosi musicisti (un quarto dei musicisti dell’orchestra del Bol’šoj), artisti cinematografici e tecnici dell’industria chimica. Durante il Grande Terrore (1936-1938), tra i dieci milioni di vittime delle purghe, fu eliminato circa mezzo milione di ebrei. Tra i più rilevanti, fu ucciso Lev Borisovic Kamenev (1883 – 1936), uno dei cinque massimi dirigenti bolscevichi, cognato di Lev Trockij (1879 – 1940), che dopo la morte di Lenin aveva fatto parte con Stalin della trojka al governo. Assieme a lui, dopo un grande processo pubblico, fu giustiziato l’ex capo del Comintern Grigorij Evseevic Zinov’ev (1883 – 1936), il cui vero cognome era Radomyl’skij, anche lui ex membro della trojka. Nikolaj Ivanovic Bucharin (1888 – 1938), il “beniamino di tutto il Partito” leninista, che aveva appoggiato Stalin contro Zinov’ev e Kamenev, come già lo aveva appoggiato contro Trockij, per ironia della sorte fu accusato di trotzkismo e giustiziato nel 1938. Questa operazione continuò anche negli anni Quaranta: «un’intera generazione di sionisti ha trovato la morte nelle prigioni sovietiche, nei campi, in esilio», ha scritto il dottor Julius Margolin (1900 – 1971), che venne detenuto in vari campi di concentramento nella regione del Baltico e del Mar Bianco dal 1940 in poi. Margolin ha anche detto che nel mondo esterno nessuno, nemmeno i sionisti, hanno fatto alcunché per salvarli. Il fatto che gli ebrei epurati fossero così numerosi non passò inosservato nell’Unione Sovietica. Un vecchio ufficiale zarista avrebbe detto al suo compagno di cella: «finalmente i sogni del nostro amato Nicola II, che egli era personalmente troppo debole per tradurre in realtà, si sono realizzati. Le prigioni sono piene di ebrei e bolscevichi».

Un anno prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, il direttore dei campi di concentramento sovietici, Genrich Jagoda (1891 – 1938), venne giustiziato assieme a Nikolaj Ivanovic Bucharin, a Alexei Ivanovich Rykov (1881 -1938), a Lev Grigor’evic Levin (1870 – 1938) e agli altri imputati degli ultimi processi pubblici della purga. Erano quasi tutti ebrei. A Jagoda succedette Nikolai Ivanovich Yezhov (1895 – 1940), che gestì il terrore per quattro anni.

A Ezhov succedette Lavrentij Pavlovic Berija (1899 – 1953). Quando Berija assunse l’incarico di capo della polizia segreta, che contava un milione e mezzo di agenti, erano ormai pochi gli ebrei di rilievo che rimanevano nelle gerarchie del partito, delle forze armate e degli organi di sicurezza. Tra costoro, Berija ebbe il compito di liquidare Béla Kun (1886 – 1938), il capo della rivoluzione comunista ungherese del 1919. Il magiaro, che era in prigione dal 1937, fu ucciso il 30 novembre 1939. Stalin epurò anche tutti i capi delle sezioni ebraiche che si erano adoperati sotto la sua direzione per cancellare la vita ebraica organizzata. Quasi tutte le istituzioni culturali ebraiche che rimanevano in vita – comprese 750 scuole in cui si insegnava in yiddish – furono chiuse tra il 1934 e il 1939. Il principale strumento di Stalin in tale operazione fu Samuel Agurskij, già anarchico e membro del Bund ebraico, che aveva diretto la prima campagna di Stalin contro le organizzazioni politiche, religiose e culturali ebraiche. Costui venne gettato in una cella e accusato di far parte della «clandestinità ebraica fascista», alcuni membri della quale, come Moishe Litvakov (1875 – 1938) e Esther Fromkin, furono giustiziati. Il 3 maggio 1939 Stalin licenziò improvvisamente il ministro degli esteri Maksim Litvinov (1876 – 1951), un ebreo che aveva ricoperto questa carica per dieci anni, e lo sostituì con Vjačeslav Michajlovič Molotov (1890 – 1986), che firmò di lì a poco il patto di non aggressione tra l’URSS e il Terzo Reich. Subito dopo, a Brest Litovsk (1918), Stalin fece consegnare alla Germania circa seicento membri del partito comunista tedesco, per lo più ebrei. Uno di costoro era Hans David, il compositore di “musica degenerata” (Entartete Musik in tedesco). Dal settembre 1939 al luglio successivo, in seguito alle annessioni sovietiche, due milioni di ebrei dei tre stati baltici, della Polonia orientale, della Bessarabia e della Bucovina passarono sotto l’URSS. I dirigenti delle società ebraiche attive presso queste comunità furono mandati in Siberia; tutte le organizzazioni e le istituzioni sioniste furono chiuse. Nella zona polacca occupata dai Sovietici, a partire dal febbraio 1940 l’NKVD di Berija arrestò e deportò circa mezzo milione di ebrei. Molti morirono durante il viaggio per la Siberia. Arthur Koestler (1905 – 1983) avrebbe definito questa azione di Stalin e Berija «deportazioni in massa su una scala finora non riscontrata nella storia, [deportazioni che] furono i principali metodi amministrativi di sovietizzazione». Julius Margolin, che si trovava a Leopoli nell’Ucraina occidentale, riferisce che nella primavera del 1940 «gli ebrei preferivano il ghetto tedesco all’uguaglianza sovietica». Le liste di Berija erano divise in varie categorie, una delle quali era la “controrivoluzione nazionale ebraica”, che comprendeva sia i sionisti sia i bundisti antisionisti. Uno degli ebrei polacchi arrestati era Menachem Begin (1913 – 1992), giovane dirigente sionista; furono arrestati anche Henryk Ehrlich (1882 – 1942) e Viktor Alter (1890 – 1943), fondatori del Bund polacco, il partito ebraico più importante del paese. Nel 1941, dati i legami dei due dirigenti del Bund con i sindacati americani, Berija approvò in linea di principio che essi organizzassero un comitato ebraico antinazista con base nell’URSS; ma Stalin scrisse sulla richiesta che gli era pervenuta in relazione a tale progetto: «Rasstrelijat oboich» (Fucilarli tutti e due). La loro fucilazione scatenò una tempesta nell’ebraismo statunitense. Per controbilanciare questo scandalo, nel 1943 furono inviati in missione negli USA l’attore e regista teatrale Solomon Mikhoels (1890 – 1948), alias Vovsi (fondatore del Teatro Yiddish di Mosca) e il noto poeta yiddish Icik Solomonovic Feffer, in qualità di rappresentanti del Comitato Antifascista Ebraico. Quando giunsero in America, furono accolti da Nahum Goldmann (1895 – 1982), Albert Einstein (1879 – 1955), Chaim Weizmann (1874 – 1952), Marc Chagall (1887 – 1985) e altre celebrità del mondo ebraico. In settembre, i due conclusero un accordo di assistenza coi funzionari del Joint Distribution Committee of American Funds for the Relief of the Jewish War Sufferers, la potente organizzazione ebraica nata il 27 novembre 1914 per iniziativa di banchieri quali i Warburg (Felix M. Warburg ne fu appunto il presidente), gli Schiff, i Kuhn, i Loeb, i Lehmann e i Marshall, i Rosenwald. Quando i due fecero ritorno nell’URSS, nel febbraio 1944, Mikhoels pensò di poter estendere e sviluppare le attività del Comitato antifascista ebraico e sollevò presso Molotov la questione dell’aiuto del Joint per la costituzione di un insediamento di ebrei nella penisola di Crimea. Nel marzo 1944 il Comitato indisse un’assemblea di massa, alla quale tremila ebrei intervennero per ascoltare Solomon Mikhoels, Icik Feffer e Il’ja Erenburg (1891 – 1967). Quest’ultimo, in particolare, aveva preparato assieme allo scrittore e giornalista ebreo Vasilij Grossman (1905 – 1964) ex membro del Comitato Antifascista Ebraico) un Libro nero in cui si affermava che erano stati sterminati un milione e mezzo di ebrei sovietici. Il libro era pronto in bozze, ma il governo, allarmato per l’intensa attività ebraica, ne proibì la pubblicazione. Erenburg, comunque, ne pubblicò alcuni estratti sulla rivista yiddish “Znamja” (La bandiera), sotto il titolo “Assassini di popoli”. Il titolo si riferiva ai Tedeschi, ma in esso veniva anche vista un’allusione ai Sovietici. Quanto a Solomon Mikhoels, la sua ultima impresa fu la celebrazione della nascita del defunto scrittore yiddish Mendele Mocher Sforim (1836 – 1917), che terminò con una fragorosa manifestazione di appoggio all’istituzione dello Stato ebraico in Palestina. Mikhoels morì a Minsk qualche giorno dopo, il 12 gennaio 1948. Il suo cadavere, assieme a quello di un altro ebreo, fu trovato il giorno dopo accanto alla stazione ferroviaria; «vittime di un incidente», disse la polizia. Vent’anni dopo Svetlana Alliluyeva (1926 – 2011), la figlia prediletta di Stalin, accuserà suo padre del duplice omicidio: «Mikhoels era stato assassinato: non c’era stato nessun incidente […]. Conoscevo fin troppo bene l’ossessione di mio padre, che vedeva complotti “sionisti” in ogni angolo». Ai funerali di Mikhoels, il poeta, drammaturgo e romanziere yiddish Perec D. Markis (1895 – 1952) recitò una lunga trenodia, nella quale faceva di Mikhoels una delle tante vittime dell’Olocausto. Un anno dopo fu arrestato anche lui. Fu dunque la nascita di uno Stato ebraico in Palestina a ridestare l’entusiasmo degli ebrei sovietici. Il sostegno dato dal governo dell’URSS a Israele e il voto favorevole espresso dall’URSS alle Nazioni Unite, vennero interpretati dagli ebrei sovietici come un’autorizzazione ad esprimere solidarietà all’entità politica sionista. «Per tutte queste ragioni, negli anni 1947-1948, fra gli ebrei sovietici si levarono onde di commozione che giunsero al culmine (nei giorni più neri di Stalin) quando nelle strade adiacenti alla Sinagoga di Mosca, migliaia di persone si radunarono, per singola iniziativa di ognuno, per accogliere la prima ambasciatrice d’Israele, Golda Meir (1898 – 1978), mentre il canto di Ha-Tikvà esplodeva tra il pubblico e grida di “Am Israel chai” (il popolo d’Israele vive) echeggiavano nell’aria. Oggi sappiamo pure che ci furono ebrei tanto ingenui da presentare alle autorità sovietiche la domanda di potersi arruolare nell’esercito di difesa di Israele per servire quali artiglieri, carristi, marinai o aviatori, nelle sue unità combattenti. Questo avvenimento straordinario venne a conoscenza del dittatore e radicò in lui il terribile sospetto che in trent’anni, il regime comunista non era riuscito a staccare, né intellettualmente né sentimentalmente la massa degli ebrei, e neppure una notevole parte di essi, dall’attaccamento alle proprie origini e dalla sensibilità agli avvenimenti drammatici del mondo ebraico fuori dell’Unione Sovietica. Allora il dittatore decise che, per spegnere la fiamma ebraica che cominciava a riaccendersi era necessario versare sugli ebrei, e particolarmente sulla loro cultura, e sui loro sentimenti, torrenti di acqua gelata. Anzitutto, bisognava impedire ogni contatto tra gli ebrei sovietici e quelli dell’Occidente». Il 21 novembre 1948 il Comitato Antifascista Ebraico venne sciolto d’autorità, perché era diventato un «centro di propaganda antisovietica». Le pubblicazioni edite dal Comitato furono proibite, in particolare il giornale yiddish “Einikai”, al quale collaborava l’élite intellettuale dell’ebraismo sovietico. Nelle settimane successive, tutti quanti i membri del Comitato Ebraico Antifascista furono arrestati. Nel febbraio del 1949 la stampa lanciò una vasta campagna anti-cosmopolita. I critici teatrali ebrei furono denunciati per la loro «incapacità di capire il carattere nazionale russo». «Quale idea possono avere un Gurvic o uno Juzovskij del carattere nazionale dell’uomo russo sovietico?» si chiedeva la “Pravda” del 2 febbraio 1949. Nei primi mesi del 1949 centinaia di ebrei furono arrestati, soprattutto a Leningrado e a Mosca. Il 7 luglio 1949 il tribunale di Leningrado condannò a dieci anni di internamento nei Gulag Akila Grigor’evic Leniton, Il’ja Zejlkovic Serman e Rul’f Aleksandrovna Zevina. Gli imputati furono riconosciuti colpevoli di aver «lodato gli scrittori cosmopoliti» e di aver «calunniato la politica governativa sovietica sulla questione delle nazionalità». In appello, gli imputati furono condannati a venticinque anni dalla Corte Suprema, che riconobbe gli imputati colpevoli di aver «condotto agitazione controrivoluzionaria basandosi su pregiudizi nazionalistici e affermando la superiorità di una nazione sulle altre nazioni dell’Unione Sovietica». Il siluramento degli ebrei fu eseguito in maniera sistematica, soprattutto negli ambienti della cultura, della stampa, della medicina. Ma gli arresti ebbero luogo anche in altri settori: nel complesso industriale metallurgico fu arrestato un gruppo di “ingegneri sabotatori”, che furono condannati a morte e quindi giustiziati il 12 agosto 1952. Il 21 gennaio 1949 venne arrestata e internata nel Gulag la moglie di Molotov, Pavlina Zemcuzina, dirigente superiore nell’industria tessile. Nel luglio 1952 fu arrestata per spionaggio e quindi fucilata la moglie di Aleksandr Poskrebysev (1891 – 1965), segretario personale di Stalin. Il 1948 vide l’inizio della fine dell’attività del Joint in varie democrazie popolari. In Unione Sovietica il Joint non operava più dal 1938; solo fra il 1943 e il 1945 era stato consentito l’invio di pacchi in territorio sovietico. Nel 1949 la Polonia espulse i rappresentanti del Joint e la Cecoslovacchia fece lo stesso. L’Ungheria permise solo la somministrazione di aiuti attraverso la Comunità ebraica locale; anzi, nel 1949 il capo del Joint in Ungheria, Israel Jakobson, venne arrestato. In quel medesimo anno, in Ungheria veniva condannato e giustiziato, assieme ad altri, l’ex ministro degli Esteri László Rajk (1909 – 1949).

Nel 1951 c’erano in URSS 215.000 medici. Circa 35.000 erano ebrei. Al grado supremo della categoria dei medici sovietici si trovava il gruppo dei medici del Cremlino. L’élite della medicina sovietica lavorava nell’ospedale del Cremlino, dove venivano curati i dignitari del PCUS e dei partiti comunisti “fratelli”. Alla fine dell’agosto 1948 morì, nell’ospedale del Cremlino, Andrej Aleksandrovic Zdanov (1896 – 1948), che aveva diretto la campagna ufficiale contro la cultura formalista e cosmopolita. Un rapporto stilato per gli organi di sicurezza affermò, sulla base degli elettrocardiogrammi di Zdanov, che la malattia di quest’ultimo non era stata diagnosticata correttamente. Il reparto elettrocardiografico era diretto da un’ebrea, Sofija Karpaj. Fu solo nel 1951, però, che venne arrestato il primo medico del Cremlino, il professor Jacov Etinger (1929 – 2014), membro del Comitato antifascista ebraico. Il secondo arresto fu quello dell’elettrocardiologa Sofija Karpaj. Sia Etinger sia la Karpaj erano accusati di avere deliberatamente falsificato la diagnosi dell’elettrocardiogramma di Zdanov. Nei diciotto mesi successivi furono arrestati il cardiologo Binijamin Nezlin, suo fratello il dottor Solomon Nezlin e altri celebri medici ebrei. Il complotto dei medici sarebbe stato denunciato pubblicamente il 13 gennaio 1953. Nell’ottobre 1952, Stalin convocò il XIX Congresso del PCUS. Circa milletrecento delegati, in rappresentanza di sette milioni di iscritti, registrarono il proprio nome sotto trentasette nazionalità, tra le quali non figuravano gli ebrei. (Kaganovic e Mechlis erano semipensionati). Si realizzò così una battuta che già circolava: «Mosè ha fatto uscire gli ebrei dall’Egitto, Stalin li ha fatti uscire dal Comitato Centrale».

Al congresso, Malenkov disse che agenti stranieri stavano tentando di «sfruttare elementi instabili della società sovietica per i propri obiettivi infami». Poskrebysev collegò i crimini economici, come quelli denunciati a Kiev o nell’organizzazione del partito in Ucraina, con lo spionaggio e l’accerchiamento capitalistico. Tutti sapevano che i funzionari economici e politici epurati in Ucraina erano ebrei ormai in procinto di essere giustiziati. (Nota1). Dopo la fine del XIX Congresso, si intensificarono le nuove purghe, con una campagna mirante al rafforzamento della disciplina di partito e con una serie di condanne a morte emesse contro funzionari dell’industria tessile ucraina: H.A. Khain, J.E. Jaroseckij, D.I. Gerson, tutti ebrei. Nel medesimo periodo in cui gli ebrei del partito comunista ucraino venivano epurati, molti dei più importanti dirigenti comunisti dei paesi dell’Europa orientale – per la maggior parte ebrei – erano in carcere e stavano per essere giustiziati. A Mosca, circa una dozzina di medici del Cremlino andò a raggiungere i dottori Etinger, Kogan e Karpaj. Nel frattempo, veniva allestito a Praga il processo Slansky, «un modello pilota della purga ai vertici moscoviti che Stalin andava preparando». Alla fine del 1951 Stalin aveva ordinato al presidente cecoslovacco Klement Gottwald di arrestare il presidente di quel partito comunista, Rudolf Slansky, come agente di Israele e del sionismo. Tra il 20 e il 27 novembre 1952, quattordici dirigenti di primo piano del partito comunista e del governo cecoslovacchi, undici dei quali ebrei, furono processati con l’imputazione di aver tentato di complottare con i sionisti per assassinare il presidente Gottwald, rovesciare il governo popolare e restaurare il capitalismo. L’atto d’accusa letto dal pubblico ministero puntava il dito contro il Joint, «gli avventuristi sionisti», «Israele e l’America», i «cosmopoliti», i «nazionalisti borghesi ebrei», i «trotzkisti, i lacchè della borghesia e altri nemici del popolo ceco». Appena ebbe inizio il processo, su case e negozi di ebrei apparvero scritte di questo tenore: «Via gli ebrei!», «Abbasso gli ebrei capitalisti»! Si continuavano ad arrestare ebrei di spicco, tra i quali Eduard Goldsucker (1913 – 2000), ministro plenipotenziario cecoslovacco in Israele. Nella prima giornata del processo, Slansky confessò tutto: i rapporti coi Rothschild, con Ben Gurion, con Bernard Baruch, con Henry Morgenthau. Avevano orchestrato un complotto sionista per distruggere la Cecoslovacchia: «Il movimento sionista del mondo intero – disse alla corte – è di fatto il mondo degli imperialisti, soprattutto di quelli americani». Le accuse contro il Joint, che fin dal 1950 era impegnato in interventi in Cecoslovacchia, sarebbero state ripetute a Mosca sei settimane più tardi, nel contesto del complotto dei medici. Gli accusatori dissero che il Joint era un «ramo segreto del servizio di spionaggio americano», che operava sotto la copertura dell’organizzazione assistenziale. Dissero che «lo spregevole traditore Slansky» (nato Salzman) era sempre rimasto «un lacchè della borghesia» e del sionismo internazionale e che aveva legami diretti con il diplomatico israeliano Ehud Avriel. «Rude Pravo» (quotidiano del PC cecoslovacco) descrisse gli «occhi insolenti e perfidi» e la «faccia da Giuda» di Slansky e scrisse che era un «serpente calpestato», un «cannibale» che sarebbe stato ripagato con la sua stessa moneta. Slansky fu accusato di aver cercato di assassinare il presidente servendosi di medici come «il massone dottor Haskovec». Slansky ammise che lui e il medico massone avevano effettivamente tramato per far morire Gottwald, al quale sarebbe dovuto subentrare Slansky stesso. Al processo testimoniarono due cittadini israeliani che si trovavano in carcere da un anno: i cugini Mordechai Oren (1905 – 1985) e Shimon Ohrenstein. Oren era un dirigente del partito comunista israeliano, il Mapam, mentre Ohrenstein era stato un funzionario dell’ufficio commerciale della legazione israeliana a Praga. Oren confessò di essere stato in Russia e di avervi incontrato dei medici ebrei, nonché il defunto Solomon Mikhoels. Il 4 dicembre 1952, qualche giorno dopo la fine del processo, undici condannati furono impiccati. I loro cadaveri furono cremati nel carcere di Ruzyn e le ceneri furono raccolte in un sacco di patate. Un autista, con due agenti della polizia segreta, portò il sacco alla periferia di Praga, dove le ceneri furono disperse sulla strada ghiacciata. Tre imputati, tra cui l’ex sottosegretario agli esteri, Arthur London (1915 – 1986), furono condannati all’ergastolo. I giornali israeliani e statunitensi, come “New Republic” del 27 novembre 1952, collegarono le accuse formulate nel corso del processo ai Protocolli dei Savi di Sion. Il “New York Times” del 23 novembre 1952 scrisse che la vasta cospirazione ebraica evocata dal processo di Praga riecheggiava «ancora una volta gli infami Protocolli dei Savi di Sion (…), ma in una versione stalinista alla quale il terreno fu preparato quattro anni or sono dalla campagna contro il “cosmopolitismo” scatenata nella stessa Russia sovietica […] le cui vittime furono prevalentemente ebrei». L’affare Slansky, concludeva il “New York Times”, «può segnare l’inizio di una grande tragedia, mentre il Cremlino tende sempre di più verso un antisemitismo mascherato da antisionismo». In Romania, dove la popolazione ebraica assommava a 400.000 individui (i quali avevano accolto entusiasticamente l’Armata Rossa e in moltissimi casi avevano aderito al partito comunista, entrando così nell’amministrazione statale e accedendo rapidamente agli uffici dei ministeri, della polizia e dei quadri dirigenti del Partito) l’eliminazione degli ebrei dall’amministrazione statale e soprattutto dalla polizia cominciò nel 1947. Furono anche epurati i quadri superiori del Partito, perché non si volevano indisporre gli elementi cristiani che vi si trovavano e che già avanzavano riserve sulla presenza di Anna Pauker (1893 – 1960) e di altri ebrei alla testa del movimento. Le sedi delle organizzazioni sioniste di Bucarest furono assaltate da militanti comunisti. Ma questi ultimi trovarono gli ebrei muniti di armi bianche e preparati a difendersi. Fu il solo caso di resistenza attiva dell’ebraismo est-europeo negli anni del socialismo reale. Alla fine, tra gli ebrei arrestati vi fu la stessa Pauker, figlia di un rabbino, diventata dirigente del Komintern e ministro degli esteri di Romania nonché eminente pensatrice marxista-leninista. Radio Bucarest annunciò: «Anche tra noi ci sono criminali, agenti sionisti e agenti del capitale internazionale ebraico. Li smaschereremo ed è nostro dovere distruggerli».

Secondo un dossier che fu consegnato a un emissario di Berija, Anna Rabinsohn Pauker, «figlia di un piccolo borghese, era istitutrice in una scuola ebrea di Bucarest e insegnava lingua ebraica. Si innamorò del suo direttore e ne divenne l’amante […]. Conobbe Marcel Pauker, traditore della classe operaia e che doveva poco dopo sposare. Introdotta da lui nel movimento socialista, ella nutriva per il proletariato la stessa ostilità del marito, ma seppe meglio nascondere il proprio gioco. Ritornò in Romania, dove le condizioni di lotta erano tali ch’ella poté usurpare un posto direttivo nel partito, dopo aver denunciato alla polizia i militanti che si erano opposti alla sua ascesa. Dopo il 1930, Anna lascia il paese e si stabilisce dapprima a Parigi, dove conduce una vita poco conforme alle regole della morale comunista e del semplice buonsenso. Al suo ritorno, la polizia l’arresta in condizioni che non abbiamo ancora potuto chiarire. Comunque il suo arresto fu seguito da quello di numerosi membri del partito, allora clandestino. In prigione Pauker ebbe una vita facile: era, tra l’altro, rifornita di viveri da suo zio, proprietario d’un giornale borghese di Bucarest, mentre gli altri prigionieri morivan di fame». Abbiamo visto che dopo il XIX Congresso del Pcus fu arrestata una quindicina di medici ebrei, tra i quali il dottor Boris B. Kogan. Questo suo cugino, cardiologo e internista, aveva avuto in cura sia Dimitrov e Zdanov, che erano morti entrambi: la dottoressa Lidija Timasuk sosteneva che la morte di Zdanov era un caso di omicidio medico. Boris Kogan era l’aiuto di Vladimir N. Vinogradov (1955 – 2008), direttore dell’ospedale del Cremlino e medico personale di Stalin. Questi fu arrestato il 9 novembre 1952, con l’accusa di aver deliberatamente prescritto cure sbagliate a dirigenti del partito e del governo e di avere «svolto azione di spionaggio per conto della Gran Bretagna». Due giorni dopo fu arrestato uno stretto collaboratore di Vinogradov: Miron Semionovic Vovsi (1897 – 1960), consulente del consiglio terapeutico e sanitario del Cremlino, cugino di Solomon Mikhoels, col quale aveva lavorato nell’ormai disciolto Comitato Antifascista Ebraico. Dopo Vovsi e Vinogradov, nella seconda settimana di novembre furono arrestati altri nove medici del Cremlino, tra i quali Boris B. Kogan. Poco dopo gli arresti dei medici, il maresciallo Ivan Stepanovich Konev (1897 – 1977), comandante in capo delle forze di terra nonché ispettore generale dell’Armata Rossa, scrisse a Stalin una lettera in cui lo avvertiva che stavano avvelenando anche lui, con «le stesse medicine usate per ammazzare Zdanov». Il 13 gennaio 1953 la “Pravda” uscì con un titolo a tutta pagina: «Arrestato un gruppo di medici sabotatori», sotto il quale veniva riportato un comunicato della Tass di dieci capoversi. L’editoriale che accompagnava l’annuncio era intitolato: «Miserabili spie e assassini con la maschera di professori e medici». Il comunicato menzionava nove medici che avevano partecipato al complotto terroristico, i cognomi dei quali rivelavano l’appartenenza ebraica: Miron Vovsi (1897 – 1960), Ivan Matveevich Vinogradov (1891 – 1983), Egorov, Feldman, Yakov Gilyarievich Etinger (1887 – 1951), Grinstein, Majorov, M. B. Kogan, B.B. Kogan. Costoro, secondo la “Pravda”, erano «collegati con l’organizzazione nazionalista borghese ebraica internazionale Joint, creata dallo spionaggio americano col falso scopo di fornire aiuti materiali a ebrei di altri paesi». Vovsi, in particolare, aveva confessato di aver ricevuto dagli Stati Uniti, tramite il Joint e «il noto nazionalista borghese ebreo Mikhoels, l’ordine di eliminare i massimi quadri dell’URSS». Il comunicato aggiungeva che i tre erano «agenti di vecchia data dello spionaggio inglese». I criminali avevano confessato di avere ucciso Zdanov «diagnosticando scorrettamente la sua malattia, nascondendo che aveva avuto un infarto al miocardio» e prescrivendo «un regime controindicato per la sua grave malattia». Allo stesso modo, i criminali avevano fatto morire anche il compagno A.S. Scerbakov: «gli hanno prescritto un regime che per lui era mortale e così lo hanno portato alla morte». Inoltre, il gruppo dei medici ebrei, «questa banda di criminali antropoidi», cercava di «compromettere la salute di comandanti militari sovietici, per ridurli all’inattività e indebolire la difesa del Paese». Le vittime designate erano tre marescialli, un ammiraglio e un generale. Tutta la stampa sovietica partecipò alla campagna contro la “banda criminale”. La rivista sindacale “Trud” affermava che l’imperialismo anglo-statunitense agiva a stretto contatto con il sionismo e in particolare con l’organizzazione ebraica dello Joint. La “Literaturnaja Gazeta” smascherò una cellula sovversiva, annidata nel comitato scientifico dell’Istituto della Biblioteca di Mosca, che era guidata dagli ebrei Abramov, Levin, Fried e Eikenvolts. “Medicinski Rabotnik” pubblicò un lungo elenco di ebrei che lavoravano alla Clinica centrale di psichiatria legale. I medici di quella clinica avevano anche propagato le teorie di Bergson e di Freud e avevano rifiutato di applicare ai pazienti la psichiatria russa, optando per i metodi di derivazione psicanalitica. Il quotidiano della Lituania metteva in guardia contro gli «elementi nemici, nazionalisti borghesi e sionisti ebrei» che svolgevano mansioni importanti nel ministero della carne e del latte e che potevano avvelenare tali alimenti. “Krokodil”, la rivista satirica, scriveva: «Il nero odio per il nostro paese ha unito in un solo campo i banchieri americani e inglesi, i colonialisti, i re degli armamenti, i generali di Hitler che sognano la rivincita, i rappresentanti del Vaticano e i fedeli membri del Kahal sionista». I medici ebrei, «personificazione della bassezza e dell’abominio, come Giuda Iscariota», avevano tutti quanti frequentato una nota scuola: quella «diretta dall’ipocrita Mikhoels, per il quale nulla era sacro e che aveva venduto l’anima per trenta denari». Secondo le “Izvestija”, i processi contro i sionisti che venivano celebrati in Ungheria, Bulgaria, Polonia e Albania costituivano la prova dell’esistenza di un piano spionistico americano di ampia portata, un piano che vedeva sionisti e americani collaborare in maniera solidale. In Ucraina, a Zitomir, furono arrestati venti medici ebrei, definiti dai giornali ucraini «assassini di bambini». La “Pravda Ukrainij” dedicò a tre sabotatori giustiziati a Kiev un editoriale in cui si leggeva: «Tutti questi Kohain e Jarosecki e Grinstein […], i Kaplan e i Poljakov […] suscitano l’odio profondo del popolo». Quattro informatori degli americani nella Germania occidentale dissero che le accuse contro i medici erano il segnale di una purga imminente. L’economista Konstantin Krylov diceva da anni che Stalin si sarebbe servito dell’antisemitismo per una purga su vasta scala. Vjaceslav Artem’ev, ex poliziotto della polizia segreta, disse che forse il 25% dell’MGB erano ebrei e che certamente sarebbero stati radiati; questo comunque sarebbe stato solo l’inizio di una vasta epurazione. Effettivamente gli ebrei dell’MGB furono epurati e alcuni di loro, come ad esempio il tenente generale Raichman, furono arrestati. Frattanto Berija mandò i suoi uomini ad arrestare il medico di Mao Tse Tung, che era un ebreo proveniente dall’URSS.

S. Eliashiv, diplomatico israeliano a Mosca, in un messaggio del 10 febbraio 1953 disse: «L’elemento principale comune a tutti questi articoli e discorsi è l’accerchiamento da parte di potenti nemici stranieri e la costruzione di una quinta colonna all’interno»; tuttavia «lo Stato d’Israele non è ancora un bersaglio primario, diretto», come lo era stato nelle «esplicite accuse della Cecoslovacchia e della Polonia. […] Ciononostante, esiste una collera grave e violenta contro i sionisti e il sionismo». Eliashiv esprimeva inoltre una grave preoccupazione per il proliferare di denunce contro criminali ebrei, specialmente in Ucraina, Bielorussia e Moldavia, dove vivevano numerose comunità ebraiche. In Israele, quando la notizia del complotto dei medici giunse via radio, il rabbino Jacob Kolmess, che aveva lasciato Mosca nel 1933, si portò la mano al petto e morì per una crisi cardiaca. Il 19 gennaio, il ministro degli Esteri Moshe Sharett denunciò come calunniosa la campagna sovietica. I sovietologi israeliani indicavano, tra i fattori della campagna antiebraica, il tentativo dell’URSS di avvicinarsi al mondo islamico. Intanto in Unione Sovietica la campagna di stampa dava i suoi frutti: Uljanovsk, ventisei insegnanti, per lo più ebrei, furono espulsi dalla scuola magistrale in cui insegnava la vedova di Mandel’stam. Duecento ebrei furono licenziati dall’università di Odessa; tutti i laureati ebrei della facoltà di medicina furono mandati nelle zone orientali più remote della Siberia, come la Kamcatka e la Jacutia. Fuori dall’URSS, è da notare che nella Repubblica Democratica Tedesca i capi delle comunità ebraiche furono sottoposti ad interrogatorio da parte delle forze di sicurezza. A Berlino Est, mille ebrei chiesero il visto per gli Stati Uniti. Il 15 gennaio, quattro esponenti di primo piano della comunità ebraica tedesco-orientale, tra cui Julius Meyer, fuggirono a Berlino Ovest. In Ungheria, “Szabad Nép” scrisse, il 15 gennaio, che il Joint era solito «nascondere veleno e pugnali» tra i «vestiti usati» che spediva agli ebrei. In Cecoslovacchia, il 16 gennaio “Rude Pravo” affermò che i «doni inviati dal Joint» erano in realtà «ordini di uccidere». Dmitrij I. Cesnokov, da poco condirettore del “Bolshevik”, capo di una nuova sezione del Comitato Centrale e nuovo membro del Presidium, redasse un opuscolo per spiegare perché gli ebrei dovevano essere deportati. L’opuscolo, stampato dalla casa editrice del MVD in un milione di esemplari, era intitolato “Perché gli ebrei devono essere trasferiti dalle regioni industriali del paese”. Contemporaneamente veniva stilato il testo di una “Dichiarazione Ebraica”, destinata a essere pubblicata sulla prima pagina della “Pravda” dopo la celebrazione del processo contro i medici e la loro esecuzione sulla Piazza Rossa. La “Dichiarazione Ebraica”, che avrebbe recato in calce le firme di qualche decina di ebrei “leali”, sarebbe stata adoperata, se Stalin non fosse provvidenzialmente morto nel frattempo, per giustificare la deportazione di quasi tutti gli ebrei sovietici nel Kazakhstan e nel Birobidzan. La “Dichiarazione”, secondo la ricostruzione che ne è stata fatta in base alle testimonianze di Ilja Erenburg, sarebbe stata formulata più o meno nei termini seguenti: «ci appelliamo al governo dell’URSS, e al compagno Stalin personalmente, perché salvino la popolazione ebraica da possibili violenze conseguenti alle rivelazioni sui medici-avvelenatori e sul coinvolgimento di cittadini sovietici rinnegati di origine ebraica, colti in flagrante a partecipare a un complotto americano-sionista per destabilizzare il governo sovietico. Ci uniamo al plauso di tutti i popoli sovietici per la punizione dei medici assassini, i cui crimini esigevano la pena capitale. I sovietici sono naturalmente indignati di fronte al continuo ampliarsi delle trame del tradimento e al fatto che, e ciò ci addolora, molti ebrei hanno aiutato i nostri nemici a costituire in mezzo a noi una quinta colonna. Cittadini semplici, fuorviati, possono essere spinti a reagire colpendo indiscriminatamente gli ebrei. Per questa ragione, vi imploriamo di proteggere il popolo ebraico mandandolo nei territori orientali in via di sviluppo, dove sarà impiegato in un lavoro di utilità nazionale e sfuggirà alla comprensibile collera suscitata dai medici-traditori. Noi, in quanto personalità di spicco tra gli ebrei fedeli all’Unione Sovietica, respingiamo totalmente la propaganda americana e sionista che afferma che in questo paese c’è antisemitismo. Si tratta soltanto di una cortina fumogena per nascondere il loro tentativo fallito di assassinare dirigenti sovietici e deviare le critiche del mondo dalla questione dell’antisemitismo americano del caso Rosenberg e degli intenti genocidi americani contro la popolazione nera statunitense. Nell’Unione Sovietica, invece, il razzismo è vietato dalla costituzione e non esiste affatto». Tra i firmatari della “Dichiarazione Ebraica” vi furono il già citato lo scrittore Grossman, l’accademico Isaac Mints (1896 – 1991), il fisico Lev Davidovic Landau (1908 – 1968) Premio Nobel nel 1962), il violinista David Ojstrach (1908 – 1974), il compositore Matveij Blanter (1903 – 1990) e altri ebrei di una certa fama. A quanto si è detto, il piano di Stalin prevedeva che i medici dovevano essere giustiziati subito dopo l’emissione della condanna. Sarebbero stati impiccati nella Piazza Rossa, sulla Lobnoe mesto, una piattaforma di pietra circolare accanto al Cremlino, adoperata nel Medioevo per le esecuzioni. Poi sarebbero scoppiati degli incidenti: violenze contro ebrei, pubblicazione della “Dichiarazione Ebraica”, pubblicazione di lettere che chiedevano l’adozione di provvedimenti. Allora gli ebrei dell’URSS (l’87% dei quali era concentrato nelle grandi città: Mosca, Leningrado, Kiev, Odessa, Riga, Kharkov) sarebbero stati trasferiti in campi a est degli Urali. Nel periodo di sei settimane intercorso tra l’annuncio del 13 gennaio e la morte di Stalin, si diffuse la notizia che si stavano approntando mezzi di trasporto sufficienti a spostare intere masse di persone. Tra i pochi ebrei che rimanevano nei gradi elevati degli organi di polizia, dei ministeri e dell’esercito, alcuni erano a conoscenza di particolari specifici relativi a vagoni merci vuoti che restavano fermi, in attesa, sui binari di raccordo. Un medico di rango elevato, che durante la deportazione delle otto nazionalità sovietiche era stato responsabile del controllo delle condizioni sanitarie sui treni utilizzati per le evacuazioni, nel 1952 venne a conoscenza dei piani per la deportazione degli ebrei. Il trasporto sarebbe stato organizzato con gli stessi criteri seguiti per le deportazioni del periodo bellico. Comunque, lo stesso sistema dei trasporti sarebbe stato ben presto depurato dalla presenza ebraica. Si dice che Stalin avesse ordinato di preparare nei maggiori nodi ferroviari per il febbraio 1953 un grande numero di carri bestiame; in realtà, data la complessità dell’operazione, le deportazioni non potevano avere inizio prima di aprile o maggio. Tra l’altro, erano state mobilitate squadre di funzionari dell’MGB per inventariare i beni che gli ebrei avrebbero abbandonato. Secondo gli ebrei che videro i campi dopo il periodo di Stalin, erano stati costruiti baraccamenti appositi, puliti e nuovi. Vladimir Lifshitz, un tecnico ebreo che lavorò per la marina russa nella Siberia occidentale dieci anni dopo il complotto dei medici, il 9 novembre 1987 raccontò a Louis Rapoport di aver visto un campo mai utilizzato con file e file di baracche. Questo campo si trovava sugli altipiani non lontani da Barnaul, una cittadina nella regione del Kuzbass, a nordest del Kazakhstan e a sud di Novosibirsk e della zona petrolifera della Siberia occidentale. Quest’area, il doppio dell’Italia, era costellata da centinaia di campi di concentramento. Il campo che il tecnico e i suoi uomini avrebbero visitato era una città fantasma di baracche fatiscenti, che si estendeva su un paio di chilometri quadrati. Nel 1956 furono trovati nel Birobidžan altri due campi simili a questo; altri baraccamenti, situati sull’isola di Novaja Zemlja, a nordest di Arcangelo, erano stati costruiti per diretto ordine di Stalin. Si parlò anche di un grandioso piano di sviluppo per trasformare la Siberia in un impero industriale. Alle schiere di lavoratori in condizioni di schiavitù si sarebbero aggiunti circa due milioni di ebrei e altri due o tre milioni di nuovi prigionieri politici. Tra le centinaia di migliaia di ebrei che già si trovavano nel Gulag c’era anche Iosif Berger (1904 – 1978), uno dei fondatori del partito comunista in Palestina, che all’inizio degli anni Trenta era tornato nell’Unione Sovietica dove era incappato nei rigori della Grande Purga. Berger si convinse che si stava progettando la liquidazione degli ebrei. In ogni caso, erano già cominciati gli arresti e le retate. Alcuni ebrei, come il dottor Jakov Rapoport (1898 – 1996), che era stato arrestato a metà gennaio 1953, venivano coinvolti direttamente nel caso dei medici del Cremlino. Altri, come il dottor Solomon Nezlin, arrestato verso la fine di gennaio, furono collegati indirettamente al complotto attraverso un parente: il fratello era uno dei medici che avevano visto nel 1948 le cartelle cliniche di Zdanov. Anche i familiari di ebrei giustiziati, come Perec D. Markis (1895 – 1952, il letterato che aveva eseguito la lamentazione funebre ai funerali di Mikhoels), furono arrestati in seguito all’annuncio del 13 gennaio. La polizia segreta arrestò tutta quanta la famiglia Markish: David, la madre Esther, la sorella Olga, il fratello Simon, il cugino Juri. Condannati a dieci anni di confino, furono spediti nel Kazakhstan settentrionale su un vagone piombato. Sul medesimo vagone viaggiava anche Marija Iusefovic, moglie di un funzionario sindacale che aveva svolto attività nel Comitato Antifascista Ebraico. Il 30 e il 31 gennaio furono arrestati i familiari di altre personalità del Comitato Antifascista Ebraico: l’attore e condirettore del Teatro Yiddish di Mosca Benjamin Zuskin, sua moglie (l’attrice Eda) e la loro figlia; la famiglia di Leib Kvitko (1890 – 1952), scrittore ebreo, già membro del Comitato Antifascista Ebraico; la famiglia di David Bergelson (1884 – 1952), il poeta yiddish che era stato membro del Comitato Antifascista Ebraico. Furono arrestate anche le mogli dei medici del Cremlino. Secondo Roy Medvedev (1925), Stalin progettava di deportare la maggior parte degli ebrei non in Siberia o nel Birobidžan , ma nelle regioni settentrionali del Kazakhstan, dove lo spazio per i due milioni di ebrei sovietici era più che sufficiente. Il solo campo di Karaganda, che si estendeva per più di 450 chilometri, poteva accoglierne una gran parte. Nella zona intorno al villaggio di Karmacij, dove arrivò la famiglia Markis, c’erano già molti altri ebrei. Oltre a un’intera colonia di ebrei della Bessarabia, deportati dopo l’annessione della Bessarabia all’URSS, c’erano ebrei provenienti da Bukhara, da Kiev, da Odessa e da altre città. Dopo l’annuncio del 13 febbraio, la campagna della stampa e della radio contro i “medici stranieri” e i “cani arrabbiati di Tel Aviv” proseguì ininterrotta. Un lungo saggio di Ladislao Carbajal, intitolato “La questione ebraica non esiste nella società socialista”, accusava il primo ministro israeliano Ben Gurion (1886 – 1973), il ministro degli esteri Moshe Sharett (1894 – 1965) e l’ambasciatore all’ONU Abba Eban (1915 – 2002) di essere ispiratori di un’attività spionistica che veniva sviluppata per conto degli USA e dell’Inghilterra. La “Pravda” del 6 febbraio diede la notizia dell’arresto degli ebrei S.D. Gurevic e J.A. Taratuta. Fu arrestato anche il direttore del Teatro dell’Arte di Mosca, Igor Neznij, un vecchio amico di Mikhoels accusato di far parte del centro sionista diretto dal pianista Grigorij Ginzburg (1904 – 1961). Tutto ciò indusse l’ebraismo statunitense a mobilitarsi in difesa degli ebrei dell’URSS. I dirigenti del B’nai B’rith (Nota 2) andarono al Dipartimento di Stato a esprimere i loro timori per la situazione dell’ebraismo sovietico. Un gruppo di quarantanove personalità ebreo-americane di grande rilievo il 12 febbraio rivolse un appello a Eisenhower affinché parlasse pubblicamente dei milioni di ebrei del blocco sovietico che si trovavano esposti a «una nuova epidemia di pogrom, ad aggressioni istigate dai comunisti»; il presidente americano veniva invitato a pronunciare una «solenne condanna pubblica e l’avvertimento che questo attacco contro il popolo ebraico costituisce un incitamento al massacro». Il 16 febbraio il senatore Robert C. Hendrickson (1898 – 1964) presentò la risoluzione numero 71 del Senato, firmata da lui e da altri due senatori, che paragonava “l’antisionismo” comunista all’antisemitismo nazista. Alle parole si accompagnarono i fatti. Il 9 febbraio una violenta esplosione scosse il centro di Tel Aviv: un attentato distrusse la legazione dell’URSS, sicché rimasero feriti tre cittadini sovietici. L’attentato terroristico era opera della vecchia Banda Stern di Yitzhak Shamir. Tre giorni dopo, l’URSS ruppe le relazioni diplomatiche con Israele. Ben Gurion dichiarò alla Knesset che la rottura diplomatica faceva parte di una massiccia campagna diffamatoria sovietica, nuovo atto di una storia di quattromila anni di odio, calunnie, torture, distruzioni e massacri subiti dal popolo eletto. Il 14 febbraio le “Izvestija” spiegavano che il funzionario del Dipartimento di Stato americano William Draper, aiutato dal Joint e dagli istituti bancari Dillon, Read e Harriman Bros., stava realizzando il piano segreto dell’ex ministro del tesoro Henry Morgenthau, del deputato Emanuel Celler e del senatore Jacob Javits, che consisteva nel fare di Israele la principale base antisovietica del Vicino Oriente. Tra gli uomini del Joint e Tel Aviv, diceva l’articolo, c’era «la feccia della società, trotzkisti, nazionalisti borghesi e cosmopoliti sradicati d’ogni sorta, che per un pugno di dollari hanno venduto il loro onore, il loro popolo e il loro paese». «Ciò che provocò la collera di Stalin contro Israele – scrive François Fejtö (1909 – 2008) – non fu tanto il naturale filo-americanismo d’Israele, quanto le tumultuose simpatie filoisraeliane della popolazione ebraica dell’Unione Sovietica, quella passione per Israele che si espresse in maniera così significativa nell’accoglienza trionfale tributata al primo inviato del nuovo stato, la signora Golda Meir. Questo stato d’Israele, non era forse il coronamento dei lunghi e pazienti sforzi dei pionieri di Sion, tra i quali gli ebrei russi avevano avuto un ruolo di primo piano? Il giudaismo russo poteva giustamente considerare Israele come la realizzazione dei propri sogni, come una creatura del suo spirito e della sua carne. Agli occhi di Stalin, invece, questo entusiasmo, questa solidarietà senza riserve erano una sfida intollerabile al sovietismo, incompatibile sia con l’internazionalismo dottrinale che con la ragione di stato dell’Unione Sovietica, tesa da quel momento allo sfruttamento delle animosità arabe contro l’occidente, protettore d’Israele». Il 30 febbraio il “Manchester Guardian” riferì che il ministro degli esteri sovietico Visinskij aveva invitato a Mosca uno dei peggiori nemici d’Israele, il Gran Muftì di Gerusalemme Haj Amin al-Husseyni (1895 – 1974), che si era rifugiato al Cairo dopo essere stato condannato per crimini contro l’umanità. L’invito venne formulato proprio il primo giorno della festa ebraica dei Purim. Il regime di Tito organizzò il 27 febbraio a Belgrado una grande manifestazione di protesta contro l’antisemitismo sovietico. Gli oratori condannarono i sovietici perché calpestavano i diritti dell’uomo e accusarono il Cremlino di far incombere sugli ebrei dell’Europa orientale le «identiche possibili conseguenze estreme» già verificatesi sotto il dominio nazista. A parte Lazar Moiseevic Kaganovic (1893 – 1991), che era l’ebreo sovietico di rango più elevato, il generale dell’NKVD (Nota 3) Lev Zacharovic Mechlis (1889 – 1953) era l’ultimo dirigente sovietico di origine ebraica che ancora fosse presente nelle gerarchie del regime. Mechlis aveva arrestato il proprio padre, un impiegato ebreo di Odessa, e aveva testimoniato contro di lui davanti ad un tribunale della polizia segreta. Secondo le memorie di Nikita Sergeyevich Khrushchev (1894 – 1971) assieme a Kaganovic aveva organizzato la morte di centinaia di migliaia, forse milioni di persone. In particolare, aveva epurato il corpo ufficiali. Nell’ottobre del 1950 era stato sollevato dal suo ultimo incarico, quello di ministro del controllo statale. Nell’ottobre del 1952, al XIX Congresso del PCUS (Nota 4), fu eletto nel comitato centrale. Dopo l’annuncio del complotto dei medici, Mechlis si allontanò di soppiatto da Mosca e andò a Saratov, dove si ammalò. Portato a Mosca per essere curato nell’infermeria dell’MVD (Nota 5) nel carcere di Lefortovo, vi morì, stando alla “Pravda”, venerdì 13 febbraio, per un attacco di cuore conseguente alla degenerazione del cervello e dei vasi del cuore e del sistema nervoso. Il cadavere di Mechlis venne cremato e le sue ceneri furono collocate nel muro del Cremlino. Nel periodo del complotto dei medici, tutti i funzionari sovietici di alto rango che erano sposati con donne ebree furono sottoposti a pressione affinché divorziassero. Vi furono anche casi di divorzi fittizi, attuati allo scopo di passare indenni attraverso la tempesta. Il maresciallo Kliment Efremovic Vorosilov (1881 – 1969, già nel 1940 sollevato dall’incarico di commissario per la difesa), che era sposato anche lui con un’ebrea, Ekaterina, si rifiutò di divorziare. Nel febbraio 1953 scacciò con la pistola alla mano quattro agenti dell’MGB che si erano presentati a casa sua (la più imponente e sontuosa tra le dacie dei grandi della Rivoluzione) per arrestare Ekaterina.

Alla fine di febbraio, Vorosilov fu invitato a una riunione del Presidium in cui si sarebbe dovuto discutere del trasferimento degli ebrei. Alla riunione, Stalin rivelò i particolari del suo piano per combattere il “complotto imperialista e sionista” contro l’Unione Sovietica e disse che si rendeva necessaria l’immediata deportazione in massa nell’Asia centrale e nel Birobidžan. Quando ebbe terminato di parlare, tra la ventina di persone sedute intorno al tavolo delle riunioni cadde un silenzio totale. A un certo punto Kaganovic domandò con voce esitante se sarebbero stati deportati tutti gli ebrei sovietici senza eccezioni. Stalin rispose: «Un certo settore». Kaganovic non replicò. Molotov, la cui moglie era già scomparsa in territori lontani, osò dire che il trasferimento degli ebrei avrebbe avuto un impatto negativo sull’opinione pubblica mondiale; Mikojan annuiva. Intervenne allora Vorosilov, il quale affermò che un’azione del genere avrebbe destato nel mondo la medesima reazione che già c’era stata contro Hitler. Poi, con gesto teatrale, gettò la tessera del PCUS sul tavolo, dicendo che il piano di trasferimento violava l’onore del Partito e che lui non voleva appartenere a un’organizzazione come quella. Stalin gli gridò: «Compagno Kliment, deciderò io quando non sarai più autorizzato a tenere la tessera del Partito»! E si infuriò a tal punto, che ebbe una crisi e crollò al suolo. Il 22 e il 23 febbraio la campagna contro i nemici del sistema sovietico rallentò improvvisamente. Dopo il 25 febbraio non si ebbero più notizie di arresti di elementi ebraici. La campagna si interruppe il 1 marzo; il 2 marzo, per la prima volta dal 13 gennaio, la “Pravda” non parlava più dei medici avvelenatori. Non meno di trentasei ore dopo che il cuore di Stalin aveva cessato di battere, alle 7 del mattino del 4 marzo Radio Mosca annunciò al mondo che il Padre dei popoli dell’URSS era gravemente malato. «Il Comitato Centrale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica e il Consiglio dei ministri dell’Unione Sovietica annunciano la disgrazia che ha colpito il nostro Partito e il nostro popolo: la grave malattia del compagno Iosif Visarionovic Stalin». La guerra di Stalin contro gli ebrei era finita.

Note:

1: La prima moglie di Poskrebysev era un’ebrea e nel 1949 Stalin lo aveva invitato a divorziare. Una notte, tornato a casa, non trovò più la moglie. Si rivolse a Stalin, il quale gli disse: «Hai bisogno di una moglie? Ne avrai una nuova». Rientrato a casa quella sera, Poskrebysev aveva trovato ad attenderlo quella che sarebbe diventata la sua seconda moglie, una russa autentica.

2: L’Ordine Indipendente B’nai B’rith (in ebraico: בני ברית, figli dellalleanza) è una loggia ebraica nata nel 1843 durante la presidenza di John Tyler ed ancora esistente ed attiva. La sua missione è quella di fare beneficenza verso i poveri.

3: Il Commissariato del popolo per gli affari interni, noto anche con l’acronimo NKVD fu un dicastero attivo nella Russa sovietica dal 1917 al 1930 e poi, riorganizzato a livello centrale, in Unione Sovietica dal 1934 al 1946.

4: Il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, noto anche con l’acronimo PCUS è stato un partito politico di orientamento marxista.

5: Il Ministero degli Affari Interni era un ministero del governo nell’Unione Sovietica. La MVD, un’agenzia succeduta al NKVD, fu istituita nel marzo 1946. A differenza del NKVD, ad eccezione di un periodo di circa 12 mesi, da metà marzo 1953 fino a metà marzo 1954, il MVD non includeva le unità (agenzie) interessate attività segreta (politica), quella funzione assegnata al Ministero della Sicurezza dello Stato (MGB), dal marzo 1954 al KGB.

Per approfondimenti:

_Soviet Jewry: A new Estimate, “Jewish Chronicle”, 23 ottobre;

_David Dallin e Boris Nikolaevskij, Il lavoro forzato nella Russia sovietica, Sapi, Roma, 1949;

_Roy A. Medvedev, Lo stalinismo, Mondadori, Milano 1972;

_Svetlana Alliluyeva, Soltanto un anno, Mondadori, Milano 1969;

_Ariè Eliav, Tra il martello e la falce, Barulli, Roma 1970;

_Robert Conquest, Power and Policy in the USSR. The Study of Soviet Dynastics, Phaeton, New York 1975;

_Meir Cotic, The Prague Trial: The First Anti-Zionist Show Trial in the Communist Bloc, Herzl Press, New York 1987;

_Camil Ring, Stalin le aveva detto, ma…, Mondadori, Milano 1953;

_B. Z. Goldberg, The Jewish Problem in the Soviet Union: Analysis and Solution, Crown, New York 1961;

_Louis Rapoport, Stalin’s War against the Jews, The Free Press, New York 1990;

_J. Berger, Shipwreck of a Generation, Harvill Press, London 1971;

_François Fejtö, Gli ebrei e l’antisemitismo nei paesi comunisti, Sugar, Milano 1962;

_Arthur Koestler, Lo yogi e il commissario, Liberal Libri, 2002.

25 aprile, la Comunità ebraica litiga con l'Anpi. E salta la manifestazione unitaria. La Comunità palestinese in piazza con kefieh e bandiere per protestare contro Israele. L'Anpi non si dissocia e la Brigata Ebraica diserta il corteo, scrive Sergio Rame, Martedì 24/04/2018, su Il Giornale. È scontro totale sul 25 aprile. La Comunità ebraica di Roma non sarà al corteo unitario promosso dall'Anpi. La rottura è stata scatenata dalla presenza della rappresentanza palestinese che, come comunicato ieri, scenderà in piazza vi parteciperà "con kefieh e bandiere". "Non basta una nota ambigua in cui si invitano tutti a partecipare - si legge nel comunicato diramato dalla Comunità ebraica - perché in questa giornata bisogna portare rispetto alla Storia e ai suoi protagonisti". Lo rottura è insanabile, salvo colpi di scena all'ultimo momento. Domani la Comunità ebraica sarà prima alle Fosse Ardeatine e successivamente in via Tasso per un momento pubblico di raccoglimento per "ricordare la Liberazione dell'Italia dal nazifascismo". Non andrà, dunque, al corte promosso dall'Anpi. A spingerla a un passo indietro è stata la decisione della Comunità palestinese di Roma e del Lazio di scendere in piazza "con kefieh, sciarpe e bandiere palestinesi e di tutti i popoli che resistono". In un comunicato diffuso ieri, i palestinesi romani hanno colto l'occasione per tornare ad attaccare duramente Israele: "Respingiamo, denunciamo e condanniamo la politica criminale dei governanti israeliani, dell'assassinio e del ricatto, che viola e nega ogni diritto al popolo palestinese e rifiuta ogni soluzione pacifica, basata sulle risoluzioni dell'Onu e della legalità internazionale, del conflitto mediorientale". La mossa della Comunità palestinese e il silenzio dell'Anpi ha spinto la Comunità ebraica a boicottare il corteo unitario. "Nonostante gli accordi, l'Anpi non ha voluto prendere una posizione ufficiale e definitiva - si legge nella nota diramata oggi - non basta una nota ambigua in cui si invitano tutti a partecipare, perché in questa giornata bisogna portare rispetto alla Storia e ai suoi protagonisti". "L'equidistanza tra i simboli di chi combatteva con i nazisti e quelli della Brigata Ebraica è inaccettabile e antistorica - conclude - e se l'Anpi non ha la forza e la volontà di delegittimare la presenza di questi gruppi viene meno il senso di una manifestazione unitaria".

Perché la sinistra italiana odia Israele? Scrive Veromedioriente. Premessa: questo articolo è volutamente riassuntivo e tratta di un tema già noto agli addetti ai lavori. Esiste una fortissima ostilità contro Israele, causata da una fortissima propaganda fatta di odio e disinformazione che si concretizza in un vero e proprio lavaggio del cervello di massa per indurre la gente ad odiare Israele e stare dalla parte dei terroristi palestinesi. Per la questione della disinformazione e della manipolazione delle persone, si rimanda in altre sedi visto che anni ed anni di propaganda hanno creato una vasta letteratura disinformativa che richiede un'altrettanta vasta letteratura di risposta per essere smontata. Quello che interessa a noi è chi sono i principali attori di questa propaganda disinformativa: sono 4 e sono gli estremisti islamici, gli antisemiti, l'estrema destra...e la sinistra. Di questi quattro attori, ce ne è uno che ha molto più potere di loro in Europa ed in Italia, ed è la sinistra. Essa è capace di convincere facilmente grandi masse, di piegare alla propria ideologia molti media influenti, e quindi con la falsa informazione crea l'opinione. Perfino il campo dell'attivismo ne viene fortemente influenzato. In Italia questo meccanismo è estremamente forte e la sinistra ha creato di fatto l'opinione su Israele, sui Palestinesi e su cosa sta accadendo in quelle zone. Ed ovviamente ha praticamente imposto la parte con cui stare. È inutile dire che ha avuto grande successo, le persone sono facilmente manipolabili su questi argomenti e credono quello che viene detto loro di credere, soprattutto se si hanno i mezzi della sinistra. Siccome la disinformazione e l'odio cieco contro Israele da parte della sinistra sono noti, quello che a noi interessa spiegare è perché la sinistra ha scelto di odiare Israele, di fare propaganda disinformativa nei suoi confronti e di stare di fatto dalla parte dei terroristi palestinesi che sostiene senza vergogna spacciandoli per "popolo palestinese". Oltre una presenza millenaria degli ebrei in Palestina, nell'800 incominciarono ad arrivare gli ebrei dall'Europa fuggendo dalle persecuzioni zariste e dai pogrom e "quella Terra" si trasformò, fondarono Petah Tikva nel 1878, Rishon le Zion nel 1882, Rehovot nel 1880 e incominciarono a sviluppare la terra, a lavorare la sabbia sassosa del deserto israeliano che all'epoca copriva tutto il Paese. Questa nuova situazione e la creazione di posti di lavoro portò verso Sion gli arabi egiziani, siriani e di tutto il circondario pronti ad accettare il lavoro che gli ebrei offrivano. Fino al 1948 quando fu fondato Israele con i voti delle Nazioni Unite, tutto il mondo occidentale riconosceva gli ebrei come legittimi abitanti di Israele, tutto il mondo occidentale sapeva che da quella Terra gli ebrei furono ingiustamente scacciati e che da 2000 anni ad ogni fine di festività ebraica il Popolo gridava "L'anno prossimo a Gerusalemme". Il mondo occidentale sapeva anche che fino al 1948, quando cambiarono il nome in israeliani, gli ebrei erano i veri palestinesi, riconosciuti come tali. Solo nel 1967, quando gli ebrei liberarono Gerusalemme e i territori ebraici (Giudea e Samaria) occupati dalla Giordania per 20 anni, gli arabi si rassegnarono al fatto che non potevano vincere Israele con una guerra diretta ed adottarono una nuova tattica guidata da Arafat, quella di inventare il popolo palestinese da usare come arma contro Israele, prima di allora inesistente. Nessuno sopportò la vittoria israeliana sui paesi arabi e il risultato fu che nel 1967 il mondo dimenticò tutto quello che aveva conosciuto e riconosciuto per secoli, la Storia fu rinnegata e ne riscrissero una nuova con un popolo inventato e " martire" e un altro descritto come occupante, assassino, discendente dei nazisti. Si, Il mondo dimenticò tutto, si assoggettò ad Arafat, si vendette agli arabi, ondate di violenza antiebraica scossero tutta Europa, quello che rimase inalterato fu l'odio ancestrale che sentiva per l'ebreo e ne fece ancora una volta il capro espiatorio dei suoi umori. La grande menzogna divenne storia, politici e intellettuali si fecero comprare, imbrogliare, lavare il cervello dalla propaganda araba, i pacifisti, sempre violenti e pieni di odio antiebraico, divennero eroi, i terroristi divennero martiri, gli assassini furono ricevuti dai grandi del mondo come capi di stato. Incominciò così il periodo più terribile per Israele, incominciarono gli anni del TERRORE. Ebbe inizio l'incubo del terrorismo quotidiano, 10, 20 attentati al giorno per le strade di Israele, cinema. pizzerie, ristoranti, autobus saltavano per aria portando con se civili israeliani, bambini, donne, famiglie intere che morivano tra le fiamme colpiti da migliaia di pallini di acciaio con cui i terroristi riempivano le loro bombe. Nessuno in Israele può dire di non avere un parente o un amico morto a causa del terrore palestinese. Nessuno. Il mondo ha distolto lo sguardo dalle sinagoghe brucianti di Gaza, dalle pizzerie di Haifa e dai banchetti nuziali di Netanya sventrati dagli shahid e dai mullah che considerano gli ebrei armenti da olocausto. Non ha voluto leggerle le piccole grandi storie degli ebrei uccisi perché ebrei. Non hanno visto che l’embrione statuale palestinese è stato trasformato nel retroterra di faide, fltne e lanci di missili sugli asili nido di Sderot.

E la sinistra? La nascita dello Stato di Israele fu salutata dalla sinistra europea (l'allora URSS votò a favore alla società delle Nazioni) come una "doverosa presenza di una democrazia in un mare di nazioni dominate da un tribalismo medioevale". Ricordo, qualora fosse necessario, lo spirito genuinamente socialista e collettivista che attraversò almeno i primi due decenni della società israeliana. Insomma c'erano tutte le premesse per una duratura luna di miele. Pier Paolo Pasolini, su Nuovi argomenti del giugno 1967 paragonava l’invasione nazista dell’Italia all’invasione araba del nascente stato ebraico. “Nel Lago di Tiberiade e sulle rive del Mar Morto ho passato ore simili soltanto a quelle del 1944 ho capito, per mimesi, cos’è il terrore dell’essere massacrati in massa. Ma ho capito anche che gli israeliani non si erano affatto arresi a tale destino”. L'idillio si è interrotto allorché nella sinistra è apparso un forte sentimento anti-americano (erano gli anni della guerra in Vietnam) e, la resistenza e la conseguente vittoria israeliana della "Guerra dei sei giorni" del 1967, cui tutti assistemmo con trepidante preoccupazione anche a sinistra, e ci svelò un Israele forte come una superpotenza. Per la sinistra sembrava quasi intollerabile stare dalla parte del più forte anche se Israele doveva fronteggiare l'odio di feroci eserciti che volevano distruggerlo. Tanto più che nel 1967, dopo la Guerra dei sei giorni l’Unione Sovietica, tanto amata dalla sinistra, ruppe i rapporti diplomatici con Israele e si schierò definitivamente con gli Stati arabi. I palestinesi - termine che fino ad allora non aveva una connotazione "nazionale" ma designava gli abitanti arabi al di qua del fiume Giordano, frutto di una spartizione britannica sbrigativa e insolente -, fino allora residenti in quella terra che avevano conteso e perduto a seguito della guerra, si rifugiarono presso gli stati arabi confinanti (e furono organizzati dagli Stati perdenti come una nuova arma da usare contro Israele). E volete a questo punto che la sinistra non accolga e faccia proprie le "istanze" di un popolo "allontanato" dalla sua terra? E se c'è persino un nascente movimento pronto a coagulare a sé una specie di Risorgimento arabo contro l'aggressore, la sinistra non è invitata a nozze? A questo aggiungiamoci la sempiterna amicizia americana per Israele tanto odiata dai comunisti dell'epoca, e abbiamo tutti gli elementi. Elementi il cui pregiudizio non è cessato fino adesso. Da noi la questione palestinese è stata per decenni il cavallo di battaglia di una sinistra pretestuosamente anti israeliana. E di una stampa devotamente allineata. Vittima di una sorta di complesso pavloviano la nostra stampa persevera nelle vecchie abitudini. La manifestazione più grave di questo cronico riflesso condizionato è l'incapacità, talvolta, di distinguere la causa palestinese da quella di Hamas ritrovandosi così al servizio della propaganda fondamentalista. A differenza dei giornali stranieri molte testate nostrane continuano a raccontarci un'inesistente guerra di Israele ai palestinesi anziché lo scontro con una fazione che ha fatto del terrorismo la sua principale arma. Una fazione che ha attuato violenze di ogni tipo contro il popolo palestinese e contro i civili ebrei. Ogni volta che i terroristi attaccano Israele costringendolo a rispondere per difendersi, la sinistra italiana, quasi tutta, parlo di quella politica, di quella mediatica e di quella delle persone comuni, non riesce a liberarsi di preconcetti, pregiudizi, terzomondismo di maniera e ottusità nell'analizzare e commentare la guerra in atto fra Israele e la sanguinaria organizzazione terroristica di Hamas. Dopo i crolli dei muri e di un sistema politico che esiste e persiste, nel suo aspetto più deteriore, esclusivamente, in Corea del Nord, la sinistra, orfana di riferimenti ideologici, spiazzata dall'attivismo dei movimenti, impreparata a cogliere e governare le mutazioni economiche e sociali, che la globalità produce, incapace di intercettare le nuove istanze e problematiche dei cittadini, cerca ancora di più rifugio e consenso con un abbraccio mortale con i presunti oppressi : I palestinesi, ovverosia con l'organizzazione terroristica di Hamas, non essendo, neanche in grado, di distinguere gli uni dagli altri (totale ignoranza della storia mediorientale, Hamas sono dei criminali che schiavizzano ed opprimono i palestinesi). Si sono bevute tutte le bufale contro Israele, in un delirio crescente di omissioni, falsità e immoralità. La sinistra, ogni qual volta ci sia di mezzo Israele, perde lucidità e razionalità, con una buona dose di malafede e nel tentativo, maldestro, di cercare di far credere di stare dalla parte giusta, che giusta non è.......!!!

PS: nel libro di Valentino Baldacci " 1967. Comunisti e socialisti di fronte alla guerra dei Sei giorni ", è documento quello che accadde in quel momento alla sinistra italiana, riportiamo qui di seguito una beve presentazione tratta da La Stampa. Lo strappo dell’Unità, le accuse di Rinascita e il cambiamento di posizione dell’Espresso ma anche le risposte dell’Avanti! e i dubbi di Mondo Operaio: Valentino Baldacci descrive Comunisti e socialisti davanti alla guerra dei Sei Giorni in uno studio di 638 pagine che ricostruisce la svolta della sinistra italiana che davanti al conflitto del 1967 si lacerò su Israele a causa dell’influenza dell’Urss sul Pci. Il valore del libro sta nella mole di documenti raccolti, non solo sui giornali ma sui leader politici, da Giancarlo Pajetta a Enrico Berlinguer, che consentono di rivivere un terremoto di posizioni che cambiò l’identità della sinistra italiana. Protagonista e erede della resistenza antifascista che si era battuta contro le persecuzioni degli ebrei e per la nascita di Israele, il Pci voltò le spalle allo Stato ebraico facendo proprie le posizioni dell’Urss che nel 1967 sposò il rifiuto totale dei Paesi arabi nei confronti di Israele. Il leader socialista Pietro Nenni e l’Avanti!, con gli articoli di Aldo Garosci, si opposero alla svolta filo-Urss in Medio Oriente del Pci, mostrando però incertezze e venature - a cominciare dalle pagine di Mondo Operaio - che vent’anni più tardi avrebbero portato Bettino Craxi a convergere con il Partito Comunista. Lo strappo avvenne facendo debuttare in Italia, in maniera quasi istantanea, le tesi sovietiche su «razzismo», «espansionismo» e «imperialismo» del sionismo per delegittimare le fondamenta dell’esistenza di Israele, occidentale e dunque nemico.

Perché l'ideologia di sinistra è errata ed immorale, continua Veromedioriente. Premessa: tratto da informazione corretta. Nell'anti-israelismo e nell'antisionismo c'è spesso una base tradizionalmente antisemita, questo è chiaro. Israele non è solo lo stato degli ebrei, è l'ebreo degli stati e viene trattato come gli ebrei venivano trattati durante l'esilio: ghettizzato, discriminato, boicottato, sospettato di crimini ridicoli e spesso infamanti, come “ammazzare bambini”. Grazie a un millennio e mezzo e passa di martellante antigiudaismo cristiano, gli ebrei sono il gruppo che viene facile odiare e il loro stato, che non doveva mai essere costituito secondo la sensibilità cristiana (perché l'esilio dell'ebreo errante faceva parte della punizione del “popolo deicida”) segue la stessa sorte, unico fra gli stati del mondo. Ma oltre a questa radice teologico-politica, nello schieramento istintivo da parte di molta sinistra a favore del terrorismo arabo vi è qualcosa di più generale, che si ripercuote anche contro Israele: l'idea che bisogna schierarsi con loro, anche se usano metodi di lotta atroci e inumani, perché sono i “più deboli”, “gli oppressi”, e dunque i nuovi proletari, la “moltitudine” di cui parlava Toni Negri nel suo best seller internazionale “Impero”. E' un atteggiamento così diffuso e irriflesso che non si può non farci i conti. Ma bisogna dire che esso è radicalmente sbagliato. E' sbagliato sul piano etico, naturalmente. Il drone o l'aereo che cerca di uccidere il terrorista può sbagliare, naturalmente e coinvolgere persone che non c'entrano. In guerra è sempre successo, purtroppo, e questo è un buon motivo per cercare di evitare le guerre, per tentare di risolvere le dispute sul piano pacifico. Ma il colpo mira a un bersaglio preciso, a un combattente nemico. Il terrorista suicida che si fa saltare nella metropolitana, o come è successo spesso in Israele negli autobus nei caffè nei supermercati nei ristoranti non cerca neanche di distinguere, non si dà obiettivi militari, se la prende con la gente qualunque dall'altra parte della barricata. Lo stesso fanno i razzi di Hamas, le molotov e i sassi sulle macchine, gli accoltellamenti casuali, le stragi di civili di altra religione, magari dopo aver marcato la loro casa con un segno infamante come facevano i nazisti. C'è in questo modo di combattere l'idea, tipicamente razzista, che tutto l'altro popolo sia non solo nemico, ma degno di morire in massa, salvo che eventualmente si sottometta e si converta. Questo modo di combattere senza distinzione fra civili e militari è tipico dell'Islam, è all'origine del genocidio armeno e assiro, della distruzione dei greci che abitavano e avevano fondato le città della costa asiatica dell'Egeo che oggi si dicono turche, delle conquiste islamiche antiche della Spagna, dell'Africa del nord, della Mesopotamia. Ma in questo modo di vedere le cose vi sono anche degli errori di fatto. Non è vero che gli arabi siano gli “umili”, i “deboli”. Loro non si vedono affatto così. Storicamente hanno sempre pensato a se stessi come i signori e si battono per riconquistare questo ruolo, che considerano oggi provvisoriamente usurpato. Sono stati storicamente i più grandi colonialisti: partiti dalla penisola arabica deserta e spopolata, hanno conquistato e arabizzato mezzo mondo, accumulando ricchezze gigantesche depredate ai popoli che conquistavano e opprimevano, distruggendo la loro cultura e la loro economia. L'Africa del Nord era il granaio dell'Impero Romano, abitata da popolazioni berbere; la conquista araba le ha rese spopolate, incolte… e arabe; la Mesopotamia era abitata dai babilonesi, la Siria dagli assiri, che parlavano l'aramaico, ora virtualmente estinto. L'Africa nera fu depredata dai mercanti di schiavi arabi, che per un certo periodo fornirono gli inglesi di carne umana per le colonie americane, ma molto più a lungo servirono il mercato domestico arabo. Le regole del Corano sono tipicamente coloniali: gli indigeni conquistati sono inferiori, se non si convertono devono riscattare la loro sopravvivenza con umiliazioni legali e fiscali senza fine. Anche il territorio dell'antica Giudea e dell'attuale Israele è stato sottoposto a queste pratiche di arabizzazione forzata e anche di immigrazione islamica dall'Egitto, dall'Arabia Saudita, perfino dall'Anatolia e dal Caucaso. La “questione palestinese” in buona parte deriva da queste pratiche coloniali. E' facile mostrare che la “Nakbah” palestinese consiste esattamente in questa condizione di non essere più i padroni coloniali del Medio Oriente. Quanto alla miseria, essa è essenzialmente autoinflitta: non c'è regione al mondo che abbia guadagnato tanto senza sforzo nell'ultimo secolo, quanto i paesi arabi del Medio Oriente col petrolio. Quel che non ha funzionato è il meccanismo di redistribuzione, di diversificazione, di investimento. I ceti dominanti arabi hanno usato questo denaro per godere di un lusso illimitato e non hanno pensato affatto a far vivere un'economia produttiva, a elevare la condizione di vita dei loro ceti popolari. I poveri arabi sono stati sfruttati, sì, ma dai loro capi, non dall'Occidente o da Israele. Con gli ebrei è accaduto l'opposto. Oppressi per secoli in terra di Israele dai loro colonizzatori arabi, trattati come gli ultimi, oppressi spesso sterminati sia nel mondo islamico sia in quello cristiano, quando hanno potuto liberarsi hanno cercato di arrivare in Israele. Ci sono riusciti finalmente in massa a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, arrivando per lo più poverissimi, armati solo delle loro braccia, della loro intelligenza e del loro amore per la terra, aiutati in parte da donazioni degli ebrei europei più benestanti a comprare della terra che hanno sviluppato con straordinario successo. La creazione di Israele è un atto di decolonizzazione sia dagli occupanti britannici sia dai colonialisti arabi. Il benessere attuale di Israele è la dimostrazione che un territorio desertico e desolato può essere reso fruttuoso col lavoro e che il fattore umano è almeno altrettanto importante per l'economia della ricchezza delle materie prime. L'odio arabo per Israele è in buona parte invidia, volontà predonesca di prendersi i beni che sono stati accumulati con la fatica di generazioni – invece di rimboccarsi le maniche e costruirli a propria volta. Gli ebrei sono odiati dagli arabi perché erano oppressi erano schiavi e si sono emancipati. I progressisti dovrebbero stare dalla parte di una società di schiavi liberati (come già Israele fu all'uscita dall'Egitto). Ma la miopia ideologica impedisce di vedere le radici storiche dei problemi e ne coglie solo gli aspetti superficiali: i “poveri” palestinesi che rivendicano una terra “loro” (cioè che una volta occupavano come colonialisti, o piuttosto emanazione locali dei colonialisti turchi) e dato che l'esercito israeliano ha il torto di impedire loro di ammazzare liberamente gli ebrei, si danno, poverini, al terrorismo. I palestinesi hanno fatto un ottimo affare prendendo di mira Israele, specialmente negli anni ‘70. Praticare il terrorismo contro lo stato ebraico ha innescato decenni di accuse contro le vittime di quel terrorismo e di giustificazioni per i colpevoli. L’ostilità antisemita che tanti occidentali nutrono nei confronti di Israele, l’ebreo fra gli stati, rafforzò il diffondersi della cultura post-anni ‘60 della colpa occidentale, dell’abiura, della condiscendenza e della legittimazione verso qualunque nemico violento a patto che si potesse dipingere come gente del terzo mondo. Il democratico Israele, costretto a difendersi, venne dipinto come una potenza imperiale e non uno stato assediato, mentre i terroristi palestinesi vennero rappresentati come combattenti per la libertà e non come assassini invasati. Anziché considerare quanto siano pochi i popoli, molto più sofferenti dei palestinesi, che si danno al terrorismo; anziché domandarsi come mai i palestinesi prendono di mira sistematicamente donne, bambini e anziani innocenti, i portabandiera del “dare sempre la colpa a Israele” ribaltavano la colpa sulla vittima: Israele deve essere reo di chissà quale atroce oppressione per tirarsi addosso un odio tanto spietato, sostenevano i campioni del politicamente corretto invece di analizzare il culto della morte palestinese che alimentava antisemitismo e fondamentalismo islamico. La condiscendenza occidentale verso il terrorismo palestinese ha dimostrato che lo slogan “il terrorismo non paga” è pura farneticazione: in realtà il terrorismo funziona grazie alla arrendevolezza dell’Occidente. La violenza terroristica impose i palestinesi all’attenzione internazionale, facendoli diventare le vittime per eccellenza agli occhi di tanti terzomondisti totalitari che oggi ne ingigantiscono i patimenti, la debolezza e la centralità.

Appendice: cosa successe nel 1967, quando il mondo dimenticò tutto e cominciò ad odiare ciecamente Israele? Bisogna fare un passo indietro. Nel 1955 l’Unione Sovietica decise di “cambiare cavallo”: dall’appoggio politico dato a Israele nel 1948, passò ad appoggiare, politicamente e militarmente, l’Egitto, fino a rompere pretestuosa-mente le relazioni diplomatiche con Israele. L’Egitto di Nasser voleva prendersi la rivincita della sconfitta subita nel 1948 e 1949, e incominciò ad ammassare nel Sinai truppe e mezzi corazzati forniti dall’URSS. Nel 1956 Israele prevenne l’attacco egiziano e travolgendo i mediocri mezzi motorizzati forniti dall’URSS, occupò tutto il Sinai, giungendo fino al Canale di Suez. Le pressioni e le garanzie americane persuasero pochi mesi dopo Israele a ritirarsi da tutti i territori egiziani occupati. A partire dai primi anni Sessanta l’Egitto ricominciò a preparare una seconda rivincita, con l’aiuto ormai tanto scoperto quanto massiccio, dell’Unione Sovietica, che mirava a sostituire l’influenza americana nella regione con ogni mezzo. I raid di terroristi palestinesi e di commando egiziani contro kibbutz israeliani si moltiplicavano, partendo dalle basi di Gaza. In perfetta sintonia si muovevano dal fronte opposto i siriani, i quali dalle alture del Golan sparavano con le loro artiglierie sui sottostanti insediamenti e kibbutz ebraici di Galilea. Dopo alcuni mesi di tensione, il 7 aprile 1967 artiglierie e carri armati siriani attaccano pesantemente villaggi ebraici di frontiera. Damasco fa alzare in volo i suoi caccia, ma quelli israeliani ne abbattono sei. L’umiliazione di Damasco è cocente.  L’URSS riprende massicciamente i suoi rifornimenti di armi alla Siria e all’Egitto. Poi a maggio i suoi servizi segreti forniscono a siriani ed egiziani un’informazione falsa. Dicono cioè che Israele ha ammassato truppe e mezzi corazzati ai confini con la Siria. Il Segretario Generale dell’ONU, Sithu U Thant, smentisce: “I rapporti degli osservatori delle Nazioni Unite hanno confermato l’assenza di concentramenti di truppe o movimenti di truppe di qualche rilievo su ambo i lati della linea armistiziale “. Il 14 maggio è l’Egitto che fa sbarcare numerose unità oltre il Canale per rinforzare il suo già massiccio schieramento nel Sinai. 1116 maggio il Presidente egiziano Gamal Abdel Nasser intima al comandante delle forze dell’ONU nel Sinai e a Gaza, generale Rikhye, di sgombrare le truppe presenti nel Sinai dal 1957, all’indomani del conflitto che aveva visto Israele arrivare al Canale di Suez. Poi Nasser proclama il 22 maggio il blocco dello Stretto di Tiran: nessuna nave, di nessuna nazionalità, che si rechi al porto di Eilat, in Israele, o che da Eilat parta, potrà più passare. Secondo il diritto internazionale è “atto di guerra”. Le dodici potenze marittime non onorano le garanzie che nel 1956 avevano offerto a Israele per la libertà di navigazione, e non mandano le loro navi da guerra a proteggere la libertà di navigazione. Il 30 maggio re Hussein di Giordania mette le sue truppe sotto il comando egiziano. Truppe egiziane, saudite, irachene affluiscono in Giordania. Truppe irachene, algerine e kuwaitiane raggiungono invece l’Egitto. Il 3 giugno il generale Murtaji, capo delle forze egiziane nel Sinai, dirama un ordine del giorno alle truppe, nel quale invoca “la Guerra Santa con cui voi ristabilirete i diritti degli arabi conculcati in Palestina e riconquisterete il suolo derubato della Palestina “. (Da notare che il generale parla di arabi e di Palestina, ma non di palestinesi, che nessun paese arabo nel 1967 conosceva e riconosceva, tanto è vero che quando la Cisgiordania era parte della Giordania non si sentiva neanche parlare di sovranità palestinese). Il 5 giugno 1967, all’alba, Israele risponde. Israele vince la guerra e tutto il mondo lo odierà per aver vinto. Da allora diventerà una nazione da diffamare e perseguitare. Potere della stupidità umana. Come ben ricordato qui, da cui si trae quello che segue, i propagandisti filopalestinesi parlano oggi di “confini del '67” per definire le linee armistiziali stabilite dopo la guerra di indipendenza del '49 e lo fanno perché è stato nel '67, con la guerra “dei sei giorni” che Israele ha liberato Giudea, Samaria, Gaza e il Golan. Di qui parte tutta la problematica attuale di questi territori, secondo loro: la “colonizzazione” e tutto il resto. Sapete che cosa accadde subito dopo? “Il 19 giugno del 1967, il governo di unità nazionale [di Israele] votò all'unanimità di restituire il Sinai all'Egitto e le alture del Golan alla Siria in cambio di accordi di pace. Il Golan avrebbe dovuto essere smilitarizzato e un regime speciale sarebbe stato negoziato per lo Stretto di Tiran. Il governo deliberò inoltre di avviare i negoziati con il re Hussein di Giordania per quanto riguarda il confine orientale.” Sapete chi ha scritto queste righe? Chaim Herzog, il padre dell'attuale leader della sinistra, uomo di tutt'altra tempra rispetto a lui (la citazione viene da Herzog, Chaim (1982). “The Arab-Israeli Wars”. Arms & Armour Press).

Insomma, immediatamente dopo la guerra trionfale, Israele era disposto a rinunciare a Sinai e Golan e forse anche a buona parte di Giudea e Samaria in cambio della pace: una grandissima occasione per risolvere il conflitto. E sapete che cosa accadde allora? Ci fu una conferenza a Khartoum, un mese e mezzo dopo, cui parteciparono i capi di stato dei più importanti paesi arabi e anche l'Organizzazione per la Liberazione della Palestina che decisero una politica che divenne famosa sotto il nome di “I tre no”: No alla pace, no al riconoscimento di Israele, no alle trattative. Un'altra occasione perduta, forse la più importante di tutte, anche se prima c'era stata la risoluzione dell'Onu nel '47 e poi ci sarebbero state le trattative del '99 e del 2000, e poi quella con Omert. Poi le cose sono un po' cambiate, il mondo arabo ha delegato all'OLP e all'Autorità Palestinese la guerra a Israele, avendo altro di cui occuparsi, lo stato ebraico si è radicato profondamente e non appare così facile da eliminare di colpo, la strategia si è trasformata in un'impresa a tappe, di lunga durata. E molta acqua è passata sotto i ponti. Israele ha offerto di nuovo possibilità di pace, ma i palestinisti hanno sempre detto di no, perché pensavano che il tempo lavorasse per loro. E ancora lo pensano, grazie all'appoggio della sinistra mondiale, che ormai ha l'egemonia sugli Stati Uniti e l'Europa. Molte trattative si sono aperte, molte si sono rotte a seguito dei no palestinesi. E' importante ricordarlo, perché di solito non se ne parla.

E gli ebrei rifiutarono il ricatto antisionista, scrive su Il Corriere della Sera Paolo Mieli il 15 maggio 2012. La deflagrazione tra Israele e il Partito comunista italiano avvenne tra la fine di maggio e i primi giorni di giugno del 1967. A fare da detonatore per l’esplosione, fu la «guerra dei Sei giorni» con cui lo Stato ebraico reagì ad una minaccia di distruzione e sconfisse il fronte arabo, che rappresentava una popolazione venticinque volte superiore a quella israeliana. Già la sera del 28 maggio – pochi giorni prima del conflitto – si tenne a Roma, al portico d’Ottavia, una veglia per Israele nel corso della quale l’architetto Bruno Zevi, il quale fino a pochi anni prima si definiva «azionista-comunista», disse: «Io non desidero polemizzare con i comunisti più del dovuto, perché noi tutti sappiamo che i comunisti sono stati in molte occasioni a fianco della minoranza ebraica italiana, perché sappiamo che ogni volta che, nel passato, questo quartiere ha subito offese antisemite, i comunisti sono stati tra i primi a venire qui e a portarci l’aiuto della loro solidarietà». Poi, con un crescendo di voce, («senza rancore, senza astio ma con chiarezza», precisò), puntando l’indice verso le Botteghe Oscure, aggiunse: visto che, come dite, «c’è il pericolo che gli Stati Uniti sostengano Israele, perché, per evitare che tale pericolo si concretizzi, non premete sull’Unione Sovietica affinché sia l’Unione Sovietica ad aiutare Israele?» Domanda fintamente ingenua, dal momento che Zevi quella sera sa benissimo (e lo dice apertamente) che «l’Unione Sovietica, oltre a non aiutare Israele, istiga e arma i Paesi arabi che vogliono distruggerlo». E racconta di «molti comunisti che si trovano in uno stato drammatico di imbarazzo». A quel punto alcuni militanti del Pci chiedono di poter prendere la parola. Ma l’intellettuale ex azionista Aldo Garosci pone la condizione che essi strappino in pubblico la tessera del loro partito.

Furono, quelli, giorni effettivamente di grande imbarazzo per quei pochi, pochissimi, intellettuali e dirigenti del Pci che, pur tra dubbi e cautele, vollero schierarsi dalla parte di Israele. Il direttore del quotidiano filocomunista «Paese Sera», Fausto Coen, fu costretto a dimettersi dopo che il capo della sezione esteri dell’«Unità», Alberto Jacoviello, era andato a rimproverare il «giornale fratello» per la linea eccessivamente benevola nei confronti di Israele e, in un’esplosione d’ira, aveva distrutto le matrici pronte per le, rotative. Jacoviello godeva del pieno sostegno dell’allora direttore dell’«Unità» Gian Carlo Pajetta, che si era schierato senza esitazioni dalla parte dell’egiziano Nasser. E Pajetta divenne bersaglio di lettere oltremodo polemiche da parte di ebrei. Scrisse Mario Pontecorvo: «Io non credo che lei nell’animo possa veramente appoggiare Nasser che, è noto, distribuisce il Mein Kampf tra i suoi ufficiali». Vittorio Da Rodi fu ancora più diretto: tra i soldati di Israele, «che tu oggi accusi di aggressione, vi sono coloro che combatterono in Italia per la liberazione della tua e mia patria dal fascismo, prima ancora che tu, Pajetta, potessi fare il partigiano». Gli autori di queste e moltissime altre missive, però, più che gli esponenti del Pci prendevano a bersaglio gli «ebrei comunisti», accusati dì essere simili ai loro correligionari de «La Nostra Bandiera», il foglio israelita che negli anni Trenta si era schierato con il regime fascista. Bersaglio privilegiato di questa offensiva fu il senatore comunista (ebreo) Umberto Terracini, definito dalla rivista «Shalom» «associato alla campagna antisemita dei suoi compagni di Polonia». Altro bersaglio fu Franco Fortini (ebreo solo da parte di padre, che nel 1940 aveva lasciato il cognome originario, Lattes, per prendere quello della madre) per aver dato alle stampe un libro, I cani del Sinai (De Donato), nel quale si accusavano le «dirigenze politiche israeliane» di essere «compartecipi» degli «interessi economico-militari americani e, subordinatamente, inglesi» in Medio Oriente. Ma l’uomo dello scandalo, se così si può dire, fu il senatore comunista Emilio Sereni, fratello di Enzo, grande esponente del sionismo italiano morto a Dachau nel 1944. Emilio (Mimino) Sereni disapprovò «certe affermazioni» dei leader arabi, ma esortò a non dimenticare «la responsabilità che Israele porta per aver discriminato e cacciato un milione e trecentomila arabi e per aver partecipato all’aggressione del 1956, quando sarebbe stata una scelta lungimirante la solidarietà con Nasser che nazionalizzava la compagnia di Suez». Anche a lui giunse una pioggia di lettere da parte di correligionari. Dario Navarra: «Vede senatore, certe volte il nome che si porta può essere un peso, soprattutto se è un nome bello, legato ad una tradizione, ad un’idea; forse è una delle tragedie della civiltà moderna quando i figli rinnegano i padri ed i fratelli si tradiscono a vicenda». Renato Salmoni (reduce da Buchenwald, tiene a precisare di non essere «un accanito sionista»): «Trovo che per una questione di opportunità e diciamo di buon gusto, lei farebbe meglio a tacere». Suo cugino, il succitato Mario Pontecorvo, accusò Sereni di «servilismo fazioso» nei confronti del Pci e si spinse a chiedere che venisse «espulso da ogni forma di manifestazione ebraica».

Questo genere di persone, scriveva ancora «Shalom», «devono solamente decidere se, in quanto uomini e in quanto ebrei, debbano appoggiare un gruppo ebraico minacciato di sterminio, oppure se valga per loro la pena, come comunisti, di accettare il sacrificio dei loro fratelli sull’altare dell’ideologia». E quando Arturo Schwarz, uno di questi israeliti difensori delle ragioni degli arabi, aveva avuto l’auto sfregiata da una svastica e da una scritta inneggiante ai palestinesi, «Shalom» aveva dedicato all’accaduto un articolo irridente fin dal titolo (Le piace Schwarz?) in cui si scriveva: «Forse qualcuno lo aveva preso per un ebreo vero». A questi tormenti del 1967 sono dedicate le pagine centrali del libro di un brillante allievo di Salvatore Lupo, Matteo Di Figlia, Israele e la sinistra, pubblicato da Donzelli. Correttamente, però, il volume fa risalire la prima rottura tra ebrei e mondo comunista non già al 1967, bensì al 1952. Ed era stata una rottura dolorosa, dal momento che fino ad allora il rapporto tra socialisti, comunisti ed ebrei era stato molto stretto. Il 7 gennaio del 1946, quando partì da Vado Ligure la nave «Enzo Sereni» piena di israeliti che emigravano in Palestina, c’era un gruppo di ex partigiani rossi a vigilare sulle operazioni di imbarco. E nell’ottobre dello stesso 1946, dopo l’attentato dell’Irgun (organizzazione militare della destra sionista) all’ambasciata britannica di Roma, carabinieri e polizia sospettarono – è scritto in rapporti di due anni dopo – il coinvolgimento di persone del Pci «che mirerebbero a far tramontare definitivamente l’influenza inglese in quella regione». Anche 11 Partito socialista italiano, in particolare Pietro Nenni, fu in prima linea nel difendere le ragioni di Israele e a esaltare i kibbutz come un modello di socialismo. Molti ragazzi di sinistra, anche non ebrei, decisero di trascorrere un periodo in Israele a lavorare in qualche kibbutz. Il futuro leader di Potere operaio Toni Negri, all’epoca giovane socialista, scelse («inseguendo una gentile fanciulla») di trascorrere un anno in un kibbutz del Mapam e lì in Israele (ne ha scritto in Pipe-line. Lettere da Rebibbia, edito da Einaudi nel 1983 e riproposto da Derive Approdi nel 2009) gli parve di poter finalmente vivere «pratiche tanto elementari, quanto radicali di comunismo»: «C’era, mordeva il reale quest’utopia; era concreta», fu la sua impressione. Socialisti e comunisti sostennero sui loro giornali l’emigrazione ebraica (è stato ritrovato un manifesto del Pci raffigurante una nave che fa rotta verso la Palestina, in cui si invitano militanti e simpatizzanti a raccogliere fondi a favore degli ebrei) e, nel 1948, dopo la nascita di Israele, Umberto Terracini ne chiese immediatamente – a nome del Pci – il riconoscimento. Nel mondo ebraico era nato nel 1945, su iniziativa di Joel Barromi e, poi, Marcello Savaldi, il Centro giovanile italiano del movimento sionista pionieristico «Hechalutz», che non nascondeva le proprie simpatie per il comunismo. Nella mozione di un congresso di «Hechalutz» (1947), l’organizzazione dichiarava di unirsi «ai lavoratori italiani nello sdegno per l’eccidio del Primo maggio a Portella della Ginestra, riaffermando in questa occasione la solidarietà con i partiti progressisti d’Italia». In un articolo del loro giornale si poteva leggere: «Disgraziatamente per noi, impariamo a nostre spese che l’ebraismo della diaspora non conosce proletariato». E ancora: «Mancano quei tipi quadrati di operai delle grandi officine, minatori, muratori, che nascono con l’istinto della lotta di classe e della solidarietà operaia; gli operai dalle schiene piegate che lavorano e studiano, vogliono conoscere e si ribellano al mondo che li fa lavorare, non li abbiamo mai visti tra noi ebrei; l’ebreo ricco che vende tappeti in un negozio di lusso e l’ebreo povero che vende cartoline su una bancarella non sono così lontani». Di passo in passo «Hechalutz» giunse ad auspicare «che il nostro Primo maggio non si limiti a richiedere l’unità dei lavoratori ebrei, ma miri ad una unità sempre più stretta coi lavoratori arabi». Ma venne, come dicevamo, il 1952. In molti paesi dell’Est europeo, ricostruisce Di Figlia, si tennero «una serie di processi sommari a imputati ebrei, tra cui spiccò quello a Rudolf Slansky, ex leader del Partito comunista cecoslovacco, impiccato lo stesso anno». Poi fu il 1953, quando a Mosca furono arrestati i «camici bianchi», medici ebrei accusati di aver complottato contro Stalin, e solo la morte del dittatore evitò l’avvio di una persecuzione antisemita per la quale si stava creando un clima adatto. In quegli stessi mesi un misterioso attentato all’ambasciata sovietica a Tel Aviv provocò la momentanea rottura delle relazioni diplomatiche tra Urss e Israele. In Italia socialisti e comunisti si schierarono senza esitazione dalla parte dell’Urss: «Il processo contro la banda Slansky», scrisse «l’Unità», «ha dimostrato come i dirigenti dello Stato d’Israele avessero posto il loro Stato e le loro rappresentanze diplomatiche all’estero, in particolare in Europa orientale, al servizio dei servizi di spionaggio americani». Ma qualche ebreo, come Amos Luzzatto, che nel dopoguerra si era iscritto al Pci, cominciò ad avere dei dubbi e, pur restando a sinistra, lasciò il partito. Non così Guido Valabrega, un israelita di Torino che nel 1950 si era trasferito in Israele in un kibbutz di Ruchama e da lì scriveva ai suoi familiari che la rottura dei rapporti diplomatici tra Urss e Israele era tutta da imputare al governo di Tel Aviv, «anticomunista quale non lo è nemmeno De Gasperi» (nell’agosto del ’53 Valabrega fu espulso dal kibbutz e raccontò poi di esserne uscito «cantando l’Internazionale e l’inno sovietico»). E neanche «Hechalutz», che accusò l’ebraismo italiano di «strumentalizzare i processi d’oltrecortina in chiave anticomunista». Quando poi, dopo la morte di Stalin, i «camici bianchi» furono prosciolti, «Hechalutz» ironizzò: «Era così comodo poter puntare sull’Idra sovietica all’attacco, la campagna antisemita era così utile agli stessi ebrei occidentali per la loro politica che oggi, sotto la patina di una sostenuta soddisfazione, si sente il rimpianto per un’occasione che va in fumo». E tutto proseguì come prima. Nel 1955, in occasione dell’anniversario della rivoluzione d’Ottobre, il giornale di «Hechalutz» pubblicò un appello inneggiante alla patria del socialismo che si concludeva con queste parole: «W l’Urss! W lo Stato di Israele! W l’amicizia eterna tra Israele e l’Urss». Poi però fu il 1956, con la guerra per il canale di Suez: l’Urss (impegnata a reprimere la rivoluzione ungherese) si schierò con decisione dalla parte di Nasser contro Israele. Il Pci prese le stesse posizioni. Anche se, ha notato Marco Paganoni in un bel libro, Dimenticare Amalek (La Giuntina), «l’Unità» all’epoca di, fendeva ancora lo Stato ebraico «scindendo recisamente le sue responsabilità da quelle di Francia e Gran Bretagna». Stavolta a sinistra si distinse il Partito repubblicano. Ugo La Malfa criticò l’intervento militare di Gran Bretagna e Francia, ma difese Israele contro Nasser. E in Parlamento l’ex ministro repubblicano della Difesa, Randolfo Pacciardi, puntò l’indice contro i comunisti: «Là, in Israele, avete un popolo che si è svenato per la sua libertà. In Egitto avete un dittatore che voleva consolidare la sua potenza proprio con le armi del- l’Unione Sovietica. E da ieri che quel dittatore andava predicando lo sterminio del popolo ebraico. Ma anche il popolo ebraico, se non siete diventati persino razzisti, ha diritto alla vita come tutti gli altri». Tra i comunisti la simpatia per Israele cominciò ad attenuarsi. Ha notato sempre Paganoni che già nel febbraio del ’57 sull’«Unità» si cominciò a parlare di «mire espansionistiche» dello Stato israeliano. E, all’epoca del processo contro Adolf Eichmann (1961), «l’Unità» scelse di mettere in risalto le connivenze con il nazismo degli imprenditori tedeschi (Dietro i Lager di Adolf Eichmann stavano i trust dei Krupp e dei Farben, fu il titolo del 22 marzo 1961; L’eccidio in massa degli ebrei fu anche un affare economico, proseguiva l’8 aprile); stabilì poi un paragone tra l’operato di Eichmann e quello delle potenze occidentali in Africa e accusò il cancelliere tedesco dell’epoca, Konrad Adenauer, di aver favorito il reinserimento nei ranghi istituzionali di molti ex nazisti. Così, quando si giunse alla «guerra dei Sei giorni», a difendere – da sinistra – Israele (repubblicani a parte) restò quasi solo il socialista Pietro Nenni, che si spinse ad accusare due importanti leader democristiani, Amintore Fanfani e Aldo Moro, di aver assunto, per via delle loro cautele in merito a ragioni e torti di quel conflitto, «posizioni tecniciste» che rispondevano a «un certo vuoto morale». Sull’«Avanti!» un esponente dell’ebraismo romano, Jacob Schwartz, lodò pubblicamente la «coerenza» mostrata da Nenni. Dalle colonne dell’«Unità» un leader allora in ascesa, Enrico Berlinguer, accusò Nenni di essere un epigono di «quel vecchio filone di interventismo sedicente di sinistra che ha finito sempre per colludere con quello reazionario». In quegli stessi giorni si consumò una divisione nel settimanale «L’Espresso», dove il direttore Eugenio Scalfari – pur con una grande attenzione all’uso delle parole – decise di prendere le distanze da Israele provocando una crisi con alcuni importanti collaboratori, tra cui Bruno Zevi e Leo Valiani. «Se gli anticomunisti sbagliano e sbagliano gli americani, è nostro obbligo dirlo con tanta maggiore fermezza in quanto si tratta non di errori degli avversari ma di errori nostri», scrisse Scalfari il 16 giugno del 1967 in una lettera personale a Valiani. Stesso genere di argomentazione – ma a parti invertite – fu quello usato da Pier Paolo Pasolini che in una lettera su «Nuovi Argomenti» scrisse: «L’unico modo di essere veracemente amici dei popoli arabi in questo momento non è forse aiutarli a capire la politica folle di Nasser, che non dico la storia, ma il più elementare senso comune ha già giudicato e condannato? O quella dei comunisti è una sete insaziabile di autolesionismo? Un bisogno invincibile dì perdersi, imboccando sempre la strada più ovvia e disperata? Così che il vuoto che divide gli intellettuali marxisti dal Partito comunista debba farsi sempre più incolmabile?» Ma Pasolini sbagliava previsione. Quelli che lui definiva «intellettuali marxisti» – ad eccezione dei radicali ricostituiti sotto la guida di Marco Pannella – si schierarono pressoché all’unanimità su posizioni simili a quelle di Scalfari. Persino ebrei comunisti (come il già citato Valabrega e, a Roma, il consigliere comunale Piero Della Seta) sostennero, racconta Di Figlia, la validità della posizione filoaraba dell’Urss e di altri Paesi socialisti, affermando che Israele «aveva attaccato per risolvere una crisi economica ormai evidente». Tra le poche eccezioni, quelle pur sorvegliatissime del giurista Luciano Ascoli e di Umberto Terracini, entrambi convocati «privatamente» dai vertici del Pci per rendere conto delle loro posizioni. Opportunamente Di Figlia tiene a precisare che è improprio ricondurre per intero al Pci questo contenzioso. Così come non si può «adottare l’unico canone interpretativo della cieca obbedienza a Mosca, abbastanza valido per gli anni Cinquanta, ma non per il periodo successivo». Il Pci «fu anti-israeliano mentre era impegnato in un farraginoso ma progressivo allontanamento dall’Urss, e molti gruppi nati dopo il ’68 che espressero giudizi durissimi verso Israele, osteggiavano apertamente il Pci e il modello sovietico». La scelta di Israele di mantenere i territori occupati nel 1967 fu avversata anche da molti esponenti del Partito socialista. A questo proposito, scrive Di Figlia, «è rilevantissimo il caso del Psi negli anni della segreteria di Beffino Craxi: questi non permise il prevalere di una corrente massimalista, scommise tutto su una svolta socialdemocratica e finalmente libera da ogni retaggio marxista; nello stesso periodo il Psi accentuò la vocazione filopalestinese». Non ci fu, dunque, «un’automatica correlazione tra critica a Israele e ortodossia comunista, né tra quest’ultima e l’antisemitismo di sinistra, che, nato da posizioni antisioniste, non va letto come il cangiante lascito di quello nazifascista, di quello sovietico, o dell’antigiudaismo cattolico». Ciò detto, dopo il 1967 i rapporti tra Israele e sinistra italiana – eccezion fatta per Pietro Nenni, Ugo La Malfa, dopo di lui Giovanni Spadolini, Giorgio La Malfa e l’intero gruppo dirigente repubblicano, intellettuali d’area inclusi – andarono sempre più peggiorando. Le linee dell’esposizione sono quelle già tracciate da Maurizio Molinari in La sinistra e gli ebrei in Italia (1967-1993) edito da Corbaccio. La sinistra quasi per intero sposò la causa palestinese. Quella extraparlamentare, all’epoca influente, appoggiò i fedayn più radicali. Giorgio Israel ha così raccontato una cena estiva con un gruppo di amici: «A un certo punto, tra una chiacchiera e l’altra, un "compagno" toscano prorompe in un’invettiva violentissima contro gli ebrei: capitalisti, sanguisughe, imperialisti, assassini del proletariato e chi più ne ha più ne metta. Reagisco indignato, definendo il suo linguaggio come fascista e razzista, cerco di trovare ampia solidarietà e … sorpresa, mi ritrovo nell’isolamento più assoluto. Nessuno mi difende, nemmeno i più cari amici». Ai tempi dell’attentato di Settembre nero all’Olimpiade di Monaco (1972)1a solidarietà per gli atleti israeliani trucidati fu assai trattenuta. Stefano Jesurum, all’epoca militante del. Movimento studentesco, riferisce nel libro Israele nonostante tutto (Longanesi) di essere corso quel giorno dalla sua «fami, glia» politica, ma di essere stato gelato con queste parole: «Su questi temi voi compagni ebrei è meglio che stiate zitti». Nel volgere di pochi anni non valse più, mai, neanche l’evidenza dei fatti. Israele aveva sempre torto. Sempre. Nel 1973, in occasione della guerra dello Yom Kippur, dopo l’attacco dell’Egitto «l’Unità» sostenne che il «vero aggressore» era Israele per il fatto che non aveva ancora «restituito i territori occupati nel ’67». Anche se, con il passare del tempo, i dirigenti del Pci – in privato, però – cominciarono a prendere le distanze dai regimi arabi. In un libro di memorie (Con Arafat in Palestina. La sinistra italiana e la questione mediorientale, Editori Riuniti) l’allora responsabile della commissione esteri del Pci, Antonio Rubbi, ha raccontato che, negli anni Ottanta, dopo un viaggio in Libano, Siria e Iraq, Giancarlo Pajetta gli confidò di aver incontrato «una massa di imbroglioni e ipocriti». «Il Pajetta che ancora all’inizio degli anni Settanta parlava di "nazione araba" e di "socialismo arabo"», fu l’impressione di Rubbi, «semplicemente non esisteva più». Certo, qualcosa iniziava a cambiare. Giorgina Arian Levi, nipote acquisita di Palmiro Togliatti (in quanto figlia di una sorella di Rita Montagnana, prima moglie del segretario del Pci) passa da posizioni decisamente filosovietiche e anti-israeliane alla denuncia, ne11977, della propaganda contro Israele in Unione Sovietica, propaganda che, scrive, «sorprende per l’assenza di concrete argomentazioni politiche e per lo sconfinamento dall’antisionismo all’antisemitismo». «La sedimentazione antisemita che risale alla Russia zarista», prosegue, «non è del tutto morta, anche sessant’anni dopo la gloriosa rivoluzione d’Ottobre». Discorso a parte merita poi un’altra ribellione allo spirito dei tempi, alla quale Di Figlia dedica pagine molto interessanti. È quella del Partito radicale di Pannella. E di Gianfranco Spadaccia che, in un congresso, polemizza apertamente con quanti hanno la tentazione di sposare le iniziative filopalestinesi dell’ultrasinistra: «Vogliamo costruire una politica che abbia come bussola di orientamento… i diritti umani, la democrazia; basta battersi romanticamente per le lotte di liberazione che poi producono oppressioni più atroci». I radicali, osserva Di Figlia «non furono i neocon italiani, ma furono i primi a difendere le ragioni israeliane usando un tassello centrale della proposta neocon, cioè quello dei diritti umani». Su questa base, «il sostegno a Israele divenne un tratto distintivo del Pr negli anni di Pannella molto più di quanto non lo fosse stato in quelli di Mario Pannunzio». Bruno Zevi, in dissenso con la politica di Craxi tutta a favore di Arafat, prendeva la tessera del Partito radicale, di cui sarebbe divenuto presidente onorario. Ma il clima generale in Italia restava quello di cui si è detto prima. Per la sinistra, quasi tutta, gli israeliani dovevano sempre essere criticati e agli ebrei toccava il bizzarro (bizzarro?) compito di recitare in pubblico il «mea culpa» per quel che si decideva a Gerusalemme e a Tel Aviv. Nel 1982, quando Israele invade il Libano, scatta immediata e unanime la condanna da parte dell’intera sinistra. Un gruppo nutrito di ebrei italiani si affretta a sottoscrivere un manifesto, Perché Israele si ritiri, che reca in testa la firma di Primo Levi. Dopo il massacro di palestinesi a Sabra e Chatila (da parte dei falangisti libanesi che agiscono indisturbati per l’omesso controllo degli israeliani), i toni nei confronti di Israele si fanno più violenti. Per una strana (strana?) proprietà transitiva tali «critiche» vengono estese a tutti gli ebrei. Un corteo sindacale depone una bara sui gradini del Tempio di Roma. Poco tempo dopo, un attentato alla stessa sinagoga della capitale provoca la morte di un bambino: Stefano Taché. Questo orribile delitto provoca un soprassalto: da quel momento cambia qualcosa di importante, di molto importante. Viene allo scoperto un sentimento – fino ad allora quasi nascosto – di «appartenenza» orgogliosa al popolo ebraico: Natalia Ginzburg, Furio Colombo, Anna Rossi Doria, Fiamma Nirenstein (che pure aveva firmato l’appello di cui si è appena detto, criticato da suo padre, Alberto Nirenstein), Mario Pirani, Anna Foa, Janiki Cingoli, Clara Sereni, Gabriele Eschenazi rifiutano una volta per tutte – quanto meno chi fino a poco prima si era prestato – di recitare la parte degli «ebrei buoni» chiamati sul palco quando c’è da accusare Gerusalemme. Un ruolo fondamentale nell’accompagnare questa presa di coscienza lo svolge un intellettuale torinese, Angelo Pezzana (che stranamente nel libro di Matteo Di Figlia non è neanche citato). Ancor più importante, nel favorire questo risveglio di coscienza tra gli ebrei di sinistra, la rivista «Shalom» sotto la direzione di Luciano Tas. Dalle colonne di «Repubblica» Rosellina Balbi, con un coraggioso articolo, incita gli ebrei di sinistra a non sentirsi più in dovere di «discolparsi» per quel che ha fatto Israele. Piero Passino imprime al Pci una svolta nella politica estera che implica l’eliminazione del pregiudizio, una maggiore attenzione (di volta in volta) alle ragioni di Israele e ai torti del modo arabo: «Non si è posta sufficientemente in rilievo la centralità della questione della democrazia e dei diritti umani nei paesi mediorientali», riconosce, echeggiando le antiche posizioni del Partito radicale, in un’intervista ad Antonio Carioti che significativamente compare su «La Voce Repubblicana».

Il resto è storia recente, ben ripercorsa nelle pagine conclusive del libro di Matteo Di Figlia. Storia di anni in cui si è continuato, da sinistra, a criticare questo o quell’atto del governo israeliano, pur con toni duri, ma con una minore indulgenza a quel genere di antisionismo che per decenni aveva coperto vere e proprie forme di antisemitismo. Anche se il tic di chiedere ai «compagni ebrei» di essere in prima fila quando c’è da attaccare Israele è ben lungi dall’essere scomparso del tutto.

"Shoah causata da comportamento ebrei". Ed è bufera su Abu Mazen. Il leader palestinese: "L'odio verso gli ebrei non è causato della loro identità religiosa, ma dalle loro funzioni sociali". E cita l'usura e le banche, scrive Sergio Rame, Mercoledì 02/05/2018, su Il Giornale.  Il presidente palestinese Abu Mazen è finito al centro di una bufera politica senza precedenti. Nella riunione del Consiglio nazionale palestinese, secondo quanto riferito dalla Bbc, avrebbe affermato che l'Olocausto è stato il risultato delle attività finanziarie e dai "comportamenti sociali" degli ebrei europei, come "l'usura, le banche e cose del genere". Queste dichiarazioni hanno subito scatenato l'ira dei politici israeliani e degli attivisti per i diritti umani che adesso lo accusano di antisemitismo. "In Europa orientale e occidentale gli ebrei sono stati periodicamente massacrati nei secoli, fino all'Olocausto", avrebbe detto Abu Mazen durante la riunione del Consiglio nazionale palestinese. "Ma perché è accaduto?", si sarebbe poi chiesto. "Loro dicono: 'È perchè siamo ebrei'. Vi porterò tre ebrei, con tre libri, che dicono che l'odio verso gli ebrei non è causato della loro identità religiosa, ma dalle loro funzioni sociali". Per Abu Mazen, insomma, il problema sarebbe "differente". "La 'questione ebraica', che era diffusa in tutta Europa, non era diretta contro la loro religione - avrebbe, poi, continuato - ma le loro funzioni sociali, legate all'usura, all'attività bancaria e simili". "Si tratta di osservazioni antisemite e patetiche", ha commentato un portavoce del premier israeliano Benjamin Netanyahu. "Abu Mazen dice che gli ebrei che prestano denaro hanno provocato l'Olocausto - ha twittato il viceministro per gli Affari diplomatici Michael Oren - ora c'è un partner per la pace". Una netta condanna per le dichiarazioni "antisemite" è stata espressa anche dalla Anti-Defamation League.

Ancora antisemitismo militante per Abu Mazen. Per il presidente dell’Autorità palestinese gli ebrei sono stati massacrati a causa del loro "comportamento sociale legato all'usura e alle banche", scrive il 2 Maggio 2018 Il Foglio. Mahmoud Abbas nell'ultima riunione del Consiglio nazionale palestinese di lunedì ha dichiarato che gli ebrei in Europa sono stati massacrati per secoli a causa del loro "comportamento sociale legato all'usura e alle banche". Per Abu Mazen la religione non c'entra nulla con lo sterminio della popolazione ebraica in quanto "dall'undicesimo secolo sino all'Olocausto in Germania, gli ebrei in Europa occidentale e orientale furono sottoposti a un massacro ogni 10 o 15 anni" e questo a causa dei "loro comportamenti all'interno delle comunità nelle quali vivevano". Nel suo discorso, Abbas ha più volte ribadito che Israele è "un progetto coloniale" europeo e che gli ebrei non avevano alcun diritto di rivendicare quei luoghi. "Ora si parla di questa terra come della patria degli ebrei", ha detto nella sua "lezione di storia" a Ramallah. "Dicono rivolevano Sion, ma la storia dimostra quanto questo sia infondato. La prova è che la prima persona a chiedere uno stato ebraico fu Oliver Cromwell nel 1653", riporta il Jerusalem Post. "Napoleone Bonaparte venne dopo di lui e disse la stessa cosa. E dopo arrivò Churchill. Tutti chiedevano uno stato ebraico, tutti a eccezione degli ebrei. La volontà di costruire uno stato nazionale è sempre stata una prerogativa degli stati coloniali". E questo perché "i leader europei hanno voluto piantare un popolo straniero in Palestina per favorire il conflitto e la divisione negli stati arabi e quindi mantenere il controllo su di loro e, quindi, continuare a sfruttarli". Il premier israeliano, Benyamin Netanyahu, ha commentato queste dichiarazioni sottolineando come Abbas si sia dimostrato ancora una volta un "antisemita e patetico" e ciò dimostra come l'Olp continui a essere un problema per Israele. "Questo sì che è un partner per la pace", ha scritto in un tweet il vicepremier israeliano Michael Oren. 

I Savi di Sion: storia della menzogna che giustificò l'Olocausto. Elio Lannutti ha ritirato fuori una della bufale più assurde della storia, che risale addirittura ai tempi dello Zar Nicola II, scrive globalist il 21 gennaio 2019. Lannutti del M5s ha ritirato fuori una delle bufale più antiche del mondo, che ha l'incredibile capacità di risbucare fuori qui e là nella storia recente. Le origini dei mitologici "Protocolli dei Savi Anziani di Sion" - che sarebbero un rapporto delle riunioni che i savi di Sion appunto terrebbero ogni 100 anni nel Cimitero di Praga, per decidere il destino del mondo - risalgono a un libello francese del 1864 di Maurice Joly, intitolato "Dialogo agli inferi tra Machiavelli e Montesquieu". In realtà, nel testo di Joly non si fa alcun riferimento agli ebrei, ma solo a un gruppo di cospiratori (a loro volta ispirati a un fantomatico complotto gesuita immaginato da Eugene Sue nel romanzo I Misteri del Popolo). Da questo libello si scatenò l'immaginazione di un agente della polizia segreta russa, tale Pytor Ivanovich Rachovsky, che riprese l'opera di Joly e ideò per la prima volta i Savi di Sion. L'obiettivo di Rachovsky era minare il movimento bolscevico che puntava alla rivoluzione, collegandolo al forte antisemitismo già presente in Russia. Nel 1911, Serge Nilus, uno scrittore religioso e consigliere dello Zar Nicola II, diede alle stampe parecchie edizioni dei 'Protocolli', inventando che li aveva recuperati da una base sionista francese. Dopo il successo della Rivoluzione russa, molti nobili russi furono costretti a fuggire all'estero, dove conservarono molte copie dei protocolli, che rimasero nascosti fino al 1920 quando, in Inghilterra, sulla pagine del Morning Post, comparve un estratto dei Protocolli, recuperati da due cronisti antisemiti. Sempre nel 1920, una copia dei Protocolli comparve in Polonia e l'anno seguente, in Palestina e in Siria, gli arabi cominciarono a utilizzare i Protocolli per delegittimare l'occupazione ebrea, sostenendo che fosse parte del piano per conquistare il mondo. Nel frattempo, i Protocolli sbarcarono negli Stati Uniti: Boris Bastrol, un editore che era stato al servizio dello Zar ed era scappato per la Rivoluzione, pubblicò i Protocolli in inglese. Una copia del libro finì nelle mani nientemeno che di Henry Ford, magnate delle auto, che possedeva anche un giornale: nel 1920 il Dearborn Independent pubblicava una serie di articoli chiamati "L'Internazionale Ebrea: il Principale Problema del Mondo". Anni dopo Ford si scusò per l'errore, ma il danno ormai era fatto. I Protocolli raggiunsero la Germania nel 1918 per mano di Alfred Rosemberg, futuro ideologo del partito nazista, che ne sentì parlare quando era uno studente a Mosca. Rosemberg era estone e lasciò la sua città natale a causa della Rivoluzione russa. Rosemberg era solito tenere letture pubbliche dei Protocolli. E chi se non Adolf Hitler, nel 1925, fa parte del suo pubblico? Dopo il Mein Kampf, il libro di Rosemberg Il Mito del 20° Secolo, è stato il più influente testo nazista della storia, utilizzato per giustificare l'odio verso gli ebrei. Entro il 1944 aveva venduto più di un milione di copie. È incredibile vedere come la bufala dei Protocolli continui a spuntare fuori, anche in tempi recentissimi: in Egitto, una serie tv intitolata Faris bila Gawad (Cavallo senza cavaliere) è basata sugli immaginari protocolli ed è stata un successo in patria. Una copia dei Protocolli è stata pubblicata nel 2005 in Siria, da una casa editrice vicina al regime. E oggi, il giornalista Elio Lannutti, in un delirio antisemita, rimette in circolo una bufala che, tra le sue conseguenze, annovera anche l'Olocausto. È troppo persino per dei bufalari di professione. 

Giornata della memoria, un monito contro l'indifferenza. Arriva in Italia "Il viaggiatore", un romanzo scritto nel 1938 dal giovane scrittore Ulrich Boschwitz. Una potente denuncia contro chi si volta dall'altra parte, scrive Wlodek Goldkorn il 25 gennaio 2019 su "L'Espresso". Per Anton Cechov, medico di campagna e autore di racconti che tutto ci dicono dei nostri cuori, l’indifferenza significa «la paralisi dell’anima e la morte prematura». E con questa frase si potrebbe riassumere quello che un altro grande scrittore e nostro contemporaneo, David Grossman definisce come «il male della nostra epoca». In un intervento a Milano Grossman disse: «È difficile scegliere di soffrire». Intendeva: l’empatia comporta assumersi una parte del dolore della vittima; e alzi la mano chi non fugge da una simile esperienza; scagli la prima pietra chi non è mai stato indifferente. Indifferente è la borghesia, priva di ogni etica, descritta da Alberto Moravia, giusto novant’anni fa. E contro l’indifferenza hanno parlato Sartre e Camus e tanti altri. Poi c’è la versione delle vittime. Marek Edelman, uno dei comandanti della rivolta nel ghetto di Varsavia e pure lui medico, quindi persona che con la morte e la sofferenza umana aveva dimestichezza, raccontava spesso la storia che segue. Fattorino dell’ospedale del ghetto, tra le sue mansioni c’era quella di portare documenti all’ufficio igiene del municipio, dalla parte ariana della città. Usciva quindi dal varco custodito dai soldati tedeschi e saliva su un tram per gli ariani, la fascia con la stella di David sul braccio. Diceva Edelman: «Guardavo le persone voltare lo sguardo altrove; l’indifferenza era, dal mio punto di vista, peggio della volontà dei nazisti di uccidermi». E dell’indifferenza parla la senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, persona che più di tutte si è adoperata perché a Milano sorgesse il memoriale alla deportazione degli ebrei, Binario 21, e una delle ultime testimoni della parte più preziosa e più in pericolo a causa dell’atmosfera che oggi si respira in Europa, della nostra memoria.

Dell’indifferenza, ora, parla un romanzo, “Il viaggiatore” di Ulrich Alexander Boschwitz, (traduzione di Marina Pugliano e Valentina Tortelli) che sta per uscire in Italia con Rizzoli. Pubblicato in Germania l’anno scorso, vero capolavoro del Novecento, scritto ottant’anni fa, il libro sebbene racconti la vicenda di una vittima dell’antisemitismo ai tempi di Hitler, in realtà narra di noi: non noi italiani o polacchi o tedeschi, ma noi europei, abitatori del vecchio e stanco continente, incapaci di assumerci il dolore dell’Altro, chiusi nel nostro ruolo di ottimi padri e madri di famiglia, attenti solo a non perdere il nostro benessere e la nostra, e dei nostri figli, presunta serenità. Ma procediamo con ordine. “Il viaggiatore” (in Germania il libro ha avuto un grande successo) è una storia che si svolge in pochi giorni, all’indomani della Notte dei cristalli, nel novembre 1938, quando i nazisti, con la partecipazione della popolazione, distrussero e incendiarono abitazioni, negozi, sinagoghe, luoghi di ritrovo degli ebrei e arrestarono migliaia di uomini. Al centro del racconto c’è un ricco commerciante, Otto Silbermann, un ebreo completamente assimilato, che pure nell’aspetto esteriore non assomiglia a un ebreo. Ha la moglie “ariana”, ha combattuto con valore ed eroismo nelle trincee della prima guerra mondiale, ha come soci in affari persone che non sono ebree e di cui si fida. Costretto alla fuga da casa sua a Berlino, comincia a vagare per tutta la Germania. Ogni giorno, o più volte al giorno, sale un treno che lo porta in una diversa città, con in mano una valigetta piena di banconote. Silbermann è un viandante nella paura e nell’indifferenza. Sta sempre sui treni, perché da ebreo non può stabilirsi in un albergo (se non per pochissime ore, prima che il proprietario si accorga della sua identità). I soldi dovrebbero dargli la sicurezza e forse la salvezza, ma non è così. Le persone che il protagonista di “Il viaggio” incontra in genere non sono cattive, sono solo troppo pavide per aiutarlo, oppure non vogliono vedere la sua sofferenza, non intendono condividere niente con un uomo che, per parafrasare Hannah Arendt, è ormai una non persona, un paria, un escluso dal consesso degli umani. Nel libro, un’opera che per molti versi ricorda il modo di scrivere e la profondità dello scavo psicologico di Albert Camus e di Franz Kafka (con citazioni e rimandi espliciti), c’è l’atmosfera dell’ambiente in cui era cresciuto lo stesso autore; e anche la sua vicenda ha qualcosa di romanzesco.

Boschwitz era nato, nel 1915, da un padre ebreo, benestante e assimilato, caduto in guerra mentre la madre, Martha Wolgast, era incinta. Martha Wolgast era a sua volta discendente di un’antica famiglia di fede protestante: senatori, facoltosa borghesia di Lubecca, un po’ come i Buddenbrook di Thomas Mann. Il ragazzo e la mamma fuggirono dalla Germania verso la Norvegia e poi la Svezia, nel 1935, due anni dopo la salita di Hitler al potere. Avevano i mezzi per capire l’avvenire e agire di conseguenza. Poi, dopo peregrinazioni tra Francia e Belgio, approdarono a Londra. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, i due in quanto cittadini tedeschi, quindi “nemici” della Gran Bretagna, vennero internati; il giovane Ulrich caricato sulla nave Dunera e spedito al confino in Australia; durante la traversata, gli internati, nazisti, anti-nazisti, ebrei, subirono ogni sorta di angheria (il comandante fu in seguito condannato da una corte marziale). Nel 1942 Boschwitz ottenne il permesso di tornare in Inghilterra, ma la nave che lo portava dall’Australia fu affondata da un siluro di un U-Boot tedesco, sull’Atlantico. Finiva così, all’età di 27 anni, la vita di uno scrittore geniale. “Il viaggiatore”, pubblicato in inglese nel 1939, con uno pseudonimo e un altro titolo, in Germania è stato scoperto appunto l’anno scorso dal curatore e autore della postfazione Peter Graf. Ecco, dunque che troviamo il signor Silbermann, che assomiglia idealmente al padre di Boschwitz, trattare la vendita al ribasso del suo palazzo, mentre i nazisti stanno sfondando la porta dell’appartamento. La controparte di Silbermann è un suo amico (ma lo è ancora?), Findler, che cerca di pagare pochi marchi per l’immobile. E quando la vittima ebrea rimprovera al tedesco la totale mancanza di empatia, per risposta sente le seguenti parole: «Amo mia moglie e la mia bambina. Con il resto dell’umanità faccio solo affari». Un ottimo padre di famiglia appunto.

Silbermann quindi va in un albergo e chiede una stanza, ma il direttore gli dice di andarsene, e aggiunge: «Non è colpa mia», mentre un cameriere ribadisce che le ordinanze contro gli ebrei «Non sono affare mio». Così comincia l’odissea sui treni, l’unico possibile e provvisorio rifugio. A un certo punto il nostro protagonista attraversa, clandestinamente, il confine con il Belgio. Catturato dai gendarmi, quando dice di essere un perseguitato, gli viene risposto: «Mica tutti possono venire in Belgio». Respinto verso la Germania, un poliziotto tedesco gli dice: «In questi tempi non ci vuole molto per recitare la parte della belva feroce davanti a un ebreo». Silbermann capisce di essere un fuorilegge non per le azioni che compie, o per quello che fa, ma perché così ha deciso il potere, mentre l’ex socio diventato nazista gli spiega che finalmente al potere è la maggioranza, il popolo, e non i pochi eletti che avevano disprezzato e reso vittime le persone comuni. Attenzione: le evidenti assonanze con i tempi nostri non riguardano la situazione “oggettiva” delle vittime. Non è in corso un’azione di sterminio dei diversi, dei non conformi. Semplicemente, oggi non si vuole vedere la miseria a il dolore degli Altri perché si pensa che quel dolore e quella miseria non parlino a noi e di noi. In altre parole, le assonanze stanno nella nostra indifferenza, nel nostro volgere lo sguardo altrui. Non è un’attenuante. Karl Jaspers parlava di quattro specie di colpa: quella penale, quella politica, quella morale (e che riguarda la coscienza di ciascuno di noi) e infine la colpa metafisica, ossia la violazione del principio di solidarietà tra gli esseri umani. La mancanza di empatia, insomma, come colpa che, essendo metafisica, riguarda pure il nostro rapporto con la trascendenza e con l’assoluto.

Ecco, tra Cechov e Jaspers, si capisce quanto l’indifferenza ci renda meno umani. E anche a questo proposito vale la pena di citare “Il viaggiatore”. Il protagonista Silbermann cerca l’aiuto di suo cognato, non ebreo, ma l’uomo gli dice che dargli una mano (ospitarlo per una notte) lo avrebbe messo in difficoltà. Qualche pagina dopo, le stesse parole Silbermann le ripete a un suo conoscente ebreo, colpevole di essere troppo marcatamente ebreo. Le vittime non sono buone, spesso sono egoiste come lo siamo un po’ tutti, ma non per questo non meritano la solidarietà. E infine, nel romanzo il protagonista si innamora di una donna intelligente, ribelle, bella, incontrata sul treno; che ricambia, perché nella vittima vede l’ideale di un’umanità in rivolta e redenta. Suggerisce l’autore: la donna commette un errore etico. Le vittime raramente sono portatrici della redenzione. Sono solo umane come lo siamo noi, gli indifferenti.

Giornata della memoria, i libri della testimonianza. Molte le uscite in libreria dedicate alla Shoah, scrive Sabina Minardi il 23 gennaio 2019 su "L'Espresso". Una storia che parte dalla Germania nazista e arriva fino al Sudamerica, intrecciando una delle più atroci verità della “soluzione finale”: gli esperimenti medici effettuati nei campi di concentramento, con i prigionieri utilizzati come cavie. Del Kommando del maggiore delle SS Hans Lichtblau, scelto dal gerarca Reinhard Heydrich, ci sono anche i due protagonisti del libro: «topi da laboratorio», insignificanti «scimmie ammaestrate». Che sopravvivono alla guerra, però, e diventano due testimoni scomodi. Decisi a scovare Lichtblau, uno per conto di ricchi israeliani cacciatori di nazisti, l’altro costretto dal Kgb. Lo ritrovano in Sudamerica, a combattere i sandinisti. La vendetta sarà impietosa, inevitabile. L’attesa da spy-story.

STELLA Takis Würger Feltrinelli, pp. 182, € 16. Nella Berlino del 1942, l’anno delle grandi deportazioni, una donna si aggira crudele, consegnando gli ebrei clandestini al regime di Hitler: Stella Goldschlag, nata da famiglia ebraica, sfuggita alla cattura nazista e, per preservare la sua famiglia, collaborazionista della Gestapo. A questa storia vera si ispira il romanzo del giornalista investigativo e corrispondente di guerra per Der Spiegel Würger, che ne ricostruisce con rigore il destino, attraverso le parole di un ingenuo giovanotto svizzero innamorato. Stella che non solo non riuscirà a mettere al riparo i suoi cari, ma alla fine della guerra sarà arrestata dai sovietici e condannata a dieci anni di detenzione. Morirà suicida. Traduzione di Nicoletta Giacon.

PRIMA DEL BUIO Hans Joachim Schädlich Guanda, pp. 188, € 18. Dal grande autore tedesco, la ricostruzione dell’odissea di due artisti in fuga dalla furia nazista. La prima scena è in Italia, tra bottiglie di vino e i pini di Villa Massimo: è qui che Felix Nussbaum, borsista con la moglie, la pittrice polacca Felka Platek, subisce un’aggressione per le sue origini ebraiche. Costretti ad andar via, comincia la peregrinazione, scandita da un linguaggio asciutto, via via sempre più essenziale: la Riviera italiana, Parigi, Ostenda, Bruxelles. Con un senso di precarietà che li attanaglia; circondati da incontri che raccontano lo stesso destino di fuga - scrittori, altri artisti, famiglie in cammino, l’incubo di passaporti perduti - insieme, fino alla fine. Traduzione di Silvia Albesano.

NOI BAMBINE AD AUSCHWITZ Andra e Tatiana Bucci Mondadori, pp. 160, € 17. I colpi della polizia alla porta. La violenza della separazione. La casualità che salva. Ci sono tutti gli ingredienti di storie tristemente analoghe in questo struggente racconto di due sopravvissute tra gli oltre 230 mila bambini deportati ad Auschwitz-Birkenau. Due sorelline di 4 e 6 anni nate a Fiume che, dopo una breve sosta nella Risiera di San Sabba a Trieste, vengono internate in un Kinderblock del campo nazista, il blocco dei bambini. L’Olocausto visto dai più piccoli: le due sorelle raccontano ciò che hanno vissuto in nove mesi di inferno, e poi nel lungo girovagare tra orfanotrofi e centri di recupero, prima di ritrovare la loro famiglia. Dalla loro storia è stato realizzato il film di animazione “La Stella di Andra e Tati”. 

PICCOLA AUTOBIOGRAFIA DI MIO PADRE Daniel Vogelmann La Giuntina, pp. 42, € 5. FIglio della Shoah, fondatore nel 1980 della preziosa casa editrice promotrice di cultura ebraica, editore de “La notte” di Elie Wiesel, Daniel Vogelmann mette insieme ciò che sa del padre Schulim, deportato ad Auschwitz, sopravvissuto al campo, ma senza la moglie Annetta e la figlia Sissel: il poco che gli ha raccontato; il molto che ha ricostruito dopo la sua morte. Per esempio, che c’era anche lui, unico italiano salvato, nella lista di Oskar Schindler.  E se l’autore dice di scrivere «per le mie nipotine. Ma non solo per loro», il libro è un’emozione per tutti, proprio per i buchi, i vuoti, i silenzi.  Quel pudore dei molti che hanno scelto di non raccontare: l’orrore indicibile da cui sfuggire solo con nuova vita. 

I GOLDBAUM Natasha Solomons Neri Pozza, pp. 448, € 18. La famiglia ebrea più famosa del Novecento, influenti e potenti banchieri, narrati in una saga che mette al centro un affascinante personaggio femminile: la giovane e anticonformista Greta Goldbaum. Ci sono i suoi amori, i tentativi di ribellione contro la tradizione di sposare un membro della famiglia, per non dissipare patrimonio e autorevolezza. La felicità inaspettata, un giardino segreto che è strada di libertà e sensualità. E la prima guerra mondiale, la corsa agli armamenti, l’inevitabile scelta di stare da una parte o dall’altra. In definitiva, la complessità dell’identità ebraica, in questa storia che oscilla di continuo tra amore e dovere: tra unicità della vita, e le pressioni della Grande Storia. Traduzione di Laura Prandino.

Giornata della memoria, 10 film da vedere (o rivedere). Documentari che hanno ancora qualcosa di nuovo da raccontare, drammatiche storie vere, ma anche thriller e tragicommedie, scrive Simona Santoni il 24 gennaio 2019 su Panorama. Il 27 gennaio 1945 le truppe sovietiche arrivavano per prime nella città polacca di Oświęcim, più famosa con il nome tedesco di Auschwitz, e scoprivano l'orrore del campo di concentramento lì vicino, liberando i superstiti. Dal 2005 il 27 gennaio è stato scelto come Giorno della Memoria, per ricordare le vittime dell'Olocausto. Per questa ricorrenza, ecco 5 film in uscita al cinema o già in sala, per non dimenticare.

La douleur di Emmanuel Finkiel. Film tratto dal romanzo autobiografico omonimo di Marguerite Duras, è il diario di un'attesa, il racconto di una lacerante assenza. Durante l'occupazione nazista in Francia, la scrittrice francese è stata membro attivo della Resistenza, così come suo marito Robert Antelme, che nel 1944 fu deportato nel campo di concentramento di Dachau. Il libro, e ora il film, racconta il viaggio interiore di una donna che attraversa la violenza della Storia e dei sentimenti. Al cinema la interpreta Mélanie Thierry. La douleur ha ricevuto otto candidature ai Premi César, gli Oscar francesi. Uscita: 17 gennaio, distribuito da Valmyn e Wanted. 

Chi scriverà la nostra storia di Roberta Grossman. Docufilm narrato dalle voci degli attori Adrien Brody (premio Oscar proprio per un film sull'Olocausto, Il pianista) e Joan Allen. Tratto dall'omonimo libro dello storico Samuel Kassov sull'archivio segreto del ghetto di Varsavia, intreccia immagini d'archivio e rari filmati con nuove interviste e ricostruzioni storiche, che trasportano all'interno del ghetto di Varsavia e nelle vite dei combattenti della Resistenza che sfidarono i loro aguzzini con la verità, rischiando tutto per garantire che il loro archivio segreto sopravvivesse alla guerra e alla loro stessa fine. Nel novembre del 1940 i nazisti rinchiusero 450 mila ebrei nel ghetto di Varsavia. Una compagnia segreta composta da giornalisti, ricercatori e capi della comunità, guidata dallo storico Emanuel Ringelblum e conosciuta con il nome in codice Oyneg Shabes ("La gioia del Sabato" in yiddish), decise di combattere le menzogne e la propaganda dei nazisti non con le armi e con la violenza, ma con carta e penna. Uscita: 27 gennaio, distribuito da Wanted Cinema e Feltrinelli Real Cinema, con oltre 300 proiezioni in contemporanea in tutta Europa.

L'uomo dal cuore di ferro di Cedric Jimenez. Con Jason Clarke, Rosamund Pike, Mia Wasikowska, Jack O'Connell e Jack Reynor. Dal romanzo HHhH, l'incredibile storia vera del "Macellaio di Praga" Reinhard Heydrich, crudele gerarca nazista del Terzo Reich. La storia dell'ascesa di Heydrich (Clarke) e del suo assassinio. Freddo e implacabile, Heydrich fu uno dei più potenti gerarchi del regime nazista e principale artefice della "soluzione finale". Accanto a lui sua moglie Lina (Pike,) che lo introdusse all'ideologia nazista. Tuttavia, un piccolo gruppo di combattenti della Resistenza ceca in esilio, addestrati dagli inglesi e guidati dal governo cecoslovacco, tentò di fermare "l'inarrestabile". Heydrich fu ferito a morte durante un'azione dei paracadutisti capitanata da Jan Kubis e Jozef Gabcik, mentre con la colonna di mezzi militari stava attraversando Praga.  Reinhard Heydrich fu il più alto ufficiale nazista a essere ucciso durante la seconda guerra mondiale. Uscita: 24 gennaio, distribuito da Videa.

I bambini di Rue Saint-Maur 209 di Ruth Zylberman. Documentario francese. La regista Ruth Zylberman ha scelto un edificio parigino di cui non sapeva nulla, il 209 di Rue Saint-Maur. Per diversi anni ha indagato con l'obiettivo di ritrovare i vecchi inquilini del palazzo, per poter ricostruire la storia di quella che era stata una piccola comunità ebrea durante l'occupazione nazista. Ha ritrovato gli ex abitanti del 209 nelle periferie di Parigi, a Melbourne, New York e Tel Aviv. Li ha filmati insieme all'edificio e alle sue pietre, riprendendoli come un organismo vivente, per poter comprendere che cosa resta delle loro vite "interrotte". Uscita: 24 gennaio, distribuito da Lab 80 Film. 

Schindler's List (1993) di Steven Spielberg. Torna in sala il grande classico di Spielberg, vincitore di due Oscar, per il miglior film e la regia. La storia vera dell'industriale tedesco Oskar Schindler (interpretato da Lian Neeson), che durante la seconda guerra mondiale salvò centinaia di ebrei dallo sterminio. In affari con i nazisti tedeschi, utilizzò la manodopera ebrea nelle sue fabbriche per arricchirsi. Pian piano però diventò il loro salvatore: prima costruì un campo per i suoi operai, dove le milizie non potevano entrare senza la sua autorizzazione. Poi, quando ormai l'annientamento si era scatenato, diede fondo a tutte le sue risorse finanziarie per costruire una fabbrica di pentole. Con l'aiuto dell'inseparabile Itzhak Stern (Ben Kingsley), il contabile ebreo, compilò una lista di 1.100 persone ebree perché gli venissero affidate come operai. E salvò così loro la vita. Uscita: 24 gennaio, distribuito da Universal Pictures. Domenica 27 gennaio è in onda su Premium Cinema Emotion (canale 316 di Sky e canale 332 sul digitale terrestre) alle 21.

Qui, invece, 5 film da vedere (o rivedere) a casa. Uno sguardo diverso sul genocidio nazista.

Train de vie - Un treno per vivere (1998) di Radu Mihăileanu. La barbarie nazista può essere raccontata anche con ironia, strappando sorrisi rispettosi. Ci riesce questo grande piccolo film di Mihăileanu, ebreo rumeno naturalizzato francese. Divertente tragicommedia dai toni surreali, racconta la storia di un villaggio ebraico dell'Europa dell'Est durante la seconda guerra mondiale. Per sfuggire ai rastrellamenti nazisti, i suoi abitanti inscenano la loro deportazione a bordo di un treno, nel tentativo di fuggire in Unione Sovietica e poi, da lì, in Palestina.

Remember (2015) di Atom Egoyan. In maniera insolita, i segni lasciati dall'Olocausto assumono atmosfere da thriller. Un ottimo Christopher Plummer è Zev (in ebraico "lupo"), un anziano in fuga da una casa di riposo degli Stati Uniti, affetto da demenza senile, che vuole vendicare la sua famiglia sterminata ad Auschwitz. Barcollante e con lo sguardo smarrito, impugna la pistola, sul filo della suspence. Fino un finale con colpo di scena.

Il giardino dei Finzi Contini (1970) di Vittorio De Sica. Premiato con l'Oscar al miglior film straniero - il quarto Oscar per De Sica - e l'Orso d'Oro a Berlino, è l'adattamento cinematografico del libro di Giorgio Bassani. La storia di un'altolocata famiglia ebrea di Ferrara, incredula - come il resto della borghesia ebrea italiana - di poter essere perseguitata nel proprio Paese, finché non viene prelevata in casa dai repubblichini.

Bastardi senza gloria (2009) di Quentin Tarantino. Sarebbe bello poter riscrivere la Storia. E Tarantino lo fa. Brad Pitt è il capo di una banda di soldati ebrei "bastardi" che seminano il terrore tra i nazisti in Europa, uccidendoli e prelevando il loro scalpo. Mélanie Laurent è un'ebrea a cui è stata massacrata la famiglia che si vendica facendo esplodere il cinema in cui è bellamente seduto Hitler. Evviva! Oscar a Christoph Waltz. 

Il figlio di Saul (2015) di László Nemes. Oscar come miglior film in lingua straniera. Il regista ungherese fa rivivere la fabbrica della morte di Auschwitz in tutta la sua "normale" e abitudinaria brutalità. La inquadra da un punto di vista inusuale ma non meno scioccante, quello dei Sonderkommando (i "portatori di segreti"), gruppi di ebrei costretti dai nazisti ad assisterli nello sterminio degli altri prigionieri. L'orrore è mostrato di sbieco, quasi mai frontalmente. Corpi nudi e senza vita affastellati, oltraggiati, trascinati, ma quasi mai messi a fuoco, a margine di fotogrammi intensi.

Mezza Europa tollera l’intolleranza: ecco i dati su chi nega l'Olocausto. Giornata della memoria. Una ricerca commissionata dalla Commissione europea su un campione di 27mila intervistati ha rivelato una realtà sconfortante, scrive Monica La Torre domenica 27 gennaio 2019 su lacnews24.it. L’Europa è negazionista. Milioni di persone pensano che l’Olocausto sia una semplice bufala. Ancora più ampie le fila di quanti sottostimano la portata dello sterminio, quantificando in uno o due milioni di ebrei il numero delle persone effettivamente trucidate dai nazisti, a fronte degli oltre sei milioni di ebrei scomparsi. Convinzioni imbarazzanti, tanto più gravi quanto più tollerate e diffuse, specchio di un progressivo allontanamento da valori che si credevano condivisi, ogni giorno più flebili e rarefatti. Del resto, bastava fare un giro per le periferie e per gli stadi italiani, per accorgersi di quanto lo sdoganamento del razzismo avesse riportato in auge slogan, insulti e atti vandalici che la storia avrebbe dovuto seppellire per sempre.

Dati preoccupanti. Una ricerca commissionata dalla Commissione europea per mezzo del servizio di statistica Eurobarometro, presentata nel dicembre scorso al museo ebraico di Bruxelles, e condotta su un campione di 27mila intervistati, ha rivelato dati sconfortanti. Se difatti, la maggioranza dei cittadini dell’Ue stigmatizza il negazionismo (53%), reato in tutti i paesi dell’Unione, tranne la Gran Bretagna, sono preoccupanti le percentuali di quanti credono che negare la Shoah non costituisca un fatto negativo: quasi il 38% dei cittadini Ue. Troppi anche quanti, semplicemente, non sanno cosa pensare al riguardo: il 9%. C’è un problema di ignoranza di fondo, a giudicare dai dati raccolti dall’istituto di statistica. E soprattutto, il montare dell’antisemitismo dal 2014 ad oggi, avvertito dall’89% degli ebrei intervistati, viene percepito solo dal 36% della popolazione non ebrea oggetto d’indagine. Solo un terzo del campione, in sostanza, pensa che il fenomeno sia in crescita. Per il 39%, i rischi sono stabili. Per il 10% sono diminuiti. Nel dettaglio, il 50% degli europei ritiene che l’antisemitismo sia un problema anche nel proprio paese: Svezia (81%), Francia (72%), Germania (66%), Olanda (65%), Regno Unito (62%), Italia (58%), Belgio (50%) e Austria (47%). Il restante 49% non lo ritiene minimamente un problema, ed in 20 paesi la maggioranza dell’opinione pubblica pensa addirittura non sia un tema preoccupante. Su tutti, l’Estonia (solo il 6% percepisce un rischio, a fronte dell’86%) e la Bulgaria (10% vs 64%) (fonte: Repubblica).

Educare per non dimenticare. La necessità di non dimenticare, di formare i giovani alla consapevolezza storica, viene percepito in modo netto: solo il 43 % degli europei ritiene che la scuola abbia affrontato il problema in modo esaustivo (44%, in Italia). Il 51% degli intervistati (59% in Italia) ritiene preoccupanti i messaggi di odio sul web, le scritte sui muri, gli atti vandalici (60% in Italia). C’è in sostanza mezza Europa che tollera l’intolleranza. In generale, c’è una correlazione strettissima tra ceto sociale, educazione, tasso di scolarizzazione e antisemitismo. Più basso è il livello di istruzione, minore è la consapevolezza. Per il 54% di quanti hanno terminato gli studi, il fenomeno è preoccupante, ma il numero scende al 44% tra coloro che hanno smesso di frequentare la scuola a 15 anni o a 19 (49%). Le donne, in generale, sono più attente degli uomini. Il 52% considera l’antisemitismo un problema, a fronte del 48% degli uomini. E la sensibilità varia aumenta anche in base al dato anagrafico. Per il 52% dei più maturi, è un problema. Il dato scende al 46%, nella fascia tra i 15 ed i 24 anni. Interessante anche la correlazione tra amicizie e convinzioni: il 64% di quanti hanno amici ebrei percepisce negazionismo ed antisemitismo come un problema. Il dato scende al 59%, tra quanti frequentano musulmani. Chi invece ha rapporti solo con persone della propria religione o etnia, si ferma al 42%.

Fino a sei anni per negazionismo. I rigurgiti razzisti non devono farci dimenticare che per chi nega la Shoah o incita al genocidio, sono previste le manette. In sostanza, il negazionismo è un’aggravante aggiunta nel 2016 alla legge Mancino rispetto ai reati di discriminazione razziale e di stampo xenofobo. È prevista la reclusione fino a un anno e sei mesi o la multa fino a 6.000 euro per chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, o istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. La reclusione andrà da sei mesi a quattro anni per chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. È altresì vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo che abbia tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi: chi vi parteciperà rischierà sei mesi a quattro anni di prigione, che aumenteranno da uno a sei anni per chi quelle associazioni promuove o dirige. Reclusione da 2 a 6 anni, nei casi in cui la propaganda, l’istigazione e l’incitamento si fondino «in tutto o in parte sulla negazione della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra» come vengono definiti dallo Statuto della Corte penale internazionale.

Un Cristo di filo spinato per ricordare anche i rom vittime dei campi nazisti. Lo sterminio dei sinti nei campi di concentramento è stato dimenticato per anni. E l'attuale segregazione nei campi rom è figlia anche di questa amnesia.  Ne parliamo con l'artista rom Bruno Morelli, scrive Floriana Bulfon il 25 gennaio 2019 su "L'Espresso". Porrajmos significa "messo nella pancia" ed è la parola con cui rom e sinti indicano lo sterminio, il ‘divoramento’ del proprio popolo da parte dell’Europa nazista e fascista tra il 1934 e il 1945. «Ci hanno mangiati e ci hanno dimenticati», spiega l’artista rom Bruno Morelli. Perché per molto tempo l'Olocausto degli zingari, il Porrajmos, è stato lasciato nel silenzio e si è trasformato in una dimenticanza. Bambini, donne, uomini perseguitati, deportati, seviziati, uccisi e rimossi dalla memoria. Nei processi ai colpevoli di crimini contro l'umanità che seguirono la liberazione, rom e sinti non ebbero spazio, non gli fu concesso alcun indennizzo. «Come se le loro sofferenze non fossero accadute» constata Morelli. È seduto al tavolo del suo atelier alle porte di Roma accanto a una scultura di filo spinato. L’ha chiamata ‘crocifissione ad Auschwitz’ e rappresenta il peso di essere umiliato senza motivo, il dolore di una ferita aperta «perché ciò che è stato colpito in quei campi è l’umanità, perché è necessario che non si ripeta e oggi assistiamo a un momento di regressione con i moderni campi dell’orrore e i rom e sinti visti come i mostri da cacciare».

L’arte come custode della memoria? 

«È importante ricordare, ma serve anche un intervento pedagogico perché non accada di nuovo. Perché basta guardarci incontro per capire che le cose si ripetono. Quest’opera è un filo-rovo che divide, che punge, che recinta, ma è anche una condivisione, identificando tutte le vittime dell'ingiustizia terrena. Ho realizzato un Cristo che potesse rappresentare non una categoria colpita, ma tutti. Per questo ho scelto il simbolo dei simboli della sofferenza. Il filo spinato usato è identico a quello usato dai nazisti per le recinzioni dei campi di sterminio. È un Cristo che rappresenta i grovigli metallici di un’umana follia e che rinasce dalle macerie. È un antidoto ai veleni sociali del razzismo».

Perché il Porrajmos è stato dimenticato?

«Solo nel 1980 il governo tedesco riconobbe ufficialmente che i rom e i sinti durante la guerra avevano subito una persecuzione su base razziale. E siamo dovuti arrivare al 1994 per la prima giornata di commemorazione delle vittime. Una memoria rimossa, sfilacciata, senza traccia. È stato assimilato alle feroci persecuzioni di "asociali", ma i nazisti consideravano l'asocialità zingara non un comportamento deviante ma un dato genetico. Il gas Zyklon B usato per lo sterminio di massa è stato testato per la prima volta sui bambini rom e sinti e questo la dice lunga sulla considerazione che ne avevano».

Quanti furono i morti nei campi di sterminio?

«Ecco il primo punto è proprio questo. Persino il numero dei morti non è chiaro. Il dato ufficiale rilevato dagli archivi nazisti parla di 500mila, ma come ha evidenziato il professor Ian Hancock, uno dei pochi storici ad occuparsi dell’olocausto zingaro, è una stima per difetto. Perché la maggior parte delle persone uccise non aveva documenti. Si ritiene siano un milione e mezzo, il 75 per cento della popolazione rom e sinti all’epoca in Europa. Uno sterminio».

Un oblio e un’indifferenza nella coscienza sociale che arrivano ad oggi.

«Con l’oblio si rischia di cancellare quello che è successo, di rimanere indifferenti. Ciò che accade oggi alle popolazioni rom e sinti è anche il risultato di questo oblio. In Italia c’è un grande problema, non sono mai stati inseriti tra le minoranze che la Costituzione tutela. Non si è mai voluto parlare dello sterminio. I campi nomadi di oggi sono paragonabili metaforicamente ai campi di sterminio. Non è possibile che ci siano ancora campi dell’orrore. Invece di sprecare milioni di euro in assistenza, perché non li investono in soluzioni abitative? Continuiamo a essere relegati in una vergogna pubblica alle periferie della città, lontano, distanti. Nei paesi evoluti, questo problema è stato risolto da tanto tempo. I campi aumentano la possibilità di delinquere e la segregazione».

Come valuta le politiche intraprese dal nuovo governo?

Il decreto sicurezza ci mette sempre più all’angolo. Sono molto preoccupato, la situazione sta degenerando e apre le porte a un futuro in declino. Assistiamo a un momento di regressione, un atteggiamento xenofobo che avanza. I rom e i sinti sono per antonomasia i diversi tra i diversi, vanno colpiti più degli altri, i mostri da cacciare. Sono tutti ladri, tutti delinquenti. Come se dicessimo che tutti i siciliani o gli italiani sono mafiosi. Sono il capro espiatorio per eccellenza, hanno una storia di persecuzione alle spalle. Oggi si cerca di annullare la ricchezza delle presenze umane che è la base della società.

Nazionalisti ad Auschwitz: "Cerimonia non inclusiva, ricordare anche i polacchi". Un gruppo guidato da Piotr Rybak, leader delle formazioni ultranazionaliste, sfila in occasione della Giornata della memoria, scrive Gioele Anni, Domenica 27/01/2019, su "Il Giornale". "Auschwitz-Birkenau - Made in Germany", i campi di concentramento sono colpa della Germania. Questo e altri cartelli sono stati esposti davanti ai cancelli di Auschwitz questa mattina da un gruppo di militanti di estrema destra polacchi che volevano entrare nel lager mentre è in corso la cerimonia per la Giornata della memoria. Il gruppo, formato da circa 45 persone che sventolano bandiere polacche, è guidato da Piotr Rybak, uno dei leader storici dei movimenti ultranazionalisti. Rybak in passato ha anche bruciato in piazza il manichino di un uomo raffigurante un ebreo, e ha scontato una condanna di 10 mesi per incitamento pubblico all'odio. Secondo i manifestanti, il governo polacco (guidato dal partito di destra "Giustizia e libertà") celebra solo la memoria delle vittime ebree dell'Olocausot e non farebbe abbastanza per ricordare i polacchi, rom e prigionieri sovietici morti a causa dell'occupazione nazista. "Le cerimonie non sono inclusive", sostengono Rybak e gli altri militanti, che cantano slogan come: "La Polonia per i polacchi". Il lager simbolo dello sterminio nazista si trova nella cittadina polacca di Auschwitz-Oświęcim. Durante la seconda guerra mondiale, la regione era stata invasa dalla Germania di Hitler. La presenza dei campi sul territorio polacco, tuttavia, rimane una ferita profonda per l'intera nazione.

OLOCAUSTO SENZA CIRCO. Carlo Nordio per “il Messaggero” il 5 febbraio 2019. Alla fine della settimana della Memoria, sarà bene ricordare l'inizio delle tribolazioni del popolo ebraico: quella Diaspora che ne costituì la definitiva privazione della Patria e di cui, ahinoi, reca la colpa l' Impero Romano. Perché gli ebrei avevano già subito deportazioni e massacri: con la caduta della Samaria, da parte degli Assiri, e quindi della Giudea da parte di Nebukadnezzar. Ma per grazia di Dio, o di Ciro il grande, erano ritornati a casa loro: delusi e decimati sì, ma pronti alla ricostruzione. Il colpo fatale fu invece inferto da Tito, il clemente, con l'assedio e la distruzione di Gerusalemme nel 70 dopo Cristo.

L'ASSEDIO DI GERUSALEMME DEL 70 D.C. Roma governava, o comunque dominava la Palestina da quando Pompeo aveva detronizzato la dinastia asmonea. Erode il Grande aveva abilmente ottenuto una certa autonomia, fino a ricostruire il Tempio precariamente rifatto da Zorobabele dopo la distruzione di quello di Salomone. Quando Erode, «dopo aver rubato il trono come una volpe e averlo tenuto come una tigre, morì come un cane» il popolo cominciò a mugugnare contro la dominazione romana. Gli estremisti zeloti predicavano la rivolta; i sicari, armati di coltelli, ammazzavano indifferentemente soldati e collaborazionisti suscitando rappresaglie feroci che alimentavano l'odio. Uno degli apostoli di Gesù, Simone Cananeo, era uno zelota. Samuel G.F. Brandon sostiene che addirittura il Maestro avesse simpatie rivoluzionarie, e sia stato crocifisso proprio per questo. Per i credenti, ma anche per i laici, questa tesi non regge. Resta comunque il fatto che in quel periodo vi era una fervente attesa di un avvento messianico, sia religioso che politico. Gli ebrei ne avevano ben motivo, perché i governatori erano crudeli e rapaci: il peggio di tutti, Felice, governò - ci dice Tacito - «con l'autorità di un re e l'anima di uno schiavo». Esasperati, i giudei si ribellarono, e presto la rivolta divenne rivoluzione. Noi ne conosciamo i dettagli attraverso la minuziosa ricostruzione di Giuseppe Flavio, un dignitario ebreo catturato dai romani, salvatosi per aver predetto a Vespasiano la sua prossima investitura imperiale. Giuseppe vuol dimostrare che si trattò di una guerra intestina tra l'aristocratica classe sacerdotale, accomodante verso Roma, e gli estremisti che desideravano cacciare l' invasore. In effetti i primi disordini scoppiarono a Gerusalemme tra queste due fazioni che si massacrarono con coscienziosa imparzialità, ma Giuseppe, preoccupato di accattivarsi la benevolenza dei suoi nuovi protettori, non è del tutto credibile. I disordini interni furono in realtà l'inizio della guerra per sottrarsi al crudele, e spesso ottuso, dominio romano. Sulle prime la rivolta parve avere successo. Gli ebrei circondarono la fortezza di Masada, allora tenuta da una guarnigione imperiale che si arrese pur di aver salva la vita. Gli zeloti non tennero fede ai patti e la sterminarono. Roma ne aveva abbastanza: inviò il suo miglior condottiero, Vespasiano, per domare l'insurrezione. Poco dopo il Generale fu nominato Imperatore, e lasciò il compito al figlio Tito. Tito circondò Gerusalemme con un muro, e invitò più volte gli assediati alla resa: questi risposero combattendo, e talvolta simulando trattative poi non mantenute. Dopo qualche assalto sanguinoso, Tito lasciò fare alla fame. Senza rifornimenti, senza cibo e senza speranza, i gerosolimitani mangiarono cani, gatti, topi e persino escrementi. Alla fine disseppellirono i morti e divorarono i cadaveri: una madre arrostì il suo lattante e ne mangiò la metà. Quelli che proposero la resa furono scaraventati giù dalle mura, e lasciati imputridire. Tito, nauseato da tanta brutalità, chiamò a testimonianza gli dei che non era colpa sua. Tuttavia i suoi soldati, accortisi che alcuni disperati scappavano dopo aver ingoiato i gioielli per sottrarli alle perquisizioni, cominciarono a sventrare i prigionieri. Alla fine, dopo ripetuti assalti, le disciplinate ed esperte legioni fecero breccia, ed entrarono a Gerusalemme. Esasperati dalla durata dell'assedio, dalla gravità delle perdite e dalle doppiezze degli assediati, i Romani si abbandonarono al saccheggio e alle crudeltà. Giuseppe Flavio usa i più astuti artifizi retorici per mitigare le loro nefandezze, e insiste in modo sospetto sulla riluttanza di Tito a ogni forma di vendetta e sui suoi tentativi di frenare il furore dei soldati. Ma se il potente generale, ora figlio dell'Imperatore, avesse promulgato l'ordine vincolante di evitare brutalità, sarebbe stato certamente ubbidito. In realtà Tito fece quello che avevano tutti i governatori precedenti: usò in modo spietato la forza del vincitore. La città fu rasa al suolo: furono salvate alcune torri, ma il resto, a cominciare dal Tempio, fu distrutto. Il bottino fu immenso: i superstiti più validi furono spediti a combattere nei circhi o a farsi divorare dalle belve. Donne e bambini furono deportati e venduti come schiavi, con grave disappunto dei commercianti che videro diminuire il prezzo della mercanzia. Tito tornò a Roma in trionfo, e dopo qualche anno succedette al padre. I Cristiani di Gerusalemme - avvertiti dal Padreterno, secondo Eusebio di Cesarea, o dalle spie secondo altre fonti - si erano già allontanati dalla città assediata e videro nel massacro e nel saccheggio la giusta punizione per i colpevoli della morte di Cristo, alimentando così la leggenda del deicidio. Una favola sciagurata, perché Gesù era stato giustiziato dai Romani secondo la legge romana e con una pena romana; ma una favola che ebbe effetti funesti per il popolo ebraico nei secoli a venire. Il bilancio finale fu spaventoso. Un milione e centomila morti secondo Giuseppe Flavio, la metà secondo Tacito. Un numero impressionante, tenuto conto della popolazione di allora. Un Olocausto, paragonabile a quello che duemila anno dopo sarebbe stato inflitto da Hitler con una pianificazione più accurata e un'esecuzione industriale. Eppure anche allora questo popolo indomito seppe risollevarsi. Con pazienza e fede mantenne alti i suoi ideali e intatta la sua identità culturale e religiosa. Sopravvivendo a persecuzioni, calunnie, e discriminazioni, raggiunse le vette della filosofia con Maimonide e Spinoza, della letteratura con Heine fino a Philip Roth, della musica con Mendelssohn e Mahler fino a Leonard Bernstein, e della scienza con centinaia di geni, fino a Einstein, il più grande di tutti. La perenne incertezza che ne rese così precaria la stabilità e la sopravvivenza fu anche lo stimolo per la loro inventiva, l'ingegno e la fantasia. Da sempre, nove tra i primi dieci violinisti del mondo sono ebrei. A chi gli chiese il perché di tale caratteristica, uno di loro rispose con la tipica malinconica ironia: «Provate voi a scappare da un Pogrom con un pianoforte!».

Certo, ricordiamo pure la Shoah. Ma gli altri eccidi? Scrive su "Il Fatto Quotidiano" il 26 Gennaio 2013 Fabio Balocco, Scrittore in campo ambientale e sociale. L’ambientalismo oggi si concentra sul degrado e sulla distruzione dell’ambiente naturale che toccano purtroppo ogni angolo del globo, ma spesso si dimentica di ciò che è successo a monte. Ed invece non bisogna dimenticare. Si dice che occorre agire localmente e pensare globalmente. Io direi che occorre invece “pensare globalmente e storicamente”, per “scoprire” che la storia della distruzione della natura, è andata di pari passo con la distruzione dei nostri simili che si opponevano all’avanzata della cosiddetta “civiltà”. Questo non lo possiamo né dobbiamo dimenticare. Così come non possiamo né dobbiamo dimenticare che questi popoli quasi sempre vivevano in comunione con la natura. Questo, da un lato ci può servire per comprendere che l’uomo forse non è poi il cancro dell’universo, ma semmai solo un tipo di uomo lo è, e da un certo periodo storico in poi. E può anche servire per relativizzare la gravità di altri eccidi che si sono perpetrati. E quando dico questo penso soprattutto alla Shoah, all’eccidio perpetrato contro gli ebrei dal Terzo Reich. Giustissimo ricordare questo immane massacro di una moltitudine che va dai cinque ai sei milioni di ebrei, ma è stato forse meno grave l’eccidio dei pellerossa, per il quale si calcola che i morti furono circa sette/otto milioni? Questo a tacere del fatto che gli ebrei oggi hanno una nazione propria (ne sanno qualcosa i Palestinesi), mentre i pellerossa continuano ad essere trattati come uomini di serie B, rinchiusi nei ghetti delle riserve. E che dire di un altro popolo che viveva in comunione con la natura come quello Tibetano, sterminato dall’esercito cinese (qui si parla “solo” di un milione di vittime) per soddisfare il capitalismo camuffato da imperialismo comunista? Quello che noi chiamiamo “sviluppo” è una strada lastricata di eccidi, di stragi, che non finiscono neppure oggi (l’Amazzonia insegna). Almeno abbiamo il coraggio di ammetterlo. Domani è la giornata della memoria. Perché non dedicarla a tutte le stragi che l’uomo ha perpetrato sui suoi simili? Non ci sono stragi di serie A e stragi di serie B.

I più grandi massacri della storia, scrive Adimba il 6 gennaio 2017 in mienewsblog.

Il libro nero dell’umanità. Leggendo il libro nero dell’umanità scritto da Matthew White possiamo leggere i più grandi delitti, genocidi, massacri, olocausti della storia, partendo dai più conosciuti fino a quelli meno conosciuti.

Sì avete capito bene, non è esistita solo la Seconda Guerra Mondiale e non solo gli ebrei sono morti e quasi estinti. Ne conosceremo si e no 3 o 4 ma i Genocidi della storia del mondo sono ben 12. Ecco la lista dei 12 Genocidi della storia.

Shoah o Olocausto, lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti perché considerati “nemici della nazione tedesca” e non furono gli unici, furono sterminati anche zingari, omosessuali, oppositori politici e tanti altri. Si contano circa 15/20 milioni di morti.

Aborigeni Australiani, è forse uno dei più crudeli e dimenticati genocidi della storia perché era una popolazione prettamente pacifica. Fu un massacro talmente grande che i pochissimi Aborigeni rimasti hanno dimenticato la loro cultura, tradizioni, radici e lingua, insomma fu uno scempio.

Indiani del Nord e Sud America un altro genocidio “perfetto” insieme a quello sopra citato, perché furono tutti massacrati dal primo all’ultimo senza pietà, oggi non ci sono più le loro tradizioni, lingue, insomma le loro radici, anche se loro sono ancora ricordati tutt’oggi in film, giornali e piazze per ricordare al mondo intero per sempre quello che è stato capace di fare.

Il genocidio dei Catari, fatto dalla Chiesa cattolica (pensavate che la chiesa non facesse nulla eh?), gli ultimi catari donne e bambini furono massacrati per ordine del vicario Vaticano che ordinò ai soldati: “Uccideteli tutti, poi quando saranno morti, sarà Dio a giudicare se sono eretici o no”. Insomma anche questo evento fu una vergogna per la popolazione mondiale.

Il genocidio del Ruanda, avvenuto solo pochi anni fa, milioni di morti a colpi di machete, solo per una differenza etnica.

Genocidio Ucraino, il genocidio ricordato perché fu per opera di Stalin forse è stato un enorme errore di giudizio economico dal dittatore sovietico, che tolse il cibo agli ucraini per mandarlo in altre destinazioni, furono milioni i morti a causa della fame. Errore molto grossolano sul quale ci sarebbe molto da discutere.

Genocidio armeno: fatto dai turchi, che consideravano gli armeni "nemici della patria".

Genocidio dei Greci fatto sempre per opera dei turchi sui greci abitanti in Turchia.

Genocidio Rom gli zingari da sempre sono stati perseguitati in quanto "popolo nomade" quindi diverso dai popoli europei, ma fu nel XX° secolo che vennero considerati dai nazisti inferiori agli esseri umani, quindi un problema da risolvere e che fu risolto mettendoli in campi di concentramento e di sterminio. Ne morirono centinaia di migliaia.

Olocausto nero, è così che viene chiamata la deportazione e lo sterminio di 10 milioni di schiavi neri, strappati dalla loro terra e portati in America.

Pol Pot in Cambogia: 3 milioni di morti in un paese che ne conteneva 20 milioni, un orrore senza fine preparato all’inizio per ragioni politiche, poi in un susseguirsi di atrocità sempre maggiori e dalla follia di un capo comunista.

Genocidio in Congo: fatto dai Belgi – o meglio – per opera di Re Leopoldo di Belgio che aveva degli enormi possedimenti di terra di sua proprietà. Qui migliaia di persone vennero torturate ed uccise per scopi commerciali.

Per non dimenticare la stessa Italia o meglio impero Romano che uccise circa 2 milioni di Galli, la distruzione di Cartagine che si estinse e ricomparse solo dopo secoli, e i sopravvissuti divennero schiavi.

Se è vero che la Shoah fu il genocidio per eccellenza, quello per cui è stato inventato questo termine, gli altri furono meno famosi, meno scientifici e con un numero minore di morti, ma avevano sempre il fine ultimo di cancellare dalla faccia della terra il nemico, o presunto tale.

Gli eventi più sanguinosi della storia dell'umanità, scrive Focus. La triste e vergognosa classifica degli accadimenti più sanguinosi della nostra Storia: ecco quello che gli storici non amano raccontare e perché è difficile farlo. In cima alla classifica dei periodi più cupi dell'umanità mettiamo, senza paura di sbagliare, la Seconda Guerra mondiale, con qualcosa come 70 milioni di morti. La lista delle atrocità umane è però lunga, e soprattutto controversa. Un appassionato di storia, Matthew White, si è preso la briga di classificare le guerre e i crimini più efferati compiuti nel corso della Storia nel suo Libro nero dell'Umanità (Ponte alle Grazie), facendo quello che nessuno storico osa fare: raccontare le guerre partendo dal numero dei morti.

LA CONTA DEI MORTI. Oltre che ingrata, la questione è controversa. Occorrono infatti criteri condivisi perché, non sorprendetevi, non basta essere "morti ammazzati" per essere contati. Un esempio: uno dei "dati" più discussi è il numero dei morti del comunismo. Alcuni storici parlano di 100 milioni complessivi (sommando tutti i regimi), altri ne conteggiano molti meno (circa la metà). I primi contano anche chi è morto nella Seconda guerra mondiale e chi è deceduto per fame, carestia o malattia nei campi di lavoro. I secondi ritengono invece che quelle morti non siano direttamente imputabili al regime. L'impero fondato da Gengis Khan nel 1206 è stato il più grande di tutti i tempi. Dopo avere unificato le tribù mongole, le condusse alla conquista della maggior parte dell'Asia centrale, della Cina, della Russia, della Persia, del Medio Oriente e di parte dell'Europa orientale. LISTA NERA. Per sua stessa ammissione, il metodo di Matthew White per conteggiare i decessi è approssimativo: si è basato su dati raccolti anche da fonti non ufficiali e ha calcolato la mediana tra i valori più alti e quelli più bassi. La sua classifica degli eventi più atroci della Storia vede dunque al primo posto la Seconda guerra mondiale. Al secondo posto le invasioni mongole di Gengis Khan, che nel Medioevo avrebbero lasciato sul campo 40 milioni di morti - a pari merito con la collettivizzazione forzata cinese (1949-76) voluta da Mao Zedong, fondatore della Repubblica Popolare cinese. A seguire c'è la carestia indiana causata a più riprese (1769-70, 1876-79, 1896-1900) dalle politiche economiche e amministrative britanniche, che costò la vita a 27 milioni di cittadini del vastissimo impero del Regno Unito. E, quasi a pari merito, il collasso della dinastia Ming (1635-1662) che lasciò sul campo 25 milioni di cinesi. A seguire: la guerra civile dei Taiping (1850-64), in Cina, nata come insurrezione contro la dinastia Qing e degenerata in scontro civile, fu un'ecatombe da 20 milioni di morti, e subito dopo (nella classifica) l'epoca buia di Stalin, che in Unione Sovietica, dal 1928 al 1954 costarono la vita, sempre secondo White, ad almeno 16 milioni di persone. A chiudere la lista dei 10 crimini storici più efferati c'è la tratta araba degli schiavi (VII-XIX secolo) con 18 milioni di morti, le campagne del re turco-mongolo Tamerlano (XV secolo) con 17 milioni di morti e il commercio degli schiavi verso le Americhe che causò 16 milioni di morti: "appena" un milione in più di morti rispetto a quelli provocati dalla conquista delle Americhe. Il numero dei morti causati dai Conquistadores è difficile da accertare perché non sappiamo quanti fossero gli indigeni all'arrivo degli spagnoli. 

I DITTATORI PEGGIORI. Non è facile nemmeno stabilire quali siano stati i dittatori più efferati del Novecento. Comunemente si ritiene che la palma d'oro di criminale del secolo vada a Mao Zedong, che si stima abbia causato con le sue collettivizzazioni forzate 40 milioni di morti (e c'è chi ne stima anche di più). Tragiche furono anche le politiche di Stalin (1928-54) con milioni di civili uccisi da carestie, purghe, campi di lavoro, trasferimenti forzati, deportazioni e massacri. Lo storico degli anni della Guerra Fredda Robert Conquest, autore del libro Il grande terrore, fece una stima di 30 milioni, "abbassandola" alcuni anni dopo a 20 milioni (3 milioni in più dell'Olocausto). Ma il numero è stato recentemente rivisto alla luce dei dati emersi dall'apertura degli archivi dell'Europa orientale, negli Anni'90. Iosif Vissarionovic Džugašvili, in arte "Stalin", non si fece mai scrupoli a eliminare i suoi avversari politici. Durante il periodo delle purghe, nella seconda metà degli anni ‘30, era solito chiamare a colloquio i dirigenti e funzionari che lavoravano con lui e di cui non si fidava. Quando li aveva davanti, li fissava negli occhi senza dire una parola: chi non reggeva lo sguardo veniva fucilato, perché evidentemente aveva qualcosa da nascondere...

HITLER & STALIN. Lo storico americano contemporaneo Timothy Snyder, che insegna alla Yale Univerity, dopo aver consultato quegli archivi ha provato a stendere un nuovo bilancio rispondendo così anche a una stupida domanda che incomprensibilmente continua a circolare (chi era peggio tra Stalin e Hitler). «Il numero totale di civili uccisi dai tedeschi - circa 11 milioni - è all'incirca quello che pensavamo», ha scritto Snyderin un articolo pubblicato sul The New York Review of books. «Il numero totale di civili uccisi dai sovietici è invece considerevolmente inferiore a quello che avevamo creduto.» Secondo Snyder il numero dei morti dello stalinismo si aggira tra i 6 e i 9 milioni. Di questi un milione morì nei gulag (1933-1945) e più di 5 milioni persero la vita nella carestia provocata dalle sue politiche economiche (1930-1933). Anche Snyder però, come tutti gli storici, sostiene che in questi macabri conti rimane una zona grigia. Per fare un esempio: nei gulag di Stalin, tra il 1941 e il 1943 morirono circa 517.000 persone, condannate dai sovietici ai lavori forzati, ma... "tecnicamente" uccise per fame con l'interruzione dei collegamenti a seguito dell'invasione tedesca. A chi attribuire i morti? A Stalin, a Hitler o un po' per uno?

Con genocidio, secondo la definizione adottata dall'ONU, si intendono «gli atti commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Scrive wikipedia.

Origine ed etimologia. Il termine "genocidio" è una parola d'autore coniata da Raphael Lemkin, giurista polacco di origine ebraica, studioso ed esperto del genocidio armeno, introdotta per la prima volta nel 1944, nel suo libro Axis Rule In Occupied Europe, opera dedicata all'Europa sotto la dominazione delle forze dell'Asse L'autore vide la necessità di un neologismo per poter descrivere l'Olocausto, pur facendo anche riferimento al genocidio armeno. Con tale termine, volle dare un nome autonomo a uno dei peggiori crimini che l'uomo possa commettere. Comportando la morte di migliaia, a volte milioni, di persone, e la perdita di patrimoni culturali immensi, il genocidio è definito dalla giurisprudenza un crimine contro l'umanità. La parola, derivante dal greco γένος (ghénos razza, stirpe) e dal latino caedo (uccidere), è entrata nell'uso comune e ha iniziato ad essere considerata come indicatrice di un crimine specifico, recepito nel diritto internazionale e nel diritto interno di molti paesi.

Definizione ufficiale delle Nazioni Unite.  L'11 dicembre 1946, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite riconobbe il crimine di genocidio con la risoluzione 96 come "Una negazione del diritto alla vita di gruppi umani, gruppi razziali, religiosi, politici o altri, che siano stati distrutti in tutto o in parte". Il 9 dicembre 1948 fu adottata, con la risoluzione 260 A (III), la Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio che, all'articolo II, definisce: «Per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:

uccisione di membri del gruppo;

lesioni gravi all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo;

il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;

misure miranti a impedire nascite all'interno del gruppo;

trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.»

I genocidi nella storia. Dato il problema di definizione, stilare un elenco di genocidi o presunti tali è complesso, in quanto subordinato alla scelta della definizione o all'opinione dei diversi autori. È tuttavia possibile elencare, senza garanzia di completezza, alcuni dei più noti eventi storici che rientrano in qualche modo nell'ambito del dibattito.

Periodo coloniale (fino al XIX secolo). Nei territori interessati dalla colonizzazione, numerosi popoli indigeni hanno subito una forte diminuzione numerica e alcuni sono quasi scomparsi o scomparsi del tutto. Nel complesso, diversi fattori agirono sinergicamente: azioni di guerra bilaterali o unilaterali, lavoro forzato e condizioni di sfruttamento, carestie naturali o provocate, epidemie causate da nuovi agenti patogeni introdotti dai coloni e, più genericamente, cambiamenti socio-economici radicali prodotti dal violento confronto fra i dominatori occidentali e i popoli colonizzati. Il dibattito è spesso ancora aperto sia per quanto riguarda il numero di vittime che per l'attribuzione di colpe e responsabilità. Se alcuni autori parlano di "genocidi coloniali", ponendo l'accento sugli atti di sterminio deliberato, altri ritengono che le principali cause siano non intenzionali, per esempio le epidemie. Anche le grandi carestie del periodo 1870-1890, che fecero da 30 a 50 milioni di morti, sono state attribuite ad una concomitanza di cause naturali e profondi cambiamenti economici dovuti all'imperialismo e allo sfruttamento capitalista. È stato fatto notare che, nell'ambito della distinzione fra il concetto di guerra (bilaterale - si riconoscono due entità combattenti) e quello di genocidio (unilaterale - si distinguono per loro natura un aggressore e una vittima), le guerre coloniali sono fortemente sbilanciate a favore degli aggressori, soprattutto per il numero di vittime (il 90% sono indigeni), a causa della notevole disparità tecnologica. Esempi sono le guerre di conquista a Giava (dal 1825 al 1830 gli olandesi fanno 200.000 vittime), in Mozambico (i portoghesi uccidono 100.000 persone) o in Africa Orientale (i tedeschi fanno 145.000 morti). Il 90% dei Tahitiani, il 70% dei Canachi e i due terzi dei Māori è scomparso nel periodo coloniale, mentre i Tasmaniani si sono estinti completamente.

Genocidio dei nativi americani. Durante la colonizzazione europea delle Americhe i popoli nativi americani, che contavano all'origine circa più di 80 milioni di individui, vennero ridotti del 90%, anche se la maggioranza delle morti sono dovute alle malattie importate dagli europei nel caso soprattutto del Nord America ci furono numerosi casi di eliminazione sistematica. Le varie etnie, genericamente denominate indiani d'America, Pellerossa, Amerindi, Amerindiani, Prime Nazioni, Aborigeni americani, Indios, popolanti il sud e nord del continente, vennero soppiantate quasi ovunque dagli europei, e dai discendenti delle popolazioni forzatamente prelevate dall'Africa tra il 1500 e i primi anni del 1900. Patagonia - negli anni settanta del 1800 il governo argentino, principalmente per mano del generale Julio Argentino Roca, intraprese la cosiddetta conquista del deserto per strappare la Patagonia al controllo delle popolazioni indigene. Che tale campagna possa essere considerata un genocidio, è recentemente materia di dibattito.

Genocidio dei popoli d'Africa.

Congo - la politica del re belga Leopoldo II, avrebbe provocato la morte di 10 milioni di persone (metà della popolazione) attraverso la militarizzazione del lavoro forzato (con donne e bambini presi in ostaggio) e un duro sistema di quote di produzione e crudeli punizioni (amputazione delle mani).

Costa d'avorio - tra il 1900 e il 1911, la popolazione si è ridotta da 1,5 milioni a 160.000.

Sudan - sotto il dominio inglese (1882 - 1903) la popolazione si è ridotta da 9 a 3 milioni.

Herero - fra il 1904 e il 1906 i tedeschi sono stati responsabili, nella regione dell'attuale Namibia, di uno sterminio che è oggi considerato da molti come un vero e proprio genocidio: dal 50 all'80% degli Herero e il 50% dei Nama sono stati uccisi o fatti morire, per un totale che varia da 24.000 a 75.000 vittime.

Genocidio dei popoli asiatici. Afghanistan - in seguito all'opposizione del popolo Hazara alla dittatura di Abdullah Mankan, l'emiro decise di dare il via libera al loro sterminio. Il 60% degli Hazara (circa 2,5 milioni) che abitavano l'Afghanistan perse la vita.

Razzismo scientifico occidentale. Con riferimento alla questione dell'intenzione genocida, il comportamento dei colonizzatori è stato influenzato da forme di razzismo diffuso, giustificato sia moralmente che scientificamente dalla dottrina del darwinismo sociale di Herbert Spencer, dal famoso libro La lotta delle razze di Ludwig Gumplowicz, dalle teorie eugenetiche di Francis Galton e dalla Gerarchia delle razze umane di Ernst Haeckel. Tali dottrine hanno alimentato l'idea di una missione colonizzatrice dell'"uomo bianco", destinato dalle leggi naturali a sottomettere e sostituire le "razze inferiori" e, si esprimeranno in modo estremo nell'ideologia nazista (interi brani di La lotta delle razze sono presenti nel Mein Kampf di Adolf Hitler).

XX secolo. Il XX secolo è stato definito "il secolo dei genocidi" o "il secolo dei totalitarismi" ed è in genere considerato come un periodo in cui la violenza, lo sterminio di massa e la guerra raggiungono livelli senza precedenti. Lo stesso termine genocidio è stato pensato da Lemkin per descrivere la nuova realtà dell'Olocausto. Il secolo si apre all'insegna dell'etnocentrismo nazionalista. Ormai tutti, dai nazionalisti ai socialisti, pensano in termini di "nazione", "etnia", "diritto di autodeterminazione" dei popoli. Con la Prima guerra mondiale (1914-1918) l'Europa viene riorganizzata su basi etniche, sia all'interno che all'esterno dei confini nazionali. Fu poi con la Conferenza di pace di Parigi del 1919, successiva alla guerra mondiale, che il principio di avere stati nazionali etnicamente omogenei, tanto caro al presidente degli Stati Uniti d'America Woodrow Wilson (autore dei famosi Quattordici punti), prese il sopravvento, aprendo - secondo lo storico britannico di origini ebraiche Eric Hobsbawm - la via alle pulizie e ai genocidi etnici del XX secolo.

Il genocidio degli Armeni del 1915 è forse il primo e sicuramente più famoso genocidio etnico del Novecento. Il genocidio dei Cristiani di Rito Assiro-Caldeo-Siriaco, avvenuto nello stesso periodo, assieme a quello contro i greci rimasero in ombra. L'Impero Ottomano, tradizionalmente abituato ad azioni di dura repressione (vedi, per esempio, gli atti di sterminio contro il popolo armeno degli anni 1896-1897, cfr. massacri hamidiani), raggiunge così livelli inediti di estremismo.

Le guerre mondiali sono espressione di un nuovo tipo di "guerra totale" in cui "tutto è permesso" e in cui il maggior numero di vittime si conta fra i civili, che subiscono massicci bombardamenti e sono considerati come parte integrante del "nemico" da distruggere.

I grandi sistemi totalitari (il Terzo Reich e i regimi comunisti) concepiscono il nemico come un'entità demonizzata e in quanto tale destinata all'eliminazione da leggi naturali o storiche, che fanno da sfondo ad un'ideologia totalitaria basata su distinzioni razziali, economiche o sociali: L'Olocausto è riconosciuto come genocidio all'unanimità e da alcuni come una forma estrema di genocidio o addirittura come un fenomeno unico nella storia (soprattutto perché tutti gli elementi che caratterizzano il genocidio sono presenti contemporaneamente e in forma estrema).

Nel regime sovietico si possono riconoscere "comportamenti genocidiari" già ai tempi di Lenin; l'Holodomor è considerato da molti come un genocidio vero e proprio; si possono individuare parallelismi fra l'uso che Hitler e Stalin fanno dei concetti di "razza" e "classe", "razza ariana" e "popolo", "sub-umani" (o "Ebrei") e "nemici del popolo".

Cina: Mao Tse-tung. Le stime del numero di vittime totali del periodo 1949-1976 sono molto discordanti fra loro e variano da 20 a 80 milioni: comprendono da 2 a 5 milioni di contadini durante il terrore della riforma agraria nel 1951-1952, da 20 a 40 milioni per la carestia del 1959, alcuni milioni per i laogai e da 1 a 3 milioni per la Rivoluzione Culturale.

Europa.

Olocausto - certamente il genocidio più noto, fu metodicamente condotto dal Regime Nazista tedesco in buona parte dell'Europa prima e durante la seconda guerra mondiale, e portò all'annientamento di almeno 6 milioni di ebrei (oltre la metà degli ebrei in Europa), colpendo anche gruppi etnici Rom e Sinti (i cosiddetti zingari), comunisti, omosessuali, prigionieri di guerra, malati di mente, Testimoni di Geova, Russi, Polacchi e altri Slavi, per un totale di vittime stimabile tra 13 e 20 milioni. Le forze armate della Germania nazista compirono sistematicamente massacri di civili in Polonia ed in Russia volti alla eliminazione delle classi intellettuali degli slavi e alla riduzione del loro numero complessivo nei territori orientali che dovevano divenire terreno di colonizzazione germanica. La cifra delle vittime solo nei territori occupati in Unione Sovietica ammonta a circa 27 milioni. In Italia, i nazisti, appoggiati dalle milizie fasciste italiane, deportarono e uccisero circa 7.000 ebrei italiani.

Secondo genocidio armeno - negli anni 1915-1916, il governo turco, guidato dai Giovani Turchi, condusse deportazioni ed eliminazioni sistematiche della minoranza armena. Il numero di morti è molto incerto e valutato da 200.000 a oltre 2 milioni; la cifra più accettata è di 1.500.000. È possibile identificare una prima fase del genocidio nei massacri hamidiani, che negli anni 1896-1897 fecero da 80.000 a 300.000 vittime.

Unione Sovietica - durante il regime bolscevico e lo stalinismo, furono compiuti gravi massacri.

Holodomor - nel 1932, il popolo ucraino fu sterminato per carestia indotta; il numero di vittime è molto incerto e varia da 1,5 a 10 milioni. Diverse parti (fra cui l'Ucraina, l'Italia e gli USA) riconoscono l'Holodomor come genocidio a causa dell'aggressione specifica del popolo ucraino volta a spezzarne le aspirazioni indipendentiste.

I Kulaki furono deportati a milioni in Siberia e nei gulag e si stima che circa 600.000 (un terzo) morì o fu ucciso. Nonostante esistano diversi elementi a favore (eliminazione dei Kulak in quanto tali, azione unilaterale e pianificata burocraticamente), lo sterminio dei kulaki non può essere definito genocidio a causa dell'incertezza e della variabilità con cui le vittime venivano classificate come Kulaki e a causa del fatto che l'eliminazione, non era considerata un fine ma un mezzo. Per motivi analoghi (non un fine ma un mezzo), anche la deportazione di milioni di persone appartenenti a diversi gruppi etnici (soprattutto ai confini dell'URSS), che ha prodotto centinaia di migliaia di vittime, non può essere definita genocidio. Analogamente, le "purghe" del partito e le deportazioni nei gulag degli anni trenta, che videro la morte di centinaia di migliaia di prigionieri politici, non possono essere definite genocidio in quanto colpirono un gruppo politico.

Massacro di Katyn' - il 22 marzo 2005, il Camera dei deputati della Polonia (parlamento) polacco ha approvato all'unanimità un atto con il quale si richiede alla Russia di classificare il massacro di Katyn come genocidio. Il massacro, infatti, era volto a indebolire la Polonia, in quanto venne eliminata una parte importante dell'intellighentsja polacca, poiché il sistema di coscrizione prevedeva che ogni laureato divenisse un ufficiale della riserva.

Una pulizia etnica era stata tentata anche dalle autorità militari italiane durante la seconda guerra mondiale ai danni degli sloveni nelle zone conquistate in Jugoslavia dall'esercito italiano. L'attuazione di tale progetto portò alla deportazione di circa 35.000 civili sloveni, di cui circa 3.500 persero la vita nei campi di concentramento allestiti a tale scopo dall'esercito italiano. Le istruzioni di attuazione della bonifica etnica venivano impartite, su istruzioni di Benito Mussolini, direttamente dal comandante dell'esercito italiano nella provincia di Lubiana generale Mario Roatta e dal comandante dell'XI Corpo d'Armata, generale Mario Robotti.

Italia - Il massacro delle foibe ad opera dei partigiani di Tito contro gli italiani in Istria, Venezia Giulia e Dalmazia nel 1943 e nel 1945 viene da taluni considerato genocidio, in quanto il suo fine era quello di far scomparire la componente etnica italiana di queste due regioni. Il numero delle vittime varia da mille a tremila.

Pulizia etnica ai danni dei serbi durante la seconda guerra mondiale - Durante la seconda guerra mondiale il regime fascista croato organizzò il massacro sistematico delle minoranze etniche (soprattutto serbi, ebrei e zingari) provocando circa mezzo milione di vittime.

Romania - Nicolae Ceaușescu e la moglie furono condannati a morte il 25 dicembre 1989, dopo tre giorni di prigionia, da un "tribunale volante" militare con l'accusa principale di genocidio per la strage di Timișoara e con l'aggravante di aver condotto la popolazione rumena alla povertà. Successive ricerche giornalistiche mostrarono come il numero dei morti riportato inizialmente dai media (decine di migliaia in Romania di cui diverse migliaia solo a Timisoara), oltre che alcune immagini riprese dalla televisione, fossero in realtà dei falsi, costringendo anche alcuni quotidiani (tra cui Liberation) a scusarsi con i lettori per l'acriticità con cui erano state riportate le notizie. Al termine della rivoluzione, secondo i dati del ministero della Salute rumeno, i morti saranno 1104 (di cui solo 93 a Timisoara, 20 dei quali avvenuti dopo il giorno della cattura di Ceaușescu) e 3321 i feriti. Complessivamente la maggior parte delle vittime si avranno comunque a Bucarest con 564 morti (di cui 515 dopo il 22 dicembre, data in cui Ceaușescu fu catturato).

Bosnia - la guerra in Jugoslavia, successiva alla proclamazione di indipendenza della Slovenia e della Croazia, provoca 250.000 vittime, due terzi delle quali civili. Nonostante le atrocità caratterizzino tutte le parti belligeanti, solo i dirigenti comunisti serbi si rendono aggressori e colpevoli di pulizia etnica ed alcuni di loro: Ratko Mladić, Radovan Karadžić, Radislav Krstic, Slobodan Milošević e Momčilo Krajišnik) vengono incriminati di genocidio nei confronti dei musulmani bosniaci. Il 18 dicembre 1992, l'Assemblea generale delle Nazioni Unite parla di una "politica esecrabile di pulizia etnica che è una forma di genocidio".

Massacro di Srebrenica - nel corso della guerra in Bosnia (1992-1995), la città di Srebrenica venne occupata l'11 luglio 1995 e le truppe serbo-bosniache deportarono e massacrarono la popolazione. Morirono circa 8.000 uomini e ragazzi bosniaci. Il massacro è stato definito come genocidio dal Tribunale penale internazionale per l'ex-Jugoslavia il 19 aprile 2004.

Georgiani in Abkhazia - Alcuni usano il termine genocidio per descrivere i massacri e le espulsioni forzate di migliaia di abitanti di etnia georgiana dell'Abkhazia durante la guerra abkhazo-georgiana (1991-1993). Tra i 10.000 e i 30.000 georgiani furono uccisi dai separatisti abkhazi, dai mercenari stranieri e dalle forze della Federazione russa. Tra le vittime si ebbero anche alcuni greci, estoni, russi e abkhazi moderati.

Kosovo - Negli anni compresi tra 1996 e 1999, gli atti di violenza (inclusi massacri, rapimenti, stupri e altro) sono considerati un genocidio, Slobodan Milosevic causò la deportazione forzata di oltre 800.000 civili kosovari di etnia albanese. Il numero di vittime del genocidio condotto da Miloŝeviĉ e Mercenari come Arkan, si stima intorno alle 10.000 persone.

Africa.

Zanzibar - nel gennaio 1964, furono sterminati da 5.000 a 12.000 arabi (su un totale di 22.000), con modalità che assunsero i tratti del genocidio.

Nigeria - nel 1966, il governo centrale nigeriano reagì duramente ai tentativi secessionisti del popolo Igbo, che aveva proclamato la nascita della Repubblica del Biafra. La guerra civile (e la conseguente carestia) ha causato migliaia di morti ed è stata considerata da diverse parti, fra cui i leader del Biafra, come un genocidio.

Burundi - nel 1972, nel teatro dei conflitti etnici della regione intorno al Ruanda, 150.000 Hutu furono massacrati dal governo Tutsi.

Etiopia - tra il 1977 e il 1991, il governo di Mengistu Haile Mariam uccise da 500.000 a 2 milioni di oppositori politici.

Ruanda - il peggiore genocidio africano avvenne nel 1994 in Ruanda da parte di milizie e bande Hutu contro la minoranza Tutsi e tutti coloro che erano sospettati di favorirli. Le vittime, circa un milione, furono spesso uccise barbaramente con armi rudimentali. Nel 1962, 100.000 Tutsi erano già stati massacrati per gli stessi motivi che avrebbero portato al genocidio del 1994, inoltre, massacri occasionali si verificarono per tutta la seconda metà del Novecento, anche dopo il 1994. La storia spesso si dimentica di citare le vittime del genocidio perpetuato dalle armate Tutsi nella riconquista del Rwanda verso la popolazione Hutu nelle fasi finali della guerra del 1994. Tuttora la popolazione Hutu viene vessata tramite Gacaca, tribunale popolare allestito per giudicare i crimini della guerra del 1994, in cui l'accusato deve smentire le accuse mosse portando prova di innocenza, mentre l'accusa non necessita di provare la colpevolezza dell'accusato.

La regione del Darfur (nel Sudan occidentale) dal 2003 è teatro di un conflitto che gli Stati Uniti e alcuni media e studiosi considerano come genocidio. I Janjawid, gruppo di miliziani appoggiati dal governo, uccidono sistematicamente i gruppi etnici Fur, Zaghawa e Masalit. Le diverse fonti riferiscono di un numero di morti che varia da 200.000 a 400.000 e di 2 milioni di profughi.

Asia.

Indonesia - nel 1965 e nel 1966, il regime di Suharto attuò una repressione anti-comunista per annientare il partito comunista, in cui furono sterminate da 500.000 a un milione di persone.

Bangladesh - nel 1971, il regime di Yahya Khan condusse una sanguinosa operazione militare contro il Pakistan dell'est, in cui furono uccisi da alcune centinaia di migliaia a 3 milioni di civili.

Cambogia - tra il 1975 ed il 1979 i Khmer rossi, sostenuti ed armati dalla Cina, massacrarono o fecero morire nei cosiddetti campi di rieducazione o Killing Fields (campi della morte) da 1 a 2,2 milioni di persone (su una popolazione totale di 7,5). Il termine genocidio fu usato per la prima volta dal filosovietico Vietnam, il cui esercito nel 1979 occupò la Cambogia, sconfiggendo i Khmer Rossi. Solo nel dicembre 1997, l'ONU parlò di "atti di genocidio"[28]. Fra le vittime, furono colpiti soprattutto cattolici, musulmani Cham, cinesi e vietnamiti, perseguitati in quanto tali o in quanto abitanti delle città o commercianti. La popolazione fu classificata in categorie come "popolo nuovo" (da rieducare), "sotto-popolo" e "traditori" (da eliminare).

Timor Est - nel 1975 l'occupazione indonesiana provocò la morte di 60.000 - 200.000 persone.

Iraq - tra il 1973 e il 2003 il regime di Saddam Hussein condusse uccisioni di massa contro la popolazione dei Curdi.

America Latina.

Guatemala - a partire dal 1960, il regime militare di Carlos Castillo Armas causò trenta anni di guerra civile e la morte di 200.000 civili. La Commissione per la verità, sponsorizzata dall'ONU, ha concluso che in certe aree (come Baja Verapaz) il governo avviò intenzionalmente una politica di genocidio contro determinati gruppi etnici, soprattutto Maya.